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Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione "civilizzatrice" del capitale.

Riccardo Bellofiore*

(pubblicato in due parti come: (a) Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione civilizzatrice del capitale, in Teoria politica, n. 2, 1991, pp. 69-96; (b) Cambiare la natura umana. Ancora su economia politica e filosofia della storia, Teoria politica, n. 3, 1991, pp. 63-98)

1. Introduzione. 2. Migliorare la propria posizione. Natura e storia in Smith. 2.1. La filosofia morale. 2.2. Il problema: ineguaglianza e benessere. 2.3. La soluzione: divisione del lavoro e inclinazione allo scambio. 2.4. Ancora sulla filosofia morale. 3. Il comando sul lavoro. Individuale e sociale, dallo stadio rozzo e primitivo alla grande societ. 3.1. Il lavoro dell'uomo isolato. 3.2. Lavoro comandato e scambio. 3.3. La ricchezza come potere: lavoro comandato e diseguaglianza. 3.4. Lavoro comandato e produzione.

3.5. Ancora sulla divisione del lavoro. 4. Il mercato e i "poveri che lavorano". La giustificazione storica del capitale. 4.1. Mano invisibile ed equit sociale. 4.2. I costi della divisione del lavoro. 4.3. Innaturalit del capitale. 5. Cambiare la natura umana. John Stuart Mill e John Maynard Keynes, oltre la passione per il denaro. 5.1. Smith smembrato. Ricardiani e neoclassici. 5.2. Lo stato stazionario: John Stuart Mill. 5.3. Il doppio inganno rivelato: John Maynard Keynes. 6. Come se avesse l'amore in corpo. Marx e l'enigma del lavoro. 6.1. Il lavoro come essenza dell'essere umano. 6.2. Il lato positivo del capitale. Natura e storia in Marx. 6.3. Una filosofia della storia? 7. Orfeo e Narciso contro Prometeo. La fuga dal lavoro. 7.1. La positivit del finito. 7.2. Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? 7.3. Un nuovo principio di realt? Marxismo e psicoanalisi. 8. Dobbiamo disperare? Ancora su Marx, tra macchine e antagonismo.

Nota bibliografica. --------Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione "civilizzatrice" del capitale.

"Pour que la ralit se dvoile, il faut qu'un homme lutte contre elle." Jean Paul Sartre, "Matrialisme et rvolution", in Situations, I, Paris 1957, p. 213

1. Introduzione L'economia politica ha costituito da sempre terreno fertile per la riflessione filosofica. Gli ultimi anni, da questo punto di vista, non fanno eccezione: basta pensare al proliferare di studi di epistemologia economica, o ancora alla questione della relazione tra etica ed economia. Il problema che vorrei affrontare nelle pagine che seguono invece di quelli un po' desueti: la ricerca bibliografica difficilmente registrerebbe titoli recenti; l'inglese non sarebbe forse la lingua egemone; la letteratura definibile in senso lato come empirista e liberale sarebbe una componente importante ma non esclusiva. Si tratta, per dirla in breve ed un po' enfaticamente, di ripercorrere le tappe principali di quella linea di pensiero che si interrogata sulla

missione "civilizzatrice" e sul ruolo storico del capitale. Di riandare, dunque, a quegli autori che hanno visto nel primato dell'economico un problema, sino in alcuni casi ad auspicare, o a temere, un suo possibile superamento. E che, proprio perch questo era il loro tema, si sono trovati a fare affermazioni impegnative sulla "natura umana", e sul "significato della storia". Terreno che altri giudicher scivoloso, e che senz'altro lo : ma che comincia ad apparirmi culturalmente, e politicamente, ineludibile, per ragioni che spero saranno pi chiare alla fine di questo scritto. Certamente in questa luce l'economia politica si confonde con la filosofia della storia e con la filosofia morale; l'indagine sulle leggi di funzionamento del sistema sfocia nella questione del "senso" del corso storico, si confonde con la discussione sulla "giustificazione" del capitalismo - come vedremo, le due cose sono anzi per molti degli autori che considerer due facce della stessa medaglia. Il metodo che adotter sar quasi sempre quello di far parlare direttamente i testi. Metodo soggettivo ed arbitrario quant'altri mai, al di l dalle apparenze: bench poco di ci che dir pretenda di essere originale, la selezione e il percorso che proporr presuppongono un filtro interpretativo molto forte, che rimarr per in buona misura implicito. Il gioco, o le buone regole, della conversazione intellettuale richiedono che io mostri di credere fino in fondo alle ipotesi che avanzo: ci non toglie che - trattandosi di un tema che costringe ad abbandonare i sicuri recinti degli specialismi - la critica sia la benvenuta.

2. Migliorare la propria posizione. Natura e storia in Smith. "Nessuno, se non un mendicante, sceglie di dipendere soprattutto dalla

benevolenza dei suoi concittadini." Adam Smith, La Ricchezza delle nazioni. Abbozzo (ca 1763), Boringhieri, Torino 1959, p. 42

2.1. La filosofia morale. E' ormai riconosciuto che il punto di partenza della teoria economica di Smith va individuato in quell' originale compromesso tra le posizioni contrapposte di Hobbes e Hume cui l'autore scozzese approda nella sua filosofia etica: un compromesso di cui la Teoria dei sentimenti morali il frutto pi maturo, e senza il quale la Ricchezza delle nazioni sarebbe incomprensibile. Nello stato di natura di Hobbes, i liberi individui isolati sono mossi esclusivamente da moventi egoistici, sicch la relazione tra di essi definibile come una guerra di tutti contro tutti. Qualora lo stato di natura si realizzasse nella sua purezza, qualsiasi convivenza sociale si rivelerebbe impossibile. La societ civile nasce in conseguenza dell'alienazione allo Stato dei propri poteri naturali: della rinuncia all'agire secondo passione, e dell'istituzione di un patto secondo ragione. Si tratta, dunque, di una costruzione artificiale. Dell'esito volontario di una convenzione, o di un contratto, tra soggetti calcolanti. La critica di Hume a Hobbes ha inizio con il rifiuto della finzione di uno stato di natura e con il riconoscimento di una dualit psicologica fondamentale. Accanto al linguaggio dell'egoismo, Hume individua infatti un "sentimento" originario di natura opposta allo spirito di cupidigia; un sentimento che spinge alla realizzazione del bene (o dell'utilit, o della

felicit) individuale e sociale, e che la fonte del giudizio morale. Tale sentimento la "simpatia", o "benevolenza". L'etica di Hume si qualifica cos come rigorosamente altruistica: la generale diffusione di un "senso di umanit", e la possibilit dell'individuo di giudicare la propria azione come se fosse uno spettatore imparziale, fanno s che il comportamento virtuoso possa aver luogo non in circoli ristretti ma in societ allargate.L'egoismo, il

self-love, appare
invece come eticamente neutro. Lo sviluppo ed il rovesciamento che Smith opera rispetto a Hume possono apparire in piena evidenza una volta che si sottolinei come per Smith l'egoismo il mezzo essenziale per la costituzione concreta di quel legame generale tra gli uomini, di quella "societ" in senso proprio, che dovrebbe essere il luogo dove si esercita il comportamento morale di Hume. Infatti, il meccanismo impersonale del mercato - l'interazione tra i mercanti spinti esclusivamente dal perseguimento dell'interesse individuale - produce una accelerazione della crescita della ricchezza materiale. Il benessere di ciascuno diviene funzione del lavoro di sconosciuti. In quest'ottica l'egoismo pu caricarsi, sia pure mediatamente, di un suo valore "morale", per un duplice ordine di ragioni. La reale "possibilit" ed "universalit" dell'etica altruistica di Hume, come etica non particolare ma comune al genere umano, dipende dal generalizzarsi dello scambio: in altri termini, se si guarda a ci che avviene nella sfera economica, la "guerra di tutti contro tutti", lungi dal disgregare la societ, ne pone le fondamenta. Inoltre, l'inclusione nel mondo del lavoro dei poveri, trasformati da mendicanti in salariati, e la crescita del benessere materiale goduto da tutti gli ordini della societ, sono entrambi l'effetto - certo inintenzionale ma cionondimeno positivo - del libero confliggere dell'avidit dei singoli.

La presenza di questi due temi - la societ "progredita" una societ di mutua e generale dipendenza materiale; un paese "civile" se la prosperit diffusa tra tutte le classi - evidente sin dalle prime pagine della Ricchezza delle nazioni (1776). Per quanto riguarda la sempre maggiore integrazione sociale propria dell'epoca moderna, si vedano per esempio questi due brani: "In una societ incivilita" l'uomo "ha bisogno in ogni momento della

cooperazione e dell'assistenza di moltissima gente, mentre tutta la vita gli basta appena per assicurarsi l'amicizia di poche persone." In quasi tutte le
altre razze animali l'individuo giunto a maturit del tutto indipendente, e nel suo stato naturale non ha bisogno dell'assistenza di altre creature viventi. L'uomo ha invece quasi sempre bisogno dell'aiuto dei suoi simili e

lo aspetterebbe invano dalla sola benevolenza; avr molta pi probabilit


di ottenerlo volgendo a suo favore l'egoismo altrui e dimostrando il vantaggio che gli altri otterrebbero facendo ci che egli chiede." (Indagine

sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Isedi, Milano 1973,
p.19) "senza l'assistenza e la cooperazione di molte migliaia di persone, l'ultimo degli abitanti di un paese civile non potrebbe mai godere, come ora di norma gode, di un tenore di vita che noi a torto riteniamo semplice e facile ad aversi. Sembrer certo tale, a paragone del lusso pi sfrenato di un gran signore; pure, probabile che da questo punto di vista, la distanza che separa un principe europeo da un contadino industrioso e frugale meno grande di quella tra quest'ultimo e i vari re africani, padroni assoluti della vita e della libert di diecimila selvaggi nudi."(Ricchezza, p. 16)

Non meno netto il legame che Smith istituisce tra la societ "progredita" - quella societ dove la divisione del lavoro ha preso piede al punto da condurre ad una specializzazione tendenzialmente senza limiti - e la generale diffusione del benessere materiale anche tra gli appartenenti alle classi pi povere: "La grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in

conseguenza della divisione del lavoro, all'origine, in una societ ben


governata, di una generale prosperit che estende i suoi benefici fino alle

classi pi basse del popolo. Ogni operaio pu disporre di una grande


quantit del suo lavoro che supera le sue necessit, e dal momento che tutti gli altri operai si trovano esattamente nella stessa situazione, in grado di scambiare una grande quantit dei suoi beni con una grande quantit dei beni degli altri, oppure, che lo stesso, con il prezzo di questa quantit. Egli li fornisce copiosamente di ci di cui hanno bisogno ed essi fanno lo stesso con lui, sicch una generale abbondanza si

diffonde fra tutti i diversi ceti sociali." (Ricchezza, p. 15)


Queste tre citazioni nascondono tra le proprie righe il problema che la societ moderna pone a Smith, e le linee generali della soluzione che egli avanza. Il modo con cui l'uno e l'altra sono esposti ci consentono di cogliere quale sia per Smith la giustificazione storica della "grande societ", del modo di produzione capitalistico. E' a queste tre questioni che dedicher questa sezione e le due seguenti.

2.2. Il problema: ineguaglianza e benessere.

Il problema di Smith rivelato dal confronto tra la disparit di benessere che separa ricchi e "poveri che lavorano" all'interno della societ progredita (il principe europeo e il contadino industrioso), e il maggiore "agio" che separa il lavoratore a giornata dai capi di una societ arretrata. La diseguaglianza propria della "societ commerciale" non si accompagna solo al comprensibile lusso dei proprietari - il cui privilegio si esprime nella condizione di non lavoro e nella possibilit di comandare, di impiegare per il proprio utile, il lavoro di altri. Essa si accompagna anche, pi misteriosamente, ad un continuo miglioramento della condizione degli strati pi bassi e numerosi della popolazione, i lavoratori non proprietari. Vi qui un contrasto significativo con lo stadio "rozzo e primitivo", dove ognuno proprietario tanto delle condizioni della produzione quanto del prodotto del proprio lavoro; dove non esistono classi che non lavorano; e dove vige una generale eguaglianza. Eppure, nota Smith, in tale situazione, ad essere condivisa non , come ci si aspetterebbe a prima vista, l'abbondanza ma la miseria. Insomma: le societ arretrate hanno come destino la stagnazione e la fame; viceversa, la societ del mercato e del capitale garantisce la crescita della produzione, l'aumento della popolazione lavoratrice, una generale diffusione del benessere materiale. Questa considerazione - che spesso l'alfa e l'omega di una visione apologetica della societ capitalistica - invece, per Smith, l'enigma che l'analisi deve sciogliere. Gi nell' "Introduzione" della Ricchezza delle Nazioni si legge che: "Nelle nazioni selvagge di cacciatori e pescatori, ogni individuo in grado di operare pi o meno impiegato in un lavoro utile con cui si sforza di provvedere alle necessit e ai comodi della vita . . . Pure, tali nazioni

vivono in una povert cos orribile che soltanto per bisogno si trovano

spesso ridotte, o almeno credono di esserlo, alla necessit di eliminare bambini, vecchi e ammalati inguaribili . . . Nelle nazioni civili e floride, all'opposto, sebbene una gran quantit di gente non lavori affatto, e molte di queste persone consumino il prodotto di un lavoro dieci e spesso cento volte maggiore della maggior parte di quelli che lavorano, pure il prodotto

complessivo del lavoro sociale cos grande che tutti gli individui ne risultano spesso abbondantemente provvisti." (Ricchezza, p.3-4)
Nell' Abbozzo (1763) Smith era stato ancora pi esplicito nell'individuare la contraddizione della "grande societ" contemporanea tra "ineguaglianza nella propriet" e "universale benessere" (p.26), e nello svelare il suo punto di vista:

"Non certo molto difficile spiegare come avvenga che in una societ
evoluta, il ricco e il potente si procaccino gli agi e tutto ci che necessario per vivere, meglio di quanto non possa fare qualsiasi persona che viva da sola allo stato selvaggio. E' molto facile immaginare che colui che pu, in ogni tempo, dirigere ai suoi propri fini il lavoro di migliaia di uomini debba essere provvisto di tutto ci di cui ha bisogno meglio di chi dipende dalla propria ed esclusiva attivit. Ma non cos facilmente

comprensibile come avvenga che il contadino e il lavoratore siano


egualmente meglio provvisti. In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori . . . Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell'intero prodotto della propria attivit. Non ci sono tra loro n padroni, n usurai, n esattori di tasse. Potremmo quindi naturalmente

attenderci - se l'esperienza non ci dimostrasse il contrario - che ciascuno


di essi debba godere degli agi e di tutte quelle cose che sono necessarie per vivere, in misura maggiore che non gli strati inferiori del popolo in un paese civile." (Abbozzo, p. 18-19)

Nella societ commerciale chi lavora soggetto ad una "enorme defalcazione" sicch "a quelli che lavorano di pi tocca di meno" (nelle

Lezioni di Glasgow (1762-1763) detto, sullo stesso tono: "colui che


sopporta, per cos dire, il peso della societ, quello che ne trae i minori vantaggi " (incluso in Claudio Napoleoni, Smith, Ricardo Marx, Boringhieri, Torino, 19732, p. 178)). Eppure, anche chi "schiacciato da una cos opprimente ineguaglianza" gode di una "maggiore ricchezza e abbondanza di beni" rispetto ai membri di una societ "selvaggia" (p. 2021).

2.3. La soluzione: divisione del lavoro e inclinazione allo scambio. La soluzione di Smith fa perno sulla divisione del lavoro: un lavoro "sociale", specializzato ed adibito ad una unica mansione, ad una attivit particolare, produce pi di quanto produrrebbe il lavoro di un produttore "isolato". L'aumento della produttivit media consente il mantenimento sia di "padroni", "mercanti" e proprietari fondiari, sia di oziosi e improduttivi. Ma consente anche di soddisfare sempre meglio i bisogni naturali, le necessit fondamentali (cibo, vestiario e riparo), tra le classi pi umili. La ragione costituita dal fatto che ci che resta al lavoratore un prodotto comunque maggiore di quello che egli si sarebbe procurato con un lavoro non diviso, anche tenendo conto delle "deduzioni" del profitto e della rendita. L'estrazione di un sovrappi nella "grande societ" si accompagna per questa via ad un miglioramento, quantitativo e qualitativo, della sussistenza rispetto alle societ primitive, nelle quali la divisione del lavoro solo ai primi passi, ed in particolare rispetto alla condizione del lavoro non diviso:

"Quando il lavoro cos diviso, e una cos grande quantit di lavoro viene eseguita in proporzione da un solo uomo, il sovrappi, ossia ci che

supera quanto necessario al sostentamento delle persone impiegate,


considerevole, e ognuno pu ottenere nello scambio quattro volte quello

che gli sarebbe stato possibile se avesse eseguito il lavoro interamente da solo. Per questa via il bene prodotto accessibile a un prezzo molto pi
basso, e il lavoro diviene invece molto pi caro." (Lezioni, p. 179) Come si sa, la divisione del lavoro dipende per Smith dallo scambio, per cos dire, tanto a monte quanto a valle. A valle, perch la divisione del lavoro, e dunque l'innalzamento della produttivit, sono tanto pi approfonditi quanto maggiore l'estensione del mercato: dunque, quanto maggiori sono le aspettative di profitto degli imprenditori. A monte, perch la divisione del lavoro trova la sua sorgente in una inclinazione, "naturale" e "comune a tutti gli uomini", al baratto e allo scambio: la quale a sua volta, come recitano le Lezioni di Glasgow, pu essere ricondotta al "desiderio di persuadere, cos caratteristico della natura umana" (p. 183). Abbiamo gi visto, da una delle citazioni dalla Ricchezza delle Nazioni, che, a differenza delle altre specie animali, l'uomo ha bisogno dell'assistenza dei suoi simili. Tale affermazione peraltro ambigua, nel testo di Smith. Il bisogno di cooperazione e assistenza viene infatti interpretato a chiare lettere da Smith come una condizione propria della societ "progredita", delle nazioni "civili"; al tempo stesso, l'autore scozzese sembra suggerire una tesi alternativa, quella secondo cui "quasi sempre" l'uomo dipende dai propri simili (d'altronde, gi nella Teoria dei

sentimenti morali Smith aveva sostenuto che "l'uomo pu vivere solo in


societ").

Credo che questa duplicit possa essere sciolta se si coglie che per Smith la societ di mercato, come mutuo nesso materiale, realizza pienamente nel corso della storia la dipendenza dell'uomo dall'uomo, corrispondente alla "natura". Anche qui - sulla scorta della lettera del 1755 all' "Edinburgh Review" in cui Smith commenta il Discorso sull'ineguaglianza del filosofo ginevrino - la posizione di Smith pu essere interpretata come un compromesso tra la tesi di Mandeville e quella, appunto, di Rousseau: "Il Dr. Mandeville rappresenta lo stato primitivo del genere umano come il pi triste e il pi miserabile che si possa immaginare. Rousseau, al contrario, lo considera come il pi felice e il pi conforme alla nostra natura. Entrambi tuttavia ritengono che nell'uomo non vi sia alcun istinto

che l'induca necessariamente a ricercare la societ come tale. Secondo il


primo, la miseria del suo stato originario che costringe l'uomo a far ricorso a questo sgradevole rimedio. Secondo l'altro un seguito di eventi sfortunati" (trad. in Lucio Colletti, Ideologia e societ, Laterza, Bari 1970, p. 265) Impiegando le parole stesse di Smith, la nostra lettura che per l'autore scozzese lo stadio "rozzo e primitivo" realmente "il pi triste e miserabile"; davvero la scarsit stringe l'uomo nella sua morsa. Ciononostante, la debolezza - per cos dire - dell'individuo isolato rispetto alla natura non il primo motore del legame sociale. E', al contrario, la presenza, gi nella condizione originaria, di un "istinto che l'induce necessariamente a ricercare la societ come tale" - l'inclinazione allo scambio che gli propria in quanto essere dotato di ragione e linguaggio - che d conto della spinta a vivere in societ. In altri termini: nello stato primitivo, la socialit s essenziale, ma esiste solo in potenza. Da questo

punto di vista, la natura umana appare un prodotto storico, non un dato di partenza: ed il meccanismo che consente che essa giunga a maturit appunto la divisione del lavoro. La situazione originaria, in cui l'uomo vive in comunit, una situazione per un verso di eguaglianza e scarsit, per l'altro di indipendenza reciproca. In essa gli individui sono egoisti, ma spinti alla comunicazione: autonomi materialmente, dipendono per dal giudizio dell'altro. In questo senso, si pu ben qualificarli come animali sociali. Lo "scambio" intellettuale si tramuta ben presto nel commercio vero e proprio, e nel volgere a proprio vantaggio l'egoismo degli altri: "Se un qualche animale intende effettuare uno scambio, per cos dire, od ottenere qualcosa dall'uomo, pu riuscirvi solo in grazia del suo affetto e della sua gentilezza. L'uomo fa, nella stessa maniera, leva sull'egoismo dei

suoi simili, offrendo loro un motivo sufficiente di tentazione per ottenere


da essi ci che vuole. Un siffatto comportamento pu cos esprimersi: "Dammi ci che voglio, e avrai ci che vuoi". Al contrario del cane,

l'uomo non spera qualcosa dalla benevolenza, bens dall'egoismo."


(Lezioni, p. 183) Su questa base si erige quella divisione del lavoro per cui alla fine "ogni uomo vive di scambi, o diventa in certa misura un mercante" (Ricchezza, p. 26) e che fa s che l'egoismo divenga il cemento della societ. La divisione del lavoro la conseguenza - certamente "lenta e graduale" (dunque, non preordinata; inintenzionale) ma cionondimeno "necessaria" - "delle facolt della ragione e della parola" (Ricchezza, p. 16). La storia si configura qui come il progressivo svolgimento di un principio originario e benefico, in forza del quale l'egoismo proprio dell'uomo, il fare dell'altro un mezzo per

i propri scopi, diviene a sua volta - attraverso l'impulso che d al processo di specializzazione - il tramite essenziale per il completo dispiegarsi di una altrettanto originaria tendenza alla integrazione o socialit.

Se, come spesso viene fatto, si attribuisce troppo facilmente a Smith l'identificazione tra la "societ commerciale" di cui parla nei primi due libri della Ricchezza delle nazioni ed il capitalismo emergente che ha concretamente di fronte, il passo breve per farne senza troppi complimenti il sostenitore della razionalit e naturalit del mondo che esce dalla rivoluzione industriale. Il capitalismo si configurerebbe, in questa lettura, come la fine della storia e la realizzazione della natura. Le cose, come vedremo, non sono cos semplici. Prima per di dar conto di questo nostro giudizio, conviene analizzare con pi attenzione le tensioni contrastanti che attraversano la visione della natura umana di Smith, e la sua interpretazione della divisione del lavoro: tensioni che trovano il loro momento di cristallizzazione nella teoria del valore-lavoro comandato.

2.4. Ancora sulla filosofia morale Prima di procedere oltre, vale la pena di notare che la naturale "socialit" dell'essere umano si riverbera sullo stesso egoismo, che per Smith inseparabile da una dimensione relazionale. E' mettendo al nostro servizio l'egoismo degli altri che possiamo perseguire il nostro interesse individuale. Ma, pi fondamentalmente, la molla universale che ci spinge "migliorare la nostra posizione":

"Da dove dunque nasce quell'emulazione che corre attraverso tutti i diversi ceti degli uomini, e quali sono i vantaggi che ci proponiamo con quel grande obiettivo della vita umana che chiamiamo migliorare la propria posizione? Essere osservati, che ci si occupi di noi, che ci si informi

di noi con simpatia, con compiacimento e approvazione, questi sono i soli vantaggi che possiamo proporci di ottenere con esso. E' la vanit, non l'agio o il piacere che ci interessa." (Teoria dei sentimenti morali, p. 50, cit.
in Maria Luisa Pesante, Economia e politica , Angeli, Milano 1986, p. 20). Lo stesso egoismo rimanda dunque al principio originario della socialit umana, la dipendenza dallo sguardo dell'altro. "Il desiderio di migliorare la propria condizione", "di norma calmo e scevro di passionalit, presente in noi fin dalla nascita e non ci abbandona mai fino alla tomba". "Il mezzo pi comune e ovvio" con cui tale desiderio si realizza "un aumento del patrimonio" (Ricchezza, p. 336). Ogni individuo "mira solo al suo proprio guadagno ed condotto da una mano invisibile, in questo come in altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni": curando il proprio interesse, d luogo alla prosperit pubblica. Perseguendo l'egoismo, porta al massimo grado la socialit. Siamo ben lontani dall'individuo isolato di Hobbes, o - se per questo anche dall' "amor proprio" di Rousseau. La rivalit nel commercio dell' uno con l'altro conduce ad un addolcimento del carattere e frena le passioni: l' uscita da quello stato permanente di guerra e di dipendenza servile che caratterizza l'ordine feudale in qualche misura essa stessa un portato della ricerca del proprio utile individuale. Smith nega come corrispondente alla natura una originaria autonomia dell'uomo isolato, e afferma anzi una sua essenziale socialit. La struttura relazionale del self-love e

l'affermazione dello scambio, prima intellettuale e poi materiale, come nesso sociale "naturale", fanno dell'autore scozzese qualcosa di molto diverso da un individualista radicale.

3. Il comando sul lavoro. Individuale e sociale, dallo stadio "rozzo e primitivo" alla "grande societ".

"Sono sempre disposto a correre il rischio di essere noioso pur di essere sicuro di essere chiaro. E dopo aver fatto tutti gli sforzi possibili per essere chiaro, potr ancora risultare qualche oscurit su un argomento per sua natura estremamente astratto." Adam Smith, La Ricchezza delle Nazioni , p. 31

3.1. Il lavoro dell'uomo isolato La rottura di Smith con la posizione che afferma una primitiva asocialit dell'uomo peraltro contraddetta da un motivo altrettanto potente della sua teoria economica, il motivo del lavoro. Quando Smith deve spiegare la generale diffusione del benessere nella societ mercantile ricorre agli effetti della divisione del lavoro: nella sua argomentazione, un ruolo chiave giocato dal paragone tra la produttivit del lavoro diviso e quella del "lavoro dell'uomo isolato". Il lavoro dell'uomo isolato segnala l'inatteso riemergere di tracce della problematica dello stato di natura in Smith. Per un verso, attraverso quel paragone Smith effettua un confronto tra, da un lato, la situazione di isolamento

degli individui autosufficienti nella produzione e nel consumo che propria dello stato originario e, dall'altro lato, una situazione pienamente storica quale quella della "grande societ", in cui gli individui sono integrati nel consumo e il lavoro diviso. Per l'altro verso, la possibilit stessa del paragone presuppone la presenza di un carattere della attivit pratica di appropriazione della natura che permane immutato nella storia. Vediamo meglio. Il "lavoro dell'uomo isolato" rappresenta un caso estremo, quello in cui non esiste specializzazione produttiva, ed in cui dunque il lavoro di ognuno deve provvedere interamente ai propri bisogni; un caso estremo che approssimato dalle societ arretrate nelle quali la divisione del lavoro limitata e gli scambi sporadici. Ma si tratta anche di un caso che rende evidente la dipendenza dell'uomo: questa volta per dalla natura, prima e pi fondamentalmente che dall'altro uomo. E' qui, nel lavoro come originario confronto tra l'uomo solo e la natura, che affonda le sue radici il primato che la attivit di trasformazione dell'ambiente materiale ha nella teoria economica di Smith. La ragione pu essere detta in breve. Per quanto il passaggio dal lavoro isolato e indipendente al lavoro sociale e diviso aumenti a dismisura la capacit produttiva, cio incida sul risultato del lavoro, tale passaggio non muta per la natura del lavoro stesso. Nella fabbrica moderna il lavoro, pur ripartito su pi persone, rimane sostanzialmente eguale, tanto nel "sacrificio" che comporta quanto nelle modalit di esecuzione, rispetto a quello della societ primitiva. Questo "naturalismo" di Smith - se cos lo possiamo chiamare - il contenuto rimosso che riemerge ripetutamente tanto nella sua visione della divisione del lavoro quanto nella sua teoria del valore-lavoro comandato, nonostante e contro l'indubbia centralit dello scambio tanto

per l'una quanto per l'altra.

3.2. Lavoro comandato e scambio Vediamo, per cominciare, come ci sia vero nel caso della teoria del valore. Il valore dato per Smith dalla quantit di lavoro che la merce pu comprare o comandare, cio dal potere d'acquisto di ci che si prodotto e venduto, misurato in lavoro: "Il valore di una merce, per la persona che la possiede e che non intende usarla o consumarla lei stessa ma scambiarla con altre merci, quindi

uguale alla quantit di lavoro che essa la mette in grado di comprare o di comandare. Il lavoro dunque la misura reale delvalore di scambio di
tutte merci. Il prezzo reale di ogni cosa, ci che costa realmente a chi ha bisogno di procurarsela, la pena e il disturbo di procurarsela. Il valore

reale di ogni cosa per chi se l' procurata e ha bisogno di collocarla o di


scambiarla con qualche altra la pena e il disturbo che essa pu

risparmiargli imponendoli ad altri." (Ricchezza, p. 32)


Nello stadio "rozzo" e "primitivo" che precede l'accumulazione del capitale e l'appropriazione della terra , ed in cui quindi non esistono profitto e rendita, il lavoro comandato identico al lavoro contenuto, cio al lavoro che stato necessario mettere in movimento per ottenere quella data merce. L'eguaglianza tra tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto, come anche l'eguagliamento di lavori di diversa faticosit o qualificazione, sono garantiti dallo scambio e dalla mobilit del lavoro. Nel

caso di divergenze dei valori di scambio dai lavori contenuti, converrebbe infatti spostarsi dalle produzioni in cui tale divergenza negativa a quelle in cui essa positiva. Il processo concorrenziale fa dunque s che il "valore di scambio" della produzione, ovvero il lavoro comandato, e il "valore del lavoro", ovvero la spesa necessaria a pagare il lavoro contenuto, siano identici. Smith descrive tale situazione dicendo anche che l'intero prodotto esaurito dal salario. La divisione del lavoro, facendo emergere un sovrappi che sottratto al lavoratore ed appropriato da capitalisti e proprietari fondiari, d luogo ad una eccedenza del lavoro comandato sul lavoro contenuto. Il valore di scambio di una merce ora comprende anche il profitto e la rendita, ed dunque tale da poter acquistare merci in quantit superiore all'equivalente della spesa in salari sostenuta per la sua produzione. La cosa pu essere espressa in due modi. Lo scambista riceve ora sul mercato pi lavoro di quanto ne offra, perch la merce che vende ha richiesto meno lavoro di quelle che ottiene in cambio. O, alternativamente - dato il valore del lavoro (il salario) - con il ricavato della vendita della propria merce egli pu ora "mettere in movimento" pi lavoratori di quanti ne erano stati necessari per produrre quanto ha venduto. Nel primo caso, si sottolinea che dietro lo scambio di merci vi indirettamente uno scambio di lavoro (oggettivato). Nel secondo caso, si sottolinea invece che in conseguenza dello scambio di merci possibile acquistare direttamente sul mercato del lavoro pi lavoro (vivo).

E' stato spesso rilevato come l'argomentazione di Smith nasconda un circolo vizioso, in quanto fa dipendere il valore di scambio dal livello del salario, e dunque da un valore esso stesso. Ci senz'altro vero. Ma -

riguardato non dal punto di vista di una teoria della determinazione dei prezzi relativi, ma dal punto di vista di una teoria che si interroghi sulla natura dello scambio e del capitale - il ragionamento di Smith tutt'altro che incoerente. La definizione del valore come lavoro comandato valida, per Smith, in qualsiasi stadio della societ. Essa rimanda senza equivoci al primato della dimensione sociale nella sua visione della natura umana: infatti, quella definizione non fa che ribadire l'universalit della originaria "disposizione a trafficare"; e mette in evidenza le conseguenze della tesi smithiana che quella inclinazione trova la sua piena realizzazione solo in epoca moderna. Lo sforzo ricorrente del quinto e del sesto capitolo del primo libro della

Ricchezza delle Nazioni quello di generalizzare il punto di vista dello


scambio. Si pensi alla circostanza singolare per cui Smith, quando deve spiegare il valore nello stadio rozzo e primitivo, non procede nel modo che potrebbe apparire pi lineare. Non lo definisce cio come il tempo di lavoro contenuto nella merce stesso. Egli mantiene piuttosto la spiegazione generale: lo determina, dunque, come il tempo di lavoro che la merce comanda nello scambio tra produttori indipendenti, e introduce solo a mo' di specificazione la considerazione che, nelle condizioni istituzionali delle societ primitive, tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto sono identici. Smith insomma costretto a interpolare nella descrizione dello stadio "rozzo e primitivo" caratteristiche "moderne", come la presenza di uno scambio di merci non occasionale ma ripetuto e la compiuta affermazione del meccanismo concorrenziale: condizioni entrambe necessarie per poter giustificare l'affermazione che tipi diversi di lavoro vengano effettivamente equiparati nella vita di tutti i giorni, e che dunque il tempo di lavoro possa costituire la base del valore.

All'interno della stessa logica, ed in modo del tutto analogo, il valore del prodotto del "lavoro dell'uomo isolato" determinabile vedendo in quest'ultimo non il produttore autonomo ma lo scambista: immaginando, cio, "l'uomo solo" come un soggetto che scambi con se stesso. Ed anche in questo caso, Smith anticipa al produttore indipendente categorie distributive moderne, facendone un percettore di di salario. 3.3. La ricchezza come potere: lavoro comandato e disuguaglianza In generale, per l'individuo il "valore reale di ogni cosa" "la pena e il disturbo che essa pu risparmiargli imponendola ad altri". La ricchezza dunque non solo un insieme di valori d'uso destinati al consumo ma anche e soprattutto potere sull'altro, comando sul suo lavoro:

"La ricchezza, come dice Hobbes, potere. Ma la persona che si procura una grande fortuna o la eredita non deve necessariamente procurarsi o ricevere in eredit un qualche potere politico, civile o militare. La sua fortuna pu forse fornirgli i mezzi di procurarsi l'uno e l'altro, ma il semplice possesso di quella fortuna non se li porta dietro necessariamente. Il potere che quel possesso si porta dietro immediatamente e direttamente il potere di comprare, cio un certocomando su tutto il lavoro, ovvero su tutto il prodotto del lavoro che

si trova sul mercato. La sua fortuna maggiore o minore in proporzione


esatta all'estensione di quel potere: ovvero alla quantit sia del lavoro di

altri uomini sia, che lo stesso, del prodotto del lavoro di altri uomini che
esso lo mette in grado di comprare o di comandare. Ilvalore di scambio di ogni cosa deve essere sempre esattamenteuguale all'estensione di questo

potere che esso conferisce a chi lo possiede." (Ricchezza, p. 33)

In origine, quando il prodotto appartiene interamente al lavoratore, questo potere reciproco e non in contrasto con l'eguaglianza. Fuori dallo stadio "rozzo e primitivo", la presenza di deduzioni dal prodotto del lavoro rivela invece l'esistenza di classi che non lavorano: di classi che possono attribuire ad altri la "pena e il disturbo" della produzione della ricchezza. Per queste classi, la ricchezza come consumo funzione della ricchezza come potere diseguale. Nella societ "progredita", il sovrappi pu essere destinato ad un impiego produttivo: pu, cio, essere reinvestito nell'acquisto di lavoratori che producono altra merce. Di conseguenza, dopo la vendita il capitalista non solo torner in possesso del valore anticipato come monte salari, ma otterr anche una eccedenza, nella forma di un profitto lordo (che eventualmente spartir con il proprietario fondiario, pagandogli una rendita). In tal modo, "quell'oggetto o, il che lo stesso, il prezzo di quell'oggetto, pu successivamente, se necessario, mettere in moto una quantit di lavoro uguale a quella che lo ha originariamente prodotto"(Ricchezza, p. 323). Da questo angolo visuale, la teoria del valore-lavoro comandato esprime, in modo del tutto adeguato, la prospettiva dello scambista in un mercato capitalistico: una prospettiva che, per quanto abbiamo detto sin qui, da Smith resa universale. Detto altrimenti: Smith, facendo valere "all'indietro" la categoria del lavoro comandato, in grado di individuare e sottolineare lo slittamento che la prospettiva dello scambista subisce quando si passa da una societ di produttori indipendenti ad una societ capitalistica. Al centro del quadro ora la classe capitalistica. Nella societ moderna, chi acquista dopo aver venduto non pi soltanto il lavoratore diretto, ma anche e soprattutto un "mercante", un "padrone", o "imprenditore". Per

il primo le cose, dal punto di vista del tempo di lavoro comandato, non sono cambiate: il lavoratore compra ancora merci il cui costo salariale identico a quello delle merci che egli stesso produce in quanto operaio; per lui il lavoro comandato continua ad essere uguale al lavoro contenuto. Per il "padrone", invece, tutto diverso. Il fatto che egli percepisca un profitto rivela che egli in grado di far lavorare altri per s, che pu procurarsi "le cose necessarie e comode della vita" non mediante il lavoro ma mediante il comando sul lavoro, sia oggettivato che vivo. Eppure, paradossalmente, il desiderio di arricchire della classe imprenditoriale invece di condurre i suoi membri ad un consumo opulento, si traduce in investimento, e quindi in un aumento del consumo di una massa crescente di "poveri che lavorano". La ricchezza come potere di pochi finisce per questa via, che la via dell'accumulazione - della parsimonia, cio dell'astensione dal consumo; della divisione del lavoro; del reinvestimento del profitto, e dell'allargamento della popolazione lavoratrice - per conciliarsi con la ricchezza come benessere materiale di tutti. 3.4. Lavoro comandato e produzione La lettura della teoria del valore-lavoro comandato come teoria dello scambio ha posto l'accento sul mutamento di senso, da egualitario a disegualitario, del termine "comando" nell'espressione "comando sul lavoro". Si tratta - potremmo dire - di una teoria del cambiamento, che proietta all'indietro, sullo stadio "rozzo e primitivo", le caratteristiche proprie della societ moderna: lo scambio come comando sul prodotto del lavoro dell'altro; e, appunto, il comando sul lavoro in senso stretto, nel mercato del lavoro e nelle fabbriche.

Ma il fatto che Smith insistentemente intenda come sinonimi il comando sul prodotto del lavoro ed il comando sul lavoro ci dice anche qualcosa d'altro. Ci induce a concentrare l'attenzione su quel "lavoro" che l'oggetto del comando. Quel lavoro che, per Smith, si configura sempre e comunque come una lotta con la materia, in buona misura immutabile e immutata dallo stato originario alla societ moderna. La lettura della teoria del valore-lavoro comandato ora l'opposto della precedente: vista come teoria della produzione, essa una teoria della permanenza. Proietta sulla societ moderna l'ombra del "lavoro dell'uomo isolato": "In ogni tempo e luogo, uguali quantit di lavoro si pu dire abbiano uguale valore per il lavoratore. Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d'animo, al livello ordinario della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare sempre la stessa quota del suo riposo, della sua libert e della sua felicit . . . In ogni tempo e luogo , caro ci che difficile da raggiungere, ovvero che costa molto lavoro per procurarselo; ed a buon mercato ci che si pu avere facilmente o con pochissimo lavoro."(Ricchezza, p. 35) La prospettiva, adesso, cambiata: non pi quella dello scambista capitalista: di colui che acquista lavoro oggettivato sul mercato delle merci, o gli operai sul mercato del lavoro. Il punto di vista - lo dichiara lo stesso Smith - ora quello del lavoratore: del lavoratore all'interno del processo di produzione. Direbbe Marx: del lavoratore come erogatore di lavoro vivo. E' per lui che uguali quantit di lavoro sono sempre di uguale valore, quale che sia il salario. La fatica e la pena del lavoro, per lui, non si sono modificate rispetto alla condizione di isolamento e autosufficienza del lavoratore nello stato originario.

Per Smith, il lavoro , sempre, la fonte di ogni ricchezza: il "primo prezzo" con cui sono state comprate in origine tutte le ricchezze del mondo. E' per questo motivo - perch il lavoro l'unica fonte della ricchezza materiale , di cui muta solo l'organizzazione - che "il lavoro la sola misura universale del valore, oltre che la sola precisa, ovvero che la sola unit di misura per mezzo della quale possiamo paragonare i valori di diverse merci in tutti i tempi e in tutti i luoghi" (Ricchezza, p. 38) Il ragionamento, insomma, ruota tutto attorno alla tesi che, quale che sia la "ricompensa reale del lavoro", cio "la quantit reale di cose necessarie e comode della vita che esso pu procurare al lavoratore" (p. 77) - una ricompensa che indubbiamente aumentata a causa della divisione del lavoro - non cambia la "pena del proprio corpo" (p. 32) nel tempo di lavoro: "Il prezzo che egli paga deve essere sempre lo stesso , qualunque sia la quantit di beni che ne riceve in cambio" (Ricchezza, p. 35) E' l'intrinseca invariabilit del lavoro come "sacrificio" nel corso della storia che spiega come per Smith le condizioni della distribuzione siano parimenti irrilevanti quando si tratta di individuare la misura appropriata del valore: "il lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita e quella che si risolve in profitto" (Ricchezza, p. 51)

Al centro dell'attenzione sono l'uomo come agente attivo della trasformazione della materia ed il lavoro vivo in quanto lavoro naturale. E' soltanto il lavoro l' "oggetto" che l'ineguaglianza pu, direttamente o indirettamente, redistribuire tra le classi. Non vi dunque contraddizione tra, da un lato, l'affermazione di Smith che vede nel salario, nel profitto e nella rendita le tre "fonti originarie" del valore di scambio e, dall'altro lato, la riconduzione della ricchezza al solo lavoro. Ci che Smith vuole dire che il valore di scambio, che sappiamo da lui definito essenzialmente come un potere d'acquisto, dipende dai redditi: ma quello che i redditi acquistano dipende a sua volta dal lavoro. Ritroviamo qui la duplicit - ma non, si badi, l'aporia - di Smith: diviso, ancora una volta, tra il principio "sociale" dello scambio e il principio "naturalistico" del lavoro. Non c' dubbio insomma che, per lui, dietro il "valore di scambio" c' sempre e comunque il "prezzo reale", il lavoro. 3.5. Ancora sulla divisione del lavoro L'argomentazione di Smith ha cos compiuto una perfetta rivoluzione su se stessa. La definizione del valore-lavoro comandato, inconcepibile al di fuori di una prospettiva centrata sullo scambio, nasconde una pi fondamentale teoria del lavoro come necessario ed unico costo reale della produzione. Ce lo conferma un ulteriore sguardo all'analisi smithiana sull'origine della divisione del lavoro. Partita come una rivendicazione del primato causale dello scambio sul lavoro diviso, approda infine alla tesi di un primato del lavoro dell'uomo isolato sullo scambio: lo scambio non pu modificare rispetto alla situazione originaria la natura del lavoro, ma soltanto accrescerne la produttivit. Il lavoro diviso, "sociale", - insomma - una

specificazione del lavoro individuale. Un risultato tanto pi rilevante se si pensa che in Smith l'indagine sulla divisione del lavoro ha una larga autonomia dalla problematica del valore, di cui in qualche modo costituisce il presupposto: sia nel senso che essa gi pienamente formulata in quegli scritti preparatori della Ricchezza delle Nazioni in cui la teoria del valore-lavoro non fa ancora la sua comparsa; sia nel senso che anche nell'opera maggiore i capitoli dedicati alla divisione del lavoro precedono quelli sul valore. Nelle societ primitive dedite alla caccia e alla pesca, i lavoratori bench vivano in societ riproducono la situazione ipotetica del lavoratore isolato: effettuano tutti lo stesso lavoro e sono adibiti agli stessi compiti. Smith spiega in due modi - addirittura nella stessa pagine - l'emergere della divisione del lavoro nello stadio "rozzo e primitivo". Comincia con l'osservare che una pur limitata diversit dei "talenti naturali" sufficiente a mettere in moto il processo della specializzazione: "In una trib di cacciatori e di pescatori, un individuo fa per esempio archi e frecce con pi rapidit e destrezza degli altri e li d spesso ai suoi compagni in cambio di selvaggina o bestiame. Alla fine si accorger che in questo modo pu avere pi bestiame e selvaggina di quanto ne avrebbe

se fosse andato a caccia di persona, sicch in base al semplice interesse


egoistico la fabbricazione di armi e frecce si trasformer nella sua occupazione principale ed egli diventer una specie di armaiolo."(Ricchezza, p. 19) La diversit delle abilit individuali, e perci la presenza di un ventaglio di produttivit, conduce i lavoratori - in quanto soggetti "egoisti" - a

percepire la convenienza della separazione dei compiti e della cooperazione nella produzione: dividendosi i compiti allo scopo di sfruttare le differenze nelle rispettive abilit, essi possono produrre pi di prima. Ogni lavoratore vedr probabilmente migliorata la propria situazione: potr infatti aumentare il consumo rispetto alla situazione di partenza, tanto del bene alla cui produzione si specializzato, quanto degli altri beni che potr procurarsi dagli altri lavoratori scambiando con loro l'eccedenza sul proprio autoconsumo. In questo ragionamento la divisione del lavoro ha la precedenza sullo scambio, di cui costituisce la condizione. Ma Smith rovescia subito la sequenza: "La differenza tra i talenti naturali degli uomini in effetti molto minore di quel che si pensa; e in molti casi, le diversissime inclinazioni che sembrano distinguere in et matura uomini di diverse professioni sono piuttosto

effetto che causa della divisione del lavoro. La differenza tra due
personaggi tanto diversi come un filosofo e un volgare facchino di strada, per esempio, sembra derivi non tanto dalla natura quanto dall'abitudine,

dal costume e dall'istruzione"(Ricchezza, p. 19)


Qui la divisione del lavoro piuttosto vista come un risultato dell'inclinazione allo scambio. E' perch gli uomini comunicano, perch "scambiano" col linguaggio, che sono poi indotti a scambiarsi i prodotti del proprio lavoro, e dunque ad affinare diverse abilit, che rompono l'eguaglianza originaria e creano i presupposti della disuguaglianza storica. Smith sembra dare la preferenza alla seconda spiegazione, integrandovi la

prima. Coerentemente con la propria filosofia morale, ribadisce la precedenza della dimensione sociale su quella tecnica nell'attivazione del processo di crescita materiale della ricchezza. Va rilevato, peraltro, che il progresso della divisione del lavoro - pur cos essenziale nel discorso smithiano - non modifica in nulla la descrizione che egli d dei caratteri della divisione del lavoro n sembra avere conseguenze sulla sua visione del lavoro. Vi un preciso parallelismo tra ci che Smith scrive dell'una e dell'altro nello "stadio rozzo e primitivo" e nella societ "progredita". In un passo gi citato, per esempio, Smith ripete per la fabbrica la descrizione della divisione del lavoro in un societ di caccia e pesca. In un paese "civile e fiorente, come conseguenza della divisione del lavoro nelle manifatture: "Ogni operaio pu disporre di una grande quantit del suo lavoro che

supera le sue necessit, e dal momento che tutti gli altri operai si trovano
esattamente nella stessa situazione, in grado di scambiare una grande

quantit dei suoi beni con una grande quantit dei beni degli altri, oppure,
che lo stesso, con il prezzo di questa quantit." (Ricchezza, p. 15) Ad essere cambiata dunque solo la scala del processo, che ora molto pi estesa. Una volta che il capitale si accumulato, la divisione del lavoro pu essere spinta ai suoi estremi: sia perch possibile anticipare un salario ai molti operai parziali, adibendoli a mestieri sempre pi frammentati; sia perch possibile aumentare le dimensioni delle unit produttive in conseguenza della frantumazione sempre pi spinta del ciclo lavorativo. Ma il ciclo lavorativo stesso continua ad essere il medesimo del lavoratore isolato, solo ripartito tra pi braccia:

"ci che opera di un sol uomo in uno stadio primitivo della societ

diviene infatti opera di parecchi in una societ progredita."(Ricchezza, p.


11) Insomma: il lavoro 'sociale' della manifattura lo stesso lavoro dell'individuo isolato: semplicemente, ognuna delle operazioni dello stadio primitivo divenuta l'attivit unica dell'operaio moderno, sicch essa svolta con pi destrezza, in minor tempo, e facilitata dalle macchine. L'identit di natura posta da Smith tra la divisione del lavoro nelle societ primitive e la divisione del lavoro manifatturiera rilevante anche per un'altra ragione. Essa consente di equiparare la relazione tra operai nella fabbrica moderna alla relazione di scambio tra produttori indipendenti. Vi qui un collasso tra divisione tecnica e divisione sociale del lavoro, che gi nel primo capitolo del primo libro della Ricchezza delle Nazioni - apre la strada al sorprendente isomorfismo tra la famosa descrizione della fabbrica di spilli (p. 9-10), con la sua necessaria sequenza di fasi lavorative concatenate, e quella integrazione tra industrie che deve essere assicurata dal mercato affinch venga prodotto anche il pi umile dei beni di consumo (p. 15-16). Una confusione che sembra rendere cieco Smith di fronte alla contraddizione tra, da un lato, l' organizzazione pianificata del lavoro dentro le unit produttive e, dall'altro lato, la separazione e il conflitto concorrenziale tra queste ultime sul mercato. Per lui, separazione e cooperazione governano ugualmente imprese e scambio. La societ moderna finisce con l'essere cos ridotta, squarciato il velo del mercato, ad una unica grande fabbrica. Un quadro che, come vedremo, non poteva non inquietare lo stesso Smith.

4. Il mercato e i "poveri che lavorano". La giustificazione storica del capitale. "Pu forse essere il caso di notare che nello stato di prosperit, quando la societ sta procedendo verso nuove acquisizioni, piuttosto che quando essa ha acquisito tutta la sua ricchezza, che la condizione del povero che lavora, cio della grande massa del popolo, sembra essere pi felice e confortevole. Essa dura nello stato stazionario, e miserevole in quello di decadenza. Lo stato di progresso in realt lo stato felice e sano di tutti i diversi ordini della societ." Adam Smith, Ricchezza , p. 81

4.1. Mano invisibile ed equit sociale Tiriamo le fila del discorso. Gli imprenditori sono mossi dal movente egoistico del profitto: vogliono divenire ricchi, non accrescere le capacit produttive del lavoro, n soddisfare meglio i bisogni degli operai. Ciononostante, proprio l'impulso a migliorare la propria condizione, accoppiato all'operare impersonale del mercato, che garantisce che sia questo il risultato delle loro azioni, al di l delle loro intenzioni. Il "chiaro ed evidente interesse di ogni individuo" infatti "un principio potentissimo" che fa s che nessuna parte della quota di reddito risparmiata possa "mai essere impiegata se non per mantenere lavoratori produttivi", pena "una evidente perdita per colui che la distogliesse in tal modo dalla sua giusta destinazione"(Ricchezza, p. 333). La "parsimonia", dunque, tende ad aumentare il numero dei lavoratori. Ed anche il loro consumo, perch "ci che ogni anno si risparmia viene regolarmente

consumato", non direttamente ma indirettamente, "dai lavoratori, dai manifatturieri e dagli artigiani, i quali riproducono con un profitto il valore del loro consumo annuo"(ivi). Il ragionamento chiaro. Il profitto fa della produzione un mezzo per l'ulteriore accumulazione del capitale; lo stesso consumo dei lavoratori un consumo "produttivo" finalizzato coscientemente all'accrescimento senza limiti del valore, al perseguimento di uno smodato desiderio di arricchimento. Ma, a sua volta, l'accumulazione il mezzo per ottenere il benessere della grande massa della popolazione. La massimizzazione dell'accumulazione la via pi sicura per rendere massimo il consumo dei "poveri che lavorano". Il capitalismo realizza cos, senza saperlo, una vera e propria missione civilizzatrice: grazie alla divisione del lavoro, porta al pieno sviluppo le caratteristiche razionali e comunicative della cultura umana, e rende massima la crescita della ricchezza; attraverso l' "inganno" di un risparmio finalizzato all'acquisizione futura di una ricchezza che non verr per mai consumata da chi lo effettua, trasforma dei poveri "oziosi" in lavoratori "operosi"; garantendo la disuguaglianza con la "giustizia", cio tutelando giuridicamente la propriet dei pochi, li spinge ad una accumulazione accelerata che ha l'effetto di redistribuire nel modo pi favorevole ai molti quanto si prodotto. E' da questo punto di vista che si comprende bene il giudizio negativo che Smith d della condizione di stato stazionario, che consegue alla caduta del saggio del profitto.

L'argomentazione smithiana su quella che abbiamo definito la giustificazione storica del capitale la si ritrova, con poche variazioni, tanto nella Teoria dei sentimenti morali come nella Ricchezza delle nazioni. Bastino due passi:

"I ricchi pescano nel mucchio solo ci che pi prezioso e pi piacevole.

Consumano poco pi dei poveri, e nonostante il loro egoismo e la loro


rapacit naturali, bench pensino solo al loro interesse e il solo scopo che si prefiggono dalle fatiche delle migliaia di persone cui danno lavoro sia la gratificazione dei propri desideri vani ed insaziabili, essi dividono con i poveri il prodotto di tutti i loro progressi. Sono portati da una mano

invisibile a operare quasi la stessa distribuzione delle necessit della vita che avrebbe avuto luogo se la terra fosse stata divisa in parti uguali fra
tutti i suoi abitanti; e cos, senza volerlo e senza saperlo, fanno l'interesse della societ e forniscono i mezzi per moltiplicare la specie." (Teoria dei

sentimenti morali, cit. in Michael Ignatieff, I bisogni degli altri, Il Mulino,


Bologna 1986, p. 198) "La ricompensa reale del lavoro, la quantit reale di cose necessarie e comode della vita che esso pu procurare al lavoratore, forse aumentata

durante questo secolo in misura maggiore del suo prezzo in moneta . . .


Questo progresso nelle condizioni dei ceti pi bassi del popolo deve essere considerato un vantaggio o un inconveniente per la societ? La risposta sembra a prima vista estremamente agevole. Servi, lavoratori e operai di diverso genere rappresentano la parte di gran lunga maggiore di ogni grande societ politica. Ma tutto ci che fa progredire le condizioni della maggioranza non pu mai essere considerato un inconveniente per l'insieme. Nessuna societ pu essere florida e felice se la grande

maggioranza dei suoi membri povera e miserabile. Oltretutto, semplice


questione di equit il fatto che coloro che nutrono, vestono e alloggiano la gran massa del popolo debbano avere una quota del prodotto del loro stesso lavoro tale da essere loro stessi passabilmente ben nutriti, vestiti e alloggiati (Ricchezza, pp. 77-78)

Sinteticamente - e provocatoriamente, rispetto alla vulgata di uno Smith apologeta di un capitalismo liberista disposto ad immolare gli uomini di oggi sull'altare di un benessere futuro; quando invece, se la lettura che qui suggerita corretta, sarebbe vero esattamente l'opposto - potremmo dire: il profitto come mezzo del salario. Smith, insomma, come il teorico dell'accumulazione: ma soltanto perch una accumulazione sempre pi veloce si traduce, appunto, in una economia di alti salari e di massima occupazione. O ancora, Smith come teorico della libera concorrenza: ma soltanto perch la rivalit e la competizione tra "mercanti", impedendo il monopolio, rendono minimi i profitti (date le rendite e gli interessi), e danno luogo a prezzi delle merci i pi bassi possibili (alzando dunque, coeteris paribus, la retribuzione reale del lavoro). Vediamo il ragionamento sul salario. I comportamenti coscienti della classe capitalistica e del governo mirano, ineluttabilmente, a colpire la condizione operaia: "I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale"(Ricchezza, p. 67); d'altro canto, "Tutte le volte che il legislatore cerca di regolare le controversie fra i padroni e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre i padroni"(Ricchezza, p. 141). In questa situazione, l' "anarchia" del mercato l'unica carta che pu - paradossalmente - giocare a favore dei lavoratori. Tanto pi rapido e variabile il ritmo dell'accumulazione del capitale, tanto pi elevato il saggio di crescita della domanda di lavoro; e tanto meno efficaci le coalizioni degli imprenditori, costretti a farsi concorrenza l'uno con l'altro (Ricchezza, p. 85-6). Di conseguenza, nel breve periodo il salario fissato dal mercato del lavoro tende a eccedere il livello naturale, "il pi basso compatibile con la natura umana". Ma, se l'accumulazione procede

e lo scarto tra salario di mercato e salario naturale permane abbastanza a lungo, convinzione di Smith che la sussistenza stessa finir con l'essere trascinata verso l'alto. Il meccanismo che regola la "produzione di uomini" al variare del salario reale rispetto alla sua norma, pur continuando ad operare, non talmente forte da annullare gli effetti positivi dell'accumulazione. Peraltro, gli alti salari non sono soltanto l'effetto ma anche, almeno in parte, la causa del "progresso" economico. Vi , per Smith, un vero e proprio circolo virtuoso tra crescita del salario e aumento della produttivit: il maggior costo del lavoro messo in moto dallo stesso meccanismo che spinge gli imprenditori ad un approfondimento della divisione del lavoro; e l'impulso alla divisione del lavoro ha - come sappiamo - dei benefici effetti di ritorno sulla prosperit di tutta la societ: "Tuttavia la stessa causa che eleva i salari, cio l'aumento dei fondi, tende

a fare aumentare le capacit produttive del lavoro e a far s che una minor
quantit di lavoro produca una maggiore quantit di prodotti. Il proprietario dei fondi che impiegano un gran numero di lavoratori deve sforzarsi, nel suo stesso interesse , di organizzare una divisione e una distribuzione del lavoro tale da metterlo in grado di produrre quanto pi possibile. Per la stessa ragione egli si sforza di fornire ai lavoratori le macchine migliori che sia lui stesso sia loro possono escogitare. Ci che avviene tra i lavoratori di una particolare casa di lavoro, avviene per la stessa ragione nell'insieme della societ." (Ricchezza, p. 86) Con terminologia moderna, potremmo dire che l'aumento della produttivit rende "compatibile" un corrispondente aumento del salario. Nella stessa logica, non c' che un passo per intravedere, in un aumento

del salario, il mezzo attraverso cui l'accumulazione riproduce se stessa, governando il tasso di innovazioni nelle imprese. "L'aumento dei fondi, mentre innalza i salari, abbassa i profitti" (Ricchezza, p. 87), scrive Smith. Quando la concorrenza massima, i profitti ordinari saranno ridotti al minimo possibile (Ricchezza, p. 94). Mentre, infatti, "il prezzo di monopolio in ogni occasione il pi alto che si possa ottenere, al contrario, il prezzo

naturale il pi basso che possa essere accettato, se non proprio in ogni


occasione, almeno per un periodo considerevole." (Ricchezza , p. 62). 4.2. I costi della divisione del lavoro Smith vede dunque nell'accumulazione capitalistica un mezzo per rendere pi felici i lavoratori in quanto consumatori. Non gli sfugge, per, che le cose stanno ben diversamente se si guarda a ci che ne dei lavoratori in quanto produttori. Riemerge qui, in altra forma, la duplicit di Smith, teorico dello scambio e teorico del lavoro. I brani che Smith dedica agli effetti negativi della divisione del lavoro sono giustamente famosi, ma meritano una rilettura: "Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l'occupazione della stragrande maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cio della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime operazioni, spesso una o due. Ma ci che forma l'intelligenza della maggioranza degli uomini

necessariamente la loro occupazione ordinaria.Un uomo che spenda tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni, i cui effetti oltretutto
sono forse sempre gli stessi, o quasi, non ha nessuna occasione di

applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva a scoprire


nuovi espedienti per superare difficolt che non incontra mai . . . La sua

destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo modo acquisita a spese delle sue qualit intellettuali, sociali e militari. Ma in ogni societ progredita e incivilita, questa la condizione in cui i poveri che lavorano, cio la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a
meno che il governo non si prenda cura di impedirlo"(Ricchezza, pp. 769770) Il "povero che lavora", la cui condizione era qualificata come la pi felice e confortevole quando si analizzavano gli effetti dell'accumulazione sull'occupazione e sul consumo, ora un soggetto senza virt civiche o marziali, istupidito ed impoverito nelle sue capacit da quella stessa divisione del lavoro che rende florida la societ. Riemergono qui accenti rousseauiani: nelle "societ barbare . . . le svariate occupazioni di ogni uomo lo costringono a esercitare le sue capacit e a inventare espedienti per superare le difficolt che incontra continuamente. L'inventiva mantenuta viva e la mente non lasciata cadere in quella sonnolenta stupidit che in una societ civile,

sembra ottenebrare l'intelligenza di quasi tutti i ceti inferiori del popolo. In


queste cosiddette societ barbare . . . ogni uomo un guerriero ed in una certa misura anche un uomo di stato, e pu formarsi un discreto giudizio sull'interesse della societ e sulla condotta di coloro che lo governano."(Ricchezza, p. 770) Certamente, queste note pessimistiche non sono sufficienti a rovesciare il giudizio che Smith aveva formulato sulla divisione del lavoro. Nelle societ moderne, vero, la ricchezza ottenuta a spese della virt. Ma, se vero che nelle societ primitive vi

"molta variet nelle occupazioni di ogni individuo, non c' molta variet in quelle della societ nel suo complesso . . . Al contrario, in uno stadio avanzato della civilt, sebbene ci sia poca variet nelle occupazioni della

maggior parte degli individui, c' una variet quasi infinita in quelle del complesso della societ." (Ricchezza, p. 771)
Il ragionamento chiaro. La divisione del lavoro comporta un costo elevato per gli individui appartenenti alle classi pi povere, cio per la gran massa della popolazione. Pi precisamente, si tratta di una vera e propria caduta nell'eteronomia, nei processi di lavoro e nella societ politica. Un destino senza ritorno, si potrebbe dire, perch la fabbrica manifatturiera costruisce un nuovo tipo d'uomo, integrato agli altri nel consumo ma ignorante ed incapace di giudizio. Ma ci che perde l'individuo lo guadagna, con l'interesse, la societ. Aumentando le attivit, aumentano le abilit, e dunque le capacit del corpo sociale collettivo. Pu goderne quella frazione ristretta della popolazione che ha mantenuto un qualche tenue legame con la condizione originaria, in cui "ognuno fa, o capace di fare, quasi tutto ci che chiunque altro fa, o capace di fare". Si tratta dei "filosofi", la cui collocazione particolare nella divisione del lavoro era stata sottolineata gi nel primo capitolo del libro: la loro specificit consiste non "nel fare qualche cosa, ma nell'osservare ogni cosa" (p.14). E' a loro che deve riferirsi l'osservazione di Smith secondo cui la moltiplicazione delle mansioni e la frantumazione del lavoro "presentano una variet quasi infinita di oggetti alla contemplazione di quei pochi che, non essendo essi stessi impegnati in nessuna occupazione particolare, hanno tempo libero e predisposizione per esaminare le occupazioni degli altri." (Ricchezza , p. 771) Aumenta dunque l'intelligenza della societ: e con essa il numero di invenzioni e innovazioni, dal momento che dall'osservare ogni cosa che pu svilupparsi la facolt "di combinare e

unificare le possibilit insite negli oggetti pi dissimili e lontani fra loro" (Ricchezza , p. 15). La stupidit - se non addirittura l'infelicit - dell'individuo il prezzo da pagare per allentare il vincolo della scarsit, e per consentire ai pochi un' "intelligenza progredita e raffinata" (p. 771). Il discorso di Smith assume qui un accento spietatamente realistico: amaro, certamente, ma che di nuovo non mi sentirei di definire apologetico. Non tanto per la cura, in verit un po' superficiale, che l'autore scozzese propone: un intervento statale che imponga una istruzione di base alle classi pi povere sarebbe poco pi di un lenitivo, per un processo dalle tinte cos fosche. E nemmeno per il pessimismo che conduce Smith a concludere che, in ogni caso, "tutti i tratti pi nobili del carattere umano possono essere in gran parte cancellati ed estinti nella gran massa del popolo" (Ricchezza, p. 771): un pessimismo troppo frammisto alla rivendicazione con cui viene, a ragione o a torto, lamentata l'esclusione della propria corporazione, dei "filosofi", dalle leve del comando ("a meno che a questi pochi non capiti di essere collocati in situazioni molto particolari, le loro grandi capacit, per quanto onorevoli per loro, possono contribuire ben poco al buon governo o alla felicit della societ." (Ricchezza , p. 771). Quello che pi conta che nella Ricchezza delle Nazioni l'abbrutimento della classe lavoratrice appare non come un destino di natura ma come un risultato storico: di una storia, per di pi, che sarebbe potuta svolgersi in tutt'altro modo. Il capitalismo della "rivoluzione industriale" non insomma per Smith il capitalismo "naturale", quel capitalismo che si sarebbe potuto realizzare con altre leggi ed altre istituzioni. E' certamente, sotto gli ordinamenti storici dell'Europa a lui contemporanea, il migliore dei mondi possibili: non per il mondo in cui vorrebbe vivere, n quello

che, con altri presupposti e con una piena libert commerciale, avrebbe potuto aver luogo.

E' con alcune citazioni da uno Smith cos inconsueto e poco frequentato, almeno dagli economisti - uno Smith il cui peccato non l'apologia ma semmai l'utopismo - che chiuder la parte di questo saggio dedicata all'autore scozzese. 4.3. Innaturalit del capitale E' nella natura delle cose che la sussistenza preceda la "comodit e il lusso", e dunque "l'attivit che procura la prima deve necessariamente aver preceduto quella che fornisce i secondi"(Ricchezza, p. 374). La sequenza naturale dello sviluppo economico e del progresso della divisione del lavoro dovrebbe dunque andare, per Smith, dal "miglioramento e dalla coltivazione della terra" - che determina la creazione di un sovrappi in agricoltura il quale a sua volta garantisce alla citt cibo e materie prime al conseguente aumento della domanda di manufatti, che stimola la produzione nelle citt, alla ricerca di sbocchi all' estero: "Quindi, secondo il corso naturale delle cose, la maggior parte del capitale di ogni societ che comincia a formarsi diretta prima all'agricoltura, poi alle manifatture, e infine al commercio estero . . . Ma per quanto

quest'ordine naturale delle cose debba aver avuto luogo in qualche misura in ogni societ, in tutti i moderni stati europei esso stato sotto molti aspetti completamente rovesciato. Il commercio estero di alcune delle loro
citt vi ha introdotto manifatture pi raffinate, cio quelle adatte per la vendita in luoghi remoti e le manifatture e il commercio estero insieme

hanno dato occasione ai principali miglioramenti dell'agricoltura" (Ricchezza, p. 377) "Quest'ordine di cose innaturale e retrogrado": cos Smith definisce la sequenza storicamente data, quella per cui le manifatture invece di essere figlie dell'agricoltura sono figlie del commercio estero. Non questo il luogo per affrontare alcune questioni, peraltro di notevole interesse, suggerite dal modo con cui Smith sviluppa la sua argomentazione. Quale, per esempio, il senso da darsi alla sua "storia congetturale", che fa delle citt il luogo primo di quella emancipazione dal dominio dei grandi proprietari fondiari che poi si estende alla campagna, in forza del graduale ed impersonale diffondersi dello scambio. O quale, ancora, il riconoscimento dell'esistenza di vie alternative all'industrializzazione: quella che stata definita "semi-naturale", che pur attivata dal commercio internazionale vede uno sviluppo dell'agricoltura precedente lo sviluppo delle manifatture secondo la sequenza commercio estero-agricoltura-manifatture, ed dunque incentrata su un equilibrio tra settori che salvaguarda il lavoro indipendente tanto nelle campagne quanto nelle citt; e quella "storica", sbilanciata a favore delle fabbriche e delle concentrazioni operaie secondo la sequenza commercio esteromanifattura-agricoltura, che finir con il prevalere. Un contrasto che si riflette in quello tra crescita "proporzionale", quando le citt si sviluppano secondo le capacit di estrazione di sovrappi della campagna che le circonda, e crescita "non proporzionale", quando le manifatture si liberano dal vincolo costituito dalla domanda interna per inseguire quella estera. Vorrei piuttosto limitarmi a ricordare gli eroi di questo capitalismo naturale di Smith: l'agricoltore proprietario e l'artigiano indipendente. E' indubbio da che parte stiano le simpatie di Smith; come indubbio che l'inedito

capitalismo, agrario e di libera concorrenza, che ha in mente manterrebbe, a suo parere, i tratti positivi dell'efficienza produttiva e dell'allocazione ottima delle risorse, senza i tratti negativi della divisione del lavoro e di una eccessiva mobilit del capitale. Dai grandi proprietari terrieri non ci si pu aspettare grandi miglioramenti, dediti come sono al consumo di lusso; ma meno ancora da chi lavora alle loro dipendenze ("una persona che non pu acquisire propriet, non pu avere altro interesse oltre quello di mangiare il pi possibile e lavorare il meno possibile": Ricchezza, p. 382): "Un piccolo proprietario, per, che conosce ogni palmo del suo piccolo terreno, che lo guarda tutto con l'affetto che la propriet, e specialmente quella piccola, naturalmente ispira, e che per tale motivo trae piacere non solo a coltivarlo, ma anche ad adornarlo, in generale il pi industrioso, il pi intelligente e il pi fortunato fra tutti coloro che attendono ad apportare miglioramenti alla terra"(Ricchezza, p. 410) La premessa del giudizio di Smith che si dia una maggiore produttivit del lavoro agricolo, in quanto quest'ultimo favorito dalla collaborazione della natura. Di norma, dunque, la redditivit dell'agricoltura superiore a quella delle manifatture, e lo sviluppo delle campagne d il via a quello delle citt. Se non vi fossero retaggi storici o vincoli istituzionali a deviare il corso delle cose, lo stesso meccanismo concorrenziale dovrebbe imporre uno sviluppo trainato dal capitale agrario. La peculiare collocazione geografica dell'Inghilterra, che ne favorisce i rapporti con l'estero, giustifica che la crescita sia stata qui attivata dalle esportazioni, ma non che l'inversione della sequenza naturale sia cos completa: il commercio internazionale avrebbe potuto comunque privilegiare la campagna prima della citt, mentre invece avvenuto proprio l'opposto.

Un elemento che certamente concorre nella valutazione positiva che Smith d di una crescita caratterizzata da un primato dell'agricoltura sulla manifattura, di questa possibilit non percorsa dallo sviluppo economico, che il capitale del proprietario terriero " fissato nei miglioramenti della sua terra"(Ricchezza, p. 375) e, di conseguenza, "il pi sicuro, per quanto lo consente la natura delle vicende umane". Al contrario, il "mercante non

necessariamente cittadino di un particolare paese", e "il capitale che


viene acquisito da un paese con il commercio e le manifatture costituisce un possesso molto precario e incerto." (Ricchezza, p. 413) Ed ancora: mentre i mercanti e i manifatturieri sono mossi da "bassa rapacit" e da uno "spirito di monopolio", e dunque "il loro interesse sempre direttamente opposto a quello della gran massa della popolazione" (Ricchezza, p. 483), "i gentiluomini di campagna e gli agricoltori sono, a loro grande onore, tra tutta la popolazione i meno soggetti al meschino spirito del monopolio". N va trascurato che per Smith il lavoro dell'agricoltura per sua natura meno soggetto alla suddivisione del lavoro (Ricchezza, p.11): se questa circostanza di per s rallenta l'aumento della produttivit nelle campagne, certo per che il lavoratore agricolo appunto per ci pi tutelato dalle conseguenze nefaste della specializzazione: "Al comune aratore, generalmente considerato un campione di stupidit e di ignoranza, raro manchino questo giudizio e quest' avvedutezza. Certamente egli meno pratico di relazioni sociali di quanto lo sia il meccanico che vive in citt, la sua voce e il suo linguaggio sono pi incolti e pi difficili da capire per coloro che non vi sono abituati, ma il suo

intelletto, essendo abituato a considerare una grande variet di cose, in

genere molto superiore a quello di coloro la cui attenzione interamente occupata, da mattina a sera, nel fare una o due operazioni semplicissime"(Ricchezza, p. 127)
Lo sviluppo della citt a rimorchio della campagna ha un ultimo vantaggio. Si tratta di un processo caratterizzato non dalla presenza di grandi opifici e dall'impiego di lavoro salariato ma dalla predominanza nei centri urbani del lavoro artigiano indipendente. Una situazione in cui virt e ricchezza sembrano, finalmente, poter andare di concerto: "Nulla pu essere pi assurdo, comunque, dell'immaginare che gli uomini in generale lavorino meno quando lavorino per se stessi che quando lavorino per altri. Un bravo operaio indipendente sar in genere pi

attivo anche di un giornaliero che lavori a cottimo. L'uno gode dell'intero prodotto della sua attivit, mentre l'altro lo spartisce col suo padrone.
L'uno, nella sua situazione di isolamento e di indipendenza, meno soggetto alle tentazioni delle cattive compagnie che nelle grandi manifatture rovinano tanto spesso i costumi dell'altro. La superiorit dell'operaio indipendente sui servi pagati a mese o ad anno, i salari e il mantenimento dei quali restano identici sia che facciano poco o molto, probabilmente ancora maggiore." (Ricchezza, p. 83-4) Ritroviamo uno Smith diviso. La storia realizzata, il capitalismo realmente esistente, hanno al loro attivo non solo la crescita materiale, ma anche la creazione di un ordine politico fondato sull'ordine e il buon governo. E' grazie allo sviluppo "distorto" delle citt e delle manifatture che si passati dalla dipendenza servile e dalla soggezione personale alla dipendenza dal mercato ed alla libert individuale. Il giudizio che Smith d inequivocabilmente positivo, anche se vede i costi del processo; ed

anche se non si stanca di sottolineare la possibilit di accelerare l'accumulazione rimuovendo "i cento inconsulti ostacoli con cui la follia delle leggi umane" (Ricchezza, p. 532) intralcia la spontaneit delle leggi di mercato. Gli ordinamenti politici possono ormai solo rallentare ma non arrestare il cammino verso la ricchezza e il progresso: quel cammino che retto dai "principi potentissimi" dell'egoismo e dell'inclinazione allo scambio; e che certo nella sua direzione anche se non nella sua velocit, una volta garantite libert personale e sicurezza della propriet. Ma Smith non nasconde l'esistenza di un'altra storia, di una storia possibile. Una storia che, come rivela l'ultima citazione, percorrendo, parzialmente o integralmente, la sequenza naturale dello sviluppo avrebbe consentito di far permanere nella "societ commerciale" non solo, per cos dire, il lato negativo ma anche quello positivo del "lavoro dell'uomo isolato". Non solo la pena e il sacrificio del lavoro, ma anche l'autonomia e l'indipendenza personale: massima nel caso dell'agricoltore piccolo proprietario, comunque superiore a quella dei "poveri che lavorano" nel caso dell'artigiano indipendente. Una storia non percorsa dall'Europa, ma che potrebbe essere il presente ed il futuro di quello che il vero modello di Smith: le nuove colonie, l'America: "Nelle nostre colonie americane, dove la terra incolta si pu ancora avere a buone condizioni, non si stabilita in nessuna citt nessuna manifattura per la vendita in luoghi lontani. Quando nell'America del Nord un artigiano ha acquisito un po' pi dei fondi sufficienti a condurre la sua attivit rifornendo la campagna vicina, egli con quei fondi non tenta di fondare una manifattura per la vendita in luoghi pi remoti ma li impiega invece nell'acquisto e nel miglioramento della terra incolta. Da artigiano

diventa piantatore, e n gli alti salari, n la facile sussistenza che quel paese concede agli artigiani possono indurlo a lavorare per altri invece che per se stesso. Egli sente che un artigiano il servo del suo cliente , dal quale trae la propria sussistenza, e che un piantatore che coltiva la propria

terra e trae la sua necessaria sussistenza dal lavoro della propria famiglia in effetti un padrone ed indipendente da tutto il mondo ." (Ricchezza, p.
376)

5. Cambiare la natura umana. John Stuart Mill e John Maynard Keynes oltre la passione per il denaro. "nel contemplare ogni movimento di progresso, non illimitato nella sua natura, la mente non soddisfatta soltanto dal fatto di tracciare le leggi del suo movimento; non pu infatti fare a meno di porsi l'altra domanda: a quale fine? Verso quale punto tende in definitiva la societ con il suo progresso produttivo? Quando il progresso giunge al termine, in quali condizioni ci si deve attendere che lasci il genere umano?" John Stuart Mill, Principi di economia politica , Utet, Torino 1983, p. 997 5.1. Smith smembrato: ricardiani e neoclassici. La conciliazione che Smith opera tra le due visioni dell'accumulazione che attraversano la sua opera - quella di un processo autoreferenziale per cui la produzione fine a se stessa, e quella di una produzione che ha per risultato il consumo sempre pi ricco di un numero crescente di lavoratori - una conciliazione possibile solo sulla base della sua filosofia etica e della sua filosofia della storia. Il suo schema teorico si regge infatti tutto sull'ipotesi che l'egoismo che spinge i capitalisti alla massimizzazione del

profitto sia un benefico "inganno" che la Natura ha ordito per realizzare il suo ordine: quell'inganno che, mettendo in moto il meccanismo della divisione del lavoro, e dispiegando al massimo grado il principio sociale dello scambio, fa della produzione per la produzione il mezzo della massimizzazione del benessere. E' la medesima ipotesi che fa s che non appaia immediatamente contraddittorio il fatto che il fine storico, il consumo dei "poveri che lavorano", sia nel processo accumulativo nient'altro che un mezzo del suo mezzo. Un consumo "produttivo", necessario al fine dell'accrescimento del valore. Il pensiero economico successivo, abbandonando i presupposti filosofici di Smith, si scinder in due tronconi. Da un lato, abbiamo il filone classicoricardiano che, radicalizzando la riduzione del lavoratore a mezzo di produzione, vedr nel processo capitalistico un processo circolare, di "produzione di merci a mezzo di merci". Dall'altro lato, il filone neoclassico, che ricomporr le due massimizzazioni smithiane - quella "individualistica" del profitto, e quella "sistemica" del consumo dei "poveri" - sotto il cappello di una universale massimizzazione dell'utilit di un generico agente economico; ma quest'ultima a sua volta, in quanto massimizzazione del consumo mediante l'impiego efficiente di risorse scarse disponibili per usi alternativi, verr intesa come nient'altro che l'espressione particolare di un pi generale ed astorico aspetto della condotta umana, in quanto condotta razionale, cio della massimizzazione di una funzione obiettivo sotto vincolo. In entrambi i casi, perde di senso l'argomentazione smithiana sulla giustificazione storica del capitale. Nel caso di Ricardo, per l'insensatezza stessa di una interrogazione sulla qualit di un processo che ha la sua essenza nella riduzione di tutto a quantit. Nel caso dei neoclassici, per la

naturalizzazione e universalizzazione della razionalit calcolante tipica del capitalismo. L'economia politica - ridotta ad economica, e dunque a teoria della scelta - pu ormai descrivere qualsiasi contesto istituzionale e qualsiasi forma di agire, sicch finisce con il dissolversi l'oggetto stesso del giudizio storico di Smith, la "societ commerciale". Sarebbe per interessante invertire la prospettiva, e chiedersi quale giudizio dare di questi sviluppi teorici prendendo come punto di partenza il discorso smithiano sulla missione civilizzatrice del capitale. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, quale conclusione trarre quando con Ricardo si dimostra che l'accumulazione pu procedere indisturbata pur in presenza di una riduzione tanto dei consumi che dell'occupazione dei lavoratori: se, insomma, una autonomizzazione dell'accumulazione dai "poveri che lavorano" non segnali un esaurirsi della funzione storica svolta dal modo di produzione capitalistico. Ci si potrebbe chiedere, ancora, che contributo alla conoscenza dia una teoria come quella neoclassica incapace di distinguere, come invece Smith era in grado di fare, tra realt moderna e realt premoderne, attribuendo solo alla prima l'attributo di "societ" in senso proprio. Ci si potrebbe chiedere, insomma, se l'impostazione ricardiana e quella neoclassica non escano dalla filosofia della storia smithiana solo perch in modi certamente opposti - fanno del capitale un pezzo di natura. Solo perch, dunque, si reggono implicitamente su filosofie della storia altrettanto arbitrarie di quella: che semplicemente negano che possano esistere storie diverse; e, per questo, che mirano entrambe a fare dell' economia una scienza "esatta" come la geometria o la fisica. 5.2. Lo stato stazionario: John Stuart Mill.

L'argomentazione smithiana sulla giustificazione storica del capitale non scompare per totalmente dal discorso economico. Essa riappare ovviamente, nella forma che vedremo, nell'opera di Marx. Ma fa anche la sua comparsa in altri due momenti di svolta cruciali della storia d'Europa: l'esplosione rivoluzionaria del 1848, e la crisi successiva alla "grande guerra". Nel libro quarto dei Principi di economia politica di John Stuart Mill, dedicato all' "Influenza del progresso su produzione e distribuzione", si incontrano due capitoli successivi, strettamente intrecciati e da leggere insieme: il capitolo VI, molto citato, dedicato allo stato stazionario; ed il capitolo VII, meno frequentato, che discute "del probabile avvenire delle classi lavoratrici". La ripresa di temi smithiani puntuale, ma la prospettiva ora cambiata. Mill riconosce al capitale il ruolo di momento necessario del progresso: ritiene per che alla fase attuale, caratterizzata dall'egoismo e dal primato della produzione, possa seguirne un'altra che sostituisca a questo "falso ideale" del genere umano fini pi desiderabili: "Confesso che non mi piace l'ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l'urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che rappresenta il modello

esistente della vita sociale, sia la sorte maggiormente desiderabile per il


genere umano, e non piuttosto uno dei pi tristi sintomi di una fase del processo produttivo. Esso pu indubbiamente rappresentare una fase

necessaria del progresso della civilt, e quelle nazioni europee che finora
hanno avuto la fortuna di esserne quasi esenti pu darsi che la debbano attraversare. E' un incidente di sviluppo e non un segno di decadenza . . . Ma non comunque un genere di perfezione sociale che i filantropi futuri

possano desiderare di vedere realizzato. Molto pi auspicabile invece, finch la ricchezza continuer a rappresentare il potere, e il diventare pi ricchi possibile continuer ad essere oggetto dell'ambizione universale, che la via per giungere alla ricchezza sia aperta a tutti, senza favori o parzialit. Ma la condizione migliore per la natura umana quella per cui, mentre nessuno povero, nessuno desidera diventare pi ricco, n deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare." (Principi, pp. 999-1000) "Come primo passo da uno stadio semplicemente animale a uno stato umano, dallo sconsiderato abbandono agli istinti bruti alla prudente preveggenza e al dominio di se stessi, questa condizione morale pu essere guardata senza dispiacere. Ma se si desidera lo sviluppo dello

spirito pubblico, di sentimenti generosi, o della vera giustizia e della vera eguaglianza, l'associazione e non l'isolamento degli interessi, la scuola
alla quale queste virt si possono sviluppare. Lo scopo del processo dovrebbe essere non soltanto di porre gli esseri umani in condizioni nelle quali essi siano in grado di fare a meno gli uni degli altri, ma di consentire loro di lavorare con gli altri e per gli altri in rapporti che non implichino una dipendenza." (Principi, p. 1015). Per Mill, dunque, il capitalismo la fase necessaria di transizione da uno stato primitivo e "animale" ad uno stato veramente umano". Nello stato primitivo la cooperazione, se c', legata alla soggezione personale. Anche nelle condizioni moderne il lavoro sotto padrone costringe gli operai ad abusi che la crescente educazione culturale e politica - frutto della stessa associazione coatta nelle fabbriche - render sempre meno praticabili. Mill vede con favore che i lavoratori prendano nelle proprie mani il loro destino, e vogliano passare dal lavoro salariato al lavoro

cooperativo; ma l'associazione tra eguali tender a prevalere non soltanto nella fabbrica, ma anche nella politica come nella famiglia. L'evoluzione spontanea ed inintenzionale dell'economia , insomma, un processo che ha come fine la realizzazione di una situazione opposta. Compie una autentica "rivoluzione morale" (Principi, p. 1043), ed una incruenta e graduale rivoluzione politica: sostituisce all'individuo egoista l'individuo altruista; al soggetto dipendente il soggetto indipendente. Fa di tutti degli "esseri razionali" (Principi, p. 1009): in grado di scegliere la cooperazione, e non condannati invece ad una competizione tra agenti isolati, che verr piuttosto mutata in "amichevole emulazione"(Principi, p.1043). La mano invisibile, si potrebbe dire, crea le condizioni di una societ fondata sul consenso cosciente. L'evoluzione cede il passo al contratto. Smith mantenuto e rovesciato. Il dualismo etico di egoismo e simpatia diviene successione storica. "La sproporzionata importanza attribuita al semplice aumento della produzione", che in Smith il mezzo per una generalizzazione passabilmente equa del benessere, diviene solo lo strumento per raggiungere quel livello della ricchezza materiale che la precondizione per una migliore distribuzione e per una trasformazione della natura umana: "Finch le menti sono rozze esse richiedono stimoli rozzi, ed bene che li abbiano. Intanto per quelli che non accettano l'attuale stadio iniziale del progresso umano come il suo modello definitivo, possono essere scusati se rimangono relativamente indifferenti al tipo di progresso economico che suscita di solito le congratulazioni dei politici; il semplice incremento della produzione e della accumulazione."(Principi, p. 1000)

Sullo sfondo di questa visione, non stupisce che il giudizio di Mill sullo "stato stazionario" sia, diversamente che in Smith e negli altri classici, improntato all'ottimismo. Mentre per "gli economisti delle ultime generazioni", scrive Mill, lo stato stazionario "una prospettiva spiacevole e scoraggiante, dal momento che il tono e la tendenza delle loro speculazioni sono quelli di identificare tutto ci che economicamente desiderabile con lo stato progressivo . . . [io] sono propenso piuttosto a credere che, nel complesso, esso rappresenterebbe un considerevole miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali." (Principi, p. 999) La riduzione del tasso di crescita della produzione, se accompagnata alla riduzione della crescita della popolazione, non significherebbe per nulla l'esaurirsi del progresso umano. L'aumento assoluto della produzione materiale cederebbe semmai il passo allo sviluppo culturale ed al perfezionamento dell' "arte della vita"(p. 1002). L'industria continuerebbe certamente ad essere retta da leggi astoriche ed immutabili; ma, a differenza che nella situazione attuale, le innovazioni "produrrebbero il loro effetto legittimo, quello di abbreviare il lavoro. Finora dubbio se tutte le invenzioni meccaniche compiute sino a questo punto abbiano alleggerito la fatica quotidiana dell'uomo. Esse hanno piuttosto consentito a una maggiore popolazione di vivere la stessa vita di schiavit e di prigionia, e a un maggior numero di industriali e altri di accumulare fortune. Esse hanno indubbiamente accresciuto gli agi delle classi medie, ma non hanno ancora cominciato a operare quei grandi mutamenti nel destino umano che per loro natura sono destinati a compiere. Soltanto quando accanto a giuste istituzioni, l'accrescimento del

genere umano sar posto deliberatamente sotto la guida di una saggia previdenza, le conquiste sui poteri della natura compiute dall'intelletto e dall'energia degli scienziati potranno diventare il retaggio comune della

specie umana, e il mezzo per migliorare ed elevare la sorte dell'umanit ."( Principi, p. 1003).
Mill spera che l'umanit scelga lo stato stazionario prima di esservi costretta dal destino che le assegna la ineluttabile caduta del saggio del profitto. In realt, nonostante questa sua affermazione, la sua posizione non pu non risultare intimamente contraddittoria a meno di legarsi ad una evoluzionismo meccanicistico. Paladino di una visione che separa le leggi ferree della produzione dalle leggi storiche della distribuzione, Mill non dispone di argomentazioni teoriche a favore della auspicata trasformazione della natura umana: deve ancorare quest'ultima, di necessit, alla dinamica deterministica della produzione. Alla luce della sua separazione dicotomica di produzione e distribuzione rimane infatti misterioso cosa potrebbe originare una metamorfosi cos radicale, pur nella sua gradualit, del carattere umano quale egli delinea nel suo "ideale del futuro" - se non intervenisse ad imporla, appunto, il corso stesso delle cose; in questo modo ribadendo per, contro le intenzioni, un permanente primato dell'evoluzione materiale sul progresso culturale. E' per la stessa ragione che Mill deve limitare gli effetti del processo all'ampliamento del tempo di non lavoro: cio, a ben vedere, ancora ad una misura meramente redistributiva. La sua prospettiva di una riduzione del primato dell'economico si configura dunque, coerentemente, soltanto nei termini di una pi equa ripartizione e, al limite, di un'uscita dal lavoro.

Il solo altro sostegno della sua visione di societ dell'avvenire - l'unico che nel suo sistema giustificherebbe la speranza che "i nostri discendenti si accontenteranno di essere in uno stato stazionario molto prima di trovarsi costretti ad esso dalla necessit" (Principi, p. 1002) - avrebbe potuto essere il compimento del progetto, da lui lungamente accarezzato, di costruire una scienza del carattere umano, l'etologia. Individuate le leggi generali della formazione e del mutamento del carattere umano, si sarebbe anche mostrato come la trasformazione potesse essere il prodotto congiunto delle condizioni esterne e della volont degli individui. Ma, come noto, quel libro Mill non riusc a scriverlo mai. 5.3. Il doppio inganno rivelato: John Maynard Keynes. Ben maggiore consapevolezza di queste difficolt ha Keynes quando, tra le due guerre mondiali, riproporr l'utopia di Mill. Come Smith e Mill, Keynes ritiene che il capitalismo presupponga condizioni culturali (oltre che istituzionali) particolari, decadute le quali esso destinato ad entrare in crisi. A differenza dell'uno e dell'altro, sottolinea per che l'avverarsi di quelle condizioni non solo stato in grande misura casuale, ma ha dato luogo ad un sistema sociale ed economico instabile (contro Smith), ed il cui esaurirsi non significa di per s un indolore ed automatico passaggio ad uno stadio pi alto dell'evoluzione umana (contro Mill). Appena terminata la "grande guerra", nel paragrafo delle Conseguenze

economiche della pace intitolato "La psicologia della societ", Keynes


riprende l'immagine di Smith che vede nella "parsimonia" un inganno

ordito a danno dei singoli ma favorevole alla societ. E, come Smith, individua nella traduzione del risparmio in investimento e nella conseguente, sempre maggiore, soddisfazione dei bisogni fondamentali la giustificazione storica dell'ineguaglianza e del capitale. La corrispondenza con i temi smithiani talmente pronunciata che vale la pena di citare ampi brani: "L'Europa [dopo il 1870 e prima della guerra] era socialmente ed economicamente organizzata in modo da permettere la massima accumulazione di capitale. Mentre vi era un certo continuo miglioramento nelle condizioni quotidiane di vita della massa della popolazione, la societ era organizzata in guisa che una gran parte del reddito di nuova formazione veniva a cadere sotto il controllo della classe che era meno incline a consumarlo . . . era precisamente la 'ineguaglianza' di

distribuzione della ricchezza che rendeva possibili quelle vaste accumulazioni di ricchezza fissa e di sviluppo di capitali che distinguono
quel periodo da ogni altro. E qui sta, in fatto, la principale giustificazione

del sistema capitalistico. Se i ricchi avessero speso la loro ricchezza di


nuova formazione nei godimenti personali, il mondo gi da un pezzo avrebbe trovato questo sistema intollerabile. Ma, come api, essi risparmiavano ed accumulavano a vantaggio anche della comunit, perch essi stesso avevano di mira fini pi ristretti. . . . Lo sviluppo di questo rimarchevole sistema dipendeva perci da un doppio inganno. Da un lato le classi lavoratrici accettavano, per ignoranza o per impotenza, o erano costrette, persuase o indotte dal costume, dalla convenzione o dall'autorit e dal ben regolato ordine sociale, ad accettare una situazione per la quale esse potevano chiamare propria una ben piccola parte della torta che esse stesse e la natura e i capitalisti avevano cooperato a produrre. dall'altro

lato era consentito ai capitalisti di considerare propria la miglior parte della torta ed essi erano teoricamente liberi di consumarla, nella tacita, sottintesa condizione che in pratica ne avrebbero consumato una ben piccola porzione. Il dovere di 'risparmiare' divenne celebrata virt e l'ingrossamento della torta oggetto di vera religione . . . Ci dicendo io non riprovo necessariamente il metodo di quella generazione. Negli

inconsci recessi del suo essere la societ sapeva quello che si faceva." (Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Sellier, Torino 1983,
pp. 34-35) Il soggetto dunque la societ, ed i comportamenti degli individui sono di nuovo come in Smith - dettati dalla propria collocazione di classe determinati dalle leggi di riproduzione di quel sistema. Il mezzo il capitale; fini sono il superamento della scarsit, ed il passaggio ad una economia dell'abbondanza e dell'ozio: "forse sarebbe venuto un giorno in cui ce ne sarebbe stato finalmente

abbastanza per tutti e la posterit avrebbe potuto cominciare a godere il


frutto delle 'nostre' fatiche"(Conseguenze, p. 36) Il futuro per incerto. Il processo pu incepparsi prima di aver raggiunto il suo termine: la "torta" pu essere insufficiente per una eccessiva crescita della popolazione, come in Mill; oppure, come avvenuto, a causa di una guerra. Ma l'effetto principale della guerra non stato tanto materiale, quanto culturale: ha dissolto quelle "condizioni psicologiche instabili, che non si possono riprodurre . . La guerra ha rivelato a tutti la possibilit del consumo immediato ed a molti la vanit dell'astinenza. Cos l'inganno rivelato; le classi lavoratrici possono non essere pi disposte a cos larghe rinunzie e le classi

capitalistiche, non pi fiduciose nel futuro, possono avere voglia di godere in modo pi completo la loro libert di consumo fin quando essa duri, precipitando cos l'ora della sua confisca." (Conseguenze, p. 36)

La questione sar affrontata di nuovo nel 1930, nelle "Prospettive economiche dei nostri nipoti". Questa volta, ad essere impressionanti non sono solo le corrispondenze con Smith, ma anche quelle con Mill. In analogia con quanto scriveva nel 1919, Keynes ritiene che la velocit dello sviluppo sia tale che "scartando l'eventualit di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico pu essere risolto, o per lo meno giungere in vista di una soluzione, nel giro di un secolo" ("Prospettive economiche per i nostri nipoti", in Esortazioni e

profezie, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 272; corsivo nel testo).


Il sintomo della nuova situazione il diffondersi di una nuova malattia, la disoccupazione tecnologica. La causa, l'essere ormai vicino il soddisfacimento completo dei bisogni "assoluti", "quelli che sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili" - bisogni che, a differenza di quelli "relativi", caratterizzati dal bisogno insaziabile di superiorit sugli altri, possono raggiungere la saturazione ("Prospettive", p. 272). La via di uscita: la riduzione dell'orario di lavoro: "Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo."("Prospettive", p. 274-275) Come in Smith, la storia della societ sino al capitalismo una storia sotto il segno della lotta per la sussistenza. Come in Mill, l'evoluzione naturale del sistema ha uno scopo di cui l'azione dei singoli inconsapevole - la soluzione del problema economico - ma che una volta raggiunto deve

lasciare spazio ad attivit il cui fine sia cosciente: "per la prima volta dalla sua creazione l'uomo si trover di fronte al suo vero , costante problema: come impiegare la sua libert dalle cure economiche pi pressanti, come

impiegare il tempo libero" ("Prospettive", p. 221). Ancora come in Mill, il


meccanismo dell'accumulazione conduce oltre il lavoro, al tempo stesso modificando - sino a rovesciarlo rispetto a Smith - il codice morale: "Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virt le qualit umane pi spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione 'denaro' il suo vero valore. L' amore per il denaro come possesso, e distinto dall'amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sar riconosciuto per quello che : una passione morbosa, un po' ripugnante, una di quelle

propensioni a met criminali a met patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali"
("Prospettive", p. 275)

Muta rispetto a Mill, come avevamo preannunciato, la coscienza della drammaticit della transizione. Una drammaticit che nel testo del '30 sembra soprattutto localizzata al livello della cultura della societ, cui viene imposta una trasformazione troppo accelerata: "Sar un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilit che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti nell'uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sar chiesto di scartare nel giro di pochi decenni. . . . Per troppo tempo,

infatti, siamo stati allenati a faticare anzich godere." ("Prospettive", pp.


273-274) Gi nel '36, nelle "Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria

generale potrebbe condurre", la preoccupazione di Keynes si sar


radicalizzata. L' "amore per il denaro" costituisce uno sfogo per tendenze aggressive ben radicate nell'essere umano, come amaramente dimostrano i fascismi. Pretendere di cancellarlo in poco tempo pu essere pi un male che un bene: "E' meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini; e mentre talvolta si denuncia il primo quale un mezzo per raggiungere il secondo, talaltra almeno ne un'alternativa." (Teoria generale dell'occupazione , dell'interesse e della moneta , Utet, Torino 1978, p. 545) La difficolt di Mill si presenta ora sotto nuove spoglie: come conciliare il compito di trasformare la natura umana con il compito di governarla, quando i mezzi necessari al secondo scopo ostacolano il primo, perch si fondano proprio su quelle passioni che occorrerebbe estirpare affinch prevalgano i valori della vita? Pu essere utile fare un passo indietro, per indicare un altro aspetto della questione. La distinzione operata da Keynes tra i bisogni assoluti e quelli relativi - una distinzione che anche separazione ed indipendenza dei primi dai secondi - non pu non richiamare alla mente la distinzione di Smith tra bisogni "naturali" (cibo, vestiario e riparo) e desiderio di "quelle comodit che sono richieste dalla raffinatezza e delicatezza del nostro gusto" (si vedano, per esempio, le Lezioni di Glasgow ). I primi, potremmo

dire, sono comuni agli esseri umani in quanto eguali, siano essi soli o in societ; i secondi, che pongono l'accento sulle differenze reciproche, sono necessariamente relazionali e posizionali. A differenza del Keynes di questi brani, per, Smith mette in relazione i due tipi di bisogni, ed anzi crea un effetto di ritorno dei secondi sui primi. Non soltanto perch lo scopo del processo capitalistico, il sempre migliore soddisfacimento dei bisogni naturali, per lui il risultato inintenzionale di attivit che sono invece rivolte all'obiettivo impossibile di esaudire il desiderio di distinzione, attraverso l'impulso che esse danno alla divisione del lavoro e alla crescita economica. C' di pi. Quei beni, dapprima prodotti come "comodit" per i ricchi, finiranno con il tempo - quando le classi superiori se ne saranno stancate - con il passare alle classi pi povere, soddisfacendo i loro bisogni naturali. Che, dunque, sono in realt sempre meno autonomi, e vanno a rimorchio del desiderio dei ricchi. Qui l'antico si rivela pi attuale del moderno. I fenomeni di induzione e imitazione del consumo sembrano confermare pi l'intuizione di Smith che la tesi di Keynes. L'economia ha pi a che fare con i bisogni relativi che con quelli assoluti: sia perch le necessit fondamentali sono sempre pi determinate dal contesto storico e sociale; sia perch la produzione stessa a plasmare la domanda. Ma allora, se le cose stanno cos, non si vede perch l'espansione "artificiale" dei bisogni non possa costringere ancora l'essere umano nel mondo del lavoro e dell'economia, contrariamente a quanto scrive Keynes. E, d'altronde, una ulteriore riprova di ci la si ritrova nella stessa forma che ha poi assunto proprio l'intervento keynesiano, quando si proposto di rimuovere i limiti che il capitalismo "puro" poneva alla piena utilizzazione delle risorse, limiti che intralciavano la strada che conduce al superamento del problema economico. Quell'intervento si infatti configurato come un'immissione di

domanda aggiuntiva da parte dello Stato che ha sostenuto, direttamente ed indirettamente, la domanda privata, ed in particolare la quota dei consumi sul reddito. Vista da questo punto di vista, la politica economica eretta sulle basi della Teoria generale - qui non importa con quanta fedelt - la smentita pi radicale del futuro preconizzato da Keynes, dal momento che si traduce in un ulteriore salto nell' "artificialit" del consumo. Una "artificialit" che un commentatore, malevolo ma certamente acuto, come Schumpeter mette in risalto con perfidia in una tempestiva recensione al libro di Keynes: "Chi accetta il messaggio l esposto potrebbe riscrivere la storia dell'

ancien rgime francese grosso modo nei termini seguenti. Luigi XV fu un


monarca molto illuminato. Percependo la necessit di stimolare la spesa, egli si procur i servizi di spenditori esperti quali M.me de Pompadour e M.me du Barry. Esse si misero all'opera con un'efficacia insuperabile. La conseguenza avrebbe dovuto essere la piena occupazione, indi il massimo di produzione e in ultimo un generale benessere. In verit si trova invece miseria, infamia e, alla fine di tutto, un fiume di sangue. Ma ci fu una coincidenza del caso." ("Review of Keynes's General Theory ", trad. it. in

Schumpeter, a cura di Marcello Messori, il Mulino, Bologna 1984, p. 357)


Certo, Schumpeter incapace di prevedere l'efficacia dell' interventismo keynesiano, e perci la possibilit che su di esso si fondi la tregua sociale tra capitale e lavoro che vedr la luce nel secondo dopoguerra. Ai nostri scopi, per, proprio l'innaturalit dei bisogni soddisfatti dal capitalismo cui approdano, da sponde diverse, tanto lo Schumpeter della Teoria dello

sviluppo quanto il Keynes della Teoria generale, ad essere di un qualche


significato. Un meccanismo capitalistico di questo tipo, in cui la produzione a tirar dietro di s la domanda, riproduce, invece che

superare, il problema economico.

6. Come se avesse l'amore in corpo. Marx e l'enigma del lavoro. "La libert autentica non definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine." Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libert e dell'oppressione sociale , Adelphi, Milano 1983, pp. 77 Il discorso smithiano sulla giustificazione storica trova la sua ripresa ed il suo rovesciamento in Marx. I brani probabilmente pi rappresentativi sono i due seguenti: "Dal punto di vista storico, questa inversione [di soggetto e oggetto] appare come il punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l'inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono

fornire la base materiale di una libera societ umana. Passare attraverso


questa forma contraddittoria necessario come, in un primo tempo, l'uomo deve dare alle proprie forze intellettive la forma religiosa di potenze indipendenti da s." (Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 21) "I rapporti di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto

naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttivit umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L'indipendenza

personale fondata sulla dipendenza materiale la seconda forma


importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacit. La libera individualit, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttivit collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio"(Grundrisse, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1968-70, pp. 98-99) In questa sezione cercher di mostrare come la riconduzione dell'incivilimento dell'umanit allo sviluppo della produttivit del lavoro portato dal capitalismo e l' individuazione di tre fasi della storia umana della dipendenza personale; della indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale; della affermazione della libera individualit - non configurano n una concezione economicistica ed escatologica della storia, n una ontologia; bench, certamente, siano fondate su una particolare visione dell' "essenza" dell' essere umano, ed affermino la possibilit di dare un senso alla storia. 6.1. Il lavoro come essenza dell'essere umano Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx svolge la sua critica del modo di produzione capitalistico a partire dalla tesi che in esso viene ad essere alienata l'essenza stessa dell'essere umano, costituita dal lavoro. Per il Marx dei Manoscritti, la specificit dell'essere umano di essere un ente, al contempo, naturale e generico. Naturale: l'essere umano , infatti, egli stesso una parte della natura, ed ha una natura fuori di s, di cui vive; dalla natura trae i propri mezzi di sussistenza, e la materia con cui

appronta gli strumenti e l'oggetto del lavoro. Generico: in quanto essere pensante, e dunque dotato di ragione, l'indifferenza di tutte le differenze; non perci legato ad alcuna determinazione particolare, ma pu in potenza, attraverso il lavoro, progettare e rendere oggettiva ogni determinazione. Agendo secondo le leggi della natura ed in rapporto con gli altri, in societ, l'essere umano produce la stessa realt che lo circonda secondo una misura universale: "La libera attivit consapevole il carattere specifico dell'uomo . . . L'animale fa immediatamente uno con la sua attivit vitale, non si distingue da essa, essa . L'uomo fa della sua attivit vitale stessa l'oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attivit vitale: non c' una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L'attivit vitale consapevole distingue l'uomo direttamente dall'attivit vitale animale. Proprio solo per questo egli un ente generico . . . La pratica produzione di un mondo oggettivo , la lavorazione della natura inorganica la conferma dell'uomo come consapevole ente generico, cio ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a s come ente generico. Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche etc. . Ma esso produce soltanto ci di cui abbisogna immediatamente per s o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libert dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo confronta libero il suo prodotto. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l'uomo

sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l'uomo si realizza quindi come un ente generico . Questa produzione la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa come opera sua , dell'uomo, e sua realt. L'oggetto del lavoro quindi l' oggettivazione

della vita generica dell'uomo: poich egli si sdoppia non solo


intellettualmente come nella coscienza, bens attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui. (Manoscritti economico-filosofici

del 1844, in Opere filosofiche giovanili , Editori Riuniti, Roma 1974, pp.
199-200. Corsivi di Marx. Sottolineature mie) In un lavoro autenticamente umano si mediano la genericit dell'attivit, che non fissata in uno scopo determinato, e la sua naturalit, la dipendenza da un mondo naturale ed oggettivo. La realt viene appresa trasformandola: un "in s" che pu essere colto come tale, nella sua indipendenza, solo nella misura in cui al contempo reso un "per noi". Ma il passaggio al lavoro salariato inverte qui, nel cuore stesso della sua essenza sociale, la natura del lavoro. Separa il lavoratore dal mezzo di lavoro, facendo anzi del primo uno strumento del secondo. Separa, ancora, il lavoratore dal prodotto del suo lavoro, che non soltanto non di sua propriet ma gli indifferente. Separa, di conseguenza e per ultimo, il lavoratore dal suo stesso lavoro, che diviene cos una maledizione. Alla originaria dipendenza della natura segue una altrettanto cieca dipendenza da meccanismi sociali incontrollati. Invece di trovare nel lavoro il luogo di uno sviluppo universale delle proprie capacit, l'individuo vive nel lavoro il massimo di estraneazione. Come si sa, gli interpreti si dividono tra chi ritiene che il Marx maturo, "scientifico", abbia

abbandonato queste tesi del Marx giovane, "filosofo" troppo influenzato dalla critica che Feuerbach muove ad Hegel. Ed anche chi sostiene la tesi della continuit si trova quasi sempre a leggere il discorso di Marx sul lavoro come essenza dell'essere umano come una generalizzazione mentale, oppure come la descrizione di una realt metastorica. In quanto tale, esso andrebbe visto come la base di un giudizio - o pregiudizio, se si preferisce - filosofico, che stigmatizza la realt del capitale in quanto deviazione da una essenza, appunto, "naturale". Credo che le cose stiano molto diversamente. Che il Marx maturo trasformi ma non abbandoni la visione giovanile. Che per in questa trasformazione avvenga un mutamento di grande portata: l'universalit e la socialit del lavoro sono ora ritenuti fenomeni integralmente storici: essi fanno la loro apparizione, sia pure in forma rovesciata ed astratta, soltanto con il modo di produzione capitalistico. E' con quest'ultimo, infatti, che trovano pratica conferma il carattere sociale della produzione e la possibilit di non essere costretti permanentemente in una ed una sola attivit - elementi cruciali della definizione di quella genericit che costituisce il tratto distintivo di quel particolare ente naturale che l'essere umano. In questa luce, il discorso sul lavoro come essenza dell'essere umano non pi, come nel 1844, il fondamento di una critica filosofica ed esterna della realt esistente, ma diviene parte di una scienza che vuole totalmente immanente il punto di vista della critica. Vediamo meglio. Il luogo pi opportuno per accertare la posizione del Marx maturo , a me pare, la parte dei Grundrisse dedicata alle "forme economiche precapitalistiche". E' qui, nella discontinuit tra il mondo del capitale e ci che lo precede, che Marx sottolinea come nella storia venga a compimento quel cambiamento radicale della configurazione del rapporto tra essere umano e natura che si riflette nella realt del lavoro, e dunque

anche nella riflessione su di esso. Nelle forme economiche precapitalistiche, l'essere umano intrattiene un rapporto particolare e determinato con la natura, che irrigidisce gli stessi rapporti personali dentro i vincoli della tradizione. Prima del capitalismo, la natura non soltanto appare, ma ancora in larga misura effettivamente , una condizione esterna, non mediata, dell'attivit umana. Ne impone i ritmi, e ne segna il limite. L'agricoltura in queste condizioni il centro dell'organizzazione economica. La terra come natura presupposta al lavoro, "la principale condizione obiettiva del lavoro non si presenta essa stessa come prodotto, ma esiste come natura " (Forme economiche

precapitalistiche, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 83). Il rapporto con la terra


mediato dall'esistenza dell'individuo come membro di una comunit, ed egli deve riprodursi in questo ruolo determinato: "In tutte queste forme la riproduzione di rapporti dati in precedenza - pi o meno naturali, o anche sorti storicamente, ma divenuti tradizionali - del singolo con la propria comunit, e una esistenza che sia oggettiva,

determinata, predeterminata nei suoi confronti sia in rapporto alle


condizioni di lavoro che ai suoi collaboratori, membri della sua trib, ecc. il fondamento dello sviluppo, che fin dal principio pertanto limitato , ma con l'eliminazione delle limitazioni diventa rovina e decadenza . . . All'interno di una determinata cerchia, possono qui verificarsi grandi sviluppi. Le individualit possono apparire grandi. Ma non c' qui da pensare a uno sviluppo libero e completo n dell'individuo, n della societ, in quanto un tale sviluppo in contraddizione con il rapporto originario." (Forme, p. 86. Corsivi nel testo. Sottolineatura mia.) La divisione del lavoro in queste forme economiche, come anche nella

produzione artigianale precapitalistica, una divisione del lavoro "naturalespontanea". Il lavoro del singolo, in quanto lavoro utile, un lavoro immediatamente sociale. Ma, si badi, soltanto in quanto esso al contempo lavoro parziale in una comunit ristretta, che mira a riprodursi in quanto tale. La separazione del lavoratore dalla propriet dei mezzi di produzione, dalla terra come "laboratorio naturale", e quindi anche dai mezzi di sussistenza, per Marx una condizione storica necessaria per emancipare l'essere umano dalla destinazione ad una forma di attivit limitata, che ne fa un ente particolare, non universale. L'universalit del lavoro capitalistico va intesa in modo duplice. Si tratta, innanzitutto, del fatto che nelle nuove condizioni il lavoro diviene sociale solo attraverso la mediazione del mercato: attraverso, cio, un processo di equiparazione nello scambio, che realmente separa ed oppone il lavoro vivo del salariato - in quanto produttore di denaro, e dunque in quanto lavoro socialeastratto in potenza - rispetto ai lavori utili-concreti dei medesimi operai che sono invece immediatamente privati, e disomogenei gli uni rispetto agli altri. Ma vi anche un secondo aspetto. Una volta che la ricchezza non pi costituita dai valori d'uso, ma da una ricchezza astratta, la produzione non ha pi un limite esterno dato dalla finalizzazione al consumo della classe dominante, o dalla riproduzione di rapporti gi dati e fissi. Diviene autovalorizzazione del capitale, massimizzazione dell'estrazione del pluslavoro, produzione per la produzione. La stessa struttura tecnica della produzione viene incessantemente rivoluzionata, allo scopo di ottenere il profitto il pi elevato possibile. In tal modo, peraltro, il capitale finisce con l'infrangere all'interno della produzione stessa il legame tra lavoratore singolo e mansione lavorativa. Autonomizza la produzione capitalistica dalle abilit particolari dell'individuo - un punto che segna un vero e

proprio rovesciamento della posizione di Smith sulla divisione del lavoro. Nell'universalit del lavoro capitalistico vi dunque una doppia separazione dalla naturalit. Nello scambio generalizzato stata soppressa ogni traccia del lavoro utile, produttore di beni concreti, ed il lavoro si realmente ridotto ad una pura astrazione, a creazione di ricchezza generica. Nel processo lavorativo non vi quasi pi rapporto tra le abilit particolari dell'operaio, ormai tendenzialmente annullate o ridotte all'insignificanza, e gli specifici valori d'uso prodotti. Il modo di produzione capitalistico cos l'espressione di una contraddizione. Costituisce, per la prima volta nella storia, la societ come effettiva universalit di relazioni nello scambio; fa ci per isolando i produttori e contrapponendoli nella concorrenza. Rende il lavoro del singolo funzione della cooperazione sociale; gli impone per quest'ultima come risultato di una scienza e di una organizzazione capitalistica, di cui diviene un accessorio vivente: "quello che compera il capitalista e che il lavoratore vende il valore d'uso della capacit di lavoro, vale a dire il lavoro stesso, la forza che crea e accresce il valore. Perci la forza che crea e che accresce il valore appartiene non al lavoratore ma al capitale. Incorporandosela esso diventa vivo e comincia to work "come se avesse amore in corpo" [J.W.Goethe,

Faust, vv. 2130-2149]" (Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma


1980, p. 114) 6.2. Il lato positivo del capitale. Natura e storia in Marx. Poche altre citazioni basteranno a confermare la nostra interpretazione. Marx riprende da Smith la tesi che l'unica vera societ quella

capitalistica, e ne ammette la superiorit rispetto alle forme precedenti. Ma ne sottolinea la contraddittoriet, e la possibilit che essa apre: che l'evoluzione spontanea lasci il posto alla libera individualit, la quale fa della societ il suo progetto. "Si detto e si pu dire che il lato magnifico sta proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione naturale, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche. Altrettanto certo

che gli individui non possono subordinare a s i loro stessi nessi sociali prima di averli creati. Ma anche insulso pensare quel nesso soltanto
materiale come un nesso naturale, inscindibile dalla natura dell'individualit (in antitesi al sapere e al volere riflessi) e ad essa immanente. Esso invece ne un prodotto. E' un prodotto storico. Appartiene ad una determinata fase del suo sviluppo. L'estraneit e l'autonomia in cui esso ancora si trova rispetto a loro, dimostra soltanto che essi sono ancora presi nella creazione delle condizioni della loro vita sociale invece di averla iniziata a partire da queste condizioni. Quella naturale la connessione di individui nell'ambito di determinati e limitati rapporti di produzione di produzione. Gli individui universalmente

sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni,


sono gi assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bens della storia. Il grado e l'universalit dello

sviluppo della capacit in cui questa individualit diventa possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l'universalit, l'alienazione dell'individuo da s e dagli altri, ma anche l'universalit e l'organicit delle sue relazioni e delle sue capacit." (Grundrisse, vol I, p. 104)

Per Marx, il modo di produzione capitalistico va visto dunque come il momento di passaggio tra due fasi della storia dell'essere umano: la prima "naturale", dove nel rapporto tra l'essere umano e la natura il secondo elemento che prevale; la seconda "storica", dove predominante l'attivit dell'essere umano su una natura che, pur rimanendo esterna, per sempre pi sotto il suo dominio e la societ propriamente tale, cio generale. A queste due fasi corrispondono necessariamente due diverse configurazioni del lavoro. Nella prima, lo scopo del lavoro dettato dalla necessit naturale, mentre nella seconda posto dall'essere umano stesso (e lo stesso vale, in certa misura, per gli ostacoli che il lavoro inevitabilmente incontra). La libera individualit peraltro sociale non solo, per cos dire, a valle, ma anche a monte. Le relazioni sociali non sono soltanto il prodotto di un nuovo tipo di individualit, ma esse entrano nella sua stessa costituzione. Si tratta nuovamente di un risultato reso possibile dall'epoca borghese. Infatti, il capitalismo che nello scambio riunifica unit produttive separate ed antagonistiche, dissolve per nella produzione l'isolamento dell'individuo e ne fa un essere generale, collettivo. Marx nega, di conseguenza, tanto che lo stadio primitivo possa essere caratterizzato, come in Smith, dal "lavoro dell'uomo isolato", quanto che la divisione del lavoro si limiti a frantumarne l'unit mantenendone per immutata la natura. La storia pu piuttosto essere letta come il passaggio dal gregarismo primitivo all'autentica socialit del futuro, attraverso la fase contraddittoria dell'atomismo concorrenziale, da un lato, e della cooperazione nella produzione, come anche della solidariet tra i lavoratori, dall'altro lato:

"L'essere umano si isola attraverso il processo storico. Originariamente egli si presenta come essere sociale, tribale, animale gregario - anche se assolutamente non come uno zwon politixon nel senso politico. Lo scambio stesso uno dei mezzi principali di questo isolamento. esso rende superfluo il gregarismo e lo dissolve. Non appena le cose si svolgono in modo tale che egli in quanto individuo isolato si ponga ormai in rapporto solo con se stesso, i mezzi per affermarsi come isolato consistono per nel suo farsi essere generale e collettivo." (Forme, p. 99. Corsivi nel testo. Sottolineature mie) Che il capitalismo, giunto allo stadio del macchinismo, produca per un verso il massimo arricchimento potenziale delle capacit dei lavoratori, "liberandoli" dalle rigidit del mestiere e facendone in potenza gli ideatori e i controllori di una produzione universale, e per l'altro verso il loro massimo impoverimento, legandoli alla determinazione particolare impostagli dalla macchina di cui divengono mero strumento ed appendice, affermato a chiare lettere nel Capitale, di nuovo in implicita contrapposizione a Smith: "S' visto che la grande industria elimina tecnicamente la divisione del lavoro di tipo manifatturiero con la sua annessione d' un uomo intero ad una operazione parziale vita natural durante, mentre allo stesso tempo, la

forma capitalistica della grande industria riproduce in maniera anche pi


mostruosa quella divisione del lavoro, nella fabbrica vera e propria, mediante la trasformazione dell'operaio in accessorio consapevole e cosciente d'una macchina parziale . . . Finch l'artigianato e la manifattura costituiscono il fondamento generale della produzione sociale, la subordinazione del produttore a un ramo esclusivo della produzione, cio la distruzione della molteplicit originaria della sua occupazione, un momento necessario dello sviluppo. Su quella base ogni branca particolare

della produzione trova empiricamente la configurazione tecnica che le si conf, la perfeziona lentamente e la cristallizza rapidamente appena raggiunto un dato grado di maturazione. Quel che provoca qua e l dei cambiamenti , oltre qualche nuovo materiale di lavoro, fornito dal commercio, la graduale modificazione dello strumento di lavoro. Una volta raggiunta la forma confacente secondo l'esperienza, anche lo strumento di lavoro si irrigidisce, come dimostra il suo passare, spesso per millenni, dalle mani di una generazione in quelle della seguente. . . La industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma esistente di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione era sostanzialmente conservatrice . . . Quindi la natura della grande industria porta con s variazione del lavoro, fluidit delle funzioni, mobilit dell'operaio in tutti i sensi. Dall'altra parte essa riproduce la antica divisione del lavoro con le sue particolarit ossificate, ma nella sua forma capitalistica . . . Per essa diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosit che una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilit assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro: sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attivit che si danno il cambio l'uno con l'altro." (Il Capitale, Libro primo, 2, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 196-201)

Ben s'intende, sulla base di questa analisi, come Marx avesse elevato nei

Grundrisse un inno al capitale tale da far impallidire qualsiasi cosa scritta


da Smith.

"Perci la vecchia concezione secondo cui l'uomo anche se inteso in un senso molto limitato dal punto di vista nazionale, religioso, politico, sempre lo scopo della produzione, appare molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell'uomo e la ricchezza come scopo della produzione. Ma, in fact, una volta gettata via la limitata forma borghese, che cosa la ricchezza se non l'universalit dei bisogni, dei consumi, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz'altro presupposto che il precedente sviluppo storico, la quale rende fine a se stessa questa totalit dello sviluppo, cio dello sviluppo di tutte le forze umane, non misurate su di un metro gi dato. Nella quale l'uomo non si riproduce entro un modo determinato, ma produce la propria totalit? Dove non cerca di rimanere qualche cosa di divenuto, ma nell'assoluto movimento del divenire?" (Forme, p. 87-88. Corsivi nel testo. Sottolineature mie.) 6.3. Una filosofia della storia? Non ci aiuta ad intendere il senso della riflessione marxiana interpretarla come una ontologia, dove la critica concreta della realt sociale viene fatta dipendere da una previa comprensione speculativa del lavoro in quanto "modello" generale dell'agire umano. Non credo neanche che sia corretto leggerla come una filosofia della storia: almeno se con questo termine si intende, come d'uso per i critici di Marx, una concezione "forte", aprioristica e teleologica, che dispone le fasi dello sviluppo del genere umano secondo un ordine orientato secondo la realizzazione di un Fine, imposto dalla Ragione o dalla Materia poco importa; una concezione in

cui quindi la spiegazione si colora dei tratti della giustificazione. A questo schema Marx corrisponde altrettanto poco di Smith, Stuart Mill o Keynes, per i quali il capitalismo era un "caso", sia pure fortunato. In modo analogo, il riconoscimento da parte di Marx di un "senso" della storia, ricostruibile grazie a certe categorie generali, pi sotto il segno della possibilit che della necessit Confesso che mi sempre apparsa convincente la posizione di Alfred Schmidt, che legge in tutt'altri termini il discorso marxiano. Marx individua, a partire dalla sua analisi - scientifica e critica - di questa societ, la differenza specifica tra il capitalismo e le forme precapitalistiche di produzione, differenza consistente nel fatto che: "nel mondo preborghese il rapporto tra l'elemento naturale e lo storico rientra nel grande contesto della natura; nel mondo borghese, anche per quanto concerne la natura non ancora appropriata, quel rapporto rientra nella storia"(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari 1973, p. 171) L'attribuzione marxiana della "naturalit" alle formazioni sociali precapitalistiche data, insomma, solo nel confronto con la societ borghese, e sulla base della comprensione teorica dei moderni rapporti di produzione. Cos, anche la fase della libera individualit sociale non costituisce tanto il fine cui tende linearmente l'evoluzione sociale, ma pu essere il risultato di una prassi emancipativa: "Solo alla considerazione teoretica la modificazione di una forma si dimostra come suo sviluppo superiore pur senza esserne il necessario prodotto. Il corso della storia per Marx quindi molto meno lineare di

come viene concepito generalmente; esso non obbedisce ad alcuna idea

che ne costituisca l'unit e il senso, bens si ricompone continuamente a partire da singoli processi originali. In questo modo alla formazione della
societ borghese spetta nel materialismo dialettico un ruolo metodologicamente decisivo, in quanto a partire da essa si dischiudono

tanto il passato quanto anche le possibilit del futuro. Marx tutt'altro


che un semplice evoluzionista. Ogni momento storicamente superiore si fonda su quello inferiore, ma l'alterit qualitativa dell'inferiore rispetto al superiore che da esso scaturisce pu essere compresa soltanto quando questo momento superiore si pienamente dispiegato, ed diventato oggetto di una critica immanente"(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in

Marx, p. 171)
"Il materialismo marxiano critica alla filosofia perch attribuisce al

mondo un significato soltanto nella misura in cui gli uomini sono riusciti a realizzarlo attraverso le loro istituzioni sociali. Il materialismo rifiuta di
trasfigurare il continuo negativo della storia movendo dal concetto di una natura umana comune a tutti e immutabile o di un fondamento ontologico che il singolo dovrebbe scoprire in se stesso"(Alfred Schmidt, "Ontologia esistenziale e materialismo storico in Herbert Marcuse", in

Risposte a Marcuse , a cura di Jrgen Habermas, Laterza, Bari, p. 46).


7. Orfeo e Narciso contro Prometeo. La fuga dal lavoro.

"Un singolo essere umano, puro e semplice, non mescolato con altri esseri umani, non esiste. Ogni personalit un mondo in s, una societ di molti . . . Noi facciamo parte gli uni degli altri." Joan Rivire, "La fantasia inconscia di un mondo interno riflessa in esempi

tratti dalla letteratura", in Nuove vie della psicoanalisi, a cura di Melanie Klein, Paula Heimann, Roger Money-Kyrle, il Saggiatore, Milano 1966, pp. 460-461. 7.1. La positivit del finito. La contraddittoriet del modo di produzione capitalistico si esprime, secondo Marx, nel fatto che, bench esso misuri la ricchezza sul tempo di lavoro, ha la tendenza a ridurre al minimo il tempo di lavoro che la societ dedica alla produzione della ricchezza. Di solito, Marx viene rinchiuso dagli interpreti in posizioni estreme, entrambe caricaturali. Secondo taluni, Marx sarebbe il teorico della esaltazione del lavoro, all'interno di una visione della storia che riconduce le leggi di movimento di qualsiasi formazione sociale in un vero e proprio determinismo tecnologico, e fa del comunismo la condizione in cui si generalizza la figura del salariato. E' una tesi che ha, di fatto, attraversato tanto la Seconda quanto la Terza Internazionale. Altri ne hanno fatto, all'opposto, il teorico del rifiuto del lavoro, all'interno di una visione della rivoluzione come salto nell'assoluto. Come uscita, cio, dai limiti di un finito alienato, in cui il lavoro sarebbe costitutivamente intrappolato, allo scopo di realizzare un agire, quello s autenticamente umano, dai caratteri a priori indeterminati. Salto, dunque, dal finito all'infinito, da un lavoro condizionato ad un'attivit incondizionata. E' questa, per esempio, l'interpretazione di autori cos diversi come Franco Rodano, che ne fa la base di una critica di Marx, o come Toni Negri, che ne fa il fondamento di una apologia del sabotaggio della produzione e dell' esproprio "proletario".

Si tratta di un duplice, grottesco, travisamento della posizione di Marx. L'interpretazione "lavorista" inverte, rispetto a Marx, il nesso di causalit tra determinazioni tecniche e relazioni sociali, facendo comandare le prime sulle seconde; e non vede che in Marx la centralit della produzione e il discorso sul lavoro come essenza dell'essere umano sono antitetici, nel senso che la realizzazione del secondo pu avvenire solo in un mondo in cui la prima sia stata superata. L'interpretazione "antilavorista" compie un errore idealistico, speculare a quello oggettivistico implicito nella precedente. Confonde, infatti, oggettivazione e alienazione: il Marx di questa lettura riterrebbe che qualsiasi attivit che si svolge entro una materialit condizionante vada per ci stesso ritenuta alienante. Ma, come scrisse Claudio Napoleoni all'inizio degli anni settanta, per Marx "il finito non negativo, ma reso tale da una situazione sociale determinata. La rivoluzione, nel senso di Marx, ne risulta allora caratterizzata come la riconquista della positivit del finito, come quella riappropriazione dell'essere umano per cui il limite proprio dell'ente naturale generico, e perci del lavoro, solo limite e non anche alienazione e sfruttamento." ("Quale funzione ha avuto la Rivista Trimestrale", in Rinascita, 6 ottobre 1972) Rimane, comunque, il problema di individuare quale possa essere, in una prospettiva marxiana, la conciliazione tra riduzione del tempo di lavoro e "libero sviluppo dell'individualit", una volta che l'aumento della produttivit sociale abbia esaurito il ruolo storico della centralit della produzione. Quale, insomma, la relazione tra economia e societ, una volta superata la forma contraddittoria del capitalismo.

La riflessione pi recente dello stesso Claudio Napoleoni pu esserci anche qui di aiuto. In alcuni scritti di questo autore, infatti, viene proposta una rilettura della prospettiva marxiana di superamento del capitalismo che riprende esplicitamente le argomentazioni di Mill e Keynes. Dopo aver ribadito che: "la centralit dell'economico, da un certo punto di vista, non pu che essere constatata . . . Per, all'interno di quello che possiamo continuare a chiamare un compito, questa centralit va negata."("La libert del finito. Conversazione con Claudio Napoleoni", in Palomar. Quaderni di Porto

Venere, n. 3, 1987, p. 15)


osserva: "Questo per un discorso aperto, e allora qui vengono concetti molto delicati, come quello di 'scarsit', e il suo corrispettivo in negativo, che l'abbondanza. Insomma, l'economia come scienza della scarsit - anche questo un paradosso - stata pensata cos da chi pensava di dare una definizione generale, non connessa a un sistema sociale dato. Invece, secondo me, si potrebbe mostrare che questa definizione strettamente legata al sistema sociale dato; e che, se invece si volesse tentare una definizione non cos condizionata, bisognerebbe probabilmente pensare ad un'economia in cui il momento dell'abbondanza - perci della quiete, in qualche modo della tranquilla fruizione di ci che si conseguito - non si configura solo come necessaria base per andare avanti, ma come

pacificazione, almeno relativa, rispetto ad una certa condizione storica.


Questo concetto avrebbe altrettanta legittimit di essere elemento costitutivo di una definizione dell'economia, di quanta ne abbia la

scarsit."("La libert", pp. 15-16)

Proprio perch incapaci di intravedere una definizione diversa di economia, prosegue Napoleoni, Stuart Mill e Keynes avrebbero inteso l'uscita dal capitale come una uscita dall'economia tout court. Piuttosto, si tratterebbe di vedere che in tal modo viene a terminare solo una particolare modalit dell'economia. Un ragionamento, ed un suggerimento, suggestivi: ma che rimandano, inevitabilmente, ad un chiarimento ulteriore, che riempia di contenuto l'economia dell'abbondanza, della "tranquilla fruizione di ci che si conseguito". Vale la pena di seguire tre possibili piste, tutte in qualche modo consentite dal percorso dell'ultimo Napoleoni - anche se, come dir, le prime due non possono in alcun modo essere da sole viste come rappresentative della sua posizione. 7.2. Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? La prima possibile interpretazione quella di leggere nel recupero operato da Napoleoni della nozione greca di "schol", di contemplazione, come dimensione dell'essere umano altrettanto essenziale del lavoro, nient'altro che il rovesciamento rivoluzionario della posizione conservatrice di Augusto Del Noce. La situazione contemporanea viene definita in termini di completa secolarizzazione, e quindi di crisi dei valori tradizionali: tale crisi andrebbe intesa per non come definitivo tramonto ma come temporanea eclissi. Il "compito" di cui parla Napoleoni potrebbe allora essere ridetto in questo modo: si tratta di superare insieme la riflessione preborghese, che ritiene

che la vera umanit possa esplicarsi soltanto fuori dal lavoro, e l'assolutizzazione del lavoro realizzata dalla societ borghese. Il ruolo storico del capitale, all'interno di questa lettura, sarebbe stato quello di costruire le condizioni materiali per estendere a tutti la "schol". Il gigantesco progresso tecnico portato dall'industrialismo libera gli individui dal lavoro come sacrificio, e lo dispone ad "altro", ad attivit in senso lato spirituali. Una prospettiva non troppo dissimile dal Keynes che, chiedendosi in cosa consista la fine dell'economia, si trova a citare il vangelo di Matteo (2, 26-30): "Vedo quindi gli uomini tornare ad alcuni dei principi pi solidi ed autentici della religione e della virt tradizionali: che l'avarizia un vizio, l'esazione dell'usura una colpa, l'amore per il denaro spregevole, e che chi meno s'affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virt e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all'utile." ("Prospettive", p. 276) 7.3. Marxismo e psicoanalisi. Un nuovo principio di realt? Una seconda interpretazione, non necessariamente alternativa alla precedente, quella di vedere l'uscita dal capitalismo come la condizione del superamento della contrapposizione tra principio della realt e principio del piacere. Questa lettura pu prendere lo spunto da alcune considerazioni di Napoleoni stesso: "Io credo che una linea di ricerca molto proficua quella del

collegamento, che finora stato tentato soltanto in modo superficiale, tra il marxismo e una parte della psicoanalisi, della psicoanalisi come interpretazione della storia. C' un punto in cui avviene un possibile

congiungimento, che proprio il punto del lavoro. Il primo Freud, quello

che contrappone principio della realt e principio del piacere, si posto il problema del lavoro in maniera molto precisa, cio il problema del processo attraverso il quale, per ragioni attinenti essenzialmente alla sussistenza fisica, l'uomo abbia dovuto sviluppare una facolt - appunto il principio della realt, cio il lavoro - che stata la negazione di una altra sua facolt, con una frattura al suo interno che ha determinato, nello stesso momento, sul terreno sociale la necessit della repressione, e sul terreno della vita individuale la costituzione graduale dell'inconscio. Poi
Freud ha abbastanza cambiato le sue idee su questo terreno. Per una problematica di questo tipo molto vicina, secondo me, a quella che Marx affront gi nei Manoscritti : perch anche in Marx c' il problema del lavoro come opposto ad altre facolt, lo sviluppo delle quali viene da lui visto, non a caso, come possibile in una fase in cui il lavoro diventato meno necessario di quanto fosse all'origine." ("Marx e la critica dell'economia politica", in "An.archos", 2, 1979, pp. 104-105) Tra i "tentativi superficiali" cui fa riferimento Napoleoni vi forse da annoverare quello di un autore, cui peraltro egli ha sempre prestato molta attenzione: mi riferisco al Marcuse di Eros e civilt. Accanto al testo di Marcuse, non privo di interesse un altro libro degli anni cinquanta, dalle tesi non molto dissimili: si tratta de La vita contro la morte di Norman Brown, che dedica uno dei suoi capitoli centrali - intitolato "lo sporco denaro" - all'irrazionale razionalit dell' homo oeconomicus , e che fonda gran parte della sua argomentazione sui brani di Keynes, dalle

Conseguenze economiche della pace, che abbiamo citato. Vale la pena di


soffermarsi un attimo su questa particolare versione di marxismo psicoanalitico. Basteranno poche citazioni per cogliere il senso della filosofia della storia

proposta da Marcuse e Brown: "Per Keynes, l'arte di vivere, che in un'et di abbondanza e di tempo libero dovr prendere il posto dell'arte di accumulare i mezzi di sussistenza, un'arte difficile che richiede una raffinata sensibilit, come quella dei membri del Bloomsbury Group immortalato nell'opera di Virginia Woolf. Per questo Keynes guarda con terrore all'emancipazione dal lavoro dell'uomo comune. Ma dal punto di vista di Freud ogni uomo ha gustato il paradiso del gioco durante l'infanzia; sotto le abitudini al lavoro, in ogni uomo c' l'immortale istinto del gioco. Nell'inconscio rimosso esistono gi

le fondamenta su cui costruire l'uomo del futuro; non bisogna crearle dal
nulla, basta recuperarle." (Brown, La vita contro la morte. Il significato

psicoanalitico della storia , Garzanti, Milano 1986, p.53)


"nel nostro tentativo di mettere in luce la portata e i limiti della repressivit che domina nella civilt contemporanea, dovremo descriverla nei termini dello specifico principio della realt che ha governato le origini

e la crescita di questa civilt. Gli abbiamo dato il nome di principio di prestazione per dare rilievo al fatto che sotto il suo dominio la societ si
stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri. (Marcuse, Eros e civilt, Einaudi, Torino 1968, p. 87) "Il pretesto della penuria , che ha giustificato la repressione istituzionalizzata fin dai suoi inizi, diventa meno plausibile man mano che le conoscenze dell'uomo e il suo controllo della natura aumentano i mezzi per soddisfare i bisogni umani con una fatica minima"(Marcuse, Eros e

civilt, p. 127)
"Il regno della libert prospettato come al di l del regno della necessit

: la libert non sta nella 'lotta per l'esistenza', ma al di fuori di questa. Il possesso e la conquista dei mezzi necessari all'esistenza, sono il prerequisito, pi che il contenuto, di una societ libera. Il regno della necessit, del lavoro faticoso, manca di libert poich in questo regno l'esistenza umana determinata da obiettivi e funzioni che non le sono propri, e che non consentono il libero gioco delle facolt e dei desideri dell'uomo." (Marcuse, Eros e civilt, p. 213) "Quanto pi completa l'alienazione del lavoro, tanto maggiore il potenziale di libert: l'optimum sarebbe un'automatizzazione totale. E' la

sfera al di fuori del lavoro che determina la libert e la realizzazione, ed


la possibilit di determinare l'esistenza umana in base ai valori di questa sfera che costituisce la negazione del principio di prestazione." (Marcuse,

Eros e civilt, p. 181)


"Se Prometeo l'eroe civilizzatore della fatica, della produttivit e del progresso per mezzo della repressione, i simboli di un altro principio di realt vanno cercati al polo opposto . . . Orfeo e Narciso sono simboli di realt, esattamente come Prometeo . . . Ora siamo in grado di trovare qualche conferma della nostra interpretazione nel concetto freudiano di

narcisismo primario . . . con esso, si rivel l'archetipo di un'altra relazione


esistenziale con la realt . Il narcisismo primario pi che autoerotismo; esso assorbe l' 'ambiente' integrando l'Io narcisistico col mondo oggettivo. . . [in quanto sentimento di estensione senza limiti, e identit con l'universo (senso oceanico)] il narcisismo pu contenere il germe di un differente principio di realt."(Marcuse, Eros e civilt, p. 185-191. Corsivi nel testo; sottolineature mie) Il ragionamento chiaro. Il principio di realt viene identificato con il

principio di prestazione, cio con il lavoro. La civilt si potuta sviluppare, a partire dalla sua originaria situazione di penuria, solo in forza della repressione del principio di piacere: la desessualizzazione del corpo stata necessaria per costringere al lavoro. Ma il superamento della scarsit, determinato dallo stesso capitalismo, rende possibile lo stabilirsi del nuovo principio di realt, il ritorno del rimosso. La condizione di una societ liberata che vengano recuperati gli istinti infantili repressi, che spingono verso l'autosoddisfazione e la fusione con l'altro.

In un saggio di qualche anno fa, raccolto recentemente in volume ("Beyond Drive Theory: Object Relations and the Limits of Radical Individualism", in Theory and Society, n. 13, 1985, ora in Feminism and

Psychoanalytic Theory , Polity Press, Oxford 1989), Nancy Chodorow ha


sviluppato una critica distruttiva di queste tesi, che rivela insospettate convergenze con il filo di discorso che sto perseguendo. Secondo la Chodorow, Marcuse e Brown assolutizzano il punto di vista del bambino. In tal modo, non si rendono conto che il principio di realt non integralmente riducibile ad una civilizzazione repressiva basata sul principio di prestazione. Esso anche, ed in primo luogo, la soggettivit di altri - per il bambino, la soggettivit della madre. I bisogni degli altri divengono un problema solo per l'adulto, e nel corso del processo di crescita. Negando l'altro, si nega in primo luogo la donna. Svalutando la relazione sessuale di tipo 'genitale', Marcuse e Brown concepiscono il piacere soltanto in quanto non separazione dall'oggetto d'amore: ma proprio a partire dalla separazione che possibile l'incontro con i desideri dell'altro, che acquistano quasi la stessa importanza dei propri. Ancora, il rifiuto

dell'elemento procreativo nella sessualit (che entrambi gli autori riprendono da Nietzsche) esprime una negazione dell'esperienza della maternit (e, pi in generale, della genitorialit), la quale richiede un agire che combina razionalit teleologica, senso della realt, accoglimento dei bisogni dell'altro. La donna qui negata, dunque, tanto come soggetto di desiderio, quanto come madre-persona che insieme gratifica e limita l'onnipotenza infantile. Al pi compare - sulla scorta di Totem e tab di Freud - come oggetto sessuale (propriet comune della donna); o viene, addirittura, annullata in quanto singola ed identificata con il mondo (senso oceanico), in una fusione che configura una relazione asimmetrica di asservimento dell'altro a s. Non a caso, rileva la Chodorow, gli eroi di Marcuse e Brown sono Orfeo e Narciso: uomini che incorporano in s il femminile, ma non hanno relazioni con donne. La liberazione, in questa prospettiva di individualismo radicale, in primo luogo liberazione dall'altro, dalla donna (un individualismo da cui, sia detto tra parentesi, non sfugge, come vorrebbe, la critica che alla "cultura del narcisismo" viene da autori come Cristopher Lasch, i quali, contrariamente a Marcuse e Brown, imputano alla societ contemporanea l'allentarsi delle forme di controllo culturale tradizionale; ma in fondo non stupisce che ad un "es" asociale si contrapponga un "super-io" altrettanto asociale). Su queste basi, di rifiuto del processo di crescita e del principio di realt, il recupero del narcisismo primario difficilmente pu far da base ad una teoria della societ non individualistica, ed a suo modo repressiva. All'opposto, psicoanalisi e femminismo possono essere visti come l'affermazione di una diversa fondazione psicoanalitica per una teoria sociale alternativa: si tratta di rifarsi ad un "individualismo relazionale", che

sottolinei come gli individui siano costituiti dalle relazioni con gli altri, a partire da quella primaria con la madre. La nostra struttura psichica sin dal principio costruita socialmente. I soggetti possono sfuggire all'alternativa tra solipsismo e fusione, se accettano la separazione e una "matura dipendenza" dall'altro come condizione della propria individuazione e del perseguimento del proprio desiderio. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che tanto la visione della societ del futuro come ripresa dei valori tradizionali la Del Noce quanto il ritorno della natura istintuale la Marcuse-Brown condividono, sia pure in forma a loro peculiare, la prospettiva smithiana dell' "uomo solo". Con la specificazione, ora, che alla solitudine dell'individualismo corrisponde un genere sessuale non casualmente maschile. E si potrebbe forse aggiungere che a partire da questa diversa prospettiva, fondata su una necessaria intersoggettivit e sul ruolo cruciale della relazionalit (a partire da quella primaria e fondamentale, quella con la madre), sarebbero possibili diverse filosofie della storia. Per esempio, sarebbero possibili una visione della storia che vede nell'intersoggettivit e nella relazionalit (appunto, se si vuole, perch ha origine in un legame apparentemente "naturale" come quello madre-figli) un tratto permanente, che porta dunque a criticare tutte le filosofie che trascurano tale elemento; oppure una visione della storia che interpreta l'intersoggettivit e la relazionalit (e, addirittura, la stessa relazionalit "materna") come un prodotto storico una posizione che evidentemente finirebbe con l'intersecare le tesi di Marx.

In effetti, se il discorso su Marx che ho svolto nelle sezioni che precedono ha una qualche plausibilit, la natura umana resa possibile dal capitalismo

ha caratteri sorprendentemente simili a quelli indicati dalla Chodorow: in particolare, una essenziale socialit dell'individuo (nel lavoro), una intrinseca relazionalit, che rende ormai improponibile il paradigma dell' "uomo solo". Non pu non colpire la corrispondenza tra la descrizione che Marx d - nei suoi "Estratti dagli lmens d'conomie politique di James Mill", del 1844 - di un lavoro autenticamente umano, e quella che la Chodorow offre di una relazione sessuale e di una maternit (e paternit) mature. Sia l'una che l'altra sottolineano come l'altra persona entri in qualche misura realmente dentro di noi; come l'individuo sia, davvero, anche comunit: "Supponiamo d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualit e la sua peculiarit, ed avrei quindi goduto, nel corso dell'attivit, una manifestazione individuale della vita, cos come, contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalit come oggettuale,

sensibilmente visibile e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente nella consapevolezza di aver
soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque d'aver oggettualizzato l'essenza umana ed aver quindi procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D'essere stato per te l'

intermediario fra te ed il genere, e dunque di venir inteso e sentito da te


stesso come un'integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D'aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque d'aver confermato e realizzato immediatamente nella mia attivit la mia

vera essenza, la mia essenza comune ed umana."(Marx, Opere , vol. III, 1843-1844, Editori Riuniti, Roma, p. 247. Corsivi nel testo) Una descrizione che, d'altronde, ripetuta da Marx nei Manoscritti, con termini quasi identici, in riferimento al rapporto dell'uomo alla donna: quel rapporto "da cui si pu, dunque, giudicare ogni grado di civilt dell'uomo"; quel rapporto in cui si mostra "fino a che punto l' altro uomo come uomo divenuto un bisogno per l'uomo, e fino a che punto l'uomo, nella sua esistenza la pi individuale a un tempo comunit."(Manoscritti, p. 225. Corsivi nel testo) La visione di Marx , insomma, caratterizzata da un pessimismo non lontano da quello di Freud. L'essere umano, per vivere, deve trasformare, ma perci anche in una certa misura dominare, una natura esterna a s; il lavoro a sua volta, cio la realizzazione della propria natura storica, comporta una rinuncia al pieno dispiegarsi della propria natura istintuale. E' in questa rinuncia, peraltro, che l'essere umano pu raggiungere la sua autentica umanit - una umanit definita, come abbiamo visto, non metastoricamente, ma nell'attuale e contraddittorio svolgersi della dinamica capitalistica. E' in questa rinuncia, ancora, che l'essere umano diviene davvero un essere sociale, un individuo segnato ab origine dalle relazioni con gli altri. La prospettiva di Marx non pu allora essere la negazione del lavoro, o la sua riduzione a gioco, come vorrebbe Marcuse: semmai, la sua integrazione con le altre facolt umane, quali la contemplazione e il piacere. La libert reale non si nega ma si afferma in quel "superare gli ostacoli" che tipico del lavoro. Lo stesso lavoro caratterizzante il regno della necessit - le necessit della riproduzione materiale al livello dato

delle forze produttive e delle relazioni sociali - pu divenire lavoro libero, autorealizzazione dell'individuo: "Il lavoro di produzione materiale pu acquistare questo carattere solamente 1) se posto il suo carattere sociale, 2) se di carattere

scientifico, e al tempo stesso lavoro universale, se sforzo dell'uomo


non come forza naturale appositamente addestrata, bens come soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma meramente naturale, primitiva, ma come attivit regolatrice di tutte le forze naturali." (Grundrisse, II, p. 278-279) L'atto d'accusa di Marx al capitalismo , appunto, quello di avere creato le condizioni di possibilit di questo sviluppo universale e relazionale dell'essere umano, mentre al tempo stesso ne impedisce la realizzazione. La societ contro cui Marx si scaglia non schiaccia i diritti dei lavoratori: pi radicalmente, ne violenta la natura. E', in questo senso - ormai del tutto alieno alla filosofia politica anglosassone - una societ non giusta. Un punto colto lucidamente da un'autrice estranea al canone classico del marxismo, come Simone Weil. Il linguaggio dei diritti, scrive, pu forse essere adeguato al rapporto tra acquirente e venditore sul mercato delle merci. Non alla condizione del lavoratore dentro la fabbrica nel regime attuale, in tutto analoga a quella di una giovane donna condotta al bordello: "chiunque parlasse in tal caso dei suoi diritti utilizzerebbe una parola che suona ridicolmente inadeguata." ("La Personne et le sacr", in

Ecrits de Londres et drnieres lettres, Gallimard, Paris 1957)

8. Dobbiamo disperare? Ancora su Marx, tra macchine e antagonismo.

"Compito della conoscenza : non capitolare dinanzi alla realt, che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poich la conoscenza rimette in vita i processi storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realt un prodotto degli uomini e perci trasformabile: cos il concetto pi importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica" Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx , Laterza, Bari 1973, p. 189

Vorrei proporre una terza interpretazione del suggerimento di Napoleoni che individua come "compito" una ridefinizione della nozione stessa di economia; una interpretazione in sintonia con quel Marx che mantiene al lavoro, anche materiale, un ruolo essenziale oltre il capitalismo. Si pu partire da questo giudizio, contenuto nello stesso testo in cui quel suggerimento avanzato: "La produzione come dominio la 'fissazione' in senso psicotico; l'ossessione del superamento di ogni e possibile scarsit: sempre, senza che questo abbia fine. Ecco: qui c' proprio la possibilit di un momento di riflessione razionale; e quindi di ricostruzione di un'economia - e perci

di una regola - che si dovrebbe dare all'intenzionalit morale - che


comunque non pu mancare ogni volta che si parla di 'compito' - un

punto di riferimento che non sia solo uno scatenamento soggettivistico."


(La libert del finito, p. 23) Come intendere questa "regola" - questo principio di realt, dunque, che

non si contrappone, ma nemmeno si identifica, con il principio di piacere, configurando uno 'scatenamento soggettivistico'? Credo si tratti di intendere questa "regola" in continuit con queste altre osservazioni che Napoleoni formula, proprio criticando la visione di Stuart Mill e di Keynes di una fine del primato dell'economico da intendersi come uscita dal lavoro: "Che il lavoro sia un fatto puramente negativo, un mero costo, rispetto al quale non si potrebbe porre altro problema che quello di liberarsene, un'immagine che sorge appunto sulla base della storia data. Se questa storia viene criticata, se quindi non si pensa che essa sia stata l'espressione compiuta delle facolt umane, allora si pu pervenire all'idea che il lavoro non soltanto potrebbe essere cosa diversa da ci che stato finora, ma potrebbe anzi essere l'attivit mediante la quale l'uomo si realizza nella sua 'libert e felicit'. Entro questa impostazione, lo stesso processo di 'liberazione' dal lavoro a cui il capitalismo darebbe luogo . . . comporta un giudizio diverso da quelli che si portati a dare sulla base di un'impostazione, per intendersi, smithiana: si dovrebbe infatti dire che ci a cui quel processo perverrebbe sarebbe una situazione di 'tempo libero' che gli uomini, appunto perch negati nella loro personalit quando lavorano, non saprebbero come riempire, fino a giungere (e l'esperienza dei paesi pi sviluppati ne d una conferma) alla disperazione. Questo significa che il traguardo di un lavoro come attivit libera e realizzatrice (che, come tale, potrebbe addirittura diventare, nell'immagine datane da Marx, il 'primo bisogno') non dovrebbe essere spostato in un futuro indeterminato, ma dovrebbe essere preparato fin da ora." (Elementi di

Economia politica, 3 edizione, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 219-220)


Una diversa economia presuppone, al tempo stesso, un lavoro diverso e

un diverso "consumo" - una diversa produzione, insomma, la condizione di un autentico recupero delle dimensioni della contemplazione e del piacere. Credo che quest'ultima lettura sia la pi fedele alle intenzioni di Napoleoni. Pure, penso che non sia senza significato che anche le precedenti interpretazioni abbiano comunque una qualche plausibilit. Le oscillazioni del Napoleoni pi recente trovano infatti la loro origine in difficolt della posizione di Marx, e nel particolare contesto storico-sociale in cui ci troviamo. Per quanto riguarda Marx, si tratta di ci. Un lavoro diverso nel "regno della necessit" richiede per lui che i soggetti siano in grado di riappropriarsi della propria produttivit sociale alienata al capitale, del sapere sociale generale, che si erge loro contro nella forma di macchine usate capitalisticamente allo scopo di estrarre il massimo possibile di plusvalore. Marx, ovviamente, sa benissimo che l'introduzione delle macchine determinata dall'antagonismo fondamentale tra capitale e lavoro. La ricchezza capitalistica il pluslavoro, il tempo di lavoro vivo erogato dai lavoratori produttivi in eccesso rispetto al lavoro oggettivato nel salario reale che essi percepiscono: ma perch questa ricchezza sia ottenuta, il capitalista deve garantirsi sia che il lavoro sia effettivamente prestato, sia che sussista una differenza "soddisfacente" tra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro. Le macchine sono appunto disegnate in modo da sottrarre il pi possibile agli operai il controllo della prestazione lavorativa trasferendolo all'impresa, e da consentire lo sfruttamento massimo. Se le cose stanno cos, per, ci si pu chiedere in che misura sia possibile distinguere tra un uso capitalistico ed un uso non capitalistico delle macchine. Come Marx stesso sembra sospettare, il processo storico che ha

dato nascita ad un determinato tipo di base tecnica della produzione segna quest'ultima in modo indelebile. "Quelle" macchine non potranno essere impiegate altrimenti che per il dominio delle cose sull'essere umano. D'altro canto, si potrebbe sostenere con molte ragioni che la missione storica del capitale la costituzione delle condizioni del lavoro sociale non dal lato oggettivo - dal lato della scienza e della tecnica - ma dal lato soggettivo. L' "individuo relazionale" costruito nella produzione non sarebbe allora altri che il lavoratore, non in quanto singolo ma in quanto collettivit solidale che lotta per l'eguaglianza e l'autonomia contro il meccanismo sociale che lo sfrutta. Se si vuole: l'unico comunismo realmente conosciuto il tempo libero, l'ozio produttivo, la dignit, riconquistati qui ed ora, dentro e fuori dai luoghi di lavoro, da chi ha lottato contro un sistema che annulla le soggettivit. Un comunismo la cui legge di movimento stata sinora quella di procedere attraverso sconfitte. Ma qui la difficolt si presenta in altra forma: il processo capitalistico, che nasce dall'antagonismo, tende per sistematicamente ad abolirlo. Da questo punto di vista, Marx non pu che dar ragione a Ricardo: immanente al sistema capitalistico il periodico tentativo di ridurre il lavoratore ad elemento della produzione in tutto analogo al bestiame; a merce che produce altre merci. La realt italiana degli anni ottanta pu essere interpretata come un'illustrazione storica esemplare di tutto ci. Ha rivelato nei fatti la capacit del sistema capitalistico di abbattere una opposizione operaia interna ed antagonistica al processo produzione della ricchezza sociale. Lo strumento di questa distruzione di soggettivit stato un salto tecnologico. E' il "progresso" nel sistema di macchine ad avere non

soltanto espulso donne e uomini dalla fabbrica, ma ad avere ridotto ad atomo chi vi rimaneva. Su questo sfondo, non stupisce che la prospettiva marxiana di integrazione tra lavoro e bisogni vada persa; che il soggetto possa essere recuperato solo fuori dal lavoro. Ma non detto, come oggi troppo facilmente si pensa, che sia una strada senza ritorno. La liberazione di tempo per la societ cui stiamo assistendo si fonda, come altre volte nella storia del capitale, su quella negazione di umanit dentro il processo di produzione materiale che , a detta di Simone Weil, un autentico sacrilegio compiuto sulla carne e lo spirito dei lavoratori. La domanda che essa si pose all'inizio degli anni trenta ancora la nostra: "Dobbiamo disperare, allora?". Cos, credo, deve esserlo la sua risposta: "Certamente, non ce ne mancherebbero le ragioni . . . ma, d'altro canto, la nostra debolezza pu impedirci di vincere, ma non di comprendere la forza da cui siamo abbattuti. Nulla al mondo pu impedirci di pensare chiaramente." (Simone Weil, "Perspectives. Allons nous vers la rvolution proltarienne?" in Rvolution proltarienne, n. 158, 25 agosto 1933).

Riccardo Bellofiore Dipartimento di Scienze Economiche, Universit di Bergamo

Nota bibliografica

Pu essere di qualche utilit indicare i testi che pi strettamente mi sono stati di ausilio nel delineare il percorso logico della mia argomentazione. Un contributo di grande rilievo sui temi qui trattati il capitolo "Economia e filosofia" di Claudio Napoleoni, in Filosofia. Storia del pensiero

occidentale, diretta da Emanuele Severino, Armando Curcio editore, Milano


1987. Di Napoleoni, come ovvio, ho anche tenuto presente il capitolo su Smith in Smith, Ricardo, Marx, Boringhieri, Torino 1970. La mia lettura di Smith - che non ha esclusivamente pretese di maggiore correttezza filologica, ma anche e soprattutto l'obiettivo di illuminare aspetti del suo pensiero centrali e pure trascurati dalla vulgata liberista ha come riferimento principale pi la letteratura secondaria sull'economista scozzese prodotta da filosofi politici, antropologi, e storici, che non le interpretazioni avanzate tra gli economisti. Si vedano, per esempio, per quanto riguarda i filosofi politici Wealth and Virtue. The

Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, edited by


Istvan Hont e Michael Ignatieff, Cambridge University Press, Cambridge 1983 (di Ignatieff va citato anche lo splendido I bisogni degli altri. Saggio

sull'arte di essere uomini tra individualismo e solidariet, Il Mulino Bologna


1986), che vede nella "mano invisibile" ci che concilia disuguaglianza sociale e assistenza ai pi poveri; e per quanto riguarda gli antropologi Louis Dumont, Homo aequalis. 1. Genesi e trionfo dell'ideologia

economica, Adelphi, Milano 1984 (ed. orig. 1977), il quale individua in


Smith una tensione tra un momento ontologico e naturalistico che rimanda al primato della produzione e del lavoro dell'uomo isolato, e un momento sociale in cui il valore di scambio determinato sul mercato. Tra i numerosi lavori di storici, segnalo in particolare Maxine Berg, The age

of manufactures. Industry, innovation and work in Britain 1700-1820,


Fontana Press, London 1985, per quanto riguarda la questione delle diverse vie all'industrializzazione, e E.A.Wrigley, People, Cities and Wealth.

The Transformation of Traditional Society, Blackwell, Oxford 1987, per


quanto riguarda i limiti naturali allo sviluppo. Parte da questi due testi l'ottima rassegna critica di Maria Luisa Pesante, "La rivoluzione industriale, gli storici, e la ingannevole concretezza dei classici", in Metamorfosi, seconda serie, n. 8, 1988 (di Pesante ho anche tenuto presente - non soltanto per quanto riguarda le sezioni su Smith, ma anche quella dedicata a John Stuart Mill e a John Maynard Keynes - il non facile ma stimolante

Economia e politica, Franco Angeli, Milano 1986). Va visto anche, pur con
qualche forzatura, David McNally, Political Economy and the Rise of

Capitalism. A Reinterpretation, University of California Press, Berkeley 1988,


che a partire dalle posizioni controverse di Robert Brenner sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo vede in Smith piuttosto il campione di un capitalismo agrario che non l'interprete della rivoluzione industriale.

Tra le analisi di Smith avanzate da economisti me ne sono state utili due che non a caso fanno storia a s: quella ormai classica di Giulio Pietranera,

La teoria del valore e dello sviluppo capitalistico in Adam Smith, Feltrinelli,


Milano 1963, e quella pi recente di Carlo Benetti, Smith. La teoria

economica della societ mercantile, Etas, Milano 1979. Un'attenzione alle


molteplici sfaccettature della filosofia morale di Smith suggerita da Amartya Sen, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988 (ed. orig. 1987). Il lettore economista intuir una qualche consonanza tra quanto sostengo e quanto scrive Albert O. Hirschman, "Interpretazioni rivali della societ di mercato: civilizzatrice, distruttiva o debole?", in Idem, L'economia politica

come scienza morale e sociale, con un saggio di Luca Meldolesi, Liguori,


Napoli 1987, per quanto riguarda in particolare la tesi del doux commerce e la tesi dell'autodistruzione (su questo libro, e su Hirschman pi in generale, si veda la mia recensione su questa rivista, "Hirschman: domande e inquietudini", Teoria politica, n. 1, 1988). Ovviamente, di Hirschman rimane fondamentale il suo Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in

favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano 1979 (ed.
orig. 1977), recentemente ristampato. Un cenno va fatto anche all'articolo di Nathan Rosenberg, "La divisione del lavoro in Adam Smith: due concezioni o una?", originariamente apparso su Economica nel 1965 e ora incluso in L'economia classica. Origini e sviluppo (1750-1848), a cura di Riccardo Faucci ed Enzo Pesciarelli, Feltrinelli, Milano 1976. Due monografie di impianto marxiano muovono anch'esse alcuni passi in direzione della linea che ho esposto. Si tratta di Norman Fischer, Economy

and Self. Philosophy and Economics from the Mercantilists to Marx,


Greenwood Press, Westport, Connecticut 1979, e soprattutto, di David Levine, "Political Economy and the Argument for Inequality", numero

monografico di una rivista americana molto valida ma poco conosciuta (Social Concept, September 1985). Si vedano anche, sulla stessa rivista, i commenti al saggio di Levine di Anna Yeatman e Greeg O. Kvistad (June 1986), ed il dibattito tra David Gleicher e David F. Weiman sulle origini della teoria classica del valore (March 1985). Su Stuart Mill, a parte i testi gi richiamati, va vista soprattutto l'introduzione di Giacomo Becattini ai Principi di economia politica, Utet, Torino 1983. Per quanto riguarda Keynes, pur nella differenza di alcune valutazioni mi stato di notevole stimolo lo scritto di una anglista: Alessandra Marzola, Retorica e immaginario nel discorso economico e

politico di J.M.Keynes, raccolto in AA.VV., L'altro Keynes: linguaggio ed economia, Pierluigi Lubrina editore, Bergamo 1990. Tra Stuart Mill e
Keynes salta agli occhi l'assenza (del tutto ingiustificata) di Alfred Marshall, che pure alle questioni qui trattate dedic non poco spazio nella sua riflessione. Anche in questo caso rimando a Giacomo Becattini, "Mercato e comunismo in Alfred Marshall", in Teoria dei sistemi economici, a cura di Bruno Jossa, Utet, Torino 1989. Qualche ragione ha invece la non considerazione di Karl Polanyi, la cui critica all'identificazione della nozione di economia (valida per societ non di mercato) con il concetto di "economico" (modellato sulle categorie della scienza economica) segnala una rottura pi drastica con la problematica smithiana di quanto non sia il caso degli altri autori analizzati. La trattazione anche di Marshall e Polanyi avrebbe allungato eccessivamente un articolo gi non breve. La sezione su Marx riprende e sviluppa alcune tesi che avevo gi sostenuto in "Il concetto di lavoro in Marx", in Ricerche economiche, n. 34, 1979, e in "L'enigma del lavoro", Collegamenti, n. 23-24, 1989, dove si trovano pi dettagliati riferimenti bibliografici. L'interpretazione che

avanzo, oltre che ai lavori di Alfred Schmidt, si appoggia sulla ricostruzione della teoria marxiana suggerita nei primi anni settanta da Lucio Colletti e da Claudio Napoleoni in scritti largamente noti (ho provato a dare una sintesi delle posizioni del Napoleoni di quel periodo in Un programma di

ricerca incompiuto. La ripresa dell'economia politica critica in Claudio Napoleoni: 1970-1976, relazione al Convegno "La lezione di Claudio
Napoleoni. Politiche, teorie economiche, e critica dell'economia", Rovigo, 27-28 maggio, di prossima pubblicazione, a cui rimando per ulteriori indicazioni bibliografiche). Debbo per almeno ricordare la lucida introduzione di Cristina Pennavaja a Karl Marx, L'analisi della forma di

valore, Laterza, Roma-Bari 1976, che sottolinea l'importanza della


distinzione marxiana tra "divisione del lavoro naturale-spontanea" e "divisione del lavoro naturale-spontanea sociale". Pi in generale, questa introduzione un ottimo frutto di una fase di rinascita di studi marxisti in Italia sull'onda delle traduzioni di lavori fondamentali quali quelli di Rubin, Rosdolsky, Reichelt, Sohn-Rethel, Krahl, Backhaus; fase ormai lontana, e che contrasta con la superficialit della discussione attuale. Sulla concezione della storia di Marx sono di grande chiarezza le poche pagine del capitolo "Social change" contenute nel volume di Wal Suchting, Karl

Marx: An Introduction, Wheatsheaf Books, Brighton 1983.


La tensione tra un Marx affascinato dal dinamismo esasperato e distruttore del capitalismo e un Marx critico dell'atomizzazione borghese, cui egli contrappone un agire collettivo e i vincoli comunitari prodotti contraddittoriamente dallo stesso capitalismo, deve molto al bel libro di Marshall Berman, L'esperienza della modernit, Il Mulino, Bologna 1985 (ed. orig. 1982). La "soluzione" che suggerisco alla contraddizione individuata da Berman - "se la visione globale della modernit [di Marx] esatta, perch le forme di comunit prodotte dall'industria capitalistica

dovrebbero rivelarsi pi solide di qualsiasi altro prodotto capitalistico? Tali collettivit non potrebbero dimostrarsi, come qualsiasi altro elemento di questo contesto, meramente temporanee, provvisorie, forgiate per invecchiare?" - consiste proprio nella possibilit e desiderabilit che la comunit operaia antagonista si percepisca quale , cio autodissolventesi essa stessa, e sia dunque capace di far spazio all'altro da s, in significativo contrasto con la totalit capitalistica. E' una soluzione che non fa altro che sviluppare un suggerimento dello stesso Marx in "La sacra famiglia" ("Se vince, il proletariato non diventa perci il lato assoluto della societ; infatti esso vince solo togliendo se stesso e il suo opposto"), e che ripropone l'autentico nodo problematico della teoria politica comunista: la necessit cio di tenere insieme la centralit del lavoro salariato nella teoria della crisi sociale del capitalismo, riconoscendo la "gerarchia" reale presente nell'attuale costituzione della societ, e la pari dignit dei soggetti quale base materiale di una autentica democrazia - qualcosa che fa confusamente capolino nel dibattito attuale su eguaglianza e differenze. Un inquadramento delle diverse posizioni di Claudio Napoleoni che richiamo nel testo all'interno del suo itinerario di riflessione lo si pu trovare nei miei "Un economista critico. Il percorso intellettuale di Claudio Napoleoni", in Rivista di storia economica, n. 1, 1989, e "Un' economia politica per la liberazione", in Il Ponte, n. 3-4, 1989. La posizione conservatrice di Augusto Del Noce ha una nitida presentazione in

Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano.


L'interpretazione di Franco Rodano soprattutto consegnata agli articoli pubblicati sulla Rivista trimestrale. Tra i molti scritti di Toni Negri in cui viene condotta una lettura antilavorista di Marx segnalo per tutti Marx

oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano.

La parte finale del mio scritto molto influenzata, come reso del tutto esplicito, da alcune tesi di Simone Weil, di cui, oltre ai testi citati nel testo, vale la pena di vedere nella stessa linea: Riflessioni sulle cause della libert

e dell'oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983 (ed. orig. 1955), e la


recensione a Materialismo e empiriocriticismo di Lenin, originariamente pubblicato in La Critique sociale, n. 10, 1933, e ora ristampato in Simone Weil, Oeuvres compltes, II, crits historiques et politiques, tome I:

L'engagement syndical (1927-juillet 1934), Gallimard, Paris 1988. Sul piano


interpretativo mi sono stati utili il saggio di Anna Scattigno, "La volont di conoscere", originariamente comparso in Memoria, n. 5, 1982, e ora ripubblicato in Paola Melchiori-Anna Scattigno, Simone Weil. Il pensiero e

l'esperienza del femminile, la salamandra, Milano 1986 (si tratta della pi


equilibrata e attenta introduzione al pensiero della Weil di cui sono a conoscenza), e Peter Winch, Simone Weil. "The just balance", Cambridge University Press, Cambridge, 1989. Quest'ultimo testo mette bene in luce la differenza, e addirittura la possibile opposizione, tra una visione della filosofia politica incentrata sul linguaggio dei "diritti", quale quella del filone oggi egemone e di cui l'esponente pi noto John Rawls, ruotante attorno ad una nozione astratta ed astorica del "contratto sociale" stipulato da soggetti autointeressati e calcolanti dietro un 'velo di ignoranza', e il linguaggio della "giustizia" di cui invece parla la Weil, che rimanda piuttosto in senso forte ad una nozione di "natura umana" e alla contingenza storica. Una visione della filosofia morale che recupera anch'essa la nozione di natura umana, con un minore piglio polemico nei confronti della tradizione liberale di quanto sia nella Weil, l'ho ritrovata in due libri di Richard Norman, che mi sono stati di molto aiuto: The Moral Philosophers.

An Introduction to Ethics, Clarendon Press, Oxford 1983, e Free and Equal.

A Philosophical Examination of Political Values, Clarendon Press, Oxford


1987. Le ultime sezioni di questo lavoro sono anche state influenzate dal giudizio di Hannah Arendt, che condivido, secondo cui non potrebbe certamente esserci niente di peggio di una societ di lavoratori senza lavoro (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, ed. orig. 1958, p. 5), giudizio che per lei impiega erroneamente. Ad Hannah Arendt si deve anche il termine "ozio produttivo", che utilizzo per designare i momenti di liberazione che configurano oggi il solo comunismo possibile.

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