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GIORGIO AGAMBEN - POLITICA DELL'ESILIO

Giorgio Agamben. "Politica dell'esilio." Derive Approdi. No. 16. Labirinto. Naples, 1998, pp.
25-27.

Gli storici del diritto discutono tuttora se l'esilio - nella sua figura originaria, in Grecia e a
Roma - debba essere considerato come l'esercizio di un diritto o come una situazione penale.
In quanto si presenta, nel mondo classico, come la facolt accordata a un cittadino di sottrarsi
con la fuga a una pena, l'esilio sembra irriducibile alle due grandi categorie in cui si pu
dividere la sfera del diritto dal punto di vista delle situazioni soggettive: i diritti e le pene. Cos
Cicerone pu scrivere: Exilium non supplicium est, sed perfugium porturque supplicii,
L'esilio non una pena, ma un rifugio e una via di scampo rispetto alle pene. L'esilio non
diritto, n pena, ma rifugio. Significa questo che esso rappresenta una situazione di fatto, al di
qua o al di l del diritto? L'ipotesi che intendo proporre la seguente: se l'esilio sembra
eccedere tanto il repertorio dei diritti che quello delle pene, e oscillare tra l'uno e l'altro, ci non
per una sua costitutiva ambiguit, ma perch esso si situa in una sfera per cos dire pi
originaria, che precede questa partizione e in cui esso convive col potere giuridico-politico
supremo. Questa sfera , cio, quella della sovranit, del potere sovrano.
Qual , infatti, il luogo proprio della sovranit? Se il sovrano, nelle parole di Carl Schmitt,
colui che pu proclamare lo stato di eccezione e sospendere cos legalmente la validit della
legge, allora lo spazio proprio della sovranit uno spazio paradossale, che , nello stesso
tempo, dentro e fuori l'ordinamento giuridico. Che cos', infatti, una eccezione? una forma
dell'esclusione. un caso singolo, che escluso dalla norma generale. Ma ci che caratterizza
l'eccezione che ci che escluso non semplicemente senza rapporto con la legge; al
contrario, la legge si mantiene in relazione con essa nella forma della sospensione. La norma si
applica all'eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa. L'eccezione veramente, secondo una
possibile etimologia del termine (ex-capere) presa fuori, inclusa attraverso la sua stessa
esclusione.
Propongo (raccogliendo un suggerimento di Jean-Luc Nancy) di chiamare bando (dall'antico
termine germanico che designa tanto l'esclusione dalla comunit che il comando e l'insegna del
sovrano) questa relazione tra la norma e l'eccezione che definisce il potere sovrano. Colui che
, in questo senso, messo al bando non solo escluso dalla legge, ma questa si mantiene in
relazione con lui abbandonandolo.
Per questo del bandito (in questo senso pi ampio, che include l'esiliato, il rifugiato, l'apolide)
non possibile dire (come del sovrano) se egli sia dentro o fuori l'ordinamento.
Se questo vero, l'esilio non allora una relazione giuridico-politica marginale, ma la figura
che la vita umana riveste nello stato di eccezione, la figura della vita nella sua immediata e
originaria relazione col potere sovrano. Per questo esso non n diritto n pena, n fuori n
dentro l'ordinamento giuridico e costituisce invece una soglia di indifferenza tra esterno e
interno, esclusione e inclusione. Questa zona di indifferenza, in cui l'esule e il sovrano
comunicano nella relazione di bando, costituisce la relazione giuridico-politica originaria, pi
originale dell'opposizione tra amico e nemico che, secondo Schmitt, definisce la politica.
L'estraneit di colui che si tiene nel bando sovrano pi estranea di ogni inimicizia e di ogni
estraneit, e, nello stesso tempo, pi intima di ogni interiorit e di ogni cittadinanza. Ma,
proprio per questo, in quanto rifugio, che eccede tanto la sfera dei diritti che quello della pene,
l'esilio permette di pensare una via d'uscita dal bando sovrano, che non coincide con quella dei
diritti, su cui si fondata finora in modo eslusivo la tradizione democratica. Si tratta, cio, di
pensare, attraverso il paradigma dell'esilio, una vita umana integralmente politica e - tuttavia -
non inscrivibile nella figura dei diritti dell'uomo e del cittadino. L'interesse di un simile
paradigma - per definire, ad esempio, in modo nuovo problemi come quelli dello statuto del
non-cittadino, del rifugiato ecc. - mi sembra evidente. Nelle pagine che seguono mi limiter,
tuttavia, a mostrare come un problema del genere sia implicito nella stessa definizione che la
tradizione filosofica occidentale ha dato della vita filosofica.
Alla fine delle Enneadi, Plotino, per caratterizzare la forma di vita propria degli di e degli
uomini divini e felici (cio dei filosofi), si serve della formula, rimasta esemplare come
definizione dell'intenzione suprema della mistica neoplatonica: phyg monou pros monon.
Nella sua versione latina, che doveva esercitare una cos grande influenza sulla cultura del
Rinascimento, Ficino traduce: fugaque solius ad solam. Brhier la rende con queste parole:
S'affranchir des choses d'ici bas, s'y dplaire, fuir seul vers lui seul.
Bench l'espressione sia ormai proverbiale, il suo senso non certo in alcun modo scontato.
Nel 1933 Erik Peterson, un teologo protestante che si era da poco convertito al cattolicesimo e
stava preparando una confutazione della Teologia politica schmittiana, pubblic sul Philologus
uno studio sull'Origine e significato della formula Monos pros monon in Plotino. Contro
l'interpretazione di Cumont, che vedeva nella formula solo la trasposizione di una clausola
cultuale pagana (aucun doute que cette expression... et l'ide qu'elle exprime ne soient
emprunts la langue et la doctrine du culte), il teologo neoromano, con un gesto che
tradisce una sensibilit protestante, ne identifica l'origine nella lingua comune, in una vecchia
espressione greca appartenente al vocabolario dell'intimit. La formula monos mono (o
simili) da sempre corrente in greco per esprimere una relazione personale, privata, abituale e
intima. La prestazione specifica di Plotino consiste nell'aver contemporaneamente immesso in
quest'espressione il significato concettuale della sua metafisica e della sua mistica.
La metafora della fuga di un solo presso un solo che, come Peterson fa notare, contiene in s
tanto l'idea del vincolo (Verbundenheit) che quella dell'isolamento (Absonderung),
dislocherebbe cos un'espressione del lessico privato nella sfera della terminologia mistico-
filosofica, e in questo spostamento strategico consisterebbe appunto la prestazione pi
originale di Plotino. Il senso del solo presso un solo resta tuttavia, anche in questo contesto,
quanto meno enigmatico. Ma, soprattutto, l'intera questione falsata dal fatto che l'attenzione
di Peterson e degli altri studiosi si concentrata unicamente sulla formula monou pros
monon, dando per scontato il significato del termine phyg che immediatamente precede e di
cui la formula stessa non , dopo tutto, che una determinazione. Da Ficino in poi, la corretta
ma generica traduzione con fuga ha costantemente occultato il dato linguistico essenziale, e
cio che phyg in greco (insieme a atimia) il termine tecnico per l'esilio: phygn pheugein
significa andare in esilio e phygades non tanto, genericamente, il fuggiasco, ma l'esule.
Quando, alla fine del secolo I, in un momento in cui la Grecia non era pi che una provincia
periferica dell'impero romano, Plutarco scrive un trattato sull'esilio, in cui tutti gli uomini sono
visti in qualche modo come stranieri ed esuli e la filosofia viene definita come rimedio per
questa condizione, il termine phyg che gli viene naturalmente sotto la penna. Questa
omonimia di fuga ed esilio in greco corrisponde, del resto, allo statuto particolare dell'esilio nel
mondo classico, che non tanto una pena quanto un diritto (ius esilii , a Roma, l'espressione
tecnica del diritto dei cittadini di abbandonare la cittadinanza) o un rifugium offerto a chi aveva
subito, ad esempio, una pena capitale, e poteva, esiliandosi, sottrarsi alla pena. Poche pagine
prima, descrivendo lo stato di lontananza dalla sorgente della vita, Plotino si era gi servito
del termine phyg, che, questa volta, Brhier (seguito dagli altri traduttori) rende senz'altro con
exil : en toutois ekptosis kai phyg kai pteurruesis, ici c'est la chute, l'exil, la perte des ailes.
La prestazione pi propria e originale di Plotino non consiste allora semplicemente nell'aver
trasferito un'espressione dalla sfera dell'intimit e della privatezza a quella mistico filosofica:
ben pi singolare e significativo che egli caratterizza la vita divina del filosofo servendosi di
un termine tratto dal lessico giuridico-politico - quello stesso (phyg, l'esilio) con cui aveva
poco prima definito la condizione di lontananza dal bene. Solo che ora l'esilio non pi il
bando di un singolo dalla comunit, ma di un solo presso uno e la condizione di negativit ed
esclusione che esso esprime sembra, invece, rovesciarsi in uno stato di felicit (eudaimonion
bios) e di leggerezza (kouphisthesetai).
Che la scelta lessicale di Plotino sia perfettamente consapevole provato, oltre che da questa
inversione, dalla decisione con cui egli unisce a un termine che significa l'esclusione e l'esilio un
sintagma che esprime di solito l'intimit, (monos pros mono, solus ad solam; qui l'intuizione di
Peterson acquista una nuova pregnanza: ancora in Numenio, in un passo che viene spesso
citato come possibile fonte della metafora plotiniana, troviamo invece, al posto di phyg, un
verbo che significa il conversare e lo stare insieme: omilsai mono monon). La vita divina
una paradossale separazione nell'intimit.
Qual il senso di questo rovesciamento? Perch il filosofo ricorre qui proprio a un termine
giuridico-politico? E che ha a che fare l'esilio dalla citt con la vita divina e con la theoria?
Presentando la condizione divina del filosofo nell'immagine di un esilio, Plotino non fa, in
verit, che riprendere e sviluppare un'antica tradizione. Gi Platone, nel Fedone, si era
significativamente servito di metafore per descrivere la separazione dell'anima dal corpo.
Socrate definisce qui, infatti, la sua condanna a morte come una apodemia, una emigrazione
(letteralmente: un abbandono del demos, quindi in qualche modo un esilio): Questa
emigrazione che mi ora ingiunta avviene con buone speranze... purificazione, come dice
un'antica parola, separare (chorizein) quanto pi possibile (o: virtualmete) l'anima dal corpo
e abituarla a raccogliere e a radunare s sola per se stessa (monen cath'auten) lontano dal corpo
e a dimorare secondo il possibile, sia ora che dopo, sola per se stessa. Oltre al termine
apodemia, compaiono qui due verbi tratti dal vocabolaro politico: synageiresthai, che vale:
raccogliersi in assemblea pubblica (cfr. agor) e athroizesthai, che ha pressappoco lo stesso
significato, ed entrambi sono accostati, con un'intenzione paradossale (simmetricamente
inversa), ma certamente altrettanto consapevole di quella plotiniana, a un'espressione che
indica la solitudine: mone cath'auten.
Poco dopo (80 e), in un contesto simile, Platone usa il verbo pheugo: fuggendo in esilio da
esso (cio dal corpo) e nuovamente un termine che si riferisce all'adunata dei soldati
(synathroizo), congiunto, ancora una volta, con un sintagma che esprime la solitudine: aute eis
auten, raccogliere s con se stessa. Anche nel celebre passo del Teeteto (176 a-b) che si suole
allegare come possibile fonte diretta della metafora plotiniana (occorre, perci, pheugein l al
pi presto. phyg de omoiosis theo kat ton dynaton), pheugein e phyg saranno da intendere
in senso tecnico, contro la traduzione comune, come andare in esilio e esilio. La celebre
definizione ascetica della fuga dal mondo come assimilazione a Dio andr resa, pertanto,
restituendo tutta la sua forza alla metafora politica: l'assimilazione a Dio virtualmente un
esilio (kat ton dynaton significa qui, secondo il termine pi proprio del termine dynatos,
virtualmente secondo la potenza). L'affermazione tanto pi significativa, in quanto, con
queste parole, Platone rompe con l'insgnamento socratico del Critone, secondo cui la
possibilit di phyg offerta al condannato non potr che essere rifiutata, perch non vi vita
possibile fuori dalla polis.
Il precedente pi diretto della metafora della vita filosofica come esilio , per, nel passo della
Politica, in cui Aristotele definisce straniero il bios del filosofo: quale bios sia preferibile,
quello attraverso il far politica insieme (synpoliteuesthai) e il partecipare in comune alla citt, o,
piuttosto, quello straniero e sciolto dalla comunit politica (o xenicos kai tes politikes koinonias
apotelelelumenos) (1321 a 15-16).
La vita filosofia qui paragonata a quella dello straniero, che, nella polis greca, non poteva far
politica n partecipare in alcun modo alla vita della citt (come l'esiliato egli era, diremmo noi,
privo di diritti politici). Che la condizione dell'apolis, di colui che sciolto da ogni comunit
politica, apparisse ai greci particolarmente inquietante (e, proprio per questo, insieme
subumana e sovrumana), attestato, tra l'altro, dal celebre passo del coro dell'Antigone in cui
Sofocle caratterizza l'essenza del deins, del minaccioso che appartiene all'uomo, attraverso
l'ossimoro ypsipolis apolis (letteralmente: superpolitico-apolitico). Memore di questo deins,
Aristotele, all'inizio della Politica, afferma per parte sua che colui che apolide per natura e
non per ventura, o inferiore all'umano o pi forte di esso e, con un'immagine pragmatica,
paragona il senza citt a una pedina scompagnata (azyx) nel gioco degli scacchi (1253 a 4-8).
Nella tradizione della filosofia greca, l'apolide e l'esiliato non erano dunque figure neutrali, e
solo se la si restituisce a questo originario contesto politico, l'espressione plotiniana acquista
tutto il suo senso. Come intendere, infatti, un bios filosofico che avanza una pretesa di felicit e
pienezza, cio, per un greco, una pretesa genuinamente politica nella sua stessa radicale
apolidia? Perch un'opzione che si troppo spesso interpretata in senso esclusivamente
mistico ha bisogno di rivendicare per s lo statuto minaccioso dell'esiliato e dell'apolis? Il senso
della formula non consisterebbe, allora, tanto nel definire la vita filosofica come esilio dalla
politica, quanto nel rivendicare la politica dell'esilio.
Definendo la condizione umana suprema come phyg, la filosofia non sta affermando la
propria impoliticit, ma, al contrario, essa rivendica paradossalmente l'esilio come la
condizione politica pi autentica. Con un ardito rovesciamento, la vera essenza politica
dell'uomo non consiste pi nella semplice iscrizione in una comunit data, ma coincide
piuttosto con quell'elemento inquietante che Sofocle aveva definito superpolitico-apolide. In
questa prospettiva, l'esilio cessa di apparire come une figura politica marginale, per affermarsi
come un paradigma filosofico-politico fondamentale, forse il solo che, rompendo la fitta trama
della tradizione politica ancor oggi dominante, potrebbe permettere di pensare da capo la
politica dell'Occidente.

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