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A ndiamo al cinema

Giuseppe R izza1

Predicazione e creatività:
la centralità del Vangelo tra
impegno e cultura

Brevi cenni sulla creatività nella storia cristiana

P eter Brown è un affermato storico medievale che insegna a Prin-


ceton (USA). Nel suo libro The Making of Late Antiquity2 rifor-
mula la concezione della trasformazione della società e della politica
nella Roma imperiale, concentrando la sua attenzione soprattutto sul
periodo tra il secondo e il quarto secolo dell’era cristiana. In estrema
sintesi, Brown capovolge la concezione tradizionale che vedeva nel-
la decadenza la porta di ingresso del cristianesimo, descrivendo un
cristianesimo nichilista, che fa ed ha fatto deserto sull’uomo proprio
perché privo di un progetto sostanzioso, di una visione sostenibile, di
una alternativa complessiva.
Brown illumina alcuni elementi, secondo me rilevanti:

1
Il pastore Giuseppe Rizza esercita il ministero nella chiesa battista riformata di
Trento ed è economista dell’Università di Trento e docente di Etica sociale presso
il Centro studi di etica e bioetica di Padova.
2
Peter Brown, The Making of Late Antiquity, Cambridge, Harvard University
Press, 1993 (trad it., Genesi della tarda antichità, Milano, Einaudi, 2001).
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1) innanzitutto non è vero che la fede cristiana si affermò grazie


al declino, alle mutilazioni di una società sempre più devastata e
destinata alla distruzione. Anzi! Brown parte dall’osservazione che il
terzo secolo «lungi dall’essere un momento di crisi e di declino […]
fu invece un luogo di sorprendente creatività»1;
2) la presenza cristiana divenne presto lievito di quella creativi-
tà. Straordinariamente le qualità organizzative sviluppate all’interno
delle comunità cristiane si dimostravano atte ad essere utilizzate
«nell’insegnamento, nel prendere decisioni, nel controllo e nella con-
cordia di estese comunità». Il cristianesimo si fondava su un ethos
che «produceva una concezione più atomistica della persona, meno
vincolata che in precedenza»;
3) il cristianesimo ha di fatto sviluppato e utilizzato una rete di re-
lazioni capace di sviluppare forme di reciprocità alternative a quelle
tradizionali e di fondare «una nuova forma di buon vicinato»2.
Diversi secoli dopo, il rinnovamento evangelico proprio della Ri-
forma sembra andare nella stessa direzione. Riferendosi alla sola
componente artistico-culturale, è infatti possibile dire che anche la
Riforma protestante ha contribuito3 notevolmente alla ridefinizione
degli equilibri tra l’arte, la cultura e la fede. I riformatori non hanno
infatti obiezioni nei confronti degli oggetti d’arte in sé, sono molto cri-
tici verso l’uso e – soprattutto – verso le implicazioni religiose di tale
utilizzo. Lutero stesso non era contrario all’uso dell’arte nelle chiese,
insisteva però nel ricordare come le immagini fossero senza potere:
il credente deve fidarsi solo di Dio. Per Lutero, una volta consolidata
la fede, l’arte visiva e le immagini potevano trovare un posto limitato
nella vita cristiana. Calvino è più preciso e, in un senso, costruttivo.
Certo, anche per Calvino le immagini e le forme artistiche non hanno

1
Ibid.. p. xiii.
2
Ibid., p. 102.
3
Si veda il bel lavoro di William A. Dyrness, Reformed Theology and Visual Cul-
ture: The Protestant Imagination from Calvin to Edwards, Cambridge, Cambridge
University Press, 2004.
Predicazione e creatività 137

nessun valore spirituale. Solo la parola di Dio, predicata e ascoltata,


è in grado di formare il popolo di Dio1. L’arte è un dono di Dio, ma
poiché esercita un forte richiamo soprattutto nei confronti delle emo-
zioni, non ha un uso proprio (e primario) nell’insegnamento e nella
formazione dei credenti. Dopotutto per Calvino, la creazione, la cadu-
ta e la redenzione, costituiscono la storia fondamentale, la narrazione
di primo ordine, nella quale gli uomini sono invitati a prendere parte.
Dopotutto, la creazione stessa è il teatro della gloria di Dio.
Abraham Kuyper, teologo e politico olandese, è probabilmente la
prima persona nella ricca tradizione riformata a riflettere sulla cul-
tura e sull’arte come un’importante vocazione umana2. È la Riforma,
per Kuyper, che rompendo con la tradizione medievale, rende lo svi-
luppo artistico e culturale possibile. Liberando l’arte dall’oppressione
religiosa e dal controllo ecclesiastico, essa può finalmente diventare

1
Gli storici sono concordi nell’affermare come l’impegno dei riformatori per
le più varie dinamiche sociali derivi dalla lettura e dall’esposizione delle Scritture.
La cultura che ne è emersa è stata per un lungo periodo una cultura della cen-
tralità delle Scritture. La Bibbia diventa cioè un incredibile strumento che forma
una nuova mentalità e una diversa immaginazione. Dall’architettura alla politica,
la fonte dell’influenza non è dovuta, in primo luogo, all’applicazione diretta delle
verità bibliche ai vari aspetti della vita. Essa è da attribuire alla lettura, ascolto,
canto e memorizzazione delle Scritture, il vero centro della fede riformata. Gli
effetti sull’arte e sulla cultura furono molto netti e si sviluppò una nuova e cre-
ativa forma di impegno culturale. La predicazione regolare delle Scritture nelle
chiese era per molti il contatto principale con la Bibbia. La cultura protestante
è – ha ragione Peter Burke - una cultura del sermone. I sermoni possono durare
ore, coinvolgere le emozioni, condurre le congregazioni alla lode e al pianto. Il
pulpito è un vero motore culturale. Si vedano i classici lavori di Christopher
Hill, Society and Puritanism in Pre-Revolutionary England, London, 1964. In
italiano, Erroll Hulse, Chi sono i puritani? E cosa ci insegnano?, Caltanissetta,
Alfa & Omega, 2008.
2
Nelle sue importanti Lectures on Calvinism, Kuyper riconosce la centralità
dell’arte: «Art is a most serious power in our present existence». Come è possi-
ble che tale potere sia indipendente da Dio? («Indipendent form the deepest root
which all human life has in God») in Abraham Kuyper, Lectures on Calvinism,
Grand Rapids, Eerdmans, 1931, pp. 154-155.
138 Rivista di teologia pastorale 2008/2

uno strumento per il bene comune1. Quindi piuttosto che lamentarsi


dello “svuotamento “ artistico delle chiese, occorre interrogarsi su
come favorire un uso maturo e responsabile della cultura e dell’arte.
Kuyper si è rivelato come uno dei pensatori più influenti nella
storia del pensiero riformato ed evangelico. La sua insistenza nel se-
gnalare il principio religioso (la fede) come generatore di senso e di
indirizzo lo conduce ad elaborare una grammatica dell’antitesi tra la
fede e l’incredulità. Da un lato tutta la vita e l’intera creazione gode
dei benefici e della provvidenza di Dio (la grazia comune2, secondo
Kuyper), dall’altro la fede crea l’antitesi, e sostiene un serrato e co-
raggioso confronto tra visioni del mondo.
H. Rookmaaker3 è lo studioso che più di ogni altro ha lavorato
il pensiero di Kuyper nei confronti dell’arte. Lo sviluppo contem-
poraneo della cultura e dell’arte è, per Rookmaaker, una modalità
di pensiero che ha pericolosamente tralasciato elementi importanti
della vita umana4. Il suo è un tentativo importante, anche se non
completamente riuscito; Rookmaker, infatti, pur riuscendo nell’in-
tento di offrire un vocabolario del pensiero critico, non è stato in
grado di innestare elaborazioni e prassi costruttive. L’arte e la cultura
cristiana sono, alla fine, nulla di speciale. Occorre solamente aderire
alle strutture e alla leggi di Dio5.
La traiettoria che emerge6 – mi pare – è chiara e condivisibile.
Non è sufficiente condannare il contesto socioculturale dove siamo

1
«Reflecting the emancipation of our ordinary earthly life», A. Kuyper, Lectures
on Calvinism, cit.. p. 166.
2
Abraham Kuyper, “Grazia salvifica e grazia comune” in Studi di Teologia, 32,
2004.
3
Si veda Studi di Teologia, Prospettive cristiane sull’arte, VIII:1, 1996. La rivista
contiene saggi di Rookmaker, Seerveld e Edgar.
4
H. Rookmaaker, Modern Art & Death of Culture, Grand Rapids, 1970, p. 10.
5
«Christian art is nothing special. It is sound, healthy, good art that is in line
with the God-given structures of art, one which has a loving and free view on reality,
one which is good and true», ibid., p. 228.
6
Anche se in questo veloce cammino si dovrebbero inserire gli sforzi di F. Scha-
effer, C. Seerveld e molti altri.
Predicazione e creatività 139

immersi1. Non è abbastanza criticare la cultura, l’arte, le scienze,


la musica e la letteratura, il cinema e lo sport. Per la maggior parte
del tempo siamo – come cristiani - semplici e passivi consumatori
di tutto questo. Imitatori culturali spesso improvvisati e maldestri.
Probabilmente, però, il modo migliore per cambiare la cultura, è far-
la, “ricentrarla”. Dopotutto il cristianesimo è (ed è stato) un potente
produttore di cultura, una guida alla trasformazione del mondo2.

Post
Marshall McLuhan ha affermato che il messaggio e il messaggero
sono inseparabili. Questo è senz’altro il caso della comunicazione del
Vangelo in una cultura postmoderna. In contrasto alla mitologia del
progresso, alla ragione infallibile e alla scienza onnipotente, la post-
modernità ha accolto e sviluppato forme di comunicazione sempre
più attente all’immaginazione, alle emozioni e agli equilibri estetici.
È importante, anche per la comunità cristiana e per i suoi ministri,
sviluppare un’attenzione per il linguaggio delle metafore e dei sim-
boli, esercitarsi in forme di comunicazione non solo verbali, ma au-
tentiche e a tutto campo nei media e nelle arti. La storia di Cristo
è, dopotutto, una festa per l’immaginazione, per l’arte e la creatività.
Tutto il Nuovo Testamento testimonia della costruzione di ponti –
culturali e comunicativi – per la trasmissione del Vangelo in ogni
luogo. Benché il successo della multiforme testimonianza cristiana
non dipenda dall’aggiornamento culturale o dalla sensibilità artistica
o culturale dei suoi ministri, è indubbio che una presenza cristiana
responsabile e coerente alla visione del mondo e della vita biblica
deve esercitarsi in un ascolto attento, critico e costruttivo verso tutto
quello che le accade intorno.

1
Si veda Pietro Bolognesi, “Mandato culturale e mandato missionario” in Stu-
di di Teologia, 27, 2002. L’articolo è accessibile online: http://ifeditalia.org/artico-
li_studi/culturalemissionario.pdf (accesso al 20 febbraio 2009).
2
Andy Crouch, Culture Making: Recovering Our Creative Calling, Downers
Grove, Inter Varsity Press, 2008.
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Charles Handy, studioso di dinamiche organizzative in uno dei


suoi libri1 descrive in questo modo il bisogno di ascolto attivo verso
quello che ci succede attorno: «I dirigenti dell’Enciclopedia Britan-
nica erano convinti che la gente avrebbe continuato a voler tenere
in eterno la loro collezione di volumi prestigiosamente rilegati, del
valore di svariate migliaia di sterline, in bella mostra nella libreria
del salotto. Rimasero tranquilli a guardare il crollo dei loro profitti,
prima quando l’Enciclopedia Grolier fu pubblicata su CD Rom e
venduta a 385 sterline, e poi con l’avvento di Encarta della Micro-
soft, nel 1993, addirittura multimediale, al prezzo di 100 sterline.
Nel giro di un anno l’Enciclopedia Britannica era fallita e venduta.
Da allora nuovi proprietari hanno pensato di resuscitarla sotto forma
di servizio di informazioni online che sopravvive grazie alla pubblici-
tà, ma il marchio è stato danneggiato. Tutto ciò è ovvio se si osserva
da fuori con il senno di poi, ma il senno di poi è utile solo a chi scrive
necrologi».
Una apologetica attenta al postmoderno, allora, sarà pronta ad
interagire evangelicamente con la cultura popolare (media, musica,
tv, film,…) ed annunciare la signoria di Gesù Cristo anche in questo
contesto.

Il clima culturale
L’uso del cinema e la produzione di film negli ultimi decenni rappre-
sentano una forma importante di cultura popolare che caratterizza la
fase post-fordista dello sviluppo capitalistico.
La cultura dei media sembra segnata dalla svolta postmoderna,
con la sua attenzione verso i nuovi modelli di tecnologia, la mer-
cificazione, il consumismo, la spettacolarizzazione dell’esistenza. La
direzione postmoderna ha di fatto occupato, negli ultimi anni, molte
delle migliori energie culturali e alcuni tra i più dinamici movimenti

1
Charles B. Handy, The Elephant and the Flea, New York, Harvard Business
School Press, 2002.
Predicazione e creatività 141

ideologici del mondo occidentale. Se la modernità si è sviluppata,


storicamente, per il suo distacco da un certo tradizionalismo, per
il movimento graduale ma deciso verso una società industrializzata,
per il primato delle transazioni monetarie, per l’urbanizzazione e la
burocratizzazione del vivere civile, per la formulazione di una cultura
attenta alle masse, il postmodernismo reinterpreta velocemente mol-
ti di questi aspetti1.
Jean Francois Lyotard ha definito la caratteristica del postmoder-
nismo come incredulità verso la metanarrazione. E il nostro tempo
è affollato di testimonianze che esprimono il disagio e lo scetticismo
verso i vecchi idoli, vero le utopie e le prospettive che hanno carat-
terizzato le generazioni precedenti alla nostra. Sono idoli e mitologie
che non hanno mantenuto le promesse, quindi non meritano la no-
stra fiducia. Un radicale disincanto ha iniziato a caratterizzare una
parte consistente delle società civili. Disincanto che caratterizza la
stessa visione dell’uomo. In un certo senso l’antropologia è diventata
non razionale. Il postmodernismo predilige gli aspetti non razionali
dell’essere umano. La ragione è spodestata. Intuito, passioni e desi-
deri sono le vere fonti della conoscenza.
Ma è grazie alle dinamiche proprie della globalizzazione che la co-
lonizzazione del postmoderno sembra aver successo. Lo stile e l’ide-
ologia di fondo vengono così riprodotte via quelle che George Ritzer2
chiama “le cattedrali del consumo”, la nuova visione del mondo che
caratterizza il tempo libero e l’intrattenimento, il consumo e l’arte,
come espressione di autonomia, localismo e a volte populismo. I mo-
delli esistenti sono rifiutati e le stesse gerarchie sociali sono messe
profondamente in discussione. La stabilità delle identità e delle pro-
spettive non è più un valore. e alla fine, la molteplicità delle espe-

1
Si veda l’opera di Donald A. Carson, The Gagging of God, Grand Rapids,
Zondervan, 2006 (parzialmente tradotto in Il Pluralismo Religioso, Chieti, GBU,
2005) e Cambridge Companion to Postmodern Theoloy, a cura di K. Vanhoozer,
Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
2
George Ritzer, La religione dei consumi, cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iper-
consumismo, Bologna, Il Mulino, 2005.
142 Rivista di teologia pastorale 2008/2

rienze umane e la decentralizzazione della vita, sembra non far altro


che agevolare nuovi modi di consumo.
La sensibilità postmoderna non crede più nella grande storia
dell’umanità … preferisce le storie e le cronache degli individui e
delle comunità. Solo che anche le piccole storie possono rivelarsi op-
pressive e idolatriche come le precedenti. Nell’implosione del sé, nel
relativismo del giudizio e delle verità, l’uomo postmoderno è spesso
abbandonato alla tirannia di se stesso e/o della sua comunità, alla
irriducibile malleabilità della sua vita e delle sue prospettive. Nuo-
ve configurazioni devono continuamente caratterizzare l’esistenza
umana. Non importa se bisogna percorrere la via del consumismo
per costruirsi un’identità o se questa è realizzabile nella terapia psi-
cologica, nella variazioni della sessualità, nelle tecniche New Age o
nella comunicazione virtuale: si rimane comunque alienati, separati,
distanti e disconnessi.
Non a caso, negli ultimi anni, numerosi film celebrano la dimen-
sione della diversità, ricercano nuove sperimentazioni, propongono
estetiche non convenzionali, anzi a volte addirittura sovversive. È la
cultura del consumo che fa diventare ogni cosa (dalle relazioni alla
fede, dall’intimità all’arte, dalla scienza alla vita) un prodotto da con-
sumare a beneficio assoluto dell’individuo1.In molti modi si registra il
trionfo della self-spirituality, di una spiritualità potenzialmente senza
frontiere e senza strutture organizzate alle quali una persona può
1
Senza dubbio, l’individualismo ha una genealogia nobile e rispettabile riscon-
trabile già nell’Antico e nel Nuovo Testamento nella letteratura cristiana antica e
nel rinascimento. Il problema con l’individualismo sta però nella sua realizzazione
contemporanea. Certo l’eco del Vangelo è in qualche modo udibile ancora nell’indi-
vidualismo contemporaneo e nella sua forte preoccupazione verso la “realizzazione
personale”, ma nel Vangelo l’attenzione per l’individuo è bilanciata da un richiamo
costante e ineludibile per il bene del prossimo, per la solidarietà proattiva e concre-
ta. David Martin con molta perspicacia dice che questa è l’eredità post-protestante
del postmoderno. E probabilmente possiamo concordare con lui quanto dice che
tra tutte le eredità l’individualismo è la più corrosiva, perché non vogliamo nessuna
religione che ignori la società (o come diceva J. Wesley: «No religion that is not so-
cial»). Si veda David Martin, On Secularization, Toward a Revise Theory, Adelshort,
Ashgate Publishing Limited, 2005.
Predicazione e creatività 143

liberamente aderire senza votarsi completamente a nessuna causa.


Certezze sembrano non essercene più. E le voragini che si aprono
si trasformano sempre più in teatri di rovina dove provano a sorgere
esperienze individuali delle quali nessuno conosce il futuro.
Due film possono aiutarci a comprendere questa dinamica: La
rivincita delle bionde (2001) e La morte sospesa (2004).
La rivincita delle bionde è un film leggero, quasi romantico. De-
scrive la storia di una ragazza che apparentemente intrappolata tra i
miti di Cosmopolitan e le procedure modaiole di Vanity Fair, è desti-
nata ad essere poco più che una comparsa nella vita e nella società.
Elle Woods, la bionda e viziata protagonista, però non ci sta è vuole
dimostrare a tutti di avere una marcia in più. E ci riesce. Non è
presente (o esplicitato) nessun riferimento religioso, e la stessa dina-
mica non ha nulla di esplicitamente teologico. Ma il film è una bella
descrizione della forza della “fede” in se stessi.
La morte sospesa è un film documentario di Kevin MacDonald; rac-
conta di un’impresa drammatica, compiuta due alpinisti, che hanno
conquistato, nel 1985, la vetta del Siula Grande sulle Ande peruvia-
ne. Sulla via del ritorno succede però un terribile incidente: Joe (uno
dei due) scivola e si rompe la gamba. La situazione è critica, e nella
mente dei due passano mille pensieri (salvarsi da solo? Abbandonare
il compagno? Fare di tutto per salvarlo anche rischiando di morire
entrambi?). Si rompe una corda e la situazione peggiora ancora di
più: Joe precipita in un crepaccio e solo un miracolo potrà salvarlo.
Il film è un manifesto sulla forza di volontà, sull’importanza di non
disperare mai, sulla determinazione coraggiosa e profondamente atea
(alla fine l’alpinista grida che non c’è stato nessun dio ad aiutarlo).
Le gerarchie sociali e culturali sono così messe in discussione, la
società viene rappresentata come realtà sempre in movimento, se-
gnata dal caos, dalla frammentazione e dalla violenza.
Si consideri ad esempio Pulp Fiction, un film statunitense del
1994, diretto da Tarantino, con John Travolta come attore protago-
nista. Ne emerge di un visione disgiunta, non cronologica, volonta-
riamente caotica, dove le immagini cercano di destrutturare il senso,
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dove i valori dominanti e le relazioni sociali sono frantumati e caoti-


camente ricostruiti.
Si tratta comunque di un radicalismo asimmetrico, di tipo prin-
cipalmente culturale che con difficoltà si vuole tradurre in azione
politica o in impegno sociale.
La cultura postmoderna tende dopotutto ad essere cinica, disin-
cantata, scettica verso tutto quello che riguarda lo spazio pubblico.
In questo modo è molto fedele ad una società sempre più depoliticiz-
zata nelle sue ideologie e pragmatica nelle sue motivazioni, ma non
per questo meno religiosa nelle sue motivazioni.

La profondità del peccato


Il peccato è la violazione della legge e della gloria di Dio1. È impos-
sibile sperimentare la grazia senza una comprensione del peccato2.
Nel corso dei secoli il peccato è diventato un argomento tabù e ulti-
mamente i movimenti ideologici e culturali riferibili come determi-
nismo ed esistenzialismo hanno provato a delegittimare la nozione
stessa di peccato. Ma senza una chiara e radicale comprensione del
peccato, il Vangelo è semplicemente non necessario, noioso e irrile-
vante. Fin dall’inizio della storia umana, noi tutti, esseri umani creati
da Dio, abbiamo distrutto l’armonia del paradiso, iniziando a vivere
contro il nostro bene supremo (summum bonum). Ci siamo ribellati

1
H. Blocher afferma «La Bibbia parla del peccato molto più di ogni altro testo
religioso. Il suo messaggio centrale […] si definisce proprio in relazione a questa
realtà negativa […] Il peccato è la risposta biblica alla questione universale del
male […] [e] si distingue da altre concezioni del male, principalmente per tre ca-
ratteristiche: procede dal cuore (Mt. 15,19s.) […] è diretto contro Dio (Sal. 51,6)
[…] è inseparabile dall’errore morale». In “Peccato”, Dizionario di Teologia Evange-
lica, a cura di P. Bolognesi, L. De Chirico e A. Ferrari, Varese, EUN, 2007, pp.
542-543.
2
Due opere sono importanti per un approfondimento del tema: Cornelius
Plantinga, Not the Way It’s Supposed to Be: A Breviary of Sin, Grand Rapids, Eerd-
mans, 1995; Alan Jacobs, Original Sin: A Cultural History, New York, Harper Col-
lins, 2008.
Predicazione e creatività 145

a Dio e subito dopo – in una rocambolesca fuga mundi – abbiamo


cercato di evitare Dio. C’era una volta la scelta, adesso c’è solo la di-
pendenza. E generazione dopo generazione entriamo in questo mon-
do rovinato – in lungo e in largo – da milioni di errori. Siamo stati
concepiti e nati nel peccato, siamo naturalmente ostaggio della sua
mortale. Siamo tutti portatori di un pesante passato e di un presente
disturbato e disordinato. Abbiamo bisogno di salvezza, della croce di
Gesù Cristo.
Tre opere contemporanee possono aiutarci ad articolare e pre-
sentare l’efficacia e l’impatto dell’arte perversa del peccato in alcune
dimensioni: la superbia, l’ipocrisia, la profondità e l’estensione della
corruzione.
Amadeus (1984), ambientato nella corte viennese del XIX secolo,
è centrato su una dinamica teologica: Antonio Salieri, acclamato mu-
sicista di Corte, consuma la propria vita nel tentativo di distruggere1
Mozart, musicista volgare e libertino, indegno, a parere di Salieri, dei
doni divini. È una riflessione sul contrasto tra genio e mediocrità, un
approfondimento delle dinamiche dell’’invidia e dei devastanti effetti
dell’orgoglio.
Salieri è testimone di una alienazione religiosa, è separato da Dio
pur essendo molto attento nei confronti di una forma di spiritualità.
Egli vive, fino alla comparsa di Mozart, una moralità ineccepibile.

1
Ecco un dialogo rappresentativo tra Salieri e un prete: SALIERI: Il mio piano
era così semplice... che mi terrorizzava. Anzitutto dovevo ottenere da lui la Messa,
dopo di ché... provocare la sua morte. PRETE: Cosa?! SALIERI: Il suo funerale.
Se lo immagina...? La cattedrale, tutta Vienna schierata lì, il suo feretro, il piccolo
feretro di Mozart lì nel mezzo... ed ecco, in quel silenzio, una musica (inizia il
Requiem), una musica sublime esplode inondando tutto. Una grande Messa da
requiem a suffragio dell’anima di Wolfgang Mozart, composta dal suo devoto amico
Antonio Salieri. Quale sublimità, quale... intensità, quale passione in quella musi-
ca! Salieri è stato toccato da Dio, finalmente! E Dio ora deve ascoltarlo. Impotente
a zittirlo, impotente a fermarlo... io per una volta alla fine riderò di lui. (Pausa). Una
sola cosa mi angustiava: come ucciderlo. Non è cosa facile... trovare il modo di
uccidere un uomo. Ah, una cosa è fantasticarci su... ma è ben diverso quando poi
tu... tu devi farlo... con le tue mani. (...).
146 Rivista di teologia pastorale 2008/2

Il confronto con il genio e il talento di Mozart è però devastante.


Salieri e Dio diventeranno “nemici”, semplicemente perché Dio non
ha esaltato e protetto il religioso Salieri dall’arte prorompente del gio-
vane e immorale Amadeus. Ha fatto tanto “per” Dio, sperava (quasi
ci fosse un diritto) in una ricompensa… ma arriva solo l’incredulità.
Alla fine, Salieri è semplicemente alienato da Dio1.
Viene in mente la riflessione di C. S. Lewis: «La superbia è il
vizio essenziale […] è la fonte di tutti gli altri vizi, è la condizione di
spirito assolutamente contraria a Dio […] la superbia di ciascuno è
in competizione con quella di tutti. Se mi secca tanto che l’anima
della festa sia un altro, è perché volevo esserlo io […] la superbia
non trae soddisfazione dall’avere qualcosa, ma solo dall’averne più
del prossimo»2.
E la saggezza di Giovanni Calvino: «Perché quanto più si fa affida-
mento su se stessi, tanto più si ostacola la grazia di Dio»3.
La doppiezza, l’ipocrisia sostanziale, è il tema di una famosa soap-
opera ambientata nel Nord America. È il caso di Tony Soprano – il
protagonista di una delle serie televisive più controverse degli ultimi
anni – che è contemporaneamente amorevole padre di famiglia e im-
prenditore esemplare ma è anche (e soprattutto?) esponente perverso
della pericolosa malavita del New Jersey. La tensione è troppo alta,
il grado di ambiguità diventa insostenibile e alla fine Tony Soprano si
trova costretto a farsi psicanalizzare4. I Soprano sono soltanto “pic-
coli operai del crimine”, persone che dopotutto rimangono segnati da
una visione antropologica sostanzialmente ottimistica.
L’ipocrisia è un processo di disintegrazione, attraverso il quale

1
In questo senso si veda anche la riflessione di Timothy Keller, The Prodigal
God, New York, Penguin Books, 2008, pp. 39-43.
2
Clive S. Lewis, Cristianesimo così come è, Milano, Adelphi, 1997, pp.
156-157.
3
Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana, Torino, UTET, 1971,
III, 12, 8.
4
Si veda la buona descrizione che si trova su Wikipedia, all’indirizzo web: http://
it.wikipedia.org/wiki/I_Soprano (accesso 20 febbraio 2009).
Predicazione e creatività 147

le persone si presentano in un certo modo, mentre il loro cuore è


distante da tutto. Non solo questo. Ma l’ipocrisia è una tentazione
forte per il ministero cristiano. Vorremo rispondere alle più varie sol-
lecitazioni, accogliere le preoccupazioni più opportune e allo stesso
tempo vantarci delle nostre debolezze e umilmente confessare le no-
stre virtù.
Perché l’ambiguità è un problema? Per quale motivo occorre es-
sere “virtuosi”? Una straordinaria riflessione arriva dal genio di Jona-
than Edwards e in questo caso da una sua opera tradotta anche in
italiano, L’amore e i suoi frutti1. Edwards dice che di fatto esistono
solo due tipi di virtù: quelle comuni e quelle autentiche (Edwards
usa termini leggermente diversi). Di solito le virtù comuni sono ispi-
rate o dall’orgoglio (non puoi essere come x, sei sicuramente migliore
di y …) o dalla paura (se non fai z sarai punito, le conseguenze saran-
no pesanti). Motivazioni simili (orgoglio e paura) sorreggono, però,
comportamenti non virtuosi […] la preoccupazione verso le virtù e la
ricerca di un loro consolidamento non è sufficiente, per il cristiano, a
risolvere il problema. Infatti, anche nel moralismo e nel liberalismo,
nel conservatorismo e nel progressismo, la cornice di fondo resta pro-
fondamente idolatrica. Le virtù comuni – conclude Edwards – altro
non sono che enormi sforzi di autogiustificazione (oggi diremmo: è
importante la mia tradizione, il mio stile di vita, la mia dignità, il mio
status, ecc.) possono contenere e limitare il male, ma – allo stesso
tempo - illudono pericolosamente. Le virtù autentiche sono invece
presenti quando il cuore è trasformato dalla grazia di Dio, quando la
vita è semplice risposta alla straordinaria, radicale e stupenda grazia.
Quando la mente è autenticamente rinnovata. In questo caso, la di-
rezione è allora completamente diversa. Nuova.
Uno sguardo pungente sulla realtà e sui nostri equilibri preca-
ri può rappresentare l’occasione per una riflessione genuina a tutto
campo.

1
Jonathan Edwards, L’amore e i suoi frutti, Caltanissetta, Alfa & Omega,
2004.
148 Rivista di teologia pastorale 2008/2

Una requisitoria impetuosa, mai superficiale e a tratti dura, cinica


e spigolosa della drammatica realtà del peccato e della sua corru-
zione estensiva è rappresentata da un vecchio (1979) film di Paul
Schrader1: Hardcore. Jake Van Dorn è un industriale di provincia,
ben affermato. È un convinto calvinista e si ritrova con un carattere
chiuso e autoritario. Da qualche tempo la moglie lo ha abbandona-
to, forse a motivo della sua intransigenza e (così sembra) ostentata
integrità. Ad un certo punto, approfittando della permanenza in un
campo di villeggiatura con le compagne, Jake viene abbandonato an-
che dalla figlia Kristen. L’investigatore privato Andy Mast, incaricato
di rintracciare la giovane Van Dorn, trova e proietta al padre uno
squallido filmetto interpretato dalla figlia. Jake stesso si mette alla ri-
cerca di Kristen, incurante del fatto che il mondo della prostituzione
e della pornografia è pieno di pericoli di ogni tipo, e si rischia anche
la vita. Nasce un’amicizia con Nicki, una prostituta, e grazie a lei Van
Dorn individua e inizia a conoscere ambienti e personaggi riferibili
alla nuova e terrificante attività della figlia. Finalmente trova la figlia
e con fatica riesce a convincerla a seguirlo.

L’arte della redenzione


Il recupero di una visione del mondo e della vita biblica rimane una
priorità per ogni cristiano. L’intera storia biblica è centrata su Gesù
Cristo, sulla sua persona. La confessione “Gesù è il Signore” (Rom
10,9; 1 Cor 12,3) ha un impatto globale. Egli è il creatore, colui che
sostiene il mondo intero, il governatore della storia, il redentore e
il giudice di ogni cosa. È impossibile, poi, capire Gesù senza una
prospettiva trinitaria. Gesù è stato mandato dal Padre, in accordo
alle promesse dell’Antico Testamento. Nella sua persona c’è la piena
presenza dell’Iddio vivente (Gv 14,9-11). E quando ritorna dal Padre,
promette ai suoi discepoli la sua presenza per mezzo dello Spirito

1
Il film sembra aver ispirato anche Richard J. Mouw, Calvinism in the Las
Vegas Airport, Grand Rapids, Zondervan, 2004.
Predicazione e creatività 149

Santo (Gv 14,16-18). Confessare Gesù “Signore” significa in primo


luogo riconoscerlo – assieme al Padre e allo Spirito – creatore di tut-
to, governatore sovrano, giudice perfetto. Gesù non è solo il mio per-
sonale salvatore. L’annuncio e l’azione di Gesù si collocano quindi nel
progetto straordinario di Dio. La creazione non è abbandonata a se
stessa, non è votata all’auto-distruzione, ma Dio ha mandato Gesù,
suo Figlio, per recuperare, rinnovare, redimere ogni cosa1.
Ecco quindi i pilastri della visione cristiana: a) Dio ha creato il
mondo; b) il peccato deturpa la creazione e il suo virus la invade
completamente; c) Dio opera in Cristo per guarire, recuperare, rin-
novare, salvare e liberare, d) Dio, alla fine, riconcilia ogni cosa a sé.
Diventa in questo modo possibile riconoscere il significato estensivo
che la Bibbia attribuisce al termine salvezza2. Infatti: a) gli esseri
umani hanno bisogno di salvezza; b) Dio salva; c) Siamo degni di es-
sere salvati (perché creati ad immagine di Dio); d) Abbiamo assoluto
bisogno di salvezza (la pesante realtà del peccato). La tentazione è
quella di ridurre l’impatto ermeneutico della salvezza alla sola tra-
scendenza, riconoscerne solo il significato “teologico” e “spirituale”.
A mio parere si tratta di un tentativo di sterilizzazione della fede cri-
stiana. Certo, occorre discernere le priorità della Bibbia. Alcune cose
sono – indubbiamente - più importanti di altre, certi bisogni devono
avere la precedenza. Così, di sicuro la Bibbia insegna che essere sal-
vati dall’ira di Dio è – in ultima analisi – molto più importante che
essere salvati dall’ingiustizia o dalla malattia. La Bibbia però afferma
chiaramente e con forza che tutti gli aspetti sono parte dell’opera
di salvezza di Dio. Abbiamo la necessità di comprendere i diversi
livelli, di avere una visione olistica e globale della salvezza. Cioè di
esercitarci nel considerare l’intera storia biblica, ed accogliere il fatto
che l’opera della salvezza riguarda tutte le dimensioni umane e ogni
sfera dell’esistenza. Essa infatti riguarda la vita intera, riguarda tutti i

1
Albert M. Wolters, La riconquista del creato, Mantova, Passaggio, 2008.
2
Christopher Wright, Salvation Belongs to Our God: Celebrating the Bible’s
Central Story, Leicester , Downers Grove, 2008.
150 Rivista di teologia pastorale 2008/2

bisogni umani, interessa popoli ed individui, riguarda il profondo del


cuore dell’uomo e l’estensione della società umana. Interessa la di-
mensione spirituale e materiale, è rilevante per il passato, il presente
e il futuro, prende in considerazione la dimensione storica e quella
eterna, la vita di oggi e il mondo che verrà.
Pensiamo, ad esempio al problema della crisi ambientale. Vivia-
mo nell’intersezione storica del vincolo ecologico e della catastrofe
ecologica1. Il motore della catastrofe è questo: gli esseri umani sono
diventati la principale forza distruttiva del pianeta. Hanno forza nelle
loro mani e intelligenza nelle loro menti, hanno tecnologie che am-
plificano ogni cosa ma non hanno ancora la piena consapevolezza di
essere in grado di distruggere irrimediabilmente tutto.
Qualche anno fa, l’economista Nicholas Stern è stato incarica-
to dall’allora primo ministro britannico Blair di stilare un rapporto2
sulla condizione ambientale. Oltre a parlare dei guasti climatici, de-
gli scioglimenti di ghiacci, delle desertificazioni avanzanti, dei 200
milioni di profughi scacciati da terre sempre più inaridite, Stern ha
stimato in quasi 6 trilioni di Euro (il 20% del Pil mondiale) il costo
del mancato intervento sul mutamento climatico.
La notizia ha avuto eco praticamente su tutti gli organi di stampa,
soprattutto perché il linguaggio usato non era quello della percen-
tuale di pinguini in via di estinzione, ma quello dei soldi, da sempre
il cuore pulsante del potere. Sulla stessa lunghezza d’onda Al Gore3

1
George Monbiot, Heat: How to Stop the Planet Burning, London, Penguin
Books, 2007, p. xxi.
2
http://www.hm-treasury.gov.uk/sternreview_index.htm (accesso il 20 febbraio
2009).
3 «Il dibattito è finito da tempo e la verità anche se scomoda va detta: l’effetto
serra sta avendo effetti devastanti e in un futuro molto vicino se non agiremo subito
saremo testimoni di un cataclisma di proporzioni epiche. Il genere umano rischia
l’estinzione […] Questa verità è scomoda ma porta con sé l’imperativo morale al
cambiamento. Un cambiamento che deve partire dal singolo individuo. Solo gonfia-
re al punto giusto le gomme dell’auto può ridurre le emissioni, così come utilizzare
lampadine a basso consumo, utilizzare l’auto solo quando necessario, piantare un
albero, acquistare veicoli ibridi, utilizzare l’aria condizionata solo quando necessa-
Predicazione e creatività 151

ha prodotto un importante film-documentario, Una scomoda verità


(2006).
Viene da pensare ad una domanda biblica. Dov’eri tu? (Giobbe
38:4). In un certo senso Giobbe deve imparare a non pensare alla
natura solo in relazione ai suoi bisogni. Anzi è incoraggiato a vedere
l’irrilevanza delle sue presunte urgenze, è invitato a considerare come
questi sprofondano nell’ampiezza della creazione. Lo spettacolo della
creazione, la cerimonia continua e straordinaria del movimento de-
gli oceani e dei venti, delle terre e delle stelle, degli animali e delle
piante, dovrebbe quantomeno far sentire piccoli, meravigliosamente
piccoli. Cosa sappiamo noi del telos della creazione? Chi siamo noi
per voler far ruotare ogni cosa attorno alle nostre visioni miopi e di-
storte. Veramente pensiamo che la magnificenza della vita marina,
la perfezione dei cicli naturali, la bellezza del volo di un’aquila …
siano tutte cose pensate per i nostri gioiosi intrattenimenti? A volte la
verità scomoda è che Dio parla la lingua della creazione. E ci dice di
adorare, contemplare, custodire e amare. La responsabilità ambien-
tale1 non può che iniziare da qui. Dovremmo provare a re-imparare a
vivere nel mondo. Come? Innanzitutto evitando due cose:
1) la deificazione della natura, ovvero l’errore del panteismo, la
confusione tra creazione e Creatore, le nuove forme di animismo
e tutto quello rende sacro, intoccabile e immutabile il creato. Io
credo che bisogna rispettare la natura (Dio l’ha creata!), ma non
possiamo riverirla come se fosse essa stessa divina e inviolabile!
2) Lo sfruttamento della natura, ovvero il comportamento arrogante
di chi sente Dio nel trattare con la creazione, di chi crede di avere il
diritto di muoversi in ogni direzione, di produrre ogni cosa, di usare
tutto. La responsabilità che ognuno di noi è chiamato ad esercitare è
soprattutto “custodia”, non dominio distruttivo (Gen 1,26-28).

rio, spegnere sempre gli apparecchi elettronici e altri mille piccoli accorgimenti».
Per chi vuole saperne di più è sufficiente andare sul sito www.climatecrisis.net.
1
Enviromental Stewardship: Critical Perspectives – Past and Present, a cura di R.
J. Berry , London, T.& T., Clark Ltd, 2006.
152 Rivista di teologia pastorale 2008/2

E ricercando invece una strada diversa: cooperare responsabil-


mente e creativamente con Dio, con il suo progetto per l’universo
intero. Sviluppando “cultura” dalla natura, non solo conservando il
creato, ma lavorandolo per il bene comune, per le generazioni future
e per l’onore del Creatore.
In conclusione, quale dovrebbe essere l’atteggiamento cristiano
nelle varie situazioni, nei vari contesti culturali? Quale prospettiva
comunicare?
Da un lato la postura cristiana dovrebbe essere positiva, serena-
mente disposta a godere della buona creazione di Dio. Viviamo in
una certa situazione, abitiamo il nostro territorio, siamo attivi nelle
reti sociali di cui scegliamo (o che ereditiamo) di far parte, imparia-
mo molte cose da tutto quello che ci circonda, godiamo del progresso
e dell’evoluzione tecnologica, apprezziamo realmente i vari elementi
della bella, dinamica e maestosa realtà di Dio. Questi sono i benefici
della grazia comune, privilegi che possono segnare positivamente le
nostre esistenze, oltre ad offrirci un orizzonte e una direzione voca-
zionale.
Dall’altro lato, però, deve esistere anche un posizionamento più
avvertito, antitetico, critico. Spesso siamo scomodi nel contesto cul-
turale sociale ed economico dove ci troviamo e – quasi sempre –
siamo chiamati a sfidare l’idolatria che deturpa e rovina i progetti di
Dio, la sua creazione e lo stesso genere umano. Siamo dissidenti, in
un senso il cristiano è profondamente sovversivo. Critici e ostativi
verso tutto quello che agevola la violenta e rovinosa diffusione del
peccato.
Ci sono quindi due aspetti nell’impegno culturale cristiano: par-
tecipazione e opposizione, solidarietà e separazione, impegno e dis-
senso. Questa è anche la cornice biblica1. Pro e contra mundum, con-
temporaneamente.
I due poli sono inseparabili. Lasciarsi attrarre solamente dal attrat-
tore della “positività” significa rischiare il sincretismo, l’indebolimen-

1
Gen. 1,26-28, Rom. 12,1-2, Gv. 17 e 1 Pt. 2.
Predicazione e creatività 153

to di ogni sana identità, la corruzione della fede cristiana, ricercare


una forma di eutanasia spirituale. Lasciarsi attrarre completamente
dal polo “critico” comporta rischi non meno pericolosi e distruttivi.
L’irrilevanza, la formazione di ghetti socio-religiosi, la celebrazione di
subculture viziose che si illudono di sopravvivere fuggendo dal mon-
do o ignorandolo. Si tratta di un accanimento neo-fondamentalista
che si riproduce con facilità.
L’equilibrio è ancora una volta risolutivo e trasformazionale. La
postura cristiana, se vuole essere biblica e (quindi) contemporanea,
non può che caratterizzarsi per una sostanziosa partecipazione cri-
tica. E non è poco. Significa onorare la centralità del Vangelo, ovun-
que e Coram Deo.

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