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COOPERAZIONE E COMPETIZIONE FRA ENTI TERRITORIALI: PROSPETTIVE DI APPLICAZIONE DEL DISEGNO DI LEGGE DELRIO A TORINO E IN PIEMONTE

di Marco Orlando ( 1)

Sommario
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. Gli strumenti di cooperazione fra organizzazioni pubbliche territoriali. ............................................... 2 Il dibattito sullarea metropolitana torinese e i modelli legali di Citt Metropolitana ......................... 3 Il nuovo modello di Citt Metropolitana nel disegno di legge Delrio, a confronto con i precedenti. ... 5 Province versus Unioni di Comuni ......................................................................................................... 8 Cosa resta del principio di sussidiariet? .............................................................................................. 9 Il contenuto essenziale della riforma Delrio .................................................................................... 10 La garanzia dei servizi pubblici locali e le economie di scala............................................................... 12 Conclusioni .......................................................................................................................................... 16

Lautore funzionario della Provincia di Torino (Responsabile Ufficio Studi e Ricerche sul Federalismo e le Riforme Amministrative) e collabora con lUnione Province Piemontesi, lANCI Piemonte e lUNCEM Piemonte. Le affermazioni contenute nel presente articolo non impegnano in alcun modo le amministrazioni e le associazioni citate e sono espresse a titolo esclusivamente personale e per finalit di carattere divulgativo. Il presente articolo viene rilasciato sotto licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo, 3.0 Italia.

1. Gli strumenti di cooperazione fra organizzazioni pubbliche territoriali.


Nellordinamento pubblicistico italiano, la cooperazione fra enti locali di tipo territoriale pu essere realizzata mediante diversi strumenti, fra i quali spiccano anzitutto quelli codificati nel Testo Unico degli Enti Locali, fin dalla sua prima edizione come legge n. 142 del 1990. Gli istituti di cooperazione possono essere di due generi: da un lato, esistono gli accordi variamente denominati come le convenzioni, i protocolli dintesa, gli accordi di programma; dallaltro lato, esistono gli strumenti che generano nuove strutture o nuovi enti: i consorzi, le unioni di comuni, le autorit dambito, le societ o gli organismi partecipati. Gli strumenti di tipo pattizio (che cio si concretizzano in una forma di accordo) agiscono nellambito di un rapporto tra soggetti paritari che puntano alla realizzazione di benefici comuni o al raggiungimento di maggiori economie di scala. Questo modello di cooperazione tipicamente di tipo orizzontale ed perfettamente consensuale e volontario, poich non mette in discussione la sovranit di ciascuno degli attori, i quali restano pienamente liberi di autodeterminarsi nelle proprie politiche generali, al di fuori dei temi sui quali hanno contrattato di cooperare. Gli strumenti che si concretizzano con la creazione di sovrastrutture territoriali o di soggetti giuridici strumentali, invece, agiscono su una dimensione verticale della cooperazione che, in tali casi, punta alla razionalizzazione delle risorse disponibili e alle maggiori economie di scala che si possono determinare mediante la riduzione della frammentazione degli indirizzi politici. Questo secondo tipo di cooperazione pu essere anchesso di tipo consensuale, ovvero pu essere previsto per legge. In ogni caso, per, esso supera la logica meramente pattizia per costituire nuovi soggetti o istituzioni, che sono dotate di una propria relativa autonomia e volont. Tale volont da considerarsi terza rispetto alle volont dei costituenti, e pertanto comporta la messa in discussione della loro libert di autodeterminazione dei fini, seppure entro i limiti della cessione di sovranit che derivata dallatto genetico dellente terzo. Fra gli elementi costitutivi classici di unorganizzazione pubblica (territorio, popolazione, sovranit), lelemento determinante nella cooperazione senza dubbio il territorio. Nellesperienza applicativa, infatti, quando sul medesimo territorio coesistono diversi attori dotati di sovranit concorrente, spesso si genera una dicotomia tra la tendenza a costituire forme deboli di cooperazione orizzontale e la tendenza inversa, volta a costituire forme forti di cooperazione verticale. In questo secondo caso, pi intensa la cessione di sovranit e pi la cooperazione tende a scivolare nella competizione. E tra enti territoriali in competizione fra loro, il rapporto di forza tendenzialmente misurabile: secondo le dimensioni degli apparati amministrativi; nella capacit di generare risorse finanziarie autonome e attrarre le risorse di finanza derivata; con la vocazione generalista (tante funzioni) o specialistica (poche funzioni) di ciascuno degli attori;

nella riconoscibilit del ruolo sociale dellente e nella cd. valutazione di outcome delle politiche realizzate. Nel quarantennale dibattito italiano sulle Aree e sulle Citt Metropolitane, si assistito a riflessioni numerose e approfondite sugli aspetti geografici e socio-economici del tema: riflessioni il pi delle volte orientate a sostenere una necessit delle Citt Metropolitane che oggettivamente difficile da smentire. Tuttavia, quando si trattato di passare dal concetto di Citt Metropolitana alla sua concezione in concreto, tutti i modelli legali proposti dal legislatore nazionale hanno fallito, forse perch essi sono stati costruiti sulla base di modelli di competizione fra enti territoriali e non su modelli di cooperazione. E anche lultimo modello, proposto nel disegno di legge approvato dal Governo il 26 luglio 2013 e in discussione in Parlamento (A.C. 1542), sconta lo stesso vizio di origine e pare destinato a unapplicazione molto difficile, almeno in Piemonte. In questo articolo, senza alcuna pretesa di essere esaustivi, sintende spiegare per quali ragioni.

2. Il dibattito sullarea metropolitana torinese e i modelli legali di Citt Metropolitana


Per dare alla Citt Metropolitana un corretto inquadramento giuridico bisognerebbe partire da un assunto: essa , al pari degli altri strumenti legislativi di cooperazione, un semplice modo per realizzare un efficiente sistema di cooperazione fra istituzioni territoriali, tendente alla razionalit amministrativa. Come accennato in apertura, in Piemonte e in particolare nella conurbazione torinese, la ricerca della modalit pi corretta per stabilire forme razionali di cooperazione fra istituzioni che insistono sul medesimo territorio ha animato e caratterizzato un dibattito che ormai ha celebrato i quarantanni di vita. Risale infatti al 1972 la prima delimitazione dell'area metropolitana torinese che, secondo la Regione Piemonte, doveva comprendere il territorio di 54 comuni. Con il successivo atto di indirizzo del 1995, la stessa Regione aveva poi indicato un nuovo perimetro dellarea, ridotto al territorio di 33 comuni. Il Piano Territoriale di Coordinamento, adottato per la prima volta nel 1999 dalla Provincia di Torino aveva poi ulteriormente ridotto lambito territoriale dellarea metropolitana a 16 comuni limitrofi al capoluogo regionale. Fra il 2000 e il 2004 stata inoltre attiva una Conferenza Metropolitana Torinese, formata su base volontaria da 38 Comuni: nelle intenzioni dei promotori, essa intendeva divenire una sede stabile di confronto tra le amministrazioni locali, per mettere in comune i problemi e ricercare soluzioni congiunte. Nel 2008, ancora, stato istituito un Tavolo Metropolitano formato da 17 comuni che intendeva affrontare i temi del governo locale di rilevanza intercomunale.

Sul piano della legislazione primaria dello Stato, dal 1990 al 2012 sono stati tipizzati tre diversi schemi legali per la delimitazione delle aree e per la costituzione delle relative Citt Metropolitane. Nel mentre, con una norma di evidente portata programmatica e non immediatamente precettiva, la legge cost. n. 3/2001 ha anche inserito le Citt Metropolitane nellart. 114 della Costituzione, prevedendo che esse siano elementi costitutivi della Repubblica al pari dei Comuni, delle Province, delle Regioni e dello Stato. Su questo aspetto va aperta una doverosa parentesi. Per consolidata dottrina e giurisprudenza costituzionale, non basta inserire nella Costituzione un livello di governo per renderlo necessario. Ci valso per le Regioni (che sono rimaste inattuate dal 1948 al 1970) e vale ovviamente per tutti gli altri livelli di governo intermedio fra quello comunale e quello statale, che sono con tutta probabilit gli unici due realmente indefettibili e costituzionalmente necessitati. E quindi del tutto strumentale lapproccio di coloro che ritengono doveroso istituire le Citt Metropolitane solo perch sono scritte nella Costituzione: la Carta, infatti, nelle sue disposizioni riguardanti lorganizzazione territoriale della Repubblica (cio la quasi totalit della Seconda Parte) si limita a tracciare una linea che compito del legislatore ordinario applicare, ricorrendone una qualche utilit in concreto. Ed del tutto evidente che vi sia lutilit di costituire forme di cooperazione in ambito metropolitano: non gi perch la Costituzione lo prevede, ma perch lattuale livello di frammentazione amministrativa incompatibile con le esigenze di rapidit e di razionalit richieste dalleconomia e dalla societ. Le Citt Metropolitane, insomma, vanno costituite non per un mero adempimento burocratico-costituzionale, ma perch in alcune parti del Paese esse sono utili a rendere (il Paese stesso e) i suoi sistemi territoriali pi veloci, competitivi ed efficienti. Questo semplice assunto non pare essere stato interpretato in modo efficace nei vari tentativi di dare alle Citt Metropolitane una forma giuridica, che si sono succeduti dal 1990 ad oggi. I primi due modelli legislativi, introdotti rispettivamente dalla legge 142 del 1990 (poi confluito nel Testo Unico del 2000) e dalla legge del 2009 sul federalismo fiscale, sono stati sostituiti da un terzo schema legale introdotto dalla spending review del 2012. Questultimo stato infine dichiarato incostituzionale dalla Corte con la sentenza n. 220 dello scorso 31 luglio 2013. Il giorno dopo la pubblicazione della sentenza, il Governo presieduto dallon. Enrico Letta ha riproposto un disegno di legge costituzionale e un disegno di legge ordinario. Con il primo (A.C. n. 1543 http://www.camera.it/leg17/126?leg=17&idDocumento=1543), viene radicalmente eliminata la parola province dalla Costituzione, mentre con il secondo (A.C. n. 1542 http://www.camera.it/leg17/126?tab=&leg=17&idDocumento=1542&sede=&tipo=), su iniziativa del Ministro Graziano Delrio il Governo ha proposto un nuovo disegno di riorganizzazione degli enti di governo di prossimit e di area vasta. Questo nuovo modello di riforma dellordinamento di Comuni, Province e Citt Metropolitane sancisce cos il quarto tentativo di stabilire, al livello della legislazione primaria dello Stato, una forma di cooperazione fra gli enti territoriali del governo locale, che sia il pi possibile rispettosa delle regole attualmente previste dalla Costituzione.
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3. Il nuovo modello di Citt Metropolitana nel disegno di legge Delrio, a confronto con i precedenti.
Il modello proposto dal Ministro Delrio in parte ricalca gli schemi precedenti e in parte se ne discosta ampiamente. I precedenti modelli di Citt Metropolitana, descritti nel Testo Unico degli Enti Locali (2000) e nella legge delega sul federalismo fiscale (2009) intendevano instaurare entrambi un sistema di cooperazione di tipo verticale, cio volto alla creazione di un nuovo ente locale mediante cessione di sovranit dai soggetti costituenti. Ma lentificazione era, in entrambi i casi, il risultato di un processo genetico volontario, non predeterminato negli esiti, nonch ad applicazione graduale e progressiva. Il Testo Unico Enti Locali offriva infatti ai territori metropolitani tre alternative possibili: la sola delimitazione dellArea Metropolitana, senza quindi la costituzione di enti derivati; la costituzione di meri ambiti sovra-locali di cooperazione privi di personalit giuridica autonoma; la costituzione della Citt Metropolitana per determinate materie. Per ognuna delle alternative (e anche ai meri fini della delimitazione), il modello imponeva comunque che sussistesse la contiguit territoriale e un rapporto di stretta integrazione fra i comuni, sia sul piano dello sviluppo urbanistico e sia in ordine alle attivit economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonch alle relazioni pi latamente culturali. Nel vecchio modello del Testo Unico, quindi, i confini dellArea Metropolitana potevano non coincidere con quelli delle strutture, degli ambiti sovralocali, o dellente Citt Metropolitana. La norma prevedeva inoltre che la nascita della Citt Metropolitana comportasse un effetto di ritaglio territoriale tra la Provincia dante causa e il nuovo Ente; leffetto si sarebbe determinato dal momento in cui la Citt Metropolitana avesse acquisito le funzioni della Provincia nel territorio in essa compreso. Il modello, infine, non prevedeva ope legis lattribuzione alla Citt Metropolitana di funzioni ulteriori oltre a quelle acquisite per ritaglio dalla Provincia, confermando con ci le caratteristiche di ente derivato, privo cio di competenze originarie. Sul piano del processo costitutivo, un aspetto non secondario di quella disciplina era la previsione di un referendum approvativo in ogni comune prima dellistituzione del nuovo Ente; costituzione che sarebbe avvenuta solo al termine del processo e con una legge dello Stato. Su questo modello, operante tuttora a livello legislativo ordinario (poich la relativa disciplina non mai stata espressamente abrogata) ma mai attuato in alcuna parte dItalia, si inserito il quadro costituzionale riformato con la legge cost. n. 3/2001. La riforma ha inserito nella Costituzione la Citt Metropolitana a fianco di Comuni, Province, Regioni e Stato, ed ha pertanto reso questo tipo di Ente un elemento costitutivo della Repubblica, nonch formalmente equi-ordinato rispetto agli altri enti locali secondo il dettato dellart. 114 Cost. La Citt Metropolitana ha smesso quindi di essere un semplice strumento di cooperazione e un Ente derivato, per diventare invece (nelle intenzioni del legislatore costituzionale) un Ente
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pienamente autonomo, con funzioni originarie e non pi ottenute per ritaglio da altri livelli di governo. Il sostanziale cambiamento di natura (forse poco opportuno, come tutte le radicalizzazioni costituzionali che spesso avvengono in Italia quando si crede che la sanzione costituzionale di un principio o di un programma sia di per s risolutiva a fare le riforme) ha reso pertanto obsolete nei fatti le previsioni elastiche e progressive del modello di Citt Metropolitana offerto dal Testo Unico Enti Locali, e ha, di conseguenza, aperto la strada alla revisione dello schema legale previsto a livello legislativo ordinario. Dopo otto anni dalla modifica del Titolo V, la disposizione costituzionale stata poi attuata dalla legge sul federalismo fiscale del 2009, mediante una norma (lart. 23) che per stata espressamente dichiarata transitoria dal legislatore, in quanto valida fino allentrata in vigore di una (futura, e mai approvata) legge organica di riforma del Testo Unico Enti Locali. Data la transitoriet della disciplina, anche il modello di Citt Metropolitana che essa offriva era stato previsto come transitorio, cos come transitori erano gli organi, la cui durata in carica era valida fino allinsediamento degli organi definitivi, che sarebbero stati regolati dalla suddetta legge organica. La normativa del 2009 era di gran lunga pi rigida e codificata della precedente poich, nei fatti, puntava alla trasformazione ipso facto in Citt Metropolitane dei pi grandi Comuni capoluogo di Regione, con lattribuzione a costoro di uno status migliorativo e di un ordinamento differenziato rispetto alle altre grandi citt, non di tipo metropolitano. La differenziazione nello status consisteva sostanzialmente nellinglobare entro i limiti delle cinte daziarie del capoluogo anche i poteri delle Province, senza necessariamente coinvolgere i Comuni limitrofi nel processo costitutivo o adesivo alla Citt Metropolitana. Nemmeno questo secondo modello stato mai realizzato in alcuna parte dItalia, sebbene nelle aree metropolitane di Milano e di Venezia siano state avviate delle procedure istitutive che tuttavia non sono arrivate a conclusione. Tali esperimenti avevano alcune caratteristiche simili fra loro: larticolazione della governance sui tre livelli (Citt Metropolitana/Comuni/Municipi); lelezione diretta a suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano; lelezione indiretta (tra i consiglieri metropolitani) del presidente del consiglio metropolitano; la presenza di una seconda assemblea oltre al consiglio metropolitano, sul modello della conferenza dei sindaci con funzioni consultive. Quanto alle funzioni, listituzione di una Citt Metropolitana con i poteri della Provincia limitati al Comune capoluogo avrebbe creato delle sovrapposizioni poco razionali nelle funzioni di programmazione, pianificazione e coordinamento in diversi settori di politiche, dove sarebbe stato necessario armonizzare un doppio livello di programmazione o pianificazione tra la Citt Metropolitana e il suo territorio da un lato, e la Provincia e il suo territorio dallaltro lato. Naturalmente, i due livelli di programmazione avrebbero dovuto armonizzarsi a propria volta (e singolarmente) con il livello regionale di programmazione.
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Dalloriginaria idea di Citt metropolitana, cio di un ente capace di rispondere alle particolari caratteristiche di un fenomeno eccezionale di sviluppo degli insediamenti urbani con dimensioni del tutto straordinarie, si sarebbe quindi giunti a una mera moltiplicazione di livelli di azione, peraltro non equilibrata dal punto di vista dei rapporti tra il capoluogo ed il territorio circostante. E uguale frammentazione si sarebbe creata nelle funzioni di regolazione delle attivit pubbliche e private. Qui il doppio livello di governo sarebbe stato ancora pi evidente con riguardo a molte funzioni non fondamentali acquisite dalla Provincia nel corso del processo di decentramento della seconda met degli anni Novanta: la medesima funzione (ad. es., rilascio di autorizzazioni, concessioni, ecc.) avrebbe quindi finito per essere spezzettata a seconda che loggetto di questa si trovasse allinterno dellarea metropolitana o al di fuori. Lipotesi non scongiurava perci il rischio di frammentare lazione di governo allinterno di uno stesso territorio unitario tra da due enti, confondendo e non semplificando il riparto di competenze. La mancata attuazione del modello prefigurato dalla legge sul federalismo fiscale ha rappresentato un nuovo fallimento nei tentativi di semplificare il quadro di cooperazione istituzionale del governo locale nelle grandi conurbazioni del Paese. La perdurante inattuazione del dettato costituzionale introdotto nel 2001 ha quindi portato a un tentativo ancora pi radicale, che si concretizzato con il Decreto Salva Italia del 2011 e con la Spending Review del 2012, entrambi proposti dal Governo presieduto dal sen. Mario Monti. Nel periodo di maggiore aggressivit della speculazione internazionale contro lItalia, in nome del risparmio nella spesa pubblica le due riforme hanno previsto una decisa semplificazione degli organi di governo delle Province, con la soppressione degli esecutivi e la sottrazione a detti enti di qualsiasi funzione amministrativa, fatta la sola eccezione delle funzioni di indirizzo e coordinamento dellattivit dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale e regionale, secondo le rispettive competenze. Le norme prevedevano inoltre lobbligo per le regioni di ritrasferire ai comuni le funzioni amministrative delle province, ovvero di trattenerle al livello regionale qualora fosse necessitato lesercizio unitario ai sensi dellart. 118 Cost. La ratio dello svuotamento di funzioni era con tutta evidenza quella di anticipare la soppressione delle province, da attuare con successiva legge costituzionale, e di realizzare un riaccentramento sul livello regionale delle funzioni relative al governo di area vasta e sovra comunale. Come riportato sopra, le tentate riforme del Governo Monti sono state poi impugnate da diverse regioni innanzi alla Corte Costituzionale, per diversi profili di incostituzionalit, fra i quali la lesione delle competenze amministrative provinciali, la menomazione del potere legislativo regionale, luso improprio del potere sostitutivo statale e la violazione del principio di leale collaborazione. Con la sentenza n. 220 del 31 luglio 2013, la Corte Costituzionale ha infine dato ragione alle autonomie locali, dichiarando incostituzionale tutto limpianto e censurando pesantemente il metodo riformatore usato dal Governo: un metodo volto a determinare un nuovo assetto
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ordinamentale dei poteri democratici per via di decreto-legge o, comunque, di legislazione emergenziale.

4. Province versus Unioni di Comuni


Nel dibattito sullassetto dei poteri territoriali del governo locale, bisogna ricordare a questo punto che esiste un ulteriore elemento di cui tenere conto, e che si tratta di un elemento per nulla trascurabile se si vuole realmente comprendere la logica delle riforme in atto. Fin dal 2008 il legislatore nazionale ha manifestato un deciso favor per le Unioni di Comuni, che sono di per s un tipico strumento di cooperazione verticale, non nuovo allordinamento e originariamente prefigurato per essere volontaristico. Le Unioni di Comuni, nella (vigente!) previsione del Testo Unico degli Enti Locali, sono semplicemente delle forme associative di tipo entificante realizzate fra municipi, e finalizzate alla gestione associata delle funzioni comunali o intercomunali. Ma dal 2010 e, soprattutto, nella stagione di riforme tentate tra il 2011 e il 2012, larchetipo delle unioni di comuni stato sostanzialmente snaturato, prevedendone il ricorso obbligatorio per i comuni di minori dimensioni e sostituendo a un modello di cooperazione volontaristica un modello di aggregazione coatta riguardante ben nove funzioni fondamentali municipali, cio a dire la quasi totalit delle funzioni di cui ogni Comune si occupa. Ma ci che pi grave e incongruente rispetto alle previsioni del Testo Unico, alle unioni di comuni il legislatore pi volte ha tentato di assegnare la missione di sostituire le province, prevedendo tali forme associative come naturali destinatarie anche delle funzioni sovracomunali e di area vasta che non dovessero richiedere lunitario esercizio a livello regionale. Cos facendo, il fenomeno dellassociazionismo comunale (nato per una logica di mera riorganizzazione dei servizi pubblici di prossimit) diventato strettamente correlato al destino del governo di area vasta, cio delle province, creando un corto-circuito fra due processi di riforma che in origine non erano direttamente collegati fra loro. Pu funzionare in Piemonte un simile corto-circuito? Lesperienza applicativa delle unioni di comuni in Piemonte stata molto ben rappresentata nella ricerca Unioni in Luce, realizzata da Anci Piemonte nel 2011 (http://www.anci.it/index.cfm?layout=dettaglio&IdSez=808495&IdDett=39819 ). La ricerca ha dimostrato che nei territori dove c una Provincia grande e forte, come ad esempio quella di Torino, le unioni di comuni non sono mai proliferate. Viceversa, nelle province piccole e poco strutturate il fenomeno dellassociazionismo comunale ha attecchito in modo rilevante in specie negli anni Novanta, sino a raggiungere fenomeni estremi come la Provincia di Asti, in cui fino a pochi anni fa tutto il territorio era federato in Unioni. Il dato singolare poich svela che in effetti sussiste una non dichiarata competizione tra i due modelli di governo del territorio: da un lato quello fondato sulle province e, dallaltro, il modello fondato sulle unioni, e che questa potenziale competizione deve essere risolta ricorrendo a unapplicazione differenziata allinterno del territorio regionale.
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Ma sia la riforma Monti che la riforma Delrio hanno invece tentato di risolvere la competizione fra province e unioni in un solo modo, uniforme su tutto il territorio nazionale e per nulla aperto alla differenziazione. Per il legislatore nazionale, quindi, la competizione si risolve allinterno di un riordino complessivo degli enti territoriali che preveda la soppressione delle province, listituzione delle citt metropolitane e lesercizio associato coatto delle funzioni municipali mediante le unioni di comuni. Un tale impianto normativo presenta levidente difetto di essere costruito non a partire dalle realt geografiche, ma a partire dalla definizione di un catalogo formale di funzioni fondamentali degli enti locali. Esso determina quindi un processo di tipo statale e top down, il quale non lascia nessuno spazio alla differenziazione territoriale e allapplicazione del principio costituzionale di adeguatezza. Il grande tema italiano del chi fa che cosa viene cos risolto distribuendo le funzioni fondamentali tra i livelli di governo e prevedendo i meccanismi legali di successione tra gli enti attualmente depositari di tali funzioni. I poteri delle Regioni di differenziarne lassetto sono stati, e restano tuttora nel disegno di legge Delrio, del tutto annullati.

5. Cosa resta del principio di sussidiariet?


Sul piano costituzionale, bisogna prendere atto che il criterio ispiratore delle riforme dal 2008 a oggi senza dubbio la sostanziale mitigazione del principio di sussidiariet verticale. Stabilendo la soppressione delle province, listituzione delle Citt Metropolitane e lesercizio associato obbligatorio delle funzioni comunali, si produce infatti leffetto di scindere la rappresentanza democratica del territorio dalla gestione dei servizi pubblici locali, e si stabiliscono soglie forzose di presunta efficienza minima di questi ultimi. Tutto ci che accade, in termini di autonomia di governo, sotto le soglie di aggregazione comunale o sotto il livello cd. metropolitano, agli occhi del legislatore non pi molto rilevante, e tende a diventare mera animazione delle comunit locali, o se si vuole presidio democratico svuotato di poteri reali di governo. Se quindi il primo decentramento (quello degli anni 70) pass alla storia come la prima affermazione delle neonate regioni; se il secondo decentramento (quello della legge 142/90) oper un riequilibrio a favore dei comuni e delle province che si videro riconoscere ampi tratti di autonomia e se il terzo decentramento (quello delle leggi di fine anni 90) fu il tentativo di equilibrare la multilevel governance nei due criteri di sussidiariet ed adeguatezza, evidente che con queste riforme si sia entrati nel Quarto Decentramento, in cui lo Stato - facendo ampio uso dei poteri di coordinamento della finanza pubblica intende riportare verso lalto lasticella dellorganizzazione dei poteri e dei servizi pubblici. Nel Quarto Decentramento, il Sindaco resta il rappresentante democratico di una comunit territoriale, ma non ha pi alcuna autonomia nella determinazione delle politiche pubbliche, se non allinterno di una Giunta o di un Consiglio di una Unione di Comuni. Nelle Province non metropolitane (finch esisteranno), il Presidente il mediatore di interessi comunali rappresentati
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in un Consiglio a elezione indiretta. Nelle Citt Metropolitane, chi viene eletto Sindaco nel capoluogo estende ipso facto i propri poteri di governo a un territorio e a una comunit ben pi ampia e complessa di quella che lo ha legittimato a governare. Ecco la sintesi di un modello di riordino e di una riforma che sconta anche gli effetti di una pesante campagna mediatica di tipo denigratorio, prevalentemente orientata a individuare le province in particolare - e gli Enti Locali in generale - come la principale causa del presunto dissesto della finanza pubblica italiana, solo dodici anni dopo che invece i principi di autonomia e di sussidiariet erano stati celebrati e sanciti nellorganizzazione costituzionale della Repubblica. Se cos si pu dire, il federalismo amministrativo italiano ha avuto una vita decisamente breve.

6. Il contenuto essenziale della riforma Delrio


Come si detto, anche lultimo disegno di legge allesame del Parlamento pretende di fornire una disciplina organica delle citt metropolitane, delle province e delle unioni di comuni, al fine di tentare una razionalizzazione complessiva delle Autonomie Locali, anticipando la riforma costituzionale che il Governo ha contestualmente approvato e rimesso anchessa al Parlamento. Per giungere a questo risultato, il disegno di legge individua le citt metropolitane come enti territoriali di secondo livello, cio a rappresentativit democratica indiretta, e attribuisce loro due finalit istituzionali piuttosto indeterminate nei contenuti specifici: - lo sviluppo strategico del territorio metropolitano mediante la programmazione e la gestione integrata dei servizi; - la promozione e le relazioni esterne (financo internazionali) della comunit metropolitana. A prima vista, si potrebbe dire che nessuna di queste due finalit abbia contenuti gestionali compatibili con le attuali funzioni delle province, cos come esse sono state codificate nel Testo Unico degli Enti Locali e nella legislazione di decentramento amministrativo prodotta a partire dal D.P.R. 616/77 e fino al D.lgs. 112/98, con la conseguente legislazione attuativa regionale. Laspetto non secondario, poich rispetto ai precedenti modelli di Citt Metropolitana ci si dovrebbe aspettare invece una qualche congruenza con le funzioni provinciali, posto che lEnte nasce al fine sostituire la Provincia. Ma in realt si tratta di un errore di prospettiva, poich melius re perpensa le finalit istituzionali della Citt Metropolitana somigliano molto di pi a quelle di una Regione che non di una Provincia. La sensazione avvalorata dallanalisi delle funzioni fondamentali che il disegno di legge assegna al nuovo Ente, laddove scritto (art. 9) che: <<Alla citt metropolitana sono attribuite le funzioni delle province nonch, ai sensi dellarticolo 117, primo comma, lettera p), della Costituzione () le seguenti funzioni fondamentali: a) adozione annuale del piano strategico del territorio metropolitano, che costituisce atto di indirizzo per lente e per lesercizio delle funzioni dei comuni e delle unioni dei comuni compresi nellarea, anche rispetto allesercizio di funzioni delegate o assegnate dalle regioni;
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b) pianificazione territoriale generale, ivi comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture di interesse della comunit metropolitana, anche fissando vincoli e obiettivi allattivit e allesercizio delle funzioni dei comuni ricompresi nellarea; c) strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano; d) mobilit e viabilit, anche assicurando la compatibilit e la coerenza della pianificazione urbanistica comunale nellambito metropolitano; e) promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, anche assicurando sostegno e supporto alle attivit economiche e di ricerca innovative e coerenti con la vocazione della citt metropolitana come delineata nel piano strategico annuale del territorio; f) promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito metropolitano. In breve, si pu dire che la differenza tra le attuali province e le future citt metropolitane stia tutta in un nonch. Mettendo insieme le finalit istituzionali dellart. 1 e le funzioni fondamentali dellart. 9, si ottiene infatti un livello di governo a cui manca solo il potere di legiferare, ma che ha al suo interno linsieme dei poteri di programmazione, regolazione generale, amministrazione e gestione. Un simile livello di governo conserva le attuali funzioni delle Province e ne aggiunge di nuove, in settori oggi di stretta competenza regionale come i servizi pubblici e le infrastrutture strategiche, linnovazione digitale e la ricerca scientifica, oltre naturalmente alla pianificazione territoriale generale. Ecco perch appare miope considerare le citt metropolitane come un semplice e mero attacco alle province: come sottolineato in un recente intervento pubblico del Presidente della Regione Lombardia, nel vero mirino della riforma Delrio ci sarebbero, piuttosto, le regioni. Tornando al piano dellanalisi tecnico-giuridica, nel disegno di legge anche le province sono individuate come enti di secondo livello deputati a governare a termine i territori non compresi nelle dieci aree metropolitane, per poi essere soppressi con la successiva riforma costituzionale. Fin da subito, per, le province vengono svuotate delle loro attuali funzioni, che restano ridotte a tre: - pianificazione territoriale di coordinamento e valorizzazione dellambiente - pianificazione del trasporto pubblico e autorizzazione del trasporto privato, gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione; - programmazione della rete scolastica E anche le unioni di comuni vengono individuate come enti di secondo livello, per lesercizio associato delle funzioni comunali e potenzialmente come destinatarie delle funzioni provinciali quando quegli enti verranno definitivamente soppressi. Attraverso questo disegno si realizza dunque la confluenza dei precedenti tentativi di riforma su un nuovo modello di cooperazione istituzionale, largamente basato sulla rappresentativit
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democratica indiretta (cio senza elezioni) e che attribuisce una netta centralit di ruolo ai comuni, sia a quelli Capoluogo di Regione (nelle citt metropolitane) e sia in nuce agli altri, se saranno capaci di realizzare attraverso le unioni delle aggregazioni territoriali sufficientemente ampie da accedere alla rappresentativit nel livello di governo di area vasta, almeno fino a quando questo livello di governo sar incarnato da enti chiamati province. Ma quando anche la riforma costituzionale dovesse essere compiuta, con la definitiva soppressione delle province ai comuni non capoluogo (recte: non metropolitani) rester solo linterlocuzione con il livello regionale, senza pi enti di tipo intermedio che non siano le unioni di comuni. Ecco che il modello di cooperazione facilmente diventer competizione tra i diversi sistemi territoriali, che misureranno la loro capacit di attrarre risorse regionali sulla base dei loro parametri di forza relativa, in termini di popolazione, peso specifico delle burocrazie, quantit e variet di funzioni gestite, e soprattutto ampiezza territoriale.

7. La garanzia dei servizi pubblici locali e le economie di scala.


Guardandolo dal punto di vista dellorganizzazione dei servizi pubblici locali, il disegno di legge Delrio propone quindi una ri-articolazione dei sistemi di erogazione su tre diverse dimensioni di scala: - la dimensione di prossimit, affidata di norma alla cura delle unioni di comuni. Per la verit, lordinamento previsto dal Testo Unico Enti Locali prevede ancora, in alternativa alle unioni, il modello di cooperazione orizzontale basato sulle convenzioni ex art. 30. Ma si tratta di un modello poco stabile e poco adatto alla gestione di funzioni complesse, e pertanto di carattere recessivo di fronte alle unioni; - la dimensione metropolitana, affidata alla cura della Citt Metropolitana, la quale in prima istanza viene prevista con un territorio pari allintero territorio delle relative attuali province. Nel disegno di legge, viene tuttavia data facolt a 1/3 dei comuni (qualora contermini) o a comuni che rappresentano 1/3 della popolazione (in questo caso, anche non contermini. Sic!) di recedere entro il 28 febbraio 2014 dalla Citt Metropolitana, ricostituendo delle micro-province (nel secondo caso, anche a macchia di leopardo) che avranno comunque vita solo fino alla soppressione costituzionale; - la dimensione di area vasta, affidata in teoria a unioni di comuni competitive nei territori non compresi nella Citt Metropolitana, ma che pi ragionevolmente verr attratta alla competenza gestionale delle regioni, che saranno le probabili destinatarie delle funzioni oggi gestite dalle province non metropolitane. Lapplicazione in concreto di questa riorganizzazione dei servizi pubblici locali non sar semplice, soprattutto in Piemonte e in particolare nella Provincia di Torino. Infatti, in questo territorio i servizi cd. a rete (acqua, energia, trasporti, rifiuti) sono gi organizzati su una scala territoriale che esorbita dalla conurbazione torinese e che, in alcuni casi eccede perfino la circoscrizione provinciale. Nellipotesi in cui, durante il passaggio organizzativo
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dalla Provincia alla Citt Metropolitana si determini la secessione prima accennata di una parte dei comuni, si correrebbe pertanto il serio rischio di dover prima disarticolare e poi riarticolare i servizi a rete su scale dimensionali pi piccole (Area Metropolitana + Aree esterne/Valli). Per questo aspetto, le caratteristiche del territorio della Provincia di Torino (domani Citt Metropolitana di Torino) sono uniche in Italia e meriterebbero quindi un assetto legislativo differenziato. Con una popolazione di 2.302.353 abitanti, lente metropolitano torinese si estender infatti su una superficie di 6.830 kmq (pari a pi di un quarto del territorio piemontese e al 2,26% dellintero territorio nazionale). Sar la ex-provincia italiana con il maggior numero di comuni (315), mentre si collocher al quarto posto sia per popolazione (dopo Roma, Milano e Napoli), sia per estensione (dopo Bolzano, Foggia e Cuneo). Il territorio inoltre caratterizzato da elevato policentrismo, a causa della diffusione nel tempo di politiche insediative di tipo micro-metropolitano attorno ad alcune medie o grandi citt molto lontane dalla conurbazione torinese. Attorno a questi centri, esiste un complesso tessuto di microimprese impegnate in settori che vanno dal sistema manifatturiero, allagricoltura, allITC, ai servizi alle persone, profondamente radicate nel tessuto socio-economico locale, ma che giocano un ruolo altrettanto significativo nel sistema globale dellexport. Per contro, larea di influenza del Capoluogo torinese tende ad estendersi su un ampio settore del territorio regionale coinvolgendo due corone di centri abitati che si estendono in modo discretamente omogeneo fino a 60-70 Km da Torino. Come combinare in modo efficiente e razionale fenomeni di segno cos eterogeneo, dentro la formalizzazione giuridica di una circoscrizione amministrativa, cio di un Ente? Il principio economico dellottima corrispondenza postula che larea territoriale in cui si estendono gli effetti di una organizzazione (pubblica o privata) coincide con larea territoriale di riferimento. In ambito pubblicistico, anche da questo principio la letteratura economica ha elaborato il cd. teorema del decentramento, secondo il quale in presenza di alternative possibili sempre preferibile una soluzione che consenta diverse articolazioni dellofferta di beni pubblici rispetto ad una soluzione uniforme. Sebbene una riflessione astratta sullassetto funzionale debba partire dallassunto meglio soluzioni differenziate che soluzioni uniformi, innegabile che la tendenza nella gestione delle funzioni pubbliche e nei relativi servizi almeno negli ultimi anni - sia di segno opposto e proceda cio verso la ri-centralizzazione con un moto ascendente. La ri-centralizzazione in ambito regionale o statale oggi vista come sinonimo di risparmio nella spesa pubblica e di efficentamento negli standard di erogazione. Lopinione sicuramente fondata, ma il corretto assetto delle funzioni su di un territorio deve tenere conto delle disomogeneit socio-economiche che, su quel territorio, esistono. Di conseguenza, pur allinterno di un fenomeno di ri-centralizzazione, la determinazione delle funzioni della Citt Metropolitana e delle relative politiche di area vasta dovrebbe passare attraverso lo stabilimento di soluzioni differenziate, nellambito dellunitariet di un governo che si
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possa dire realmente democratico, cio ottenuto mediante elezioni a suffragio universale e diretto. Le funzioni di un ente per il governo metropolitano, infatti, sono senza dubbio qualcosa di pi del mero insieme delle funzioni amministrative, magari rappresentato da un governo di mediazione degli interessi sottostanti, come invece il modello contenuto nel disegno di legge sembra proporre. Per questo aspetto, vale infatti ricordare che la dottrina economica prima citata ha introdotto il concetto di spillover, come elemento discriminante delle decisioni sul dimensionamento delle politiche pubbliche. Tipicamente, gli effetti di spillover si determinano quando i benefici (ma vale anche per i disagi) di una politica traboccano dalla giurisdizione di un ente. Essi si realizzano quando, cio, i fenomeni indotti dalle politiche pubbliche non rispettano pi i confini amministrativi, siano essi in tema di sicurezza dei cittadini, gestione dei rifiuti, politiche attive del lavoro o politiche turistico-culturali. E tanto pi il territorio disomogeneo, tanti pi effetti di spillover si determinano quando le politiche pubbliche vengono determinate da autorit di governo troppo piccole, ovvero troppo grandi, o comunque non coincidenti con la comunit che conferisce il potere di governare. La futura Citt Metropolitana Torinese un territorio a forte rischio potenziale di spillover: infatti un sistema territoriale e sociale in cui si passa da quasi 1.000 abitanti/kmq in pianura a soli 314 abitanti/kmq in montagna. Inoltre, dei 315 comuni che la compongono solo quattordici hanno una popolazione superiore a 20.000 abitanti, e dolo uno (Torino) ha pi di 60.000 abitanti. Degli altri 301, ben 140 comuni hanno tra 1000 e 5000 abitanti e 114 hanno meno di 1000 abitanti: complessivamente, quindi, 254 comuni su 315 (l81%) sono classificati come <<piccoli>> o <<piccolissimi>>. Oggi tutti i servizi a rete di cui si occupa la Provincia di Torino non hanno una dimensione circoscrivibile all'interno del capoluogo o della conurbazione torinese, ma la oltrepassano. Oggi, inoltre, i poteri di governo di questi servizi sono esercitati da unautorit eletta democraticamente a suffragio universale, da parte di una comunit (quella provinciale) che sebbene storicamente debole sul piano identitario ogni cinque anni si riunisce per legittimare gli organi deputati a governare un territorio perfettamente corrispondente. Il disegno di legge in esame, nel configurare invece le modalit di elezione indiretta del Consiglio Metropolitano (e vieppi nel prevedere ipso facto la presidenza dellEnte al Sindaco del comune capoluogo) distorce il principio dellottima corrispondenza, e fa venire meno il sillogismo tra la fase ascendente della democrazia (quella che va dalla comunit agli organi di governo, mediante le elezioni) e la fase discendente (quella che ritorna dagli organi di governo alla comunit rappresentata, mediante i poteri pubblici). Ma quel che forse anche peggio, nellipotesi prefigurata dal disegno di legge in cui la futura Citt Metropolitana dovesse perdere dei pezzi rispetto allattuale Provincia, si ristabilirebbe il sillogismo democratico ma si perderebbero economie di scala nella gestione dei servizi, poich circoscrivere la pianificazione, regolazione e gestione di tali servizi alla sola conurbazione significherebbe, in questo senso, escludere una porzione di territorio di gran lunga superiore a quella che invece sarebbe inclusa. E si potrebbero quindi determinare numerosi e costosi effetti di spillover.
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Ancora: ben noto che a parametri crescenti di territorio e consistenza demografica, corrisponde una crescente autonomia impositiva e finanziaria delle amministrazioni. Per contro, al diminuire del territorio e della popolazione risulta minore lincidenza delle entrate tributarie sulle entrate correnti, quindi anche lautonomia finanziaria. Diminuendo il territorio si riduce infatti la capacit delle amministrazioni di far fronte alle esigenze di bilancio attraverso le entrate derivanti dalla riscossione dei tributi propri ed aumenta il loro grado di dipendenza finanziaria dalle entrate derivate da trasferimenti, di parte statale e regionale. Si pu quindi affermare che in una dimensione di area vasta (territorio ampio e consistenza demografica) come lattuale Provincia di Torino si riescono a realizzare delle economie di scala che sono invece impossibili nelle aree di minori dimensioni territoriali e demografiche. In queste ultime, infatti, la minore dimensione di scala rende incomprimibili determinate soglie finanziarie minime, di spesa corrente, necessarie al funzionamento della macchina amministrativa: le cd. spese interne o generali. Il maggiore assorbimento delle risorse finanziarie disponibili da parte delle componenti di spesa interna o generale (spese per il personale, logistica, patrimonio, etc..) produce direttamente, quindi, una minore capacit di spesa, sempre di parte corrente, per i servizi diretti al territorio ed alla collettivit amministrata. Guardando alla dimensione territoriale della futura Citt Metropolitana torinese, si pu dimostrare la congruit di tali affermazioni e confermare quindi il timore collegato allipotesi in cui una parte del territorio eserciti la secessione e costituisca delle micro-province. Una dimensione territoriale ampia ed una rilevante consistenza demografica, come quelle attuali, potranno garantire maggiore autonomia finanziaria, minore incidenza delle spese generali e quindi maggiori risorse disponibili per lerogazione di servizi. Purtroppo per il disegno di legge Delrio non sembra tenere in considerazione questo tipo di necessit, che derivano dalla specificit della situazione torinese rispetto alla maggior parte delle altre aree metropolitane italiane. Ma se il disegno di legge nazionale non si fa carico della differenziazione, laspetto pi preoccupante che non permette al legislatore regionale di intervenire differenziando la disciplina della Citt Metropolitana Torinese in funzione di tali evidenti emergenze. E questo sicuramente da annoverare tra i pi gravi limiti della riforma in esame. Un altro effetto potenzialmente pernicioso della riforma riguarda la perequazione territoriale. La Citt Metropolitana Torinese amministrer trasferimenti correnti ed in conto capitale per pi di 300 milioni di Euro/anno, la gran parte dei quali provengono dalla Regione Piemonte. Un simile assetto comporta un significativo onere di gestione finanziaria, ma permette daltro canto di operare una migliore redistribuzione di tali risorse su un territorio ampio che, come si detto, presenta significative aree di marginalit. Cos come si visto per le economie di scala nei servizi pubblici locali, anche i parametri di competitivit e di perequazione territoriale non sarebbero i medesimi, qualora la dimensione di
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scala fosse frazionata fra una Citt Metropolitana ristretta alla sola conurbazione e una o pi micro-province risultanti dalla secessione. Per questo aspetto, pare evidente che la maggiore consistenza demografica della conurbazione torinese favorirebbe un effetto di concentrazione delle risorse trasferite, a tutto discapito della competitivit delle aree territoriali esterne, che gi sono a forte rischio di marginalizzazione. Leffetto combinato della concentrazione delle risorse e della perdita di competitivit delle aree esterne produrrebbe cos un aggravio delle divisioni sociali che, invece, lattuale dimensione permette di contenere, mediante adeguate politiche di perequazione della spesa.

8. Conclusioni
La riforma scritta nel disegno di legge proposto dal Ministro Delrio segue il solco gi tracciato dalle precedenti riforme, realizzate o tentate, a partire almeno dal 2008. E un solco fortemente condizionato da unazione di sobillazione dellopinione pubblica contro qualcosa, pi che per qualcosa. Contro la casta, le province, i servizi pubblici locali, i dipendenti pubblici e lautogoverno. E un solco che costa notevoli forzature della Costituzione, come la Corte ha sottolineato soltanto due mesi orsono, ma che non ha incontrato grande sensibilit da parte del legislatore nazionale nemmeno nella presentazione di questo nuovo progetto di riforma. E, soprattutto, una riforma produttiva di costi certi di riorganizzazione e benefici incerti di risparmio, perch mette mano in modo polarizzato (cio solo sulla base dei legittimi interessi delle dieci grandi citt italiane) allassetto di tutto il sistema dei poteri locali, coinvolgendo il livello di governo provinciale, la stragrande maggioranza dei comuni italiani, la rappresentativit democratica e la gestione dei servizi pubblici locali. E infine una riforma che non concede nulla alla differenziazione operabile da parte del potere legislativo regionale, e che invece con un piglio neocentralista statale mette a rischio significative economie di scala gi raggiunte e potrebbe comportare un serio sbilanciamento delle politiche pubbliche e dei suoi effetti redistributivi, incentivando definitivamente la competizione e non la cooperazione fra i territori. Come tutte le riforme, anche la riforma Delrio potr essere giudicata solo alla luce della sua attuazione e non prima: per questo elementare motivo, non corretto coltivare dei pregiudizi sul suo possibile successo, ma come sempre, nelle vicende italiane per quanto detto fin qui doveroso nutrire molti, ragionevoli dubbi.

Torino, 20 ottobre 2013

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