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Crescita, produttivit e riforma della contrattazione


Leonello Tronti
FGB, 12 giugno 2014


Il 4 giugno 2013 si sono riuniti a Roma, alla Facolt di Economia della
Sapienza, alcuni economisti che negli anni recenti hanno studiato il declino
della crescita della produttivit in rapporto con la contrattazione collettiva
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.
Obiettivo dellincontro, organizzato dalla Facolt e da Economia & lavoro, la
rivista della Fondazione Giacomo Brodolini, era confrontare risultati analitici
e indicazioni di policy per verificare la possibilit di formulare una proposta di
uscita dal tunnel della crisi della produttivit.
Economia & lavoro (numero 3/2013) riporta in forma di dialogo i contributi di
Antonioli, Acocella, Fadda, Ciccarone e Messori, Pini, Simonazzi, Palumbo,
Piacentini e di chi scrive. Il dialogo affronta un tema senza dubbio molto
delicato in un momento di crisi e di sottoutilizzazione strutturale del
potenziale occupazionale (Ciccarone e Messori, Piacentini). Leconomia
italiana, in modo assai pi grave della maggior parte delle economie europee,
da quasi 20 anni attanagliata da unevidente crisi di crescita. Come nota
Simonazzi, questa evidenza aggregata nasconde realt ben diverse: molte
medie e anche piccole imprese vanno bene, e i prodotti italiani godono di una
fama di qualit che pu sostenerne la domanda internazionale per molti anni
ancora. Ma i risultati positivi di una parte pur rilevante della manifattura non
sono in grado di produrre un dato aggregato positivo (esportazioni nette = ca.
30% del Pil e il 70?).
Tutti i partecipanti al dialogo (con particolare vigore Simonazzi, Palumbo e
Piacentini) fanno riferimento ad un deficit di domanda: in una situazione in
cui retribuzioni e investimenti sono bloccati da tempo e la spesa pubblica
bloccata dallausterity, lunica leva che ancora traina leconomia dal lato della
domanda sono le esportazioni. Ma se la domanda internazionale ristagna,
leconomia italiana non pu che contrarsi in misura maggiore delle altre
economie europee. Peraltro, un deficit di domanda impone un pi stringente
tradeoff tra produttivit e occupazione. Se leconomia cresce poco e, al tempo
stesso, rende pi conveniente loccupazione, la produttivit non potr non
risentirne, e il modello di sviluppo si specializzer in produzioni pi labour-
intensive dei concorrenti, nellindustria e ancor pi nei servizi. esattamente
ci che accaduto alleconomia italiana. Attraverso ripetute e insistite riforme
strutturali del mercato del lavoro il legislatore italiano (anche sotto la spinta

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Tra loro Giuseppe Ciccarone, Nicola Acocella, Riccardo Leoni, Marcello Messori, Paolo Pini, Anna Maria
Simonazzi, Paolo Piacentini, Antonella Palumbo, Antonella Stirati, Davide Antonioli, Giovanni Di
Bartolomeo, Pasquale Tridico, chi scrive e altri ancora.
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europea) ha perseguito con indubbio accanimento la massimizzazione del
contenuto occupazionale dello sfavorevole tradeoff nazionale, a scapito della
produttivit. Si tratta di una scelta forse obbligata, ma indubbiamente miope
perch la crescita, cos come la sua sostenibilit nel tempo e quella della stessa
maggiore occupazione, dipendono in misura dirimente dalla dinamica della
produttivit. La depressione della produttivit porta alla depressione
delleconomia.

Il ruolo della contrattazione
Che ruolo ha avuto la contrattazione in questa strategia sbagliata? La critica
anzitutto di tipo teorico: il modello negoziale a due livelli istituito nel 1993
stabilisce un legame perverso tra salari e produttivit. I contratti nazionali di
categoria non remunerano gli aumenti di produttivit ma si limitano a
prevenire la perdita di potere dacquisto del salario fondamentale. Gli
incrementi di produttivit vengono invece remunerati quando derivano da
specifici accordi siglati in sede decentrata, aziendale o (assai pi di rado)
territoriale, e solo se si registrano i risultati attesi. Ora, non difficile capire
che questi vincoli creano di fatto una clausola di salvaguardia dei profitti che
nel tempo non pu che dimostrarsi insostenibile tanto quanto lo era, per i
salari e ventanni prima, la scala mobile con il punto unico di contingenza. Si
passati da un eccesso allaltro. Il modello negoziale italiano pone il costo del
mancato aumento di produttivit, in termini di corrispondente stagnazione del
salario reale, in capo ai lavoratori e non alle imprese che, in assenza di
pressione salariale, possono preservare i margini di profitto senza dover
ricorrere a impegnativi recuperi di produttivit.
Sul piano dellapplicazione concreta del modello, il profitto risulta ancor pi
tutelato: la contrattazione di secondo livello esclude infatti circa il 35 per cento
degli addetti delle imprese dellindustria e dei servizi con almeno 20 dipendenti
e la quasi totalit di quelli delle imprese con meno di venti addetti (che
contano il 58% dei dipendenti) (DAmuri e Giorgiantonio, 2013). Dunque, in
totale, tra l80 e il 90% dei dipendenti privati si limita a prevenire la perdita del
potere dacquisto dei salari, senza incrementi del salario reale. La mancata
diffusione della contrattazione di secondo livello, peraltro, causa per la larga
maggioranza dei lavoratori il mancato rispetto della cosiddetta regola doro
dei salari (Pini), che richiede che i salari reali crescano nella stessa misura
della produttivit del lavoro. La regola doro perch soltanto nella sua
vigenza pu adempiersi la cosiddetta regola di Bowley, che comporta la
costanza delle quote distributive del lavoro e del capitale nel reddito. Si noti
che, oltre ad essere uno dei pilastri della crescita bilanciata la Kaldor, la
regola di Bowley preserva lincentivo chiave alla cooperazione tra i partner
sociali finalizzata al miglioramento della produttivit e alla crescita, e consente
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il massimo aumento dei consumi raggiungibile senza esercitare pressioni
inflazionistiche sul saggio di profitto.
Nel modello contrattuale italiano, il combinato disposto della rigidit verso il
basso in termini reali del salario fondamentale definito dai contratti
nazionali (primo livello) e della mancata diffusione della contrattazione
integrativa (secondo livello) ha stabilito un rapporto inverso e anticiclico tra
crescita della produttivit e quota del lavoro nel reddito. Il meccanismo
questo: se la produttivit cresce (come dovrebbe accadere sempre), i guadagni
di produttivit vadano ad aumentare la quota del capitale nel reddito delle
imprese prive di contrattazione decentrata o con una contrattazione debole.
Se, viceversa la produttivit si riduce (come non dovrebbe accadere mai), la
rigidit verso il basso del salario reale fondamentale torna a far crescere la
quota del lavoro in tutte le imprese. Dagli anni 80 al 2008, come ricorda
lOrganizzazione Internazionale del Lavoro, la quota del lavoro nel reddito
caduta in Italia di 10 punti. Con la crisi, in corrispondenza con la perdita di
produttivit, per gli effetti qui sinteticamente descritti ne ha riguadagnati
quattro (Figura 1).
Non difficile calcolare lentit della redistribuzione di risorse dai salari ai
profitti operata da questo perverso meccanismo istituzionale. In prima
approssimazione, senza tener conto degli effetti della distribuzione del reddito
sulla crescita, il computo pu essere condotto in modo controfattuale,
valutando la differenza tra il valore storico del monte profitti e quello che si
sarebbe verificato se i salari reali fossero cresciuti nella stessa misura dei pur
modesti aumenti della produttivit lasciando inalterata la quota del lavoro nel
reddito (Figura 2). Il contributo offerto dai salari ai profitti stato davvero
ingente: a prezzi 2005, oltre 50 miliardi di euro gi due anni dopo la sigla del
protocollo, fino a pi di 75 miliardi lanno nel triennio 2000-2002 e attorno ai
68 miliardi lanno tra il 2003 e il 2007. Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il
2012), in dipendenza dalla della tenuta dei salari contrattuali reali a fronte della
caduta della produttivit del lavoro, il contributo si ridotto a valori pi
modesti, tra i 30 e i 40 miliardi lanno.
Ora, il valore cumulato di questi trasferimenti impliciti operati
automaticamente dal modello contrattuale italiano nel periodo dal 1993 al
2012 ammonta a ben 1.069 miliardi di euro, 56 miliardi di euro lanno in
media, 64.000 euro per dipendente, 3.200 euro lanno. Si tratta di una cifra
molto ragguardevole che appare sufficiente a spiegare non solo il freno dei
consumi (Simonazzi, Palumbo, Piacentini) e laumento dellindebitamento
delle famiglie, ma anche i mancati investimenti (Fadda) (e forse soprattutto) i
ritardi di innovazione (Antonioli, Ciccarone e Messori), la sopravvivenza di
imprese marginali i cui prodotti o servizi continuano a pesare sui bilanci delle
famiglie e delle imprese competitive, lincapacit del segmento sano
delleconomia di trainare fuori dal tunnel lintero Paese (Simonazzi).
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Il raffronto tra lentit delle risorse trasferite e i risultati delleconomia italiana
smentisce lipotesi di neutralit della distribuzione del reddito ai fini della
crescita. Il modello contrattuale, che ha garantito i profitti al di l dei meriti di
mercato, oltre ad esercitare effetti anticiclici di breve periodo, nel lungo
periodo ha minato, per la cospicua parte del sistema produttivo esclusa dalla
contrattazione decentrata e dalla concorrenza internazionale, lincentivo ad
investire per migliorare la qualit dei processi produttivi e dei prodotti. Il
disincentivo ha influito tanto sulle scelte imprenditoriali, comunque garantite
sul lato dei profitti, quanto su quelle dei lavoratori, non remunerati in caso di
performance produttive migliori.

Le proposte: tre passi per uscire dal tunnel
Dal dialogo emergono alcune proposte di riforma della contrattazione che
mirano a spezzare i meccanismi perversi e a rimettere leconomia su un
sentiero di crescita. Le proposte si possono riassumere (in estrema sintesi) in
tre punti fondamentali:
a) contrattazione di linee guida di riorganizzazione dei luoghi di lavoro (nuove
tecnologie, organizzazione flessibile, rapporti di lavoro ad alta performance)
per agevolare, dal lato dellofferta, luscita dalla crisi delle imprese in
condizioni pi difficili, possibilmente nel quadro di una strategia di politica
industriale e di politica economica promossa dal Governo e dallUnione
Europea che insista sulle indispensabili riforme strutturali sul lato del capitale
e dello Stato e non pi sul lato del lavoro;
b) contrattazione di valori obiettivo di aumento della produttivit (produttivit
programmata), finalizzati a ridurre il divario di produttivit tra lItalia e i
maggiori paesi partner nelleuro, e crescita salariale reale in linea con essi,
come forte stimolo dal lato della domanda alla riorganizzazione delle
imprese in accordo con le linee guida di cui al punto a);
c) contrattazione esplicita di un valore obiettivo della quota del lavoro nel
reddito (quota del lavoro programmata), in relazione alla politica salariale di cui al
punto b), anche attraverso lestensione della contrattazione decentrata, da
ottenersi con lo sviluppo della contrattazione territoriale (v. la relazione della
Commissione Giugni di revisione del Protocollo del 93 e il Piano del Lavoro
2013 della Cgil), in modo da contemperare la necessaria ripresa del livello dei
consumi con quella degli investimenti.


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Figura 1. Il legame inverso tra produttivit del lavoro e quota del lavoro
nel reddito (numeri indice, I/2006=100)

Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali trimestrali

Figura 2. Contributo della quota del lavoro alla quota dei profitti, a
prezzi costanti del 2005 (differenza tra il valore storico della quota profitti e quello che
sarebbe risultato dallapplicazione della quota del lavoro del 1992, in termini di valori
annuali e di valori cumulati)

Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali

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