Integrazione degli immigrati e culture politiche in
Europa
di Umberto Melotti Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Il termine “integrazione” non ha un significato
univoco. Applicato agli immigrati stranieri è per di più suscettibile d’interpretazioni anche molto diverse nei vari Paesi, in relazione alla loro cultura politica, soprattutto quando s’intende quest’ultima – diversamente che nelle più superficiali elaborazioni che riprendono più o meno pedissequamente la sopravvalutata letteratura anglosassone in argomento – la relazione esplicitamente o implicitamente istituita fra Stato, popolo e nazione, la prevalente concezione di quest’ultima (che, come vedremo, è a volte anche notevolmente diversa), la concezione del popolo (che può parimenti variare, essendo a volte coniugata con l’ethnos e a volte col demos), il rapporto fra nazionalità e cittadinanza e i princìpi fondamentali che regolano l’acquisizione, a titolo originario o derivato, dello status civitatis, con tutti i relativi diritti e doveri. La cultura politica così intesa ha in effetti direttamente influenzato i diversi “progetti sociali globali” che nei Paesi europei di più antica esperienza immigratoria hanno più o meno consapevolmente orientato l’ammissione dei cittadini stranieri nel territorio dello Stato e la gestione della loro presenza, con particolare riferimento proprio alla complessa problematica della loro integrazione sociale, culturale e politica (cfr. Melotti, 1992, 1996a). Gioverà qui richiamare, in particolare, la chiara relazione esistente fra la cultura politica prevalente in Francia e il tradizionale progetto assimilazionista ivi tuttora praticato, anche se con denominazione diversa, per quel pedaggio d’ipocrisia che il vizio talvolta paga alla virtù (cfr. Haut Conseil à l’intégration, 1991, su cui Melotti, 1992, pp. 112-119; cfr. anche Wihtol de Wenden, 1990, e Schnapper, 1991). Un simile legame esiste anche fra la cultura politica prevalente nel Regno Unito e il progetto che ho altrove definito in termini di “pluralismo ineguale” (cfr. Melotti, 1992, pp. 119-123; cfr. anche Rex, 1990). Né meno stretto è il rapporto fra la cultura politica prevalente in Germania e il progetto di quel Paese, a lungo orientato al mantenimento degli immigrati in una condizione di non casuale precarietà (cfr. Melotti, 1992, pp. 124- 130; cfr. anche Giordano, 1987), parzialmente superato solo assai di recente (2000) con l’entrata in vigore della contrastata riforma della legge sulla cittadinanza. Tali progetti sono stati, peraltro, influenzati anche dal diverso tipo d’immigrazione che tali Paesi hanno conosciuto e dalla prevalente funzione che l’immigrazione vi ha svolto in alcune fasi cruciali della loro storia recente e meno recente.
L’integrazione nei tradizionali Paesi europei
d’immigrazione
Tutto ciò emerge chiaramente dall’esperienza dei tre
principali Paesi europei d’immigrazione già sopra citati. Gioverà pertanto sintetizzare qui, a grandi linee, la situazione che si è profilata in ciascuno di essi, con particolare riferimento alle vicende di questi ultimi anni.
La Francia: il difficile rapporto fra integrazione e
assimilazione
La situazione francese si caratterizza per
l’assimilazionismo etnocentrico del progetto sociale tradizionalmente dominante: un orientamento che costituisce una risposta – non occasionale, ma profondamente radicata nella cultura politica prevalente – alla funzione specifica che l’immigrazione ha assolto in Francia, l’unico Paese europeo che sin dal secolo scorso l’ha utilizzata per fronteggiare non solo delle occasionali carenze di manodopera, ma anche una prolungata crisi demografica. In effetti la Francia, che alla vigilia della Rivoluzione dell’89 era il Paese più popoloso d’Europa, nei primi decenni del secolo scorso subì il contraccolpo demografico delle guerre rivoluzionarie e delle guerre napoleoniche e conobbe poi, prima degli altri Paesi europei, una forte caduta del tasso di natalità. Così, quando, dopo il 1820, cominciò la sua industrializzazione, emerse una forte domanda di forza-lavoro che l’offerta interna non poté appagare. Tale situazione si è protratta, tra alti e bassi, sino ai giorni nostri, stanti anche le successive, reiterate falcidie causate dalle varie guerre combattute in Europa e nelle colonie (fra cui, nel secolo testé concluso, le due grandi guerre mondiali e le guerre del Vietnam e dell’Algeria). Ciò ha favorito una consistente immigrazione, in parte temporanea e in parte definitiva, che la società francese ha cercato d’integrare nell’unico modo concepibile in un Paese che si rappresenta come una grande nazione omogenea e s’identifica profondamente con un forte Stato centralistico, che non riconosce al proprio interno né nazionalità minoritarie, né gruppi etnici locali, e contrasta con vigore ogni pretesa di mediazioni particolaristiche fra le istituzioni e i cittadini (ai quali d’altra parte assicura, su base tendenzialmente ugualitaria, i diritti formali solennemente sanciti dalla Dichiarazione dell’89, della cui tradizione, laica e giacobina, la Repubblica francese si considera tuttora erede). L’integrazione, in questo contesto, presuppone necessariamente un’assimilazione alla cultura del Paese, così come la configura l’ideologia dell’État- Nation. In concreto, il progetto francese (in parte implicito e in parte esplicito) prevede che gli immigrati, non che utilizzare la propria identità etnico-culturale come una risorsa strategica per un’integrazione non subalterna, l’abbandonino completamente per diventare dei “buoni francesi”. Tale processo, d’altra parte, presuppone l’assimilazione per quanto concerne la lingua, la cultura e, possibilmente, la stessa mentalità. In cambio, lo Stato estende agli immigrati tutti i diritti degli autoctoni, grazie alla cosiddetta “naturalizzazione” (come viene significativamente definita la concessione della cittadinanza), che premia l’avvìo di tale processo e ne favorisce il proseguimento (nel corso degli anni ’80 sono stati ben 100.000 all’anno, in media, gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza francese). D’altra parte, anche gli immigrati che non possono o non vogliono naturalizzarsi mettono al mondo, volenti o nolenti, dei figli francesi. Sin dal 1851 in materia di cittadinanza vige infatti lo jus loci, limitato solo di recente (1993) e per un breve periodo (per un confronto, gioverà richiamare che l’Italia, che è restata fino a pochi decenni fa il maggior Paese europeo d’emigrazione e ha ancora, in conseguenza di quel processo, quasi 4 milioni di cittadini all’estero, continua a privilegiare invece lo jus sanguinis, che permette di attribuire la cittadinanza italiana ai figli dei suoi emigrati, e solo nel 1992, dopo di essere diventata a sua volta un importante Paese d’immigrazione, ha parzialmente rivisto le sue norme sulla cittadinanza, estendendo lo jus loci). Il progetto assimilazionista in tema d’immigrazione ha avuto a lungo in Francia un pendant significativo nella politica coloniale. Quest’ultima prevedeva infatti che gli évolués di ogni razza e di ogni cultura, proprio in virtù della loro assimilazione, potessero acquisire gli stessi diritti dei Francesi (anche se, di fatto, solo una minima parte dei colonizzati poté beneficiarne davvero). Ma, come quella politica coloniale, che pur ebbe a conseguire dei notevoli risultati, a un determinato momento non riuscì più a contrastare le aspirazioni dei colonizzati all’indipendenza, così quella politica migratoria, nonostante gli innegabili successi del passato, è entrata in una crisi profonda, non essendo più in grado di far fronte ai problemi posti dalle recenti trasformazioni dell’immigrazione. Proprio per favorire l’assimilazione degli immigrati, finché le fu possibile la Francia preferì attingere ai grandi serbatoi di manodopera degli altri Paesi latini e cattolici (in un primo tempo il Belgio, oltre tutto di lingua francese nella sua area vallone, da cui provenne il contributo più consistente sino agli inizi del ’900; poi, per un lungo periodo, sino agli anni ’70, l’Italia, la Spagna e il Portogallo). Ma questi serbatoi si sono da tempo esauriti e la maggior parte degli immigrati giunge ormai da aree culturalmente assai più lontane: i Paesi del Maghreb, di lingua araba e di religione musulmana, i Paesi dell’Africa occidentale, di prevalente religione islamica, i Paesi del Sud-Est asiatico, di religione buddista o di tradizione confuciana. Orbene, anche se si tratta per lo più di Paesi che hanno conosciuto la colonizzazione francese e in cui il francese costituisce ancora la lingua veicolare o la prima lingua straniera, il progetto assimilatore si scontra oggi con la maggior distanza culturale di questi immigrati, per non parlare della loro assai più evidente diversità etnica, della loro ormai rilevante consistenza numerica e della loro frequente presenza in nuclei di intere famiglie o addirittura in comunità etniche organizzate, che rivendicano la propria identità e promuovono la conservazione dei legami coi Paesi di origine. D’altra parte, lo stesso progetto assimilazionista appare anche intrinsecamente sempre meno legittimo a mano a mano che si dissolvono le convinzioni nella missione civilizzatrice della Francia, si diffonde un maggior rispetto per la diversità culturale ed emerge una nuova consapevolezza dell’iniquità di subordinare il riconoscimento di alcuni fondamentali diritti all’acquisizione della cittadinanza (che oltre tutto in tale contesto implica una rinuncia alla propria identità culturale, la cui conservazione appare oggi, sempre di più, in tutto il mondo, un inalienabile diritto della persona). Proprio per questo, negli ambienti più sensibili si è da tempo aperto un ampio dibattito sulla necessità di promuovere una concezione più “laica” del rapporto fra cittadinanza e nazionalità, che in Francia sono spesso ancora indebitamente confuse (così come del resto avviene, sia pur in minor misura, in molti altri Paesi europei, fra cui l’Italia). Per contro, la “sindrome da invasione” (che è emersa con forza sin dagli anni ’80, specialmente per ciò che concerne la componente arabo-islamica della nuova immigrazione) determina delle forti reazioni xenofobe, che hanno trovato espressione, fra l’altro, nella proposta di rivedere radicalmente lo stesso codice della cittadinanza per ripristinare l’antico jus sanguinis. Questa proposta, dapprima avanzata solo dall’estrema destra (il Fronte nazionale di Le Pen), venne poi fatta propria anche da forze più moderate, di cui si fece portavoce anche lo stesso ex presidente della Repubblica Valery Giscard d’Estaing, e fu infine parzialmente accolta nel 1993 dal governo conservatore da poco andato al potere. Ma non sono mancate le aspre reazioni di chi, fedele al “modello repubblicano d’integrazione” (come la sinistra francese suole definire il tradizionale progetto assimilazionista), giudicava “le conseguenze di questo cedimento allo spirito del tempo nefaste non solo per gli immigrati, ma anche per i Francesi e per la stessa Repubblica” (Naïr, 1993, p. 2). Così, col ritorno al governo della sinistra (1997), la precedente normativa venne sostanzialmente ripristinata. Di conseguenza, nel dibattito francese, si tematizza, ancora, in prevalenza, l’“integrazione degli immigrati”: un’espressione passe-partout, in cui il primo termine rappresenta spesso poco più di un eufemismo per la vecchia “assimilazione” (anche se sposta l’accento dal piano culturale a quello sociale), mentre il secondo continua a ridurre ideologicamente gli stranieri, ormai presenti anche sulla scena francese in un’assai vasta gamma di figure, a soggetti senza storia e senza cultura, pronti a entrare, come materia grezza illimitatamente plasmabile, nella grande macchina assimilatrice della società francese. Da tempo, peraltro, questa macchina è entrata in crisi. Ciò si deve a diversi fattori. Oltre alla maggior resistenza dei nuovi immigrati all’assimilazione, per le ragioni già accennate, va ricordata la crisi delle vecchie agenzie di socializzazione (la scuola, l’esercito, la fabbrica, i sindacati, i partiti) e la difficoltà per la Chiesa (che, del resto, in questo campo ha sempre avuto in Francia un ruolo assai minore che in Italia) di far sentire la propria voce agli immigrati, di cui i musulmani costituiscono ormai la componente più numerosa. A ciò si aggiungono i cambiamenti in corso nella stessa cultura francese, per effetto sia delle aperture promosse dall’avvìo dell’integrazione europea, sia del processo di globalizzazione, che comporta un’almeno tendenziale omologazione a scala planetaria, cui risultano particolarmente sensibili le giovani generazioni. Quel che prevale, però, è ancora la diffidenza per la diversità. Ma la sempre più evidente inadeguatezza del progetto sociale dominante ha stimolato un vivace dibattito sull’opportunità d’introdurre, nella vita sociale e più particolarmente nell’educazione, un nuovo orientamento “interculturale”, che non solo rispetti, ma valorizzi, le varie culture in presenza, facendone una preziosa risorsa e un’occasione di arricchimento per tutti. Sul piano amministrativo continua invece a prevalere un netto rifiuto (con poche eccezioni) per gli interventi speciali per gli stranieri (un rifiuto ora motivato anche dal timore di suscitare reazioni xenofobe fra gli autoctoni). La preferenza è, almeno ufficialmente, per il ricorso a interventi “universalistici”, di diritto comune, per tutti coloro (francesi o stranieri) che presentino determinati problemi (abitativi, sanitari, educativi, etc.). Eppure l’esperienza insegna che ben raramente gli interventi di questo tipo costituiscono delle risposte efficaci alle particolari difficoltà degli immigrati. Le conseguenze sono gravissime. Come ebbe a osservare uno dei più autorevoli sociologi francesi, Alain Touraine (1991, p. 9), in un commento sulle distruttive forme di conflittualità che periodicamente esplodono nelle banlieues a più alta concentrazione d’immigrati, la Francia conosce da tempo una forte carenza d’integrazione sociale e questa situazione minaccia la stessa assimilazione culturale. La politica francese, già assai discutibile sotto il profilo etico-politico, risulta quindi anche contraddittoria rispetto ai suoi stessi dichiarati obiettivi. Ma tante è. Tale politica non è affatto casuale. C’è del metodo in questa aporia, e non c’è quindi da sperare che una correzione di rotta davvero significativa possa essere introdotta nel prossimo avvenire.
Il Regno Unito: difficile integrazione e pluralismo
ineguale
Il progetto britannico differisce profondamente da
quello francese, così come profondamente diversa è la cultura politica che l’ispira e lo sorregge: una cultura pragmatica, che riconosce i particolarismi nazionali, etnici e culturali, promuove l’autonomia e il decentramento e valorizza il ruolo delle formazioni sociali intermedie. Per quanto concerne la regolazione dei fenomeni sociali, questa cultura diffida dei provvedimenti astratti e generali e confida invece nell’azione delle amministrazioni locali, definite, per i loro significativi poteri, “governo locale” (local government). Anche il forte etnocentrismo, comune al progetto francese e al progetto britannico, si esprime nei due casi in forma diversa, se non addirittura opposta. Nel caso francese, come si è visto, si manifesta infatti, paradossalmente, in forma universalistica, nella pretesa che gli immigrati di qualsiasi razza e cultura abbiano a divenire dei “buoni francesi”; nel caso britannico, invece, si manifesta in forma particolaristica, nella convinzione che gli immigrati anche dei Paesi tradizionalmente più vicini per storia e cultura mai potrebbero divenire dei “buoni britannici”. Li si accetta pertanto per quello che sono, dandone per scontata l’irrecuperabile diversità (non più definita “inferiorità” per correttezza politica, ma pur sempre considerata tale, almeno di fatto). Ci si preoccupa pertanto di porli nella condizione di nuocere il meno possibile, limitandone le interferenze suscettibili di mettere a repentaglio lo stile di vita britannico (secondo il timore pubblicamente espresso da due esponenti di spicco del Partito conservatore, l’ex- premier Margaret Thatcher e il nipote di Winston Churchill). Si dà infatti per scontato che il controllo della situazione non debba sfuggire di mano agli autoctoni, i quali, peraltro, per un formale ossequio alla democrazia che ancora li privilegia, si descrivono non già come i bianchi o gli anglosassoni, ma come la “maggioranza”. Anche tale progetto, come quello francese, costituisce in parte il pendant e in parte la continuazione sul territorio metropolitano della politica coloniale. Peraltro, tale politica, che nel caso della Francia era caratterizzata dall’impostazione assimilazionista e dal governo diretto, nel caso del Regno Unito era caratterizzata dall’impostazione differenzialista e dal governo indiretto. In altre parole, i britannici ammettevano che i colonizzati conservassero, se lo volevano, le loro tradizioni e le loro strutture sociali e politiche (fossero queste i reami dei maharajah in India o le organizzazioni tribali in Africa), purché riconoscessero, al di sopra di loro, l’autorità del viceré o del governatore britannico. Questa politica è poi proseguita, con le necessarie modifiche, nel Commonwealth, che, non a caso, è riuscito a sopravvivere alla decolonizzazione, mentre la Communauté française fu presto costretta a dichiarare fallimento. Il diverso progetto dei due Paesi corrisponde anche a processi immigratori di natura notevolmente diversa. Nel Regno Unito l’arrivo degli stranieri non ha mai svolto una funzione demografica importante ed è stato anche assai meno motivato da una reale domanda di lavoro. A determinarlo sono state infatti, soprattutto, le vicende storiche dei Paesi di esodo (e, più in particolare, le crisi politiche ed economiche intercorse nei Paesi del Commonwealth). Di conseguenza è stato anche un fatto assai meno individuale, che ha assunto spesso la fisionomia di un vero e proprio movimento di massa alla ricerca di un rifugio (come nel caso degli indo-pachistani, nei primi anni del dopoguerra, o degli asiatici insediati in Africa orientale, negli anni ’60, o dei cinesi e dei vietnamiti fuggiti dai rispettivi Paesi per cercare scampo nella colonia britannica di Hong Kong, negli anni ’70 e ’80). Inoltre nel Regno Unito da più tempo l’immigrazione proviene da Paesi lontani: in genere i Paesi del Nuovo Commonwealth, cioè le ex-colonie dell’Asia, dell’Africa e delle Indie occidentali abitate in prevalenza da popolazioni di colore (dato anche che sino al 1962 gli originari di tali Paesi potevano entrare nel Regno Unito senza difficoltà, essendo considerati a tutti gli effetti cittadini britannici). Da più tempo, quindi, in quel Paese gli immigrati costituiscono uno stock che si differenzia notevolmente dagli autoctoni in termini razziali, etnici e culturali. Queste popolazioni trapiantate (perché di ciò in effetti si tratta, nella maggior parte dei casi) hanno potuto formare nel Regno Unito le loro comunità (mentre in Francia sino al 1981 le stesse associazioni degli immigrati, soggette a speciale autorizzazione, furono di fatto proibite, con la motivazione che l’esercizio del diritto di associazione spettava solo ai cittadini). Nel Regno Unito le “comunità etniche” hanno così potuto diventare da tempo degli importanti punti di riferimento per gli interventi delle autorità amministrative (mentre in Francia la pubblica amministrazione, in parte per scelta e in parte per necessità, ha sempre privilegiato, con solo rare e recenti eccezioni, il rapporto diretto con i singoli immigrati). A ciò si aggiunga che nel Regno Unito la distinzione fra i cittadini e i non cittadini è assai meno netta che negli altri Paesi europei. Esiste infatti tutta una gamma di situazioni intermedie per la presenza di una categoria, quella degli originari del Commonwealth, a sua volta differenziata secondo il Paese di provenienza, la data di arrivo nel Regno Unito, l’eventuale ascendenza britannica (la cosiddetta patriality), le eventuali pregresse prestazioni di lavoro a favore dell’amministrazione britannica, etc. Inoltre gli immigrati dal Commonwealth godono del diritto di voto attivo e passivo, sia alle elezioni amministrative, sia alle elezioni politiche, e la concentrazione di alcune comunità in determinate circoscrizioni assicura loro in molti casi, date anche le caratteristiche del sistema elettorale britannico, una notevole influenza (come dimostra l’elezione al Parlamento di alcuni loro esponenti). Come si vede, si tratta di un’impostazione assai flessibile, che ha a lungo dimostrato un’apprezzabile capacità di far fronte a una situazione in movimento. Peraltro anch’essa rivela da tempo i suoi limiti. Le comunità più consistenti infatti mordono il freno e sollecitano un cambiamento nel senso di un vero multiculturalismo, con la rinuncia all’egemonia da parte della componente autoctona (che peraltro non pare affatto disposta ad assecondare tali richieste). D’altro canto la cosiddetta “seconda generazione” degli immigrati contesta sempre più vivacemente un sistema che, pur concedendo dei riconoscimenti e persino dei privilegi alle comunità, relega di fatto gli individui che ne fanno parte in una posizione subalterna, enfatizzandone indebitamente la vera o presunta “diversità”. In proposito va sottolineato che il dibattito sulla presenza straniera (che in Francia verte sull’“integrazione degli immigrati”, senza distinzioni di razza e di etnia) nel Regno Unito ruota invece proprio attorno alla questione delle “relazioni di razza ed etnia” (racial and ethnic relations) e il problema che viene più appassionatamente discusso è quello dei diritti delle “minoranze” etnico-razziali (che in un Paese di così lunga tradizione liberal-democratica sarebbe stato lecito attendersi già assicurati da un pezzo, così come quelli di ogni altra minoranza). Si aggiunga che la stessa terminologia impiegata in questo dibattito lascia molto a desiderare. Innanzi tutto la definizione in termini razziali ed etnici delle popolazioni immigrate è spesso del tutto impropria e lascia intravedere per le sue evidenti forzature (basti dire, ad esempio, che anche gli asiatici sono stati a lungo ufficialmente considerati blacks, cioè “neri”) un’indebita tendenza a razzializzare e a etnicizzare i problemi. In secondo luogo la configurazione aprioristica di quelle popolazioni in “minoranze” non può che evocare l’immagine di un sia pur blando apartheid, tanto più che nel mondo anglosassone le differenze di razza e di etnia suscitano ancora delle forti reazioni emotive. In proposito uno dei più autorevoli specialisti britannici, John Rex (1990, pp. 81 e 85), sudafricano di origine e quindi particolarmente sensibile in argomento, non ha esitato a parlare di una condizione di “disuguaglianza segregata”, che contrasta un’effettiva integrazione degli immigrati. Va detto però che, proprio per far fronte alle discriminazioni e al razzismo e favorire l’integrazione delle minoranze, nel Regno Unito sono state da tempo adottate delle importanti misure legislative e amministrative. Meritano una particolare menzione, in proposito, i tre Race Relations Acts del 1965, del 1968 e del 1976 e l’istituzione, nel loro quadro, di una Commissione per l’uguaglianza razziale (Commission for Racial Equality), che ha assunto il coordinamento delle diffuse istituzioni locali per l’uguaglianza e le relazioni razziali. L’ultima delle leggi sopra citate, la più organica, impegna le autorità locali non solo a eliminare ogni forma di discriminazione diretta o indiretta, ma anche a promuovere fra i gruppi etnici almeno l’“uguaglianza delle opportunità”. Si tratta di iniziative che molto potrebbero insegnare agli altri Paesi europei, in cui la convivenza più o meno forzata di gruppi di origine diversa sta portando alla ribalta, in qualche caso per la prima volta, problemi e conflitti di natura implicitamente o esplicitamente etnica o razziale. Ciò nondimeno la prognosi per il Regno Unito resta riservata. Come ha scritto uno dei maggiori esperti britannici a conclusione di una documentata analisi, “la Gran Bretagna potrebbe diventare una buona società multirazziale e multietnica, ma potrebbe anche evolvere in direzione del tutto opposta” (O’Donnell, 1991, p. 37), con conseguenze devastanti per la condizione degli immigrati, la conflittualità urbana e la stessa integrazione sociale.
La Germania: dalla precarietà istituzionalizzata a
un’integrazione difficile Ancora diverso è il caso tedesco. La Germania – pur essendo il Paese europeo con il più alto numero assoluto di immigrati (oltre 8 milioni) e il più alto numero di extracomunitari rispetto alla popolazione (9%) – ha a lungo ritenuto di non doversi neanche riconoscere come un Paese d’immigrazione e la sua politica è stata improntata a questo principio, che i suoi governanti hanno ribadito per decenni con una dichiarazione che, come una formula magica, avrebbe dovuto esorcizzarne lo spettro: Deutschland ist kein Einwanderungsland. Eppure la Germania è stata un Paese d’immigrazione sin dalla fine del secolo scorso e in questo dopoguerra, tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60, ha addirittura intrapreso un’attiva politica di reclutamento della manodopera straniera per far fronte alle esigenze della ricostruzione post-bellica e del successivo periodo di espansione, caratterizzato fra l’altro dal ben noto “miracolo” economico, e da qualche tempo ha ripreso a ricercare all’estero lavoratori specializzati e non specializzati. In Germania gli immigrati sono stati a lungo considerati solo dei “lavoratori ospiti” (Gastarbeiter), cioè degli individui la cui permanenza sul suolo tedesco era giustificata solo da motivi di lavoro e, almeno in via di principio, era prevista solo per un periodo limitato, e tali sono ancor oggi per lo più ritenuti, benché il sistema d’immigrazione temporanea che così li configurava sia ormai tramontato da un pezzo. La chiusura delle frontiere a un ulteriore immigrazione di lavoro, operata nel 1973, favorì infatti la stabilizzazione di quelli che erano restati nel Paese, che, con i familiari che in molti casi poi li raggiunsero, hanno finito per dar vita, così come in altri Paesi, a una tipica “popolazione derivata dall’immigrazione” (per utilizzare l’espressione con cui i demografi definiscono la situazione). Il rifiuto ideologico di prenderne atto ha però esonerato la classe politica dal compito di elaborare un vero progetto d’integrazione per questi immigrati, che pure vengono ormai spesso definiti da molti, sia pur con patente contraddizione, “concittadini stranieri” (ausländische Mitbürger). Di fatto la politica perseguita in Germania può essere sintetizzata più facilmente in termini negativi che positivi: “Né integrazione, né segregazione”, come si è espresso efficacemente uno studioso italiano che ben conosce la situazione (Giordano, 1987, p. 61). In Germania, in realtà, gli immigrati restano fondamentalmente degli “stranieri” (Ausländer), di cui si può anche apprezzare l’apporto economico, ma di cui non si caldeggia affatto l’insediamento definitivo. Con loro si può anche convivere per un lungo periodo di tempo, se necessario, ma senza confusioni di status. Nonostante qualche concessione in data relativamente recente (1993), l’acquisizione della cittadinanza resta assai difficile, sia per la prima generazione d’immigrati (la naturalizzazione presuppone almeno quindici anni di permanenza legale nel Paese per gli adulti e otto anni per i giovani dai 17 ai 23 anni), sia per la seconda generazione (lo jus loci, tradizionalmente non previsto, è stato introdotto solo nel 2000). In via di principio, pertanto, i figli degli immigrati, anche se nati in Germania, restano degli stranieri e, nonostante la citata riforma, le naturalizzazioni concesse a qualsiasi titolo risultano quattro volte meno numerose che in Francia, benché gli immigrati siano più del doppio. Non che favorire la “nazionalizzazione” degli immigrati, ci si attende infatti che essi siano sempre pronti a lasciare il Paese, e non soltanto per libera scelta o in seguito a una crisi economica o politica, ma anche in ossequio a un eventuale mutamento degli orientamenti governativi. Pertanto l’obiettivo non è già la loro assimilazione, bensì la conservazione della loro condizione precaria, considerata funzionale al loro auspicato rientro al Paese d’origine (da tempo incentivato con varie misure, ma con esiti sempre modesti). Anche questa impostazione non è occasionale, ma affonda le sue radici in una precisa cultura politica. La Germania è stato l’ultimo grande Paese europeo a costituirsi in Stato nazionale e la formazione della nazione (come in Italia) ha preceduto di gran lunga quella di tale Stato. D’altra parte, la nazione — lungi dall’essere concepita in termini soggettivi e ideologici come in Francia (dove Renan, nel secolo scorso, poté addirittura descriverla come un “plebiscito di tutti i giorni”) – è stata sempre concepita in termini oggettivi ed etnico-culturali: un fatto di sangue e di terra (Blut und Boden), in cui nativamente si esprime l’irriducibile specificità del popolo tedesco (Deutsches Volk). Anche dopo la costituzione dello Stato nazionale, per le note vicende storiche (fra cui, in questo secondo dopoguerra, la sofferta divisione del Paese in due Stati, imposta dai vincitori), l’appartenenza a tale popolo è stata sempre privilegiata rispetto all’appartenenza a uno Stato. Proprio per questo i profughi tedeschi provenienti dalla Repubblica democratica tedesca o dai territori orientali del Reich passati alla Polonia e all’Unione Sovietica (i cosiddetti Übersiedler) e persino i discendenti dei tedeschi trapiantatisi molte generazioni or sono nei Paesi dell’Europa orientale (i cosiddetti Aussiedler) sono sempre stati considerati dalla Legge fondamentale della Repubblica Federale Tedesca come dei potenziali cittadini di pieno diritto (così come in Israele gli ebrei). D’altra parte, tale concezione ha favorito la tendenza a preservare come un valore essenziale la pretesa omogeneità etnico- culturale del popolo tedesco e a contrastarne in ogni modo il dissolvimento (anche se spesso in forma più implicita che non esplicita, per ragioni d’immagine e di opportunità, stante anche il ricordo, in Germania e all’estero, del regime nazista, che di quel mito si era alimentato, con gli esiti a tutti ben noti). L’influenza di questa concezione sulla politica immigratoria non potrebbe essere più chiara. La prima preoccupazione di quest’ultima è infatti quella di “tracciare la distinzione tra gli autoctoni e gli stranieri” (Blaschke, 1993, p. 152) e tutta la normativa è orientata a favorire la temporaneità della presenza degli immigrati sul suolo tedesco e a prevenirne il radicamento. A tal fine vengono privilegiati gli interventi di prima accoglienza, legati a un’effettiva presenza per motivi di lavoro, come, ad esempio, l’istituzione di dormitori (a carico dei datori di lavoro e quindi destinati ai soli lavoratori, e non, come in Italia, a carico degli enti pubblici, e quindi a disposizione anche dei disoccupati e dei marginali). Questa politica ottiene inoltre l’effetto di disincentivare i ricongiungimenti familiari, ammessi per formale ossequio ai cosiddetti “diritti umani”, ma poco graditi e quindi non facilitati. Allo stesso modo tanto le iniziative di carattere culturale e sociale per i lavoratori quanto i programmi scolastici per i loro figli tendono a favorire il mantenimento dei legami con il Paese di origine, in vista del loro pur improbabile ritorno. In particolare, per quanto concerne l’istruzione primaria, in molti Länder emerge la preoccupazione che i ragazzi stranieri non perdano la conoscenza della lingua del Paese di origine o addirittura che l’acquisiscano, se nati in Germania (mentre in Francia, al contrario, tutto l’insegnamento mira a una socializzazione alla cultura del Paese di approdo: impartito unicamente in francese, in nome di una parità di trattamento sin troppo sciovinisticamente interpretata, non dissimula l’obiettivo di far persino dimenticare l’esistenza del Paese di origine, secondo l’impostazione già sperimentata a suo tempo nelle colonie, dove si utilizzavano dei testi scolastici dall’incipit ormai proverbiale: “Nos ancêtres les Gaulois”). Negli ultimi anni, peraltro, nonostante la nota efficienza tedesca e l’apprezzabile impegno di molti amministratori locali, la situazione si è andata gravemente deteriorando. Quarant’anni di “politica dello struzzo” (è difficile definire altrimenti la caparbia negazione del carattere immigratorio della Germania) hanno infatti determinato l’accumulo di tanti e tali problemi da rendere ben poco ottimisti sulla possibilità di un rapido cambiamento del quadro in presenza. Per la verità, già nel 1973, il governo federale, pur ribadendo il carattere non immigratorio del Paese, ebbe a dichiarare un obiettivo, la cosiddetta “integrazione temporanea” (Integration auf Zeit), che, al di là della contraddizione in termini, implicava la decisione di “rendere più umana la condizione degli immigrati”. Ma la trasformazione della natura dell’immigrazione, avviata in quello stesso anno dalla chiusura delle frontiere, ha reso del tutto insufficienti le misure allora previste. Infatti, da un lato, iniziò il consolidamento delle presenze pregresse, con la complessificazione del tipo d’immigrazione esistente, e, dall’altro, cominciò anche per la Germania il periodo dell’immigrazione clandestina e irregolare, dell’aumento del tasso di disoccupazione fra gli stessi immigrati legali e dell’arrivo in massa dal Terzo Mondo di “rifugiati” veri e fasulli. Successivamente, sul finire degli anni ’80, il tracollo dei Paesi dell’Est rovesciò sulla Repubblica federale tedesca delle ondate di profughi senza precedenti in tempo di pace: oltre 1,5 milioni di persone, con un saldo netto di circa 1 milione, fra il 1989 e il 1990, prima dell’unificazione dei due Stati tedeschi, fra Übersiedler e Aussiedler. Dopo l’unificazione (1990) l’afflusso degli Aussidler è continuato a un ritmo assai elevato e il numero dei rifugiati di altra origine è ancora aumentato, mentre il quadro in presenza si è ulteriormente complicato per le migrazioni interne dai nuovi ai vecchi Länder e le difficoltà di convivenza emerse un po’ dappertutto fra autoctoni e immigrati stranieri. In questo contesto non possono stupire le pur gravissime esplosioni di razzismo e di xenofobia, moltiplicatesi all’indomani della riunificazione e tuttora non sotto controllo. Il modello dell’estraniazione degli immigrati, nato in un’altra epoca storica, con altre funzioni, pare del resto fatto apposta per coltivare pregiudizi, divisioni, odi e rancori. Successivamente vi sono stati dei segni di resipiscenza, per quanto concerne quella politica. Ma non si può proprio dire che le pur autorevoli dichiarazioni in favore dell’integrazione degli stranieri residenti da molti anni nel Paese, che hanno preceduto e accompagnato l’adozione di misure restrittive sull’asilo politico (1993), abbiano sortito degli effetti significativi. Tali dichiarazioni, del resto, rivelano, in genere, una concezione assai riduttiva dell’integrazione, vista non come la conseguenza spontanea dello sviluppo di normali relazioni sociali fra persone di origine diversa, ma come il risultato di un processo guidato dall’alto, nell’interesse innanzi tutto della componente tedesca, che dovrebbe continuare a trarre dalla situazione un particolare vantaggio: assicurarsi l’apporto dei lavoratori stranieri senza dover riconoscere loro pieni diritti di cittadinanza. In proposito si è anche parlato di un ritorno di fatto alla politica dei Gastarbeiter, specialmente per ciò che concerne i lavoratori provenienti dalla Polonia e da altri Paesi dell’Europa orientale (Rudoplh, 1996). Un primo segnale di speranza è stato costituito però dalle parole pronunciate dall’ex presidente della Repubblica federale tedesca Richard von Weizsäcker (1993) davanti alle bare di cinque immigrati turchi vittime di uno dei più efferati episodi di razzismo del dopoguerra tedesco: “Gli estremisti che sfilano per le strade gridando ‘La Germania ai Tedeschi’ (Deutschland den Deutschen) che cosa vogliono? Cambiare la Costituzione? Perché il suo primo articolo dice non già che è inviolabile la dignità dei Tedeschi; ma che è inviolabile la dignità degli uomini. Se fosse altrimenti, a essere messa in discussione sarebbe proprio la dignità dei Tedeschi. Quanto ai turchi, non sarebbe più giusto e più umano cominciare a chiamarli cittadini tedeschi di origine turca?”. Un passo rilevante in questa direzione è stato poi costituito dalla recente riforma della legge sulla cittadinanza approvata il 23 maggio 1999, su iniziativa della nuova maggioranza rosso-verde, non senza laceranti contrasti nel Parlamento e nel Paese (l’opposizione democristiana, pur di ridimensionarne l’importanza rispetto all’originaria proposta, giunse a minacciare un referendum abrogativo). Questa legge, entrata in vigore il 1° gennaio 2000, ha operato una prudente, ma significativa rottura con la tradizione sopra illustrata, riconoscendo per la prima volta ai figli degli immigrati stranieri nati in Germania la possibilità di acquisire, a determinate condizioni, la cittadinanza del Paese, senza dover passare per le umilianti forche caudine di una difficile “naturalizzazione”. Ma le sue conseguenze sull’integrazione degli immigrati si potranno valutare pienamente solo fra alcuni anni.
Qualche ulteriore confronto
Prima di soffermarci sul caso italiano, può essere
opportuno operare qualche ulteriore confronto fra i tra Paesi sopra analizzati. La Francia e, ancor più, la Germania, tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1973, conobbero delle immigrazioni di straordinario rilievo, che rispondevano, però, a un’effettiva domanda di lavoro da parte delle loro economie, impegnate prima nella ricostruzione post-bellica e poi in un lungo processo di sviluppo. Allora per questi due Paesi il problema era quello non già di limitare gli arrivi, bensì di reperire la forza-lavoro necessaria, come dimostra l’implementazione del reclutamento all’estero. Complementare era peraltro il governo di quell’immigrazione sul proprio territorio, secondo il loro progetto sociale, che nei due casi, come abbiamo visto, era ben diverso. Infatti, in Francia si perseguiva l’inserimento definitivo di almeno una parte degli immigrati, previa la loro assimilazione, mentre in Germania se ne auspicava la permanenza soltanto temporanea, con una rotazione che ne impedisse il radicamento. Entrambi questi obiettivi furono a lungo perseguiti con successo, grazie alla fase di espansione economica e alla provenienza degli immigrati da aree vicine, sia culturalmente (per ciò che interessava il progetto francese), sia geograficamente (per ciò che interessava il progetto tedesco). Il Regno Unito, invece, a parte la tradizionale immigrazione irlandese, utilissima per la sua economia, ha più che altro subìto l’arrivo degli immigrati, per lo più profughi del Nuovo Commonwealth, che tuttavia hanno potuto inserirsi nel Paese, anche se non senza difficoltà, grazie al calo della popolazione autoctona, al buon andamento dell’economia e alla loro previa acculturazione coloniale. Successivamente, quando la crisi ebbe a spezzare il legame fra immigrazione e domanda di lavoro, il fenomeno divenne ingovernabile e tutti i Paesi d’approdo decisero di chiudere le loro frontiere. Ma, se era stato abbastanza facile sollecitare l’immigrazione con le politiche di reclutamento, risultò pressoché impossibile bloccarla totalmente con le politiche di stop. Gli immigrati continuarono ad arrivare, anche se indesiderati, utilizzando le vie del ricongiungimento familiare o del rifugio politico, se appena possibile, o, altrimenti, come clandestini. Nel frattempo anche la natura dell’immigrazione era andata mutando, perché ai lavoratori dell’Europa meridionale erano progressivamente subentrati, in sempre maggior misura, quelli provenienti da aree geograficamente e culturalmente più lontane. Per questo l’immigrazione (vista dapprima come la soluzione più semplice di un problema limitato, la carenza di manodopera) è diventata a sua volta un problema: per pressoché unanime riconoscimento, uno dei più gravi e complessi fra quelli attualmente presenti sulla scena europea. “Abbiamo cercato braccia, sono arrivati uomini”, ebbe ad affermare icasticamente lo scrittore svizzero Max Frisch. Non era soltanto una deprecazione populistica della scarsa attenzione dedicata dai Paesi importatori di manodopera agli aspetti umani dell’immigrazione. Era la constatazione, sia pur tardiva, che l’immigrazione è un “fatto sociale totale”, per dirla nei termini di Marcel Mauss. Anche quando sia cominciata in seguito a un’effettiva domanda di lavoro, per mutuo interesse economico (com’è avvenuto in quei Paesi, ma non in Italia), non si esaurisce mai nella mera dimensione economica. È un processo multidimensionale, che crea in genere assai più problemi di quanti non ne risolva. In due decenni di chiusura ufficiale delle frontiere, in tre Paesi di lunga e consolidata esperienza specifica e assai più capaci che non l’Italia di governare i fenomeni sociali, questo processo ha travolto i progetti sociali elaborati per fronteggiarlo. In realtà anche quei Paesi si sono ormai ridotti a inseguire le “emergenze”, come l’Italia, mentre sul loro territorio si diffondono proprio le tensioni e i conflitti che quei progetti avrebbero dovuto scongiurare. Si aggiunga che sin troppo spesso queste tensioni e questi conflitti hanno assunto quasi dappertutto un’inquietante carattere etnico-culturale. Questa dimensione dei processi migratori è stata a lungo sottovalutata, sia per la prospettiva economicistica in cui li si è prevalentemente analizzati in passato, sia per l’etnocentrismo delle società d’inserimento, che le induceva a ritenerne sempre possibile l’assimilazione (Francia), la subordinazione (Regno Unito) o l’estraniazione (Germania) o, eventualmente, un controllo con un mixtum compositum di queste tre strategie (come nel caso, qui non analizzato, ma estremamente importante della Svizzera, il Paese europeo di dimensioni non piccolissime che presenta la più alta percentuale d’immigrati sulla popolazione: il 19%). Queste politiche sono peraltro tutte miseramente fallite. L’assimilazione con perdita dell’identità culturale, nel caso francese, la gerarchizzazione dissimulata da pluralismo, nel caso britannico, la coltivazione della reciproca estraneità, nel caso tedesco, si sono rivelate scelte non solo assai discutibili sotto il profilo etico-politico, ma del tutto inadeguate e anzi controproducenti. In particolare, con quelle politiche le culture dell’immigrazione, non che diventare un fattore di arricchimento reciproco (come pur si suole ritualmente auspicare), sono diventate la componente forse più esplosiva di uno scenario già di per sé caratterizzato da una netta propensione al conflitto. In questo contesto non può stupire che in Italia manchi ancora un progetto sociale globale per la gestione dell’immigrazione e, più in particolare, per l’integrazione degli immigrati. Tale carenza si deve, peraltro, anche a un insieme di fattori specifici, che è necessario richiamare.
La situazione italiana
L’Italia, così come gli altri late-comers
dell’immigrazione in Europa (la Spagna, il Portogallo e la Grecia, in particolare), ha conosciuto un’immigrazione almeno inizialmente anomala, dovuta più ai fattori di espulsione nei Paesi di esodo che ai fattori di attrazione nel Paese di approdo, del resto a lungo percepito dai migranti come una seconda opzione rispetto alla tradizionali mete centro-europee e transoceaniche (Melotti, 1985). L’Italia, come si è detto, è diventata infatti un Paese d’immigrazione nel corso degli anni ’70, quando gli arrivi (già cominciati in sordina nel precedente decennio) aumentarono rapidamente, nonostante la grave crisi economica. Molti di coloro che, per loro stessa affermazione, si sarebbero diretti preferibilmente in altri Paesi, trovandone chiuse le frontiere, si cominciarono infatti a riversarsi in Italia, che, considerandosi ancora un Paese d’emigrazione e non d’immigrazione, aveva lasciato le sue del tutto aperte (almeno di fatto, se non legalmente, dato che tale “apertura” derivava in realtà soltanto dalla disapplicazione sistematica, più per trasandatezza che per scelta meditata, delle pur restrittive norme ereditate dall’epoca fascista). A questi immigrati economici si aggiunsero poi, via via, i numerosi rifugiati politici di quel periodo (argentini, brasiliani, cileni, paraguaiani, palestinesi, libanesi, eritrei, somali, iraniani, curdi, tamil, vietnamiti, etc.). L’immigrazione s’incrementò ulteriormente negli anni ’80, per effetto sia dei persistenti fattori espulsivi nei Paesi di origine (per le crisi economiche e politiche che colpirono molti Paesi del Terzo Mondo e dell’Europa orientale), sia dei fattori di attrazione, che cominciarono ad acquisire una certa importanza (per il notevole sviluppo che caratterizzò i cosiddetti golden eighties: 1982-1989). Naturalmente a orientare i flussi verso l’Italia concorsero anche le ulteriori restrizioni all’immigrazione legale e i più severi controlli contro quella clandestina introdotti dagli altri Paesi europei verso la metà degli anni ’80. Secondo i dati del Ministero dell’Interno (basati sui permessi di soggiorno rilasciati dalle questure), il numero degli stranieri legalmente presenti in Italia si raddoppiò nel corso degli anni ’70, passando dai circa 150.000 del 1970 ai circa 300.000 del 1980, e aumentò ancora di più nel decennio seguente, arrivando a poco meno di 800.000 nel 1990, l’anno in cui vennero introdotte per la prima volta delle misure intese a contenere gli ingressi. Dopo un breve periodo di assestamento (dovuto non tanto a tali misure, che ebbero sempre ben scarso successo, quanto alla guerra del Golfo e alla nuova crisi economica), l’immigrazione riprese a un ritmo sostenuto, che portò nell’ultimo decennio a un nuovo raddoppio delle presenze legali. Il numero degli immigrati regolari è così arrivato a circa 1.700.000 alla fine del 2000. Il numero effettivo degli immigrati in Italia è stato però sempre molto più alto di quello risultante dai permessi di soggiorno, date le consistenti presenze illegali. Anche se le quattro generosissime sanatorie del 1987, del 1990, del 1995 e del 1998 (un record mondiale che nessuno probabilmente c’invidia) permisero la regolarizzazione di circa 800.000 irregolari, il numero di questi ultimi è infatti restato sempre molto alto, anche per l’effetto di richiamo suscitato da quei provvedimenti. Attualmente, secondo le pur discutibili stime della polizia, comunicate dal ministro dell’Interno il 18 dicembre 2000, gli irregolari sarebbero almeno 250.000: un numero superiore a quello calcolato prima dell’ultima sanatoria da un gruppo di lavoro istituito presso lo stesso ministero. L’Italia continua così a essere (come lo è stata per quasi tutto lo scorso decennio) il primo Paese in Europa per il numero, assoluto e relativo, degli immigrati irregolari, così come per la percentuale degli extracomunitari sul totale degli immigrati (circa l’88%) e la percentuale dei disoccupati fra gli immigrati sia regolari, sia irregolari: un insieme di dati che segnala la particolare problematicità della situazione, con ovvi riflessi negativi per l’integrazione sociale degli immigrati e (cosa non indipendente dalla prima) per la convivenza civile, la sicurezza e l’ordine pubblico: temi che proprio per questo hanno finito per essere inevitabilmente sempre più discussi con riferimenti diretti e indiretti all’immigrazione. Per comprendere queste difficoltà, non bisogna mai dimenticare che l’Italia è diventata un Paese d’immigrazione quando i potenti fattori di spinta già sopra ricordati hanno indotto frange crescenti della popolazione di alcuni Paesi del Terzo Mondo prima e dell’Europa orientale poi a tentare l’avventura dell’Occidente, cercando sbocchi anche in quei Paesi dell’Europa meridionale in cui l’immigrazione costituisce da molti punti di vista un paradosso. In questi Paesi, infatti, l’immigrazione coesiste con l’emigrazione (che continua, ancorché in misura ridotta) e soprattutto con la disoccupazione (che è invece assai alta). In Italia, in particolare, la disoccupazione supera l’11% su base nazionale e il 20% nel Mezzogiorno (che ne detiene il triste primato fra tutte le aree europee), con tassi ancora più alti per determinate categorie (la disoccupazione femminile supera il 15% e quella giovanile il 21% su base nazionale ed entrambe superano il 40% nel Mezzogiorno). Questo paradosso ha una spiegazione. Nei Paesi dell’Europa meridionale gli immigrati s’inseriscono per lo più in segmenti del mercato del lavoro che sono poco ricercati, se non sono proprio “rifiutati” (come spesso si dice impropriamente dire), dagli autoctoni, soprattutto per le condizioni ivi praticate. Le ragioni sono diverse. Per l’Italia si deve ricordare, in particolare, il considerevole aumento dei redditi delle famiglie, che, assieme alle provvidenze statali, ha consentito di tamponare le conseguenze di anche lunghi periodi di disoccupazione giovanile, dovuti, almeno in parte, alle irrealistiche aspettative suscitate nei giovani e nelle loro famiglie da una scolarizzazione prolungata, anche se di scarsa qualità e poco rispondente alle esigenze del mercato del lavoro. Ma la domanda e l’offerta di lavoro non sempre s’incontrano anche per quanto concerne gli immigrati. Così in Italia (come in Spagna, Portogallo e Grecia) una gran parte degli stessi immigrati regolari restano disoccupati. Non sorprende pertanto che qui molti di essi finiscano per incrementare la piaga della criminalità diffusa o divengano una manovalanza di quella organizzata, che da tempo ha esteso le sue attività molto al di là delle sue tradizionali regioni d’insediamento (la Sicilia, la Campania, la Calabria, la Puglia). Per quanto concerne il lavoro, bisogna inoltre ricordare che l’Italia presenta un vastissimo settore “informale” e molte centinaia di migliaia d’immigrati regolari e irregolari (così come, del resto, cinque milioni d’italiani) vi trovano un’occupazione in nero, non risultante dalle statistiche ufficiali. Anche questo fatto non facilita l’integrazione. A ciò si aggiunga che molti altri immigrati creano essi stessi i loro posti di lavoro (se così li si può definire), come il piccolo ambulantato di strada, il lavaggio dei vetri alle automobili in sosta o la questua più o meno mascherata. Si tratta però di attività estremamente precarie, anche se consentono a molti di loro di realizzare un reddito superiore allo stipendio di un funzionario di medio livello nei loro Paesi d’origine. La maggior parte degli immigrati che hanno un lavoro normale (regolare o irregolare) sono impiegati nel settore terziario (servizi domestici, alberghi e ristorazione, imprese di pulizia, portinerie, etc.). Un buon numero è però presente anche nel settore primario (soprattutto attività agricole stagionali e nella pesca, specie nelle regioni meridionali) e nel settore secondario (cave e miniere, edilizia, fonderie, ceramifici e, soprattutto nelle regioni settentrionali, piccola e media industria, anche leggera). In alcune attività vi è una forte concentrazione di immigrati di determinati Paesi. Così, ad esempio, la maggior parte di coloro che provengono da Filippine, Sri Lanka, Eritrea, Repubblica Dominicana, Mauritius, Capo Verde e Salvador (in più o meno netta prevalenza donne) prestano servizio domestico, mentre una buona parte di coloro che provengono da Marocco e Senegal (in prevalenza uomini) si dedicano all’ambulantato di strada. Questa segmentazione etnica del mercato del lavoro, molto accentuata agli inizi del processo immigratorio, si sta però ridimensionando. Allo stesso modo si sta riducendo la concentrazione degli stranieri sul territorio. Gli immigrati, inizialmente sovrarrapresentati in alcune aree (le regioni di frontiera e quelle con porti e aeroporti internazionali, i grandi centri urbani, le zone agricole del centro-sud), si sono infatti diffusi in tutto il Paese, anche se ancora notevole è la loro presenza nelle regioni, nelle provincie e nelle città che offrono le maggiori possibilità di lavoro o, almeno, di pur precaria sopravvivenza. Secondo gli ultimi dati disponibili (1-1-2000), troviamo ai primi posti, fra le regioni, la Lombardia (316.000), il Lazio (263.000), il Veneto (144.000), l’Emilia-Romagna (120.000), la Toscana (110.000), il Piemonte (94.000), la Campania (75.000) e la Sicilia (68.000) e, fra le provincie, Roma (238.000), Milano (173.000) e Napoli (50.000). Questi dati concernono i soli regolari secondo i permessi di soggiorno, integrati, per quanto concerne i minori, da opportune stime (Caritas, 2000). Se si calcolano anche gli irregolari, secondo le più ragionevoli valutazioni si superano i 300.000 nella sola area metropolitana di Roma, i 200.000 in quella di Milano e i 100.000 in quella di Napoli. Si tratta quindi di un fenomeno assai significativo, che si è sviluppato nell’arco di oltre un trentennio. Peraltro per molti anni non ha suscitato un’adeguata attenzione da parte delle istituzioni. In realtà, dall’inizio dell’immigrazione sino alla fine del 1986, l’unica risposta data al fenomeno fu una politica di sostanziale laissez- faire: nessun progetto sociale globale, nessun orientamento preciso in tema d’integrazione, nessuna iniziativa con un minimo di respiro, nessun intervento specifico neanche in tema di ordine pubblico (nonostante la pur segnalata diffusione di attività malavitose correlate con l’immigrazione). L’assistenza, ridotta ai minimi termini, era per lo più delegata alla Caritas o ad altre organizzazioni d’ispirazione cattolica vicine al partito di maggioranza relativa di allora (la Democrazia Cristiana) e, in minor misura, alle associazioni sindacali e parasindacali vicine ai tre maggiori partiti del tempo: la Democrazia cristiana, il Partito comunista e il Partito socialista. Seguì, per un breve periodo (1987-1990), una politica orientata alla regolarizzazione (in alcuni anni anche indiscriminata, come al tempo della seconda sanatoria) di tutti i presenti, ispirata al velleitario “solidarismo” che accomunava allora i due principali partiti della maggioranza di centro-sinistra (la Democrazia cristiana e il Partito socialista) e il maggior partito di opposizione (il Partito comunista). Successivamente (1990), quando ci si rese conto che, anche a causa di quella politica, la situazione aveva ormai superato il livello di guardia, ci fu un colpo di freno (informalmente sollecitato anche dalla Comunità europea, preoccupata dei suoi possibili riflessi oltre i confini italiani, data anche l’ormai prevista eliminazione dei controlli alle frontiere fra gli Stati membri), peraltro con misure restrittive mal definite e peggio applicate. Sino al 1998 le due principali leggi in materia furono la n. 943 del 30 dicembre 1986 e la n. 39 del 28 febbraio 1990 (conosciuta come la Legge Martelli, dal nome del giovane vicepresidente del Consiglio, inesperto, ma determinato, che l’impose anche contro le resistenze di una parte non piccola delle stesse forze di governo). Queste norme furono poi integrate, in ambiti specifici, da alcuni provvedimenti ad hoc, concernenti l’introduzione dei visti d’ingresso per i cittadini dei Paesi a maggior “rischio migratorio”, “eccezioni umanitarie” per coloro che provenissero da Paesi dilaniati dai conflitti bellici (come la Somalia e gli Stati dell’ex Jugoslavia), altre “eccezioni” imposte dalla necessità di fronteggiare determinate “emergenze” (fra cui l’arrivo in massa degli albanesi sulle coste adriatiche nel 1991 e nel 1997) e misure speciali a favore dei vecchi e dei nuovi rifugiati. Le leggi n. 943/1986 e n. 39/1990, che pur furono recepite soprattutto come dei provvedimenti intesi a regolarizzare gli extracomunitari già presenti illegalmente in Italia, hanno altresì sancito i diritti degli immigrati e hanno definito degli orientamenti di massima per la loro “integrazione”. La legge n. 943/1986 ha riconosciuto a tutti i lavoratori legalmente presenti in Italia la parità di trattamento e la piena uguaglianza giuridica con i lavoratori italiani. Ha assicurato loro il diritto al ricongiungimento familiare e ha affermato, per loro e per i loro familiari, il diritto all’uso dei servizi sociali e sanitari, all’abitazione, alla scuola (il diritto all’educazione venne poi esteso, nel 1994, anche ai figli degli immigrati irregolari, secondo le convenzioni internazionali in materia). La stessa legge ha affermato il diritto degli immigrati di organizzare proprie associazioni e di mantenere la propria identità culturale e ne ha promosso la partecipazione, in forma indiretta, alle decisioni che li riguardano, tramite specifiche “consulte” locali di vario livello. Sin dal suo titolo, la legge prevedeva altresì, per la prima volta in Italia, la lotta all’immigrazione clandestina, ma questo punto (che pur compariva nel suo stesso titolo) venne quasi completamente disatteso, per ragioni diverse (malintesa “solidarietà”, inefficienza amministrativa e anche interessi e connivenze non confessabili). La legge n. 39/1990 ha definito un insieme d’interventi intesi a favorire l’integrazione sociale e culturale degli immigrati e ha stanziato dei fondi di una certa consistenza per implementare il diritto alla casa e all’educazione. Ha garantito a tutti gli immigrati regolari l’iscrizione gratuita all’assistenza sanitaria pubblica per il periodo di un anno (poi portato a tre). Ha eliminato la cosiddetta “riserva geografica” che limitava ai soli cittadini europei la possibilità di ottenere il riconoscimento dello status di rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra. Ha stabilito il principio di una programmazione degli ingressi (che, pur essendo poi restata per alcuni anni a livello zero, dato l’elevatissimo numero di disoccupati fra gli immigrati regolari già presenti in Italia, non ha però impedito l’arrivo di oltre 50.000 immigrati regolari all’anno, in media, grazie alle norme sul ricongiungimento familiare e sul rifugio politico e ai contratti di lavoro, spesso fasulli o di comodo, ma ben raramente controllati). Negli ultimi anni il numero degli immigrati regolari annualmente previsti è stato fissato a 63.000, in aggiunta a quello, non piccolo, di coloro che, già presenti irregolarmente in Italia, hanno potuto beneficiare delle due ultime sanatorie (circa 350.000 persone circa, a operazioni non ancora concluse). Nel suo insieme, questa legislazione s’ispirava alla filosofia di attribuire agli immigrati regolari gli stessi diritti civili, economici e sociali dei cittadini italiani, senza imporre loro, come condizione per poterne fruire, l’acquisizione della cittadinanza (secondo lo stesso principio propugnato per decenni dall’Italia per i suoi emigrati all’estero). Ciò comportava, per molti aspetti, l’equiparazione di fatto degli immigrati extracomunitari regolari ai cittadini dei Paesi dell’Unione europea, con un’unica rilevante eccezione: il diritto di voto alle elezioni amministrative, che in Italia è tuttora riconosciuto solo a questi ultimi, mentre in altri Paesi europei è riconosciuto anche agli extracomunitari (è questo il caso della Danimarca, della Svezia, della Norvegia, dell’Irlanda, della Spagna, dei Paesi Bassi e persino di qualche Land tedesco, per tacere del Regno Unito, in cui, come già detto, i cittadini dei Paesi del Commonwealth godono di tutti i diritti politici). Per contro, fortemente affermato è stato il diritto all’identità culturale e religiosa, del resto già profondamente radicato nella società civile (per cui, ad esempio, vicende simili a quelle reiteratamente vissute in Francia dalle giovani musulmane escluse dalle scuole statali perché indossavano il cosiddetto “foulard islamico” in Italia sarebbero addirittura impensabili, anche se di recente qualche dichiarazione un po’ troppo sopra le righe contro l’“invadenza islamica” è stata espressa non solo da alcuni esponenti della Lega Nord, ma anche da alcuni prelati della Chiesa cattolica, come il cardinale Biffi, da un sacerdote da tempo impegnato in politica, come Giovanni Baget-Bozzo, e da studiosi di orientamento laico, come Giovanni Sartori). Peraltro in Italia, ancor più che in altri Paesi, intercorre un divario notevole fra il teorico riconoscimento dei diritti e la loro effettiva attuazione. Non stupisce così che alcuni diritti pur formalmente sanciti (come quelli, di natura programmatica, al lavoro e alla casa) siano restati quasi lettera morta, così come, del resto, avviene per molti italiani. D’altra parte il forte garantismo della nostra legislazione, coniugato con la scarsa efficienza degli apparati di polizia e la macchinosità e la lentezza delle procedure amministrative e giudiziarie (anche a prescindere dalle pur comprovate connivenze di non pochi funzionari deviati dai loro ruoli istituzionali), assicura la pressoché totale impunità alla maggior parte degli immigrati, regolari e irregolari, che si macchino di delitti anche gravi (con tutto ciò gli immigrati sono arrivati a costituire una percentuale assai considerevole della popolazione carceraria: il 33% di tutti gli entrati in carcere dallo stato di libertà, nel 1998). Il meccanismo delle espulsioni è quasi inceppato. In prima istanza è affidato all’esecuzione spontanea degli stessi “intimati”, che peraltro ben raramente rispettano l’ordine di lasciare il Paese. In seconda istanza è previsto l’accompagnamento alla frontiera, che peraltro viene eseguito soltanto in una minima parte dei casi (nel 1993 in un caso su dieci; ora, a quanto si dice, in un caso su sei). Per di più basta la distruzione dei documenti d’identità da parte dell’interessato e la comunicazione da parte sua di false generalità per mettere in scacco tutta la procedura, caratterizzata da un formalismo esasperato. A questa situazione ha invano cercato di porre rimedio il governo Dini con un decreto (il D.L. n. 489 del 18 novembre 1995) che prevedeva (accanto ad altre cose, fra cui la già ricordata sanatoria) procedure di espulsione più spicce almeno per gli immigrati clandestini colti in flagranza di gravi reati. Tale decreto, reiterato per ben quattro volte, con varie modifiche, non è però mai stato convertito in legge per l’opposizione delle componenti più strenuamente garantiste della maggioranza di centro-sinistra uscita dalle elezioni del 1996 ed è stato lasciato decadere (con salvaguardia però, ad opera di una specifica legge, la n. 617 del 9 dicembre 1996, delle misure di sanatoria per gli immigrati clandestini). Il 19 febbraio 1998 è stata infine approvata, dopo lunghe e defatiganti discussioni, una nuova legge, la n. 40/98, che i suoi due principali firmatari, la ministra della Solidarietà sociale Livia Turco e il ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, hanno voluto presentare come l’attesa “legge organica” sull’immigrazione (mentre in realtà la vera legge organica, predisposta con il pluriennale lavoro di una pletorica commissione di studio, era stata affondata, prima della sua stessa formale presentazione, dal fuoco incrociato della composita lobby pro-immigrati, ben rappresentata nel seno stesso della commissione, e delle forze politiche, di maggioranza e opposizione, orientate a un maggior rigore). La legge Turco – Napolitano, a detta dei suoi proponenti, avrebbe dovuto prevedere sia delle efficaci misure per l’integrazione degli immigrati, sia dei seri provvedimenti per contrastare l’immigrazione clandestina (notevolmente accresciuta nel frattempo). Ma le opposte resistenze emerse durante il suo iter parlamentare hanno finito per svuotarla quasi di ogni senso e poche sono state in effetti le sue vere novità rispetto alla normativa precedente (come si può evincere dal successivo Testo Unico, che ha coordinato vigenti norme in materia). Di qualche rilievo sono peraltro l’introduzione di una carta di soggiorno permanente per gli immigrati regolari residenti in Italia da almeno cinque anni, i permessi semestrali per il lavoro stagionale (anche se prevedibilmente destinati per lo più a non essere rispettati, con creazione di nuova irregolarità), le facilitazioni per l’esercizio del lavoro autonomo e delle attività professionali, la semplificazione delle procedure per i ricongiungimenti famigliari (che una recente sentenza della Corte di Cassazione ha poi esteso a catena) e il sostegno alle iniziative sociali e culturali a favore degli immigrati. Poco incisive sono invece le norme, pur formalmente più severe, contro l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento degli immigrati e ogni forma di discriminazione sociale. L’inadeguatezza della legge su questo piano è, del resto, platealmente emersa quasi subito, con la confusa e contraddittoria risposta nell’estate seguente ai nuovi sbarchi in massa di clandestini sulle coste meridionali (internati per trenta giorni e poi paradossalmente lasciati liberi di andare dove volessero, nel caso in cui fossero riusciti a non farsi identificare entro tale termine) e con il caotico avvìo nell’autunno di un’ulteriore sanatoria (anche se non più chiamata ufficialmente così per quel pedaggio d’ipocrisia che il vizio talvolta paga alla virtù). La sanatoria, a lungo ufficialmente negata, venne poi ufficializzata agli inizi dell’anno seguente, quando già erano diventati evidenti i suoi effetti di richiamo, alimentati anche dalle irresponsabili dichiarazioni di alcuni ministri e di altre autorità (fra cui lo stesso presidente della Repubblica Scalfaro, che ebbe a proclamare urbi et orbi, sul finire del 1999, che “le porte spalancate sono un fatto di civiltà”). Anche la nuova legge sulla cittadinanza (L. n. 91/1992), approvata qualche anno prima, ha rappresentato un compromesso non sempre felice fra le aperture all’integrazione e la tendenza a un maggior rigore. Pur riconfermando il tradizionale principio dell’attribuzione della cittadinanza per jus sanguinis, tale legge ha infatti previsto delle significative agevolazioni per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di alcune categorie di stranieri (discendenti di ex-cittadini italiani, coniugi di cittadini italiani, giovani nati in Italia da genitori stranieri), ma ha introdotto altresì una discutibile discriminazione fra i cittadini della Comunità europea e quelli degli altri Paesi. Il requisito della residenza legale, che in precedenza era di cinque anni per tutti, è stato ridotto a quattro per i primi e aumentato a dieci per i secondi. Esistono peraltro delle proposte di legge per una nuova modifica della normativa sulla cittadinanza, che dovrebbe superare la distinzione citata, facilitare le naturalizzazioni ed estendere l’ambito di applicabilità dello jus loci. Per i suoi riflessi indiretti sulla condizione degli immigrati, va ricordata anche la legge n. 205/1993, che (integrando la precedente legge di ratifica della Convenzione di New York del 1966 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale) ha istituito una specifica repressione penale per gli atti di discriminazione o provocazione razziale, etnica, nazionale o religiosa, l’incitamento a commetterli e la diffusione di idee relative alla superiorità o all’inferiorità di un qualsiasi gruppo etnico o razziale. A grandi linee, l’Italia sembra dunque muoversi, sia pur con difficoltà e contraddizioni, in sintonia con gli altri Paesi europei, dove, dopo la crisi dei grandi progetti sociali di un tempo, si cerca ora di fronteggiare i problemi effettivamente esistenti con maggior realismo e senso pratico. Ciò contrasta però col dibattito in corso nel Paese, che è invece ancora caratterizzato dal prevalere di astratte posizioni ideologiche (cfr. Furcht, 1993, Melotti, 1994 e 2000a). Nel corso degli anni ’80 in Italia era stata proposta dai primi studiosi dell’immigrazione un’“integrazione sociale con salvaguardia dell’identità culturale” degli immigrati (Melotti, 1985). Successivamente, però, altri autori svilupparono in termini ingenui e discutibili, anche se generosi, l’idea di una non meglio definita “società multiculturale” che avrebbe dovuto risolvere, come per incanto, tutti i problemi in presenza (Ferrarotti, 1988, Macioti, 1991, Ghirelli, 1991). Né sono mancati coloro che, chiudendo gli occhi di fronte alla realtà, sono giunti a imputare tutte le difficoltà causate da un’immigrazione consistente e mal gestita al “razzismo degli italiani”, per utilizzare una formula che, per la verità, era stata inventata non dagli studiosi, ma da alcuni disinvolti giornalisti, propensi a épater les bourgeois anche per mediocri motivi di cassetta (si veda, in particolare, Bocca, 1988, e Lerner, 1988, su cui, criticamente, Melotti, 1991 e 1993). Ciò ha fatto sì che anche alcuni studiosi finissero per interrogarsi più sul razzismo che non sull’immigrazione, che era, ed è, il vero problema, anche se degli episodi di razzismo anche gravi in Italia sono mancati. Per di più questi autori (cfr., ad esempio, Balbo e Manconi, 1989) hanno ripreso pedissequamente, dalle elaborazioni francesi, dei concetti e delle argomentazioni non solo estremamente discutibili, ma fuorvianti e, in ogni caso, non rispondenti alla situazione italiana (mi riferisco, in particolare, alle elaborazioni sul cosiddetto “razzismo culturale”, che confondono indebitamente razzismo, etnocentrismo e culturocentrismo, e quelle sul cosiddetto “razzismo differenzialista”, che scontano l’originaria formulazione nel contesto francese con un implicito riferimento e un’acritica adesione al vecchio “modello repubblicano d’integrazione” sopra sintetizzato). Recentemente si è diffuso anche fra gli studiosi un maggiore spirito critico ed è emersa la consapevolezza che giovano più le misure concrete e responsabili che non le fughe in avanti e le astratte e settarie contrapposizioni ideologiche (Melotti, 1992, Zincone, 1994, Bolaffi, 1995). Eppure ciò ancora non basta. Per fronteggiare al livello dovuto la sfida costituita dalle nuove immigrazioni è necessario elaborare un nuovo progetto sociale globale, anche se sulla scena europea non esistono più (ammesso che siano mai esistiti in passato) dei validi modelli cui riferirsi. Il passaggio a una società multirazziale, multietnica, multiculturale, multilinguistica e multireligiosa è inevitabile sul lungo periodo, ma non rappresenta certo di per sé una soluzione ai problemi esistenti, che in questo processo potrebbero anzi addirittura aggravarsi (Melotti, 1992, 2000a). Per una transizione positiva si richiedono delle trasformazioni profonde, sia a livello strutturale, sia a livello culturale. Per ciò che concerne la risposta politica, occorre innanzi tutto la definizione di un nuovo rapporto fra Stato e società civile, cittadinanza e nazionalità, cultura e organizzazione sociale. Più in particolare, occorre la definizione di una nuova cittadinanza europea, articolata a tre diversi livelli: locale, statale e sovrannazionale: un terreno su cui tutti i Paesi europei dovranno misurarsi, superando i limiti posti dalle loro attuali culture politiche (Melotti, 2000b).
L’immigrazione e la cultura politica italiana
Alla luce di quanto si è detto, converrà richiamare, sia
pur in estrema sintesi, qualche aspetto della cultura politica italiana che ha esercitato, esercita e sembra destinato a esercitare ancora per parecchio tempo una significativa influenza sulle gestione italiana dell’immigrazione. Le difficoltà riscontrate per l’elaborazione in Italia di un progetto sociale globale per l’integrazione degli immigrati dipendono infatti non solo dalle specifiche caratteristiche che l’immigrazione ha assunto in Italia (anche se è ben vero che qui è prevalsa, come si è detto, un’immigrazione non cercata, ma subìta, che ha dato luogo a situazioni di continua precarietà e a ricorrenti emergenze). Dipendono anche da alcune caratteristiche della cultura politica italiana e, più in particolare, dal suo ambiguo e contraddittorio concetto di “nazione” (un concetto con cui ogni discorso sull’integrazione di immigrati “stranieri” deve almeno implicitamente misurarsi). Gioverà ricordare, innanzi tutto, che l’idea italiana di nazione ondeggia fra quella romantica, di tipo tedesco, e quella illuministica, di tipo francese. La prima, che ha ispirato gran parte degli stessi movimenti risorgimentali ed è riemersa poi, in forma degradata e deteriorata, in questo secolo, nelle elaborazioni del fascismo (che da ultimo riprese dal contesto tedesco anche le impostazioni razziste del nazismo), alimenta diffidenze e paure. La seconda, già presente in alcune delle più significative figure del pensiero ottocentesco e novecentesco, ha ispirato, e ispira, da quando in Italia è iniziata l’immigrazione, sia certe malcelate velleità “assimilazioniste”, diffuse anche a livello di senso comune, sia certe disinvolte aperture “cosmopolite”, che di recente, sotto altre influenze, provenienti per lo più dal mondo anglosassone, hanno finito a volte per dar vita a un retorico e pasticciato “multiculturalismo” di maniera: una fuga in avanti che non risolve i problemi, ma li nega (cfr. Melotti, 2000a). Peraltro in Italia il sentimento nazionale è assai più debole che in tutti gli altri Paesi dell’Europa occidentale, come alcune recenti ricerche hanno documentato. I motivi sono vari e numerosi. Fra questi, vale la pena di ricordare, in particolare, che tale sentimento — così come lo stesso senso dello Stato, per riprendere l’espressione cara ai vecchi liberali, o la «religione civile» (Tullio-Altan, 1995a, 1995b, Rusconi, 1999), per dirla altrimenti — ha subìto, e subisce, gli effetti di un duplice attacco. Qui, più che altrove, hanno infatti pesato, e pesano, sia gli orientamenti “ecumenici” della religione che non a caso si definisce “cattolica” (cioè universale), sia gli orientamenti “internazionalisti” di una certa sinistra, di pur varia e mutevole ispirazione. Gioverà ricordarne alcuni motti: “La mia patria è il mondo intero” (degli anarchici di fine secolo); “Il proletariato non ha patria” (dei socialisti anche riformisti); “Noi faremo come la Russia” (dei socialisti massimalisti, prima, e dei comunisti, poi, che fecero a lungo riferimento a questa idealizzata Patria straniera, nonostante la “via nazionale al socialismo” poi anche formalmente teorizzata da alcuni dei loro principali leaders). È una tradizione che, nonostante tutte le dure repliche della storia, in qualche misura continua a condizionare gli attuali partiti post-comunisti e neo- comunisti, pur da tempo al governo. Sulla situazione italiana pesa, del resto, anche un particolare retaggio storico. Innanzi tutto lo Stato nazionale italiano si è costituito assai tardivamente (in Europa occidentale dopo tutti gli altri, a eccezione della sola Germania, se si considera la data della sua proclamazione ufficiale, ma anche dopo quest’ultima, se non si dimenticano le due importanti regioni del Nord Est, il Trentino e la Venezia Giulia, “redente” solo al termine della prima guerra mondiale). Per di più la sua formazione avvenne senza (e in buona parte contro) le masse popolari: sia quelle per lo più borboniche e sanfediste del Sud, sia quelle prevalentemente cattoliche e socialiste del Centro e del Nord, per tacere di quelle, meno numerose, ma diffuse in tutto il Paese, di orientamento anarchico e libertario, ovviamente refrattarie a ogni tipo di autorità statuale, nazionale o non nazionale che fosse. La “nazionalizzazione delle masse” (Mosse, 1974), rimaste a lungo estranee a tale Stato, cominciò solo con la prima guerra mondiale (e in forma tutt’altro che indolore) e fu poi caparbiamente perseguita dal fascismo, ma in forme contraddittorie e controproducenti, anche per il carattere autoritario e antipopolare di quel regime, che, nonostante il diffuso consenso temporaneamente conseguito, finì per rinsaldare le preesistenti diffidenze verso lo Stato. Né va enfatizzato oltre modo, secondo i dettami di una certa storiografia apologetica, che solo di recente ha cominciato a lasciare il campo a più critici atteggiamenti, il contributo dato a quel processo dalla Resistenza, che in Italia fu del resto combattuta (diversamente che in Francia e in altri Paesi) con motivazioni più sociali e politiche che non nazionali. Né maggiore fu il contributo della cosiddetta “prima Repubblica”, divisa in opposte subculture egemonizzate da forze politiche che facevano riferimento ai due blocchi della guerra fredda e, dopo quella fase, miseramente naufragata negli intrighi dei partiti e delle loro correnti e nelle tempeste di tangentopoli. Orbene, una nazione debole e con uno scarso senso dello Stato difficilmente può perseguire una politica d’integrazione forte, tanto più in un’incerta fase di crisi e di transizione, come l’attuale. La carenza di un vero progetto sociale globale nel senso sopra precisato ha lasciato spazio a molte iniziative confuse. Invece di una ben definita politica d’integrazione, si è avuto lo strabordare dell’assistenzialismo spicciolo di matrice cattolica, che, nella latitanza delle istituzioni, ha finito per assolvere un’indebita funzione di supplenza, specie per ciò che concerne la gestione della componente irregolare dell’immigrazione, a lungo maggioritaria e tuttora assai consistente. D’altra parte lo Stato, incapace di far rispettare le sue stesse leggi, ha lasciato che si creasse sul territorio un pressoché inestricabile cumulo di problemi – sociali e di ordine pubblico – che rende oggi ben difficile affrontare criticamente la situazione e formulare delle plausibili indicazioni per l’avvenire. Ciò ha purtroppo alimentato due opposti estremismi: quello, almeno tendenzialmente xenofobo, di chi predica una drastica chiusura delle frontiere e l’espulsione in massa degli immigrati e quello, astrattamente xenofilo, di chi, chiudendo entrambi gli occhi su una realtà per più aspetti inquietante, inneggia irresponsabilmente alle meraviglie dell’“incontro con l’altro” e alle “magnifiche sorti e progressive” che sarebbero dischiuse dalla cosiddetta “società multiculturale” in formazione. Ma di ciò ho già avuto occasione di parlare diffusamente altrove (cfr. Melotti, 1994a, 1999, 2000a) e non mi ripeterò qui. Va sottolineato, per contro, che, in contrasto con quanto era stato affrettatamente sostenuti da alcuni dei primi osservatori del fenomeno, gli atteggiamenti apertamente razzisti hanno trovato ben poco spazio in Italia, tanto nelle forze politiche quanto nell’opinione pubblica (cfr. Melotti, 1991, e Sniderman et al., 1995), nonostante le sempre più diffuse resistenze a un’immigrazione mal controllata, che è obiettivamente diventata una delle principali cause d’insicurezza e di aggravamento della criminalità (Barbagli, 1998). L’idea italiana di nazione, per quanto contraddittoria, può essere però anche un’importante risorsa. Converrà pertanto riprendere e approfondire il discorso sopra accennato. L’idea italiana di nazione presenta in effetti una sua originalità, anche se può sembrare a tutta prima solo il risultato di una mediazione eclettica fra le istanze “particolaristiche” del romanticismo (che trovarono la loro prima e più alta espressione nelle elaborazioni di Herder, Schlegel e Fichte) e le aspirazioni “universalistiche” dell’illuminismo (che in Italia conobbe significativi sviluppi, soprattutto in alcune città, come Milano e Napoli, ove più marcata fu l’influenza francese). In ogni caso, l’idea italiana di nazione, pur partendo dal richiamo romantico al sangue e alla terra (come nell’emblematica invocazione manzoniana alla patria “una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor”), trascese ben presto l’impostazione etnico-culturale implicita in una visione siffatta grazie a un’interpretazione della nazione intesa come un vincolo di solidarietà suscettibile di aprirsi agli altri. Esemplare in proposito fu l’elaborazione di Giuseppe Mazzini, il riconosciuto apostolo del “principio di nazionalità”. Questi, pur enfatizzando forse più di ogni altro personaggio del Risorgimento l’importanza della nazione, la configurò sempre come un momento intermedio fra gli individui e l’umanità, che restò per lui il punto di riferimento più alto (dopo quello a un Dio peraltro più astrattamente invocato, nel noto binomio col popolo, che non effettivamente assunto a orientamento del pensiero e dell’azione). Ciò gli rendeva del tutto inconcepibile la giustificazione, in nome dell’interesse nazionale, di qualsiasi prevaricazione dei diritti altrui (sia di singoli individui, sia di altri popoli), che è invece sin troppo frequente in quei teorici della nazione che si richiamano a motivi particolaristici (del tipo di quelli icasticamente evocati dall’ormai proverbiale espressione anglosassone Right or wrong, my country o dall’affermazione tedesca, poi diventata sinistra nella stessa Germania, Deutschland über alles). Di quest’apertura universalistica dell’idea di nazione del Mazzini costituisce una prova anche la fondazione, da parte sua, della «Giovine Europa», subito dopo quella della «Giovine Italia» (la sua associazione per l’indipendenza, l’unità e il rinnovamento repubblicano del Paese). A ciò si aggiunga l’impegno per la libertà degli altri popoli testimoniato da tanti patrioti da lui ispirati o influenzati, fra cui lo stesso Garibaldi, che, dopo le sue ben note battaglie per la libertà di alcune popolazioni dell’America del Sud, impugnò le armi anche in difesa della Francia (pur intervenuta in precedenza a stroncare la Repubblica romana a lui sì cara). Ciò conferma che l’idea della nazione del Mazzini e dei mazziniani (sempre coniugata a quella della libertà, così come del resto quella di tutte le altre grandi figure del Risorgimento, dal Cattaneo al Cavour) esprimeva più la tensione verso un avvenire da costruire in spirito di solidarietà con gli altri popoli che un ripiegamento su un mitico passato di primordiali purezze da tutelare contro ogni possibile contaminazione (come nel caso delle elaborazioni non solo a quel tempo dominanti in Svizzera e Germania). L’originalità della concezione italiana della nazione emerge anche in autori più attenti alle formulazioni giuridico-istituzionali. Fra questi merita una particolare menzione Pasquale Stanislao Mancini (1851), il maggior teorico italiano dei diritti delle nazionalità. Questi, trent’anni prima di Renan, mise in luce l’insufficienza dei tradizionali elementi oggettivi, a quel tempo da molti ancora ritenuti costitutivi delle nazioni, e sottolineò l’importanza fondativa di un elemento soggettivo, la “coscienza della nazionalità”, intesa quale sentimento di appartenenza a un’unità politica. Alla concezione della nazione del Mancini — in Italia a lungo dominante, con l’unica significativa eccezione del Crispi e di alcuni esponenti della sinistra storica — si riallaccia anche l’idea che si potessero “fare gli Italiani”, per riprendere la celebre frase attribuita al D’Azeglio (che del resto riecheggiava i contemporanei detti transalpini secondo cui era ormai giunto il momento di “trasformare i contadini in francesi”). Peraltro, in almeno apparente contrasto con tale concezione, per ciò che concerne la cittadinanza la legislazione italiana ha sempre privilegiato lo jus sanguinis. Va detto però che nel caso italiano quest’impostazione — ispirata altrove, in molti casi, a un orientamento da Herrenvolk, propenso a difendere i propri privilegi escludendo dagli specifici diritti di cittadinanza i non appartenenti al preteso “popolo dei signori”, come appare sin troppo chiaramente in certe elaborazioni tedesche — in Italia esprimeva soprattutto una preoccupazione da “grande proletaria” (per riprendere la pur retorica definizione del nostro Paese data dal Pascoli): quella di mantenere un legame almeno formale con i suoi cittadini emigrati all’estero e i loro figli nati là. Va ricordato in proposito che nel suo primo secolo di esistenza come Stato nazionale (1861-1961) l’Italia ha conosciuto un’emigrazione di 26 milioni di persone, pari alla sua intera popolazione del 1861 (l’anno della proclamazione della sua unità) e a poco meno della metà della sua popolazione attuale. Del resto, anche le norme della prima specifica legge sull’immigrazione straniera in Italia (1986), così come quelle delle due leggi successive (1990 e 1998), rivelano in modo evidente, come si è detto, la preoccupazione di assicurare agli immigrati proprio quei diritti che l’Italia aveva a lungo rivendicato per i suoi emigrati. La contrapposizione fra Italia e Germania non va però esagerata. In effetti anche l’Impero tedesco negli anni precedenti la prima guerra mondiale, pur ricevendo già una consistente immigrazione dall’Est, era un grande Paese di emigrazione (verso le Americhe e verso l’Europa occidentale) e una preoccupazione simile a quella dell’Italia non fu certo estranea alla formalizzazione dello jus sanguinis introdotta dalla sua legge sulla cittadinanza del 1913. Per contro, in Italia avevano allora già cominciato a prendere piede degli orientamenti etnocentrici e razzisti, anche in relazione con gli sviluppi della sua pur tardiva e miseranda politica coloniale. In effetti la deriva in senso illiberale dell’idea di nazione era cominciata sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, con i governi della sinistra storica. Ben presto però si estese ad altri ambienti, compresi quelli di orientamento liberale, che, pur prendendo le distanze dai peggiori eccessi del nazionalismo attivista, troppo concessero, in nome del “realismo politico”, a un’ambigua irrisione delle “alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità” (secondo la ben nota formulazione del Croce, 1917). La degenerazione fu ancora più evidente nelle varie correnti dell’“interventismo” prebellico, non escluse quelle di dichiarato orientamento democratico. Il regime fascista aggravò poi ancora la situazione, sia sul piano pratico (con un ricorso sistematico alla peggior retorica nazionalista per giustificare le più stolide iniziative in Italia e all’estero), sia sul piano teorico (con la pretesa di rappresentare la “comunità nazionale”, concepita come un aggregato organico di popolo e Stato, provvidenzialmente guidato dal Duce e inquadrato dal Partito nazionale fascista e dalle sue varie organizzazioni di massa). A ciò si aggiunga il già ricordato sbocco razzista di tutta la sua costruzione teorica. Forse anche per questo nel secondo dopoguerra in Italia di nazione si è parlato poco, nonostante la rifondazione teorica e pratica che a giudizio di taluni ne sarebbe stata operata dalla Resistenza. Lo stesso aggettivo «nazionale», percepito come squalificato epiteto nostalgico, divenne oggetto di diffidenza, se non di disprezzo, e fu utilizzato quasi solo da alcuni partiti e movimenti di destra. Gli altri partiti preferirono definirsi “italiani” o evitarono addirittura qualsiasi riferimento anche indirettamente nazionale. A questa diffusa diffidenza si è aggiunta negli ultimi anni anche un’inattesa contestazione frontale dello Stato nazionale unitario, che ha peraltro ripreso alcuni motivi della “questione settentrionale”, già profilatasi negli ultimi decenni del secolo scorso. Fu allora, in effetti, che nel Nord si parlò per la prima volta di secessione, in seguito al crescente contrasto fra quella componente, per lo più insediata nelle regioni settentrionali, che si percepiva come il “Paese produttivo”, perché fattivamente impegnata nelle attività industriali e commerciali, e quella componente che la prima considerava come il “Paese improduttivo”, cioè la “burocrazia romana”, costituita in crescente misura da quadri immigrati dal Sud, con una conseguente “meridionalizzazione” delle istituzioni. Fra gli anni ’80 e gli anni ’90, anche per reazione al cattivo governo (esasperante centralismo, inefficiente burocratismo, impudente corruzione, esagerata pressione fiscale), nelle regioni settentrionali si è infatti sviluppato con imprevedibile rapidità un movimento dal dichiarato carattere “etnodemocratico”, che, dalle iniziali posizioni autonomiste e federaliste, è approdato, almeno per qualche anno, a un aperto secessionismo, non risparmiandosi neanche il rito grottesco della fondazione di una nuova unità politica, la Padania, concepita come una nazione indipendente in attesa solo di un suo riconoscimento formale. L’espressione politica di tale movimento, la Lega Nord, fra il 1994 e il 1996 (prima della sua deriva secessionista, ma quando era ormai più che evidente la sua netta contrapposizione allo Stato unitario), è arrivata ad essere la prima formazione politica per numero di eletti al Parlamento italiano e ha potuto esprimere per una legislatura la presidente della Camera dei deputati e per sette mesi un vice-presidente del Consiglio con la responsabilità specifica del ministero dell’Interno e altri importanti ministri e sottosegretari: una situazione senza precedenti in nessun altro Paese del mondo. Con tutto ciò l’idea italiana di nazione resta ancora relativamente aperta. L’Italia può inoltre contare su un’altra importante risorsa per arrivare a formulare un suo originale modello d’integrazione sociale per gli immigrati: il suo straordinario retaggio di civiltà, dovuto anche alla funzione di crogiuolo di popoli e di culture diverse che la penisola ha svolto nei secoli, anche malgrado sé stessa. L’apertura universalistica, che, come ebbe a notare già Gramsci, caratterizzò in passato tanti intellettuali privi di un loro Stato nazionale, potrebbe ora favorire l’elaborazione di un progetto inteso a valorizzare la capacità degli italiani di convivere e di dialogare con gli altri e al tempo stesso di mantenere vivo un particolare legame di solidarietà coi propri concittadini emigrati altrove per scelta o necessità. È una risorsa da non sprecare. Solo per questa via si potrà infatti cercare di delineare — sia per gli immigrati stranieri in Italia, sia per gli ancor più numerosi emigrati italiani all’estero — una nuova politica in grado di trasformare il caso italiano da modello senza progetto a progetto senza modello.
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