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VISIONI IN TEMPI DI GUERRA CIVILE

di Piero Vaglioni

Cronaca di una Strage Imprevista.

Se non è l’amore
Allora sarà la bomba
A tenerci uniti
The Smiths, “Ask”

Inishboffin, 17 agosto 1998. Inish in Gaelico vuol dire isola, bo,

mucca, finn, chiara. L’isola della mucca bianca a largo della costa

del Connemara, con l’oceano intorno che ha urlato e spumato tutto

ieri e stamattina si è calmato. Un sole timido illumina le stradine

ancora bagnate. Passa una macchina – evento alquanto raro che

non turba l’assoluta pace di questa parte di territorio irlandese.

Non arrivano le notizie del resto della civiltà, qui – il televisore del

pub si accende per seguire gli eventi sportivi principali. Arrivano

dei ragazzi col traghetto e depositano sul tavolo del soggiorno

dell’ostello un tabloid popolare di ieri. «Macellati donne e

bambini». Rileggo. Cerco di realizzare. Come è possibile? Cosa

c’entra tutto questo? Guardo la data. 16 agosto 1998. 1998. Cerco

più informazioni. Un rapporto dettagliato dell’orrore con un’unica

foto di una via con negozi deflagrati. Gente con espressioni

disperate. Mi sembra impossibile. 1998. Un’intrusione da un

passato che sembrava essere stato cancellato. Un’esplosione di

orrore in quest’oasi di silenzio e tempo al rallentatore. Giro pagina.

Le prime informazioni: 29 morti, bilancio provvisorio – ciò significa


che molto probabilmente, quando sarò tornato nella civiltà, il

numero sarà aumentato.

Fonti della polizia nordirlandese attribuiscono la responsabilità ad

un’ala dissidente dell’IRA, la “cosiddetta Real IRA” – ci saranno

smentite e prese di posizione. Giro pagina ancora. I commenti.

Solita accozzaglia di nomi celebri e altisonanti che esprimono

cordoglio e rabbia e qualsiasi altro sentimento gli sia stato

consigliato di esprimere. Bertie Aherne, Tony Balir, John Hume, Bill

Clinton, David Trimble. «Schiacceremo quei criminali», «Non

possiamo più sopportare queste forme di violenza insensata»,

«Sono distrutto», «Il pensiero va alle famiglie», «Ci vuole una

reazione decisa e forte da parte del governo». Tutto già sentito. E

poi Sinn Fein: «Condanniamo senza riserve questo atto e facciamo

appello ai responsabili affinché cessino immediatamente ogni loro

attività». Secco e breve – dire poco, il necessario, ma dire

qualcosa. Dove qualsiasi cosa si dica si rischia di non dire niente.

Decido di affrontare il vento e il novello sole e passeggio fino al

porticciolo. I pescatori parlano della tempesta di ieri – sembra

usino metafore. Certamente non farebbero riferimento a quanto

accaduto (ammesso che lo sappiano) se non con poche frasette

prefabbricate e già utilizzate: è terribile; dove andremo a finire;

peggiora sempre. E così di seguito. Come a nascondere il senso di

dramma al quale molti, oramai, sono abituati. Non riesco a

scacciare quelle immagini fatte di parole, dati, nomi. Non riesco ad

allontanare l’orrore.
22 agosto 1998. Ore 15,10. Statale per Dublino. Esattamente una

settimana dopo l’esplosione l’intera isola d’Irlanda si ferma per un

minuto. L’autobus che mi sta riportando “a casa” accosta e si

ferma sul ciglio della strada, imitato da moltissime macchine. La

statale è una colonna di auto al margine della strada e il centro

deserto. Immobile e silenzioso. Come tutte le città e cittadine oggi.

I commenti che hanno riempito giornali e telegiornali sono andati

un po’ in tutte le direzioni. La rabbia è stata una dei pochi

denominatori comuni, insieme all’impossibilità di spiegare un

gesto così insensato, anche da un punto di vista politico o militare.

Tony Blair ha confermato di voler mantenere saldo il timone di

questa nave e guidarla nel porto della pace. Il comunicato

diramato lunedì 17 guardava alla tragedia umana prima di fare

un’analisi politica e quando la faceva, si affrettava a difendere

Sinn Fein: «Come si può fare una cosa del genere in maniera

deliberata? Hanno dei sentimenti? Staranno seduti da qualche

parte con un qualche strascico di rimorso, di pietà? (…) persino

adesso, specialmente adesso, non possiamo mollare (…) In effetti

lo scopo di questi rinnegati è chiaro: far naufragare il processo di

pace che abbiamo avviato, invalidare gli accordi del venerdì di

Pasqua, raffigurare Sinn Fein come i traditori della causa e

provocare una reazione talmente disperata da farci rinunciare». 1

Blair, come molti altri, ha gettato acqua sul fuoco, sottolineando

come la tragedia di Omagh debba essere l’ultima, di una

1
Tony Blair, “We must defeat evil – A message from the Prime Minister Tony Blair”, in
Irish News, 18 agosto 1998, p.1. (mia traduzione)
lunghissima serie, ma l’ultima. E tutti si trovano d’accordo sul fatto

che tale episodio è stato veramente troppo, una specie di goccia

che fa traboccare il vaso; tutti uniti nel condannare, tutti uniti nel

soffrire, e da questa sofferenza nascerà la pace. «La bomba non ha

guardato in faccia le barriere», «Due comunità piangono i loro

morti». I titoli dei giornali nei giorni successivi enfatizzavano come

non fosse una sola delle comunità ad essere colpita, ma

Protestanti e Cattolici uniti nel dolore. «Inglesi e Irlandesi che

lavoreranno insieme – un’altra differenza col passato», continua un

passo del citato comunicato di Blair a proposito delle misure di

sicurezza da prendere.

Mentre l’autobus riparte lentamente e si accoda alle altre

macchine rispettose, la mia mente va indietro ad altre bombe,

altre stragi che hanno avuto l’avallo di retorica e demagogia, che

hanno visto la gente comune stretta intorno a coloro che

soffrivano. Sono italiano e ricordo in modo vivido gli anni settanta.

Chissà come si dirà “strage di stato” in inglese? No. No. Eppure

questa è una tragedia che porta un beneficio a tutti. Ora tutti

hanno capito. Ora tutti sanno esattamente cosa fare e come

pensarla. Da che parte stare. Da quella della pace. Sembra

retorica ma è la reazione di tutti, compresi gli intellettuali che

sono sempre stati incredibilmente lucidi mentre tutto intorno si

perdeva in commenti più o meno inclini al pietismo e

all’autocommiserazione. Stavolta è diverso. Stavolta tutto è

cambiato.
Conoscendo un minimo di storia irlandese, ci rendiamo conto che

la poetica e l’estetica del sacrificio sono radicati nella cultura e

nella tradizione storico politica di questo popolo. L’insegnamento e

l’esempio di Cristo loro lo hanno preso estremamente sul serio.

1798, giusto duecento anni fa. La rivolta dei “Croppies”, semplici

contadini che si ribellarono all’oppressione inglese e, male

organizzati, per nulla addestrati alle pratiche militari, si fecero

massacrare in differenti episodi nella primavera di quell’anno;

erano consapevoli di ciò a cui andavano incontro. Ma il concetto

era di dare l’esempio?

1916. Patrick Pearse, James Connolly e altri 14 capi di una

ribellione altrettanto disorganizzata vennero fucilati senza

processo. Avevano simbolicamente occupato l’Ufficio Postale

Centrale di Dublino nel lunedì dell’Angelo, e proclamato la

dichiarazione di indipendenza della Repubblica d’Irlanda, ben

sapendo, anche loro, a cosa sarebbero andati incontro. «Quei moti

[del 1916] furono il raccolto dei semi sparsi nel 1798, quando gli

ideali rivoluzionari repubblicani e il sentimento nazionale si fusero

nelle dottrine del repubblicanesimo irlandese e nella ribellione

stessa del 1798, disastrosa e repressa crudelmente». 2 Da quel

momento il sentimento della popolazione nei confronti dei rivoltosi

cambiò totalmente: le basi per un’insurrezione che coinvolgesse

gran parte della gente d’Irlanda erano state messe.

2
Seamus Heaney, Attenzioni (Preoccupations – Prose Scelte 1968-1978), a cura di M.
Bagicalupo, trad. di P. Vaglioni, Fazi, Roma, 1996.
E ora la tragedia politica e militare si trasforma in tragedia umana,

privata, con i resoconti delle speranze e delle aspirazioni, dei sogni

e delle vite minimali ed eroiche di quei ventinove sfortunati che si

trovavano a vivere in quel luogo, in quel momento. Hic et nunc. E

mai più. La tragedia diventa quasi esclusivamente umana e i

commenti mettono in evidenza come questo episodio sia differente

dagli altri, numerosi, frequenti e cruenti anch’essi: le dichiarazioni

dei politici, così come quelle della gente comune sembrano

parafrasare i famosi versi che W.B. Yeats scrisse dopo

l’insurrezione di Pasqua del 1916: “Tutto è cambiato, cambiato

improvvisamente/Una bellezza tremenda è nata”. Omagh diviene

un confine, una pietra miliare che segna una fine, un passaggio;

tra passato e futuro, come se il presente fosse stato solo un boato

raccapricciante e, dai primi soccorsi in poi, fosse già futuro. Già

domani. Blair per primo, lo mette in chiaro perentoriamente: «Ciò

che è accaduto sabato è nel passato»; e dal passato riecheggiano

voci e dichiarazioni delle conseguenze politiche e sociali di quel

lunedì dell’Angelo di ottantadue anni fa. Allora il popolo irlandese

capì l’importanza degli sforzi che una ristretta intellighenzia stava

compiendo per portare il paese verso un’indipendenza, solo dopo

le esecuzioni; la dimensione del sacrificio dei sedici martiri aveva

raggiunto proporzioni che non sarebbero più potute passare

inosservate. Oggi sembra esserci voluta questa ennesima strage

per unire tutto il popolo irlandese, nella rabbia, nel dolore, nella

solidarietà e nella reciproca comprensione dei rispettivi drammi e


problematiche. Come se tutti gli altri morti negli scorsi trent’anni

di guerra civile non fossero bastati.

Dublino, 3 settembre 1998. Due giorni fa, seguendo l’onda dei

cessate il fuoco da parte dei vari gruppi repubblicani dissidenti,

politicamente e militarmente disorganizzati, Gerry Adams ha

lanciato il segnale più forte dallo scoppio della bomba. Più forte

delle leggi quasi marziali varate dal governo di Dublino, più forte

di tutte le polemiche: “La guerra è finita, conclusa, esaurita.»

Secco e deciso. Con un significato e un significante che arrivano

diretti dentro. E qualsiasi cosa si dica Adams ha detto qualcosa.

Qualcosa di sensato e intenso.

Di Storia e Speranza una Rima

Ora il mondo conosce Seamus Heaney, lo conosce e lo

apprezza avallato dalla coraggiosa accademia di Svezia che, nel

1995, gli ha conferito il prestigioso riconoscimento inaugurato per

primo da Alfred Nobel. Seamus Heaney è un nordirlandese, poeta e

intellettuale, e negli anni in cui la guerra civile dilaniava il tessuto

sociale e umano del suo territorio, ha sempre fatto sentire la sua

voce, in prosa, in poesia, in articoli e interviste sui giornali. L’Irish

Times del 22 agosto 1998 portava una delle sue ultime

considerazioni su questa guerra.

(…)
Nei giorni immediatamente successivi a Omagh, le cose
sono cambiate. C’è un senso di implosione. Senza dubbio
la comunità unionista continua a sfogare la sua rabbia
contro l’IRA, e c’è comunque una dose di rancore verso
tutto quel lavoro politico a partire dagli anni sessanta
svolto dalla minoranza [cattolica] che ha portato a
destabilizzare l’antico ordine in Ulster. Nonostante ciò,
stavolta siamo in presenza di un senso del trauma
aggiuntivo, un senso che ci dice che questo crimine è
antropologico e che il suo impatto e la sua importanza
vanno ben al di là della politica. Quello che è stato un atto
brutale e incomprensibile, un atto di distruzione, è riuscito
a raggiungere lo status di “linea di demarcazione”. Ha
segnato un momento. Si potrebbe anche dire che ha
segnato l’anima, nel senso che ha lasciato tutti con un
blocco, più scoperti, con un senso di timore. Timore per
un qualcosa, più che di qualcosa; timore per la società in
cui viviamo, per i legami umani più fondamentali.
Penso che ciò che la gente principalmente aborrisce
adesso non è la motivazione politica di chi ha messo la
bomba, ma la loro insensibilità. E il sentimento condiviso
dalle due comunità del[l’Irlanda del]Nord è di timore nei
confronti dell’enorme insensibilità dimostrata dai killer nei
confronti della vita umana. Per tutta la settimana ho
continuato a pensare alla poesia di Wilfred Owen,
“Insensibilità”, in cui dà voce a un soldato sul fronte
occidentale, consapevole del significato di ogni ferita e di
ogni morte, in cui l’odio che prova non è per i tedeschi
nelle trincee nemiche, ma per i patrioti in poltrona sul
fronte casalingo, intransigenti e costanti nel tenere la
bocca serrata in totale impunità. Quantomeno il soldato
tedesco condivide in privato gli stessi dolori inglesi della
guerra, l’esposizione al peggio lo ha reso umano. Ma, dice
Owen, «siano maledetti gli ottusi che nemmeno il cannone
scuote». E siano maledetti coloro che non sono sensibili a
“qualsiasi cosa nell’uomo pianga, qualsiasi cosa
condivida/L’eterna reciprocità delle lacrime».
Ci stiamo forse spostando al di là della “politica delle
ultime atrocità”? Stiamo forse cominciando ad avere
percezione del nemico in termini di “ottusità” e
“insensibilità”?
(…) 3

Seamus Heaney è da trent’anni una voce che descrive lo scenario

della guerra civile in Nord Irlanda, mettendo in evidenza cose che i

media, sempre molto pronti a condannare i cattivi e glorificare gli

eroi attribuendo valori più che fissi alle due variabili, fanno

3
Seamus Heaney, «The Recioprocity of Tears», in The Irish Times, 22 agosto 1998,
p.7. (mia traduzione)
passare in secondo piano. E parlo principalmente della tragedia

umana che sta sotto ad ogni dolore, ad ogni lutto fatto esplodere

da motivazioni politiche e militari. Parlo delle tragedie umane che i

media ci presentano con un abbondante sovradosaggio di retorica

e pietismo, che ci descrivono con la demagogia del politico, che

interviene a fare da struttura alla narrazione della singola storia

minima. Parlo della categorizzazione a bianco e nero di buoni e di

cattivi, dicotomia che presenta le sue belle eccezioni quando i

buoni all’atto pratico fanno i cattivi e finiscono per essere descritti

come un’entità astratta e quindi non esistente. È per questo che

quando l’IRA metteva le bombe le vite spezzate venivano

ricostruite come se si trattasse del cittadino Kane, mentre invece

quando a morire in un pub erano dei cattolici, allora qualcuno

aveva messo una bomba. Qualcuno. La voce del buonsenso era

diventata talmente roca da risultare distorta anche all’ascoltatore

più distratto. Gli esseri umani di cui Heaney ci descrive le

sofferenze non sono né quella sorta di eroi minimi, né quegli esseri

esemplari che il destino ha sacrificato. Sono persone normali che

vivevano una vita normale, né più giusta, né più piena di progetti e

speranze di quella di qualsiasi altro essere umano.

Heaney è intellettuale puro, anzi, in lui è più pura la poesia, quella

luce che gli ha mostrato il suo fortunato cammino dalla seconda

metà degli anni sessanta fino ad oggi. Caso strano, quasi in

coincidenza dei primi disordini nella sua terra. E le sofferenze delle

sei contee della regione dell’Ulster sotto dominio inglese Heaney

le canta da abitante di quei quartieri, da nativo che ben


comprende contraddizioni e assurdità di quella guerra, ma che

comunque prende una posizione che gli viene dalla sua estrazione

cattolica e repubblicana, pur non asservendo mai la sua scrittura

alla propaganda. “‘Quando è che ti decidi a scrivere/qualcosa per

noi?’ ‘Se scrivo qualcosa,/ qualsiasi cosa, la scriverò per me.’” La

dichiarazione di intenti non lascia molto spazio a repliche o a

commenti; anche nell’ultimo volume di poesie (The Spirit Level,

1996), guardando indietro all’esperienza della guerra civile,

Heaney non rinnega né il punto di vista, né l’impegno profuso

come persona impegnata, né la sua indipendenza di scrittore.

Come W.B. Yeats quando venne accusato di scrivere del teatro di

propaganda per la causa irlandese, Heaney risponde con

semplicità, come dire scrivo perché scrivo; e questo è quanto. Che

poi è risposta valida anche per chi lo ha accusato negli anni di

scrivere dalla parte dei cattolici:

La poesia nasce dalla quella filigrana e colorazione dell’io.


E quell’io in un certo modo prende la sua vita spirituale
dalla struttura interna della comunità di cui fa parte; e la
comunità di cui faccio parte è cattolica e nazionalista. 4

Quando, verso la fine degli anni sessanta, le prime associazioni per

i diritti umani nell’Irlanda del Nord cominciarono a far sentire la

loro voce, anche Heaney mosse quelli che chiamò “passi

irrevocabili”, cominciando a dar voce alle sofferenze che provava e

che vedeva intorno a sé, con i mezzi che la poesia gli aveva messo

a disposizione. Le immagini che Heaney ha ricercato per esprimere

“emblemi adeguati” alla condizione nordirlandese vanno dai corpi

4
Seamus Deane, “Unhappy and At Home”, Intervista con Seamus Heaney; in The
Crane Bag, vol.1, n°1, primavera 1977, p. 62. (mia traduzione)
ritrovati nella Bog danese, sacrifici umani risalenti all’Europa pre-

cristiana, all’antica Grecia, oltrepassando con lo sguardo

quell’isola britannica che ha occupato l’isola d’Irlanda per

settecento anni. Così i corpi ritrovati nella Bog della campagna

danese presentano delle sofferenze che sono del tutto simili a

quelle che presentano i corpi, senza vita o mutilati, che passano in

rassegna nei notiziari della sera, o che stanno aspettando soccorsi

soltanto al di là delle finestre di casa. Così la sofferenza dei Troiani

e dei Greci diviene il dramma di chi sta vivendo una guerra

interminabile, che consuma ogni energia, per lasciare occupatori e

occupati come l’eroe Filottete, con una ferita quasi impossibile da

guarire.

Gli esseri umani soffrono,


Si torturano l’un l’altro,
Si feriscono e si induriscono.
E non c’è poesia, non c’è canzone
O dramma che possa curare un torto
Inflitto e perdurato.

Gli innocenti in galera


Percuotono le sbarre insieme.
Il padre di un prigioniero
Che ha fatto lo sciopero della fame
Sta muto nel cimitero. La vedova di un poliziotto
Sviene in casa, dov’è la camera ardente.

Dice la storia, Non sperate


Da questa parte della tomba.
Ma poi, una volta nella vita,
Quell’onda di giustizia così attesa
S’innalza per fare
Di storia e speranza una rima. 5

5
Seamus Heaney, Coro da The Cure at Troy, Londra, Faber & Faber, 1990, p.77. (mia
traduzione)
Questi versi che Heaney aggiunse alla sua versione del “Filottete”

di Sofocle, sono ritornati, citati in modo più o meno proprio da

giornalisti e commentatori, subito dopo la grande speranza

dell’accordo di pace dello scorso venerdì santo. Una volta tanto la

pratica giornalistica ha preso in prestito dalla poesia parole

adeguate a descrivere passaggi importanti della vita collettiva

dell’isola d’Irlanda.

Heaney ha conosciuto anche l’esilio, quello volontario e interno,

quando, verso la metà degli anni settanta, si è trasferito da Belfast

a Dublino, oltrepassando un confine molto più stratificato di

quanto poi non mostrino le cartine geografiche. “Non sono né

recluso, né un informatore;/ Un emigrato nella sua terra, i capelli

lasciati crescere/ insieme ai tanti pensieri” 6 scriveva di sé nel

1975, pensando alle persone che aveva lasciato a sopportare le

conseguenze quotidiane della guerra e a quelle immagini che,

comunque, non avrebbe potuto fuggire, continuando sempre a

cantare la sua terra. La poesia da cui questi versi sono tratti si

chiama, non a caso, “Esposizione”, esposizione a cui Heaney non si

è mai sottratto, neanche quando i riflettori dell’Accademia di

Svezia ne hanno amplificato ogni dichiarazione, ogni verso scritto

o discorso pronunciato, esponendolo davanti alla sua comunità,

davanti all’altra parte, e al resto del mondo che, anche grazie alle

sue poesie e ai suoi saggi di letteratura e politica, ha potuto fruire

di una prospettiva nuova con cui guardare la guerra civile del Nord

6
Seamus Heaney, “Exposure”, in North, London, Faber, 1975, p. 73.
Irlanda, con i suoi drammi e le sue tragedie, differenti da quelle

che i media hanno continuato a proporci in quasi trent’anni.

W.B. Yeats, un altro che cantò le sofferenze del popolo irlandese

durante la guerra per l’indipendenza, prima, e quella civile dopo, e

che come Heaney si trovò sul grande palcoscenico di Stoccolma a

sottolineare l’importanza dell’impegno civile del letterato, in una

delle sue “Meditazioni in Tempo di Guerra Civile” invita le api

operaie a “costruire nella casa deserta dello storno” 7 , individuando

uno degli emblemi di un popolo che aveva distrutto determinati

luoghi culturali ed era in attesa di ricostruirne nuovi e più consoni

alla propria identità. Forse l’Irlanda del Nord oggi somiglia a quella

che Yeats, già anziano e un po’ disilluso, cantava alla metà degli

anni venti.

Chissà se l’eroe Filottete riuscirà a trovare la forza per rimarginare

la ferita? Chissà se le api operaie andranno a costruire nella casa

dello storno? L’ultima immagine poetica che Heaney ci regala della

pace è una barchetta di carta costruita con sapiente tecnica e con

amore dal padre, ma che lo faceva star male perché era

consapevole dell’estrema fragilità di quella precisa costruzione;

una tale visione era accompagnata, all’interno della stessa

raccolta di poesie, da aerei che seguono la loro rotta – anch’essa

irrevocabile – e tutte le immagini più cruente riecheggiavano da un

passato piuttosto lontano. Forse il labile equilibrio politico e

culturale, nonché il possibile cammino futuro, dell’Irlanda del Nord

7
Da “Meditazioni in Tempo di Guerra Civile”, in W.B. Yeats, La Torre, a cura di A.L.
Johnson, trad. di A Marianni, Milano, Rizzoli, 1984, p. 104.
dopo la bomba di Omagh sta proprio nella differenza tra la rotta di

una barchetta di carta in uno stagno e quella di un aereo nei cieli

d’Europa.

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