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Appunti per una lettura di E se Fuad avesse avuto la

dinamite? di Elvira Mujcic

Piero Vereni - Roma Tor Vergata - 8 giugno 2009

Claude Lévi-Strauss, nella sua lettura dell’Edipo, dice che quel mito tenta di rispondere a una

domanda fondamentale, che attanaglia ogni individuo dal momento in cui comincia a rendersi conto

di avere due genitori: Come può uno nascere da due? Come può un’individualità delimitata,

singola, chiusa nella sua interezza, essere il prodotto di una relazione, di un’apertura, di un

incontro?

Potremmo dire che questo libro è il tentativo di rispondere a tale domanda moltiplicandone per

mille la complessità: come può un soggetto essere un individuo se è il prodotto di vite conflittuali,

di contraddizioni storiche continue, di antitesi senza apparente sintesi? Come fa il protagonista,

letteralmente il primo dei combattenti, ad essere tale se la fonte da cui deriva è oscura, torbida?

La fabula e il suo protagonista

La fabula del romanzo è apparentemente semplice. Zlatan è un trentenne residente in Italia da

circa 13 anni, da quando ha lasciato la Bosnia nell’estate del 1995 durante l’assedio di Sarajevo,

appena sedicenne. Per le vacanze torna a visitare i parenti a Sarajevo, nel corso del viaggio ricorda

la sua fuga dalla città di molti anni prima e una volta tornato in Bosnia decide di andare a trovare la

nonna che vive nei pressi di Visegrad, la città del Ponte sulla Drina celebrato da Ivo Andric. A casa

della nonna Zlatan riallaccerà i rapporti con lo zio materno e farà i conti con i dolorosi ricordi delle

violenze etniche della guerra di Bosnia. Tornato in Italia dopo il funerale della nonna, Zlatan si fa

un tatuaggio.

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Zlatan è un uomo normale. Non è mutilato, non è segnato nel corpo dalla guerra. Non è neppure

orfano. L’unico, ironico, segnale di un trama è dato dal fatto che soffre di gastrite, e questo lo

associa proprio alla normalità della nevrosi quotidiana. Vive una vita simile a quella di molti suoi

coetanei del nostro paese, con un lavoro che gli dà poche soddisfazioni e una vita sentimentale

alquanto farraginosa. Se non fosse per le file in questura a cui è sistematicamente costretto per

rinnovare il permesso di soggiorno (e per la rabbia che gli suscita vedersi trattare come un cittadino

di serie B) non si potrebbe distinguere Zlatan dai suoi coetanei italiani: parla un italiano fluente, si è

laureato in Italia, lavora per una casa editrice italiana (per quanto fatiscente), convive con coetanei

in un tipico appartamento da “precari”, ascolta la musica che potrebbe ascoltare qualunque giovane

musicalmente raffinato del nostro paese e soffre perché è appena stato lasciato dalla ragazza.

Insomma, da lui non traspare nulla di balcanico, di primordiale, o anche solo di tragico. Il registro

con cui si apre il libro e con cui il protagonista si presenta è chiaramente leggero, volutamente

autoironico. Si sofferma sulle meschinità della burocrazia italiana ma sempre con una venatura

grottesca, che permane quando parla del suo rapporto con Martina, la sua ex, delle idiosincrasie del

suo datore di lavoro, delle sue disavventure gastriche o anche della sua infanzia bosniaca.

Il contorno del protagonista è ben delineato proprio quando, in questo ritratto iniziale, si tratta di

fare i conti in Italia con le sue origini. Ecco un passaggio dalle pagine 36-37:

Da quando ho lasciato la Bosnia non ho più voluto avere contatti con la mia gente. Non era una
questione di odio o di vergogna. Si trattava solo di pura e semplice difficoltà. Succede che una
persona con dei pezzi di vita disgregati facilmente riconosca nell’altra lo stesso sgretolamento.
Non per sensibilità, solo per memoria collettiva. Io non volevo che questo mi accadesse.

Non mi piace parlare di cosa mi è successo e non mi piace avere pena di un altro perché è
accaduto anche a lui. Solo che, spesso, finisce che si instaurino amicizie o amori in base alla
pena che si ha dell’altro, e non volevo uscire sempre con gente con cui avrei inevitabilmente
parlato di guerra.

Appena arrivato in Italia avevo conosciuto alcuni ragazzi della mia età che se n’erano andati
ancor prima che il primo sparo scoppiasse e stavano sempre a lagnarsi della guerra, come se
l’avessero realmente vissuta. Mi davano sui nervi. Allo stesso modo non potevo avere rapporti
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con chi aveva vissuto la stessa mia avventura, non sopportavo che mi leggessero dentro e
sapessero cosa provassi e come stessi: mi facevano sentire uno qualsiasi, e il mio ego smisurato
non me lo consentiva.

La chiusa di questa citazione segnala il tono volutamente distaccato del racconto, fino a questo

punto.

Bisogna arrivare alla fine della prima parte, a pagina 42, per trovare una crepa in questo romanzo

di formazione tardo-adolescenziale che fino a questo punto mi ha ricordato i romanzi di Rossana

Campo. Proprio qui, una volta irretito nella trama, il lettore inciampa: ormai sta leggendo

visibilmente sollevato, forse anche dubbioso di aver sbagliato libro: ma come mi aspettavo sangue e

violenza, l’ennesimo libro di denuncia sulle atrocità della ex Jugoslavia, e finora l’autrice mi ha

ammannito solo le piccole disgrazie di un trentenne insicuro e gastritico! Proprio a quel punto,

quando il lettore sembra poter tirare un sospiro di sollievo per non essere stato chiamato in causa,

arriva la morte della dodicenne Selma, uccisa da una bomba a Sarajevo, e si apre la seconda parte

del libro.

Zlatan sta raccontando di due amici ragazzini a Sarajevo, Selma e Kina, e d’improvviso il

registro scarta dall’affettuosa memoria dell’ultima infanzia all’afasia del ricordo fratturato dal

dramma:

Poi successe qualcosa. Non so cosa, non riesco a ricordare. Fu come se divenissi cieco per
alcuni istanti. Quando ricominciai a vedere c’erano grida, pianti, madri che correvano fuori.
Sangue ovunque. Corsi a cercare Selma, ma le mani di qualche adulto mi fermarono,
trascinandomi nel palazzo, mentre io gridavo suoni che non avevano significato. Mi divincolai,
e corsi di nuovo in direzione di una pallina colorata sulla neve. La trovai sdraiata, sembrava
sorridesse ancora. Mi parve che sarebbe rimasta così per sempre, silenziosa in mezzo alle grida.
E fu così: nella mia memoria restò sempre la poesia del suo sorriso sul viso dolce e piccolo (p.
43)

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Parenti, passato e identità

Come antropologo, mi chiedo sempre quale possa essere la mia specifica lettura di fronte a testi

di questo genere, di narrativa, insomma. Cerco allora di tornare alle basi della mia disciplina:

sussistenza, parentela, sistemi simbolici, cultura, identità, appartenenze.

Per quanto segue, tenterò quindi una lettura genealogica del testo, individuando i legami di

discendenza del protagonista e come questi configurino un ripensamento del suo rapporto con il

passato e di qui con la sua identità. Questi parenti o antenati sono lo specchio entro cui Zlatan si

deve per forza osservare, se vuole capire chi è, chiaramente insoddisfatto della leggerezza con cui

ha finora affrontato la questione delle sue “origini”.

Andrić

Ivo Andric, premio Nobel per la letteratura nel 1961, è una sorta di deus absconditus del libro,

un antenato clanico, un progenitore mitico a cui fare riferimento periodicamente per mettere a fuoco

la propria identità.

Zlatan infatti, per quanto cresciuto a Sarajevo, ha i nonni materni di Visegrad, la cittadina

bosniaca sul fiume Drina, celebrato da Andric nella sua cronaca storica del Ponte sulla Drina, del

1945. Il confronto con Andric e il “suo” ponte è una costante del romanzo di Elvira Mujcic.

Andric appare subito, nelle prime pagine, e anzi aleggia già nel titolo, dato che il Fuad che

potrebbe avere la dinamite rischierebbe di far saltare il ponte “del nostro Ivo Andric”, come dice il

padre di Zlatan.

L’autore del Ponte sulla Drina ricompare subito appena Zlatan arriva a Sarajevo: il padre (alle

pp. 70-71) gli fa leggere un articolo di alcuni anni prima, in cui l’eroe della letteratura jugoslava

viene accusato di essere uno dei responsabili morali del massacro dei musulmani di Bosnia per aver

“parlato male” di loro. Lo stesso Fuad del titolo, che rischiava di far saltare la diga sulla Drina, due

mesi prima aveva danneggiato con un martello la statua dedicata allo scrittore. Zlatan incontrerà di

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nuovo questo atteggiamento colpevolizzante nei confronti di Andric, e il suo giudizio sarà sempre

perentorio:

L’argomentazione è quanto di più assurdo si possa leggere. La solita tendenza che da un


ventennio a questa parte tormenta il Paese: resuscitare un passato e renderlo malvagio anche là
dove non lo è stato; riscrivere la storia per creare dei presupposti, delle basi che diano
giustificazione a tutto (p. 70).

Zlatan, dunque, attraverso la figura di Andric si avvicina al passato, ma ne rifiuta lo sfruttamento

vittimista tipico di un certo atteggiamento postcoloniale, mi verrebbe da dire, che pretende di

attribuire le miserie del presente esclusivamente alle malvagità del passato. Andric è un genio

letterario che deve essere contestualizzato, non certo stravolto a fini politici:

Possibile che le atrocità raccontate da Andrić e risalenti all’epoca dell’Impero ottomano possano
essere una scusante per le atrocità vissute nell’ultimo decennio del ´900?! A qualcuno è mai
venuto in mente di accusare Shakespeare? O magari Tarantino? No! Ma l’hanno fatto con
Nietzsche però! E con Andrić! Qualche somiglianza c’è: uomini deboli sì impossessano di idee
geniali per giustificare i loro misfatti! (p. 121).

L’omaggio al grande autore jugoslavo sembra quindi nel romanzo un appello a un uso “sensato”

della storia, vale a dire un uso che rifiuti l’ipermnesia del traumatizzato che non riesce a scrollarsi di

dosso il suo trauma e continua imperterrito a riattualizzarlo ossessivamente nel ricordo.

Ma il rifiuto di quest’uso distorto del passato perpetrato dai detrattori di Andric non deve cadere

nell’errore opposto, vale a dire nella rimozione del passato. Il personaggio che mi pare incarni

questo rapporto di fuga dal trauma è il padre di Zlatan.

Il padre

Il padre è una figura decisamente ambigua nella sua vacuità. Già nella prima scena in cui

compare è evidente la sua funzione antagonistica: egli è, prima di tutto, un filtro oscuro calato sulla

realtà:

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Papà non rispose, non mi sentì, stava già guardando un altro telegiornale. In realtà le risposte del
papà riguardo la guerra non mi convincevano molto. Sembrava dicesse cose così per dire,
incredulo pure lui di quello che vedeva intorno a sé. E poi comunque mi trattava ancora come
un bambino. Invece io avevo già 13 anni e mi dava spiegazioni come ne avessi 7 (p. 13).

Il padre di Zlatan è prodigo di consigli sulla vita “italiana” del figlio (è lui che gli dice di non

accettare i soprusi della burocrazia italiana) ma non è in grado di parlargli del passato della Bosnia,

come non era stato in grado di dargli risposte quando la tragedia era presente. Ha preferito mandare

il figlio via, lontano, l’ha letteralmente rimosso, e ha continuato a leggere “i suoi romanzi rosa”,

come dice la madre (p. 24) e a lamentarsi “delle solite cose: governo, politica, giornali, tempo e così

via” (p. 25). È un uomo che fugge, o che almeno proietta sul figlio la sua ansia di protezione, e

preferisce vivere una sorta di moderata jugonostalgia piuttosto che affrontare la verità di quel che è

successo. Zlatan teme il contagio del padre, che la sua chiusura possa dipendere dalla sua linea di

discendenza:

Rabbia nei confronti della mia natura, così fragile; delle mie nevrosi impossibili da sedare. Ero
o no un uomo!? Non lo sapevo. Mi sentivo un codardo che si lagna. Come è possibile rimanere
schiavo di un incubo per dieci lunghi anni? Tutti gli altri ragazzi che conoscevo erano così
sicuri di sé, così sereni, così non so pieni di vita e d’idee, assetati di nuove conoscenze. La
guerra la uso, in questi casi, per giustificarmi, per dare una spiegazione “alta” alla mia paranoia;
ma so benissimo che non è solo quella. È anche una questione caratteriale: sto diventando
sempre più come mio padre, e lui era così anche prima della guerra. Dopo, quando è esplosa, è
peggiorato, questo sì, ma forse questo lato del suo carattere si sarebbe inasprito comunque. Non
ho grande curiosità per la gente e Martina questa cosa non la sopportava (p. 51)

Questa figura paterna viene ritratta in chiaro al ritorno a Sarajevo:

Mio padre non accettava facilmente i cambiamenti. O forse non li accettava e basta. Non
riusciva a digerire il fatto che alcuni suoi amici di sempre si fossero messi a sparare sulla
propria città, e che altri se ne fossero andati a vivere chissà dove e si trovassero meglio là dove
s’erano recati. Non accettava nemmeno la morte, anzi proprio non la voleva considerare. Non è
mai andato ai funerali dei suoi amici e non si è mai sfogato con nessuno per le sue perdite.
Semplicemente, stava in casa a brontolare e guardare mamma con stupore (p. 69).

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Questo padre che per proteggere il figlio è sfuggito al suo ruolo di padre, di guida nel mondo per

il figlio, nel racconto contrasta durissimamente con la figura di un altro padre, Ibro, un vicino della

casa di nonna. Ibro non è riuscito a proteggere la figlia Amela dalla furia della guerra, e ora si trova

disperato a odiare i serbi che l’hanno stuprata e a provare pietà per la sua creatura, che non è mai

riuscita a superare l’orrore subito ed è rimasta una ragazzina terrorizzata:

«Lui è Zlatan! – disse poi Ibro – non te lo ricordi? Giocavate insieme, quando eravate
piccoli…». Solo allora rammentai la ragazzina che giocava con me, tanti anni prima. Ma non
riuscivo a capacitarmi del suo essere rimasta uguale, come se non fosse cresciuta, come fosse
imprigionata in un corpo più piccolo che non riusciva a sbocciare. Eternamente prigioniera di
una larva. La salutai, con dolcezza e imbarazzo. Lei non mi guardò nemmeno. Aveva lo sguardo
basso e all’improvviso le lacrime le riempirono gli occhi. Mi sentivo a disagio. Avrei solo
voluto alzarmi e scappare via, ma Ibro, forse intuendolo, mi porse un’altra birra (p. 82).

Zlatan è voluto andare (anche contro la volontà dei genitori) a trovare la nonna. Qui non può più

mettere in atto la tecnica di rimozione appresa dal padre, ma neppure vuole cedere al vittimismo

parolaio di chi sfoga sul passato altrui le proprie frustrazioni odierne. È proprio in questa impasse

della memoria e dell’identità che Zlatan fa i conti con due figure della sua linea materna: la nonna e

il fratello della madre.

La nonna e lo zio materno

Proviamo a sintetizzare prima di concludere. Fino a questo punto, Zlatan si è trovato di fronte a

un’alternativa su come gestire il trauma: da un lato negarlo (come gli ha insegnato il padre)

spostando l’attenzione altrove, dall’altro rimanendovi ossessivamente legato come fanno quanti

scaricano su figure simboliche come quella di Andric la responsabilità dell’accaduto. La figura di

Ibro spezza necessariamente questa alternativa: nel suo caso siamo di fronte a un padre che non può

negare il passato perché la figlia glielo ricorda e che, in quanto padre, non può sottrarsi alle sue

responsabilità. In questo contesto, dentro questo dilemma morale, si allargano le figure della nonna

materna e dello zio Nazim, fratello della madre. Le loro risposte, strutturalmente simmetriche a

quelle del padre e dei nemici di Andric, aprono per Zlatan una nuova prospettiva identitaria.
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La nonna è una simpatica picchiatella, che come tutti i personaggi azzeccati riesce ad essere al

contempo estremamente reale e fortemente allegorica. La sua sbadataggine (non ricorda dove ha

sepolto i gioielli di famiglia e costringe il figlio e ancor più il nipote a scavare nell’orto improbabili

buche per ritrovarli) sembra una metafora della Bosnia stessa, incapace di ritrovare la sua antica

ricchezza e tutta perduta dietro un delirio in cui passato e presente si confondono, e in cui poi le

persone vere, le persone per cui si è sofferto (il figlio morto durante la guerra, l’altro zio di Zlatan,

di cui non si deve fare il nome) diventano tabu impronunciabili. A modo suo, la pazzia della nonna

è la compresenza dei due atteggiamenti verso il trauma che abbiamo indicato: la rimozione e

l’ossessione. In lei convive la rimozione del dolore e l’ossessione per un periodo storico ormai

finito, ed è inevitabile che le due pulsioni, centripeta e centrifuga portino alla follia.

È con lo zio Nazim che il rapporto tra passato, trauma e identità trova un suo equilibrio.

Nonostante la sua scarsa istruzione (ragione del disprezzo dei genitori di Zlatan) Nazim non cede

alla retorica del piagnisteo e neppure alla tentazione della fuga: lui cerca di capire quel che è

successo, ascoltando e provando a farsi una sua opinione. Ascoltare vuol dire anche leggere storie

terribili, come quella della cugina Mirsada, violentata per giorni dalle bande serbe e disposta a

raccontare, sperando che qualcuno voglia ancora ascoltare. E farsi un’opinione significa anche

superare senza nostalgia la retorica della multietnicità jugoslava, ed arrivare a conclusioni poco

piacevoli come questa:

risulta assolutamente chiaro che le varie repubbliche della ex Jugoslavia erano multietniche più
in contrapposizione tra loro che non al loro interno, e soprattutto che le minoranze etniche erano
relegate in alcuni territori: in Kosovo per quanto riguarda la Serbia e nelle Krajine per quanto
riguarda la Croazia, ad esempi o.Unica eccezione a questa situazione è la Bosnia, dove non c’è
una maggioranza schiacciante di un popolo su un altro ma si è tutti mischiati, e da qui anche la
percentuale altissima di matrimoni misti. Allora, prima di tutto, bisognerebbe parlare di una
multietnicità costruttiva soltanto in Bosnia. In secondo luogo mi è venuto in mente che colui che
voleva proteggere la multietnicità della Jugoslavia fosse stato in realtà il primo a togliere i diritti
alla minoranza albanese presente sul territorio serbo (p. 97).

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Avvicinandosi allo zio, alla sua spigolosa voglia di non nascondere o edulcorare la verità, Zlatan

potrà cominciare a pensarsi sullo sfondo morale di due paesi, Italia e Bosnia, e tornare in Italia

senza la voglia di rimuovere quel che ora conosce. Credo che il tatuaggio finale sia il correlativo

oggettivo di questo nuovo atteggiamento verso il passato: il segno sul corpo, come sanno gli

antropologi, ha la pretesa di istituire una continuità, di solcare il presente in un legame indelebile

con il passato. In fin dei conti quel che veramente caratterizza un tatuaggio è proprio la sua

permanenza, la sua natura di passo da cui è impossibile recedere. Zlatan, assumendosi la

responsabilità di farsi il tatuaggio sta dicendo a se stesso (e a noi che leggiamo) che con il passato

bisogna avere un rapporto cauto, ma non timoroso, tenendolo a volte a debita distanza, ma senza

perdere mai di vista la sua dimensione formativa prima ancora che fondativa.

Non so se sia un caso che questa riscoperta passi attraverso la figura parentalmente laterale dello

zio materno (un personaggio importantissimo in tutti i sistemi di parentela matrilineari) ma mi piace

pensare che anche in questo vi sia una dimensione simbolica: per capire chi siamo non possiamo

guardarci solo dentro la linea della nostra discendenza diretta (rappresentata qui dal padre effettivo

e da Ivo Andric, sorta di padre putativo), perché quella linea è troppo vicina a noi, e non ci consente

un’appropriata messa a fuoco. Dobbiamo quindi un poco metterci di lato a noi stessi, senza però

vedere le cose da troppo lontano, come farebbe un estraneo, ma a quella giusta distanza che ci

permette di capirle senza restarne terrificati, proprio come farebbe un parente indiretto, uno zio.

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