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Le piume dell’Angelo.

Bufalino e il corpo-a-corpo della cultura siciliana con Horcynus Orca


Marco Trainito
(novembre 2007)

“Ritorniamo a Horcynus Orca” è il titolo di un breve e intenso articolo di Gesualdo


Bufalino apparso sul “Corriere della Sera” del 19 settembre 1982. L’occasione era fornita dalla
riedizione Mondadori del grande romanzo di Stefano D’Arrigo, uscita proprio quell’anno a cura
e con un importante saggio introduttivo di Giuseppe Pontiggia.
La presente nota vuole essere un commento all’articolo di Bufalino, che l’autore
chiamerà “Codicillo a D’Arrigo” e stamperà alla fine della seconda sezione di Cere perse.1 Le
parole di Bufalino, che in chiusura riporterò integralmente, costituiscono oggi un’importante
testimonianza del rapporto della cultura letteraria siciliana con il monstrum darrighiano, perché
si collocano in una posizione ben precisa che può essere meglio localizzata nello spazio delle
possibilità mettendola in relazione con le posizioni assunte da altri scrittori siciliani negli ultimi
trent’anni. I casi esemplari che prenderò rapidamente in esame e che costituiscono modalità di
volta in volta diverse di confronto con l’Angelo sono tre: Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri e
Silvana Grasso.
Il riferimento al mito ebraico della lotta notturna di Giacobbe con l’Angelo divino
(Gen., 32, 25-31) è dello stesso Bufalino e chiude mirabilmente il “Codicillo”. Ma se per
Bufalino Giacobbe era D’Arrigo e l’Angelo il demone dell’arte che può ossessionare uno
scrittore (come ha ossessionato D’Arrigo: si pensi all’ormai leggendaria e interminabile
gestazione dell’interminabile Horcynus Orca), qui rimescolerò le carte e l’Angelo sarà la
presenza numinosa del romanzo, mentre i Giacobbe saranno di volta in volta quelli che o hanno
accettato in qualche modo la sua sfida perturbante (come Camilleri, la Grasso e lo stesso
Bufalino) o vi si sono sottratti sdegnosamente (come Sciascia).
Un discorso preliminare a parte merita però Elio Vittorini, il quale, insieme a Italo
Calvino, fu lo scopritore del D’Arrigo narratore ben quindici anni prima dell’uscita di Horcynus
Orca. Nel corso del 1958 D’Arrigo sottopose a una prima revisione il testo di un romanzo
scritto di getto nei due anni precedenti, La testa del delfino, e ne mandò un paio di brani al
Premio Cino del Duca, che si aggiudicò (la premiazione avvenne il 23 aprile 1959). Questo
avvenimento cambiò la sua vita, perché tra i giurati c’era proprio Vittorini, il quale si dimostrò
entusiasta del work in progress e chiese a D’Arrigo di pubblicare i due brani dell’opera sul
“Menabò”, che egli dirigeva insieme a Calvino. D’Arrigo accettò e si rimise a revisionare
ulteriormente il testo, due capitoli del quale (un centinaio di pagine) apparvero l’anno dopo sul
terzo numero del “Menabò” col titolo I giorni della fera, non senza disappunto dell’autore, il
quale non accettò che il suo testo, scritto in uno strano miscuglio di italiano e dialetto siciliano,
fosse accompagnato da un Glossario a cura della redazione. 2 Vittorini chiosò l’estratto con una
“Notizia” da cui traspare, insieme alla sincera ammirazione per l’opera in gestazione e alla
straordinaria intuizione che essa potesse richiedere ancora “un decennio” di “mutamenti e
sviluppi”, tutta la perplessità dello scrittore affermato che si vede quasi costretto a lanciare uno
scrittore sconosciuto ispirato da un’estetica baroccheggiante e sperimentale lontanissima
dall’ideale di scrittura limpida e funzionale da lui inseguito e auspicato per la letteratura della
nuova Italia3. Ma Vittorini, purtroppo, morirà prematuramente nel 1966 e non vedrà mai l’esito
ultimo di quell’immane lavoro di revisione conclusosi nel 1975 con la pubblicazione di
Horcynus Orca.
La perplessità di Vittorini sembra condivisa tacitamente dall’assoluto e rumorosissimo
silenzio di Sciascia su Horcynus Orca. Non vi è alcun dubbio che dagli anni Settanta al 1989,
anno della sua morte, Sciascia sia stato l’intellettuale e scrittore siciliano più prestigioso e
influente. Eppure nei tre volumi Bompiani delle sue opere non c’è un solo rigo dedicato a

1
D’Arrigo. Considerato che nei suoi scritti saggistici Sciascia mostra un interesse enciclopedico
per i fatti letterari universali, e non solo siciliani (e in questo fu un emulo di Borges, tant’è vero
che nelle Cronachette c’è un prezioso pezzo borgesiano a commento di una falsa notizia
giornalistica sulla non esistenza dello scrittore argentino4), è a dir poco stupefacente il modo in
cui egli riuscì ad ignorare la presenza ingombrante di D’Arrigo. Di questo fatto ho avuto modo
di parlare con Matteo Collura il 19 gennaio 2007 a Milano, in occasione della presentazione al
Castello Sforzesco dell’“Almanacco del Bibliofilo”, cui partecipava anche Umberto Eco (che
dovevo intervistare5). Matteo Collura, amico di Sciascia e autore di una fondamentale biografia
del “Maestro di Regalpetra”6, mi ha spiegato la cosa ricorrendo a una citazione rivelatrice, che
individua perfettamente il genere di repulsione che Sciascia poteva nutrire per D’Arrigo (anche
se forse non spiega del tutto il silenzio). Secondo Collura, Sciascia applicava a D’Arrigo la
distinzione tra lo “stile di cose” e lo “stile di parole”, introdotta da Pirandello nel celebre
discorso del 2 settembre 1920 al Teatro Bellini di Catania per gli ottant’anni di Verga 7 e
applicata rispettivamente a varie coppie di autori italiani tra loro più o meno coevi, come Dante
e Petrarca, Machiavelli e Guicciardini, Ariosto e Tasso, Manzoni e Monti, Verga e D’Annunzio.
In tal senso, secondo quanto Collura ha potuto appurare nelle sue conversazioni con Sciascia,
quest’ultimo probabilmente infilava D’Arrigo nella schidionata degli scrittori dominati dallo
“stile di parole”, assieme a Petrarca, Guicciardini, Tasso, Monti e D’Annunzio, e per questo
motivo, trattandosi di un autore lontanissimo dall’idea di letteratura come impegno civile
“illuministico”, a lui tanto cara, avrebbe deciso di ignorarlo del tutto.
Nessun confronto, dunque: Giacobbe, qui, si è sottratto sdegnato alla lotta con l’Angelo
notturno.
In occasione della pubblicazione de I fatti della fera8, cioè la bozza del 1961 del futuro
Horcynus Orca, Andrea Camilleri intervenne su “La Repubblica” con un articolo in cui
raccontava la sua strana amicizia con D’Arrigo e confessava la sua sconfinata e tremebonda
ammirazione per Horcynus Orca. Particolarmente interessante è il passaggio in cui Camilleri
rievoca la storia del Glossario voluto da Garzanti in coda a Un filo di fumo, uscito per la prima
volta nel 1980: «Di Stefano D’Arrigo sono stato, in qualche modo, amico. Dico in qualche
modo perché Stefano aveva imprevedibili e addirittura fanciullesche impennate. Quando uscì il
mio secondo romanzo, Un filo di fumo (del primo ero riuscito a non fargli sapere niente), non
volevo mandarglielo per una ragione semplicissima: mi sentivo intimorito dalla sua grandezza.
Orazio Costa, il regista mio maestro che era un grande estimatore e amico di Stefano, glielo fece
avere. Due giorni appresso Stefano volle vedermi. “Orazio mi ha dato il tuo romanzo, ma non
l’ho ancora letto. C’è prima una cosa da chiarire. Il glossario. Perché ce l’hai messo?”. “L’ha
voluto Garzanti, l’editore”. “E l’hai scritto tu?”. “Sì”. Io mi ero completamente scordato della
sua storia con Vittorini e non capivo dove volesse andare a parare. Alla mia risposta affermativa
mi guardò in un modo che non so ancora definire. E certamente non volle leggere il romanzo
del quale, nei successivi incontri, non si parlò mai più»9. Camilleri ha accettato la sfida
dell’Angelo, ma si guarda bene dall’affrontarlo sul suo terreno. Lo sperimentalismo linguistico
di Camilleri, infatti, non ha alcuna intenzione di emulare quello di D’Arrigo e il respiro della
sua prosa è volutamente corto, tagliente, quasi esclusivamente referenziale. Le piume,
Camilleri, cerca di carpirgliele in un altro modo, e si tratta per lo più di omaggi reverenziali
occasionali, legati magari a certe messe in scena (ne La presa di Macallè, ad esempio, la
raffigurazione grottescamente priapico-sodomitica dello spirito spartano del fascismo ricorda
analoghi “quadri” di Horcynus Orca) o al disegno di certe figure femminili. Il più recente
“cunto” di Camilleri, Maruzza Musumeci10, con quel suo recupero del mito omerico di Ulisse e
delle sirene, incarnate in donne-entità talattiche come la “catananna” Minica, Maruzza e la figlia
Resina, costituisce tra l’altro un chiaro omaggio alle “femminote” darrighiane, creature ferine
discendenti delle sirene omeriche, come le stesse “fere” (cioè i delfini), secondo la teoria
popolare esposta da Mimì Nastasi, non a caso un paralitico11.
Per Camilleri, dunque, la lotta con l’Angelo è impari e si tramuta nell’offerta devota di
doni votivi.

2
Un peculiare corpo-a-corpo con l’Angelo lo instaura invece Silvana Grasso, una
scrittrice che esplora una prosa baroccheggiante, sanguigna e carica di neoformazioni attinte dal
dialetto e dalle radici greco-latine che per certi versi si avvicina a quella di D’Arrigo. Alcune
allusioni esplicite al romanzo sono disseminate qua e là nelle sue opere: «Morto Rorò la Pèttica
si poteva dirla un mostro con corpo d’orcinus orca e gambe da cicogna»12; «Non li vidi mai i
muli passarmi davanti, lo zoccolo caldo gli occhi orcinùsi il vapore del fiato sul petto»13. Ma è
in tutta la sua personalità che Silvana Grasso ricalca l’immagine di una “femminota”, con quella
sua esuberanza dionisiaca che ne fa una donna del tutto fuori dal comune. Nel pirotecnico e
appassionato saggio introduttivo al mio volumetto su Horcynus Orca la scrittrice arriva
addirittura a identificarsi con la “cicirella” darrighiana, il «lattume della misteriosa anguilla
[che] è, nel palato linguistico della provincia di Messina, siamese del catanese nannatu o
nannateddu e del gelòo muccu. È il neonato del mare, che riluce quando la luna piena vi schizza
il suo sperma d’argento, sottile come il filo di seta che usavano le ricamatrici per i lenzuoli della
dote»14.
Con Silvana Grasso, come si vede, la lotta con l’Angelo si fa colluttazione e amplesso
generante.
La metafora erotica del rapporto con i libri è cara a Bufalino e non a caso egli la
introduce sulla soglia del “Codicillo”. Bufalino condivide con Sciascia il culto della parola
levigata e alta e del periodo elegantemente articolato nel respiro apparentemente involuto, e con
Sciascia e Camilleri predilige l’aurea brevitas, la “misura” classica del tempo dei testi propri e
altrui. Ecco perché l’apparizione, nel 1975, del corpo smisurato del romanzo darrighiano,
costruito con un periodare che trama ossessivamente nel testo il labirinto acquatico degli
“spurghi” e dei “bastardelli” del mare in rema dello Scill’e Cariddi per introdurre e perdere il
lettore nel regno dell’Orco-Minotauro, lo lasciò sconcertato e lo indusse ad abbandonare per
insofferenza da libertino il corpo-a-corpo con l’Angelo. Ma fu una scelta di cui egli ebbe a
pentirsi e sette anni dopo lo riconobbe con grande onestà intellettuale in un breve testo che è
anche una stupenda ripresa contemporanea dell’antico genere letterario della palinodia. Con
esso, dunque, chiudo la presente nota, come già fece tre anni fa Fernando Gioviale al termine
del suo lungo attraversamento apocalittico dell’opera di D’Arrigo15:

Non ero così da giovane, ma da qualche tempo in qua non amo coi libri le relazioni
prolungate, bensì, da libertino in transito, le estasi momentanee, le avventure in un portone.
Sicché sono uno di quelli che non hanno letto Horcynus Orca sino alla fine.
Non tanto per debilità fisica o umana impazienza; quanto per l’impressione, divenuta
presto umiliazione e rimorso, che il tempo di quelle pagine fosse diverso dal mio, e che mi
bisognassero troppe ore per educarvi l’orecchio e poterne catturare la difficoltosa, gloriosa
scansione. A distanza di anni le cinque o seicento pagine delibate allora, più le molte altre
scorse, annusate, aperte – direbbe l’autore – “all’orbisca”, lievitano nella memoria con una
leggerezza inattesa, perdono quell’antico colore di grondante e impervia immanità, viene
voglia di rivisitarle con animo ingenuo.
Nulla di men che naturale, in questa resipiscenza: non è la prima volta che sento
un’opera, senza rileggerla, ringiovanire e spostarsi dentro di me. Così oggi esiterei meno,
fra ammirazione e sospetto, davanti all’allegro subbuglio delle invenzioni linguistiche; non
chiederei più a una macchina mitopoietica di così alte e legittime ambizioni una parsimonia
impossibile; né cercherei la concentrazione fulminea dove era lecito attendersi solo la
coazione a ripetere e la munificenza delle mani bucate...
Il fatto è che nell’ingegneria narrativa conta specialmente la virtù che taluno vantò nel
Borromini: dell’ornato che sappia farsi funzione, al punto che, se mancasse, l’edificio
crollerebbe. È il caso dell’Orca, mi sembra, e il libro ritorna oggi per necessaria verifica.
Vogliamo riaprirlo senza pregiudizi, vincere una buona volta le resistenze della cattiva
coscienza? Vogliamo provare a dedicargli, infine, lo stesso allarme e rispetto che se fosse
tradotto dall’inglese?
È il meno che si deve a un ingegno di così malinconica e altera natura, a una dedizione
e ossessione così assolute. Dopo la lunghissima notte di battaglia con l’angelo, ci

3
accorgeremo, se gli apriamo il pugno, che Giacobbe ha strappato al nemico assai più di una
piuma.

NOTE

4
1
Gesualdo Bufalino, Cere perse, Sellerio, Palermo, 1985, ora in Id., Opere 1981-1988, Bompiani, Milano, 2001, pp. 815-
1022 (il “Codicillo a D’Arrigo” è alle pp. 889-890).
2
Per maggiori dettagli su questa vicenda rimando al mio Il mare immane del male. Saggio su “Horcynus Orca” di Stefano
D’Arrigo, Cerro Edizioni, Gela, 2004 (in part. pp. 27-28).
3
Cfr. Elio Vittorini, Notizia su Stefano D’Arrigo, in “Il Menabò di letteratura”, 3, 1960, ora anche in Fernando Gioviale,
Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate, Lombardi Editori, Siracusa, 2004, pp. 44-45.
4
Cfr. Leonardo Sciascia, “L’inesistente Borges”, in Cronachette, Sellerio, Palermo, 1985 (ora in Id., Opere 1984-1989,
Bompiani, Milano, 2002, pp. 161-163).
5
Cfr. Marco Trainito, “Dialogo con Umberto Eco”, in “Corriere di Gela”, 26-1-2007, ora disponibile anche in rete:
http://www.corrieredigela.it/leggi.asp?idn=CDG175129&idc=3.
6
Cfr. Matteo Collura, Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, Longanesi, Milano, 1996 (ried. TEADUE, ivi,
2000). Non è superfluo osservare che D’Arrigo non è mai nominato neppure in questo volume.
7
Nel 1931 Pirandello ribadirà il concetto in un analogo discorso alla Reale Accademia d’Italia per il cinquantesimo
anniversario dell’uscita de I malavoglia. I due discorsi sono ora facilmente reperibili in rete, ad esempio al seguente
indirizzo: http://lafrusta.homestead.com/riv_pirandello.html.
8
Stefano D’Arrigo, I fatti della fera, Rizzoli, Milano, 2000.
9
Andrea Camilleri, “Quel giorno rubò mia madre”, in “La Repubblica”, 3-11-2000, p. 46.
10
Andrea Camilleri, Maruzza Musumeci, Sellerio, Palermo, 2007.
11
Cfr. Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Mondadori, Milano, 1975 (ried. Rizzoli, ivi, 2003, in part. pp. 122 e 558-568).
12
Silvana Grasso, L’albero di Giuda, Einaudi, Torino, 1997, p. 170.
13
Silvana Grasso, Disìo, Rizzoli, Milano, 2006, p. 31.
14
Silvana Grasso, “Hysteron-proteron, ovvero testa-coda di lettura”, Introduzione a Marco Trainito, Il mare immane del
male, cit., pp. 5-17 (il passo è a p. 5).
15
«Ogni scrittore finisce, d’altra parte, col combattere una battaglia con l’angelo: ce ne fa commossa memoria la parola
critica, ch’è una pagina narrativa e poetica, di Gesualdo Bufalino nella sua fervida e turbata palinodia. E col pegno di questo
prezioso Codicillo a D’Arrigo prendiamo congedo» (Fernando Gioviale, op. cit., p. 211).

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