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Profilo della lettera a Tito

Opere belle e buone per tutti


Tito è formata di 297 lemmi, 695 parole flesse in 411 forme collegate in 3 capitoli
formati da solo 46 versetti. Tito è la più corta, e perciò l’ultima nell’elenco delle tre
lettere pastorali. Infatti la 1Timoteo ha 6 capitoli e la 2Timoteo, 4.

Per un profilo filologico più proprio rispetto a 1Timoteo e 2Timoteo, è utile cominciare
con il prendere in esame almeno 10 parole in comune tra le tre lettere, ma che in Tito
sono percentualmente più frequenti.

Una comune identità pastorale


Normalmente ci si riferisce a queste tre lettere come “pastorali”, anche se, né
“pastore”, né “pascere” o “pascolo” vi compaiono esplicitamente (cfr. invece gli
accenni alla pastorale in Rm 8,36; 1Cor 9,7; Ef 4,11).

Tutto e niente
Il termine comune, più frequente in Tito rispetto a 1/2Tm, è pâs, un aggettivo
indefinito che normalmente esprime totalità ma anche l’universalità e l’umanesimo
dell’autore.

"Tutto” o al plurale “tutti", si concentra nel capitolo 2 (7 volte); 5 volte nel capitolo 3,
mentre è usato due volte soltanto nel primo capitolo. La sua prima comparsa pâs la fa
proprio in Tt 1,15 dove serve, in opposizione a "nulla", a definire una regola di libertà,
rispetto ai giudei e pagani, per i credenti cretesi – e dove Tito è attivo (cf 1,5) come
epískopos (cf 1,7) e fors’anche con la maggiore autorità del "vero figlio" nella comune
fede (cf 1,4) e di importante "fratello" (2Cor 2,13) di Paolo.

La regola per la chiesa (ma ekklesía non è menzionata in Tt né nella 2Tm a differenza
di 1Tm 3,5.15; 5,16) è la seguente: tutto (pâs) è puro per i puri, per contaminati e
infedeli invece, nulla (oudeís) è puro; sono inquinate le loro teste e coscienze.
Dichiarano di conoscere Dio mentre lo rinnegano con i fatti, "abominevoli" e "ribelli"
quali sono, alcuni si sono squalificati per "qualsiasi – pâs – opera buona" (Tt 1,16).

Le ultime due occorrenze di pâs sono nell'ultimo versetto di questo scritto – che mai è
esplicitamente considerato una epistola – in Tt 3,15, e strutturano saluto e
benedizione finale per il recettore, che è apparentemente solo uno: "ti salutano tutti
coloro che sono come".

Il “tu” Paolo lo da a Tito, un nome romano che sembra significare “infermiere” o


“assistente alla crescita” e che nel NT ricorre, oltre in Tt 1,4, solo ancora in 2Co 2,13;
7,6.13f; 8,6.16.23; 12,18; Ga 2,1.3; 2Tm 4,10.

Chi scrive a Tito, secondo Tt 1,1, è Paolo, schiavo di Dio e apostolo di Gesù Cristo, e
che ha il compito, al quale Tito partecipa come pastore più che come apostolo, di
condurre gli eletti di Dio ad una piena conoscenza della verità, quella più conforme
alla religiosità devota.
È lontano, forse a Roma, ma si fa presente a Tito e ai cretesi, non da solo, anche se l'io
del mittente è il più marcato, forse proprio per la conoscenza e stima particolare per
Tito.

Le ultime parole di questa lettera sono: "La grazia sia con tutti voi".

Tutti da parte del mittente e tutti da parte del recettore, senza naturalmente
escludere coloro che "ci amano nella fede" comune.

Tutto Dio
Il secondo termine, comune alle tre lettere pastorali ma in Tito relativamente più
frequente, è theós, "Dio", presente 13 volte su 659 parole, contro le 22/1591 di
1Timoteo e le 13/1238 di 2Timoteo.

La percentuale di frequenza di questo nome in Tt è attorno all'1,97% contro l'1,38 di


1Tm e 1,05% di 2Tm.

La prima ricorrenza è subito in Tt 1,1 e l'ultima in 3,8, che però non è l'ultimo versetto.
Quindi l'inclusione teologica non comprende direttamente tutta la lettera, ma serve
ugualmente al mittente ad accentuare il tema della presenza di Dio a Creta come nel
gruppo di coloro che salutano la comunità insieme a Paolo.

In Tt 1,1, "Dio" è nominato due volte di seguito, e sempre in una posizione


letterariamente secondaria: in relazione a "Paolo" che è lo "schiavo di Dio" in quanto
divenuto, senza merito personale, apostolo di Gesù Cristo per convocare alla fede
quelli già "eletti” e quindi già chiesa “di Dio".

Paolo è a servizio, pieno e gratuito, di Dio, come schiavo – doulôs è infatti il termine
presente anche in Tt 2,9, dove, secondo Paolo, tutti gli schiavi devono convincersi a
"essere sottomessi in tutto ai loro padroni", accontentandoli in tutto e non
contraddicendoli in nulla (cf 1Tm 6,1).

Rispetto a "Dio" Paolo dice di dovergli, personalmente, la stessa sottomissione di


schiavo a padrone, credente o no che questi sia.

La stessa espressione, ma questa volta riferita a chiunque si dedica al ministero, Paolo


la usa in 2Tm 2,24, descrivendo l'identità dello "schiavo del Signore" che "non
dev'essere litigioso” ma mite nei riguardi di tutti, capace di insegnare agli altri,
paziente nelle offese che riceve. Perché tanta sottomissione che umilia la libertà
dell’individuo e il “diritto dell’uomo”? Forse perché la unica vera regola d’azione del
credente consiste nell’imitare Cristo che con i propri gesti di servizio estremo, prima
ancora che a parole, fa capire la più vera e nascosta identità di Dio, il Creatore di tutti
e di tutto (cf 1Tm 4,3s). Parole e opere di Cristo, mai comunque chiamato kýrios né
doûlos in Tt, sono un servizio reso da Dio agli uomini prima che il contrario.

Anche Paolo è a servizio, di Dio, per ri-chiamare i cretesi, e in genere i gentili (mai
chiamati éthnos; cfr. però 1Tm 2,7; 3,16; 2Tm 4,17) a credere che è Gesù il Cristo e
quanto nella prassi questa convinzione comporti.

In Tt 3,8 Paolo sta dietro un discorso che è teologico ed etico, mantenendo un altro
profilo personale: siccome la parola del vangelo, che egli ha sintetizzato come
"giustificazione per la grazia" e come "eredità", non meritata, ma secondo una
speranza di "vita eterna" (v. 7), conclude per Tito: "voglio che tu insista" in queste
cose fin qui ricordate, perché "coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi
nelle opere buone".

Ciò è cosa bella e buona "per gli uomini", anche quindi per i non credenti. La fede in
Dio Salvatore (Tt 1,3s; 2,10s.13; 3,4ss) è teoria o contemplazione possibile a tutti, ma
deve diventare creatività, consistendo, la fede cristiana, "nel fare opere buone", il
"bene" (cf Tt 1,8.16; 2,3.5.7.14; 3,1.4.8.14) che di per sé è un ministero convincente
della stessa esistenza, identità e attività di Dio, capace di creare e sostenere ogni
persona e ogni vita per l'eternità (cf Tt 1,2.12; 3,7).

La descrizione che Paolo fa a Tito di Dio è sostanzialmente trinitaria e perciò stesso


nuova rispetto all'ambiente ebraico o pagano in cui la chiesa di Creta si trova a vivere
e a servire. A Tito, Paolo dunque ricorda che c'è Dio e che si rivela interamente in
Gesù, il Cristo-Messia (cf Tt 1,1.4; 2,13; 3,6), il "nostro Salvatore" pari a Dio (cf Tt 1,4;
2,13; 3,6).

Mai Gesù è chiamato kýrios, mentre è nominato esplicitamente lo Spirito Santo (cf Tt
3,5).

Tutto uomo
La terza parola comune alle pastorali, ma che in Tito è statisticamente più frequente
rispetto a 1/2Tm è ánthropos, che ricorre 5 volte in Tt 1,14; 2,11; 3,2.8.10.

Tito è invitato a promuovere, con la sua testimonianza, il vangelo, anch'esso martyría,


o "testimonianza vera". Su questa base Tito deve svolgere il ministero con incisività
evangelica: i credenti della piccola comunità, non diano più retta a favole giudaiche o
a "precetti di uomini" che rifiutano la verità.

È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza "per tutti gli uomini" a patto
che costoro rifiutino altre etiche o religioni per concentrarsi su Dio intero, Creatore e
Salvatore. Il credente non deve parlare male di nessuno, deve evitare contese,
dev’esser mansueto, "mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini." Paolo vuole che
Tito insista in queste cose, perché i credenti si sforzino di essere i primi nelle opere
buone in quanto davvero "ciò è bello e utile per gli uomini".

Di anér, il "marito", in Tito si parla in due occasioni, in 1,6 e in 2,5.

Nel primo caso, Paolo spiega di aver lasciato Tito a Creta (circa 8,336 kmq; annessa da
Roma nel 64 a.C.), per stabilire presbiteri (cf 1Tm 4,14; 5,1s.17.19; Tt 1,5; 2,2s) in
ogni città dell’isola, secondo le istruzioni già date a voce. Quest'accenno fa pensare
all’autorità, episcopale, di Tito e quindi non solo rispetto ad una comunità, ma
probabilmente su diverse cittadine con cristiani nell'isola. In questo contesto Paolo
parla dell'anér: colui che si candida al presbiterato dev'essere, o essere stato, "marito
irreprensibile" per una sola volta, con figli credenti e senza accuse di dissolutezza o
insubordinazione pendenti. Altrimenti non è adatto al presbiterato. Tito è esortato a
rompere i contatti secondo gli schemi di una pastorale d’urto: "dopo una o due
ammonizioni piglia le distanze" da “quell’ánthropos che è fazioso" (in greco:
hairetikón, “eretico”).
In questa lettera l'antropologia non è molto sviluppata in quanto, termini come
"cuore", "psiche", "mente", "coscienza", "volontà" personale che abbondano altrove
nel corpus paulinum lasciano solo poche tracce in questo testo. Solo una volta Paolo
parla di menti e di coscienze contaminate (cf Tt 1,15; 3,8).

Belle e buone
La quarta parola comune alle tre lettere, ma percentualmente frequente più in Tito
che altrove è érgon, l’"opera", che ricorre in 1,16; 2,7.14; 3,1.5.8.14; la quinta è lógos,
"parola, predica" (Tt 1,3.9; 2,5.8; 3,8); la sesta è didaskalía, "insegnamento; dottrina"
(Tt 1,9; 2,1.7.10).

Paolo fa raccomandazioni di una prassi ministeriale ma che riguarda sia le parole che
le opere. Comincia rispondendo forse a domande specifiche che non conosciamo:
alcuni tra greci e giudei (cf Tt 1,14), non solo a Creta, dichiarano di conoscere Dio, ma
"con i fatti lo rinnegano", ribelli e incapaci come sono "di qualsiasi opera (érgon)
buona (agathós)".

Ogni attività dovrebbe invece essere anche "bella" (kalós, come in Tt 2,7.14; 3,8.14).
Offrendosi Tito come týpos o modello "in tutto di belle opere", egli imita Gesù Cristo
che si è dato per noi,"per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli
appartenga.”

Come un obiettivo da conseguire, Paolo prospetta, senza nominarla, una chiesa che
sia "zelante nelle opere belle".

Da parte sua, Tito deve tenere vivo il ricordo del dovere, non solo ecclesiale ma civile,
esortando tutti i credenti (Tt 1,6; 2,3) ad esser sottomessi ai magistrati e alle autorità
civili, di obbedire; e finalmente "di essere pronti per ogni opera buona (agathós)".

Un’esortazione del genere, a fare bene il bene, non è affatto una deviazione dalla
dottrina espressa per esempio in Romani e in Galati sul valore della fede e non delle
opere (della legge). Anche a Tito è infatti ricordato che è stato Gesù, il Messia, che ci
ha salvati e non grazie ad "opere di giustizia da noi compiute" ma solo per la
misericordia di Dio, mediante il battesimo, che è rigenerazione e rinnovamento da
parte dello Spirito Santo.

Le opere di giustizia bisogna comunque compierle per coerenza e per non sterilizzare
la fede (Tt 1,1.3s.6.9.13; 2,2.10; 3,8.15). Quindi, "coloro che credono in Dio", "i nostri",
si sforzino di "essere i primi nelle opere belle" e imparino a distinguersi in queste
"opere belle" rispondendo ai bisogni urgenti, anche "per non vivere una vita inutile".

A differenza di quanto avviene nelle altre due lettere pastorali (1Tm 1,5.14; 2,15; 4,12;
6,11; 2Tm 1,7.13; 2,22; 3,10) a Tito solo una volta Paolo ricorda l’agápe in una lista
delle qualità che devono caratterizzare un anziano (presbýtes, non presbýteros): sia
sobrio, sensato, “igienico nella fede, nell’agápe, nella perseveranza” (Tt 2,2).

Parola, didascalia e dottrina certa


Nel saluto iniziale, Tito è rassicurato sulla fedeltà di Dio alle promesse: Dio non mente,
mantiene la parola data. La promessa della vita eterna è manifestata "con la sua
parola mediante la predicazione" affidata a Paolo per un ordine personale di Dio. Tito
deve aderire a una "didaché sicura, seguendo letteralmente "la didaskalía-
insegnamento trasmesso" per essere in grado di esortare, a sua volta, con una propria
"sana didaskalía e di confutare" chi contraddice.

In Tt più che in altre lettere è marcato il vocabolario della salvezza (1Tm 1,1; 2,3; 4,10;
2Tm 1,10; 2,10; 3,15; Tt 1,3s; 2,10s.13; 3,4.6) e dell’igiene o sanità, non solo fisica
(hygiaíno-hygiés, “stare in buona salute”, “sanità”: 1Tm 1,10; 6,3; 2Tm 1,13; 4,3; Tt
1,9.13; 2,1s.8)

Paolo insiste sull'attenzione da prestare alle parole che si pronunciano in


un’assemblea, per la formazione dei credenti alla nuova fede nell'intero Dio. La
dottrina deve essere una teologia intera, una catechesi sana su Dio che è il creatore,
su Gesù che è il Messia e sullo Spirito che è Santo.

Tito deve insegnare a tutti solo ciò che è secondo questa “sana dottrina"; alle donne
credenti deve far capire la necessità di essere prudenti, caste, dedite alla famiglia,
buone, sottomesse ai mariti, "perché il lógos di Dio" non diventi un oggetto di critica. Il
comportamento deve essere sano sotto ogni aspetto.

Anche il lógos di Tito, la sua parola, deve essere, come tutto l'insieme del suo
insegnamento, "sana e irreprensibile", perché chi gli si oppone resti senza parola. I
credenti non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta, per onorare in tutto la "dottrina di
Dio" che è il salvatore.

Bontà e grazia
Alcune altre parole comuni, ma più frequenti in Tito che nelle altre due pastorali sono:
ídios, "proprio" in Tt 1,3.12; 2,5.9; cháris, "grazia", in Tt 1,4; 2,11; 3,7.15; agathós,
"buono", in Tt 1,16; 2,5.10; 3,1. Per una lettura continua di queste tre parole assieme
nell'ordine del testo, è possibile iniziare a leggere come se la lettera costituisse una
inclusione letteraria che parte da Tt 1,3 (ídios) e arriva verso la fine, a 3,15 (cháris).

Nel saluto a Tito, Paolo si presenta come l'apostolo principale di Gesù Cristo (molto più
dotato di Pietro) per convocare gli uomini, ovunque si trovino, alla fede nella promessa
della vita eterna, "manifestata con la sua stessa (ídios) parola", quella parola di Dio
che si percepisce mediante la predicazione affidata a Paolo. A Tito, figlio di Paolo nella
fede cristiana è augurata la cháris e la pace, doni divini.

Tito deve stare in guardia, equipaggiato intellettualmente, per "chiudere la bocca" di


alcuni che, anche se credenti, la aprono troppo insegnando per amore di guadagnare,
falsità o banalità. Al riguardo Paolo mostra di non ignorare la antica cultura greca e
cita "uno dei loro, proprio un loro profeta", così chiama probabilmente Epimenide di
Creta (vissuto nel sesto secolo a.C.) che aveva detto: "I Cretesi son sempre bugiardi,
male bestie, ventri pigri". Tra costoro, eredi forse della grande civiltà minoica (di
Cnosso, Festo, Mallia, Cidonia), ora ci sono alcuni che dichiarano di conoscere Dio, ma
lo rinnegano con i fatti. La regola da seguire e da proporre in questo caso, è quella del
comportamento, appropriato e buono, rispettoso e operoso a servizio del bene
comune, perché "la parola di Dio" non sia derisa.

Tito deve esortare tutti, e anche gli schiavi a esser sottomessi in tutto ai propri
padroni, dimostrando loro fedeltà assoluta, "per fare onore in tutto alla dottrina di
Dio".
Questo atteggiamento remissivo e anti ribelle è comprensibile e proponibile solo da
uno, come Paolo, che si è fatto "schiavo di Dio" a imitazione di Gesù. È infatti "apparsa
la grazia di Dio", apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, proprio attraverso il dono
di sé, di Gesù, - anche se nella lettera mai si parla della sua "croce" né della sua
"morte".

Questo tipo di schiavitù, a fare comunque il bene a tutti anche ai padroni, e che è di
Gesù prima che di Paolo o dei credenti considerati inferiori, non contraddice un
manuale, che è principalmente paolino, della libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 6,18.20.22;
7,3; 8,2.21; 1Cor 7,21s.39; 9,1.19; 10,29; 12,13; 2Cor 3,17; Gal 2,4; 3,28;
4,22s.26.30s; 5,1.13; Ef 6,8; Col 3,11).

Tito deve esortare al servizio, anche attraverso la sottomissione di credenti in Cristo


alle autorità dello stato e di essere comunque tutti operosi e utili a tutti, perché,
"giustificati dalla sua grazia" si possa finalmente ereditare tutti la vita eterna, anche
con qualche merito personale.

La chiusura della lettera è l'augurio e saluto delle prime chiese locali: "La grazia sia
con tutti voi!"

Novità lessicali
Abbiamo considerato le inclusioni letterarie che meglio strutturano i contenuti più
specifici della lettera a Tito rispetto alle altre due pastorali. Tentare ora di formare una
lista completa delle parole proprie, rispetto a tutto il corpus paulinum, il NT e l'AT
greco (qui compresi i libri deuterocanonici e apocrifi) può aiutare il lettore a valutare
meglio lo specifico linguistico dei contenuti, che sono storico-geografici, e la modernità
del linguaggio dell'autore.

Le parole che non ricorrono in alcun altro libro della Bibbia sono 27 e sono distribuite
in 19 vv di Tt:

in 1,2 (apseudés, Dio che è "incapace di menzogna");

in 1,5 (epidiorthóo, "corregere o mettere in ordine", compito affidato a Tito);

in 1,8 (philágathos, "amante del bene" – enkratés, "auto controllato, padrone di sé",
come ancora deve essere Tito ma anche qualunque altro vescovo);

in 1,10 (mataiológos, "uno che parla a vanvera" – phrenapátes, un "ingannatore",


come molti tra coloro che provengono dal giudaismo);

in 1,11 (epistomízo, "tappare la bocca", come deve fare Tito ai falsi maestri, cristiani o
finti tali - ioudaïkós, "giudaico", come certe storielle e regole che circolano nelle prime
comunità cristiane;

in 2,3 (presbûtis, "donna anziana" - katásma, "comportamento" - hieroprepés,


"riverente, sacrale"; kalodidáskalos, "insegnante del bello", come proprio le anziane
devono essere rispetto alle giovani;

in 2,4 (sophronízo, "formare con saggezza" - philándros, "amore maritale" -


philóteknos, "amore per i figli");
in 2,5 (oikourgós, "occupato nel lavoro di casa");

in 2,7 (aphtoría, "integrità" di dottrina);

in 2,8 (akatágnostos, "irreprensibile", riferito al linguaggio di Tito);

in 2,11 (sotérios, "salvifica", in riferimento alla grazia di Dio apparsa in Cristo);

in 2,12 (sophrónos, "pensieroso, attento agli altri");

in 2,15 (periphronéo, nessuno osi "disprezzare" Tito);

in 3,3 (stygetós, "odioso");

in 3,10 (hairetikós, "eretico" o fazioso);

in 3,11 (autokatákritos, "auto-giudicato");

in 3,12 (i nomi: Artema; Nicopoli);

in 3,13 (il nome: Zena).

Questo linguaggio non lo si trova nel resto della Bibbia e spesso neppure nel
vocabolario del greco classico. È proprio solo di questa lettera a Tito. Il suo redattore
conosceva evidentemente la lingua parlata, la koiné soprattutto delle prime comunità
cristiane, e s'è sforzato di farsi capire da una chiesa distribuita in diverse città cretesi.

Assenze giustificate
Sono 2.316 lemmi più o meno frequenti nel resto del corpus paulinum, quelli assenti in
Tito e tra questi, ci sono parole tematiche davvero importanti: per esempio, a Tito
manca il kýrios, "Signore" (274 volte nelle altre 12 lettere paoline dove spessissimo
esprime la fede nella divinità di Gesù, uguale a YHWH, l’Adonai); adelphós, "fratello"
(133 volte nel resto del corpus paulinum); nómos, la "Legge" (121); oûn, "dunque,
ebbene" (111); eán, "se…" (95); sárx, "carne" (91); sôma, "corpo" (91); hamartía,
"fallimento colpevole" (64); grápho, "scrivo" (63).

Altri termini la cui assenza porta spesso a dubitare che sia davvero Paolo l’autore di
questa lettera sono, per esempio: ekklesía, "chiesa" (62); euangélion, "vangelo" (60);
éthnos, "gente; nazione, pagani" (54); kardía, "cuore" (52); heméra, "giorno" (51);
ginósko, "conosco" (50); dýnamis, "potenza, forza" (49); thánatos, "morte" (47);
kósmos, "mondo" (47); esthío, "mangio" (43); nekrós, "morto" (43); apothnésko,
"muoio" (42); egeíro, "risorgo, mi rialzo" (41); huíos, "figlio" (41); kaucháomai, "mi
vanto" (35); agapáo, "io amo" (34); akoúo, "io ascolto" (34); kaléo, "io chiamo" (33);
chaíro, "io gioisco" (29); blépo, "io osservo" (28); pálin, "di nuovo" (28); sophía,
"sapienza" (28); agapetós, "amato" (27); pántote, "sempre" (27); epangelía, la
"promessa" (26); il "giudeo" (26); loipós, il "resto" (26); perisseúo, "io abbondo" (26);
katargéo, "io rendo inefficace" (25); glôssa, "lingua" (24); eucharistéo, "io rendo
grazie" (24); thélema, la "volontá" (24); thlîpsis, la "tribolazione" (24); pneumatikós,
"spirituale" (24); gnôsis, "conoscenza, scienza" (23); diakonía, "ministero " (23); emós,
l'aggettivo possessivo "mio" (23); pleróo, "colmo, riempio" (23); prósopon, "volto,
faccia" (23); diákonos, "ministro, diacono" (21); dióko,"perseguito" (21); euangelízo,
"evangelizzo" (21); mýsterion, "mistero" (21); chará, "gioia" (21); zetéo, "faccio
ricerca" (20); paráklesis, "convocazione, consolazione" (20); "Abramo" (19);
akrobustía, "incirconcisione" (19); elpízo, "spero" (19); kerýsso, "io proclamo" (19);
sotería, "salvezza" (18); epistolé, "epistola" (17); "Israele" (17); "Timoteo" (17);
eleútheros, "libero" (16); sophós, "saggio, sapiente" (16); asthenés, "debole" (15);
graphé, "scrittura" (14); parousía, "presenza, venuta" (14); "Greci" (13).

Le parole non usate in Tito sono molte di più di queste che però già servono a marcare
la differenza di questa lettera rispetto al pensiero di Paolo come espresso altrove.

Con Tito, Paolo quasi non tocca la questione giudaica, della validità o no della Legge
mosaica. Forse perché Creta costituisce un ambiente culturale più marcatamente
greco-ellenistico. Ma neppure affronta problemi particolari circa l'evangelizzazione dei
gentili.

L'assenza del termine "chiesa", sostituito da "città" diverse, serve a marcare la


personalità di Tito, che deve arrivare a tutto e a tutti, quasi senza distinguere i
credenti dal resto degli uomini, religiosi o politici presenti in Creta. Tito è un vescovo e
non un apostolo, in quanto non annuncia il vangelo quanto piuttosto insegna una
dottrina sana e sicura, approfondendo evidentemente una fede già stabilita, ma che
rischia di essere incoerente e sterile.

A Tito, Paolo non parla direttamente di cose importanti per diventare credenti. Non
parla della morte di croce e della risurrezione di Cristo, né esplicitamente dice, come
insiste in altre circostanze, che Gesù è il Figlio di Dio, ed è kýrios, “Signore” uguale a
YHWH per divinità e potere.

Che ritratto emerge, da questo vocabolario assente, dello stesso "Paolo"? Egli appare
più come un maestro che un apostolo delle genti, dei pagani, mai nominati, pur
essendo la lettera diretta a Creta.

In sintesi, Tito, spedita probabilmente da una prigione come la 2Tm (2Tm 1,8.16; 2,9),
ha molti contenuti in comune con le altre due lettere pastorali ma meno con il resto
del corpus paulinum.

Le parole-chiave per leggerla anche in rapporto a 1/2Timoteo, sono almeno il "tutto,


tutti", e quindi una universalità che comprende ogni "uomo", e donna, rappresentati
nella loro vita matrimoniale e nell'educazione dei loro figli alla fede in Dio come il
Padre, in Gesù come il Cristo, e nello Spirito Santo che è presentato come il dono
battesimale e rigenerante.

Chi scrive a Tito ha quindi una teologia trinitaria che considera "sana dottrina" o
"insegnamento" che deve tradursi, per Tito, e per gli anziani o presbiteri, anche
donne, nell'arte dell'insegnare il bello, e per tutti in opere buone, utili alla costruzione
della società civile, più che di una piccola "chiesa" settaria.

Il clero si sta costituendo nell’isola di Creta e Tito, in qualità di figlio e fratello di Paolo,
deve imparare ogni giorno meglio a chiudere la bocca a falsi maestri, probabilmente di
origine ebraica.

Ogni errore relativo alla verità rende difficile fare bene le opere buone, in quanto si è
ignoranti su che cosa sia davvero il bene comune. La verità, ricevuta come grazia, non
va manipolata per nessun motivo, ma comunicata con il rigore della fedeltà a un
deposito dottrinale.

Se è sana e sicura, perché vera, ogni parola della dottrina o didascalia di Tito è inizio
di un dialogo ecumenico, di apertura pratica all'altro. Chi mantiene la capacità di
insegnare a fare ciò che è bello e ciò che è buono, diventa maestro perfetto. Come,
nell'intenzione di Paolo, o del redattore e mittente di questa lettera deve essere il
vescovo Tito.

Angelo Colacrai, Pontificia Università Gregoriana – Sociedad Bíblica Católica


Internacional, Madrid

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