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GIANDOMENICO MAJONE

Deficit democratico, istituzioni non-maggioritarie ed il paradosso dellintegrazione europea

1. Introduzione

A partire dal Trattato di Amsterdam del 1997, lappartenenza allUnione Europea stata esplicitamente condizionata al rispetto dei principi di libert, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libert fondamentali, e dello stato di diritto. Uno stato membro che commetta una violazione seria e persistente di tali principi pu essere sospeso da alcuni dei diritti derivanti dallapplicazione dei trattati. Tali disposizioni non fanno che ribadire regole riconosciute ed applicate da lungo tempo. Gi nel 1978 il Consiglio Europeo di Copenhagen aveva affermato che il rispetto ed il mantenimento della democrazia rappresentativa e dei diritti umani in ogni stato membro sono elementi essenziali dellappartenenza alla Comunit Europea. E, tuttavia, n la Comunit n lUnione Europea soddisfano tutte le condizioni imposte ai loro membri. A partire dalla fine degli anni 80, lespansione delle competenze comunitarie e, soprattutto, lestensione del metodo di decisione a maggioranza qualificata, anzich allunanimit, stata accompagnata dalla critica sempre pi frequente di un serio deficit democratico a livello europeo; ossia della mancanza dei requisiti di democrazia rappresentativa necessari per lappartenenza allUnione. C chi ha voluto vedere in ci un paradosso (se lUnione Europea fosse uno stato non potrebbe essere accolta nellUnione, secondo la boutade attribuita a Ralph Dahrendorf) o almeno una palese contraddizione: come pu lUnione imporre ai Paesi dellEuropa orientale condizioni che essa stessa non soddisfa (Williams 1991)? In realt, non c in questa mancanza di requisiti democratici n paradosso n
STATO E MERCATO / n. 67, aprile 2003

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contraddizione, e non solo perch lUnione Europea non , dopo tutto, uno stato. Il vero paradosso ben diverso: da un lato, linesistenza di un demos europeo rende impossibile una piena legittimazione democratica del processo di integrazione; dallaltro, le regole e le istituzioni europee, nonostante il loro carattere non-maggioritario, hanno contribuito e continuano a contribuire in modo significativo al miglioramento del processo democratico a livello nazionale: ad esempio, fornendo nuovi strumenti di difesa di interessi diffusi non adeguatamente rappresentati nei sistemi politici tradizionali; proteggendo, in modo spesso pi efficace delle legislazioni nazionali, leguaglianza tra donna e uomo nei rapporti di lavoro; oppure proibendo misure discriminatorie nei confronti dei lavoratori immigrati. La spiegazione di questo paradosso richiede una analisi attenta del concetto di deficit democratico, del ruolo delle istituzioni non-maggioritarie nelle moderne democrazie rappresentative, e soprattutto della peculiare natura della Comunit Europea come sistema di governo. Prima di iniziare tale analisi, tuttavia, sar opportuno premettere alcuni chiarimenti concettuali e terminologici. Come noto, il Trattato sullUnione Europea (Trattato di Maastricht) ha disegnato unarchitettura istituzionale basata su tre pilastri: quello comunitario; quello della politica comune degli affari esteri e della sicurezza; ed il pilastro della cooperazione giudiziaria e di polizia. Le differenze tra questi tre settori di attivit dellUnione Europea sono assai notevoli. In primo luogo, il pilastro comunitario sopranazionale, mentre gli altri due settori hanno prevalente carattere intergovernativo. Pertanto il cosiddetto metodo comunitario secondo il quale la Commissione Europea ha il diritto esclusivo di presentare proposte legislative e in tema di politiche; il Consiglio dei Ministri ed il Parlamento Europeo approvano gli atti legislativi e di bilancio; mentre il rispetto del principio di legalit garantito dalla Corte Europea di Giustizia si applica soltanto alla Comunit Europea e non alle altre componenti dellUnione Europea. Ne segue che il sistema giuridico e politico dellUnione non coincide con quello comunitario; al contrario, il controllo parlamentare e giurisdizionale sugli atti prodotti nellambito del secondo e del terzo pilastro sono minimi. Inoltre, lUnione Europea non ha personalit giuridica, per cui non pu concludere trattati o accordi con Paesi terzi se non per il tramite della Comunit o degli stati membri. A causa di queste differenze impossibile analizzare lUnione Europea secondo uno schema

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unitario, specialmente riguardo ad un argomento cos delicato come il problema della legittimazione democratica. Pertanto in questo lavoro, a parte alcune considerazioni finali, limiteremo la nostra analisi allambito comunitario.
2. I diversi volti del deficit democratico

Anche in tale ambito pi omogeneo, non esiste un unico problema di deficit democratico, ma pi problemi, o almeno aspetti diversi di uno stesso problema generale, secondo listituzione comunitaria di cui si tratta: Consiglio dei Ministri, Commissione, Parlamento Europeo (come vedremo, anche la legittimit democratica dellunica istituzione europea direttamente eletta pu essere messa in dubbio), Corte di Giustizia, Banca Centrale Europea. Esiste inoltre un problema di legittimazione dellintero processo decisionale comunitario, ossia delle relazioni tra istituzioni europee e tra queste ed i cittadini. Ma sopra tutto importante tener presente che le diverse argomentazioni sul deficit democratico della Comunit riflettono diverse concezioni circa la natura e finalit del processo di integrazione europea. Chi assume che lintegrazione economica debba necessariamente portare ad una integrazione politica di tipo federale, naturalmente portato ad applicare alle istituzioni europee criteri di legittimit derivati dalla teoria e dalla pratica delle democrazie parlamentari. Daltra parte, chi non vede un nesso necessario tra integrazione economica e la costruzione di un superstato europeo, tende a valutare in modo diverso gli aspetti nonmaggioritari del processo di integrazione. Infatti, dopo il fallimento della Comunit Europea di Difesa nel 1954, apparve chiaro che integrazione economica ed integrazione politica dovevano seguire percorsi separati, con tutte le conseguenze pratiche e normative che derivano dalla separazione delleconomia dalla politica. Il ruolo limitato che i trattati europei assegnano alla democrazia si riflette, come vedremo in seguito, nella stessa architettura istituzionale della Comunit. Per il momento ci limitiamo a passare brevemente in rassegna le argomentazioni pi frequenti nel dibattito attuale sul deficit democratico. possibile raggruppare tali argomentazioni in quattro categorie secondo i criteri di legittimit che, implicitamente o esplicitamente, vengono applicati (Majone 1998):

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criteri basati sullanalogia con le istituzioni nazionali; criteri maggioritari; criteri derivati dalla legittimit democratica dei Paesi membri della UE; criteri di carattere sociale. Le argomentazioni del primo gruppo tendono ad identificare le istituzioni comunitarie con le corrispondenti istituzioni nazionali, o almeno ad assumere una loro eventuale convergenza. Tale identificazione porta a concludere, ad esempio, che il Parlamento Europeo (PE) dovrebbe godere di un autonomo diritto di iniziativa legislativa, e in futuro anche di autonomia in campo fiscale, in quanto i parlamenti nazionali godono di tali poteri. Per la stessa ragione, la Commissione dovrebbe essere del tutto esclusa dal processo legislativo mentre i poteri del Consiglio dei Ministri dovrebbero essere notevolmente ridimensionati in un sistema bicamerale di rappresentanza diretta (si veda, ad esempio, Vaubel 1995). Dal canto suo, la Commissione, nel recente Libro Bianco su La Governance Europea (Commissione Europea 2001) si appella allanalogia con i sistemi politici nazionali, basati sul principio della separazione dei poteri, per avanzare la richiesta di diventare il solo potere esecutivo a livello europeo senza peraltro rinunciare a privilegi poco compatibili con tale principio, in primo luogo il monopolio delliniziativa legislativa (questo punto sar approfondito ai nn. 5 e 6). Secondo tali ragionamenti basati sullanalogia, il deficit democratico risulta dalla asimmetria tra le istituzioni europee e quelle nazionali. Pertanto la legittimazione democratica del processo di integrazione richiede una omologazione del modello comunitario agli standard delle democrazie parlamentari. Vedremo in seguito (n. 5) quanto fuorviante sia il ragionamento analogico; per il momento sar sufficiente osservare che una eventuale trasformazione del modello comunitario nel senso auspicato, non rappresenterebbe affatto una evoluzione naturale del sistema attuale ma, al contrario, una completa rottura con il metodo seguito, non senza successo, sinora. Le argomentazioni del secondo gruppo non si basano tanto sullanalogia con le istituzioni democratiche degli stati membri, quanto su un modello astratto di democrazia, il modello maggioritario puro o modello di Westminster. Secondo tale modello, in una democrazia rappresentativa la legittimit democratica deriva tutta, in ultima analisi, dal parlamento. Il PE la sola istituzione comunitaria direttamente legittimata dagli

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elettori. Pertanto, per ridurre il deficit democratico ed accrescere la legittimit del processo di integrazione baster dare sufficienti poteri al PE. Sherley Williams (1991) esprime nel modo pi chiaro tale concezione quando definisce il deficit democratico come il divario tra i poteri trasferiti alla Comunit ed il controllo che il PE in grado di esercitare sulluso di tali poteri. In effetti, a partire dal Trattato di Maastricht, la maggior parte delle misure introdotte nella speranza di migliorare la legittimit democratica del processo di integrazione hanno portato ad un rafforzamento del ruolo del PE nel processo legislativo comunitario, e allestensione dei suoi poteri di controllo nei confronti della Commissione. Cos, mentre in precedenza il presidente della Commissione veniva scelto dai governi nazionali, dopo aver consultato il PE, oggi la loro nomina deve essere approvata dal Parlamento e, inoltre, il presidente e gli altri membri della Commissione sono soggetti ad un voto parlamentare di approvazione. Unaltra innovazione significativa, introdotta nel 1995, fa coincidere il termine dufficio della Commissione con quello del PE. In tal modo, poich il Parlamento appena eletto partecipa alla nomina della Commissione, cambiamenti significativi nella composizione della rappresentanza parlamentare possono riflettersi, almeno in teoria, nella scelta dei commissari come del loro presidente. Non c dubbio che tali innovazioni abbiano modificato in profondit le relazioni istituzionali tra PE e Commissione, e che questultima sia oggi meno indipendente e pi politicizzata di quanto previsto dal Trattato di Roma. Tale politicizzazione tende a ridurre la credibilit della Commissione quale istituzione nonmaggioritaria completamente indipendente nello svolgimento dei suoi compiti, come recita il Trattato, mentre, come vedremo, non sembra che ne siano derivati benefici in termini di legittimazione democratica. Passiamo ora a considerare il terzo gruppo di argomenti, quelli basati sulla legittimit democratica dei Paesi membri della Comunit. Si noti in primo luogo che il dibattito sul deficit democratico relativamente recente. Prima dellAtto Unico Europeo (entrato in vigore nel 1987) era opinione diffusa che il processo di integrazione europea fosse pienamente legittimato dal carattere democratico degli stati membri: i trattati vengono ratificati dai parlamenti nazionali, e in alcuni casi da referendum popolari; il Consiglio Europeo, composto di capi di stato o di

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governo democraticamente eletti, definisce le priorit strategiche; Il Consiglio dei Ministri, i cui membri sono responsabili ai rispettivi parlamenti nazionali, deve approvare le proposte della Commissione prima che queste possano diventare leggi comunitarie. Pertanto, lintero processo di integrazione guidato e controllato da istituzioni di indubbia legittimit democratica. Questo schema di legittimazione derivata, pur non essendo esente da qualche ambiguit, era generalmente ritenuto sufficiente fino a che le competenze della Comunit erano limitate e, soprattutto, fino a che le decisioni venivano prese allunanimit. Ma lAtto Unico ha notevolmente aumentato lambito delle decisioni prese a maggioranza qualificata, e quindi le possibilit che una misura presa a livello europeo sia contraria alle preferenze della maggioranza degli elettori in uno o pi Paesi. Abbandonato, per ragioni di efficienza decisionale, il principio dellunanimit sorgeva cos il problema di giustificare la potenziale violazione del principio maggioritario a livello nazionale un rischio che diventa tanto pi reale quanto pi generali e incisive sono le competenze comunitarie. Per prendere il caso estremo, possono n-1 governi legittimamente imporre la loro volont agli elettori dellennesimo stato membro? Occorre ricordare che il principio maggioritario, come lo stesso processo democratico, presuppone lesistenza di un corpo politico ragionevolmente omogeneo (Dahl 1989). Pertanto, la giustificazione normativa di decisioni maggioritarie a livello europeo dipende da unipotesi molto dubbia qual lesistenza di un demos europeo. Occorre anche osservare che la legittimit di una istituzione sopranazionale come la Commissione non pu essere semplicemente derivata dalla legittimit democratica dei governi nazionali. Infatti, secondo il Trattato, la Commissione non un semplice agente di questi governi, ma legata ad essi da un rapporto fiduciario (Majone 2001a, 2001b). Proprio il fatto che i commissari europei non debbano chiedere n accettare istruzioni da alcun governo o da qualsiasi altro organismo (come recita larticolo 157 del Trattato di Roma) significa che la Commissione deve guadagnarsi una propria autonoma legittimazione; ma, come vedremo al n. 3, si tratter comunque del tipo di legittimazione cui possono aspirare istituzioni nonmaggioritarie, non di piena legittimazione democratica. Passiamo infine a considerare il quarto gruppo di argomenti, secondo i quali il deficit democratico della Comunit Europea

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dovuto alla mancata costruzione di uno stato sociale europeo, o almeno, alla mancanza di un significativo ruolo comunitario in campo sociale. Queste preoccupazioni non si riferiscono, pertanto, ai poteri ancora deboli del PE, o alla perdita di controllo dei parlamenti nazionali, e nemmeno ai problemi di legittimit sollevati dal numero crescente di decisioni prese a maggioranza, ma riguardano piuttosto il futuro dei diritti sociali in unEuropa integrata economicamente ma non politicamente. Una vera politica sociale a livello europeo, si sostiene, non solo impedirebbe il dumping sociale e la liberalizzazione selvaggia dei mercati del lavoro, ma contribuirebbe alla legittimazione democratica della Comunit e dellUnione, cosi come nel passato le politiche sociali hanno contribuito fortemente alla legittimazione degli stati nazionali e del processo di formazione delle economie nazionali. tuttavia lecito dubitare della rilevanza di tale analogia (Majone 1996). In primo luogo, si deve osservare che il ruolo molto modesto assegnato alle politiche sociali nel processo di integrazione dovuto in primo luogo alla riluttanza dei governi e dei parlamenti nazionali a perdere il controllo di settori politicamente e socialmente cos importanti, e a trasferire al livello europeo le relative competenze e, soprattutto, le necessarie risorse. Il Trattato di Roma esprime molto chiaramente tale riluttanza. Lelencazione, nellarticolo 118, delle materie di natura sociale, ed il ruolo assai limitato attribuito alla Commissione nellintera parte del trattato che si riferisce alla politica sociale, mostrano che, con poche eccezioni quali il regime previdenziale per i lavoratori emigrati, tale settore era considerato non di competenza delle istituzioni comunitarie. N lAtto Unico n i Trattati di Maastricht, di Amsterdam e di Nizza hanno attribuito alla Comunit delle vere competenze legislative in campo sociale. Al contrario, questi trattati escludono esplicitamente larmonizzazione delle corrispondenti legislazioni nazionali, assegnando alla Comunit soltanto un ruolo di coordinamento, di studio e di consulenza. Alla mancanza di competenze legislative corrisponde la mancanza di risorse finanziarie. Poich il bilancio comunitario ancora inferiore allo 1,3% del PIL dellUnione, una vera politica sociale europea impossibile, se non per certi aspetti regolativi. Le due eccezioni significative confermano la regola: la politica agricola comune, con la quale si cercato di creare uno stato sociale per agricoltori, sar del tutto insostenibile con lallargamento ai Paesi dellEst

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europeo, ed pertanto sulla via di una progressiva rinazionalizzazione (Rieger 2000); mentre i fondi strutturali e di coesione, quale che sia la loro utilit in termini di sviluppo regionale, sono strumenti del tutto inadeguati per una ridistribuzione del reddito a livello individuale (Majone 1996). Del resto, non sono solo i governi nazionali ad opporsi a politiche ridistributive a livello europeo: i dati dellEurobarometro mostrano che gli unici Paesi membri in cui una maggioranza degli intervistati si dichiara a favore dellintegrazione delle politiche sanitarie e della sicurezza sociale, sono quelli che, come il Portogallo e la Grecia, sono netti beneficiari del bilancio comunitario. N questo pu sorprendere poich anche allinterno degli stati nazionali le politiche redistributive, ed i corrispondenti prelievi fiscali, incontrano crescenti resistenze da parte degli elettori; a fortiori, comprensibile lopposizione a politiche di questo tipo a livello europeo. Il moderno stato sociale rappresenta una combinazione, diversa da Paese a Paese, di tradizioni nazionali e di compromessi politici che hanno costituito la base del consenso sociale dopo la seconda guerra mondiale. Daltra parte, il delicato equilibrio tra efficienza economica e solidariet sociale, che le politiche sociali esprimono, pu essere legittimamente determinato solo allinterno di comunit relativamente omogenee. Anche in questo caso, linesistenza di un demos europeo limita grandemente il campo delle attivit che possono essere legittimamente trasferite al livello sopranazionale. infatti difficile vedere come livelli politicamente accettabili di ridistribuzione del reddito potrebbero essere determinati in una comunit di stati dove i livelli di sviluppo sono ancora cos diversi, e dove manca il senso di appartenenza creato da una comune tradizione storica. Ne segue che il tentativo di ridurre il deficit democratico mediante una politica sociale europea in realt aggraverebbe il problema, rafforzando limmagine popolare di una Comunit fortemente centralizzata e burocratizzata.
3. Istituzioni non-maggioritarie e democrazia

Lanalisi critica svolta nelle pagine precedenti ha messo in luce ci che la Comunit Europea non (o non pu essere), ma per sviluppare adeguatamente il nostro tema sar necessario proporne anche una caratterizzazione positiva. Prima di avanzare un

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modello generale tuttavia opportuno fermare lattenzione su un problema particolare ma di notevole importanza non solo nel contesto comunitario ma in tutte le democrazie rappresentative. Mi riferisco alla funzione e giustificazione normativa delle gi menzionate istituzioni non-maggioritarie: istituzioni che svolgono funzioni pubbliche ma che non sono direttamente responsabili delle loro decisioni n agli elettori, n (come invece il caso della burocrazia classica) a ministri a loro volta responsabili al parlamento. Corti costituzionali, banche centrali indipendenti, autorit amministrative indipendenti, Commissione europea, organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario e lOrganizzazione Mondiale del Commercio, sono esempi ben noti. chiaro che il ruolo di tali istituzioni continua a crescere, sia a livello nazionale che sopranazionale, e che, di conseguenza, un problema di deficit democratico esiste non solo per la Comunit Europea, ma per tutte le democrazie avanzate e per il sistema internazionale nel suo complesso. Per questa ragione, sar utile considerare tale problema in termini generali invece di restringere arbitrariamente lanalisi al solo aspetto europeo. Il classico articolo di Ronald Coase sulla natura dellimpresa suggerisce unanalogia che si rivelata euristicamente utile per capire il ruolo delle istituzioni non-maggioritarie in un sistema democratico (Majone 2001a). In quellarticolo del 1937 Coase solleva una domanda in apparenza semplice ma in realt molto profonda: perch esistono le imprese in uneconomia di mercato dove il meccanismo dei prezzi dovrebbe essere sufficiente a coordinare le attivit degli operatori economici? La risposta data dalleconomista anglo-americano che luso del meccanismo dei prezzi comporta un costo, e che pertanto in certi casi pi conveniente organizzare la produzione mediante la mano visibile dellimprenditore invece di affidarsi alla mano invisibile del mercato costituisce oggi il fondamento della teoria dei costi di transazione e del neoistituzionalismo in economia. Infatti, nel lavoro pi tardo sul problema dei costi sociali, Coase (1960) ha dimostrato che in un mondo ove i costi di transazione fossero nulli le istituzioni che costituiscono il sistema economico inclusi i diritti di propriet e lintero sistema legale non avrebbero ragione di esistere. Analogamente, in campo politico, possiamo supporre che lesistenza di costi di transazione risultanti dalluso del principio maggioritario sia la ragione perch in tutti i sistemi democratici

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dove le politiche pubbliche dovrebbero essere decise dalla maggioranza di governo, che se ne assume la responsabilit verso gli elettori troviamo istituzioni che prendono decisioni di interesse generale senza rispettare, anzi in certi casi contraddicendo, tale principio. Parafrasando Coase si pu dire che in un mondo in cui questi costi fossero nulli le istituzioni che costituiscono il sistema democratico non avrebbero ragione di esistere. Non solo la democrazia rappresentativa ed i partiti, ma lo stesso processo politico sarebbero superflui. I cittadini potrebbero discutere e negoziare (a costo zero) fino a trovare una soluzione accettabile per tutti (Majone 2001a). In realt, come Douglass North (1990) ha osservato, nella sfera politica i costi di transazione sono ancora pi diffusi, e hanno conseguenze pi gravi, che nella sfera economica. Quali costi di transazione sono pi rilevanti per il nostro problema? Tradizionalmente si voluto spiegare lesistenza di istituzioni non-maggioritarie in termini di specializzazione e divisione del lavoro: i politici sono troppo occupati a massimizzare la probabilit della loro rielezione per trovare il tempo di acquisire le conoscenze necessarie a risolvere complessi problemi di natura economica, tecnica o sociale. Pi semplice, ma anche pi efficiente, delegare le decisioni in questi campi ad organismi specializzati come banche centrali, autorit amministrative indipendenti o commissioni di esperti. La spiegazione sembra plausibile, ma in realt non chiarisce molto. Ad esempio, lindipendenza delle banche centrali fenomeno alquanto recente. Sino alla fine degli anni 80 nella maggior parte dei Paesi europei le decisioni in campo monetario venivano prese dallesecutivo, mentre la banca centrale si limitava a fornire pareri tecnici ed a eseguire le direttive dei politici. In realt, questi ultimi possono sempre servirsi di esperti per gli aspetti pi tecnici dei problemi da risolvere, senza per questo delegare i propri poteri decisionali. Pi convincenti sono le spiegazioni che fanno intervenire costi di transazione direttamente imputabili al funzionamento del sistema democratico. Tra queste spiegazioni, due hanno ricevuto particolare attenzione nella letteratura sia economica che politologica: il problema della credibilit, ed il carattere contingente di molti contratti politici. Come noto, i politici hanno difficolt a fare delle promesse credibili. possibile spiegare tale difficolt in termini istituzionali. In primo luogo, la democrazia una forma di governo pro tempore (Linz 1998). Il limite

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temporale imposto da elezioni ad intervalli regolari significa che la maggioranza attuale non pu vincolare una maggioranza futura, la quale pu legittimamente modificare o anche abbandonare le politiche attuali. Tuttavia, gli operatori economici, ed i cittadini in generale, hanno bisogno di contare su politiche e norme che rimangono stabili per un sufficiente periodo di tempo. La mancanza di certezza pu avere serie conseguenze economiche e politiche, ad esempio riducendo gli investimenti in settori particolarmente sensibili a cambiamenti del regime regolativo, come le telecomunicazioni ed altre public utilities (Troesken 1996). Questo spiega il moltiplicarsi di autorit amministrative indipendenti nel campo della regolazione economica: delegando il compito di fissare le regole del gioco ad istituzioni sottratte al ciclo elettorale, possibile assicurare a queste politiche una credibilit che esse non avrebbero in mancanza di tale delega. Una logica simile spiega la delega di certi poteri ad una istituzione non-maggioritaria quale la Commissione Europea. Ad esempio, il monopolio della iniziativa legislativa di cui essa gode un diritto esclusivo che viola il principio della separazione dei poteri e della stessa democrazia parlamentare serve ad aumentare la credibilit dellimpegno europeo degli stati membri. Infatti, se anche il Consiglio dei Ministri godesse del potere di iniziativa legislativa, esso potrebbe modificare o addirittura cancellare, per motivi elettorali o daltra natura, parti del cosiddetto acquis communautaire, in tal modo rimettendo in discussione il livello dintegrazione gi raggiunto. Un problema di credibilit si presenta anche nel caso di inconsistenza temporale (Kydland e Prescott 1977). Si ha inconsistenza temporale quando gli obiettivi di lungo termine del governo entrano in conflitto con obiettivi di breve termine, cos che i governanti hanno un incentivo a rinunciare ai primi a favore dei secondi. Ad esempio, la stabilit del livello dei prezzi la migliore politica nel lungo periodo, ma nel breve periodo pu essere politicamente utile stimolare leconomia con un po dinflazione. Ma imprese e sindacati, anticipando tale possibilit, si comporteranno in modo tale da rendere impossibile il raggiungimento dellobiettivo di una bassa inflazione. Siamo cos in presenza di una situazione del tipo dilemma del prigioniero: il governo alla fine si trova in una posizione peggiore di quella inizialmente possibile per la sua incapacit ad impegnarsi in modo credibile al perseguimento dellobiettivo di lungo periodo.

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Nel linguaggio della teoria dei giochi, una politica temporalmente inconsistente non pu rappresentare un equilibrio di Nash: la promessa di seguire una tale politica non credibile e pertanto non sar in grado di modificare le aspettative degli operatori economici. Il concetto economico di inconsistenza temporale di carattere normativo. Esso stato introdotto per dimostrare la superiorit di regole fisse rispetto a politiche monetarie discrezionali. Dal punto di vista dellanalisi positiva si potrebbe obiettare che ci che interessa sopra tutto ai politici massimizzare la probabilit di rielezione. Pertanto al governo conviene mantenere un potere discrezionale che permetta di adattare le politiche alle esigenze elettorali. Anche da tale punto di vista, tuttavia, la discrezionalit non necessariamente la strategia migliore. Per restare nellesempio della politica monetaria: se le misure prese prima delle elezioni producono effetti inflazionistici in seguito, ci pu ridurre la probabilit di rielezione a meno di assumere che gli elettori sono stupidi o smemorati. Inoltre, se le prossime elezioni fossero vinte dallopposizione, il nuovo governo potrebbe ricorrere alle stesse strategie inflazionistiche per aumentare la probabilit di venire rieletto. N si possono trascurare i vincoli esterni che, con il progredire dellinternazionalizzazione dei mercati, diventano sempre pi rilevanti. Per tutte queste ragioni, pu convenire sia al governo che allopposizione rinunciare a politiche discrezionali, delegando la responsabilit per la stabilit dei prezzi alla banca centrale. Si tratter allora di scegliere un banchiere centrale che sia pi conservatore (ossia pi contrario allinflazione) del governo, in modo da rendere credibile il mantenimento di un basso tasso medio di inflazione. Rogoff (1985) ha dimostrato che possibile aumentare il benessere sociale scegliendo come governatore della banca centrale una persona che attribuisce pi importanza alla stabilit dei prezzi che alla piena occupazione (ma che, a differenza della Banca Centrale Europea, non interessato solo al livello dei prezzi). La maggiore importanza attribuita alla stabilit dei prezzi pu cos compensare eventuali distorsioni nel mercato del lavoro che causino livelli troppo elevati di inflazione. Si noti che il modello di Rogoff non assume esplicitamente lindipendenza della banca centrale. Lindipendenza piuttosto una conseguenza del modello, in quanto se il governatore non fosse autonomo nelle sue decisioni di politica

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monetaria, le sue preferenze sarebbero irrilevanti (Persson e Tabellini 1994, p. 16). Alesina e Grilli (1994) hanno adattato il modello di Rogoff al caso della Banca Centrale Europea (BCE). Essi dimostrano che i benefici dellunione monetaria sono maggiori se la BCE attribuisce pi importanza alla stabilit monetaria che i governi dei Paesi che vi partecipano. In tal modo, lunione monetaria rende pi credibile le politiche anti-inflazionistiche dei governi nazionali. Questa sembra essere la ragione per cui lunione monetaria stata accolta pi favorevolmente in Paesi con una lunga storia di inflazione, come lItalia, che in Paesi come la Germania il cui impegno a controllare linflazione era credibile anche prima dellintroduzione della moneta unica. Ai governi dei Paesi con una tradizione di politiche inflazionistiche il guadagno di credibilit reso possibile dallintegrazione monetaria apparso maggiore dei possibili costi in termini di disoccupazione. Unaltra spiegazione della delega di poteri ad istituzioni nonmaggioritarie fa intervenire lapproccio contrattuale alla teoria economica dellorganizzazione (Williamson 1985). Fondamentale, in tale approccio, la distinzione tra contratti completi ed incompleti, ove per contratto si intende non solo una promessa giuridicamente vincolante, ma anche un accordo informale o addirittura tacito. Un contratto completo specifica esattamente ci che ogni parte contraente deve fare in tutte le situazioni possibili, e come i benefici e costi dellaccordo vadano ripartiti in ciascun caso. nellinteresse di tutti i contraenti rispettare scrupolosamente i termini di un tale accordo, ma un contratto completo chiaramente unastrazione teorica. In pratica si presentano sempre situazioni impreviste, e spesso imprevedibili, nel momento in cui laccordo veniva raggiunto. Pertanto, tutti i contratti di una certa complessit sono contratti incompleti, il cui adempimento, nella forma originale, spesso problematico. Nel caso di contratti di questo tipo, i contraenti hanno un incentivo a non rispettare i termini originali dellaccordo in quanto non del tutto chiaro cosa si debba fare nel caso di eventi imprevisti. Ci riduce la credibilit dellaccordo stesso. Il problema pu essere risolto trasformando il contratto incompleto in un contratto di relazione (relational contracting). In un contratto di questo tipo, le parti contraenti non tentano nemmeno di definire in dettaglio i termini dellaccordo. Piuttosto, si cerca un accordo sui principi generali, sui criteri di

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decisione da seguire nel caso di eventi imprevisti, su chi ha il potere di agire in tali situazioni, ed entro quali limiti, e su meccanismi per la risoluzione di eventuali conflitti (Milgrom e Roberts 1992). Una decisione cruciale, in tale approccio, la scelta di un meccanismo per adattare il contratto al verificarsi di contingenze imprevedibili. In molti casi una particolare persona o istituzione gode di una speciale autorit nel decidere quali adattamenti devono essere apportati. Tuttavia, i contraenti saranno disposti a delegare tale autorit solo se hanno una ragionevole certezza che essa verr usata in modo equo ed efficace. Milgrom e Roberts suggeriscono che il potere di adattare il contratto dovrebbe essere delegato a chi ha pi da rimetterci da una perdita di reputazione. Tipicamente si tratter di persone o istituzioni che, rispetto ai contraenti, hanno un orizzonte temporale pi lungo, una maggiore visibilit e maggiore frequenza di interazioni con altri soggetti: un tribunale o unautorit amministrativa indipendente, ad esempio, piuttosto che un politico esposto alle incertezze del ciclo elettorale, o unanonima burocrazia ministeriale. Lapproccio contrattuale pu essere utilmente applicato al caso della Comunit Europea, in particolare per spiegare perch gli stati membri abbiano acconsentito a delegare importanti poteri alla Commissione e alla Corte di Giustizia. Il Trattato di Roma un trattato quadro piuttosto che un accordo internazionale di carattere specifico, come il Trattato della Comunit del Carbone e dellAcciaio o il Trattato Euratom. Con poche eccezioni, il Trattato di Roma contiene solo principi generali ed indicazioni altrettanto generali sulle politiche da intraprendere. Il compito di specificare le misure concrete per realizzare gli obiettivi elencati nellarticolo 2 stato delegato alle istituzioni europee. Pertanto il Trattato pu essere visto come un contratto di relazione tra gli stati membri. Come detto sopra, questo tipo di rapporto contrattuale si limita a fornire un quadro generale per le attivit future, essendo impossibile determinare ex ante tutte le modalit di applicazione e di modifica dellaccordo originale. Effettivamente, larticolo 235 (ora articolo 308), il quale attribuisce alle istituzioni europee una generale competenza legislativa nellambito delle politiche definite dal trattato, uno strumento per rimediare (nel senso chiarito sopra) allincompletezza contrattuale che caratterizza tutti i documenti costituzionali. Nei primi tre decenni della Comunit, la Commissione e la

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Corte hanno giocato un ruolo cruciale nel processo di adattamento dellaccordo originale alle varie fasi dellintegrazione europea. questo il periodo in cui la sovranazionalit normativa (Weiler 1985) si definitivamente affermata. Daltra parte, latteggiamento di minor fiducia dei governi nazionali verso queste istituzioni si manifesta nel modo pi chiaro nella frequenza delle revisioni costituzionali negli ultimi quindici anni. Dal 1957 allAtto Unico del 1987, la costituzionalizzazione della Comunit e lespansione apparentemente inarrestabile delle sue competenze sono avvenute quasi esclusivamente su iniziativa della Commissione e della Corte, anche se, naturalmente, col consenso degli stati membri. Ma a partire dai primi anni 90 liniziativa passata a questi ultimi. Cinque anni dopo lAtto Unico, il Trattato di Maastricht introduce principi, quali la sussidiariet e la enumerazione delle competenze, che modificano in profondit la costituzione comunitaria. Anche quando nuove competenze vengono assegnate al livello europeo, ci avviene in modo molto circoscritto. Ad esempio, la armonizzazione delle legislazioni nazionali uno degli strumenti pi importanti tra quelli a disposizione della Commissione spesso viene esplicitamente esclusa. Anche il ricorso alla Corte di Giustizia limitato o del tutto escluso in settori quali la politica estera, la difesa e la cooperazione giudiziaria. Il Trattato di Amsterdam del 1997 e quello di Nizza (firmato ufficialmente il 26 febbraio 2001 ma a tuttoggi agosto 2002 non ancora ratificato a causa del risultato negativo del referendum irlandese) seguono lo stesso schema. Torneremo in seguito sul significato di tutto ci per il processo dintegrazione. Per il momento sufficiente notare che, a partire dal 1987, i trattati sono stati modificati, sempre su iniziativa dei governi nazionali, ogni tre anni circa. Ricordando le osservazioni di Milgrom e Roberts a proposito della delega del potere di modificare i termini di un contatto di relazione, non si pu fare a meno di dedurre che il rapporto fiduciario tra i governi nazionali e le istituzioni sopranazionali si ormai seriamente incrinato. Torneremo su questo tema nelle pagine conclusive del presente lavoro. Per il momento, resta da completare il discorso sulle istituzioni nonmaggioritarie considerando, oltre agli aspetti funzionali, anche quelli normativi.

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4. Il problema della legittimazione

Se dal punto di vista funzionale non difficile giustificare lesistenza di istituzioni pubbliche strutturate in modo tale da non essere direttamente responsabili n verso gli elettori n verso i loro rappresentanti, pi complesso il problema della loro legittimazione. Pretendere, come spesso si fa, una legittimazione democratica per istituzioni di questo tipo equivale a introdurre nel dibattito pubblico un ossimoro, una contraddizione in termini, utile solo a confondere le idee. Come si cercato di dimostrare sopra, si ricorre a istituzioni non-maggioritarie, sia a livello nazionale che internazionale, precisamente per ovviare a certe inevitabili conseguenze del metodo democratico o, in linguaggio pi tecnico, per ridurre i costi di transazione risultanti dalluso del principio maggioritario. Una volta chiarito questo punto, il problema della legittimazione diventa quello di determinare criteri appropriati di valutazione, rispondenti cio sia al carattere non-maggioritario delle istituzioni che alle norme fondamentali dello stato di diritto. Il quadro di riferimento, pertanto, sar quello di un sistema di democrazia costituzionale, e non di una democrazia in cui le maggioranze sono in grado di controllare tutti i poteri dello stato esecutivo, legislativo e, se lo desiderano, anche il potere giudiziario ed in tal modo controllate tutto ci che la politica pu toccare (Spitz 1984, citata da Lijphart 1991, p. 486). Al contrario della democrazia maggioritaria pura (giacobina), che tende a centralizzare il potere, la democrazia costituzionale usa una variet di meccanismi istituzionali per dividere, disperdere e limitare il potere, creando in tal modo un ambiente favorevole allo sviluppo di istituzioni non-maggioritarie. In una democrazia costituzionale, criteri di valutazione appropriati sono, in primo luogo, quelli di natura procedurale. Una istituzione non-maggioritaria gode di legittimazione procedurale se essa stata creata da una legge parlamentare (o da un trattato internazionale ratificato dai parlamenti nazionali), che ne definisce i poteri e gli obiettivi; se i suoi dirigenti sono nominati da politici democraticamente eletti; se i suoi processi decisionali seguono regole ben definite; se, infine, le sue decisioni sono esplicitamente giustificate, e sono sottoposte al controllo giudiziario. Le istituzioni europee soddisfano ampiamente questi criteri e anzi, per certi aspetti, godono di una maggiore legittimit procedurale di molte istituzioni nazionali.

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Si prenda, ad esempio, larticolo 190 del Trattato di Roma (ora articolo 253 del Trattato CE) secondo il quale Regolamenti, direttive e decisioni del Consiglio e della Commissione devono fornire le ragioni sulle quali si basano. Quando il Trattato venne ratificato, nessuno degli stati membri aveva nel proprio ordinamento un obbligo di portata cos generale, di modo che le disposizioni comunitarie erano, ed in parte ancora sono, non solo diverse ma anche pi avanzate delle legislazioni nazionali. Ora, lobbligo di giustificare le proprie decisioni uno dei mezzi pi semplici ma anche pi efficaci per assicurare la trasparenza e la responsabilit degli amministratori pubblici. Infatti, tale obbligo tende ad attivare numerosi altri meccanismi quali il controllo giudiziario, la partecipazione ed il pubblico dibattito, lanalisi scientifica delle politiche pubbliche. Come ha scritto Martin Shapiro (1992, p. 183): lobbligo di spiegare le decisioni uno strumento per accrescere le influenze democratiche sulla amministrazione, rendendo il governo pi trasparente. Lamministratore che deve spiegarsi ha maggiori probabilit di decidere in modo ragionevole, ed pi esposto alla sorveglianza dei cittadini. Lesistenza di istituzioni non-maggioritarie in tutte le democrazie liberali dimostra che per certi scopi, la credibilit, la specializzazione, lequit o lindipendenza di giudizio sono considerate pi importanti della responsabilit diretta agli elettori. Pertanto, un altro metodo di legittimazione costituito dalla capacit di produrre risultati migliori, nel campo assegnato, rispetto ad altre soluzioni istituzionali (accountability by results). Si noti che molti dei criteri di legittimit procedurale hanno come scopo ultimo quello di facilitare, direttamente o indirettamente, la valutazione dei risultati ottenuti, e pertanto di accrescere quella che possiamo chiamare legittimit sostanziale (Majone 1996). I criteri di legittimit sostanziale includono, oltre alla qualit dei risultati, anche la coerenza delle politiche e la loro rispondenza ai fini della legislazione istitutiva, la competenza tecnica, la capacit di difendere gli interessi diffusi e, soprattutto, una precisa delimitazione dei compiti. Infatti, solo obiettivi precisi e limitati permettono una valutazione oggettiva dei risultati, mentre laffidamento di obiettivi multipli, e quindi della responsabilit di fare delle scelte di valore, equivale ad una illegittima delega di poteri legislativi ad un organismo non eletto. In conclusione, si pu dire che, applicando al meglio i criteri procedurali e sostanziali indicati sopra, unistituzione non-

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maggioritaria pu raggiungere un livello sufficiente di legittimit agli occhi dei cittadini di un Paese democratico. Tuttavia, le basi normative della sua azione restano estremamente fragili e contestabili. Ne segue che queste limitate risorse normative devono essere economizzate, usandole solo per compiti che non possono essere efficacemente assolti da istituzioni di altro tipo. Una analoga conclusione stata raggiunta da alcuni studiosi di una tra le pi antiche e potenti istituzioni non-maggioritarie: la Corte Suprema degli Stati Uniti. Quando la Corte dichiara incostituzionale una legge del Congresso o di un parlamento statale, essa decide in modo contrario alla volont democraticamente espressa dei rappresentanti del popolo, e quindi si presenta anche in questo caso un problema di legittimazione. In una delle opere pi note sulla legittimit della judicial review in un sistema democratico, il giurista John Hart Ely (1980) sostiene che la corte costituzionale americana dovrebbe limitarsi a due funzioni principali. In primo luogo, essa dovrebbe mantenere aperti i canali del cambiamento politico, specialmente proteggendo vigorosamente la libert di espressione e di voto. Inoltre, essa dovrebbe facilitare la rappresentanza politica delle minoranze. Altre funzioni dovrebbero essere lasciate ai normali processi democratici. Ancora pi radicale la posizione di un altro giurista americano, Jesse Choper (1980). La tesi di Choper che la Corte deve continuare ad esercitare il controllo di costituzionalit anche quando tale controllo assume un carattere esplicitamente anti-maggioritario al fine di proteggere diritti individuali che non sono adeguatamente rappresentati dal sistema politico. Invece la Corte dovrebbe rifiutare di intervenire in altri casi perfino in quelli su federalismo e sulla separazione dei poteri, che tanto importanza hanno tradizionalmente avuto nella giurisprudenza costituzionale al fine di minimizzare la tensione tra la judicial review ed i principi della democrazia, e di economizzare luso del prestigio istituzionale e della legittimit della Corte stessa. Anche la Corte Europea deve affrontare analoghi problemi di legittimazione. Alcuni giuristi parlano addirittura di una crisi di legittimit che investe i rapporti tra la Corte, da un lato, ed i governi, le corti (specialmente alcune corti costituzionali come quella italiana e tedesca) ed i cittadini degli stati membri, dallaltro. Le cause principali di tale crisi vengono identificate in un eccessivo attivismo giudiziario e nel ruolo politico che la

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Corte ha spesso assunto, schierandosi a favore del processo di integrazione invece di limitarsi alla sua funzione di interprete dei trattati. Si fa osservare che se un certo attivismo poteva essere giustificato nel passato, quando le istituzioni europee erano bloccate dal gioco dei veti incrociati, oggi la situazione diversa e la soluzione di problemi di natura politica pu essere demandata agli organi politici Consiglio, Parlamento e Commissione. Come la Corte Suprema degli Stati Uniti, anche la Corte Europea viene dunque invitata a ridurre il proprio deficit democratico mediante un uso pi parsimonioso dei suoi poteri (Friedbacher 1996 e letteratura ivi citata). Tali critiche non sembrano essere cadute nel vuoto. Si ritiene, ad esempio, che il cambiamento di indirizzo iniziato con i casi Keck e Mithouard del 1993 rappresentino una nuova strategia di auto-limitazione di una Corte preoccupata della progressiva erosione della propria base di legittimit. La decisione di questi casi (riuniti) rappresenta una svolta in quanto modifica la dottrina tradizionale sulla libert di movimento dei beni allinterno del mercato comune. Tale dottrina proibiva qualsiasi regolazione nazionale capace di impedire direttamente o indirettamente, di fatto o potenzialmente (secondo la formula della fondamentale decisione Dassonville del 1974) il commercio intracomunitario. Le uniche eccezioni ammesse erano quelle elencate nellarticolo 36 del Trattato di Roma; in particolare, misure nazionali giustificate dalla necessit di proteggere la salute e la vita dei propri cittadini. Ora, la decisione del 1993 riconosce la legittimit di certe regole nazionali nel caso specifico, una legge francese che proibisce le vendite sotto costo a fini promozionali anche se esse interferiscono in qualche modo con la libert di commercio nel mercato unico. Alla decisione Keck e Mithouard hanno fatto seguito sentenze riguardanti altre misure nazionali quali: divieti dapertura domenicale dei negozi; orari di chiusura; restrizioni di certe forme di pubblicit televisiva; vendita esclusivamente in farmacia di certi prodotti per neonati; e lobbligo di vendere sigarette solo in negozi autorizzati. In tutti questi casi, la Corte ha ammesso la legittimit di regole che un tempo sarebbero state proibite in base alla dottrina Dassonville. Essa sembra ora disposta ad accettare una maggiore autonomia legislativa dei Paesi membri, nella speranza che questo atteggiamento pi rispettoso della sovranit nazionale possa arrestare lerosione della sua base di legittimit.

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Tra le altre istituzioni europee di tipo non-maggioritario, la Commissione certamente quella che incontra i maggiori problemi di legittimazione. In larga misura ci dovuto allampiezza dei poteri che le sono stati attribuiti, ma anche a una certa bulimia istituzionale la costante tentazione di inglobare nuove competenze. Quando il Presidente Prodi chiede che anche la conduzione della politica estera dellUnione venga affidata alla Commissione una richiesta che ha sollevato notevoli perplessit non solo nei governi nazionali ma anche allinterno della stessa Commissione egli non fa che proseguire una strategia di espansione istituzionale iniziata negli anni 60 dal primo presidente, Walter Hallstein. La visione che ispira questa strategia una Commissione elevata al ruolo di unico potere esecutivo in un futuro stato federale europeo. Di qui anche la proposta, apparentemente ora abbandonata, di unelezione popolare diretta del suo presidente. Per capire quanto poco questa visione federale, e la stessa idea di separazione dei poteri, corrispondano alla logica del metodo comunitario, opportuno esaminare pi da vicino larchitettura istituzionale disegnata dal Trattato di Roma.
5. La Comunit Europea come governo misto

Secondo un luogo comune che si ritrova non solo nei manuali scolastici ma anche in lavori scientifici, la Comunit un sistema politico sui generis. Questa presunta unicit ha scoraggiato ogni tentativo di ricerca di modelli istituzionali che potessero aiutare a meglio comprendere lessenza del metodo comunitario. certamente vero che la Comunit Europea non corrisponde ad alcuno dei sistemi di governo attuali; in particolare, essa non corrisponde n a un sistema di democrazia parlamentare, n tanto meno ad un sistema presidenziale. Ci non significa, tuttavia, che il sistema creato dal Trattato non abbia precedenti storici precedenti che, se ben compresi, possono aiutare non solo a capire meglio il sistema attuale, ma anche a riconoscere le possibili traiettorie evolutive. Un utile punto di partenza nella ricerca di tali precedenti unosservazione del giurista Jean Paul Jacqu secondo cui il principio organizzatore della Comunit non la separazione dei poteri, ma la rappresentanza di (certi) interessi. Ciascuna istituzione comunitaria portatrice di un particolare interesse

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che essa ha il compito di proteggere e di promuovere. Gli interessi riconosciuti dai trattati sono quelli dei singoli stati membri, linteresse generale della Comunit in quanto tale, e, infine, gli interessi dei popoli degli stati riuniti nella Comunit (articolo 137 del Trattato di Roma, ma la medesima espressione si trova nei Trattati CECA e Euratom). La natura dellinteresse considerato prevalente in una certa materia, determina la natura del processo decisionale. Quando gli autori del Trattato hanno ritenuto che gli interessi nazionali dovessero prevalere in un campo di particolare significato per la sovranit nazionale, come ad esempio larmonizzazione fiscale, essi hanno determinato che le decisioni nel Consiglio dei Ministri devono essere prese allunanimit. Quando invece si ritenuto che gli interessi nazionali devono essere armonizzati con linteresse comune, il Consiglio legifera a maggioranza qualificata, in modo da attribuire un maggior peso alla proposta della Commissione, che, come sappiamo, detiene il monopolio delliniziativa legislativa. Infine, nelle materie in cui linteresse comune deve prevalere sui singoli interessi nazionali ad esempio, il controllo degli aiuti di stato contrari alle regole comunitarie della concorrenza un autonomo potere decisionale stato attribuito alla Commissione. Insomma, ciascun atto legislativo segue una specifica procedura decisionale, secondo la natura del particolare interesse che il Trattato vuole proteggere (Jacqu 1991). Come si vede, il processo legislativo stato strutturato in modo da riconciliare i diversi interessi ritenuti pi rilevanti ai fini dellintegrazione europea; e tale riconciliazione avviene nellinterazione tra Consiglio, Commissione e Parlamento. Proprio per facilitare questa interazione si preferito sacrificare il principio della separazione dei poteri a favore di quello, ben pi antico, della rappresentanza di interessi corporati. Una delle caratteristiche pi singolari della Comunit, infatti, limpossibilit di stabilire una relazione univoca tra funzioni e istituzioni. La Comunit non ha un singolo organo legislativo, ma piuttosto un processo legislativo nel quale diverse istituzioni Consiglio, Parlamento e Commissione svolgono ruoli diversi. Analogamente, non c un unico organo esecutivo dato che il potere esecutivo esercitato, per certi scopi, dal Consiglio che agisce sulla base di una precedente proposta della Commissione; per altri scopi (ad esempio, nel campo della politica della concorrenza) esso esercitato dalla Commissione; mentre sono le

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amministrazioni degli stati membri a dare esecuzione pratica alle politiche comunitarie. Ora, compiendo una chiara scelta a favore del principio della rappresentanza di interessi invece della separazione dei poteri, gli autori del Trattato hanno riscoperto, sia pure inconsciamente, una forma di governo gi nota agli antichi e largamente diffusa in Europa nei secoli tra la fine del Medio Evo e laffermarsi dellassolutismo monarchico: quella forma di governo misto che trionf in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione del 16881689, e che ebbe la sua sistemazione teorica con Locke e Montesquieu. Il tratto distintivo di questo tipo di governance la partecipazione dei grandi interessi politici e/o socioeconomici allesercizio della sovranit, intesa come potere di legiferare. Come ha scritto Nicola Matteucci (1993, p. 49), il governo misto si ispira a un ideale di equilibrio dei poteri, una vera e propria balance of powers fra tre realt sociali e politiche (il re, la nobilt, il terzo stato), la quale impedisse che una di esse potesse imporre la propria egemonia, perch tutte partecipavano al supremo potere e solo il loro accordo... poteva dar luogo a una legge valida. Il principio dellequilibrio istituzionale gioca un ruolo fondamentale anche nellarchitettura costituzionale della Comunit. Infatti la norma secondo cui ciascuna istituzione deve agire entro i limiti dei poteri conferitile da questo Trattato (articolo 7 (1)) deve essere letta alla luce di tale principio. Ci significa che ciascuna istituzione: (1) gode della necessaria indipendenza nellesercizio dei suoi poteri; (2) deve rispettare i poteri delle altre istituzioni; e (3) non pu delegare i propri poteri ad altre istituzioni o corpi se non entro limiti molto stretti (Lenaerts e Van Nuffel 1999). La ben nota rigidit istituzionale della Comunit dovuta, in buona parte, proprio alla centralit della norma dellequilibrio tra le istituzioni (Majone 2002). Naturalmente, tale equilibrio non implica tanto una eguale ripartizione del potere tra i diversi interessi corporati ( ben noto che il Consiglio ha poteri maggiori delle altre istituzioni europee) quanto il mantenimento della posizione relativa di ciascun interesse (nazionale, sopranazionale o popolare) nel corso del processo dintegrazione. compito della Corte di Giustizia assicurare il rispetto dellequilibrio istituzionale, quale risulta dallaccordo raggiunto a livello costituzionale. Diversi aspetti anomali del modello comunitario anomali rispetto agli standard del moderno stato democratico diven-

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tano comprensibili se interpretati alla luce del modello di governo misto. Si pu, ad esempio, notare che il concetto moderno di sovranit indivisibile incompatibile con entrambi i modelli. Nel governo misto, la sovranit che si esprime nella potest legislativa gestita in comune dai corpi o ceti che costituiscono il sistema politico. Cos, nellInghilterra del diciottesimo secolo la sovranit poteva risiedere nel parlamento solo perch i tre ceti del regno re, nobilt, e comuni si riunivano l per legiferare. In modo analogo, gli elementi di sovranit che gli stati membri hanno deciso di trasferire al livello europeo vengono esercitati in comune dalle istituzioni comunitarie, secondo lo schema al quale si fatto riferimento sopra. Nelle moderne democrazie, la lotta politica ha come temi principali il controllo del potere e la formulazione ed attuazione delle politiche pubbliche, specialmente quelle che determinano la formazione e distribuzione del reddito nazionale. Nulla di tutto questo nellantico sistema di governo misto, dove il tema principale della vita politica era il conflitto che opponeva un ceto ad un altro nella difesa delle rispettive prerogative e immunit. Anche in questo, la Comunit pi vicina al modello pre-moderno che alle democrazie parlamentari dei nostri giorni: da un lato, non esiste un potere centrale da conquistare in una competizione tra partiti politici; dallaltro, le politiche comunitarie non vengono decise da una maggioranza di governo, ma da un accordo, o scambio politico, tra le diverse istituzioni. Non a caso, nella maggioranza delle votazioni il PE non si divide secondo criteri di appartenenza politica, ma presenta un fronte unito nel confronto con le altre istituzioni europee a volte contro la Commissione, pi spesso contro i governi nazionali rappresentati nel Consiglio dei Ministri (Hix 1999). Pertanto il conflitto politico a livello comunitario si manifesta, come nei sistemi di governo misto, soprattutto nella difesa delle prerogative del Consiglio, della Commissione, del Parlamento, e nel mantenimento dellequilibrio tra questi corpi. Di qui labbondante giurisprudenza della Corte di Giustizia sui conflitti di competenza tra le istituzioni europee. Unaltra caratteristica del governo misto lassenza di una amministrazione centralizzata, dato che ogni ceto doveva provvedere direttamente al soddisfacimento dei bisogni dei suoi membri, mentre non esisteva un rapporto diretto tra il governo ed i singoli membri dei ceti o delle corporazioni. Si tratta del sistema che Mannori e Sordi (2001) chiamano la auto-ammi-

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nistrazione della societ corporata. Anche qui lanalogia con il sistema comunitario abbastanza evidente. La Comunit non dispone di una vera burocrazia, dato che lamministrazione, ivi compresa limplementazione effettiva delle politiche comunitarie, affidata, come gi ricordato, in primo luogo alle burocrazie nazionali, e solo in minima misura alla Commissione. La mancanza di un vero diritto amministrativo europeo la naturale conseguenza di questo stato di cose. Infine, anche il deficit democratico cio il ruolo limitato assegnato ai principi democratici nel sistema comunitario diventa pi comprensibile alla luce del modello di governo misto. Per certi aspetti fondamentali, tale modello che risale ad Aristotele, uno dei pi accesi critici della democrazia greca, e che trae ispirazione non da Atene, ma da Sparta e, ancor pi, dalla Roma repubblicana e dalla repubblica di Venezia non una variante ma piuttosto unalternativa alla democrazia maggioritaria (Dahl 1989). Il governo misto, specialmente nella forma che esso assunse in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione, serviva a depoliticizzare la societ dopo i conflitti e le fazioni della guerra civile. La costituzione mista (che per la prima volta includeva tra gli interessi corporati anche i giudici di diritto comune, ormai indipendenti) costituiva il fondamento della societ inglese finalmente pacificata, non dai partiti politici ma dal diritto. Anche la pacificazione europea dopo la seconda guerra mondiale avvenuta in buona misura con mezzi apolitici: giuridici (integration through law) ed economici. Come gi ricordato, dopo il fallimento della Comunit Europea di Difesa si era compreso che lintegrazione del continente aveva pi probabilit di avanzare se messa al riparo da conflitti politici che, almeno nelle prime fasi del processo, sarebbero stati necessariamente conflitti tra interessi nazionali divergenti piuttosto che tra diverse visioni della futura societ europea. Per diversi decenni, il diritto e leconomia lintegrazione giuridica ed economica hanno reso possibili risultati che non si sarebbero potuti ottenere con mezzi politici. Resta da vedere se la crescente politicizzazione della Comunit permetter di conseguire risultati altrettanto significativi. La tensione tra politica e metodi non-maggioritari si rivela in modo particolarmente acuto nel caso della Commissione Europea.

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6. Il dilemma della Commissione

Come abbiamo visto, nel sistema comunitario di governo misto alla Commissione spetta il compito di proteggere e promuovere linteresse comune, ossia, pi concretamente, gli obiettivi di integrazione in primo luogo, la costruzione del mercato unico europeo definiti dai trattati. Tutti i poteri e le prerogative dellistituzione, come anche il suo carattere nonmaggioritario, trovano la loro giustificazione in questo ruolo. Il sacrificio del principio maggioritario a favore del processo dintegrazione significa che i concetti costitutivi del discorso democratico maggioranza-minoranza, governo-opposizione, destra-sinistra non sono direttamente traducibili nel linguaggio comunitario. Lirrilevanza delle categorie politiche tradizionali a volte apertamente riconosciuta. Ad esempio, il Presidente Prodi, presentando la sua squadra al PE il 21 luglio 1999, disse: Questa nuova Commissione... rappresenta un buon equilibrio tra il colore politico dei governi nazionali e quello del PE, e ne sono contento. Tuttavia voglio essere chiaro. La Commissione non funziona secondo una logica politica. Questa Commissione un organo collegiale ed i Commissari non sono rappresentanti di gruppi politici come non sono rappresentanti dei governi nazionali (citazione in Magnette 2001, p. 300). tuttavia importante riconoscere il carattere soprattutto ideologico di questa affermazione. In realt, la Commissione politicizzata a tutti i livelli, anche se non in senso maggioritario. La sua composizione politica non riflette tanto la maggioranza espressa dalle elezioni europee, quanto le preferenze dei governi nazionali, come naturale dato il loro ruolo preponderante nella nomina del presidente e dei commissari. I maggiori poteri conferiti in questo campo al Parlamento dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam non hanno sostanzialmente mutato la situazione. Cos, ad esempio, nelle elezioni europee del 1999 il Partito Popolare sostitu il Partito Socialista come gruppo parlamentare pi numeroso, mentre la maggioranza dei governi nazionali rimaneva di centro-sinistra. A dispetto dei risultati elettorali, dieci dei venti membri della Commissione Prodi sono considerati vicini al Partito Socialista Europeo e solo cinque possono essere collegati al Partito Popolare Europeo. Del resto, un Commissario che, una volta terminato il mandato, voglia proseguire la sua carriera politica nel Paese dorigine, ha tutto linteresse a mantenere buoni rapporti con il proprio governo.

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Scarsi, invece, sono gli incentivi a intraprendere una carriera politica nel PE. Ma se lidea di una Commissione apolitica non corrisponde pi alla realt e anzi non vi ha mai pienamente corrisposto esso esprime bene loriginale modello istituzionale. Infatti, per assolvere al meglio le sue funzioni quale custode dei trattati, difensore dellinteresse comune, e onesto mediatore tra i diversi interessi nazionali ed istituzionali, essenziale che la Commissione venga percepita come organo tecnico super partes. Tuttavia, in evidente contrasto con il quadro tracciato al PE, lo stesso Prodi ha spesso descritto la Commissione come un governo europeo e se stesso come un Primo ministro europeo (Peterson 2002). Che non si tratti di estemporanee dichiarazioni off the record dimostrato dalle proposte di riforma istituzionale contenute nel Libro Bianco su La Governance Europea. A pagina 66 del documento si parla di rinvigorire il metodo comunitario mediante riforme che includano una netta distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo. Il modello della separazione dei poteri, che segue quello delle democrazie nazionali, deve permettere alla Commissione di assumersi la piena responsabilit dellesecuzione, oltre che della formulazione, delle politiche comunitarie In tal modo la Commissione diventerebbe il vero esecutivo europeo, le cui competenze, secondo quanto pi volte dichiarato dallattuale presidente, dovrebbero includere anche la politica estera ed il coordinamento effettivo delle politiche economiche e fiscali dei Paesi membri. Ma un esecutivo europeo, il cui capo fosse eletto dal Parlamento Europeo (modello parlamentare), o addirittura dal voto popolare (modello presidenziale), non potrebbe evidentemente essere lorgano tecnico super partes previsto dal Trattato di Roma. Daltra parte, in mancanza di una piena legittimazione democratica, un ulteriore trasferimento di competenze a Bruxelles renderebbe il deficit democratico del tutto insostenibile. Vale anche la pena di notare unaltra incongruenza che sembra essere sfuggita agli estensori del Libro Bianco. Le riforme proposte dovrebbero servire a rinforzare, non a scardinare, il metodo comunitario; e da tutto il testo traspare la ferma intenzione di mantenere, e possibilmente estendere, tutti i poteri e le prerogative di cui la Commissione oggi gode. Ora, come abbiamo visto e come il documento ricorda (a p. 12), un elemento essenziale del metodo comunitario che spetta esclusivamente alla Commissione europea presentare proposte

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legislative ed in tema di politiche. Tuttavia, in un sistema parlamentare di separazione dei poteri lesecutivo ha il diritto di presentare disegni di legge, ma non pu avere lesclusivo monopolio delliniziativa legislativa. Ricordiamo che nel contesto comunitario tale monopolio significa che n il Consiglio n il Parlamento possono prendere alcuna decisione avente effetti giuridici senza una previa proposta della Commissione. Come si spiegato, il monopolio delliniziativa legislativa ha giocato, e continua a giocare, un ruolo fondamentale nel processo di integrazione; proprio questa la ragione per cui la Comunit non basata sul principio della separazione dei poteri, ma su quello della rappresentanza degli interessi, secondo il modello del governo misto. Pertanto la Commissione deve scegliere tra la conservazione di tale straordinario potere, sia pure in campi limitati, ed il ruolo di esecutivo europeo con competenze generali, ma rinunciando al monopolio delliniziativa legislativa. Separazione dei poteri e metodo comunitario, vale la pena di ripetere, sono incompatibili. In altre parole, la Commissione deve scegliere tra il ruolo, importante ma limitato, che i trattati le assegnano e lambizione, perseguita con tenacia da decenni, di diventare un vero governo europeo. Sembra da escludere che gli stati membri siano disposti ad assecondare tale ambizione; ma quello che ci interessa qui non tanto la fattibilit politica del progetto quanto le sue implicazioni normative. Cominciamo con losservare che il modesto livello di legittimit che i trattati concedono alla Commissione una legittimazione derivata, in buona misura, dal carattere democratico degli stati membri appena sufficiente per i compiti contemplati originalmente. Di qui la ricerca, da parte della Commissione, di pi robuste fondamenta normative, capaci di sostenere le sue ambizioni. Scartata, per ragioni di fattibilit pratica e politica, ma non senza riluttanza, lipotesi di una elezione popolare diretta del presidente, le speranze si sono appuntate sul PE al quale dovrebbe essere affidato il ruolo principale nella designazione della Commissione e del suo presidente. importante capire perch il Parlamento non comunque in grado di fornire una legittimazione sufficiente. Lelezione diretta del PE, a partire dal 1978, suscit inizialmente molte speranze che in tal modo lintero processo dintegrazione potessero finalmente acquisire una vera legittimit democratica. Dopo due decenni dobbiamo ammettere che ci

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non avvenuto. Anzi, laumento dei poteri del Parlamento, a partire dallAtto Unico Europeo, stato accompagnato da un costante declino della partecipazione al voto europeo. Le elezioni del 1999 hanno segnato, per la prima volta, un tasso di partecipazione inferiore al 50%, con minimi inferiori al 30% non solo nel Regno Unito, ma anche nei Paesi Bassi, uno dei membri fondatori della Comunit. La ricerca politologica ha chiarito la ragione di questo risultato deludente: le elezioni per il PE non vengono combattute come elezioni europee, ma come elezioni nazionali del secondo ordine. Ci significa che in esse non dominano temi europei ma temi e problematiche nazionali. Le consultazioni nazionali, invece, sono elezioni del primo ordine in quanto il loro scopo di decidere quale partito o coalizione governer il Paese. Poich la conquista del diritto di governare lobiettivo principale dei partiti politici, questi hanno forti incentivi ad usare tutte le altre consultazioni, sia europee che regionali e locali, per misurare la popolarit dei partiti che hanno vinto le ultime elezioni del primo ordine. Il carattere secondario delle elezioni europee ha due conseguenze importanti (Hix 1999). In primo luogo, esso spiega perch la partecipazione a queste elezioni sia sistematicamente inferiore, anche di trenta punti percentuali, a quella delle ultime elezioni nazionali. In secondo luogo, le elezioni europee vengono usate per punire o premiare i partiti che formano il governo nazionale, con tendenza a favorire i partiti dopposizione (se la consultazione europea non coincide con quella nazionale) o i partiti minori. Inoltre, diversi sondaggi suggeriscono che il calo continuo di partecipazione dovuto anche ad un crescente convincimento della scarsa rilevanza politica delle elezioni europee: non solo esse non hanno lo scopo di formare un governo europeo e, dati i poteri limitati del Parlamento, nemmeno di influire in maniera decisiva sulle politiche comunitarie; ma sembrano essere anche poco influenti sulla politica nazionale. Alla luce di questi risultati appare abbastanza chiaro come il PE, lungi dallessere in grado di legittimare la Commissione, soffra esso stesso di un serio problema di deficit democratico. Questo stato di cose implicitamente ammesso dalla pi recente proposta che Prodi dovrebbe presentare nellautunno 2002 alla Convenzione sul Futuro dellEuropa secondo la quale non solo il PE ma anche i parlamenti nazionali dovrebbero prendere parte, secondo modalit ancora da determinare, alla scelta del presidente della Commissione.

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In conclusione, non sembra che laspirazione a diventare un governo europeo pienamente legittimato possa essere soddisfatta senza una trasformazione in senso federale dellattuale modello comunitario trasformazione che n i governi nazionali, n i loro elettori sembrano volere. In tale situazione i pi arditi progetti di ingegneria costituzionale non possono risolvere il dilemma centrale della Commissione: accettare il ruolo di organo tecnico super partes che le assegnano i trattati, oppure perseguire ambizioni pi vaste, con il rischio di una progressiva perdita di legittimit.
7. Il paradosso dellintegrazione europea

Come gi osservato, il problema del deficit democratico si presenta non solo nel caso di singole istituzioni europee, ma dellintero processo di integrazione. Per le ragioni indicate sopra, il carattere intrinsecamente non-maggioritario di tale processo non stato sostanzialmente modificato dai maggiori poteri attribuiti al PE. In realt, la difficolt di perseguire gli obiettivi dintegrazione con i metodi della democrazia parlamentare ha cause profonde che non possono essere corrette mediante semplici riforme istituzionali: da un lato, la mancanza di un demos europeo, di un senso preesistente di identit collettiva (Scharpf 1999); dallaltro, il fatto che il principio maggioritario, e lo stesso stato democratico, presuppongono lesistenza di una comunit abbastanza omogenea e solidale perch la minoranza riconosca la legittimit delle decisioni della maggioranza, e la maggioranza sia disposta a finanziare misure di sostegno di gruppi minoritari bisognosi di aiuto. Paradossalmente, tuttavia, lesistenza di un deficit democratico ossia della mancanza o sottosviluppo delle istituzioni e dei meccanismi della democrazia parlamentare non significa affatto che le istituzioni e le regole europee non contribuiscano in modo positivo alla qualit della vita democratica dei Paesi membri. Prima di chiarire questo paradosso (in realt pi apparente che reale), pu essere utile cercare di comprendere meglio la natura di tale deficit, completando cos le osservazioni critiche svolte al n. 2. Un modo sbrigativo, ma in fondo non errato, di porre la questione consiste nellosservare che se gli elettori dei Paesi membri volessero essere democraticamente governati da uno stato federale europeo, essi non avrebbero altro da fare che usare

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lo strumento elettorale, obbligando i loro governanti a tradurre in termini politico-costituzionali la volont popolare. Supporre altrimenti equivale a dire che i sistemi politici di tali Paesi soffrono di gravi disfunzioni, contrariamente al loro carattere democratico generalmente riconosciuto. In realt, dopo quasi mezzo secolo, non esiste ancora in Europa una maggioranza, e nemmeno una consistente minoranza, disposta a trasferire a Bruxelles le competenze e le risorse necessarie al funzionamento di un moderno stato democratico. Si pu pertanto concludere che questo deficit democratico voluto dai cittadini europei e come tale , per cos dire, democraticamente giustificato: esso rappresenta il prezzo che paghiamo per mantenere la sovranit nazionale sostanzialmente intatta (Majone 1998). Per capire meglio la vera natura del problema tuttavia utile partire dallipotesi che esista una maggioranza a favore di un governo europeo. Si mostrer che questo ipotetico governo federale sarebbe in grado di soddisfare solo in modo molto limitato le domande dei cittadini e che, pertanto, esso finirebbe col perdere proprio quella legittimazione democratica che avrebbe dovuto assicurare a livello europeo. Infatti, un tale stato non sarebbe in grado di soddisfare un fondamentale criterio di democrazia, che Dahl (1989) ha chiamato il principio del controllo finale dellagenda. Secondo tale criterio, i cittadini devono avere il potere di decidere in ultima istanza quali materie vanno incluse nellagenda dei problemi da risolvere secondo il metodo maggioritario. Ora, un governo europeo non sarebbe in grado di attuare proprio quelle politiche che maggiormente caratterizzano e legittimano il moderno stato sociale politiche redistributive, assistenziali, o comunque tali da favorire determinati gruppi socioeconomici, o regioni, a spese di altri. A causa della prevedibile opposizione dei perdenti, decisioni politiche di questo tipo possono essere prese solo a maggioranza; ma, come abbiamo visto, il principio maggioritario presuppone una comunit politica sufficientemente omogenea ed pertanto di difficile applicazione in societ caratterizzate da profonde divisioni politiche, sociali, culturali e storiche. Ne segue che uno stato federale europeo significherebbe non soltanto la perdita di buona parte della sovranit nazionale, ma anche unagenda politica estremamente ridotta rispetto a quella degli stati nazionali. A parte la politica estera e di difesa, una federazione europea dovrebbe limitarsi ad interventi che facilitino lefficiente funzionamento del mercato unico, e la corre-

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zione di eventuali fallimenti di questo mercato: un misto di misure di liberalizzazione, di integrazione negativa (cio di eliminazione degli ostacoli al movimento dei beni, del capitale e delle persone allinterno del territorio della federazione), e di armonizzazione di certe regolazioni nazionali. In definitiva, non molto di pi di ci che lUnione Europea gi sta facendo. Per completare la dimostrazione occorre osservare che il criterio del controllo popolare dellagenda sarebbe di difficile applicazione anche nel caso che una certa misura avesse il sostegno della maggioranza dei cittadini della federazione. Basta, infatti, che quelli che si oppongono siano concentrati in un piccolo numero di stati, dove costituiscono la maggioranza. In tale situazione, il principio maggioritario a livello federale entrerebbe in conflitto con lo stesso principio a livello nazionale, ed il conflitto non sarebbe risolvibile appellandosi ad un ipotetico interesse generale. In realt, qualsiasi politica pubblica che trattasse in modo differenziato gli stati membri sarebbe destinata a creare seri problemi politici, e pertanto verrebbe rimossa dallagenda federale. Nella situazione ipotizzata, perfino la legittimit di un parlamento federale direttamente eletto verrebbe messa in dubbio. Infatti, il parlamento, dovendo rappresentare linteresse di un fittizio popolo europeo, non sarebbe in grado di rispondere alle domande degli elettorati nazionali. Di conseguenza, esso verrebbe considerato una forma imperfetta ed inefficace di rappresentanza, o addirittura accusato di essere uno strumento di centralizzazione, al pari della Commissione e della Corte di Giustizia. Vediamo ora di chiarire il paradosso di un sistema di regole ed istituzioni che, pur essendo essenzialmente non-maggioritario, ha contribuito in modo significativo, e in certi casi in modo decisivo, al miglioramento del processo democratico a livello nazionale. Ho detto che il paradosso pi apparente che reale perch tutte le democrazie liberali riconoscono limportanza, per lo stesso processo democratico, di istituzioni non-maggioritarie come ad esempio le corti costituzionali e la stessa costituzione, che non pu essere modificata da semplici maggioranze parlamentari. Lelemento di novit, semmai, che i vincoli definiti dalle costituzioni nazionali non sono pi sufficienti in un mondo di stati strettamente interdipendenti, e devono pertanto essere integrati e rafforzati da regole ed istituzioni sovranazionali. Studiosi come Nicola Matteucci (1993) hanno deplorato la eclissi del costituzionalismo nellEuropa del ventesimo secolo.

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In questo periodo, la mobilitazione delle risorse necessarie a finanziare due guerre mondiali ed uno stato sociale in continua espansione, ha enormemente accresciuto il ruolo economico dello stato e, allinterno di questo, il potere esecutivo. Lassunzione di responsabilit macroeconomiche da parte dello stato keynesiano ha ulteriormente esteso i poteri discrezionali dellesecutivo. Alla fine, questi sviluppi hanno portato a riscoprire la lezione fondamentale del costituzionalismo: che ogni potere discrezionale, anche il pi benefico, pu essere abusato, e che la prevenzione di tali abusi dipende in larga misura dallesistenza di regole fisse e di istituzioni indipendenti capaci di farle rispettare. NellEuropa occidentale, limportanza di questa lezione stata rafforzata dal processo dintegrazione. La creazione di un mercato comune europeo, e le corrispondenti regole di concorrenza, liberalizzazione e di integrazione negativa, hanno progressivamente obbligato i governi nazionali ad abbandonare politiche protezionistiche e discriminatorie nei riguardi di altri membri della Comunit, come pure ad eliminare molti dei tradizionali sostegni a monopoli pubblici e privati. I poteri discrezionali dei governi sono stati ulteriormente ridotti dalla disciplina imposta agli aiuti di stato e alle pratiche degli appalti pubblici, e dai criteri di convergenza imposti dallunione monetaria. Sarebbe tuttavia errato supporre che linfluenza della costituzione sopranazionale costituita dai trattati europei e relativa giurisprudenza, sia limitata al campo economico. Anche la protezione dei diritti individuali se ne grandemente avvantaggiata. Le due dottrine dellefficacia diretta e del primato delle norme comunitarie hanno gradualmente permesso alla Corte Europea di estendere la sfera dei diritti protetti dal diritto comunitario, e di stabilire il dovere dei giudici nazionali di difendere tali diritti, anche contro il loro stesso governo. Ad esempio, larticolo 190 del Trattato di Roma (ora articolo 253 del Trattato CE) obbliga tutte le istituzioni europee a giustificare qualsiasi atto avente conseguenze giuridiche. Come gi ricordato (v. n. 4), una tale norma era in anticipo rispetto alle legislazioni dei Paesi membri. Ancor oggi, ad esempio, il diritto pubblico inglese non impone agli amministratori pubblici un obbligo generale di questo tipo. Nonostante ci, la Corte pronta ad imporre tale obbligo alle autorit nazionali, se ci pu facilitare la difesa di diritti creati dalle norme europee. Nel caso Heylens (Caso 222/86, ECR 4097) la Corte ha argomentato che una

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difesa efficace di questi diritti pu richiedere il controllo giudiziario di una decisione amministrativa. Pertanto, il giudice nazionale deve essere in grado di richiedere che lautorit amministrativa esponga le ragioni della sua decisione, anche se il diritto nazionale non lo impone (Thomas 1997). Nel campo dei diritti sociali, larticolo 119 del Trattato di Roma (ora articolo 141 del Trattato CE) ha giocato un ruolo fondamentale. Larticolo il quale stabilisce che uomini e donne devono ricevere uguale compenso per uguale lavoro fu introdotto su richiesta della Francia, che temeva la concorrenza di altri Paesi della Comunit in settori come lindustria tessile che impiegano una proporzione elevata di lavoratrici. Il problema si poneva perch, ancor prima della creazione della Comunit Europea, la Francia, a differenza degli altri stati, aveva introdotto una legge che garantiva luguaglianza dei salari tra lavoratori, indipendentemente dal sesso. Come conseguenza, il salario medio delle lavoratrici francesi risultava pi elevato che negli altri Paesi della Comunit, ed il governo temeva che la liberalizzazione degli scambi commerciali allinterno del mercato comune potesse danneggiare lindustria nazionale. In questo modo, il Trattato ha introdotto, sia pure su scala limitata, il fondamentale principio di non-discriminazione. In anni recenti la lotta alla discriminazione stata condotta in modo dinamico e su molti fronti. Ricordiamo in primo luogo larticolo 12 del Trattato CE (del 1997) che proibisce qualsiasi forma di discriminazione a causa della nazionalit di un cittadino dellUnione. Questa norma direttamente applicabile, e pertanto i diritti che essa crea possono essere fatti valere direttamente contro eventuali discriminazioni tollerate dalle leggi nazionali. Altrettanto, se non pi, importante larticolo 13 dello stesso trattato, che non solo estende il principio della non-discriminazione oltre i rapporti di lavoro, ma d alla Comunit gli strumenti per combattere la discriminazione a causa del sesso, origine razziale o etnica, credenze religiose, et, minorazioni fisiche o mentali, od orientamenti sessuali. Questo articolo ha trovato applicazione in tre direttive, emanate tra il 2000 ed il 2002, che introducono nuove strategie nella lotta contro tali forme di discriminazione. In termini pi strettamente politici, ricordiamo quanto importante sia stata la prospettiva dellingresso nella Comunit per la transizione democratica di Paesi come la Grecia, la Spagna ed il Portogallo, ieri, e per i Paesi dellEuropa orientale e la

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Turchia, oggi. La stessa storica decisione del Parlamento turco di abolire la pena di morte (agosto 2002) rappresenta solo il primo articolo di un pacchetto di 14 riforme richieste dallUnione Europea. In definitiva, lintegrazione europea ha contribuito in modo determinante ad assicurare la pace tra gli stati del continente, e a ridurre lonnipotenza dello stato di fronte allindividuo. In tal modo, essa ha permesso allo stato-nazione di resistere alle tentazioni di potere che tante volte lo hanno sedotto nel passato, e alla democrazia liberale di difendere pi efficacemente i propri valori contro il moderno leviatano. Ma la lezione dellintegrazione europea non limitata al nostro continente. La crescente internazionalizzazione dei mercati obbliga tutti gli stati democratici a delegare importanti poteri ad istituzioni non-maggioritarie. pertanto importante inventare meccanismi capaci di assicurare il controllo politico di tali istituzioni, rispettando al tempo stesso la loro indipendenza. Secondo alcuni, un controllo efficace richiede lestensione dei principi democratici a livello internazionale, ma come si cercato di dimostrare, una tale estensione estremamente problematica anche a livello europeo. La soluzione deve cercarsi, piuttosto, in un migliore inserimento di istituzioni che godono di indubbia legittimit democratica, in primo luogo i parlamenti nazionali, nelle relazioni internazionali un campo tradizionalmente riservato al potere esecutivo. Nella stessa Unione Europea molto resta da fare in questa direzione, ma non mancano i buoni esempi: il parlamento danese, in particolare, noto per lattento controllo che esso esercita sulloperato dei rappresentanti nazionali a Bruxelles. Una volta riconosciuti i limiti del PE come fonte di legittimazione, necessario fare affidamento sopra tutto su istituzioni nazionali per ridurre linevitabile deficit democratico del processo dintegrazione. Se le prossime riforme istituzionali saranno in grado di disegnare i meccanismi per un efficace coordinamento tra democrazia nazionale e costituzionalismo transnazionale, ci rappresenter un significativo progresso del metodo democratico, non solo in Europa ma in tutti i Paesi impegnati nello sforzo di integrare le loro economie e le loro societ a livello regionale o globale.

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Summary: Only democratic countries can become members of the European Union, but the Union itself suffers from a democratic deficit. Thus, the European Parliament is directly elected, but lacks the basic powers of national parliaments. By contrast, key institutions like the European Commission, the Court of Justice and the European Central Bank, are non-majoritarian. The paper shows that the paradox of a union of states which requires its members to be democratic but is not itself fully democratic, is more apparent than real. It also argues that, absent an European demos, an European super-state would be unable to produce all the public goods, especially income redistribution and generalised social services, which people expect of a modern welfare state. The real paradox of the European Union is not the contrast between its own democratic deficit and the democratic requirements for membership. Rather, the paradox is that the essentially non-majoritarian nature of the integration process has significantly improved the quality of democracy at the national level, for example by prohibiting any form of discrimination, particularly on the basis of national origin, or gender. Such prohibitions are directly effective and hence can be invoked by the citizens even against their own governments.

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