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Queste note nascono come rielaborazione personale di uno scambio di idee tra amici, a margine del convegno grossetano

dedicato al lavoro di Roberto Ferretti sulla stregoneria in Maremma. Col tempo ne venuto fuori uno zibaldone piuttosto voluminoso e discontinuo, in cui ho cercato soprattutto di fare un po di ordine nel mio personale sistema di credenze. Non avendo una reputazione scientifica da tutelare ho preferito evitare un approccio crudamente dottrinale per il quale non sarei comunque attrezzato -, lasciando che il discorso mi portasse dove meglio credeva, e fosse quello che fosse. Daltra parte sono convinto che leccesso di dottrina finisce per perdere in profondit quello che acquista in chiarezza e simmetria, e che ci sono cose troppo importanti per essere lasciate del tutto ai professori delle universit ed ai tecnicismi accademici. Questa la prima parte, poi si vedr

SUL VENIRE APPESI DA VIVI ALLALBERO DEI MORTI


crestomazia relativista Valerio Fusi

its a lesson too late for the learning made of sand, made of sand

Tumoana Kotore Whakairi Oratia, in breve Tuwhakairiora, venne chiamato cos perch era stato appeso allalbero dei morti che era ancora vivo. Un anno, sarebbe dovuto stare a marcire l sopra, e poi lavrebbero trasferito nel luogo definitivo del suo riposo. Ma lui era soltanto addormentato, e quando si risvegli, da sopra quellalbero cominci a chiamare che lo tirassero gi. Cos i suoi parenti tornarono indietro e se lo riportarono a casa, dove visse ancora per lungo tempo. Per questo fu chiamato Whakairi ( colui che stato sollevato pi o meno) e Oratia (vivo). Ma oratia un passivo, cos almeno dicono le grammatiche, e whaka un prefisso causativo, anche questo dicono le grammatiche, vale a dire lopposto di un passivo. Pu darsi che non disponendo di risorse pi appropriate, il maori abbia voluto dar conto della condizione di passivit appoggiandola allo

stativo ora (o forse ha visto bene, considerando pi il risultato che latto dellappendere), anche se forse poteva pi ragionevolmente rimediare apponendo il suffisso passivante al verbo causativo, cosa che si pu fare (come ogni altra lingua, il maori pu fare tutto quello che gli sembra sensato, se ha un senso per lui e per chi lo ascolta). Di sicuro ogni maori che abbia sentito pronunciare quel nome ne avr capito perfettamente il significato, e probabilmente avr immaginato soltanto da quello anche una parte della storia. Dove mettere un passivo Fatto sta che i maori mettono i passivi un po dove capita (oltre che, spesso, anche nei posti che a noi sembrano giusti, naturalmente), e ne mettono talmente tanti che i verbi attivi sono in netta minoranza nel loro discorso; e il prefisso causativo, anche quello lo mettono un po dappertutto. E fanno con grande naturalezza anche una quantit di altre cose, con la loro lingua, che a noi risultano assai strane. In particolare i maori sono molto sensibili a tutta la grammatica (e al lessico, e alla sintassi) dellazione, e non mancano mai di segnalare con molta precisione i modi in cui si genera, si sviluppa, si amministra, si relaziona, si potenzia e si depotenzia, si distribuisce nel mondo e tra gli uomini. In un certo senso quello che a nostro modo facciamo anche noi, naturalmente, ma il nostro modo di farlo ci cos naturale che neanche ce ne rendiamo conto, e possiamo notarlo solo per contrasto, per comparazione, quando entriamo in contatto con un idioma cos diverso dal nostro, che tratta nella maniera pi imprevedibile (o addirittura ignora) gli oggetti e le norme linguistiche che a noi stanno pi a cuore (in termini di senso), e presta assoluta attenzione a fatti per noi irrilevanti. I tempi, i modi e le persone, i generi, i deittici, i numerali, i possessivi: quasi tutto, a guardar bene. Le avventure della prima persona singolare Ma c anche un altro interessante insegnamento indiretto che possiamo ricavare dalla vicenda di Tu che fu appeso ancora vivo: Mohi Turei, che lha raccontata per primo, il reverendo Mohi Turei della trib degli Ngati Hokopu, cos accurato ed efficace nel descrivere i fatti di questa storia, non si curava, per converso, di distinguere stabilmente le persone verbali nel racconto, e parlava di Tu qualche volta alla terza persona, e qualche volta alla prima, come se lui stesso fosse Tu. La storia alla fine risulta altrettanto comprensibile (ammesso che concordiamo preventivamente sulla quantit di dati comuni che deve

essere ammessa perch una cosa sia ritenuta comprensibile, e la soglia di rilevanza accettabile per ciascuno di quei dati), ma assume per il lettore occidentale un aroma indefinibile e bizzarro, quasi come se il mondo che l viene descritto ne risultasse sfuocato, spiazzante, e insieme trasmettesse tuttavia la senzazione di possedere una coerenza e una solidit sue proprie. Daltra parte gi Ernst Cassirer aveva sottolineato la curiosa tendenza di certe societ primitive ad attribuire piuttosto vagamente la responsabilit e le coordinate temporali delle azioni individuali, rifacendosi al noto aneddoto raccolto da Elsdon Best secondo il quale un guerriero maori poteva sostenere di aver sconfitto il proprio nemico intendendo in perfetta buona fede - che la sua gente, svariati decenni prima, aveva sbaragliato una trib ostile. Lamico Pritz Laneddoto, come tutti quelli di questo tipo nella letteratura antropologica delle origini, da prendersi con molta cautela, ovviamente, ma una quantit di altre fonti ed esempi specifici non fanno che indicarci tutti questa stessa problematica: nella comunit maori c, insieme, un processo di identificazione del singolo con la dimensione sociale (tribale, familiare) di appartenenza, e, allinterno di questa, una percezione solo moderatamente differenziata di personalit, agenzia, responsabilit, possesso, ecc. E quindi insieme a questo, in conseguenza di questo, una percepibile, differente collocazione (e messa in valore) nel tempo delle esperienze private e collettive, ammesso che esperienza, privato e collettivo (e tanto pi valore) siano termini a cui un maori avrebbe potuto riconoscere una legittimit semantica di qualche genere. Ancora J. Pritz Johansen - misconosciuto e geniale studioso del mondo mentale maori a cui ha nuociuto laver scritto in danese la maggior parte dei suoi lavori ricorda come il maori facesse uso della prima persona verbale (quello che Pritz chiama l ego tribale) riferendosi ai suoi antenati mitici ed alle loro gesta, e come gli risultasse naturale rappresentare a s stesso le azioni del presente nei termini degli eventi leggendari del passato. Cosa pensa un maori Certo non mi sentirei di sostenere che questi di cui parlano Pritz, e Cassirer, e Best, siano dati di fatto, bench forse loro ne fossero in qualche modo convinti. Si tratta piuttosto di tentativi di descrivere, di rendere - allinterno di un racconto - il senso, la percezione di qualcosa che nel nostro mondo, nel mondo della nostra esperienza,

non esiste, o esiste in forme sostanzialmente differenti. Forse non possiamo dire che cosa veramente pensi un maori, ma certo avvertiamo chiaramente che il suo modo di pensare qualcosa di (molto) diverso dal nostro (ammesso che il termine pensare abbia un senso qualsiasi nel contesto della sua esperienza). La percezione di questa diversit, la presa datto della irriducibilit di quel pensiero al nostro, produce uno stato di inquietudine mentale, e origina quella che Rodney Needham definisce perplessit essenziale - cio quel senso di stupore, o meraviglia, o spaesamento ( ihi, si dice in maori, ma anche in questo caso non si tratta davvero esattamente della stessa cosa), che nei laici non altro che un sentimento grezzo e pre-scientifico, ma rappresenta per un antropologo il movente ineffabile della propria passione scientifica e professionale. La differenza, allora La differenza, allora. La differenza propriamente ci di cui ci parla lantropologia, il suo oggetto delezione, il suo motto araldico, e il suo rovello epistemologico. La differenza origina un dualismo concettualmente insopportabile. Scoprire che le cose funzionano per gli altri in un modo diverso da come funzionano per noi - pur continuando, appunto, a funzionare e che il loro funzionare si origina (e d origine) a spiegazioni del mondo diverse (anche sorprendentemente diverse) da quella che pensiamo buona per noi stessi, invita lantropologo (ma anche luomo comune, ammesso che lantropologo non sia un uomo comune) a riflettere sul contenuto di verit di quelle cose, di quel funzionare, e insieme sul contenuto di verit delle cose del suo proprio mondo e del loro funzionare. Perch il discorso dellantropologo, cos come quello di ogni scienziato (vale a dire quel tipo particolare di professionista che occupa il proprio tempo cercando spiegazioni di ordine generale), ha proprio quello come scopo: la ricerca della verit. I suoi moventi, la sua inquietudine conoscitiva a quello che si devono: il bisogno di identificare una verit. E quella che vuole, in nome di quella che parla. La sua convinzione, il suo credere in quello che dice, il suo affidarsi ad un discorso, nascono dalla consapevolezza, o dal desiderio, di dire la verit, di conoscere la verit, di parlare in nome della verit. Un po crudo La verit, allora. Detta cos crudamente la cosa fa una certa impressione, in un tempo in cui anche i ragazzi sanno quanto poco

credito si debba dare a questa parola in contesti epistemologici un minimo avvertiti. La filosofia ci ha insegnato come sia ingenuo affidarsi ad un concetto cos ingannevolmente autoevidente e insidiosamente apodittico, senza aver praticato prima una adeguata igiene linguistica e concettuale. E per questo che ogni filosofo sa bene come si debba trattare della verit, ed per questo che i dizionari e le enciclopedie filosofiche non fanno che allinearne una quantit di definizioni molto sofisticate e per lo pi incompatibili o incommensurabili: la verit come corrispondenza, come coerenza, come conformit, la verit ontologica, esistenziale, semantica, logica, ecc. ecc. Ma quando avremo enumerato una per una le definizioni che ce ne danno quei repertori, ed esaurito il catalogo, ci accorgeremo che tutta questa complessa classificazione ci pu insegnare solo ad essere pi cauti, pi pessimisti probabilmente, nellaffidarci al nostro linguaggio naturale. Non ci offre davvero una linea di condotta praticabile per il nostro lavoro. Livree Non ci offre cio proprio quello di cui abbiamo bisogno, quello di cui ha bisogno lantropologo, come qualsiasi altro scienziato. Qualcosa da cui partire, e insieme una pietra di paragone, uno sfondo opaco di contro al quale possa dare un senso e rappresentare la sua visione, e la sua interpretazione, dei mondi che vuole descrivere, e insieme del suo proprio mondo. In questo contesto lindecidibilit, leccesso di complessit, le aporie concettuali di cui lastricato il discorso sulla verit non possono che essere dannose, pericolose persino. Lo sono per lantropologo, e a ben vedere non servono neanche al filosofo, una volta che anche lui debba dismettere la sua livrea, e sedersi a tavola con gli altri. Anche il filosofo dovr tornare a casa, prima o poi, e togliersi le scarpe, distendersi su un letto. Anche lui deve prendere un treno in orario, e si aspetta ragionevolmente che il mondo che frequenta sia vero, sia veramente quello che a lui sembra che sia. La sua filosofia non gli insegna un modo diverso di allacciarsi le scarpe, non ha influenza sulla sua vita di tutti i giorni, nei suoi elementari moventi e comportamenti, che per lui si svolge come se non ci fosse altro che quella, cos come accade a tutti noi. E cos perch deve essere cos, perch a un certo punto c un lavoro da fare, decisioni da prendere, strade da imboccare, e bisogna fare ognuna di queste cose come se: come se il mondo fosse davvero quello che sembra a noi. Lo scienziato deve essere un filosofo ingenuo, per essere scienziato:

deve credere ad una verit, deve credere nella possibilit della verit, senza farsi troppe domande. Per quelle, pensa, ci sar tempo dopo, ed fiducioso che alla fine i conti torneranno. Come stanno veramente le cose Per il filosofo, almeno da questo punto di vista, le cose non sono cos complicate: quando ha formulato la sua filosofia, il filosofo ha gi fatto il proprio lavoro. Ma invece proprio da l che lantropologo deve cominciare, perch il suo discorso deve descrivere, deve rappresentare la differenza: diversamente dal filosofo, lantropologo deve dare una senso di verit a quello che dice, vale a dire deve comunicare ai suoi lettori - con fatti, con prove, con argomenti convincenti e coerenti, con strategie affabulatorie (o anche con la pura e semplice propaganda, a voler credere a Feyerabend) - la sensazione che le cose stanno davvero come lui dice, che quei mondi, quegli uomini, quelle lingue che descrive sono in effetti come lui li descrive, che quelle bizzarrie, quei comportamenti apparentemente assurdi, quelle pratiche ripugnanti, quei folli costumi e tutto il resto hanno in fin dei conti un senso comprensibile per gli uomini uguali a lui, quelli che condividono con lui il suo stesso mondo mentale (che come dire il suo mondo, tout court), leggono gli stessi libri, frequentano le stesse scuole, osservano lo stesso orrido tipo di televisione, siedono a tavola con lui e ripetono come lui lo stesso gesto, a sera, quando si tolgono le scarpe per stendersi su un letto. Un gioco di specchi La verit, appunto. E questo lo spartiacque che rende cruciale il discorso sulla differenza, perch la verit ha a che fare con la nostra vita, con le nostre certezze, con le rassicuranti architetture sulle quali abbiamo allestito il nostro mondo, alle quali abbiamo affidato la nostra esistenza. E per questo che la differenza va concettualizzata, esorcizzata, domata: perch la differenza innanzitutto una sfida a ci da cui differisce, un dubbio sulla verit di quello in cui abbiamo deciso di credere, in cui ci stato insegnato a credere e a cui non possiamo fare a meno di credere. Cos la differenza per essere maneggiata ha da essere collocata dufficio nel letto di Procuste della Verit, reclutata nella sua intollerante compagine, e pu essere tollerata, accettata, compresa e persino concettualizzata solo se la sua perturbante alterit accetta di venire a patti con la ontologia totalitaria di ci che vero:

assolutamente, indubitabilmente, necessariamente vero. Per questa ragione c un tipo di differenza buona, domestica, ed una intrattabile e bandita, maligna, come accade per i tumori. Se la verit una sola, e non pu essere che cos, le facce molteplici della differenza devono essere ricondotte a quella unicit in cui tutte si possano riflettere, come in uno specchio frantumato, appunto, che in ognuno dei suoi frammenti rimanda sempre la stessa immagine; o uno specchio deformato, in cui ogni punto dellimmagine corrisponde comunque ad un punto di ci che riflesso; o lo specchio del paese delle meraviglie, che pu essere attraversato, ma al di l del quale il mondo semplicemente rovesciato. Per quanto ostico, per quanto deforme, il volto della Verit che quegli specchi rimandano comunque, appunto, qualcosa a cui si rimanda: una pietra di paragone, un punto di partenza rispetto al quale la differenza possa essere addomesticata e resa trattabile. Minerve Perch il discorso sulla differenza, come ogni altro discorso, non si produce dal nulla. Come Minerva dalla testa di Giove, il discorso nasce gi armato di tutto punto da una mente che gi conosce il suo mondo, e da un occhio che gi ha deciso cosa deve vedere. E questa mente che pone le condizioni, che accerta la differenza come qualcosa che altro da s, che fissa i confini allinterno dei quali pu essere convenientemente apprezzata, allinterno dei quali si possono definire le condizioni di identit e di divergenza, la loro misura e i margini rispettivi di tolleranza. Perch prima ancora di pensare la differenza abbiamo gi deciso chi siamo, cosa vogliamo, di cosa ci interessa discutere e in che termini vogliamo discuterne, e che tipo di soddisfazione ci aspettiamo di trarne. Abbiamo deciso dove vogliamo arrivare, per quanto ci compiaciamo di credere di star vagando senza meta; in nome di che cosa parliamo e con quale scopo. La verit, insomma: quella gi la conosciamo. Pensavamo di esserci messi in cammino alla sua ricerca, ed era lei invece, per tutto il tempo, il nostro compagno di viaggio. In questo contesto la differenza non pi un pericolo, non fa pi paura: ci sorprende, ci affascina, spesso ci inquieta, ma nei mondi ai quali ci introduce riconosciamo la stessa aria di famiglia, lo stesso paradigma che fa del nostro mondo quello che . E per questo che il dilemma tra relativismo e universalismo, il conflitto, il dualismo originario della materia antropologica, il suo enigma fondativo soltanto, a ben vedere, un conflitto retorico che

risolto prima ancora di essere posto come problema, risolto nel momento stesso in cui viene posto come problema. Per speculum in enigmata Il relativismo lantimateria concettuale; tutti sanno bene dove si trova, ma nessuno in condizione di andarci, e comunque la maggior parte non lo desidera. Come la Medusa del mito greco, possibile avvicinarlo solo in modo indiretto, volgendogli le spalle e osservandone attraverso uno specchio limmagine rovesciata, che quella di un universalismo frustrato e sconfitto dalle sue contraddizioni, dalla impossibilit di applicare a s stesso le sue proprie leggi. A ben vedere, in fondo, la visione universalista non meno esposta di quella relativista alla contraddizione ed allaporia, bench in questo caso esse vengano - in genere - minimizzate o caritatevolmente ignorate per necessit di bottega. Per questo necessario, come dice Wittgenstein nel suo snervante linguaggio apodittico, che ad un certo punto le spiegazioni si interrompano. Perch ad un certo punto si deve pur vivere, e per vivere servono leggi, norme, statuti, descrizioni, discorsi praticabili, verit: tutte cose prive di fondamento, ma allo stesso tempo fondamenti indispensabili della nostra vita quotidiana, prima ancora che strumenti professionali dello scienziato. Cos succede un po come in quei cartoni animati dove si vede qualcuno camminare nel vuoto perch non si accorto di non avere pi la terra sotto i piedi. E se pure accade qualche volta che un filosofo, o un antropologo, ci mostrino quel vuoto, se accade di avvertirlo nella differenza irriducibile delle culture aliene con cui veniamo in contatto, non possiamo fare altro che continuare a camminarci dentro come se niente fosse, o al pi con quel brivido mentale che coglie chiunque davanti alle soglie del sacro. Camminare nel vuoto Nessuno pu fare a meno del fondamento, perch senza fondamento non si pu vivere, ma allo stesso tempo nessuno pu affidarsi del tutto al fondamento, perch il fondamento non pu permettersi il tenore di vita cognitivo che assicura invece alle fabbriche concettuali che vi si costruiscono sopra. E allora, per quanto poco appetibile, la sola via praticabile quella ossimora del fondamento debole, lopzione caritatevole e ipocrita (e fallace, naturalmente) che ci fa dire che le cose, il mondo in cui

viviamo, in cui crediamo, s fondato, ma un poco, soltanto un poco. E anche se la scelta dellipotesi debole altro non che il tentivo di venire a patti con limpraticabilit di quella forte, mascherandola sotto laspetto benigno e pi digeribile di una adesione dubitosa e con riserva, quella comunque lunica scelta percorribile. E cos e non pu essere altro che cos. Lalternativa del relativismo ontologico, dello scetticismo radicale, bench epistemologicamente potente e in ultima istanza imbattibile, non consente di costruire o comunicare un discorso qualsiasi, e nemmeno argomentabile logicamente, nemmeno rappresentabile. La realt sta nellocchio di chi guarda Dire come stanno le cose - che lequivalente colloquiale del dire la verit non che un indispensabile autoinganno, perch nessuno pu avere certezza che le cose di cui ciascuno di noi parla siano davvero le stesse per chi ascolta, e perch le cose non stanno, non possiedono una configurazione oggettiva che sia loro propria in quanto cose, in quanto fatti, non sono gli oggetti mentali che riteniamo che siano quando li rappresentiamo attraverso un linguaggio che struttura la comunicazione esclusivamente per oggetti. Mohi Turei, nel descrivere quella vicenda di appesi vivi, non si poneva nessuno di questi problemi, lui pensava semplicemente, raccontando la sua storia, di dire la verit. N pi n meno. E la stessa cosa che capita a noi quando raccontiamo i fatti nostri: della verit di quei fatti che diamo testimonianza, della loro corrispondenza a ci che riteniamo effettivamente accaduto, del nostro credere al loro essere fatti. La verit: chi racconta si colloca in una postura mentale di credenza, di affidamento implicito rispetto a quello che racconta, ritiene che quei fatti siano veri, ed solo in relazione alla loro potenziale credibilit [cio al loro essere coerenti con lorizzonte di intelligibilit del mondo in cui si ritiene di vivere, e con la persistenza e la solidit delle strutture concettuali che lo rendono nostro, che ci danno agio nel viverci], alla loro potenziale veridicit [cio al loro essere ricompresi allinterno di uno scenario condiviso ed indiscusso di verit e di realt] che chi ascolta si dispone ad ascoltare. Enters Wittgenstein (fluorish) Cominciamo da qui: qui si pu solo descrivere e dire: cos la vita umana

Questo dice Wittgenstein in una pagina di quello che Pietro Clemente chiama il libretto grigio (daltra parte non c gi un blue book e un brown book?), quelle Note sul ramo doro, libretto che qualcuno ha trovato aureo, bench non sempre sia detto che tutto ci che riluce debba esserlo. Quella frase serve a Wittgenstein per rifiutare, con quella sintesi alquanto apodittica e un poco oracolare che gli abituale, linsieme delle spiegazioni che potremmo definire storico-genetiche: le spiegazioni di Frazer, le spiegazioni in antropologia (nellantropologia del tempo di Wittgenstein, almeno), ma pi in generale la spiegazione in quanto tale. Certo, che la vita umana, la sua essenza ( cos la vita umana), possa essere racchiusa in una descrizione, uno scenario ( si vorrebbe dire: ha avuto luogo questo e questaltro evento, ridine se puoi), qualcosa insomma che risulti da una collazione di dati dellesperienza ( basta comporre correttamente quello che si sa, senza aggiungervi altro, perch subito si produca quel senso di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione ) una ottima notizia, perch ci permette, tanto per cominciare, di dissolvere in una sola mossa tutti i dubbi di cui si detto pi sopra, ma anche di risparmiare una quantit di penoso lavoro storico e filologico del quale avremmo sempre voluto fare a meno, e che ora diviene inutile, almeno per i nostri scopi. Per quello che mi riguarda, ho tentato anchio di comporre correttamente quello che sapevo, ma temo di non essere riuscito a sperimentare quel senso di soddisfazione di cui parla Wittgenstein. Forse quello che sapevo non era abbastanza, forse non lho composto correttamente. Ma certo il risultato stato del tutto linverso: quello che so, messo insieme in qualche modo, tutto quello che so a fronte di tutto quello che vorrei sapere - a fronte, ancora una volta, di una spiegazione - mi crea solo disagio, e quella sensazione di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione, quella rassicurante epifania del senso e dellagio cognitivo, rifiuta ostinatamente di prodursi. La coda del diavolo Forse manca qualcosa, in questo scenario. La spiegazione, qualunque cosa sia, solo uno dei corni della questione. Ha poco senso domandarsi a quali condizioni una spiegazione possa essere adeguata, possa produrre quella sensazione di soddisfazione che si diceva, se non ci rendiamo conto che quella stessa soddisfazione che cerchiamo nella risposta gi codificata nella domanda alla quale la spiegazione dovr corrispondere.

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Ci dovremmo chiedere allora se il porre la domanda, latto stesso di individuare un problema come problema, di classificarlo come tale, non si origini dallaver preso possesso preventivamente della risposta possibile, quanto a tipologia e natura, dallaver costruito a partire da quella la nostra domanda. Non sono le risposte pertinenti, le spiegazioni adeguate che ci mancano. Quello che manca, quello che dobbiamo accettare senza una spiegazione (appunto), la ragione della domanda, il suo fondamento, la sua ontologia, il suo darsi come originatrice e produttrice di senso. E da questa assenza che si genera una sensazione perturbante di rovesciamento, limpressione inevitabile che in qualche modo siano state le risposte a venire per prime, e sopra di queste, a partire da queste, si siano poi formulate tutte le domande, e poi ancora la domanda per eccellenza, la domanda senza risposta. Si pu ammettere, si pu perfino desiderare che una domanda non abbia risposta, ma a condizione che continui ad essere, comunque, una domanda, che al vuoto di quella risposta che manca si opponga il pieno di una interrogazione (I may not know the answer, but I do believe the plan, dice il poeta, che come noto sa sempre meglio dei filosofi dove il diavolo tenga la coda). Quello che non si pu ammettere che qualcosa stia l, in quel pieno, senza essere una domanda, perch questo offende la necessit che le cose abbiano un senso, il rendersi indispensabile che ogni cosa abbia un valore e una spiegazione, perch anche il mondo, infine, divenga qualcosa che pu essere spiegato, perch si possa tenere a bada la morte. Una soluzione di compromesso Cos Wittgenstein non pu fare di meglio, anche lui, che accreditare la stessa domanda, e a partire da questa offrirci la sua risposta (una soluzione, una spiegazione), e anche lui, come tutti quelli che lo hanno preceduto e seguito, ci promette che ne saremo soddisfatti, ci intima di esserne soddisfatti. Per lantropologo in cerca di una validazione filosofica, epistemologica del proprio operato professionale la proposta di Wittgenstein risulta quanto mai appetibile e liberatoria, poich legittima e riconcilia i due fondamentali e (paradossalmente) contraddittori moventi della sua passione scientifica: lattrazione, il fascino che esercita su di lui la stupefacente relativit delle culture (che in un certo senso la ragione prima del suo interesse) di contro ad una implicita, radicata, inattaccabile fiducia nella loro intelligibilit (che la condizione di base per il suo lavoro). Da una parte lo sconcerto, il vero e proprio shock ontologico che

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prova di fronte alla variet, alla (apparentemente) irriducibile diversit delle altre culture, e dallaltra la sua propria professione, le sue scelte di vita, il suo posto nella societ e nellordinamento del sapere, lo strumento della sua personale sopravvivenza, che gli impongono di vedere s stesso (e di proporsi) come un traduttore, un interprete, uno scopritore di leggi, o niente del tutto. Certo cos invece tutto pi facile, perch la descrizione di Wittgenstein (o per meglio dire, una delle possibili interpretazioni della sua idea di descrizione, perch quel testo non poi cos limpido e coerente come si potrebbe credere) si offre come una alternativa gordiana alle ubbie epistemologiche dellantropologo amletico. Un uomo straordinario La descrizione soddisfacente che Wittgenstein sostituisce a questo tipo di approccio niente pi che una presa di atto dei modi in cui una cultura agisce, e la constatazione che questo agire contiene in s tutto quello che c da sapere su questa cultura. Letnografia si prende cos in un certo senso la rivincita sullantropologia: una etnografia inquieta e carica di suggestioni filosofiche, trasfigurata dal compito che gli viene cos affidato di testimoniare il radicale umano (lo spirito delluomo al suo risvegliarsi), ma invariata nella sua natura originariamente, essenzialmente descrittiva. Un lasciapassare per i territori impervi del relativismo radicale, ma allo stesso tempo una opzione intransigente contro ogni tentazione ottimisticamente evoluzionistica dellepistemologia antropologica. Non solo di quella ormai abbandonata, ma sempre in vigile attesa di essere revocata in scena del vecchio Fraser (in cui pi esplicitamente si manifesta limposizione delle strutture mentali e concettuali dellosservante agli eventi e ai dati ai fatti - osservati), ma ad ogni possibile epistemologia che si alimenti esclusivamente o soprattutto di nessi causali e storici, che appoggi sulla ricerca genealogica di ragioni la individuazione di un senso e le condizioni di intelligibilit di una cultura. In fondo lha detto Wittgenstein, un uomo cos dice Rodney Needham - straordinario che tutto ha previsto e spiegato. La descrizione sta nellocchio di chi guarda E per descrizione una parola difficile a trattarsi, bench appaia talmente innocua che anche uno che la sa cos lunga come Wittgenstein pu finire per farne un uso cos disinvolto. La descrizione sta nellocchio di chi guarda (quasi tutto, in fondo, sta

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in quellocchio): la descrizione, sembra superfluo dirlo, prima ancora di essere descrizione innanzitutto una spiegazione implicita, presuppone una spiegazione che gi data, un modo di guardare che ha gi scelto cosa guardare, come e perch guardare, ed il suo uno sguardo gi compromesso, che vede solo quello che si aspetta di vedere, solo quello che gli lasciano vedere gli strumenti che ha a disposizione. Non un cannocchiale, n un microscopio: qualcosa come una lente colorata, piuttosto, o un filtro ottico che riduce al suo proprio linguaggio, ai suoi sensori, ai suoi mezzi ed alle sue idee il mondo l fuori di cui vuole rendere conto. E poi cosa davvero quello che si sa, il dato elementare presuntamente autoevidente che dovremmo comporre correttamente nella nostra descrizione, se non unaltra descrizione ancora? Non un dato primario, cio, ma di nuovo qualcosa che si produce per mezzo della composizione di altri dati. Dovremmo allora risalire indietro di un altro livello, o di altri livelli ancora, nel tentativo di disintegrare la nostra descrizione in parti sempre pi piccole, fino a che non si palesi quellunit primaria e indivisibile, la cosa in s che deve essere composta correttamente per dare luogo alla nostra descrizione veridica? Una teoria atomica, e ancora un processo regressivo potenzialmente infinito, uno di quelli da cui Wittgenstein - ma non solo lui - ci ha sempre messo in guardia. Ecco allora dov il problema della descrizione, non nellinnocua paroletta, nella sua asettica, volenterosa semantica: il problema ci che ritiene di descrivere, il mondo l fuori che lidea stessa di descrizione presuppone: un sustrato universale, compatto e solido che si tratta semplicemente di fare emergere alla rappresentazione, qualcosa che c di sicuro, diamine, perch si pu toccare, e ricostruire con i mezzi che abbiamo a disposizione, come fa il cieco nel riconoscere i lineamenti delle persone. Geometrie Non saprei dire che faccia abbia per Wittgenstein il suo mondo, il mondo in cui crede, quello che sufficiente descrivere, componendo correttamente ci che se ne sa, perch sia possibile raggiungere lo stato di soddisfazione che ricerchiamo nella spiegazione. Ma certo si tratta ancora una volta di uno di quei mondi in fondo ai quali - a dispetto della variet stravagante delle culture e delle loro fastidiosa tendenza allopacit riluce pur sempre un barlume universale (lo spirito umano), che lo redime e lo rende comprensibile.

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In fondo ci troviamo ancora allinterno una logica tutta comparativa e, a ben vedere, solo geometricamente alternativa a quella di Frazer: l la pretesa della risalita verticale della spiegazione attraverso i secoli e il progresso della storia, qui la linea orizzontale che unisce il principio inconsutile dellumano estrapolandolo intatto dalle pi disparate concezioni del mondo. Lennesima epifania del diamante gnoseologico: il nucleo puro, cristallino e perfetto che si estrae per progressiva eliminazione delle scorie. A conti fatti, allora, da un punto di vista di principio il mondo di Wittgenstein, dove losservatore raggiunge lo stato di agio mentale nello sperimentare una percezione di umanit condivisa con losservato, non pare troppo diverso da quello implicito nellanelito genealogico dellantropologo ingenuo - cos colorato e sensibile alle suggestioni ed ai collegamenti storici, alle analogie ed alle genealogie, alle discendenze, alle filogenesi, alle arie di famiglia - nel quale la comparazione tra sedimenti di storie diverse allinterno di uno stesso fenomeno culturale produce alla fine un identico risultato, estraendo da quella variet un principio essenziale, comune di qualit umana. Cos tutti e due ritengono allo stesso modo di avere regolato i conti con quella domanda che si diceva, la domanda per eccellenza, la domanda senza risposta, quello che W.H. Auden (ancora!) chiama il pantocratico enigma: chi sei tu e perch? La filogenesi ripete lontogenesi. In effetti quello che davvero disturba Wittgenstein nella lezione di Frazer non tanto il principio storico-genealogico, quanto soprattutto limplicito contenuto evoluzionistico su cui si appoggia, lidea di un progresso dallerrore alla verit codificato nella incomparabile complessit del moderno a fronte dei mondi selvaggi e primordiali dai quali ha preso avvio. Non la storia in s, la filiazione, la progressione, ma piuttosto la pretesa che attraverso di essa si sviluppi (esca dal viluppo) pi pienamente, si esplichi (si decomprima) interamente, giunga insomma a compimento e completezza qualcosa che era soltanto presupposto, informe e fetale. Depurata da questo pregiudizio, dice Wittgenstein, anche lipotesi evolutiva posso considerarla come nientaltro che un travestimento di una connessione formale . In fondo, aggiunge, la spiegazione storica, la spiegazione come ipotesi di sviluppo solo un modo di raccogliere i dati della loro sinossi La filogenesi ripete lontogenesi, ma non vi aggiunge niente di pi. Quandoquidem dormitat?

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La spiegazione storico genetica (quandanche depurata dal pregiudizio evoluzionistico) pi che sbagliata, si dimostra inutile, perch non fa che rimandare ad unaltra configurazione interrogante identica a quella di cui vorrebbe darsi ragione. Il programma di Wittgenstein un altro: il programma di un occhio che vuole conoscere il mondo nel suo centro, nella sua essenza attraverso la chiarezza e la trasparenza delle strutture, che resta laddove e vuol sempre conoscere le stessa cosa[ Osservazioni filosofiche] Ricercare la chiarezza e la trasparenza delle strutture, conoscere lessenza del mondo: il sogno degli universalisti. Scoprire quello che impressiona lo spirito umano al suo risveglio , come scrive nel libretto grigio. Wittgenstein allora pare convinto che ci sia uno spirito umano: non ci dice che cosa sia, tanto gli sembra ovvio (bench poche righe pi sopra non abbia esitato a definire ghost un termine superstizioso). Un principio in cui si manifesta lunit essenziale dellumano, in un certo senso immateriale, trascendente, un principio comune di tutta la specie. E questo spirito qualunque cosa sia - soggetto ad impressionarsi, a reagire a ci che fuori di lui, e il suo impressionarsi presumibilmente la sua principale qualit, la sua modalit esistenziale, il suo modo di rapportarsi al mondo. [Lo spirito umano si risveglia: vuol dire quindi che gli capita anche di dormire, qualche volta? Oppure con quella curiosa espressione Wittgenstein ha voluto rendere in metafora lidea della nascita, di un originario apparire allorizzonte del mondo e della vita, laurora, il determinarsi delluomo in quanto uomo, delluomo universale?] Come il Cid Campeador Quindi quello che impressiona Wittgenstein nellaneddotica frazeriana e antropologica in generale questa originaria comunit di spirito, o di quello che sia, di un principio unificante che caratterizza lumano in quanto umano. E trova in questa sostanziale comunit del primitivo con luomo moderno una originaria comunit naturale, priva di evoluzione. Per questo Wittgensein rileva laffinit sostanziale che ci rende identici ai selvaggi in quanto partecipi ab origine della stessa natura, quella struttura che compito dellantropologo rendere chiara e trasparente. Quando Wittgenstein scriveva le sue note, pi o meno allinizio degli anni 30, molta dellantropologia e certo il senso comune - del suo tempo condivideva ancora la visione evoluzionista e lapproccio antiquario di Frazer, rispetto ai quali il punto di vista delle note sul

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Ramo doro risulta singolarmente penetrante e innovativo. Oggi, senza dubbio, con il sofisticato senno del poi della moderna epistemologia antropologica, la sua posizione pu essere rubricata come una forma attenuata di relativismo sorretta da una buona dose di ottimismo gnoseologico. Una cosa, cio, a cui ci ha abituato tutta la pi recente antropologia, che ha abbandonato gran parte delle onnipotenti illusioni frazeriane ma tradisce la nostalgia della sua sicurezza e della sua soddisfatta percezione di verit. Unantropologia flebile, che per forza di cose dovuta venire a patti con le proprie aporie epistemologiche. Vale la pena di insistere su questo punto, perch riguarda uno dei centri problematici della disciplina, il nodo irrisolto del rapporto tra storia e tradizione, e del ruolo del progresso e dellevoluzione nelle culture. In questa disputa non stupisce che qualcuno possa essere tentato di inscrivere dufficio Wittgenstein nel suo albero genealogico, per indurlo a patrocinare il proprio punto di vista. In fondo, se pu capitare di venire appesi da vivi allalbero dei morti, non stupir che qualcuno possa essere issato da morto su un cavallo da guerra, come il Cid Campeador, per fare da spauracchio nella battaglia, come se fosse ancora vivo. Wittgenstein, Frazer e altre creature fantastiche Ma poi vero che le severe osservazioni di Wittgenstein e lorientamento prevalente della moderna antropologia hanno tolto del tutto credibilit al metodo di Frazer? Limpressione che nonostante la critica dissolvente e inevitabile a cui stato sottoposto, una parte del suo lavoro non necessariamente la pi originale, ma certo la pi suggestiva continui ad esercitare un certa influenza sugli studi. E questo perch Frazer ha sistematizzato ed epitomizzato un approccio comparativo che inscritto geneticamente nella natura del sapere antropologico, nei suoi moventi e suggestioni, e nella sua peculiare ricerca di verit. Per questo sembra cos difficile dire davvero addio a quel vecchio maestro, per quanto si possa ironizzare sulle sue debolezze e la sua ingenuit. Cos difficile che anche Carlo Ginzburg, nella sua Storia Notturna, ha dovuto rassegnarsi a riammetterlo per la porta di servizio, salvo poi, una volta entrato, lasciare che la facesse da padrone. Lidea non era quella, naturalmente. Lidea a sentire Ginzburg era di mandare Frazer a lezione da Wittgenstein, renderlo presentabile in societ nonostante le sue cattive maniere a tavola.

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Ma questo particolare matrimonio dinteresse ha generato alla fine solo una chimera paradossale, che ha la testa adamantina delluno e lo stomaco accogliente, le tenebrose viscere innervate dellaltro, e sembra niente pi che il prodotto di una strategia affabulatoria allestita per gestire una contraddizione. In effetti tutto il lavoro di Ginzburg, tutta la sua ricerca, una tipica impresa storico-genealogica, che deve a Frazer molto pi di quello che ha preso da Wittgenstein. Lo stesso paradigma indiziario a ben vedere sembra poco pi che un elegante sinonimo per ben note, tradizionali e altrimenti sdegnate prassi deduttive e comparative: un altro ovvio algoritmo genealogico. Cos a conti fatti aver letto Wittgenstein non ha impedito al Frazer di Ginzburg di continuare a togliersi le sue soddisfazioni, girando in lungo e in largo per il mondo e indietro nel tempo alla ricerca dei suoi gemelli perduti. ergo? E questa la passione del genealogista, il suo obiettivo principe: risalire per gradi al grado zero, al punto di origine. E l che lui trova il suo agio, che sperimenta quel senso di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione. Ma come Wittgenstein aveva capito da subito, il semplice movente eziologico, la ricollocazione del tradizionale in una sequenza culturale che lo ricongiunga e lo redima in un prius storicamente documentabile, cogliendone lisomorfismo con il rito ancestrale quando anche filologicamente ineccepibile - non fa che spostare su un altro piano la stessa domanda, alla quale non sa offrire che risposte tautologiche: post hoc, ergo propter hoc. Una postura evemeristica che condivide con letimologista, al quale lo accomuna anche lillusione di poter sublimare i significati puri attraverso il regresso lineare, il processo inverso, la restituzione mediante lindizio. In tal modo il tradizionale viene paradossalmente collocato al centro di un duplice movimento, inverso e complementare: da una parte la visione retrospettiva lo individua come relitto, residuo corrotto di una originaria purezza di strutture e di senso, dallaltra invece come il primordio bruto di un approccio al mondo che il progresso dello spirito umano si incaricato di correggere e rendere razionale. Arie di famiglia Bench espresso in questi termini crudi il paradigma genealogico risulti indigeribile per molta della smaliziata epistemologia

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contemporanea, se ne danno tuttavia versioni alternative pi convincenti, che godono di una singolare longevit e persistenza, e gli assicurano una dignitosa sopravvivenza nellambiente ostile dellantropologia post moderna. Perch il principio evolutivo, il progresso magnifico dallerrore alla verit non una modalit intrinseca allo scorrere tempo, n lunico approccio praticabile nellinterpretazione della storia. E un plusvalore tutto culturale che pu essere refutato e dismesso senza che si debba rinunciare ad una comprensione dinsieme della scansione temporale in cui inevitabilmente cifrata la percezione del nostro mondo. C qualcosa, infine, un sostrato, un nucleo meno solubile nella polarit retrogada dello sguardo, una vocazione ed una spinta implicita; qualcosa che nonostante tutto, e inaspettatamente, ricollega Frazer a Wittgenstein, a dispetto degli esiti opposti a cui li conducono le rispettive premesse. In fondo, s stato cos facile sbarazzarsi dellingenuo etnocentrismo di Frazer, rimane ancora da fare i conti con la sostanza temporale di cui impastata la tradizione, e i riti, e la natura stessa della cultura; rimane ancora da fare i conti con la terribile fascinazione di quel vecchio re che, ansioso, aspetta nella foresta il giovane pretendente venuto per ucciderlo, come accade ai leoni nella savana. E questo alla fine che colpisce Frazer, e Wittgenstein, e colpisce anche noi, questo che impressiona il nostro spirito questo che vogliamo sentirci dire: scoprire il percorso fino alla nostra soddisfatta esperienza quotidiana di quella primitiva traccia animale che si annida tra i solchi della nostra coscienza, nel substrato primordiale della corteccia cerebrale, avvicinarci a quel nucleo inspiegabile del comportamento che ci fa muovere come i leoni nella savana, o come insetti in un termitaio, dal quale siamo insieme attratti e ripugnati. E scoprire cosa c che infine ci ha reso, ci rende, diversi - se qualcosa ci rende diversi -, rivendicare la qualit umana del nostro modo di essere specie animale, e insieme la comunit universale e atemporale dellumano. Terribile e maestoso C davvero qualcosa di terribile e di maestoso, come direbbe Wittgenstein, qualcosa che davvero impressiona il nostro spirito in questa percezione cruda di affinit, in questo riconoscersi attraverso il tempo e attraverso i mondi pure cos distanti dei nostri alleli e precursori, il gioco ambiguo e misterioso di differenze e affinit che rappresenta insieme la materia elettiva dellantropologia e il suo primo movente. Daltra parte, se il risveglio dello spirito umano che vogliamo

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cogliere, il suo apparire allorizzonte, la sua aurora e i suoi primordi, bisogner pure che la freccia del tempo mostri il suo lavoro, bisogner pure che lo sguardo possa volgersi indietro, pi indietro possibile. Certo, come dice Pietro Clemente, nella notte dei tempi c tanto di quel buio che non ci si vede niente. Eppure, procedendo a tentoni in quel buio, pu capitare talvolta - a chi cerchi la chiarezza e la trasparenza delle strutture - di mettere le mani ben pi che su qualche remoto rito ancestrale che spieghi senza spiegare il perch delle nostre imbarazzanti tradizioni, ma di avvicinarci alla radice stessa che quei riti condividono con le nostra esperienza di uomini contemporanei, quella radice attraverso cui vorremmo conoscere il mondo nel suo centro, nella sua essenza. E per questo che se pure conviene muoversi con circospezione in quella notte, non detto che si debba rifiutarne sempre e comunque la sfida, anche perch in fondo altrettanto consigliabile diffidare pure di certi flebili crepuscoli epistemologici, nei quali accade talvolta che il tenue bagliore di una lucciola venga preso per la luce rischiarante di una lanterna. Una passione da antiquari In questo contesto, e a queste condizioni, la genealogia conserva un senso ed una funzione, e cos pure la filologia e la critica del testo, che di essa sono gli strumenti dordinanza, e sarebbe sbagliato considerarle semplicemente come un lusso superfluo per lantropologia, o una passione inconcludente di antiquari. In fondo non si deve sottovalutare il plusvalore di verit che la filologia pu produrre a sostegno della appropriatezza e perspicuit delle interpretazioni antropologiche, se non altro per ridurne il grado di fallacia e la eccessiva prontezza nel riconoscere strutture chiare e trasparenti dove non c altro, talvolta, che un qualche idioletto evenementale. Un aneddoto personale minimo, ma molto appropriato, servir a chiarire meglio questo punto di vista. Tagliare il roast beef a Wellington Lavorando ad una ricerca sullalimentazione tradizionale, una mia collega maori si chiedeva la ragione per cui sua madre, e sua nonna, e sua bisnonna prima di loro - tutte della whanau Tuhoe - ripetessero ogni volta loperazione di separare le due estremit da un pezzo di roast beef appena acquistato, prima di riporlo in frigorifero. Immaginando in questo la sopravvivenza di una qualche ritualit ancestrale, filtrata chiss come nel moderno costume dei Tuhoe

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qualcosa come lofferta sacrificale al dio Tane di una parte della cacciagione -, la mia amica intervist sul fatto prima sua madre a poi sua nonna, ma entrambe non seppero dare altra risposta che era cos che avevano imparato a fare e da sempre avevano visto fare in famiglia. Fu poi la bisnonna a sciogliere lenigma, spiegando che la ghiacciaia che la famiglia possedeva prima della guerra era troppo piccola per contenere il roast beef nel formato in cui lo si vendeva a Wellington. Labitudine aveva prodotto un circuito rituale minore in cui aveva continuato a sopravvivere come deriva anche quando la famiglia pot permettersi frigoriferi abbastanza capienti da rendere inutile loperazione. Bench minimale, laneddoto rende bene la lezione, e pu suggerire come qualche volta la prospettiva genealogica possa rendere pi appropriato quello che si sa, aumentarne il contenuto di verit, aiutandoci a comporlo correttamente, magari anche senza che ci sia necessit di risalire fino alla notte dei tempi. Non c antropologia senza racconto Se la descrizione la fonte della conoscenza antropologica, il metodo che consente di comporre correttamente quello che sappiamo del mondo, il racconto la forma elettiva della descrizione antropologica. Non c antropologia senza racconto: descriviamo raccontando, costruiamo la nostra descrizione allinterno di un processo narrativo che, come tutte le narrazioni, si struttura e si definisce attraverso una sua retorica peculiare. E questa retorica non puramente e semplicemente uno stile comunicativo e discorsivo, una forma prosodica ininfluente e indipendente dai contenuti che esprime (se mai esistono forme del genere). E piuttosto forma nel senso di stampo, un altro letto di Procuste nel quale la materia incandescente di quello che si sa viene fatta raffreddare in una composizione ritenuta corretta. La retorica la descrizione. Il medium il messaggio. Ma cosa quello che si sa per lantrolopologia? Di che cosa lantropologo pu dire: questo quello che so? I dati, insoma: prima di cominciare il suo racconto, lantropologo deve aver raccolto i suoi dati, e ha bisogno di essere certo che quei dati siano corretti, siano veri almeno in una qualche accezione praticabile del termine. Siano cio dati nel senso pi candidamente etimologico della parola: qualcosa appunto che dato, un presupposto, una condizione, qualcosa che cera gi prima dellantropologo, e del quale sta a lui testimoniare lintegrit e la inequivocabile datit (se la parola non vi ripugna).

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E per, come ogni altra cosa, i nostri dati, a dispetto del loro nome, non sono affatto l pronti per essere raccolti come frutti da un albero, e neanche si trovano allo stato puro in luoghi impervi ma comunque accessibili agli audaci, come diamanti in una miniera. I dati non sono semplicemente ci che si vede, cose che un occhio esercitato pu individuare e restituire, il prodotto di unosservazione. Osservar, trasumanar Ai bei vecchi tempi, quando il mondo era quello che tutti si aspettavano che fosse, e la scienza un metodo ineffabile e tendenzialmente infallibile per tirarlo fuori intatto da sotto il velo di Maia, losservazione, latto di osservare, era un affare relativamente semplice. Osservare, nel senso comune e nel liguaggio naturale, lopposto di agire. Si tratta solo di starsene l, in un qualsiasi punto di osservazione (appunto), ed aguzzare la vista, come un cacciatore alla posta. Tutto qui. Il verbo osservare, nelle nostre lingue (Standard Average European), quello che si dice un verbo medio. Un verbo, cio, il cui dominio semantico, a detta dei linguisti si caratterizza come un contesto di scarsa elaborazione dellevento, al quale mancano le caratteristiche di trasmissione di forza tra due entit individuate che sono proprie dellevento transitivo. Certo, ci sarebbe ancora da chiarire che cosa davvero intendiamo con il termine evento (e soprattutto evento transitivo), che cosa sia una forza, o una entit, tutti concetti a proposito dei quali i linguisti e non solo i linguisti - non sono abituati a farsi troppi scrupoli. Ma per il momento possiamo accettare anche noi questa definizione. In altre parole, in quanto diatesi media, il verbo osservare presenta s una costruzione formalmente, morfologicamente transitiva (come pure tipicamente transitivo luso dei suffissi: osserva-to/osserva-tore), ma il suo soggetto non agisce, in senso proprio, e il suo oggetto non agito. Ecco qui allora i due dioscuri dellindagine scientifica: lo sguardo e il tema. Ma alla simmetria formale a cui soggiacciono come parti del discorso non corrisponde alcuna simmetria semantica (ontologica). Non sono, quei due, i poli complementari di un dualismo, yin e yang. Nella fisica ingenua del conoscere e del senso comune, il primo solo un occhio, niente pi che uno strumento di registrazione, un semplice figurante che tende a ritrarsi dal proscenio, che deve scomparire perch laltro sia adeguatamente rappresentato. Un convitato di pietra

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Perch si possa predicare qualcosa di qualcosa ci deve essere qualcuno che osserva, talmente ovvio. Talmente che la sua presenza pu essere tranquillamente presupposta. C un discorso, c un racconto, ci sono gli oggetti del racconto, ma colui che racconta non sulla scena: qui dietro, poco lontano, lo sappiamo, dietro le pagine del libro che leggiamo. In qualche caso possiamo anche vederlo, sentirlo parlare, ma solo uno strumento, un veicolo, una voce attraverso la quale ci parla la realt. Un medium, nel linguaggio delle scienze della comunicazione, ma anche in quello dellesoterismo: il mistagogo che accompagna nel mondo di qua le voci cavernose che provengono dal brumoso dominio dellessere. Sappiamo che ci pu mentire, certo, che pu non esprimersi correttamente, pu ingannarsi, ma la realt che ci offre sempre, comunque, tendenzialmente lo specchio di una sostanza incorrotta, un substrato puro a cui ha cercato di avvicinarsi con il suo osservare e a cui vuole avvicinare noi con il suo racconto. In questa versione dei fatti non losservatore quello che conta davvero, ma ci che viene osservato, e insieme lidea che esso sia naturalmente disponibile come unentit data, qualcosa che conduce unesisitenza autonoma dallatto di essere osservato, qualcosa su cui si possa posare locchio, che esiste previamente ed indipendentemente da quello sguardo. Bench il nostro senso comune non accetti altra versione che questa, come daltra parte accetta (a dispetto della scienza che si impara a scuola) lidea che il sole ruoti intorno alla terra, e tutta una quantit di altre teorie erronee della fisica ingenua, ormai lo sanno anche i ragazzi delle superiori che le cose non stanno davvero cos, e che invece, per dirla con la loquace formuletta che tutti conosciamo, losservatore modifica losservato. Cos ogni alunno diligente sa bene che, nonostante le apparenze, osservare un atto nel corso del quale si sprigiona un tipo molto particolare di energia, un atto in fin dei conti propriamente, intrinsecamente transitivo. Chi modifica chi? Solo che a conti fatti quella che ha luogo non propriamente una modificazione dellosservato, una qualche misteriosa partenogenesi che lo rende diverso da quello che sarebbe stato se qualcuno non lo avesse osservato (come se un oggetto potesse essere tale indipendentemente dallessere osservato, indipendentemente dallessere, cio, un oggetto). Si pu dire semmai che losservato, il tema, loggetto dello sguardo, si

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determina, si costruisce, si struttura, viene allessere soltanto nel processo dellosservazione. E allinterno di questo processo che i dati assumono un senso ed una consistenza. E qui che prendono la loro forma, che vengono in essere e si costituiscono come dati, questo processo che li crea in quanto dati, che fa di loro quello che si sa, quello che qualche volta ci compiaciamo di chiamare la realt. Osservare non come guardarsi intorno: prima di tutto una pratica guidata dallintenzione di chi osserva e strutturata nel contesto dei suoi parametri di rilevanza. Se lo sguardo crea una cosa che prima non cera, non lo fa tirandola fuori magicamente dal nulla. Al contrario, potr costruirla solo a partire dagli elementi di cui gi dispone e che gi conosce, e quello che alla fine si produce non potr che rimandare ancora allo sguardo stesso che lo ha prodotto, come una specie di gemello, la conseguenza di un rispecchiamento cognitivo. Le fotografie dellantropologia sono tutte mosse Ma il discorso antropologico presenta una complessit in pi, un suo molto peculiare statuto di verit, che gli dato dalla natura tutta particolare dei suoi oggetti e dei suoi dati. Losservazione antropologica, ancor pi di qualsiasi altro tipo di osservazione, non come guardare un panorama, o strizzare locchio dentro un microscopio. Ha a che fare con la gente, con altri uomini, con cose cio che non sopportano di starsene ferme sotto un vetrino, e non stanno in posa a farsi fotografare, neanche quando si mettono in posa per farsi fotografare. Le fotografie dellantropologia sono tutte mosse, ed l che vive il proprio dellantropologia, in quel movimento perturbante che imbroglia la vista e complica la messa a fuoco, ed l che sta il lavoro mai terminato dellantropologo. E l, in quelle immagini sfuocate che deve decifrare e rendere intellegibili per quelli come lui. Ma questo rende il suo lavoro di mediatore tra mondi, di volenteroso traduttore di uomini, qualcosa del tutto speciale, un lavoro per cui gli ordinari strumenti del traduttore non possono bastare, e rappresentano piuttosto un ingombro, una scorciatoia ingannevole che lo riconduce inevitabilmente, ogni volta, al punto di partenza. Lavorare alla torre La traduzione un processo suggerisce letimologia che consiste nello spostare, trasferire (come nel gergo delle questure), in un certo

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senso travasare. Ancora una volta ricorre, nellorigine del termine, la stessa idea di una scintillante continuit ontologica, un oggetto permanente, qualcosa come una specie di flogisto, una sostanza concettuale originaria che si trova allo stato puro nella mente di chi parla e che non ha che da essere trasferita cos com in quella di chi ascolta. Sopravvive tenace - nella fisica ingenua degli oggetti mentali larchetipo del codice, lideologia consolatoria di una unit del reale criptata nella variet delle traduzioni, e che basti scoprirne la chiave per rimettere in sesto il mondo: una chiave, uno strumento unico che da solo ricomponga le perturbanti diversit del senso e apra la porta sugli altri mondi, sulle altre menti. In fondo la traduzione funziona largomento principe degli antirelativisti - perch il mondo, il nostro mondo, funziona. Dio ha confuso le lingue, ma noi abbiano saputo aggirare lostacolo, e il lavoro alla torre non si mai davvero interrotto. E lesistenza della torre, la sua progressiva e continua elevazione, il nostro quotidiano arrampicarci su quei gradini, che dimostrano lefficacia delle nostre strategie per intenderci lun laltro. Chi pu negare che gli uomini anche quelli pi radicalmente, stupefacentemente diversi da noi - si intendono, dialogano tra loro in qualche modo efficace, partecipano ad una costruzione cooperativa della realt? La traduzione funziona: produce cio risultati e conseguenze reali, oggettive, nella cui oggettivit si rispecchia la fondatezza e la sostanziale veridicit di un mondo di significati e di concetti che deve per forza esserci, ed essere lo stesso per tutti. Il tertium comparationis, la fenice degli universalisti: la prova dei fatti, qualcosa che si pu toccare con mano, vedere con i propri occhi. Credere ai propri occhi Ma lantropologo sa di non potersi affidare ai propri occhi, perch quello che vede privo di senso - per lui e per i suoi lettori e il suo lavoro consiste appunto nellestrarre un senso dallinsensatezza apparente di ci che vede e che deve descrivere e raccontare. Per questo il suo racconto non pu reggersi sulla evidenza ostensibile di dati di fatto, ma deve essere sempre costruito e ricostruito mediante un processo dialogico con il mondo che descrive. Quei dati vanno cercati presso chi li possiede: si deve chiedere e si deve saper chiedere, e ascoltare e saper ascoltare. Il racconto antropologico, anche quando si presenti nella forma autistica della descrizione scientifica, sempre, implicitamente, una costruzione dialogica. Il racconto allora il prodotto di un dialogo: al fondo c sempre un

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principio di interlocuzione, una transazione concettuale, una mediazione umana in virt della quale si produce quella che qualcuno, con un termine agghiacciante, ha chiamato la co-costruzione del racconto. Il racconto si origina dalla tensione tra due opposte energie: la forza inerziale dellassimilazione, che conosce soltanto per analogia e isomorfismo, e la sotteranea provocatoria resistenza del differente, la sua indocile, perturbante alterit. Il fantasma della domanda Linterlocuzione antropologica non un ordinario contesto interpersonale, come non lo linterrogatorio di polizia, o lesame di stato, la confessione in chiesa, il setting psicoanalitico. La asimmetria fisiologica, il gradiente umano e comunicativo delle interazioni tra diversi vengono esaltati nel contesto dellindagine antropologica. Qui uno dei due vuole sapere, dove laltro cerca semplicemente di gestire un rapporto. Anche quando non si d la pena di segnalarlo, o non ne sente il bisogno, o semplicemente non si rende conto che avviene, il racconto dellantropologo, il racconto delle culture, infestato dal fantasma della domanda e di colui che chiede, che alligna in ogni piega della sua descrizione con lo stigma di una invalicabile differenza. Lantropologo l a rappresentare la sua domanda, sua e di quelli come lui: Perch fate questo, perch? Perch siete quello che siete?. Una versione di ordine minore del pantocratico enigma. E non valgono, ad evitare questo, i tentativi pi raffinati di mimesi, la full immersion, lillusione del rispecchiamento totale. Non importa se lui stato sotto le piogge monsoniche a infradiciarsi come il suo informatore, non importa se si nutrito con le stesse disgustose pozioni dei suoi commensali aborigeni senza fare una piega, non importa quanti orribili insetti abbiano visitato il suo pagliericcio nella foresta. E non vale, a ben vedere, neanche il pi insidioso frammettersi del sentimento e dellempatia transculturale nelle esperienze sul campo. Anche qui, come nella vita privata, non affatto detto che lamore amplifichi le capacit di comprensione, e si d invece pi spesso il contrario, come testimoniano i non mai troppo deplorati diari di campo di Malinowski, e, allopposto, la Brevisima Relacin di Las Casas. In mezzo a loro, ma non dei loro Daltra parte lillusione dellefficacia, laffidamento nel potere sapienziale della partecipazione nasce, oltre che da un modello

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astrattamente ideologico, dallo scacco epistemologico che ha reso ormai impraticabile il paradigma opposto, dal discredito generalizzato in cui caduta, a seguito delleditto di Heisenberg, la metafora dello scienziato allopera nel contesto oggettivato e sterile (in tutti i sensi) di un laboratorio in cui losservato possa essere preservato dalla contaminazione dello sguardo. Il mondo prototipale sul quale lantropologo o il linguista pensavano di misurare s stessi e gli altri, quel mondo-laboratorio in cui potessero essere eliminati tutti gli attriti, le impurit, la corruzione che la pratica della vita introduce nellastratto e infondato gioco delle regole linguistiche e dei processi mentali, diventato un luogo ormai inabitabile anche per i pi ottimisti. Lantropologo partecipante cerca di aggirare lostacolo scegliendo di mettere in gioco integralmente s stesso, transustanziarsi nel proprio oggetto, nellaspettativa che questa trasmutazione alchemica finisca per dargli accesso al proprio di quel mondo che osserva, spremerne ancora unessenza, una propriet radicale. Ma lumilt con la quale si dispone al suo compito, la francescana rinuncia ai propri abiti ed alle pompe del demonio occidentale, tradisce al contrario un pi subdolo e pervasivo peccato di orgoglio etnocentrico e di arroganza epistemologica. Lantropologo vuole essere, insieme, osservato e osservatore, scienziato in guanti sterili e batterio in mezzo ai batteri ( in mezzo loro, ma non dei loro, per dirla con il poeta), e cos la sua generosa mimesi corrotta ab origine dallintenzione che lha prodotta, ed il suo programma cognitivo ne finisce irreparabilmente compromesso.

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