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l'Etruria tutta in contra al suo tiranno grida che muoia, e gi con l'armi in mano a morte lo persegue.

A questa gente di molte mila condottiero e capo aggiungerotti. E gi d'armate navi son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede che si spieghin l'insegne. Un vecchio solo aruspice e 'ndovino , che sospesi gli tiene infino a qui: "Gente meonia, dicendo, - fior di gente antica e nobile, bench giusto dolor contra a Mezenzio, e degn'ira v'incenda, incontro a Lazio non movete voi gi; ch'a nessun Italo domar d'Italia una tal gente lecito, s'esterno duce a tant'uopo non prendesi". Cos parato, e per timor confuso del vaticinio stassi il campo etrusco. E gi Tarconte stesso a questa impresa m'invita, e gi mandato a presentarmi ha la sedia e lo scettro e l'altre insegne del tosco regno, perch'io re ne sia, ed a l'oste ne vada. Ma la tarda e fredda mia vecchiezza, e le mie forze debili, smunte e diseguali al peso fan ch'io rifiuti. Esorterei Pallante mio figlio a questo impero, se non fosse che nato di Sabella, Italo anch'egli per materna razza. Or questo incarco dagli anni, da la gente, dal destino, dal tuo stesso valore a te si deve. E tu il prendi, signor, ch'abile e forte sei pi d'ogni Troian, d'ogni Latino a sostenerlo. Ed io Pallante mio, la mia speranza e 'l mio sommo conforto, mander teco; che 'l mestier de l'arme, che le fatiche del gravoso Marte ne la tua scuola a tollerare impari: e te da' suoi prim'anni, e i gesti tuoi meravigliando ad imitar s'avvezze. Dugento cavalieri, il nervo e 'l fiore de' miei d'Arcadia, spedir con lui, e dugento altri il mio Pallante stesso in suo nome daratti". Avea ci detto Evandro a pena, che d'Anchise il figlio e 'l fido Acate str co' volti a terra chinati. E da pensier gravi e molesti fran oppressi, se dal ciel sereno la madre Citerea segno non dava, s come di. Ch tal per l'aria un lume vibrossi d'improvviso e con tal suono, che parve di repente il mondo tutto come scoppiando e ruinando ardesse; ed in un tempo di tirrene tube squillar ne l'aura alto concento udissi. Alzaron gli occhi: e la seconda volta, e la terza iterar sentiro il tuono; e vider l 've il cielo era pi scarco e pi tranquillo, una dorata nube e d'armi un nembo che tra lor percosse, scintillando, facean fremiti e lampi.

Stupiron gli altri. Ma il troiano eroe che 'l cenno riconobbe e la promessa de la diva sua madre: "Ospite, - disse, di saver non ti caglia quel ch'importi questo prodigio; basta ch'ammonito son io dal cielo, e questo 'l segno e 'l tempo, che la mia genitrice mi predisse: che quandunque di guerra incontro avessi, allora ella dal ciel presta sarebbe con l'armi di Volcano a darmi ata. Oh quanta di voi strage mi prometto, infelici Laurenti! e qual castigo Turno, da me n'avrai! quant'armi, quanti corpi volgere al mar, Tebro, ti veggio! Via, patto e guerra mi si rompa omai". Cos detto, dal soglio alto levossi: e con Evandro e co' suoi Teucri in prima d'Ercole visitando i santi altari, il sopito carbon del giorno avanti lieto desta e raccende; i Lari inchina; i pargoletti suoi Penati adora, e di pi scelte agnelle il sangue offrisce. Indi torna a le navi, e de' compagni fatte due parti, la pi forte elegge per seco addurre a preparar la guerra: l'altra a seconda per lo fiume invia, che pianamente e senz'alcun contrasto si rivolga ad Ascanio, e dia novelle de le cose e del padre. A quei che seco in Etruria adducea, tosto provvisti furo i cavalli. A lui venne in disparte da tutti gli altri un palafreno eletto, di pelle di leon tutto coverto, ch'i velli avea di seta e l'ugna d'oro. Per la piccola terra in un momento si sparge il grido ch'ai tirreni liti ne va lo stuol de' cavalieri in fretta. Le madri, paventose, ai templi intorno rinnovellano i vti; e gi per tma pi vicino il periglio, e pi l'aspetto sembra di Marte atroce. Evandro il figlio nel dipartir teneramente abbraccia; n divelto da lui, n sazio ancora di lagrimar, gli dice: "O se da Giove mi fosse, figlio, di tornar concesso ora in quegli anni e 'n quelle forze, ond'io sotto Preneste il primo incontro fei co' miei nemici, e vincitore i monti arsi de' scudi, allor ch'rilo stesso, lo stesso re con queste mani ancisi, a cui nascendo avea Feronia madre date tre vite e tre corpi, e tre volte (meraviglia a contarlo!) era mestiero combatterlo e domarlo; ed io tre volte lo combattei, lo vinsi, e lo spogliai d'armi e di vita; se tal, dico, io fossi, mai non sarei da te, figlio, diviso; mai non fra Mezenzio oso d'opporsi a questa barba; n per tal vicino vedova resterebbe or la mia terra

di tanti cittadini. O dii superni, o de' superni dii nume maggiore, piet d'un re servo e devoto a voi, e d'un padre che padre sol d'un figlio unicamente amato. E se da' fati, se da voi m' Pallante preservato, e s'io vivo or per rivederlo mai, questa mia vita preservate ancora con quanti unqua soffrir potessi affanni. Ma se fortuna ad infortunio il tragge, ch'io dir non oso, or or, prego, rompete questa misera vita, or ch' la tma, or ch' la speme del futuro incerta, e che te, figlio mio, mio sol diletto e da me desato in braccio io tengo, anzi ch'altra novella me ne venga, che 'l cor pria che gli orecchi mi percuota". Cos 'l padre ne l'ultima partita disse al suo figlio; e da l'ambascia vinto, fu da' sergenti riportato a braccio. A la campagna i cavalieri intanto erano usciti. Enea col fido Acate, e co' suoi primi era nel primo stuolo; Pallante in mezzo risplendea ne l'armi commesse d'oro, risplendea ne l'ostro che l'arme avean per sopravesta intorno; ma via pi risplendea ne' suoi sembianti ch'eran di fiero e di leggiadro insieme. Tale quando Lucifero, il pi caro lume di Citerea, da l'Oceno, quasi da l'onde riforbito, estolle il sacro volto, e l'aura fosca inalba. Stan le timide madri in su le mura pallide attentamente rimirando quanto puon lunge il polveroso nembo de l'armate caterve, e i lustri e i lampi che facean l'armi tra i virgulti e i dumi lungo le vie. Va per la schiera il grido che si cavalchi; e lo squadron gi mosso al calpitar de la ferrata torma fa 'l campo risonar tremante e trito. di Cere vicino, appo il gelato suo fiume un sacro bosco antico e grande d'ombrosi abeti, che da cavi colli intorno cinto, venerabil molto e di gran lunge. fama che i Pelasgi, primi del Lazio occupatori esterni, a Silvan, dio de' campi e degli armenti, consecrr questa selva, e con solenne rito gli dedicr la festa e 'l giorno. Quinci poco lontano era Tarconte co' Tirreni accampato; e qui del campo giunti a la vista, l 've un alto colle lo scopria tutto. Enea, co' primi suoi fermossi, ove i cavalli e i corpi loro gi stanchi ebbero alfin posa e ristoro. Era Venere in ciel candida e bella sovr'un etereo nembo apparsa intanto con l'armi di Volcano; e visto il figlio ch'oltre al gelido rio per erma valle

sen gia da gli altri solitario e scevro, apertamente gli s'offerse, e disse: "Eccoti 'l don che da me, figlio, attendi, di man del mio consorte. Or francamente gli orgogliosi Laurenti e 'l fiero Turno sfida a battaglia, e gli combatti e vinci". E, ci detto, l'abbraccia. Indi gli addita d'armi quasi un trofeo, ch'appo una quercia dianzi da lei diposte, incontro agli occhi facean barbaglio, e, contro al sol, pi soli. D'un tanto dono Enea, d'un tale onore lieto, e non sazio di vederlo, il mira, l'ammira e 'l tratta. Or l'elmo in man si prende e l'orribil cimier contempla e 'l foco che d'ogni parte avventa: or vibra il brando fatale; or ponsi la corazza avanti di fino acciaio e di gravoso pondo, che di sanguigna luce e di colori diversamente accesi era splendente: qual sembra di lontan cerulea nube, arder col sole e varar col moto. Brandisce l'asta; gli stinier vagheggia nitidi e lievi, che fregiati e fusi son di fin oro e di forbito elettro. Meravigliando alfin sopra lo scudo si ferma, e l'incredibile artificio ond'era intesto, e l'argomento esplora. In questo di commesso e di rilievo avea fatto de' fochi il gran maestro (come de' vaticini e del futuro presago anch'egli) con mirabil arte le battaglie, i trionfi e i fatti egregi d'Italia, de' Romani e de la stirpe che poi scese da lui; dal figlio Ascanio incominciando, i discendenti tutti e le guerre che fr di mano in mano. V'avea del Tebro in su la verde riva finta la marzal nudrice lupa in un antro accosciata, e i due gemelli che da le poppe di s fiera madre lascivetti pendean, senza paura seco scherzando. Ed ella umle e blanda stava col collo in giro, or l'uno or l'altro con la lingua forbendo e con la coda. V'era poco lontan Roma novella con una pompa, e con un circo avanti pien di tumulto, ov'era un'insolente rapina di donzelle, un darsi a l'arme infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi. E poscia infra gli stessi regi armati, di Giove anzi a l'altare un tener tazze invece d'armi in mano, un ferir d'ambe le parti un porco, e far connubi e pace. N di qui lunge, erano a quattro a quattro giunti a due carri otto destrier feroci, che, qual Tullo imponea (stato non fossi tu s mendace e traditore, Albano!) in due parti traean di Mezio il corpo; e s com'era tratto, i brani e 'l sangue ne mostravan le siepi, i carri e 'l suolo.

V'era, oltre a ci, Porsenna, il tosco rege, ch'imperiosamente da l'esiglio rivocava i Tarquini, e 'n duro assedio ne tenea Roma, che del giogo schiva s'avventava nel ferro. Avea nel volto scolpito questo re sdegno e minacce, e meraviglia, che sol Cocle osasse tener il ponte; e Clelia, una donzella, varcar il Tebro e scir la patria e lei. In cima dello scudo il Campidoglio era formato e la Tarpeia rupe, e Manlio che del tempio e de la rcca stava a difesa; e la romulea reggia che 'l comignolo avea di stoppia ancora. Tra' portici dorati iva d'argento l'ali sbattendo e schiamazzando un'oca, ch'apria de' Galli il periglioso agguato: e i Galli per le macchie e per le balze de l'erta ripa, da la buia notte difesi, quatti quatti erano in cima gi de la rcca ascesi. Avean le chiome, avean le barbe d'oro: aveano i sai di lucid'ostri divisati a liste, e d'r monili ai bianchi colli avvolti. Di forti alpini dardi avea ciascuno da la destra una coppia, e ne' pavesi stavan coi corpi rannicchiati e chiusi. Quinci de' Salii e de' Luperci ignudi, e de' greggi de' Flmini scolpito v'avea le tresche e i cantici e i tripudi, ed essi tutti o coi lor fiocchi in testa, o con gli ancili e con le tibie in mano: cui le sacre carrette ivano appresso coi santi simulacri e con gli arredi, che traean per le vie le madri in pompa. E pi lunge nel fondo era la bocca de la tartarea tomba, e del gran Dite la reggia aperta: ov'anco eran le pene e i castighi degli empi. E quivi appresso stavi tu, scellerato Catilina, sopra d'un ruinoso acuto scoglio agli spaventi de le Furie esposto. E scevri eran da questi i fortunati luoghi de' buoni, a cui 'l buon Cato duce. Gonfiava in mezzo una marina d'oro con la spuma d'argento, e con delfini d'argentino color, che con le code givan guizzando, e con le schiene in arco gli aurati flutti a loco a loco aprendo. E i liti e 'l mare e 'l promontorio tutto si vedea di Leucte a l'azia pugna star preparati; e d'una parte Augusto sovra d'un'alta poppa aver d'intorno Europa, Italia, Roma e i suoi Quiriti, e 'l senato e i Penati e i grandi iddii. Di tre stelle il suo volto era lucente. Due ne facea con gli occhi, ed una sempre del divo padre ne portava in fronte. Ne l'altro corno Agrippa era con lui del marittimo stuolo invitto duce,

ch'altero, e 'l capo alteramente adorno de la rostrata sua naval corona, i vnti e i numi avea fausti e secondi. Da l'altra parte vincitore Antonio, di vr l'aurora e di vr l'onde rubre barbari aiuti, esterne nazoni e diverse armi dal Cataio al Nilo tutto avea seco l'Orente addotto: e la zingara moglie era con lui, milizia infame. Ambe le parti mosse se ne gian per urtarsi, e d'ambe il mare scisso da' remi e da' stridenti rostri lacero si vedea, spumoso e gonfio. Prendean de l'alto i legni in tanta altezza, che Cicladi con Cicladi divelte parean nel mar gir a 'ncontrarsi, o 'n terra monti con monti: da s fatte moli avventavan le genti e foco e ferro, onde il mar tutto era sanguigno e roggio. Stava qual Isi la regina in mezzo col patrio sistro, e co' suoi cenni il moto dava alla pugna; e non vedea (meschina!) quai due colbri le venian da tergo. L'abbaiatore Anbi e i mostri tutti, ch'eran suoi dii, contra Nettuno e contra Venere e Palla armati eran con lei, e Marte in mezzo, che nel campo d'oro di ferro era scolpito, or questi or quelli a la zuffa infiammava: e l'empie Furie co' lor serpenti, la Discordia pazza col suo squarciato ammanto, con la sferza di sangue tinta la crudel Bellona sgominavan le genti; e l'azio Apollo saettava di sopra: agli cui strali l'Egitto e gl'Indi e gli Arabi e i Sabei davan le spalle. E gi chiamare i vnti, scioglier le funi, inalberar le vele si vedea la regina a fuggir vlta; gi del pallor de la futura morte, ond'era dal gran fabbro il volto aspersa, in abbandono a l'onde, e de la Puglia ne giva al vento. Avea d'incontro il Nilo, un vasto corpo, che, smarrito e mesto, a' vinti aperto il seno e steso il manto, i latebrosi suoi ridotti offriva. Cesare v'era alfin che tronfando tre volte in Roma entrava; e per trecento gran templi a' nostri dii vti immortali si vedean consecrati. Eran le strade piene tutte di plauso, di letizia, e di feste e di giuochi. Ad ogni tempio concorso di matrone; ad ogni altare vittime, incensi e fiori. Egli di Febo anzi al delbro in maestade assiso riconoscea de' popoli i tributi, e la candida soglia e le superbe sue porte ne fregiava. Iva la pompa de le genti da lui domate intanto varie di gonne, d'idomi e d'armi. Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera

in abito discinta; ivi un drappello di Llegi, di Cari e di Geloni con archi e strali. Infin dai liti estremi i Mrini condotti erano al giogo, e gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio giva l'Eufrate: ambe le corna fiacche

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