Introduzione. Descrivere, teorizzare, testimoniare la violenza
Fabio Dei
La letteratura etnografica e il dibattito antropologico internazionale degli ultimi 15-20 anni si sono caratterizzati per una diffusa attenzione al tema della violenza di massa. Singolarmente trascurata nelle pi classiche fasi degli studi (sia pure con rilevanti eccezioni), la violenza sembra trovarsi oggi al centro della riflessione antropologica; non solo come nuovo oggetto, o come una ulteriore antropologia speciale, ma come campo decisivo per i complessivi scenari teorico-epistemologici della disciplina, cos come per i problemi legati al suo uso pubblico e alletica della ricerca e della scrittura. Questo volume presenta ai lettori italiani una scelta di saggi che di tale dibattito sono in qualche modo rappresentativi, sia per la rilevanza degli autori che per la variet dei temi trattati. Nelle pagine introduttive, cercher di ricostruire per grandi tratti il contesto in cui la moderna antropologia della violenza si sviluppa, discutendo alcuni fra i numerosi problemi che essa solleva.
1) Perch la violenza? Il Novecento, il secolo in cui la scienza antropologica diventata adulta e ha conosciuto il suo massimo sviluppo, stato anche unepoca di guerre, genocidi e violenze di massa di straordinarie dimensioni e intensit. Lappellativo di secolo delle tenebre (Todorov 2001) forse unilaterale ed eccessivo; ma indubbio che lapplicazione della razionalit tecnologica e amministrativa agli obiettivi dello sterminio di grandi masse di persone stata senza precedenti. Inoltre, il grado altissimo di violenze e atrocit ha prodotto uno stridente e scandaloso contrasto con le autorappresentazioni in termini di progresso e di civilt in cui la cultura novecentesca si a lungo cullata. Ma di tutto ci nella letteratura antropologica non c praticamente traccia. Inutilmente, o quasi, si sfoglierebbero gli autori pi classici o le riviste pi prestigiose in cerca di riferimenti alla Shoah, a Hiroshima, alle carneficine delle due guerre mondiali fenomeni che pure hanno scosso lopinione pubblica e la coscienza contemporanea, modificando profondamente quella che ben potremmo chiamare lautopercezione antropologica della contemporaneit.
Ancora pi sorprendente la scarsit dei riferimenti alle violenze subite dai popoli cosiddetti indigeni il principale e caratterizzante soggetto di studio della disciplina. Almeno da Malinowski in poi gli antropologi si sono posti lobiettivo prioritario di salvare descrivendole etnograficamente le culture diverse e primitive che rischiavano di scomparire; ma hanno quasi sempre trascurato il fatto che questa scomparsa era il frutto non solo dellinarrestabile incedere della civilt e del progresso, ma anche e soprattutto di politiche palesemente etnocide, talvolta di vere e proprie pratiche di sterminio, da parte dei poteri coloniali. Il moderno assalto globale degli stati-nazione contro popolazioni tribali di piccola scala e autosufficienti, con i suoi effetti spesso devastanti e con sistematici episodi 2
di violenza e atrocit, e con un numero di vittime che nel secolo doro dellimperialismo si conta nellordine delle decine di milioni (Bodley 1992, p. 37), un macro-fenomeno storico che gli antropologi hanno avuto sotto gli occhi senza apparentemente riuscire a vederlo, e comunque senza tematizzarlo nei loro lavori.
Molti critici contemporanei, soprattutto nellambito dei post-colonial studies, vedono in questo silenzio un sintomo di complicit, perlomeno passiva, dellantropologia. un giudizio che a me sembra quantomeno parziale in termini di storia delle idee, e sul quale torner oltre. Si pu intanto osservare che la mancata tematizzazione della violenza strettamente legata alle principali condizioni pratiche ed epistemologiche del lavoro antropologico novecentesco. Sul piano pratico, sia per ragioni di sicurezza che per lesplicita proibizione delle autorit locali o coloniali, gli antropologi lavorano spesso in aree pacificate, nelle quali il conflitto non presente o perlomeno non si manifesta apertamente; e abbandonano il terreno quando le condizioni si fanno difficili. Ma anche quando guerra e violenza si manifestano apertamente, raro che esse emergano alla superficie dei resoconti etnografici. Se ne parla magari nei diari di campo, nei corridoi delle Facolt, e al massimo nelle prefazioni di monografie dedicate a pi comuni temi antropologici, sempre per dando per scontato che si tratta di elementi estranei al vero nucleo scientifico della disciplina. Il caso forse pi noto, e certamente emblematico, di questo atteggiamento costituito dal lavoro di Evans-Pritchard fra i Nuer, condotto in un periodo di forte tensione fra questi ultimi e il governo del Sudan anglo-egiziano, per conto del quale lantropologo conduceva la sua ricerca. A tali conflitti egli fa cenno soltanto nellintroduzione alla sua fortunata monografia del 1940, nel contesto di una esposizione delle difficolt incontrate nella ricerca sul campo, e attribuite principalmente alla intrattabilit di carattere dei Nuer. Al momento della mia visita scrive essi erano particolarmente ostili perch la sconfitta recente e le misure adottate dal governo per assicurarsi la loro sottomissione finale avevano suscitato profondo risentimento. Il livello di tensione testimoniato dallunico episodio di cui Evans-Pritchard riferisce: un giorno, allalba, truppe governative circondarono il nostro campo, lo perquisirono per cercare due profeti che avevano capeggiato una recente rivolta, e portarono via alcuni ostaggi minacciando di prenderne molti altri, se i profeti non fossero stati consegnati. Con una buona dose di understatement, lantropologo commenta di essersi sentito in una posizione equivoca, e di aver deciso poco dopo di lasciare il villaggio (Evans-Pritchard 1940, p. 44)[1].
Di tutto ci non v altro cenno nel resto del libro. Perch Evans-Pritchard non sente il bisogno, o lobbligo, di tematizzare una situazione di guerra e violenza che palesemente domina la vita del popolo presso cui si trova, e che inevitabilmente sottodetermina lincontro etnografico? Lobiettivo dellantropologia, dal suo punto di vista, descrivere e spiegare le normali strutture sociali e istituzioni culturali del popolo studiato: lorganizzazione ecologico-economica, la parentela, il sistema politico, la religione, e cos via. Lantropologia che Evans-Pritchard rappresenta interessata cio a cogliere caratteristiche strutturali, indipendenti dagli episodi e dalla contingenza storica. Rispetto a queste finalit, i conflitti possono apparire puri elementi di disturbo che, oltre ad ostacolare un regolare fieldwork, sconvolgono lordinario andamento della vita indigena e non consentono di coglierne, appunto, la normalit[2]. Quello che a noi oggi appare come un atteggiamento reticente e irriflessivo, che nasconde al lettore le condizioni politiche dellincontro etnografico, era per lantropologia classica un requisito di pertinenza disciplinare, nonch di oggettivit e di dovuto distacco scientifico.
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In altre parole, sono state le condizioni della produzione antropologica descritte come realismo etnografico con la tendenza a non tematizzare il carattere storicamente e politicamente situato della ricerca a ostacolare la visibilit dei fenomeni della violenza, e a impedire un loro riconoscimento come problemi centrali della rappresentazione culturale e del dibattito teorico. Questo riconoscimento infatti iniziato proprio nel momento in cui le convenzioni del realismo etnografico hanno cominciato a incrinarsi. La svolta riflessiva che ha investito lantropologia a partire dagli anni 80, per quanto tuttaltro che pacificamente accolta e causa di infinite discussioni, ha profondamente cambiato il modo di fare etnografia: o meglio, il modo di intendere il rapporto tra scrittura etnografica e ricerca, tra la soggettivit dellesperienza di campo e loggettivit della rappresentazione culturale. E vero che la sperimentazione di nuove forme di autorit etnografica, sbandierata negli anni 80 da autori come James Clifford e George Marcus, rimasta qualcosa di assai vago; tuttavia limperativo di tematizzare, piuttosto che nascondere, le condizioni soggettive e politiche della ricerca, nonch le retoriche rappresentative adottate, si diffuso in modo ampio e irreversibile.
Gli antropologi che si sono trovati a lavorare in contesti dominati dalla violenza, dunque, non hanno pi potuto fingere di ignorarne gli effetti sul loro campo di studio e sul proprio stesso ruolo di ricercatore. Del resto, nello stesso periodo (pi o meno, lultimo quarto di secolo), altre condizioni hanno contribuito a far emergere in primo piano il problema della violenza etnica e politica. Non mi sembra irrilevante il fatto che protagonista di questa stagione degli studi sia stata una generazione di antropologi formatasi negli anni 60, nel clima della contestazione studentesca, dei movimenti di liberazione antiimperialista, dellopposizione alla guerra in Vietnam, di ampia diffusione di una cultura pacifista e dei movimenti per i diritti umani. Sono anche gli anni in cui nella cultura occidentale emerge progressivamente la memoria della Shoah come tema portante della coscienza contemporanea, e le figure della vittima e del testimone divengono emblemi della soggettivit tardo-moderna (Wieviorka 1998). Molti di questi studiosi, in aperto contrasto con gli ideali di distacco e neutralit scientifica che avevano guidato generazioni precedenti, hanno cercato di coniugare il rigore della ricerca scientifica con la passione dellimpegno etico-politico sostenendo anzi che il primo non veramente tale se non fa i conti (riflessivamente, appunto) con il secondo. Al centro di questo impegno non poteva non collocarsi la denuncia e lanalisi delle forme di sopraffazione e violenza sia quella palese sia quella simbolica connessa alle forme del potere e ai relativi campi del sapere, secondo la lezione di teorici in questi anni assai influenti come Foucault e Bourdieu. Ci non significa affatto, o almeno non necessariamente, trasformazione dellantropologia in una disciplina militante (un esito, come vedremo, auspicato invece da una delle autrici di questo volume; v. Scheper-Hughes 1995): significa per una profonda trasformazione dellagenda teorica e del modo stesso di concepire il compito della rappresentazione etnografica.
Un terzo grande ordine di motivi, ancora, contribuisce allinevitabile incontro di antropologia e violenza nellultima parte del Novecento. Mi riferisco ai mutamenti nella natura delle guerre e della violenza che affligge molte parti del mondo, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda. I conflitti regionali cosiddetti a bassa intensit, cos come gli scontri etnici o religiosi, le guerre sporche latino-americane e la violenza di stato, la pratica sistematica del terrorismo cancellano progressivamente il confine tra guerra e non guerra, tra militari e civili, tra normalit dei rapporti sociali e straordinariet o emergenza dello stato di guerra. Nei conflitti di fine secolo, come noto, la gran parte delle vittime (tra ottanta e novanta per cento) si conta fra i civili; il monopolio statale della violenza si allenta a favore della proliferazione di gruppi paramilitari; colpire e terrorizzare le popolazioni non pi un effetto collaterale, ma lobiettivo stesso delle strategie belliche 4
e dei nuovi metodi di combattimento (Kaldor 1999, pp. 15-18, 117; v. anche Lutz 1999, p. 610). In ci gioca un ruolo anche la diffusione di particolarismi e di politiche dellidentit etnica, che trapassano in alcuni casi in pratiche sistematiche di pulizia etnica e talvolta di vero e proprio genocidio, come nei due casi paradigmatici del Ruanda e della ex- Jugoslavia, discussi in alcuni saggi di questo volume.
La violenza assume dunque un carattere pi diffuso nel tempo e nello spazio, penetra a fondo nella quotidianit, inverando la citatissima ottava tesi sulla filosofia della storia di Walter Benjamin - La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato di emergenza" in cui viviamo non pi leccezione ma la regola. Anche unantropologia tutta concentrata sulle strutture piuttosto che sugli eventi non pu pi fare a meno di ignorarla. Anche perch la natura etnica dei conflitti e il loro intrecciarsi con politiche dellidentit chiamano direttamente in causa le categorie antropologiche di analisi, in alcuni casi, come vedremo, persino accusate di complicit nella costruzione di una cultura di discriminazione e di terrore. Si deve anche considerare, fra le differenze rispetto alle condizioni classiche della ricerca, che nel contesto tardo-moderno letnografo non pi solo sul campo, ma lavora accanto a giornalisti, troupes televisive, attivisti della cooperazione internazionale e dei diritti umani che proprio sui fenomeni di violenza dirigono la loro attenzione. Secondo alcuni (Avruch 2001, p. 645), stato proprio limpatto del movimento dei diritti umani ad esercitare uninfluenza decisiva sugli sviluppi dellantropologia contemporanea in particolare, con la grande diffusione di relazioni sulle violazioni di diritti, i tentativi di dar voce alle vittime, la circolazione di testimonianze spesso assai dense sul piano etnografico.
Se una simile influenza plausibile, per anche vero che lantropologia ha mantenuto un rapporto spesso assai critico nei confronti delle organizzazioni umanitarie, nelle cui politiche ha scorto assunti etnocentrici e una scarsa comprensione delle culture locali (v. ad esempio Malkki 1996). La cultura umanitaria e buona parte del discorso mediale sembrano considerare le manifestazioni della violenza nel mondo contemporaneo come legata a sacche di arretratezza, alla permanenza di una barbarie e di una irrazionalit che stridono scandalosamente rispetto alle conquiste della civilt. Vi alla base di ci quella visione progressista della storia cui Benjamin reagiva, al culmine dellaggressione fascista allEuropa, parlando di stato di emergenza permanente. Lo stupore perch le cose che viviamo sono ancora possibili nel ventesimo secolo tuttaltro che filosofico. Non all'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta pi in piedi. Al contrario, il filosofo tedesco esortava a giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto, cio alla consapevolezza di unemergenza come regola e non come eccezione (Benjamin 1955, p.76). In qualche modo, aggiungendo cultura a storia, questo il programma dellantropologia contemporanea, che non solo attribuisce significati alla violenza, ma cerca di comprenderla come costitutiva di una teoria della societ e della cultura.
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2) Scrivere la violenza Lo sviluppo di una sistematica attenzione alla violenza avviene dunque in relazione, da un lato, ai mutamenti delle condizioni strutturali nelle quali il lavoro antropologico ha luogo, dallaltro alla svolta riflessiva della disciplina e alla crisi della rappresentazione che la investe. Chi decide di affrontare questo campo si trova cos di fronte, in primo luogo, al problema di come scrivere la violenza. I modelli discorsivi classici, dalle trasparenze etnografiche di Evans-Pritchard ai cristalli semiotici di Lvi-Strauss, sembrano poco appropriati; n vengono molto in aiuto le vaghe formule postmoderne che suggeriscono rappresentazioni dialogiche e polifoniche. Ci che occorre ripensare il presupposto usuale della scrittura etnografica, che classica o postmoderna si pone lobiettivo di scoprire e restituire un ordine culturale, lethos di una societ, la profonda coerenza di un modo di vita. proprio questordine che viene disintegrato nelle situazioni di violenza radicale. Soprattutto nelle nuove guerre di fine XX e inizio XXI secolo, la distruzione delle pi basilari strutture antropologiche non pi soltanto un effetto collaterale dei combattimenti, ma un obiettivo consapevolmente perseguito. Le operazioni di pulizia etnica, come osserva Mary Kaldor (1999, p. 116), mirano a rendere un territorio inabitabile, non solo colpendone lorganizzazione produttiva, ma anche istillando ricordi insopportabili sulla patria di un tempo oppure profanando tutto ci che ha un significato sociale: ad esempio attraverso la rimozione dei punti di riferimento fisici che definiscono lambiente sociale di particolari gruppi di persone, oppure la contaminazione attraverso lo stupro e labuso sessuale sistematicoo mediante altri atti di brutalit pubblici e molto visibili.
Lantropologa Carolyn Nordstrom, a proposito delle sue esperienze in Sri Lanka e in Mozambico, parla di guerre in cui il controllo del territorio perseguito disseminando paura, brutalit e assassinio. La cultura del terrore che ne risulta si basa sulla forzata decostruzione delle realt accettate nella vita quotidiana, in modo da disabilitare i sistemi basilari di significato e di conoscenza, quelli che definiscono i mondi della vita delle persone e rendono comprensibile lazione [...] Se la cultura fonda la societ, e la societ fonda la costruzione sociale della realt, allora disabilitare le cornici culturali equivale a disabilitare, per la popolazione civile, il senso stesso di una realt vivibile, nonch la capacit individuale di agire (Nordstrom 1992, p. 261). Se lobiettivo della scrittura antropologica farci cogliere il punto di vista dei nativi, cio ricostruire la compattezza fenomenologica del loro mondo, di fronte alla violenza radicale si tratta piuttosto di restituire il senso della dissoluzione di un mondo culturale. E come se letnografo, abituato a cercare di seguire faticosamente la via che porta al significato, dovesse adesso ripercorrerla a ritroso. E in questo tornare indietro la stessa nozione di ragione etnografica viene messa in discussione. Nordstrom nota come il tentativo di capire le ragioni della guerra e della violenza si avvicini pericolosamente allobiettivo di rendere la guerra ragionevole, e rischi di fatto di mettere a tacere la realt della guerra (1995, p. 138). Dunque, la ricerca di significati e ragioni della violenza contrasterebbe profondamente con lobiettivo etnografico di comprendere il ruolo della violenza nel mondo-della-vita degli attori sociali.
Qui tocchiamo un punto importante. Si pu ben sostenere, naturalmente, che in quanto attivit umana la violenza una pratica significativa e governata- da-regole come tutte le altre, e che comprenderla equivale a scoprire tali regole e significati; se pensassimo che comprendere equivalga a perdonare, confonderemmo lidioma disciplinare delle scienze sociali con il linguaggio quotidiano (Abbink 2000, pp. xii-xiii). Ma largomento sollevato da Nordstrom mette proprio in discussione ladeguatezza del normale linguaggio delle scienze sociali, con i suoi effetti distanzianti e generalizzanti, con la sua ricerca di un coerente insieme di motivi, ragioni, 6
cause[3]. Un ulteriore problema si pone per quegli etnografi che lavorano in contesti dominati dalla violenza di stato, dove le atrocit, le torture e la repressione sono al tempo stesso supportati e celati da un ordine discorsivo normalizzante, che le mostra appunto come ragionevoli e necessarie (ad esempio presentando il terrore come contro-terrore; v. Chomski 2004). Alcuni autori, in particolare M. Taussig, hanno avvertito il rischio di parlare del terrore con un linguaggio eccessivamente contiguo a quello che il terrore copre contiguo se non nei contenuti, almeno nella forma di un ordine discorsivo conciliante, di una asettica chiusura nelle convenzioni accademiche, di un realismo che normalizza lo status quo. La complicit reale, non soltanto simbolica, dal momento che il fatto stesso di parlare della violenza (ad esempio la diffusione di un repertorio di storie di atrocit) parte integrante della cultura del terrore, anzi ci che le permette di funzionare. Il legame indissolubile di violenza e ragione che fonda lo Stato moderno (il discorso della ragione come guanto di velluto che nasconde il pugno dacciaio) per Taussig[4] allorigine dellinevitabile aporia in cui cadono i tentativi delle scienze sociali di parlare della violenza. Aporia che prende la forma di mimesi tra la rappresentazione e ci che viene rappresentato[5].
Costruire un controdiscorso, scrivere del terrore contro il terrore, diventa allora una faccenda assai complicata, che richiede almeno per Taussig - una sovversione delle convenzioni compositive e della poetica del bene e del male radicata nel discorso egemonico; per accostarsi invece a quella poetica dello sciamanismo e della guarigione cui fa cenno in conclusione del saggio qui presentato, e che svilupper nella sua pi nota monografia (Taussig 1987). Ne risulta una scrittura frammentaria, discontinua, pi evocativa che analitica e peraltro non sempre facile da seguire soprattutto nelle opere degli anni Novanta. Non tutti gli etnografi sono, come Taussig, ossessionati dalla compenetrazione tra discorso e potere, e dai tranelli mimetici di una violenza che pu infiltrarsi nelle forme stesse della sua rappresentazione e persino della sua denuncia. Tutti sono per alla ricerca di forme di scrittura adeguate a restituire la particolare tensione fra aspetti epistemologici, emozionali ed etici della propria esperienza di ricerca. I problemi sollevati dalletnografia della violenza non sono forse diversi da quelli che caratterizzano oggi letnografia tout court; si manifestano per in modo pi accentuato e spesso decisamente drammatico. Ad esempio, la classica tensione malinowskiana fra lesperienza di partecipazione soggettiva del ricercatore, da un lato, e dallaltro le esigenze di oggettivit della rappresentazione, cambia aspetto quando il ricercatore coinvolto in esperienze di altissimo impatto emotivo, di terrore, di rabbia, di odio che annullano ogni possibile margine di distacco scientifico.
Ancora, uno dei problemi sollevati dalla svolta riflessiva dellantropologia il diritto delletnografo di parlare in nome dei soggetti della sua ricerca assume qui caratteristiche peculiari. Non si tratta solo del fatto, ormai ampiamente affermato dalla tradizione dei cultural e postcolonial studies, che la presa di parola antropologica per conto degli Altri si fonda su presupposti di potere non analizzati, collocando i prodotti antropologici nellambito del discorso coloniale. Il posizionamento politico e discorsivo degli etnografi della violenza pi complesso e ambiguo di quello classico analizzato da critici come E. Said e G. Chakrabarti Spivak. In molti casi, la presa di parola concordata con gli attori sociali, i quali possono vedere nel rapporto con letnografo, nella scelta di affidare alla sua scrittura informazioni riservate, segrete o magari strettamente intime, un importante ritorno comunicativo e pragmatico. I terroristi nord-irlandesi che concordano con letnografo le modalit di scrittura di un libro a loro dedicato (Sluka 1989, 1995a); i parenti dei desaparecidos argentini che confidano nel ricercatore, straniero e scientificamente obiettivo, perch si faccia portatore di una denuncia che in patria non riesce a farsi sentire (Robben 1995); i 7
rifugiati che vedono nellintervista biografica una legittimazione della loro storia e un riconoscimento del loro status (Malkki 1995a), sono solo alcuni fra gli esempi di un rapporto non unilaterale, di un complesso negoziato tra gli interessi delletnografo e quelli dei suoi interlocutori.
Il problema che si pone di tipo diverso, e riguarda la messa in scena dello spettacolo del dolore e della sofferenza. Proprio per la sua pretesa di mantenersi vicina allesperienza vissuta, di mostrare la violenza non nella genericit delle sue ragioni politiche ma negli effetti sui corpi e sulle soggettivit degli attori sociali, letnografia lascia emergere in primo piano i dettagli delle atrocit e i tormenti della memoria di chi sopravvissuto. Questo sguardo ravvicinato, sia sullorrore della violenza fisica e della tortura, sia sullumiliazione e la disperazione di persone colpite alle basi stesse della propria dignit e dei propri affetti, produce per il lettore un effetto irriducibilmente ambiguo. La descrizione puntigliosamente dettagliata delle sevizie subite dagli indios del Putumayo, nel saggio qui presentato di Taussig, ne un esempio; non meno forti e disturbanti sono i resoconti delle scene di genocidio, degli stupri e delle torture eseguite pubblicamente, delle mutilazioni dei corpi che punteggiano le etnografie delle nuove guerre contemporanee. Da un lato, lo shock emotivo che tutto ci provoca pu diventare strumento di testimonianza e di denuncia: la scrittura consegue il suo scopo scuotendo e indignando il lettore, e combattendo cos quellindifferenza che troppo spesso ha accompagnato le violenze di massa nella modernit. Dallaltro lato, tuttavia, lo spettacolo ravvicinato della violenza pu suscitare effetti pornografici e voyeuristici, e la scrittura etnografica degenerare in una messa in scena in cui corpi e anime afflitti sono arbitrariamente e talvolta oscenamente esposti nella loro pi profonda intimit[6]. Ci si chiede allora se la trasparenza etnografica sia un atteggiamento moralmente legittimo di fronte alla sofferenza, e se lindignazione militante non possa troppo facilmente trapassare in morbosit: tanto pi allinterno di un contesto comunicativo e mass-mediale che ci ha fin troppo abituati allo sfruttamento delle immagini di violenza e alla penetrazione morbosa dellintimit emotiva a fini di audience e di successo commerciale (Sontag 2003, p. 83 sgg.). Non forse immorale usare quel dolore per sostenere la nostra impresa rappresentativa? Non sarebbe pi corretto e rispettoso tacere, ritrarre lo sguardo in nome di una piet che non forse del tutto compatibile con la ragione etnografica? Naturalmente, tacere non serve per a portare testimonianza, a rendere o almeno a chiedere pubblicamente giustizia per le vittime.
Il confine tra i due aspetti delletnografia della violenza testimonianza e spettacolo, denuncia e pornografia non mai ben definito. N. Scheper- Hughes e P. Bourgois (2004, p. 1) lo fanno dipendere dalla capacit di tener conto delle dimensioni sociali e culturali che conferiscono significato alla violenza, non limitandosi a rilevarne i soli aspetti fisici. Ma per lavori antropologici questa poco pi di una tautologia. Pi che dalla natura del testo (o dalle intenzioni dellautore), la risoluzione in un senso o nellaltro dellambiguit sembra dipendere da effetti di lettura e dalle diverse sensibilit dei lettori. E curioso che uno stesso autore, ad esempio il gi citato Taussig, possa esser considerato da alcuni come ossessivamente volto a sottolineare il perverso erotismo della violenza estrema (Avruch 2001, p. 643); da altri (e a mio parere pi sensatamente), come portatore, con la sua capacit di raffigurare il terrore visceralmente, di una istanza morale contro il potere esercitato nelle sue forme pi grottesche (Green 1995, p. 107).
Una possibile uscita dallambiguit pu consistere in una etnografia centrata attorno alle voci dirette dei testimoni, in grado di aggirare (almeno in apparenza) i rischi di effetti estetizzanti e voyeuristici. In effetti, questa 8
strategia cospicuamente presente nella letteratura recente a fronte di un uso assai limitato delle fonti orali nella tradizione etnografica anglosassone. L. Green (1995, p. 108) sintetizza questo atteggiamento nella formula dell antropologo come uno scriba, che documenta fedelmente le storie narrate dalla gente, ci che essi hanno visto, sentito, annusato, toccato, interpretato e pensato. Qui sorgono tuttavia nuove difficolt. Intanto, quando i testimoni sono i perpetratori della violenza piuttosto che le vittime, la posizione morale del ricercatore si fa ancora pi complessa ed equivoca. Ci accade in numerosi lavori sul terrorismo o su gruppi di guerriglia (dove gli interlocutori sono quasi sempre al tempo stesso esecutori e vittime)[7], sulla violenza di stato, o su crimini comuni in contesti non bellici. La tensione fra le convinzioni e il senso di giustizia delletnografo, da un lato, e dallaltro la sua propensione professionale a empatizzare con gli informatori e a guardare il mondo dal loro punto di vista, si fa qui fortissima. Le riflessioni di A. Robben (1995) sulle interviste ai militari argentini responsabili della guerra sporca, su cui torner oltre, ne sono un esempio. Ancora pi forte, per lampio uso di trascrizioni di intervista e per il dilemma morale consapevolmente sollevato dallautore, il lavoro di P. Bourgois (1995) sugli stupri di gruppo nei quartieri portoricani di New York. Lo spazio lasciato al racconto diretto ed esplicito dei violentatori lascia emergere per intero il loro inquietante universo morale, e produce un profondo effetto etnografico e pornografico al tempo stesso[8].
Il problema della voce dei testimoni ha per una dimensione pi ampia, che riguarda anche le vittime stesse e che stato messo a fuoco in primo luogo dagli storici. La storiografia contemporanea sulla Shoah, ad esempio, ha guardato con un certo disagio al ruolo crescente assunto nei media dalla narrazione autobiografica come strumento principale di rappresentazione degli eventi. Se la storia di vita e la memoria individuale sono fonti importanti per il sapere storico, esse non possono tuttavia sostituirlo e rendersi del tutto autonome, come sembra accadere in quella che A. Wieviorka ha chiamato lera del testimone. Ora, contrapporre nettamente il discorso storico e la testimonianza biografica, il primo rivolto alla ragione e alla ricerca critica della verit, la seconda al cuore e alla costruzione del senso (Wieviorka 1998, pp. 153-54), una semplificazione inaccettabile dal punto di vista antropologico. I dubbi sollevati da Wieviorka e da altri storici sono per tuttaltro che infondati. Non si tratta tanto di deplorare il carattere parziale e soggettivo della testimonianza e della memoria. Il perseguimento dell imparzialit sembra non avere molto senso in contesti di violenza estrema; e passare attraverso il piano degli effetti soggettivi della violenza e del terrore indispensabile, come abbiamo visto, per un approccio che si voglia definire etnografico (ne un ottimo esempio il saggio di V. Das incluso in questo volume).
Ci che occorre evitare per lassolutizzazione delle versioni testimoniali come rappresentazioni realistiche della verit. Il lavoro antropologico sulle storie di vita, cos come gli studi psicologici sulla memoria individuale e collettiva, ci mostrano la complessit delle procedure di plasmazione culturale del ricordo autobiografico, di fusione tra esperienze personali e modelli culturali diffusi[9]. Ci rende i racconti testimoniali documenti di inestimabile valore antropologico, senza che tuttavia il discorso etnografico stesso si possa esaurire in essi o nascondersi dietro la loro autorit. Il rischio del ventriloquismo etnografico denunciato in un famoso passo di C. Geertz (1988, p. 145) si fa qui particolarmente forte; cos come peraltro si fa forte, se non insormontabile, la difficolt di sottoporre a critica delle fonti e ad esercizi di distaccato scetticismo i racconti drammatici ed emotivamente esplosivi delle vittime di violenza estrema. Ancora una volta, limpatto con il dolore e la sofferenza, oltre che con limplicita o esplicita richiesta di solidariet e partecipazione umana, sembra paralizzare latteggiamento scientifico e porre in questione le pi consolidate forme di scrittura. 9
Vorrei far notare la prossimit tra questi problemi e quelli posti dal dibattito storiografico ed epistemologico sulle modalit di rappresentazione della Shoah un ambito con il quale lantropologia ha finora dialogato troppo poco. Anche in questo caso, sono centrali i dilemmi etici sollevati dalla rappresentazione della sofferenza e quelli relativi al rapporto tra scrittura ed eventi estremi. Quale forma espressiva consente di parlare legittimamente della Shoah nel senso di restituire la natura terribile e peculiare dellevento, e rispettare al contempo la memoria delle vittime? Come Adorno sosteneva che barbaro fare poesia dopo Auschwitz, non potremmo considerare ugualmente inappropriata sul piano etico la scrittura saggistica e accademica, con il suo sfoggio di erudizione, le sue note a pi di pagina, il suo compiacimento intellettualistico (Kellner 1994, p. 409)? Loggettivazione e il distanziamento storiografico non contrastano forse con le istanze della memoria e del lutto? E, soprattutto, il medium ordinante e normalizzante della scrittura non tradisce di per s lessenza estrema della pratica genocida, che consiste proprio nello spezzare lordine e la normalit culturale? Come osserva J. Young (1988, p. 16), una volta scritti, gli eventi assumono laspetto della coerenza che la narrativa necessariamente impone loro, e il trauma della loro non assimilabilit superato laddove proprio la traumatica straordinariet ci che la testimonianza intenderebbe restituire.
Sulla base di queste premesse, il dibattito si concentra sul realismo come strategia di rappresentazione. Si sostiene da un lato la necessit di rappresentare la Shoah attraverso uno stile fattuale, che conceda il meno possibile alla costruzione letteraria e agli interventi esplicitamente autoriali[10]. Dallaltra, si obietta che quando la realt stessa diventa cos estrema e aberrante, straordinaria rispetto al contesto culturale comune, un semplice linguaggio fattuale non pi in grado di restituirne la qualit. Il primo argomento molto forte: lesperienza della Shoah segnerebbe il limite invalicabile oltre il quale non pu spingersi la decostruzione postmoderna delloggettivit e della verit storica. Come pensare di mettere in discussione la fondamentale realt dellevento, o meglio, come accettare la possibilit di una medesima infondatezza di pi versioni narrative, ad esempio quella dei carnefici e quella delle vittime? La ripugnanza morale per gli esiti relativistici del decostruzionismo, potenzialmente di supporto alle tesi negazioniste, ha spinto molti autori in questa direzione[11]; e largomento spesso ripreso nella letteratura etnografica sulla violenza. Di fronte allenormit delle stragi, delle torture e degli stupri, e alla profondit della sofferenza incontrata, sembra intollerabile lidea di una pluralit di versioni possibili degli eventi e della dipendenza dellidea stessa di verit da finzioni retoriche[12].
Tuttavia, come detto, la letteratura etnografica ben lontana dal seguire modelli di scrittura cronachistica e fattuale. Al contrario, proprio lo sforzo di cogliere la verit ultima della violenza, lautenticit di una esperienza straordinaria e non convenzionale, spinge i ricercatori verso forme di scrittura varie e complesse di tono pi modernista che realista, con ampio uso di riflessioni soggettive e di estratti di diari e note di campo, con lo stretto intreccio tra narrazioni di eventi e sollecitazioni teoriche e interpretative, la giustapposizione di contesti ottenuta attraverso i frequenti riferimenti letterari. Unanalisi in questo senso del corpus etnografico prodotto dagli anni 90 ad oggi sarebbe estremamente interessante. Il piano etnografico non tuttavia centrale nei saggi di questo volume, che mirano piuttosto a costruire una cornice teorica in cui inquadrare i fenomeni della violenza di massa contemporanea. Nel resto dellintroduzione, vorrei discutere appunto alcuni aspetti del dibattito teorico.
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3) Identit e violenza Un tratto peculiare delle nuove guerre, forse il tratto peculiare, la loro connessione con politiche dellidentit, vale a dire con movimenti che muovono dallidentit etnica, razziale o religiosa per rivendicare a s il potere dello stato (Kaldor 1999, p. 90). Nel linguaggio giornalistico e nellopinione pubblica occidentale, si infatti parlato prevalentemente di conflitti etnici o, nel caso dellAfrica, tribali, intendendo con questo che: a) i gruppi in conflitto sono definiti sulla base di unappartenenza e di vincoli pre-politici, cio della condivisione di certi tratti razziali e culturali (il sangue, la lingua, la religione, etc.) concepiti come patrimonio antichissimo e primordiale; b) le cause del conflitto, al di l di specifiche contingenze storiche, sono da individuarsi in odii ancestrali tra gruppi etnici, che covano costantemente sotto la cenere per emergere periodicamente in modo esplosivo. In molti casi, una simile concezione primordialista dellappartenenza e del conflitto esplicitamente sostenuta e usata come forza ideologica e strumento di consenso dalle parti in lotta: un caso paradigmatico naturalmente quello della ex-Jugoslavia, dove i diversi nazionalismi hanno alimentato la guerra sostenendo che i croati non possono vivere insieme ai serbi, questi non possono vivere insieme ai musulmani e cos via, rivangando presunti motivi di divisione che si perderebbero nella storia.
Ora, laddove non assuma tinte decisamente razziste, una simile concezione dellappartenenza sembra poggiare su categorie antropologiche quali cultura, tradizione, identit. Pi di ogni altra scienza, lantropologia si battuta nel corso del Novecento per laffermazione dellidea di culture compatte, autonome e distintive, di pari dignit e tendenzialmente incommensurabili, come patrimonio dei diversi popoli. Lelaborazione di una nozione pluralista e relativista di culture avvenuta nel quadro di un deciso impegno antietnocentrico, sul piano epistemologico come su quello etico- politico. Impegno volto al riconoscimento della dignit delle culture cosiddette primitive, nonch alla valorizzazione e salvaguardia della diversit culturale a fronte dellomologazione prodotta dallimperialismo e dalla occidentalizzazione. Il discorso sulle culture e sulle identit, plasmato allinterno dello specialismo disciplinare, ha incontrato resistenze ma lentamente entrato a far parte del linguaggio comune. In questo passaggio i concetti si sono per fortemente reificati: culture e identit sono state intese come essenze pi o meno immutabili, quasi-naturali, non costruite nella storia e nei rapporti politici ma date prima e indipendentemente dalla politica e dagli eventi storici. Inoltre il loro segno progressivamente cambiato: se ne sono appropriati ideologie xenofobe e fondamentaliste, aggressivi nazionalismi e regionalismi, movimenti volti pi al mantenimento del privilegio che al riconoscimento delle differenze. Una volta naturalizzati, tali concetti sono stati posti a fondamento di politiche di pregiudizio e intolleranza in una parola, di un atteggiamento neo-razzista, in unepoca in cui il razzismo classico di impronta biologica, screditato dalluso fattone dal nazismo, non sembrava pi sostenibile.
A questi usi pubblici dellidentit culturale ha fatto riscontro una radicale critica (o autocritica) da parte degli studi antropologici. Nel dibattito disciplinare degli ultimi decenni del Novecento ha giocato un ruolo centrale la revisione del concetto di cultura, secondo linee argomentative molto note che qui appena il caso di rammentare. Da un lato, si reagito alla essenzializzazione della identit culturale, insistendo sulla sua natura di costrutto teorico o di finzione retoricamente prodotta allinterno della scrittura etnografica: non una peculiarit delloggetto, dunque, ma una modalit dello sguardo antropologico. Dallaltro lato, si cercato di 11
mostrare che le rivendicazioni identitarie, laddove si diffondono in determinati contesti storico-sociali, lo fanno in relazione a precisi interessi o conflitti di potere, ai quali forniscono un supporto ideologico. Ne risulta che i discorsi dellidentit possono accompagnare i conflitti, ma non ne sono la causa: non rappresentano condizioni prepolitiche dei rapporti tra gruppi umani, e dai rapporti politici sono invece determinati. Quando gli uomini entrano in conflitto non perch hanno costumi o culture diverse, ma per conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici perch quello delletnicit diventa il mezzo pi efficace per farlo (Fabietti 1995, p. 151). Nelle sue forme pi radicali, lautocritica antropologica giunge a denunciare le basi stesse dellimpresa disciplinare, cio il discorso sulle differenze culturali, in quanto correlato ideologico delle strategie di potere nei confronti dellAltro: dal momento che non esistono differenze culturali date, il discorso che pretende di descriverle contribuisce in realt alla loro costruzione e perpetuazione. La differenza sarebbe dunque laltra faccia della disuguaglianza e del dominio: e unantropologia critica dovrebbe porsi come obiettivo non quello di scrivere sulle culture e sulle differenze ma di scrivere contro di esse (Abu-Lughod 1991).
Largomento che si delinea abbastanza chiaro. Le politiche dellidentit sono uno strumento della violenza; lantropologia ha contribuito in modo determinante a forgiare un discorso su identit e differenze culturali; di conseguenza, lantropologia oggettivamente complice della violenza. Per meglio dire, una di quelle discipline della violenza che accompagnano secondo lanalisi di Foucault lesercizio del potere nel regime della modernit. Nella letteratura recente sulla violenza, diversi contributi sono stati dedicati a queste forme di complicit. Ne un esempio lintensa discussione di N. Scheper-Hughes, nel saggio qui presentato, del ruolo ambiguo dellantropologia nello sterminio degli indiani californiani chiaramente visibile nel singolare rapporto tra Alfred Kroeber e Ishi, lultimo sopravvissuto di un silenzioso ma implacabile etnocidio. Di particolare interesse sono inoltre i lavori sul supporto delle scienze umane ai programmi razzisti e genocidi del nazismo e di altri regimi totalitari (Dow- Lixfeld 1994, Conte-Essner 1995, Linke 1997, 1999, Arnold 2002, Shaff 2002); nonch le ricostruzioni degli atteggiamenti intellettuali e delle prese di posizione istituzionale dellantropologia accademica di fronte alla scomparsa progressiva dei popoli indigeni, causata in modo talvolta involontario, ma pi spesso volontariamente e consapevolmente, dallimperialismo occidentale (Bodley 1990, 1992, Maybury-Lewis 2002). Nel leggere questi lavori, siamo in effetti colpiti dalla facilit con cui consistenti settori ed esponenti di spicco della disciplina abbiano aderito a ideologie di regime, e abbiano assunto posizioni di pi o meno aperta giustificazione delle pratiche genocide. Ci vale non solo per il nazismo e per i contesti totalitari, ma anche per le grandi tradizioni antropologiche dei paesi liberali. Di fronte allevidenza dei genocidi indigeni, queste ultime li hanno per lo pi accettati come una condizione inevitabile dell incontro fra civilt e culture diverse, contribuendo, come scrive John Bodley (1992, p. 47), a mascherare la dimensione politica della violenza contro i gruppi tribali. Questo autore sintetizza cos le posizioni delle diverse scuole antropologiche in proposito:
Gli antropologi sono stati ovviamente consapevoli del destino dei gruppi tribali. Per un secolo, essi sono stati a guardare mentre un gruppo dopo laltro veniva sterminato dalle politiche governative, senza fare tuttavia alcun tentativo per fermare la violenza, dal momento che la prevalente teoria evoluzionistica considerava naturale e inevitabile la scomparsa dei gruppi tribali. Con il declino dellevoluzionismo, gli antropologi hanno scoperto che la teoria funzionalista facilitava lintervento scientifico nel processo di 12
conquista, aiutando a ridurre, ma non a eliminare, la violenza della conquista politica. Gli antropologi dello sviluppo in contesto postcoloniale hanno teso ad accettare la conquista delle aree tribali interne in stati indipendenti come un inevitabile progresso del processo di costruzione nazionale (Ibid.).
Ma non si tratta solo del mancato o troppo tiepido impegno politico dei singoli antropologi o delle loro associazioni. Come detto, la stessa epistemologia della disciplina, il suo apparato concettuale, il suo modo di rappresentare, classificare, oggettivare e astrarre (Comaroff, Comaroff 2003) gli altri che al tempo stesso presuppone e sostiene la politica del dominio violento. In ambito evoluzionista, ci passato soprattutto attraverso lidea di progresso e la primitivizzazione dellaltro; nella fase relativista, attraverso la reificazione delle culture e il sogno di una loro descrizione e classificazione universale un censimento o anagrafe antropologica globale, in grado di incasellare ogni differenza e di renderla disponibile al controllo di ununica intelligenza, la nostra. Come nellanalisi dellorientalismo di Said (1978), il discorso antropologico incorpora ed reso possibile da quegli stessi presupposti che, sul piano dellazione politica, producono loppressione e la violenza. Non questione dunque di buona volont dei singoli studiosi: la disciplina non riformabile, secondo tale concezione, e pu esser solo completamente rifondata a partire da una prospettiva antiegemonica.
Lambito dei post-colonial studies lega strettamente linteresse per la violenza con questo approccio radicalmente critico allintera tradizione antropologica. Portare in primo piano la violenza, soprattutto quella che percorre lasse egemonia-subalternit (nel senso sia di violenza di classe che di relazioni internazionali neo-imperialiste), farebbe esplodere le contraddizioni interne allantropologia classica, colpendo quello che forse il suo principale nucleo epistemico la necessit di nascondere dietro una maschera culturalista la natura politica, oppressiva e in ultima analisi genocida dell incontro con gli altri. A mio parere questo tipo di critica, per quanto ineludibile, va accolto con molte cautele. In primo luogo, non trovo giustificata la sua pretesa di rovesciare la tradizione ermeneutica o interpretativa dellantropologia in nome di un neomaterialismo tutto volto a identificare le cause reali dei fenomeni storici al di sotto delle apparenze sovrastrutturali (la cultura, il significato). In secondo luogo, mi pare che occorra distinguere lanalisi dei presupposti retorico-politici del discorso antropologico da un giudizio storico ed etico sulla disciplina una confusione, questa, che ha caratterizzato anche alcune letture di Said. Le denunce di complicit rivolte allantropologia accademica non sembrano tener conto dei contesti storici in cui essa si sviluppa. Occorre chiedersi quale ruolo abbia svolto il discorso antropologico, nelle varie fasi del suo sviluppo, in relazione al senso comune e alle posizioni prevalenti dellopinione pubblica o di altre scienze. Storicizzando, possiamo forse formulare un giudizio pi prudente e articolato, senza fare di ogni erba un fascio. Possiamo constatare, ad esempio, come lantropologia si sia in prevalenza caratterizzata per la promozione di una sensibilit antietnocentrica a fronte di istituzioni politiche e di unopinione pubblica apertamente razzista; come abbia sostenuto le ragioni della comprensione e del dialogo contro quelle del puro dominio economico e militare[13].
Lasciando per il momento sullo sfondo questa discussione, quel che certo che molti antropologi contemporanei hanno reagito alle interpretazioni di senso comune delle nuove guerre contestandone la natura e lorigine specificamente etnica, e denunciando la strumentalizzazione che del discorso etnico e identitario fanno alcune parti in conflitto. I saggi di J. Bowen e di R. 13
Hayden qui presentati sono esempi chiari e molto netti di questa reazione antropologica allinterpretazione etnicista sostenuta dalla maggior parte dei media. Entrambi sostengono che i conflitti cosiddetti etnici sono il prodotto di scelte politiche compiute dallalto e non del naturale scontro fra identit precostituite. Bowen sviluppa un argomento generale, in riferimento a una pluralit di casi ma con lattenzione particolarmente rivolta a Ruanda e Balcani; Hayden si concentra sulla ex-Jugoslavia, sottolineando il ruolo cruciale dei nazionalismi e della loro convinzione (non solo serba e croata) che unaggregazione statale sia possibile solo su base etnica. Il rapporto tra eventi politici, violenza e quella che potremmo chiamare realt antropologica dei territori interessati qui capovolta rispetto allinterpretazione comune. Non abbiamo a che fare con strutture antropologiche (separazioni etniche, divisioni identitarie) che rendono impossibile la convivenza e laccordo politico e che, venuto meno loppressivo dominio comunista (Balcani) o coloniale (Africa), esplodono producendo disgregazione politica e conflitti violenti. Al contrario, la violenza lunico modo in cui i nazionalismi possono imporre il proprio modello ideale di uniformit etnica su una realt sociale e su strutture antropologiche che sono ormai divenute multietniche. Vittime reali per comunit immaginate, appunto, come si esprime Hayden parafrasando la celebre formula di Benedict Anderson.
Se largomentazione dei due saggi nel complesso convincente, ci sono per alcuni aspetti che meriterebbero di essere approfonditi. Daccordo, le appartenenze etniche non sono mai precostituite, e producono conflitti solo dove vengano spinte in questo senso dall alto, vale a dire dai leader politici e da campagne propagandistiche che fanno leva su sentimenti di paura e odio. Ma queste analisi lasciano in secondo piano il problema antropologico forse pi importante, vale a dire una valutazione del reale grado e dei motivi della diffusione del sentimento di appartenenza etnica. Hayden, come detto, imposta la sua argomentazione attorno al contrasto tra i modelli di purezza etnica immaginati e promossi dai nazionalismi e la cultura vivente dei territori jugoslavi vale a dire le strutture antropologiche realmente diffuse. Queste ultime sarebbero state dominate, fino al crollo del comunismo, dalla eterogeneit, dal mescolamento, da pratiche quotidiane che rendevano sempre pi irrilevante la questione dellappartenenza etnica. Proprio il solido radicamento di una realt della vita cos difforme dai modelli essenzialisti avrebbe reso necessario il ricorso alla violenza estrema della pulizia etnica. Ora, questa tesi di un multiculturalismo realizzato nella cultura viva della Jugoslavia sarebbe tutta da dimostrare sul piano empirico ed etnografico: non possono bastare i riferimenti statistici di Hayden al crescente numero di matrimoni misti e di cittadini che nei censimenti si dichiaravano jugoslavi piuttosto che appartenenti a unetnia particolare[14]. Ma, se anche cos fosse, come potrebbe spiegarsi il grande consenso, anche elettorale, suscitato dai movimenti e dalle idee nazionaliste? E soprattutto, come potrebbe spiegarsi lapparente facilit con cui si trascorsi dalla tranquilla convivenza allodio e a una inaudita pratica di violenza? Il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, ladesione di buona parte del mondo intellettuale, le campagne propagandistiche, gli effetti devastanti della crisi economica sono fattori chiave, certo, per il successo del nazionalismo pi sciovinista e per lo scatenamento dei conflitti: ma possono bastare, da soli, a dar conto della formazione di un cos vasto appoggio e di una cos immediata adesione ai progetti di pulizia etnica? E difficile pensare che tutto sia potuto avvenire cos rapidamente senza solide basi nella cultura vivente di quei territori[15].
Qualcosa di simile si pu affermare per il Ruanda. Si pu ripetere allinfinito, e con ogni ragione, che hutu e tutsi non esistono come etnie, e che la loro contrapposizione frutto delle politiche coloniali; e si pu 14
mostrare quanto il loro reciproco odio, tuttaltro che atavico, derivi da una serie di atti politici recenti e sia frutto, pi che causa, della violenza (Vidal 1997, Fusaschi 2000, p. 124 sgg.). Nondimeno, gli uomini comuni che nellaprile 1994 impugnarono il machete vivevano in un mondo fondato sullopposizione hutu-tutsi, o persone-scarafaggi, opposizione che sembrava godere dello statuto di un presupposto ontologico, mai messo in dubbio neppure per un istante. La propaganda radiofonica e le strutture di partito hanno reso organizzativamente possibile il genocidio, ma hanno trovato terreno fertile, e volenterosi carnefici senza nessuna incertezza su chi fosse il nemico da fare a pezzi. Hanno cio trovato una realt vivente, una struttura antropologica di base nella quale il genocidio era fin dallinizio una possibilit concreta. Lantropologia non pu trascurare il problema delle modalit della costituzione di un sentimento di appartenenza e di contrapposizione etnica cos forte. E scontato che si tratti di un sentimento e di una contrapposizione storicamente creati e non naturali: ma una volta ribadito questo punto, tutto il lavoro di interpretazione della visione del mondo locale, dei significati attribuiti allidentit hutu e a quella tutsi, resta ancora da fare.
Trasportati dalla corretta critica alle visioni essenzialiste dellidentit etnica, Bowen e Hayden eccedono nel ricondurre ogni aspetto delle politiche identitarie a pura ideologia inculcata dallalto. La capacit dei leader di convincere e persuadere la gente a odiare e uccidere sembra la condizione necessaria e sufficiente del genocidio; e un simile argomento porta a trascurare la profondit del radicamento storico di appartenenze e divisioni, il grado di consolidamento della memoria o del sentimento etnico. Questultimo ha una propria autonomia come ambito di motivazione di comportamenti individuali e collettivi, come elemento costitutivo delle soggettivit che sono protagoniste dei genocidi[16]. Per quanto inestricabilmente intrecciato alla politica, non neppure integralmente riducibile ad essa. Questa irriducibilit fondamentale per la prospettiva antropologica, poich la stessa che si d fra modelli culturali e astratta razionalit. Se pensassimo di poter dissolvere senza residui lopaco spessore della cultura nella trasparenza della ragione utilitarista o economica, lantropologia perderebbe in effetti la propria ragion dessere. Se la nostra disciplina serve a qualcosa di fronte alla complessit del mondo contemporaneo (e della sua violenza), il suo contributo consiste nellintegrare luniversalismo della teoria politica pura con una sensibilit per le peculiarit locali aprendo la teoria politica, come si esprime C. Geertz (1999), al lessico eterogeneo e impreciso delle differenze culturali.
4) Violenza, stato e il continuum genocida Dunque, la relazione causale che molti antropologi istituiscono fra pratiche amministrative dello Stato-nazione, politiche identitarie e violenza appare troppo schematica e determinista. Si teorizza talvolta una violenza intransitiva, che pu operare concettualmente prima di manifestarsi nellazione (Bowman 2001, p.27), presente in ogni istituzione promotrice di confini e identit: la violenza non una performance nel corso della quale una entit compatta (una persona, una comunit, uno Stato) viola lintegrit di unaltra; piuttosto, essa consiste nel processo stesso che genera tali identit compatte per mezzo della inscrizione di confini (Ibid., p. 28). Una enunciazione come questa, a parte lenigmatica inclusione del concetto di persona, sembra considerare la costruzione di comunit e identit sociali come una artificiosa e interessata forzatura rispetto a uno stato naturale di assenza di confini e, per cos dire, di afflato universale dellumanit dal quale la violenza sarebbe assente. Un assunto, questo, spesso implicitamente presente nelle posizioni di una critical anthropology tutta volta a indicare lorigine della disuguaglianza e della violenza nello 15
Stato, in particolare nel moderno Stato-nazione e nelle sue politiche identitarie[17]. Ora, evidente che sul piano storico non si pu stabilire un nesso esclusivo e causale tra stato-nazione, politica della differenza-identit e violenza: proprio lantropologia ci mostra la presenza di questi ultimi due elementi al di fuori della forma statuale. Daltra parte, in relazione al contesto contemporaneo, attribuire le cause della violenza e della discriminazione a un fattore cos generale come lo stato non ha molto senso, e non ci pone in grado di distinguere societ pi o meno violente (al loro interno e nei confronti di altre); n ci consente di valutare, nelle forme moderne di gestione del potere, il rapporto e la tensione tra gli aspetti repressivi, da un lato, e dallaltro il riconoscimento dei diritti e della dignit degli individui (ancora una volta, e in varia misura, interni ed esterni). Pensare al nazismo, al nazionalismo balcanico o alla carneficina ruandese come al disvelamento della vera natura delle istituzioni della modernit o del liberalismo pu essere unutile provocazione, ma di certo una prospettiva parziale, mossa da esigenze pi ideologiche che analitiche.
Lo stesso vale per la nota affermazione di J.L.Amselle (1990, p. 35) sul genocidio come paradigma identitario pi efficace della nostra epoca. Una definizione che equipara senzaltro la violenza assoluta con le tensioni identitarie, identificando in queste ultime il male del secolo e trascurando cos altri fattori, come il totalitarismo (dal nazismo al nazionalismo hutu, le politiche dellidentit divengono genocide quando si combinano con regimi totalitari). Del resto, secondo una diffusa tesi storiografica (Sternhell 2001), le radici culturali del fascismo e del nazismo stessi starebbero nellantiuniversalismo romantico, nelle filosofie, come quella herderiana, che vedono come protagonista della storia la comunit umana localmente situata pi che lastratta e disincarnata ragione universale dellilluminismo. Il che renderebbe equivoca e sospetta, e potenzialmente genocida, quella sensibilit per la differenza che caratterizza lintera tradizione del pensiero antropologico, nella quale Amselle in effetti non sa vedere altro che gli aspetti classificatori ed essenzialisti e che riduce a puro strumento del potere coloniale e addirittura, esagerandone limportanza, a uno dei fondamenti della dominazione europea sul resto del pianeta (Ibid., pp. 41-42): lintento etnologico deve essere visto essenzialmente come il modo di realizzare praticamente il potere dei dominatori, modo che sfocia a sua volta nella etnologia come disciplina (p. 44). Eccoci dunque di nuovo al tema della complicit. Oltre che assai semplicistica sul piano della storia delle idee, questa tesi stabilisce una serie di equazioni discutibili: lantiuniversalismo antropologico fa tuttuno con le politiche identitarie dello stato-nazione; e queste ultime sono assunte a cause principali della violenza genocida. Siamo cos portati a trascurare il problema veramente importante: e cio, perch allinterno di un mondo fortemente interconnesso, percorso, certo, da sentimenti identitari plasmati dalle politiche degli stati- nazione, si determinino talvolta le condizioni di pratiche genocide.
Tuttavia, per quanto la critical anthropology indulga sovente in semplificazioni e scorciatoie teoriche difficilmente accettabili, il problema del nesso tra la violenza di massa contemporanea e le discipline di controllo dello stato moderno importante e profondo. In questo volume, esso colto nel modo pi pieno da Nancy Scheper-Hughes attraverso la nozione di continuum genocida, riferita a quelle violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate che si praticano negli spazi sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie dospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori pubblici. Questo continuum rinvia alla capacit umana di ridurre gli altri allo status di non-persone, di mostri o di cose, per mezzo di varie forme di esclusione sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione, pseudo- speciazione e reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la violenza verso gli altri. 16
Lantropologa statunitense tornata spesso su questo tema negli ultimi anni fra laltro, curando insieme a Philippe Bourgois unantologia dal significativo titolo Violence in War and Peace (Scheper-Hughes, Bourgois 2004), che raccoglie e affianca in modo provocatorio resoconti e interpretazioni dei grandi genocidi e delle piccole violenze incastonate nella normalit quotidiana. La sua carriera di ricercatrice lha portata a confrontarsi sistematicamente con questultimo tipo di situazioni: dal suo primo lavoro su un villaggio irlandese, caratterizzato da una socialit patogena che rendeva la vita impossibile a certe categorie di persone sfociando in un alto tasso di disturbi psichici (Scheper-Hughes 2000b [1980]), ai pi recenti studi sulla mortalit infantile nelle baraccopoli brasiliane (1992) e sul commercio internazionale di organi (Scheper-Hughes 2000a, 2001, 2004; Scheper-Hughes, Wacquant 2002). Ci che caratterizza queste e analoghe forme di violenza strutturale il legame con istituzioni e forme di potere volte a preservare privilegi, da un lato, e dallaltro la tendenza a esercitarsi secondo le linee di una classificazione gerarchica di individui e gruppi, colpendo quelli che sono considerati in qualche modo come non pienamente umani (la strategia della pseudospeciazione, secondo lespressione di E. Erikson[18]; Scheper-Hughes, Bourgois 2004, p.21). Sono tali caratteristiche che accomunano, per qualit, questa violenza a quella che si manifesta nei grandi genocidi del ventesimo secolo[19].
Le categorie interpretative che la studiosa utilizza insistono appunto in questa direzione: il caso della nozione di crimini di pace, che Franco Basaglia aveva introdotto nel 1975 in riferimento alle pratiche repressive delle istituzioni totali, ma anche a tutte quelle forme di disciplinamento dei corpi e delle menti che cancellano la dignit di individui stigmatizzati trattandoli come non-persone (Basaglia, Ongaro Basaglia 1975). Gli stessi meccanismi di distruzione dellidentit personale descritti da Primo Levi in relazione ai lager nazisti sembrano manifestarsi nel pieno della normalit quotidiana, producendo una violenza strisciante e invisibile non solo perch praticata allinterno di istituzioni chiuse, ma perch legata a uno sfondo di consuetudine che rende difficile percepirla come tale. Beninteso, Scheper-Hughes non trascura le differenze tra i grandi genocidi e quelli piccoli e invisibili, come li definisce: e anzi, enuncia una serie di condizioni storicamente collegate ai primi, che consentono cio al potenziale genocida di trasformarsi in atto.
I genocidi sono spesso preceduti da sconvolgimenti sociali, da un declino radicale delle condizioni economiche, da disorganizzazione politica, da cambiamenti culturali improvvisi che mettono in crisi i valori tradizionali e diffondono anomia e assenza di norme. Anche i conflitti tra gruppi che competono per il controllo di risorse materiali come terra o acqua, talvolta, possono trasformarsi in eccidi di massa se combinati con sentimenti sociali che negano la basilare umanit degli avversari (Scheper-Hughes, Bourgois 2004, p. 14)
Si pu notare che tali condizioni sembrano contraddire la teoria del continuum, dal momento che legano gli eventi genocidi alla rottura della normalit istituzionale e politica, alla disgregazione dellapparato statale. Ma allora, il potere statale o la sua assenza a produrre il genocidio? Una domanda che ci riporta alle note tesi di Annah Arendt sulla contrapposizione 17
tra potere e violenza: lontano dal rappresentare la diretta espressione del potere, la violenza compare dove il potere scosso (Arendt 1969, p. 61). Il potere, scrive la filosofa, fa parte dellessenza di tutti i governi: non cos la violenza, la quale da sola non pu mai fondare un potere (ibid., pp. 54-7). Le sue osservazioni critiche sono assai pertinenti rispetto allimpianto teorico dellodierna critical anthropology: equiparare il potere politico all organizzazione della violenza ha senso soltanto se si segue la valutazione data da Marx dello Stato come strumento di oppressione nelle mani della classe dominante, cosicch linsieme della politica e delle sue leggi e istituzioni [sarebbero] pure e semplici sovrastrutture coercitive, manifestazioni secondarie di altre forze sottostanti (ibid. pp. 37-8).
Tornando a Scheper-Hughes, tutto ci non inficia tuttavia lidea di continuit fra crimini di pace e di guerra. La continuit riguarda infatti la qualit specifica della violenza genocida e le motivazioni soggettive degli esecutori. A proposito di queste ultime, lantropologa insiste sul fatto che non esiste alcun impulso specifico per la violenza di massa, la quale semplicemente incardinata nel senso comune della vita sociale quotidiana, e preparata dalle pi diffuse istituzioni e sentimenti sociali (Scheper-Hughes, Bourgois 2204, p. 22). Un punto che sembra del resto corroborato dagli studi sugli uomini comuni protagonisti della Shoah (Browning 1992), e dalle ricerche di psicologia sociale che mostrano come le aspettative di ruolo o una situazione di eteronomia o obbedienza allautorit siano presupposti sufficienti a fondare comportamenti violenti e prevaricanti[20]. Ci che manca invece nellanalisi di Scheper-Hughes la dimensione storica. Intendo dire che la tesi della continuit potrebbe essere riformulata nei termini di una genealogia della violenza genocida che ha caratterizzato il ventesimo secolo. E questo il tema di un recente studio di Enzo Traverso (2002) che analizza le origini della violenza nazista, riconducendole a una serie di fenomeni centrali in quella che potremmo chiamare la costituzione antropologica della modernit. Si tratta in gran parte di radici ottocentesche, che ancorano il nazismo (ma anche ampia parte della violenza genocida del ventesimo secolo) alla storia dellOccidente, allEuropa del capitalismo industriale, del colonialismo, dellimperialismo, della rivoluzione scientifica e tecnologica, lEuropa del darwinismo sociale e delleugenismo, lEuropa del lungo XX secolo concluso nei campi di battaglia della prima guerra mondiale (Traverso 2002, p. 22).
Il nesso tra tutti questi diversi elementi e la fenomenologia della violenza che caratterizza Auschwitz (con le peculiari trasformazioni antropologiche del lager e la pianificata esecuzione dello sterminio su scala industriale) ha a che fare con i rapporti tra potere, corpo e tecnologia. Traverso prende avvio dallintroduzione della ghigliottina, che apre unepoca di morte seriale in cui la mediazione dellapparato tecnico attenua la responsabilit morale delluccisore; prosegue analizzando lo sviluppo ottocentesco di istituzioni chiuse come le caserme, le prigioni, le workhouses o istituti di lavoro forzato e le stesse fabbriche tutti luoghi dominati dallo stesso principio di chiusura, di disciplina del tempo e del corpo, di divisione razionale e di meccanizzazione del lavoro, di gerarchia sociale e di sottomissione dei corpi alle macchine (p .37). Importanza cruciale Traverso attribuisce (seguendo in ci le tesi della stessa Hannah Arendt) allesperienza della conquista e della dominazione coloniale, in particolare di quella conquista dellAfrica che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo industriale: in essa trovano per la prima volta una sintesi storica il razzismo, che declassa certi gruppi umani in nome delle obiettive verit della scienza, lamministrazione e la burocrazia moderne e il massacro razionalmente pianificato (p. 66). Infine, decisivi appaiono gli sviluppi della pratica militare che troveranno il loro culmine nella Grande Guerra, con la formazione di eserciti di massa composti da soldati-macchina sul modello del lavoro fordista, nei quali il valore della vita umana perde radicalmente di significato e lepica della 18
gloriosa morte in battaglia viene sostituita dalla banalit della morte anonima di massa (p. 102).
Nel costruire una simile genealogia della violenza nazista, Traverso intende attribuire questultima alla storia dellOccidente contemporaneo, senza per questo vedere nel nazismo il naturale compimento di questa storia o la sua essenza profonda. Si tratta piuttosto di condizioni sul cui sfondo la violenza genocida diviene possibile:
La ghigliottina, il mattatoio, la fabbrica fordista, lamministrazione razionale cos come il razzismo, leugenismo, i massacri coloniali e quelli della Grande Guerra hanno modellato luniverso sociale e il paesaggio mentale entro i quali stata concepita e messa in atto la Soluzione finale; ne hanno creato le premesse tecniche, ideologiche e culturali; hanno edificato il contesto antropologico nel quale Auschwitz stato possibile (p. 180).
Questo contesto antropologico ha forse a che fare con la tesi del continuum della violenza di Scheper-Hughes, con lidea di uno stretto rapporto tra crimini di guerra e crimini di pace. E un simile contesto che rende sensato stabilire una relazione tra la Shoah e, poniamo, la catena di montaggio oppure la scortesia dellinfermiera di una casa di riposo che tratta i suoi assistiti come non-persone. La dimensione genealogica conferisce maggiore profondit a questa tesi, disancorandola al tempo stesso da un banale e astorico radicalismo che vede nella violenza genocida una diretta e quasi automatica manifestazione delle istituzioni dello stato moderno, o del potere in generale (una tentazione da cui la stessa Scheper-Hughes non appare sempre esente). Il contesto antropologico fabbricato dalla storia degli ultimi due secoli crea le condizioni per una peculiare qualit della violenza di massa, ma pone al contempo le basi per pratiche sociali completamente diverse, guidate ad esempio dalla pace, dal rispetto e dal riconoscimento dellaltro. Le stesse istituzioni di cui si denuncia la complicit nel trasmettere i sentimenti sociali che preparano gli stermini, tra cui Scheper- Hughes include, oltre allesercito, anche la famiglia, la scuola, le chiese e gli ospedali (Scheper-Hughes, Bourgois 2004, p. 22), contengono anche le potenzialit della pace e della giustizia sociale. In quale direzione esse vengano spinte un problema che riguarda la nostra responsabilit e le nostre scelte etico-politiche. In questo senso, difficile sottrarsi al richiamo che Scheper-Hughes ci rivolge nel saggio di questo volume: quello a saper riconoscere una potenzialit genocida anche in noi stessi, e ad esercitare una costante ipervigilanza difensiva anche verso le sue forme meno visibili e meno direttamente riconoscibili.
5) La sintassi della violenza. Vorrei tornare adesso al tema portante del rapporto tra violenza e costruzioni identitarie, considerando la discussione profonda e raffinata che ne propone Arjun Appadurai, nella sua opera principale Modernity at Large e in alcuni saggi degli ultimi anni[21]. Anche per lantropologo indiano il punto di partenza il rifiuto delle tesi primordialiste. Non il permanere di unantica conflittualit radicata nelle appartenenze locali che fonda i conflitti etnici: al contrario, questi ultimi vanno compresi nel quadro delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione e soprattutto in relazione al fenomeno del culturalismo definito come deliberata mobilitazione delle differenze culturali al servizio di pi vaste politiche nazionali o transnazionali 19
(Appadurai 1996, p. 32). Appadurai rivolge una serrata critica a quella teoria politica che vede le appartenenze primordiali come residui premoderni, fattori dinerzia che ostacolano il pieno dispiegamento della razionalit politica (lo stato) ed economica (il mercato) della modernit. Al contrario, sottolinea come la creazione di sentimenti primordiali, lungi dallessere un ostacolo per lo stato modernizzatore, si situa vicino al centro del progetto del moderno stato nazionale, come strumento di controllo e di consenso (ibid., p. 188); e come lesplosione di tali sentimenti rappresenti una delle principali reazioni dello stato agli elementi di crisi che oggi lo percorrono a fronte dei processi di globalizzazione.
Tuttavia, Appadurai si rende conto che non basta considerare questi fenomeni come ideologie imposte dallalto, e si interroga proprio su come essi possano plasmare a fondo la costituzione antropologica culturale, emozionale e corporea - di determinati gruppi sociali. Se in definitiva unampia motivazione politica a muovere le pratiche sociali, essa va per compresa nella sua capacit di inscriversi nellesperienza fisica e psichica dei soggetti coinvolti, fino nellintimit degli attori sociali incarnati (ibid., p. 191). Non si tratta di ricondurre la politica ai sentimenti primordiali, ma di seguire semmai il percorso inverso, leggendo questi ultimi sullo sfondo di foucaultiane cornici di potere e disciplina. Dunque, la sfida riuscire a catturare la frenesia della violenza etnica senza ridurla al nucleo universale e banale dei sentimenti profondi e primordiali. Dobbiamo preservare la sensazione della furia psichica e incarnata cos come lintuizione che i sentimenti coinvolti nella violenza etnica [] acquistano senso solo entro vasti conglomerati di ideologia, immaginazione e disciplina (ibid., p. 192). Se in questa dichiarazione programmatica laccento di Appadurai cade sullopposizione al primordialismo, oggi sembra di dover piuttosto sottolineare laltra esigenza, quella di una comprensione che preservi il senso della furia psichica e incarnata che nella violenza si esprime; esigenza, come detto, tanto trascurata quanto cruciale per una prospettiva che possa ancora dirsi antropologica.
Loriginalit della soluzione di Appadurai sta nel tentativo di legare la furia della violenza etnica non a certezze identitarie ataviche, bens alle incertezze che il mondo contemporaneo porta costantemente ad esperire a proposito delle identit nostre e altrui. Mentre la gente in tutto il mondo si sente sempre pi definita in termini di macro-identit inventate dagli stati nazionali, i criteri per determinare lappartenenza o meno ad esse di specifici individui o gruppi sono sempre meno chiari. Soprattutto, sempre meno chiaro se i nostri vicini, la gente che ci vive accanto, fa parte di noi o degli altri. Le mappe corporee e caratteriali cos tipiche del repertorio dei nazionalismi, classificando ogni individuo sotto la sua grande categoria etnica, non sembrano pi consentire un sicuro riconoscimento. Questa incertezza diviene cruciale in situazioni di aperto conflitto, in cui il nemico pu nascondersi fra noi; qui lesperienza quotidiana dominata, sostiene Appadurai, dalla sindrome dellinfiltrato, dellagente segreto, della falsa identit dalla possibilit che la realt non sia mai ci che sembra. In altre parole, si costituiscono universi morali dominati dallorrore per lindeterminazione e per la confusione categoriale da quella stessa ansia cognitiva per la materia fuori posto che Mary Douglas ha posto alla base dei sistemi simbolici e del concetto di tabu.
Qui sta per Appadurai la chiave di comprensione di quelle peculiari forme di violenza che caratterizzano i conflitti etnici contemporanei: una violenza che si compie fra persone che hanno spesso in precedenza vissuto fianco a fianco, negli stessi spazi sociali e in rapporti di vicinato e persino amicizia, e che implica daltra parte forme di brutalit fisica straordinariamente crudeli, con una qualit che potremmo quasi definire rituale. Queste forme di 20
violenza sono un modo per estrarre certezza da una situazione di angosciosa incertezza; non per eliminare le anomalie, come nei sistemi simbolici analizzati da Douglas, ma per dare forzatamente ordine a una realt in cui lanomalia divenuta la regola. Appadurai ha qui in mente in modo particolare i materiali discussi da Liisa Malkki nel suo importante lavoro su gruppi di hutu rifugiati in Tanzania dal Burundi a seguito dei massacri etnici del 1972 (Malkki 1995a). Lavorando sulle narrazioni dei rifugiati, Malkki mostra come esse costituiscano nel loro complesso un corpus condiviso di rappresentazioni del passato di natura, come la studiosa si esprime, mitico-storica: vale a dire, un insieme di racconti volti a produrre un ordine morale e classificatorio, che costruiscono un passato esemplare e fondano al tempo stesso il senso dellesistenza nel contesto presente (quello del campo profughi, in questo caso, particolarmente interessante perch in esso si costruisce unimmaginazione di appartenenza nazionale senza alcuna delle condizioni usuali che ad essa si accompagnano, come territorialit, istituzioni statuali etc.; v. anche Malkki 1995b, 1996). Questa mito-storia focalizzata sulla continua esplorazione, reiterazione e sottolineatura dei confini tra s e gli altri, hutu e tutsi, bene e male. Le due categorie principali, hutu e tutsi, sono identificate per mezzo di astratte qualit morali: i tutsi incorporano il male, la pigrizia, la bellezza, il pericolo e la malignit, gli hutu esattamente lopposto (ibid., p.54). A loro volta, queste qualit morali si connettono a mappe corporee che dettagliano le differenze fisiche tra hutu e tutsi un punto sul quale il discorso dei rifugiati insiste in continuazione, esprimendo la necessit di evitare ogni ambiguit nella distinzione categoriale (p. 78).
E la stessa Malkki a suggerire il nesso tra queste mappe di riconoscimento basate su dettagli fisiologici e qualit caratteriali, da un lato, e dallaltro le mappe necrografiche attraverso le quali gli hutu descrivono i dettagli dei massacri e della violenza, le tecniche di uccisione, di mutilazione, di manipolazione del corpo del nemico. Queste sono percepite come dotate di un chiaro valore simbolico: forme di umiliazione e deumanizzazione dei nemici etnici che insistono proprio sulle peculiarit loro assegnate dalle rappresentazioni cosmologiche condivise. Una pratica atroce come quella di impalare donne e uomini con lunghi fusti di bamb, dalla vagina o dallano fino alla bocca, percepita ad esempio come una violazione del corpo dei bassi hutu da parte di un sostituto simbolico degli alti tutsi (p. 92); e si potrebbe inversamente osservare il significato simbolico delluso del machete nel genocidio ruandese dei tutsi nel 1994, compiuto appunto con lo strumento principale di quellagricoltura che i tutsi non saprebbero praticare perch troppo pigri. Gli stessi assassini hutu che hanno raccontato la loro esperienza a Jean Hatzfeld hanno osservato lanalogia tra il tagliare nel lavoro dei campi e il tagliare a pezzi i corpi dei tutsi nelle paludi dove questi si rifugiavano: il gesto era simile, anche se molto pi faticoso e la sensazione meno scontata (Hatzfeld 2003, p. 69). Gli stessi testimoni riportano la frequente pratica di tagliare le gambe delle vittime, accorciandole secondo una sorta di legge del contrappasso: se un uccisore crudele acchiappava una vittima un po alta tra i canneti, poteva anche colpirla alle gambe, allaltezza delle caviglie per esempio, o anche alle braccia, e lasciarla l, accorciata, senza darle il colpo di grazia (ibid., p. 153).
Questa percezione dei significati simbolici di specifiche forme di atrocit, sostiene Malkki, non soltanto presente nei resoconti mitico-storici, ma nella stessa esecuzione della violenza. In altre parole, le pratiche concrete di crudelt e violenza si strutturano gi secondo una consapevolezza mitico- storica, appaiono stilizzate e mitologicamente significative fin dalla loro messa in atto (Malkki 1995a, p. 94). Appadurai, per tornare a lui, riprende con forza queste osservazioni collegandole al tema dellincertezza identitaria. In una situazione in cui i corpi, della vittima come dellassassino, 21
sono potenzialmente ingannevoli e rischiano di tradire le stesse cosmologie che dovrebbero invece fondare, i riti atroci dei massacri si presentano come forme brutali di disvelamento del corpo forme di vivisezione, tecniche per esplorare, marcare, classificare e immagazzinare i corpi di quelli che possono essere i nemici etnici (Appadurai 1998, p.291). In definitiva, Appadurai si avvicina ancor pi di Hayden allidea della violenza come tecnica per immaginare una comunit: essa consentirebbe infatti di rendere concretamente e sensorialmente presenti quelle imprecise astrazioni che sono le etichette etniche di vasta scala. Le pi orribili forme di violenza etnocida sono meccanismi per produrre persone a partire da quelle che resterebbero altrimenti etichette diffuse e di vasta scala, efficaci ma non localizzate. In ci, la violenza genocida manifesta una qualit autenticamente rituale, nel senso tecnico che a questo termine attribuito dalla tradizione antropologica che fa capo a Van Gennep. I riti producono persone attraverso performance che agiscono sui corpi anche se in questo caso ci troviamo di fronte a una orribile inversione del ciclo della vita di Van Gennep, che si trasforma in un vero e proprio ciclo della morte (p. 296).
Il grande merito della teoria di Appadurai consiste dunque nel radicare la violenza in modelli culturali e categoriali profondi, che plasmano ai livelli pi basilari la percezione dei corpi e le pratiche della quotidianit contro la tesi che ne riconduce le cause al puro indottrinamento ideologico. In questo modo, Appadurai apre la strada a unanalisi della sintassi simbolica di specifiche pratiche di sopraffazione e crudelt, che non sono viste come pura esplosione di furore bestiale e pre-culturale ma come governate da codici che solo un ampio approccio antropologico in grado di cogliere. Non poche obiezioni si potrebbero tuttavia muovere al punto di vista espresso dallo studioso indiano. Provo ad articolarne due che mi sembrano importanti. In primo luogo, lidea che lorrore per la confusione categoriale sia la forza che muove e struttura simbolicamente la violenza (una forza intesa non come fattore storico generale ma come motivazione incarnata negli attori sociali) sembra contrastare con un fatto che emerge dalla letteratura disponibile sugli esecutori stessi della violenza: questi ultimi sembrano a loro volta sperimentarla come pratica di dissolvimento dellordine culturale, delle categorie del mondo ordinario. Dai tedeschi del battaglione 101 di C. Browning, ai gi citati hutu intervistati da J. Hatzfeld, agli archetipici massacratori rappresentati da W.Sofski (1996, pp. 156-60), linaudita prossimit con la morte con i suoi pi spaventosi dettagli fisici non pu non trascinare gli assassini fuori da qualunque ordine, in uno stato che a posteriori non riescono a ricordare come pienamente reale. Gli uccisori vivono una situazione di liminarit, caratterizzata da elementi pressoch universali quali leffervescenza emotiva, la forte coesione di gruppo o senso di communitas, il consumo di alcolici e la ricerca di stati alterati di coscienza[22]. Pi che nella riparazione di una normalit quotidiana minacciata dalle anomalie, essi sono impegnati nella distruzione radicale di un ordine sulla spinta del sogno di fondarne uno nuovo.
Un secondo problema sollevato dalla teoria di Appadurai riguarda luniversalit della sintassi rituale della violenza. Se, come egli afferma, colpire e mutilare i corpi etnicizzati uno sforzo disperato di restituire validit ai contrassegni somatici dellalterit, a fronte delle incertezze sollevate dalle definizioni dei censimenti, dai mutamenti demografici e linguistici che rendono le appartenenze etniche sempre meno corporee o somatiche, e pi sociali ed elettive (1998, p. 297) dovremmo allora poter considerare il simbolismo di questa violenza come peculiare e distintivo dei conflitti pi recenti, collocati nel contesto della globalizzazione e della crisi dello stato-nazione classico, di cui rappresenterebbero una sorta di colpo di coda. Sembra invece di trovarci di fronte a modalit simboliche meno specifiche e pi universali. La bestializzazione del corpo, le inversioni categoriali cui le vittime sono sottoposte, la violazione delle sfere pi 22
protette di intimit personale e familiare fanno parte di un repertorio ben noto, ampiamente dispiegato nel corso di diverse epoche e contesti storico- culturali. Si ha limpressione che la crudelt esercitata sul corpo dellaltro possa assumere solo una serie limitata di forme, ricalcando in negativo il limitato numero di universali antropologici: le caratteristiche strutturali dello schema corporeo, il divieto dellincesto, lopposizione natura-cultura si mostrano nella fenomenologia della violenza come in un grottesco controluce.
Al di l di questi dubbi, il tentativo di autori come Malkki e Appadurai di decifrare la sintassi della violenza ponendola in rapporto con cosmologie locali e con tensioni sociologiche inscritte nelle soggettivit e nei corpi di grande forza, e apre un percorso di analisi della violenza peculiarmente antropologico. Su questa linea si colloca una crescente letteratura, dalla quale vorrei estrarre due ulteriori esempi. Ancora in relazione al genocidio ruandese del 1994, lantropologo medico Christopher Taylor (2002) ha sostenuto lesistenza di un potente nesso tra le concezioni tradizionali di corpo, salute e malattia e le pi cruente modalit della violenza genocida. In sintesi, nella medicina popolare la salute vista come un libero trascorrere di fluidi vitali attraverso il corpo, mentre la malattia dovuta a blocchi che impediscono ai fluidi di scorrere. Secondo Taylor, questa idea fondamentale ha plasmato in profondit le concrete manifestazioni di violenza, funzionando come una sorta di schema generativo ancora una volta, attraverso una inversione di senso che trasforma una cosmologia vitale in un macabro ordine della morte. Questo modello culturale sembra a Taylor connesso, ed esempio, allampio ricorso delle milizie hutu ai blocchi stradali: istituiti al di l di ogni reale funzione strategica o razionalit politica, questi ultimi divenivano luoghi privilegiati di uccisione e di esercizio del potere (p. 163). Lidea di bloccare i movimenti si manifesta anche nella grande diffusione di ferite inferte alle vittime alle gambe, ai piedi e ai tendini di Achille anche in questo caso, pratica non spiegabile in una logica utilitaristica (impedire alle vittime la fuga), giacch venivano colpite in questo modo anche persone inferme, anziani e bambini molto piccoli. Si manifesta qui un potere associato, in termini simbolici, alla capacit di ostruire (p. 164). Infine, strettamente legata allimmaginario dei flussi e dei blocchi la pratica dellimpalamento.Visti come blocking beings, al pari di minacciose figure stregonesche della tradizione, i tutsi ostruiscono lunit cosmologica della nazione hutu, e meritano lostruzione del loro corpo con un palo o una lancia. Il che ricorda da vicino le metafore predilette da Hitler sugli ebrei come batteri o agenti patogeni che infettano il corpo della societ tedesca: cambia solo il modello medico-culturale sottostante. Per quanto le interpretazioni di Taylor appaiano a tratti forzate, convincente la sua proposta di leggere i macabri dettagli della violenza come messaggi inscritti sui corpi delle vittime. I torturatori non si limitavano a uccidere le loro vittime, trasformandone invece i corpi in potenti segni in risonanza con un habitus ruandese (p. 168) come accade con linquietante macchina di tortura della Colonia penale di Kafka, che inscrive a sangue la sentenza sul corpo del condannato.
Un approccio analogo proposto da Robert L. Hinton (1998a) a proposito dei massacri dei Khmer Rossi in Cambogia. Qui il modello culturale tradizionale individuato come rilevante quello della vendetta sproporzionata, una sorta di sistema di valori onore-vergogna secondo cui chi subisce un torto sviluppa un inestinguibile rancore e perde la faccia finch non riesce a procurare al suo nemico un danno assai maggiore. Lidea della vendetta sproporzionata una specie di sfondo etico della societ cambogiana tradizionale, presente nei miti e nelle narrazioni esemplari che riguardano la socialit quotidiana: in esse si suggerisce costantemente che lunica possibile riparazione a unoffesa allonore sia la completa distruzione del nemico e persino della sua discendenza familiare al fine di prevenire 23
ulteriori contro-vendette che si propagherebbero allinfinito. Ebbene, Hinton suggerisce che tale modello abbia plasmato le motivazioni e i comportamenti dei Khmer Rossi, i quali avrebbero implicitamente equiparato loppressione di classe (la povert dei contadini, la mancanza di rispetto nei loro confronti) a unonta morale, indirizzando il risentimento verso i ceti urbani. La loro educazione politica era interamente improntata allo sviluppo di rabbia e odio verso gli oppressori, e la lotta di classe interpretata nei termini delle tradizionali virt guerriere. La vendetta dei poveri contro i ricchi, dei ceti rurali contro quelli urbani, era il tema ricorrente della propaganda comunista, e mediava sul piano motivazionale lidea stessa di rivoluzione e di fondazione di una societ nuova.
Anche in questo caso, chiaramente la propaganda ad accendere lodio e a spingere a una violenza estrema legittimata come giustizia storica; ma lideologia non potrebbe far presa se non innestandosi su modelli tradizionali che la rendono assimilabile sul piano etico e su quello delle pratiche sociali. La tesi plausibile, e suggerisce interessanti orizzonti di ricerca anche in relazione ad altri contesti. Tuttavia, Hinton non sembra considerare un punto essenziale: nella cultura tradizionale, il modello mitico della vendetta spropositata fonda in realt una pratica quotidiana in cui essa non si attua. I valori di onore, vergogna e vendetta fanno parte di un sistema di regole relazionali che rendono possibile una convivenza civile e non violenta (per quanto possano implicare un alto grado di violenza simbolica, soprattutto sessuale e generazionale). Il problema, per la Cambogia come per altri casi di eccidi di massa, capire come sia possibile la transizione da tale civile convivenza alla cultura della morte e del terrore; come, dunque, i modelli culturali che usualmente mediano e gestiscono il conflitto possano trasformarsi nel loro opposto, sostenendo pratiche che fanno esplodere le strutture sociali[23]. 6) Lantropologia della violenza tra epistemologia ed etica. Sono giunto a quel rituale momento in cui si dice che i limiti di unintroduzione non consentono di approfondire altri e importanti aspetti dellargomento in questione. Ci particolarmente vero in questo caso. Vorrei perlomeno segnalare tre di questi ulteriori temi sollevati dai saggi qui raccolti, concludendo con alcune osservazioni su un punto gi toccato in precedenza, vale a dire il complicato rapporto fra la dimensione conoscitiva e quella etica di unantropologia della violenza.
a) Violenza e genere. Il primo punto su cui occorre insistere, sollevato esplicitamente nel saggio di Veena Das ma centrale nellintero dibattito contemporaneo, la dimensione di genere della violenza. Abbiamo visto, nel precedente paragrafo, che la violenza agisce seguendo a ritroso il lavoro della cultura. Non si limita a distruggere materialmente i corpi, ma procede disfacendo sistematicamente le costruzioni culturali del corpo, dellidentit personale, della socialit primaria; individua le pi radicate fedelt culturali come punti critici da colpire nella costruzione del terrore. E dunque chiaro che il terreno dellidentit sessuale e di genere, e lambito ad essa connesso delle relazioni familiari e di parentela, il suo terreno elettivo specialmente nei casi di attacco sistematico e consapevole a popolazioni civili basato sulla diffusione di una cultura del terrore, per usare ancora lefficace formulazione di Taussig. In questi casi, dal Ruanda ai Balcani, dalle guerre sporche latino-americane agli odierni conflitti civili africani (e diversamente, almeno per certi fondamentali aspetti, dalla Shoah) la violenza si attua come spettacolo del terrore, e mira a colpire le colonne portanti di ci che culturalmente significativo, potendo penetrare, diversamente da ogni altra forma di comunicazione simbolica, fin dentro il corpo, nei recessi pi profondi delle sfere di intimit personale. In queste strategie gioca ovviamente un ruolo-chiave lo stupro. Se esistono tratti universali nel 24
congegno anti-culturale della violenza, lo stupro sicuramente uno di essi. Come noto, si tratta di una forma di violenza che paradossalmente produce senso di colpa nella vittima. Non solo colpisce ai livelli pi profondi la dignit personale; messo in scena pubblicamente, fa esplodere il livello pi basilare delle relazioni sociali, sconvolge i sentimenti di fiducia, protezione, rispetto reciproco su cui esse si fondano. Come nel caso degli stupri etnici nei Balcani, la violazione del corpo femminile diviene addirittura il principale strumento, simbolico e biologico al tempo stesso, di affermazione di unidentit razziale quasi una grottesca caricatura di quelle tesi sociobiologiche che pensano di poter spiegare ogni comportamento umano in relazione allobiettivo della massimizzazione della capacit riproduttiva.
Lo stupro anche la forma di violenza che in modo pi netto collega i due ambiti dei crimini di guerra e dei crimini di pace. Per quanto i suoi significati culturali possano esser diversi nei due contesti, le indubbie continuit ci spingono a pensare alla violenza sulle donne come a una sorta di valore aggiunto nel quadro delle violenza di massa. Del resto, a parte la diretta aggressione sessuale, sono molti i modi in cui le donne divengono bersaglio particolare nelle nuove guerre e nelle strategie del terrore. Queste ultime rendono spesso semplicemente impraticabili i ruoli sociali e quelle che potremmo chiamare le posizioni morali delle donne, ad esempio impedendo di seguire limperativo protettivo della funzione materna. I racconti di donne costrette ad assistere, impotenti, alle violenze subite dai figli rappresentano quasi sempre il culmine della drammaticit nei resoconti dei massacri. Per converso, questo fa s che le donne giochino spesso un ruolo fondamentale nelle forme di resistenza. Il caso paradigmatico probabilmente quello delle madri argentine di Plaza de Mayo, un movimento il cui grande impatto si basato proprio sulla rivendicazione delle caratteristiche attribuite alla donna dallideologia ultraconservatrice della giunta militare: il sentimento (apparentemente pre-politico) materno, il diritto-dovere di proteggere e piangere i figli (Robben 2000). Come mostra Veena Das, comunque lavoro delle donne la ricucitura di un universo di valori quotidiani che si trova lacerato da eventi traumatici violenti nel caso della sua ricerca, la Spartizione Indiana del 1947.
b) Memoria traumatica. Nella gran parte dei casi, il lavoro antropologico sulla violenza si fonda sulle memorie di testimoni degli eventi (le vittime sopravvissute, i familiari degli uccisi, pi raramente gli esecutori). Gli antropologi si trovano cio di fronte a racconti di persone che devono fare i conti con un lacerante e spesso inestinguibile trauma esistenziale, che le ha colpite nel proprio corpo, negli affetti pi cari, nei pi basilari principi di socialit. I contesti di ricerca sono quelli di individui e comunit impegnate a elaborare un lutto per il quale la cultura tradizionale non offre risposte adeguate; impegnate a ricostruire un senso del passato a partire dai brandelli irrelati di una memoria insopportabile; impegnate a ristabilire un minimo di equilibrio psichico e sociale, una possibilit di esistenza in ambienti che spesso non sono pi i loro (ad esempio campi profughi, centri di accoglienza per rifugiati, nuovi insediamenti pi o meno provvisori). Il problema dellantropologia della violenza finisce cos per coincidere in larga parte con il problema della memoria traumatica in unaccezione del termine che implica non solo dinamiche psichiche individuali ma anche processi socio- culturali. E un terreno (come, pi in generale, quello dello studio della memoria culturale) su cui lantropologia ha bisogno di recuperare un rapporto forte con la psicologia e la psicoanalisi (Antze, Lambek 1996, Robben, Surez-Orozco 2000). Lagenda di ricerca che si apre di grande ampiezza. Si pone prima di tutto il problema di unanalisi retorica dei racconti di testimonianza, che vanno considerati da un lato nella loro natura performativa, dallaltro nel loro intreccio con repertori narrativi e codici culturali presenti nella tradizione. Queste narrazioni culturalmente plasmate giocano un ruolo di primo piano nella trasmissione intergenerazionale non 25
solo della memoria ma dello stesso trauma un punto, questultimo, ampiamente studiato in relazione alle generazioni di figli della Shoah. La psicoanalista Yolanda Gampel (2000, p. 59) ha coniato il termine radioattivit per esprimere il modo in cui le esperienze traumatiche si insediano nella costituzione psichica degli individui, continuando ad agire molto tempo dopo che gli eventi sono conclusi, e penetrando, appunto, anche nelle generazioni successive. Peraltro, qui non il solo livello delle narrazioni culturalmente accreditate ad agire: anzi, la memoria della violenza radicale sembra agire in unarea psichica in cui le parole non esistono (il reale lacaniano), configurandosi come un ineffabile o indicibile che si rivela attraverso immagini, emozioni, espressioni corporee.
Lo studio della memoria traumatica si configura dunque da un lato come tentativo di comunicare con le soggettivit ferite - un compito particolarmente delicato sul piano etico, dal momento che il classico obiettivo etnografico dell estrarre informazioni non pu qui andar disgiunto da un obiettivo terapeutico (si veda in proposito il lavoro degli etnopsichiatri con i rifugiati e le vittime di tortura; Beneduce 1999). Dallaltro lato, lo studio della memoria ci porta invece verso unetnografia delle forme pubbliche di elaborazione del lutto, delle rappresentazioni simboliche e delle pratiche rituali che sono mobilitate a tal fine. Le commemorazioni e le celebrazioni degli eventi pi drammatici, nonch la costituzione di monumenti, musei o luoghi consacrati alla memoria, sono tra le principali pratiche attraverso cui una comunit cerca di far trascendere nel valore un cattivo passato, collocandolo in una narrazione storica (o in un modello mitico) in grado di conferire senso al presente[24]. Lelaborazione del lutto si intreccia spesso, talvolta anche molto tempo dopo la fase pi intensa delle violenze, con il perseguimento della giustizia: vale a dire con attivit istituzionali, sostenute sul piano nazionale o internazionale, volte ad accertare giuridicamente le responsabilit e a punire i colpevoli. Si pu dire anzi che lo svolgimento di processi e il riconoscimento istituzionale (non solo storico e morale) delle responsabilit una delle condizioni essenziali per il superamento del trauma. Ma la giustizia non pu che esser praticata in forme di compromesso. La societ normalizzata che esce dalla violenza infatti sempre profondamente divisa e conflittuale, per effetto delle stesse dinamiche della violenza, che si dimostrano invariabilmente capaci di prolungare il loro effetto dirompente molto a lungo dopo che i massacri sono finiti e firmati i trattati di pace (Surez-Orozco, Robben 2000, p. 5; Surez-Orozco 1990). Com stato osservato per lAmerica Latina, si verificano profonde spaccature sociali fra quanti non vogliono ricordare e coloro che non possono dimenticare, nutrite da risentimenti residui per i differenti prezzi pagati nei confronti del terrore (Viar, Ulriksen Viar 2001, p, 213). La memoria stessa destinata cos a restare divisa, terreno di manifestazione di conflitti rispetto ai quali la giustizia deve cercare mediazioni. Molti casi recenti, dalla commissione dinchiesta argentina sui desaparecidos (CONADEP; Surez-Orozco 1992, p. 236 sgg.) alla Commissione per la verit e la riconciliazione del Sudafrica (Wilson 2000, 2001 Ross 2003a, 2003b), mostrano il complesso rapporto che si instaura tra le istanze strettamente giudiziarie, quelle di obiettiva ricostruzione storica e quelle di riconciliazione nazionale. Il che significa complesso rapporto tra giustizia, verit e politica (Wilson 2003, Flores 2005, p. 115 sgg.). Scrivere la storia e fare giustizia, per quanto attivit governate da propri interni criteri di coerenza e oggettivit, possono allora rivelarsi come momenti di un complesso rituale di transizione tra regimi politici, che sottodetermina - come ha sostenuto il giurista Ruti Teitel (2001, pp. 272-3) - la rivelazione della conoscenza della verit.
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c) Violenza e diritti umani. Il saggio di Talal Asad ci introduce in uno scenario di riflessione ancora diverso, concernente il carattere storicamente e culturalmente determinato di ci che noi intendiamo per violenza - in particolare di ci che percepiamo come trattamento crudele, inumano e degradante, in riferimento alla formulazione con la quale la Dichiarazione dei diritti umani del 1948 condanna la tortura e analoghe forme di crudelt. Asad prende una posizione nettamente critica nei confronti del linguaggio universalizzante dei diritti umani. Non solo questultimo cieco di fronte alla variet delle pratiche culturali; di pi, le sue pretese di solidariet ecumenica celano laffermazione di un modello di individualit o di agente razionale che fortemente e acriticamente etnocentrico, che affonda anzi le radici nel dominio coloniale dellOccidente sul resto del mondo. Il saggio procede mostrando le ambiguit e le palesi contraddizioni della nozione di trattamento crudele, inumano e degradante: una nozione illuminista che, paradossalmente, stata spesso imposta con la forza e con luso di sanzioni violente alle culture colonizzate. Particolarmente interessante per Asad il contrasto tra la condanna della crudelt e la sua legittimazione in alcuni ambiti della modernit: da un lato quello della guerra, che si combatte con armi sempre pi sofisticate ed efficaci nel distruggere i corpi e produrre sofferenza, dallaltro lambito delle pratiche sadomasochiste, dove infliggere e subire sofferenza accettato come libera scelta di adulti consenzienti. Ci mostrerebbe, a suo parere, in che misura la proibizione di crudelt e tortura sia sottodeterminata da una certa concezione (politica ed epistemica al tempo stesso) di individuo e di civilt, rispetto alla quale si definisce lo stesso significato della percezione del dolore, e se ne stabiliscono le quantit ammissibili.
Il saggio di Asad si colloca nel quadro dellattuale dibattito antropologico sui diritti umani, con lassunzione di una posizione decisamente relativista da parte dellautore il quale si preoccupa peraltro di precisare la natura intellettuale e non morale (o pratica) del suo scetticismo verso il linguaggio universalista dei diritti. Ma davvero possibile mantenere questa distinzione? Se li accostiamo a resoconti dettagliati di torture, da quelli del Putumayo cui ci introduce Taussig fino ai recenti casi di Abu-Ghraib, non rischiano di apparire futili le sottili distinzioni di Asad? Non c forse nella pratica della tortura una immediata (universale, forse) riconoscibilit? Come potremmo sbagliarci riguardo il significato di quegli atti di sopraffazione violenta che usano laltrui corpo come strumento per la costruzione del terrore? In effetti largomentazione di Asad si focalizza sulla nozione liberale di diritti umani e sul significato del provare e infliggere dolore nella societ contemporanea; e certo efficace la sua critica alla formulazione trattamento crudele, inumano e degradante, con la quale la dichiarazione del 1948 tentava di dare una formulazione pi ampia del concetto di tortura. Ma cos il saggio finisce per perdere di vista il tema della tortura come strumento di un potere che (forse per la sua imperfezione, come suggerisce Hannah Arendt) si esercita per mezzo della violenza e del terrore. E questo tipo di peculiari relazioni fra esseri umani che va messo a fuoco per capire la tortura, quelle relazioni di cui ci parlano le immagini di Abu- Ghraib o quelle del quasi dimenticato Sal di Pasolini (fra laltro, in entrambi i casi si manifesta un nesso con la pornografia sadomasochista che getta una luce diversa sullo stesso accostamento proposto da Asad).
Quale teoria ci aiuta a distinguere le relazioni sociali o i sistemi politici che implicano la tortura da quelli che la escludono? E evidente che categorie come modernit o Occidente non servono molto a capire tutto ci. La tortura non ha mai prosperato cos bene come nella modernit, specialmente allinterno di quelle che si autodefiniscono come missioni civilizzatrici. Neppure la frattura democrazia-totalitarismo sembra decisiva, cos come altre categorie politiche care al liberalismo. Asad cerca appunto di evidenziare paradossi e contraddizioni del discorso moderno e liberale. Nella 27
linea della critical anthropology, vuol mostrare come lastratta morale del liberalismo e la dichiarazione universale dei diritti umani che ne espressione non sia in grado di tener fuori dalla modernit le pratiche crudeli e degradanti; e come, anzi, i principi su cui tale morale si fonda (luniversalit come correlato dei rapporti capitalistici di produzione e dunque del dominio di classe; Turner 1998, p. 344) ne ricreino costantemente le condizioni. Ma nella modernit, e per certi versi nelle democrazie liberali, coesistono cose molto diverse: guerre sempre pi distruttive e movimenti pacifisti e non violenti, torturatori di ogni tipo e attivisti per i diritti umani. Si tratta solo di ambiguit interne, come pare ad Asad, o di facce antagoniste e alternative? Una teoria della violenza, mi pare, si dovrebbe misurare anche sulla capacit di aiutarci a discernere fra queste diverse opzioni della modernit o del liberalismo; e non pu limitarsi a considerare la dichiarazione dei diritti umani come una ingenua e ipocrita copertura delle reali contraddizioni che muovono la storia.
Torniamo cos a chiederci se per unantropologia della violenza sia possibile separare la discussione intellettuale, come si esprime Asad, da un impegno pratico (politico, etico). Il problema viene esplicitamente posto in molta letteratura etnografica, in termini di inevitabile coinvolgimento personale del ricercatore e di umana solidariet nei confronti delle vittime. Ma raramente la tensione fra i due aspetti della conoscenza e dellimpegno viene portata fino alle sue conseguenze pi significative. Chi lo fa ancora una volta Scheper-Hughes, secondo la quale la testimonianza etnografica della violenza conduce necessariamente verso una concezione militante della disciplina. Nel gi ricordato recente lavoro con P.Bourgois sulla violenza in guerra e in pace, parla dellantropologo come di una persona responsabile, riflessiva, moralmente o politicamente impegnata, che sappia prender parte quando necessario e rifiutare i privilegi della neutralit (Scheper- Hughes, Bourgois 2004, p. 26). Rispetto alla situazione etnografica classica, nei contesti di violenza diviene impossibile ottenere e mantenere ogni forma di distanziamento dagli interlocutori: che tipo di osservazione partecipante, che tipo di testimonianza oculare appropriata di fronte al genocidio e alle sue conseguenze, o anche soltanto di fronte alla violenza strutturale e alletnocidio? Quando lantropologo diviene testimone di crimini contro lumanit, la pura empatia scientifica non basta pi (p. 27). Latteggiamento del distacco trapassa troppo facilmente in quello dello spettatore, e persino del complice. Semplicemente, non si pu evitare di schierarsi il che significa porre la propria competenza e il proprio sapere al servizio di una causa, rovesciando una intera tradizione di disimpegno accademico ma restando fedeli a quello che per Scheper-Hughes il mandato originario dellantropologia:
schierare saldamente noi stessi e la nostra disciplina dalla parte dellumanit, della salvezza e della ricostruzione del mondo anche se possiamo non esser sempre sicuri di cosa ci significhi e di cosa ci venga richiesto in momenti particolari. In ultima analisi, possiamo solo sperare che i nostri celebrati metodi della testimonianza empatica e impegnata, dello stare con e dello stare l, per quanto possano apparire vecchi e stanchi, ci forniscano gli strumenti necessari per fare dellantropologia una piccola pratica di liberazione umana (ibid.)
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La formulazione abbastanza appassionata ma anche abbastanza modesta da risultare convincente. Nessuno negherebbe un qualche grado di impegno nei confronti delle persone di cui si rappresentano ( o si studiano) le sofferenze; resta tuttavia aperto il problema di quali valori e obiettivi rappresentano le fedelt ultime dellantropologo. Quelli della conoscenza o quelli della partecipazione? Dellepistemologia o della politica? Per quanto non necessariamente in contrasto, questi obiettivi hanno diversa natura e possono trovarsi a confliggere anche in modo estremamente drammatico. Scheper-Hughes parte dallimplicito presupposto che la verit rivoluzionaria, e che la denuncia delle sopraffazioni e il sostegno alle vittime facciano tuttuno con la ricerca delloggettivit[25]. Questo pu essere anche vero in ultima analisi, ma i percorsi del rigore metodologico e scientifico e quelli della solidariet politica sono spesso assai diversi. Il problema si pone soprattutto in relazione alla principale fonte dellantropologia della violenza, cio i racconti delle vittime sopravvissute e dei testimoni diretti. Lepistemologia ci spinge a praticare verso questi racconti una critica delle fonti: ad esempio, a non assumerli immediatamente come resoconti realisti, a studiarne le forme di costruzione retorica e di adesione a modelli culturali, eventualmente a farne risaltare le interne inconsistenze e cos via. Ma questo rigore metodologico non serve ai fini della solidariet, e pu anzi risultare controproducente sul piano pratico e politico (si pensi ai racconti dei rifugiati e dei richiedenti asilo; v. Daniel-Knudsen 1995), e intollerabile sul piano etico: che senso hanno le sottigliezze analitiche di fronte a persone che hanno subito violenze e lutti terribili? Di fronte alla loro tragedia e alla loro sofferenza, che importanza ha come la raccontano? Latteggiamento critico sembra voler negare la verit assoluta di quelle esperienze; la sofisticazione teoretica sembra del tutto fuori posto, quasi immorale, a fronte della semplice enormit del Male e del Dolore che traspirano da quelle biografie.
Nelletnografia della violenza, questo punto espresso con grande efficacia da Antonius Robben, in un intenso testo (1995) di riflessione su una ricerca condotta in Argentina sulla memoria dei crimini della giunta militare. Robben intervista tre categorie di persone: militari coinvolti pi o meno direttamente nei crimini, ex-guerriglieri e parenti dei desaparecidos. Avverte con forza la tendenza di tutte e tre queste componenti a tirare e far schierare il ricercatore dalla propria parte, a chiedergli di condividere la propria visione del mondo: e conia per questa tendenza la nozione di seduzione (nel senso etimologico del termine) etnografica. Questultima si manifesta in modo particolarmente drammatico nel rapporto con i parenti delle vittime. Robben si sofferma ad esempio sul suo incontro col padre di uno scomparso, un ragazzo della Giovent Peronista rapito nel 1976 a diciassette anni. Luomo racconta dei suoi tentativi di avere notizie del figlio, attraverso contatti con ufficiali dellesercito. Il climax del suo racconto lincontro con un colonnello, in servizio attivo, che ha promesso attraverso la mediazione di amici di dargli informazioni:
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Dopo che gli ebbi raccontato tutto, [il colonnello] disse: Guardi, immagini che suo figlio abbia il cancro [ ] e si trovi in una sala operatoria dove ci sono un macellaio e un dottore: preghi che sia il dottore a operarlo. Questuomo aveva infilato un pugnale nella mia ferita e lo rigirava dentro di me. Mi scusi, signore dissi ma lei sa qualcosa? . No, no, sto solo soppesando le possibilit e facendo una supposizione. Avrei voluto prenderlo per la gola e strangolarlo; [] per la prima volta in vita mia provavo il desiderio di uccidere qualcuno [] perch ero disperato. Non pu immaginare con quanta soddisfazione mi disse quelle cose. E lei dovrebbe analizzare il fatto che quelluomo era in servizio attivo (ibid., pp. 92-3).
Ma io ero incapace di analizzare, commenta Robben. Il testimone lo ha incorporato nel suo tormento; le domande di approfondimento che avrebbe voluto fare gli si spengono sulle labbra, e pu solo condividere in silenzio il dolore di questuomo (ibid., p. 93). Se questa partecipazione pu essere fondamentale per la comprensione della natura degli eventi studiati, essa implica tuttavia grandi rischi. Quando il ricercatore sopraffatto dallemozione, e sente di non poter fare nessunaltra domanda, perch non c nientaltro da chiedere di fronte allenormit della tragedia, allora rischia di non esser pi ricercatore. In questi momenti di completo collasso della distanza critica tra i due interlocutori, perdiamo ogni dimensione dellimpresa scientifica (ibid., p. 94); questultima implica per lappunto distanza, scetticismo, lucidit e obiettivit, valori diversi rispetto a quelli della solidariet morale e politica (v. anche Robben 1996, che rilegge il problema della seduzione etnografica alla luce dei concetti psicoanalitici di transfert e controtransfert). Malgrado le apparenze, le posizioni espresse da Scheper-Hughes e Robben non sono alternative. Esprimono invece una tensione alla quale il lavoro antropologico non pu sfuggire. Robben pensa che dalla seduzione etnografica ci si debba programmaticamente difendere: ma sa bene, lui per primo, che cederle almeno per un po una condizione della comprensione soprattutto quando ci che ci interessa non una pura conoscenza fattuale, ma il significato della violenza nella memoria e nella vita delle persone. Per quanto riguarda Scheper-Hughes, anche il suo appello allimpegno pu difficilmente essere eluso; ricordandosi per che lantropologo pu forse dare il suo piccolo contributo alla liberazione umana continuando a fare il suo mestiere, e non trasformandosi in un attivista politico tout court. Il che significa continuare a seguire le regole del metodo, della critica delle fonti, del rigore argomentativo; e anche mantenere quella certa dose di distacco da immediate finalit pratiche che sempre requisito del lavoro scientifico, e di cui il vituperato disimpegno accademico non che unespressione. In altre parole, comprensione critica, partecipazione morale e impegno politico possono magari coesistere nella stessa persona, ma sono destinati a non fondersi mai completamente gli uni negli altri: nella loro costante tensione, vorrei suggerire, risiede la forza particolare del lavoro antropologico.
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[1] La rilevanza di questo passo de I Nuer dipende non solo dallimportanza dellautore e dallo statuto di classico che il libro si guadagnato, ma anche dal fatto che negli anni Ottanta queste pagine sono divenute emblema dei limiti del realismo etnografico, ed oggetto di feroci critiche da parte degli autori del movimento di Writing Culture (si veda in particolare Rosaldo 1986, p. 132 sgg. e, per una difesa di Evans-Pritchard, Free 1991).
[2] Nellantropologia classica, gli unici lavori che tematizzano esplicitamente la violenza sono infatti quelli che la considerano non come un fenomeno storico ma come una caratteristica strutturale delle societ primitive. Penso ad esempio allopera di Clastres (1977), che vede una condizione di guerra permanente come necessaria allesistenza delle societ senza Stato; o a una tradizione di studi neoevoluzionisti e sociobiologici che spiegano naturalisticamente la guerra in termini di strategia adattiva e di selezione del patrimonio genetico (per un quadro di tali approcci v. Knauft 1987, 1991; rimando anche a Dei 1999, pp. 290-4, per una valutazione critica degli approcci naturalistici allantropologia della guerra). Per certi versi pionieristica per il suo accento sulluso sistematico del terrore, ma legata comunque allidea della violenza politica come caratteristica strutturale di societ premoderne (in senso weberiano), lopera di E.V. Walter (1969). Lantologia curata da D. Riches (1986) segnala lapertura di un sistematico interesse antropologico per la violenza, senza tuttavia ancora aprirsi a quelli che saranno i temi predominanti del dibattito degli anni 90.
[3] Peraltro, sembra eccessivo e inutile spingere questa critica fino al concetto stesso di ragione, come fa Nordstrom, o contro la tendenza antropologica alla ricerca del senso. Questultima oscurerebbe i concreti individui che vivono, soffrono e muoiono, i quali sono la guerra; e le ragioni, di fronte alle questioni di vita e di morte, sono rimpiazzate da una cacofonia di realt (1995, p. 137). A parte la vaghezza di questultima formula, non chiaro dove stia la contraddizione fra la ricerca del senso e il metodo etnografico della studiosa, centrato sulla raccolta di storie individuali e sullanalisi del simbolismo della violenza e di quello della resistenza quotidiana. Proprio il suo sforzo di attingere la realt soggettiva del dolore, del disfacimento del mondo e i tentativi di ricostruirlo con i mezzi della cultura testimonia a favore di una nozione di comprensione antropologica come elucidazione delle ragioni e dei significati che rendono umane certe pratiche. Cfr. anche Nordstrom 1997, 2004, Finnstrm 2001.
[4] 1992, p. 115. Questo tema di fatto lasse portante dellintera opera dello studioso, che esplora il nesso violenza-ragione-stato in una serie assai compatta di volumi degli anni 80 e 90 (Taussig 1983, 1987, 1992, 1993, 1997, 1999).
[5] A proposito dei resoconti di Handenburg e Casement sulle atrocit coloniali nel Putumayo, discussi nel saggio qui presentato, Taussig osserva come, per quanto critici nellintenzione, essi presuppongono e rafforzano quegli stessi rituali dellimmaginazione coloniale cui gli uomini soccombevano torturando gli indiani. Nel loro cuore immaginativo, queste critiche erano complici con ci a cui si opponevano (Taussig 1987, p. 133). Sulla stessa linea si collocano le osservazioni mosse da Taussig alla poetica conradiana di Cuore di tenebra.
[6] Un esempio tanto noto quanto drammatico di questa ambiguit rappresentato da una foto di Kevin Carter, vincitrice nel 1993 del premio Pulitzer: una bambina sudanese denutrita, crollata a terra con un avvoltoio 31
appostato a pochi passi di distanza. La foto, di grande impatto comunicativo, ha svolto un ruolo importante nel mobilitare lopinione pubblica internazionale attorno ai problemi della carestia provocata in quegli anni nel Sudan meridionale dalla guerra civile. Daltra parte, la stessa realizzazione della foto sembra implicare profondi problemi etici. Lo stesso fotografo ha raccontato di aver atteso venti minuti che lavvoltoio spiegasse le ali. Non ha forse strumentalizzato la situazione, anteponendo la ricerca di unimmagine di successo allimperativo dellaiuto? Inoltre, la diffusione mediale della foto non finisce per spettacolarizzarla, rendendo la stessa sofferenza della bambina una forma di intrattenimento? Il dilemma reso pi drammatico dal suicidio, nel 1994, dello stesso autore della foto un suicidio che, come hanno commentato A. e J. Kleinman (1997, p. 7), sembra disintegrare la dicotomia morale tra soggetto e oggetto di quella foto, fondendo le rispettive sofferenze.
[7] Si vedano ad esempio i lavori sui guerriglieri sick di J. Pettigrew (1995) e C.K. Mahmood (1996), quelli sui terroristi nord irlandesi di Feldman (1991, 2000) e Sluka (1995a, 1995b), sul contesto israelo-palestinese di Swedenburg 1995 e Bornstein 2001.
[8] Il lavoro di Bourgois (1995; v. anche Bourgois 1996) incentrato su un gruppo di spacciatori di crack portoricani. Lautore fa un lungo periodo di osservazione partecipante: diventa loro amico, ci fa sentire le loro voci, ricostruisce una cultura subalterna la cui violenza esteriore sottodeterminata dalla violenza emarginante e discriminante della cultura egemonica. Ma lempatia e la solidariet politica delletnografo vacillano quando i suoi amici iniziano a raccontargli degli stupri di gruppo che compiono abitualmente. Per quanto disgustato, continua a fare il suo lavoro, e ci offre le voci narranti degli stupratori, con il loro gusto da bravata, i loro risolini, le usuali patetiche giustificazioni ( quello che lei voleva), la loro cosmologia. Ci troviamo immersi in un universo di relazioni sociali, di rapporti uomo-donna, di principi morali particolarmente rivoltanti, e la distaccata testimonianza etnografica sconfina a tratti nella pornografia pi oscena. Assai inquietante anche il contributo dellantropologa americana Cathy Winkler (1991, 1995), che descrive uno stupro da lei stessa subito cercando di utilizzare le tecniche di osservazione etnografica, dunque con una sconcertante attenzione per il dettaglio, e con il tentativo di capire e restituire il punto di vista dellaggressore. Sono ricostruiti i gesti, i dialoghi, latteggiamento dello stupratore, il terrore della vittima. Per lautrice, questo racconto evidentemente una delle risposte possibili al trauma: oggettivare se stessi e le proprie emozioni, riconquistare la padronanza della situazione, e anche raccogliere elementi che possano servire ad ottenere giustizia. Per il lettore, una costante e dolorosa oscillazione fra lidentificazione narrativa con la vittima e una sorta di effetto morbosamente pornografico, limpressione di star assistendo a qualcosa che non si dovrebbe vedere, perlomeno non cos da vicino.
[9] Per una pi approfondita discussione del rapporto tra ricordo individuale e sociale, in relazione a una ricerca sulla memoria degli eccidi nazifascisti di civili nella Toscana del 1944, rimando a Dei 2005.
[10] Si vedano ad esempio le posizioni del filosofo B. Lang (1990), che ammette solo la possibilit di una cronaca fattuale degli eventi della Shoah, condannandone ogni resa attraverso un linguaggio figurato e stilizzato, o attraverso forme narrative e di emplotment, colpevoli di introdurre un significato e unintenzione autoriale estranee allautentico contesto del genocidio e irrispettose dellesperienza delle vittime. Sul piano etico, come 32
se un persistente lutto imponesse di tenere sotto stretto controllo limpulso allespressione artistica e creativa, a favore di uno stile impersonale in cui il linguaggio per quanto possibile trasparente.
[11] Fondamentali sono i saggi raccolti in Friedlander (ed.) 1992, e in particolare la discussione fra H. White e C. Ginzburg (per la traduzione italiana dei loro due testi v. White 1999 e Ginzburg 1992)
[12] Chi sostiene unidea delletnografia come puro racconto pone lautorit degli studiosi (sia pure involontariamente) al servizio dei sinistri tentativi di negare lOlocausto, la guerra sporca latino-americana e altri recenti episodi di distruzione organizzata. Attraverso la lente postmoderna, essi divengono semplicemente racconti o finzioni, il che repellente in termini sia intellettuali che morali..: (Surez-Orozco, Robben 2000, p. 12 nota).
[13] Per un approfondimento di questa argomentazione rimando a Dei 2004a.
[14] Oltretutto, i dati che Hayden riporta potrebbero esser letti in opposizione alla sua tesi. Se vero che nel dopoguerra questi indici di integrazione sono in progresso, si tratta tuttavia di un progresso molto lento. Le percentuali restano basse, mostrando la persistenza nella gran parte della popolazione di un forte senso di appartenenza etnico-nazionale (cfr. in proposito Botev-Wagner 1993, secondo i quali lomogamia etnica stata e rimane la norma in quella che era la Jugoslavia, paese in cui lintegrazione etnica non si mai realizzata; v. anche Simic 1994). Anzi, il senso di appartenenza etnico-nazionale stato probabilmente rafforzato, come nota Bowen, dalla politica di integrazione titoista, basata sulla circolazione dei dirigenti politici e statali, che portava ad associare il potere con la diversit etnica, loppressione politica con una sorta di occupazione straniera. Per unampia rassegna di posizioni in proposito v. Kideckel- Halpern 1993.
[15] Che lideologia nazionalista, concepita come ancestrale o come artificiosamente imposta dai leader, sia la causa della guerra una tesi fortemente avversata anche dagli studiosi croati dellIstituto di Etnologia e Folklore di Zagabria, autori di numerosi contributi di etnografia della guerra (v. ale Feldman, Prica, Senjkovi 1993; Jambrei Kirin, Povrzanovi 1996; Povrzanovi 2000). Un contributo nettamente schierato contro la tesi di unorigine dallalto della pulizia etnica quello di M. Bax (2000). Per altri contributi antropologici sulla guerra jugoslava, si vedano Denich 1994, Bringa 2002, Nahoum-Grappe 1997, Marta 1999, Maek 2001, Cushman 2004.
[16] Nella recente etnografia sulla violenza, questo punto stato espresso nel modo forse pi incisivo da E. Valentine Daniel in unampia monografia dedicata alla memoria degli scontri etnici in Sri Lanka. Daniel lavora sulle costruzioni identitarie e sulle relative rappresentazioni del passato (o forme di memoria etnica) di tre diversi gruppi, e insiste sul fatto che la critica anti- essenzialista non deve spingere lantropologia a ignorare la realt storica di queste costruzioni: nelleccitazione di scoprire che non ci sono altro che costruzioni, si appiattita la cultura a una sola dimensione e si perso di vista quanto le differenti costruzioni culturali possano differire in quanto a resistenza e a grado di latenza (o profondit, come qualcuno preferirebbe 33
chiamarla) (Daniel 1996, p. 14). Considerazioni non dissimili a proposito delle identit religiose in India sono svolte da S. Kakar (1996), pur nel quadro di unetnografia profondamente diversa, informata da una sensibilit psicoanalitica pi che strettamente antropologica. Sulle radici etniche del fratricidio nello Sri Lanka si veda anche limportante lavoro di S.J. Tambiah (1991).
[17] Si veda ad esempio lautorevole e citatissmo saggio di Verena Stolcke, Talking culture, che si chiude con un vero e proprio anatema contro lo Stato. Ogni discorso sulla diversit culturale, ella afferma, implica disuguaglianza e discriminazione, ed dunque da condannare eccetto che in una societ genuinamente democratica ed egalitaria, afferma lautrice, chiedendosi retoricamente se questo sia possibile nei confini del moderno stato-nazione, o, se per questo, di ogni forma di stato (Stolcke 1995, p.13). Sfortunatamente, Stolcke non ci dice nulla di pi sulla utopia non- statuale e cosmopolita al cui servizio lantropologia dovrebbe a suo parere porsi.
[18] Sul nesso tra pseudo-speciazione e conflitti etici v. Tambiah 1989
[19] Per laltro curatore del volume, P. Bourgois, il continuum della violenza si manifesta anche in modo pi netto nella difficolt di tracciare netti confini tra la guerra e la quotidianit. Soprattutto nel suo lavoro su El Salvador, egli insiste sulle modalit con cui la violenza della guerra civile trapassa in un dopoguerra che solo apparentemente di pace, e in cui le politiche neoliberiste impongono ai contadini poveri sofferenze non minori di quelle del passato. La violenza bellica e quella strutturale, in definitiva, apparirebbero come due facce di un ordine mondiale di ingiustizia che, dopo la fine della guerra fredda, apparirebbe nella sua pi profonda natura oppressiva (Bourgois 2001; v. Farmer 200 per una analoga prospettiva a proposito di Haiti).
[20] I lavori pi noti in questo campo sono quelli di S. Milgram (1974) e P. Zimbardo; questultimo autore intervenuto fra laltro sul recente caso delle torture americane nel carcere iracheno di Abu Ghraib, sostenendo che la forte propensione alla violenza e alla crudelt determinata dal contesto stesso della prigione, in cui un gruppo di individui esercita un potere assoluto e socialmente legittimato su un altro gruppo (Zimbardo 2004; v. anche http://www.prisonexp.org/links.htm). Per unampia discussione delle posizioni della psicologia sociale sul problema della violenza v. E. Staub (1989) e la recente rassegna di M. Ravenna (2004).
[21] Di particolare rilievo il saggio Dead certainty (Appadurai 1998), che non inserito in questa antologia solo perch una sua traduzione italiana attualmente in corso, sempre presso leditore Meltemi, nel quadro di un volume monografico dello stesso Appadurai.
[22] In questottica sono da leggersi una serie di comportamenti particolarmente sconcertanti degli esecutori, come la derisione e la spettacolare umiliazione delle vittime, e gli scherzi e battute scambiate in proposito con i compagni, a fine giornata. Questo uno dei punti di dissidio nella celebre discussione fra C. Browning e J. Goldhagen sugli uomini comuni del Battaglione 101: le loro testimonianze parlano spesso di momenti di socialit festiva che seguivano i massacri, nel corso dei quali 34
alcuni si vantavano delle uccisioni compiute o le prendevano a oggetto di macabri scherzi. Browning ritiene impossibile che si tratti di veri festeggiamenti, e li interpreta come segno dell'ottundimento della sensibilit, dell'abbrutimento di chi era contrario al massacro o almeno ne era turbato. Goldhagen, al contrario, afferma che l'allegria allegria, e che essa si spiega solo col fatto che i tedeschi non consideravano delittuosi quegli eccidi. Quella non era gente abbrutita e insensibile: scherzavano su azioni che ovviamente approvavano, e alle quali avevano preso parte con evidente piacere (1996, p. 562 nota). Lipotesi di comportamenti legati a una situazione liminale sembra pi plausibile delle interpretazioni dei due storici, i quali sembrano considerare il problema dellespressione delle emozioni in una dimensione puramente psicologico-individuale.
[23] La tesi di Hinton sembra fra laltro poco coerente con quella sostenuta dallo stesso autore in un precedente articolo (1996), in cui la violenza dei massacri cambogiani interpretata alla luce della nozione di dissonanza psico-sociale: gli eccessi e le forme altrimenti inspiegabili di accanimento persecutorio sarebbero la risposta al conflitto fra gli imperativi aggressivi dei Khmer rossi e i valori di solidariet (l etica della gentilezza) largamente diffusi nella societ cambogiana tradizionale. Un analogo approccio proposto da Hinton (1998) anche in relazione al problema della crudelt inutile nello sterminio nazista degli ebrei: i valori del nazismo non potevano non confliggere con pi universali imperativi morali, generando cos una dissonanza che si manifesta in comportamenti abnormi.
[24] Le celebrazioni rituali e la politica dei monumenti sono al centro negli ultimi anni di una vasta produzione storiografica ed etnografica. Si vedano fra laltro limportante lavoro di J. Winter (1995) sulle commemorazioni della Grande Guerra, e i contributi raccolti in Gillis, a cura, 1994 e Lorey, Beezlet, a cura, 2002. Per una discussione del tema nel quadro di un pi ampio approccio allantropologia della memoria rimando a Dei 2004b.
[25] Una convinzione che implicitamente o esplicitamente condivisa da molte etnografie contemporanee della violenza. Si veda ad esempio il lavoro sui guerriglieri sick di C.K. Mahmood (1996), che teorizza unetnografia partigiana e militante, e in cui la ricercatrice dichiara di porsi al servizio dei suoi interlocutori ex-guerriglieri, per salvare la loro voce e contribuire cos ai loro obiettivi politici e ideologici finalit ultima, questa, della ricerca, in contrapposizione all oggettivismo degli studi accademici e dellantropologia classica. Ci si pu chiedere fino a che punto, con tali premesse, ci troviamo ancora di fronte a un libro di antropologia (lautrice dichiara persino di aver rivisto il testo sulla base delle correzioni ideologiche dei suoi interlocutori; v. Dusenbery 1997 per una critica a questi aspetti); ma soprattutto, si pu notare la contraddizione tra, appunto, la critica alloggettivismo accademico e la pretesa, pi volte riaffermata dallautrice, di parlare in nome della verit (v. anche Mahmood 2001).
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Cultura del terrore - Spazio della morte. Lo studio di Roger Casement sul Putumayo e la spiegazione della tortura di Michael Taussig.
(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 77-124; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)
Questo saggio prende in esame la tortura e la cultura del terrore di cui molti di noi me incluso hanno solo una conoscenza indiretta, attraverso racconti altrui. Nelle pagine che seguono mi occuper quindi delle rappresentazioni della cultura del terrore attraverso la narrazione, nonch dei problemi legati ad una scrittura realmente antagonista rispetto al terrore.
Jacobo Timerman conclude il suo recente lavoro Prigioniero senza nome, cella senza numero lasciando aperto uno spiraglio di speranza sullo spazio della morte:
Ha qualcuno di voi mai guardato negli occhi un altro prigioniero steso sul pavimento di una cella, il quale sa che sta per morire sebbene nessuno glielo abbia detto? Sa che sta per morire ma si aggrappa al suo proprio destino biologico di vivere, come a ununica speranza, e questo perch nessuno gli ha detto che stanno per giustiziarlo.
Ho molti di questi sguardi incisi in me []
Quegli sguardi che io ho incontrato nelle carceri clandestine dellArgentina e che ho trattenuto a uno a uno sono stati il punto culminante, il momento pi puro della mia tragedia.
Oggi sono qui con me. E, sebbene io desideri farlo, non posso e non so come condividerli con voi (Timerman 1982, p. 174-175).
Lo spazio della morte fondamentale per la creazione del significato e della coscienza, in particolare in quelle societ in cui la tortura un male endemico e prospera la cultura del terrore. Possiamo pensare allo spazio della morte come ad una soglia, anche se in realt si tratta di un territorio ampio, la cui estensione comprende spazi di entrata e di uscita. Qualche volta una persona ci passa attraverso e poi ritorna per farcene un resoconto, come fa Timerman che entrato, come racconta, perch ha ritenuto opportuno battersi contro la dittatura militare (Ibid., p. 34).
Timerman si battuto con le parole, con il suo giornale La Opinin, muovendosi allinterno e contro il silenzio imposto dagli arbitri del discorso che hanno costruito una nuova realt nelle celle carcerarie in cui torturatori e torturati vivevano gli uni accanto agli altri.
Noialtri vittime e persecutori facciamo parte di una stessa umanit, colleghi nello stesso sforzo di dimostrare lesistenza di ideologie, sensazioni, atti eroici, religioni, ossessioni. E il resto dellumanit, la grande maggioranza, in cosa impegnata? (Ibid., p. 119)
La costruzione della realt coloniale avvenuta nel Nuovo Mondo stata e rimarr un tema di grande interesse e molto studiato: quel Nuovo Mondo dove gli indiani e gli africani divennero soggetti per un numero inizialmente molto piccolo di cristiani. Come pot questa egemonia realizzarsi cos rapidamente? Qualunque risposta possiamo dare, non sarebbe saggio ignorare o sottovalutare il ruolo svolto dal terrore. Con questo voglio dire che dobbiamo pensare attraverso il terrore, che oltre ad uno stato fisiologico 48
anche un fatto sociale e una costruzione culturale, le cui dimensioni barocche gli permettono di essere usato come mediatore par excellence nellegemonia coloniale. Lo spazio della morte uno degli spazi fondamentali in cui indiani, africani e bianchi dettero vita al Nuovo Mondo.
Questo spazio della morte ha unantica e ricca cultura. Limmaginazione sociale lo ha riempito delle proprie immagini metamorfiche del male e degli inferi: nella tradizione occidentale, lo troviamo in Omero, in Virgilio, nella Bibbia, in Dante, in Bosch, nellInquisizione, in Baudelaire, in Rimbaud, in Cuore di tenebra; nella tradizione dellAmazzonia occidentale, nelle zone di apparizioni, di comunicazione tra terrestri ed esseri soprannaturali, di putrefazione, morte, rinascita e genesi, forse nei fiumi e nella terra del latte materno, eternamente immerso nella tenue luce verde delle foglie di coca (Reichel-Dolmatoff 1971). Con la conquista e la colonizzazione degli europei, questi spazi della morte si mescolano, diventando una fonte comune di significanti chiave che legano la cultura dei conquistatori con quella dei conquistati. Lo spazio della morte fondamentalmente uno spazio di trasformazione: attraverso lesperienza della morte, la vita; attraverso la paura, la perdita di s e la conformit ad una nuova realt; oppure anche attraverso il male, il bene. Perso nella selva oscura, camminando poi attraverso lInferno con la sua guida, Dante raggiunge il Paradiso solo dopo essersi arrampicato sulla schiena di Satana. Timerman pu farci da guida, proprio come gli sciamani del Putumayo che conosco fanno da guida a chi si perso nello spazio della morte.
Un vecchio indiano Ingano del Putumayo una volta mi disse di questo spazio:
Con la febbre ero ancora cosciente di ogni cosa. Ma dopo otto giorni persi conoscenza. Non sapevo dove mi trovavo. Vagavo come un pazzo, consumato dalla febbre. Mi dovevano coprire sopra a dove cadevo, faccia a terra. Dopo altri otto giorni non ero pi cosciente di niente. Persi del tutto la conoscenza. Di quello che diceva la gente non ricordo niente. Del dolore, della febbre non ricordo niente. Solo lo spazio della morte, camminavo nello spazio della morte. Cos, seguivo i rumori che parlavano. Rimasi incosciente. Ora il mondo era rimasto indietro. Ora il mondo non cera pi. E allora ho capito. Ora i dolori stavano parlando. Sapevo che non sarei vissuto a lungo. Ora io ero morto. La mia vista se ne era andata. Del mondo non capivo niente, nemmeno il suono delle mie orecchie. Di parole, niente. Silenzio. Cos si conosce lo spazio della morte, l E questa la morte: lo spazio che io ho visto. Ci stavo in mezzo, immobile. Allora andai in cielo, mi sembrava di seguire una stella. Ero immobile. Poi venni gi. L cercavo i cinque continenti del mondo, per restare, per trovarmi un posto nei cinque continenti del mondo, nello spazio in cui stavo vagando. Ma non ci riuscivo.
Potremmo chiederci: in quale posto dei cinque continenti del mondo chi vaga nello spazio della morte trover se stesso? E per estensione: dove unintera societ trover se stessa? Il vecchio teme il male della stregoneria, la battaglia per la sua anima. Tra lui, lo stregone e lo sciamano guaritore, si cerca e si lotta per i cinque continenti. Ma in questa storia ce anche del riso, che punteggia la paura del mistero, facendoci tornare a mente il commento di Walter Benjamin sul modo in cui il romanticismo pu travisare pericolosamente la natura dellintossicazione.
Ogni indagine seria delle doti e dei fenomeni occulti, surrealistici e allucinatori egli scrive presuppone un intreccio dialettico di cui una mentalit romantica non verr mai a capo. E infatti non molto utile sottolineare con tono patetico o fanatico gli aspetti enigmatici dellenigmatico; noi riusciamo invece a penetrare il mistero solo nella misura in cui lo ritroviamo nella vita quotidiana, grazie a unottica dialettica 49
che riconosce il quotidiano come impenetrabile, limpenetrabile come quotidiano (Benjamin 1967, p. 23).
Dalla cronaca di Timerman e da testi come El seor presidente di Miguel Angel Asturia sufficientemente chiaro che le culture del terrore sono fondate e alimentate dal silenzio e dal mito; una dimensione in cui linsistenza fanatica sugli aspetti enigmatici dellenigmatico prospera per mezzo di dicerie finemente intessute in ragnatele di realismo magico. chiaro anche come il carnefice abbia bisogno della vittima per produrre verit, oggettivando le sue fantasie nel discorso dellaltro. E vero, il torturatore anche mosso da una volont prosaica: acquisire informazioni, agire in accordo con le strategie economiche su larga scala elaborate dai padroni e dalle esigenze della produzione. Ma allo stesso tempo, se non forse pi importante, c il bisogno di controllare grandi popolazioni attraverso lelaborazione culturale della paura. Questo il motivo per cui viene imposto il silenzio e per cui Timerman, leditore, era cos importante; ed egli, sempre per questo motivo, sapeva quando doveva stare zitto e tagliare fuori la realt nella camera di tortura.
Questo silenzio - ci dice - comincia coi mezzi di comunicazione. Certi leader politici, certe istituzioni e certi sacerdoti tentano di denunciare quello che sta succedendo, ma sono impossibilitati a stabilire contatti con la popolazione. Il silenzio comincia con un forte odore. La gente annusa i suicidi, che per sono sfuggenti. Poi il silenzio trova un altro alleato: la solitudine. La gente teme i suicidi come teme i folli. E colui che vuole combattere capisce la propria solitudine e si spaventa (Timerman 1982, p. 59).
Sentiamo allora il bisogno di combattere questa solitudine, questa paura e questo silenzio, di esaminare queste condizioni di produzione della verit e della cultura, di seguire Michel Foucault (1977, p. 12) nel vedere storicamente come si producano degli effetti di verit allinterno di discorsi che non sono in s n veri n falsi. Allo stesso tempo non solo dobbiamo vedere, ma dobbiamo vedere di nuovo attraverso la creazione di controdiscorsi. Se gli effetti della verit sono potere, allora la questione rilevante non solo relativamente al potere di parlare e di scrivere, ma anche rispetto a quale forma deve avere questo controdiscorso. La questione della forma ha suscitato ultimamente grande interesse per gli autori di saggi storici o etnografici. Ma di fronte allendemicit della tortura, al terrore e alla crescita degli eserciti, nel Nuovo Mondo siamo oggi assaliti da una nuova emergenza. Bisogna fare lo sforzo di comprendere il terrore, per farlo comprendere agli altri. La realt che ci sta di fronte ridicolizza la comprensione e deride la razionalit, come quando il giovane Jacobo Timerman chiese a sua madre: Perch ci odiano? E lei rispose: Perch non capiscono. E cos, dopo la sua ordalia, il vecchio Timerman scrive del bisogno di un oggetto dellodio e allo stesso tempo della paura di quelloggetto - una ineluttabilit quasi magica dellodio - e conclude:
No. Nessun dubbio che fosse mia madre a sbagliarsi. Non sono gli antisemiti che debbono essere portati a capire. Siamo noi ebrei (Timerman 1982, p. 70, 74)
Odiate e temute, oggetti da disprezzare, ma anche da temere, essenza reificata del male nellessere stesso dei loro corpi, queste figure dellebreo, del nero, dellindiano e della donna stessa sono chiaramente oggetti di una costruzione culturale, la grigia chiatta del male e del mistero che stabilizza la nave e la rotta, cio la storia dellOccidente. Con la guerra fredda si aggiunge il comunista. Con la bomba ad orologeria piazzata dentro alla famiglia nucleare, aggiungiamo le femministe e gli omosessuali. I militari e la Nuova Destra, come i conquistatori di un tempo, svelano il male che essi stessi hanno attribuito a queste figure dellalterit, imitandone la presunta natura selvaggia. 50
Che tipo di comprensione che tipo di discorso, di scrittura e di costruzione di senso pu affrontare e sovvertire tutto ci? Su una cosa Timerman chiaro. Combattere lerotizzazione e la romanticizzazione della violenza con gli stessi mezzi o con forme ugualmente mistiche un vicolo cieco; ma ugualmente insensate sono le comuni spiegazioni razionali della cultura del terrore. Perch dietro alla ricerca dei profitti, al bisogno di controllare la manodopera, al bisogno di alleviare la frustrazione e cos via, ci sono logiche culturali di significato strutture del sentire che sono il risultato di un processo lungo ed intricato, le cui basi poggiano su un mondo simbolico e non su quello del razionalismo utilitarista. In ultima analisi ci sono due aspetti: i pi crudi fatti empirici, come gli elettrodi e i corpi umani mutilati, e lesperienza di passare attraverso la tortura. Nel suo testo Timerman crea un potente controdiscorso, in particolare perch, come la tortura stessa, esso ci fa passare attraverso quello spazio della morte in cui la realt fuori portata, per confrontarsi con le allucinazioni dei militari. Il suo testo sulla pazzia e sul male istituisce una poetica rivoluzionaria e, secondo me, efficace, perch trova un antidoto e un equilibrio in quella che a me pare la pi difficile delle posizioni politiche, allinterno di uno spazio contraddittorio tra socialismo e anarchia. Egli sta a Victor Serge come V.S. Naipaul sta a Arthur Koestler e a Josoph Conrad. Conrad ha trattato il tema del terrore legato allo sfruttamento della gomma in Congo in Cuore di tenebra. In questo romanzo, come osserva Frederick Karl, ci sono tre realt: quella del re Leopoldo, composta da intricati camuffamenti e inganni; il realismo colto di Roger Casement; e quella dello stesso Conrad, che, per citare Karl, sta a met strada fra le altre due, per come egli ha tentato di scoprire il velo restando per ansioso di conservarne la qualit allucinatoria. (Karl 1979, p. 286). Questa formulazione acuta e importante: scoprire il velo, conservandone la qualit allucinatoria. Ci evoca le due ermeneutiche di cui parla Paul Ricoeur nel suo importante commento a Freud: quella del sospetto (o della riduzione) e quella della rivelazione (Ricoeur 1970). Riguardo alle conseguenze politiche di Cuore di tenebra, mentre Ian Watt (1979, p. 161) lo descrive come il pi duraturo e potente atto daccusa letterario nei confronti dellimperialismo, io non sono sicuro che la sua qualit letteraria straordinaria e la sua trasparenza allucinatoria alla fine non accechino e non facciano cadere in trance il lettore, che annega nella corrente delle visioni. Il pericolo qui risiede nellorrore estetizzante e se Conrad in grado di fermarsi, noi dobbiamo renderci conto che appena oltre sta in agguato la poetica seduttiva del fascismo, quella fonte immaginativa del terrore e della tortura che profondamente impressa dentro di noi. Il problema artistico e politico sta nelloccuparsene, mantenendo questa qualit allucinatoria, ma rigirandola in effetti contro se stessa. Questa potrebbe essere la vera catarsi, il grande controdiscorso di cui dobbiamo elaborare la poetica nel terreno politico che oggi si apre con urgenza: la forma in cui tutto ci che attrae e seduce nelliconografia e nella sensualit degli inferi diventa una forza di autosovversione. La nozione di discorso di Foucault elude questa aspirazione e questo concetto di sovversione dialetticamente impegnata. Ma tramite una simile poetica che noi dobbiamo sviluppare le politiche culturali appropriate ai nostri tempi.
La posizione di Casement contrasta sorprendentemente con quella di Conrad. La differenza tra i due risulta tanto pi forte quando si consideri come i loro sentieri si incrociarono in Congo nel 1890, in virt di un loro comune background politico di esiliati o quasi-esiliati da societ europee sottomesse ad imperi, come la Polonia e lIrlanda. Inoltre, cera una indefinibile, anche se superficiale, somiglianza tra i due per il temperamento e lamore per la letteratura. Fu tuttavia Casement che fece ricorso allimpegno militante per la sua terra natia, organizzando un rifornimento di armi dalla Germania ai ribelli di Dublino per la domenica di Pasqua del 1916, finendo per essere impiccato per tradimento; Conrad si tenne invece pi ancorato ai propri obiettivi di artista, sommerso dalla nostalgia e dal senso di colpa per la Polonia, prestando il suo nome ma per il resto 51
rifiutando di aiutare Casement nella Congo Reform Society, sostenendo a sua discolpa di essere solamente un povero romanziere. A questo proposito, un testo chiave la lettera di Conrad al suo caro amico e socialista, laristocratico Don Roberto, altrimenti conosciuto come R. B. Cunninghame Graham (che Jorge Borges considerava, insieme allaltro grande romantico inglese W.H. Hudson, lautore dei pi accurati brani e opere letterarie della societ della Pampa nel diciannovesimo secolo). In questa lettera, datata 26 dicembre 1903, Conrad rende onore a don Roberto per il suo eccellente libro sul grande conquistatore spagnolo, Hernando de Soto, in particolare per la capacit simpatetica ad entrare nellanima dei conquistadores il fascino, la passione e il romanticismo di quei tempi - una sorta di sedativo che ci induce a dimenticare i conquistadores moderni come Leopoldo e la mancanza di romanticismo e fantasia nellimperialismo borghese tra diciannovesimo e inizio del ventesimo secolo. Conrad quindi va ad informare don Roberto di un uomo che si chiama Casement e dei suoi piani di fondare una societ di riforma del Congo per fermare il terrore che l associato con lindustria della gomma, lo stesso terrore che ispir il romanzo di Conrad. Conrad paragona Casement ad un conquistador ed indulge ad una sua raffigurazione del tutto romanticizzata recisamente corretta da Brian Inglis, uno dei biografi di Casement, settanta anni dopo.[1] Ci che rende amara e istruttiva questa indulgenza, che deriva da e pervade la teoria di Conrad sulla poetica, come essa formulata nellintroduzione a Il negro del Narciso, il mutato atteggiamento dellautore al tempo del processo a Casement per tradimento e alla sua pubblica diffamazione in quanto omosessuale, nel 1916. Conrad abbandona qui completamente quel romanticismo che laveva portato quasi a deificare il Casement incontrato in Congo nel 1890. Scrivendo a John Quinn, Conrad rievoca il suo primo incontro con Casement, descrivendolo ora non pi, come nel Diario del Congo, un uomo che pensa, parla bene, molto intelligente e simpatico, ma come un reclutatore di manodopera. Egli passa a denigrare Casement come un romantico opportunista e aggiunge:
Era un buon compagno, ma gi in Africa ritenevo che egli fosse un uomo, propriamente parlando, che non pensava. Non voglio dire stupido. Dico che era molto emotivo. La carica emozionale (rapporto sul Congo, sul Putumayo ecc.) era divenuto il suo stile e il puro emozionalismo lha rovinato. Una creatura di temperamento puro una personalit veramente tragica: in lui non cera nessuna traccia di grandezza. Solo vanit. Ma in Congo non era ancora visibile. [2]
Tuttavia, resta il fatto che i rapporti di Casement sul Congo e sul Putumayo fecero molto per arginare la brutalit diffusa in quei luoghi; secondo Edmund Morel, essi inocularono la diplomazia di questo Paese [Gran Bretagna] con una tossina morale, tanto che gli storici considerano questi due casi come i soli in cui la diplomazia britannica si elevata al di sopra dei luoghi comuni (Inglis 1974, p. 46). Oltre alle coincidenze della storia imperialista, quello che accomuna Casement e Conrad il problema che entrambi pongono riguardo alla forza retorica e ai risultati politici del realismo sociale e del realismo mitico. Nello spazio che separa lemotivo console generale, che da realista e da razionalista scriveva schierandosi dalla parte dei colonizzati, e il grande artista che invece non lo ha fatto, si trovano molti dei problemi cruciali riguardo alla dominazione della cultura e alle culture della dominazione.
Il rapporto sul Putumayo
A questo punto utile una breve analisi letterale del rapporto di Casement sul Putumayo presentato a Sir Edward Grey, capo del British Foreign Service, e pubblicato dalla House of Commons il 13 luglio 1913, quando Casement aveva 49 anni. Per cominciare si potrebbe osservare che lattaccamento di Casement alla causa dellautonomia irlandese e la sua collera nei confronti 52
dellimperialismo britannico rese il suo compito di console britannico, che port avanti quasi tutta la vita, estremamente denso di contraddizioni. In pi egli sentiva che le sue esperienze in Africa e in Sud America lo aiutavano a comprendere meglio gli effetti del colonialismo in Irlanda, che a sua volta stimolava la sua sensibilit etnografica e politica riguardo alle condizioni di vita a sud dellequatore. Egli affermava, ad esempio, che proprio la sua conoscenza della storia irlandese gli consentiva di capire le atrocit che avvenivano in Congo, mentre quelli del Ministero degli Esteri non ne sarebbero stati in grado perch levidenza empirica per loro non aveva senso. In una lettera ad una sua cara amica, Alice Green, egli osservava:
Sapevo che il Ministero degli Esteri non avrebbe capito questa cosa, per cui mi resi conto che stavo guardando a questa tragedia con gli occhi di unaltra razza di persone che a loro volta erano state cacciate, quelle stesse persone i cui sentimenti si basavano sullaffetto come principio originario del contatto con i loro compagni e il cui giudizio della vita non era qualcosa da analizzare sempre in base al suo prezzo di mercato (Ibid., p. 131).
Nellarticolo che scrisse per la prestigiosa Contemporary Review nel 1912, egli affermava che gli indiani del Putumayo, dal punto di vista morale, avevano un grado pi alto di sviluppo rispetto ai loro oppressori bianchi. Agli indiani mancava la vena competitiva: essi erano socialisti per carattere, indole e probabilmente per effetto di lunga memoria della civilt Inca e pre-Inca. Alla fine Casement chiedeva: troppo tardi per sperare che attraverso la stessa mediazione umana e fraterna, qualcosa della bont e della benevolenza della vita cristiana possa essere trasmessa ai bambini della foresta, lontani, perduti e senza amici? In uno scritto successivo, si riferiva ai contadini di Connemara in Irlanda come a degli indiani bianchi (Ibid., p. 234). La sostanza del suo rapporto di 136 pagine sul Putumayo, basato su un viaggio di sette settimane durante il quale, nel 1910, aveva attraversato le aree di raccolta della gomma nelle giungle del Caraparan e dellIgaraparan, affluenti del tratto di mezzo del fiume Putumayo, e su altri sei mesi trascorsi nel bacino dellAmazzonia, sta da un lato nei dettagli sul terrore e sulle torture, dallaltro nella spiegazione delle cause e nelle stime sul tributo pagato in vite umane. La gomma del Putumayo non sarebbe stata un buon affare senza il lavoro forzato degli indiani locali, in particolare di quelli chiamati Huitotos. Durante i dodici anni a partire dal 1900 in cui nel Putumayo furono prodotte qualcosa come 4000 tonnellate di gomma, migliaia di indiani pagarono con la propria vita. Le morti per tortura, malattia e forse le fughe fecero diminuire la popolazione di questa area di circa 30.000 unit, nel corso di questi anni.[3] Il governo britannico si sent in obbligo di inviare Casement come proprio rappresentante consolare nel Putumayo a causa del grande clamore suscitato nel 1909 da una serie di articoli apparsi sulla rivista londinese %Truth%$. Gli articoli descrivevano la brutalit della compagnia della gomma, costituita a partire dal 1907 come consorzio di imprese peruviane e britanniche. Intitolati The Devils Paradise: A British Owned Congo (Il paradiso del demonio: il dominio britannico del Congo), questi articoli erano opera di un giovane ingegnere e avventuriero statunitense chiamato Walter Hardenburg. Insieme ad un compagno di viaggio era entrato nel remoto angolo del bacino dellAmazzonia passando dalle Ande colombiane nel 1907 ed era stato fatto prigioniero dalla Compagnia peruviana della gomma, fondata da Julio Csar Arana nel 1903. La cronaca di Hardenburg in gran parte unelaborazione di un testo fondamentale per la saga del Putumayo, vale a dire un articolo uscito nel giornale iquito %La Sancin%$, poco prima che la sua pubblicazione venisse sospesa dal governo peruviano e dallo stesso Arana. Hardenburg affermava che gli alberi della gomma stavano diminuendo rapidamente e che nel giro di quattro anni sarebbero del tutto scomparsi a causa della rapacit del sistema di produzione. Larticolo continuava con laffermazione che i pacifici indiani lavoravano notte e giorno estraendo la 53
gomma senza ricevere la minima remunerazione. Non veniva dato loro niente da mangiare o di cui vestirsi. Il loro raccolto, cos come le loro donne e i loro bambini, venivano portati via per il piacere dei bianchi. Venivano fustigati in modo disumano, fino a scoprire le ossa. Non ricevevano trattamenti sanitari, venivano lasciati morire una volta finita la tortura, sbranati dai cani della compagnia. Venivano castrati e venivano tagliate loro orecchie, dita, braccia e gambe. Venivano torturati con il fuoco, con lacqua e crocifissi a testa in gi. I bianchi li tagliavano a pezzi con il machete e spaccavano la testa ai bambini piccoli facendoli sbattere contro alberi e muri. I pi grandi venivano uccisi se non erano pi in grado di lavorare. Per divertirsi i funzionari della compagnia praticavano il tiro a segno, usando gli indiani come bersaglio. In occasioni speciali come il sabato di Pasqua il Sabato Santo gli sparavano a gruppi oppure, a scelta, li cospargevano di kerosene e li mettevano sul fuoco, per divertirsi nel vederli agonizzare.[4] In una lettera scritta a Hardenburg da un dipendente della compagnia leggiamo che una commissione era stata incaricata di sterminare un gruppo di indiani perch non producevano gomma a sufficienza. La commissione torn quattro giorni dopo con dita, orecchie e diverse teste di indiani per dimostrare di aver eseguito gli ordini (Hardenburg 1912, p. 258). In unaltra occasione, il direttore chiam centinaia di indiani perch si radunassero sul posto.
Afferr la sua carabina e il suo machete e inizi ad uccidere questi indiani inermi, lasciando il suolo ricoperto di pi di 150 cadaveri, tra cui uomini, donne e bambini. Immersi in un lago di sangue e implorando piet, i sopravvissuti venivano ammassati con i morti e bruciati, mentre il direttore gridava: Sterminer tutti gli indiani che non obbediscono ai miei ordini, che non producono tutta la gomma che io pretendo.
Quando erano ubriachi, aggiunge il corrispondente, i dipendenti di livello pi alto della compagnia brindavano con lo champagne alla salute delluomo che si vantava di aver compiuto il numero pi alto di assassinii (Ibid., pp. 260 e 259). Laspetto forse pi drammatico del terrore nel Putumayo, riportato in un articolo di giornale iquito nel 1908 e confermato sia da Casement che da Hardenburg, riguarda la pesatura della gomma portata dagli indiani dalla foresta:
Gli indiani sono cos remissivi che appena vedono che lago della bilancia non indica i dieci chili, allungano essi stessi le mani e si gettano a terra per ricevere la punizione. Allora il comandante [della stazione della gomma] o un suo subordinato viene avanti, si china, prende lindiano per i capelli, lo percuote, gli solleva la testa e gli picchia la faccia in terra. Dopo che la faccia stata picchiata e presa a calci ed ricoperta di sangue, lindiano viene frustato. Questo accade quando gli va bene, perch spesso vengono fatti a pezzi con il machete.[5]
Nella stazione della gomma di Matanzas, continua lautore, Ho visto indiani legati ad un albero, con i piedi circa mezza iarda sopra il terreno. Viene messo sotto del carburante e vengono bruciati vivi. Questo si fa per passare il tempo.
Il rapporto di Casement alla House of Commons sobrio e posato, quasi nello stile di un avvocato che discute un caso: del tutto diverso dal suo diario in cui racconta la stessa esperienza. Casement aggiunge fatti a fatti brutali, suggerisce tutto un insieme di analisi e fa le sue raccomandazioni. Il suo materiale viene da tre fonti: fatti di cui egli stato testimone; testimonianze di 30 neri delle Barbados che, insieme ad altri 166, lavorarono sotto contratto per la compagnia dal 1903 al 1904 come sorveglianti e le cui affermazioni occupano 85 pagine protocollo; infine, frammisti alle osservazioni dello stesso Casement, numerosi racconti degli abitanti del luogo e dei dipendenti della compagnia. 54
Allinizio del suo rapporto, in una battuta molto efficace, Casement evoca la banalit della violenza. I dipendenti di tutte le stazioni, quando non cacciano gli indiani, passano il tempo stando distesi sulle amache o a giocare dazzardo Colpisce latmosfera irreale dellordinario, lordinariet della straordinario: In alcune delle stazioni il principale fustigatore era il cuoco della stazione due di loro mi furono direttamente citati, e ho mangiato il cibo preparato da loro, mentre molte delle loro vittime trasportavano il mio bagaglio da una stazione allaltra e spesso mostravano terribili cicatrici sui loro arti, inflitte dalla mano di quegli stessi uomini (ibid., p. 34). Dalla presenza delle cicatrici Casement cap che la grande maggioranza (forse pi del 90%) degli oltre 1.600 indiani che aveva visto erano stati violentemente percossi (ibid., pp. 33-4). I casi peggiori erano quelli dei ragazzi piccoli e le morti dovute a fustigazione erano frequenti, o sotto la frusta oppure, pi spesso, qualche giorno dopo quando le ferite si infettavano (ibid., p. 37). Le fustigazioni avevano luogo quando un indiano produceva una quantit insufficiente di gomma e diventavano pi sadiche per quelli che osavano cercare di scappare. La fustigazione era unita ad altri tipi di tortura come il quasi-annegamento, pensato, come osservava Casement, per fermarsi appena in tempo prima di annegare la vittima, suscitando cos una forma acuta di panico psicologico e infliggendo unagonia fisica del tutto simile a quella della morte. Casement era stato informato da un uomo che aveva egli stesso pi volte fustigato gli indiani che in alcuni casi le madri venivano fustigate perch i loro bambini piccoli non avevano prodotto abbastanza gomma. Mentre i ragazzi rimanevano immobili, pietrificati dal terrore, piangendo a quella vista, le loro madri venivano picchiate giusto con un paio di colpi per farne lavoratori migliori (ibid., p. 37). Gli indiani venivano lasciati deliberatamente senza mangiare per giorni, qualche volta per spaventarli, ma pi spesso per ucciderli. Uomini e donne venivano rinchiusi nei magazzini fino a quando morivano di fame. Uno delle Barbados riport di aver visto indiani che in questa situazione grattavano la terra con le dita e la mangiavano. Altri dichiararono di averli visti mangiare i vermi delle loro ferite (ibid., p. 39). I magazzini qualche volta si trovavano sopra la veranda superiore o la parte abitata delledificio principale della stazione della gomma, direttamente sotto la vista del direttore e dei suoi dipendenti. Bambini, uomini e donne potevano rimanervi confinati per mesi e alcuni degli uomini delle Barbados dicevano di aver visto stuprare le donne mentre erano nei magazzini (ibid., p. 42). Molte delle misure di sorveglianza e delle punizioni venivano eseguite da corpi di guardie indiane chiamate i muchachos. I membri di questo corpo armato venivano addestrati dalla compagnia gi in giovane et e per controllare i salvajes venivano impiegati solo questi che erano loro affini. Casement pensava che essi non fossero in generale peggiori dei loro capi bianchi.[6] Quando gli uomini delle Barbados erano presenti, veniva spesso assegnato loro il compito di fustigare gli indiani, ma, sottolinea Casement, nessun dipendente godeva il diritto di un monopolio della fustigazione. Il comandante della sezione di solito prendeva lui stesso la frusta che, a turno, poteva essere usata da ogni membro dello staff civilizzato o razionale (Casement 1912-1913, p. 33). Tali uomini, racconta Casement, avevano perso completamente la prospettiva o il senso della realt dellestrazione della gomma, essi erano semplicemente belve da preda che vivevano a spese degli indiani e si divertivano a versare il loro sangue. Inoltre i dirigenti delle stazioni delle aree in cui Casement aveva le informazioni pi precise avevano contratto debiti (nonostante i loro considerevoli tassi di commissione), gestendo operazioni in perdita per la compagnia, anche per molte migliaia di sterline (ibid., pp. 44-5). A questo punto necessario osservare che sebbene gli indiani fossero le principali vittime del terrore, anche bianchi e neri erano possibili bersagli. Poteva trattarsi dei concorrenti per lestrazione della gomma indiana, come i commercianti indipendenti di gomma della Colombia che per primi 55
conquistarono il Putumayo e che furono costretti ad andarsene dalla compagnia di Arana nel 1908, oppure anche degli stessi dipendenti della compagnia: solo pochi riuscirono a sfuggire alla minaccia, sempre incombente, della tortura e della degradazione. Interrogato da Casement che gli chiese se non sapesse che era sbagliato torturare gli indiani, uno degli uomini delle Barbados rispose che egli non poteva disattendere gli ordini, che un uomo pu essere un uomo laggi tra gli iquitos, ma pu non essere un uomo quass Inoltre la maggior parte dei dipendenti bianchi e neri della compagnia erano essi stessi intrappolati in un sistema di peonaggio, anche se diverso da quello impiegato per controllare gli indiani. Dalla testimonianza degli uomini delle Barbados chiaro che il dissenso, lodio e la diffidenza provocavano risse tra tutti i membri della compagnia. Potremmo addirittura pensare seriamente che tale anomia e diffidenza potevano esser controllate solo attraverso la ritualizzazione collettiva delle torture agli indiani; una ritualizzazione in grado di garantire alla compagnia la solidariet richiesta per mantenerla come effettiva unit sociale. Leggendo i resoconti (riportati da Casement di seconda mano e da Hardenburg come testimone) sugli attacchi della compagnia contro i commercianti bianchi della Colombia si diventa a poco a poco consapevoli di quelle caratteristiche rituali che fecero della violenza nel Putumayo una vera e propria cultura del terrore.
L'analisi di Casement
La principale linea di analisi di Casement sta nella sua argomentazione che non era la gomma, ma la manodopera ad essere scarsa nel Putumayo e che la scarsit fu la causa fondamentale dell'uso del terrore. La gomma del Putumayo era di qualit molto scadente, la lontananza ne rendeva il trasporto costoso rispetto alla gomma proveniente da altre zone e i salari per i lavoratori liberi erano molto alti. Casement sostiene quindi che la compagnia ricorreva all'uso di manodopera coatta sottomessa attraverso il sistema del peonaggio, usando la tortura per mantenere la disciplina dei lavoratori.. Il problema di questa argomentazione, che chiama in causa una presunta razionalit degli affari e una logica capitalistica della merce (tra cui la manodopera), che essa va incontro ad alcune contraddizioni e, anche se non del tutto errata, mi sembra che non dia sufficiente peso a due questioni fondamentali. La prima riguarda le forme della manodopera e l'organizzazione economica che la storia locale e la societ indiana avevano messo a disposizione, almeno potenzialmente, al capitalismo mondiale nelle giungle del Putumayo. La seconda questione, in poche parole, che il terrore e la tortura non derivano solo dalla pressione esercitata dal mercato (che possiamo qui considerare la causa immediata), ma anche dal processo di costruzione culturale del male. "La pressione del mercato" si rif al paradigma della scarsit che fondamentale per l'economicismo capitalista e per la teoria socio-economica capitalista. Lasciando da parte la questione di quanto sia esatta una descrizione della societ capitalista come risulta da questo paradigma, comunque dubbio che esso riveli molto della realt dello sfruttamento della gomma del Putumayo. Qui il problema, per un'impresa capitalista, era proprio quello che non c'erano istituzioni sociali capitaliste o un mercato per la forza lavoro astratta all'interno del quale il capitale si potesse alimentare e moltiplicare. Anzi, si potrebbe andare oltre e sostenere che proprio questa mancanza di relazioni sociali mercificate, insieme alle pressioni del mercato mondiale della gomma, stata responsabile della produzione della tortura e del terrore. Daltra parte, dire che la cultura del terrore era funzionale alla necessit di forza lavoro non spiega le contraddizioni pi significative che emergono dal rapporto di Casement: vale a dire che il massacro di questa preziosa manodopera aveva dimensioni incredibili e che, come sostiene lo stesso Casement, non solo i dirigenti della stazione costavano alla compagnia grandi somme di denaro, ma "tali uomini avevano perso completamente la prospettiva o lobiettivo dellestrazione della gomma: essi erano semplicemente belve da preda che 56
vivevano a spese degli indiani e si divertivano a versare il loro sangue. Rivendicare la razionalit degli affari in questo caso significa rivendicare e sostenere una razionalit illusoria, offuscando la nostra comprensione del modo in cui gli affari possono trasformare l'uso del terrore da mezzo a fine in s. La storia locale e dell'organizzazione economica richiederebbero una trattazione molto pi completa di quella che pu essere condotta in questa sede. Vorrei comunque osservare per inciso che la "scarsit" della manodopera non pu essere ricondotta alla scarsit degli indiani, di cui invece sembra che ci fosse abbondanza, ma piuttosto al fatto che gli indiani non lavoravano in un modo regolare e fidato, necessario ad un'impresa capitalista su larga scala. Casement sottovalut questo fenomeno, ora spesso descritto come curva di offerta di lavoro inclinata allindietro, anche se nel Congo aveva egli stesso lamentato che i nativi non volevano lavorare (Inglis 1974, p.29). Egli era sicuro che se ricompensati meglio, gli indiani avrebbero lavorato al livello richiesto dalla compagnia senza l'uso della forza. Molte persone con una lunga esperienza nel Putumayo rifiutavano questa affermazione ingenua e sostenevano, con una logica impeccabile quanto quella di Casement, che la scarsit di manodopera e la facilit con cui gli indiani vivevano dei prodotti della foresta obbligava i datori di lavoro a trattarli con riguardo.[7] In ogni caso, con o senza l'uso della coercizione, il livello di produttivit della manodopera non raggiungeva quello desiderato dai padroni. Le contraddizioni aumentano ulteriormente considerando l'analisi del sistema del peonaggio che Casament considera schiavit. Era un pretesto, secondo lui, che gli indiani in una tale relazione fossero in debito, perch erano costretti a lavorare per la compagnia con la forza e non sarebbero potuti scappare (Casement 1913, vol. 14, p.113, par. 2809). Ci si potrebbe chiedere perch la compagnia continuasse con questa finzione, considerati soprattutto i mezzi di coercizione a sua disposizione. Con ogni probabilit si registravano i pagamenti anticipati sotto forma di beni (come machete, vestiti o fucili) per ogni coltivatore della gomma. Gli acconti erano corrispondenti pi o meno a cinque pence per ogni libbra di gomma, che nel 1910 veniva rivenduta a tre scellini e dieci pence sul mercato di Londra. (Nell'Africa occidentale i nativi venivano pagati l'equivalente di una cifra compresa tra due scellini e due scellini e sei pence a sterlina di gomma "Ibi Red niggers", di qualit paragonabile a quella del Putumayo).[8] Il dirigente di una stazione rifer a Casement che gli indiani non chiedevano mai il prezzo o il valore della gomma. Qualche volta gli si dava una singola moneta e Casement incontr molte donne indiane che indossavano collane fatte di monete (Casement 1912-1913, p. 50). Joachin Rocha scrive che gli indiani della stazione della gomma di Tres Esquinas consideravano il denaro non come mezzo di scambio ma come un oggetto prezioso: essi usavano battere le monete fino a farle diventare delle forme triangolari spianate e lucide da usare come anelli da naso e pendagli per le orecchie (Rocha 1095, p. 75). Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che gli indiani mancassero di interesse o non comprendessero le finalit del commercio e quello che i bianchi facevano con la gomma nel mondo esterno. "Voi comprate queste cose con la gomma che noi produciamo", disse un capo indiano guardando, incantato, nei binocoli di Casement. A Casement fu detto che i dirigenti della stazione fissavano la quantit di gomma dovuta da ogni individuo in relazione ai beni che erano stati dati in acconto e a questo proposito Padre Gridilla riporta un episodio interessante che risale al 1912, quando era in viaggio nella regione del Carapan. In quel periodo migliaia di indiani venivano alla stazione della gomma di La Occidente per consegnare la gomma. Prima c'era una grande danza che durava cinque giorni - il tipo di evento che Joachin Rocha dieci anni prima aveva paragonato alla festa del raccolto. Quando la gomma veniva consegnata si davano beni in acconto e Padre Gridilla commenta:
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i selvaggi non conoscono il denaro, i loro bisogni sono molto limitati e chiedono solo fucili, munizioni, asce, machete, specchi e occasionalmente amache
Un indiano descritto come un selvaggio grosso e brutto rifiutava di accettare qualsiasi cosa, e dopo molte insistenze rispose: "Io non voglio niente. Io ho tutto". I bianchi continuarono a insistere che chiedesse qualcosa. Alla fine l'indiano replic "Voglio un cane nero". "E dove posso trovare un cane nero o anche uno bianco, se non ce n in tutto il Putumayo?" rispose il dirigente della stazione. "Tu mi chiedi gomma" rispose il selvaggio "e io ti porto gomma. Se io ti chiedo un cane nero, tu devi darmene uno."[9] Basandosi su storie sentite raccontare, Hardenburg scrisse che gli indiani ricevevano i loro acconti con grande piacere, perch se non l'avessero fatto sarebbero stati fustigati a morte (Hardenburg 1912, p. 218). Anche se era un pretesto, il debito che assicurava il peonaggio era nondimeno reale e il suo realismo magico era essenziale all'organizzazione della forza lavoro nella raccolta della gomma del Putumayo, proprio come quella "finzione della merce" che Karl Polany descrive per l'economia del capitalismo maturo (Polany 1957; v. anche Taussig 1980a). Per analizzare la costruzione di queste realt fittizie abbiamo bisogno di guardare a qualcuna delle loro caratteristiche pi chiaramente mitiche, racchiuse nella relazione sinergica tra mondo selvaggio e affari, tra cannibalismo e capitalismo. Julio Csar Arana, la forza propulsiva della compagnia della gomma, fu interrogato nel 1913 dalla Commissione del Parlamento Britannico sul Putumayo. Gli fu chiesto di spiegare che cosa intendesse quando affermava che gli indiani avevano resistito all'istituzione della civilizzazione nelle loro zone, che essi avevano resistito per molti anni e che avevano praticato il cannibalismo. Quello che intendo, rispose, che essi non ammettevano lo scambio o che qualcuno facesse affari con loro - i bianchi, per esempio[10].
La giungla e la barbarie
In tutti i resoconti delle atrocit commesse durante il periodo dello sfruttamento della gomma nel Putumayo c un problema cui ho finora solo accennato. Anche se non ci sono dubbi sull'immensit della violenza, gran parte delle prove ci giunge attraverso racconti. Uno storico meticoloso vedrebbe in ci una sfida a saper cogliere la verit filtrandola dalle esagerazioni o dai sottintesi. Ma limplicazione pi importante, mi sembra, che i racconti sono in s stessi testimonianze del processo attraverso cui una cultura del terrore stata creata e sostenuta. Emergono in particolare due motivi correlati: gli orrori della giungla e gli orrori dello stato selvaggio. Tutti i fatti sono distorti attraverso il prisma formato da questi motivi che, in accordo con la teoria dellarte di Conrad, mediano la verit effettiva non tanto attraverso la disseminazione dellinformazione quanto attraverso il fascino delle impressioni sensoriali sui temperamenti. Limmagine europea e colonialista della giungla primordiale, con i suoi rampicanti, gli alberi della gomma e con il suo dominio sul dominio umano, si presenta come la metafora colonialmente pi appropriata di un grande spazio del terrore e della crudelt pi profonda. (LEuropa del tardo xix secolo, che stava penetrando le antiche foreste dei tropici.) Carlos Fuentes afferma che la letteratura latino-americana si muove tra i poli formati dalla natura e dalla dittatura, in cui la distruttivit della prima serve a riflettere relazioni sociali ancora pi distruttive. Un autore colombiano, Jos Eustacio Rivera, scrive negli anni 20 in veste di peone preso nella trappola del debito nel Putumayo:
Ero un cauchero [coltivatore della gomma] e sar sempre un cauchero. Vivo nel pantano melmoso, nella solitudine delle foreste, con la mia combriccola di malarici, perforando la corteccia degli alberi, da cui esce del sangue bianco, come quello degli dei [] Ero e sar sempre un cauchero. E quello che la mia mano infligge agli alberi, pu infliggere anche agli uomini.[11] 58
In Cuore di tenebra Marlowe siede a gambe incrociate come un Buddha e nellintroduzione al suo racconto prefigura lo sfruttamento coloniale del Congo della fine del xix secolo, evocando un mercenario della Roma imperiale che si muove attraverso le paludi del Tamigi
Sbarcare in una palude, marciare attraverso i boschi, e in qualche posto dellinterno sentire che la barbarie, lestrema barbarie gli si rinchiusa intorno tutta quella vita misteriosa e primitiva che si muove nella foresta, nelle giungle, nei cuori selvaggi. Non c iniziazione per simili misteri. Egli deve vivere in mezzo allincomprensibile, che altres detestabile. Ma che ha pure del fascino, che agisce su di lui. Il fascino del disgusto sapete. Immaginate i crescenti rimpianti, la brama di fuggire, il disgusto impotente, la capitolazione, lodio (Conrad 1967, p. 283).
Il padre cappuccino Gaspar de Pinell, che intraprese una leggendaria excursin apostlica presso gli Huitotos e altre trib selvagge nelle foreste del Putumayo alla fine degli anni 20, ricorda come la sua guida bianca, un uomo di grande esperienza, si fosse ammalato e cercasse di farsi curare da uno sciamano Huitoto (che il padre chiamava stregone) piuttosto che con i farmaci dei bianchi. Mor poco dopo, affidando a Padre Pinell il dilemma morale del colonialista:
Questo mostra scriveva che pi probabile che un uomo civilizzato diventi un selvaggio o si mescoli con gli indiani, che gli indiani diventino civilizzati attraverso le azioni dei civilizzati (de Pinell 1924, p.156)
E con un torrente di virtuosismo fenomenologico, il suo collega, Padre Francisco de Vilanova, affronta lo stesso annoso problema, con la differenza che qui la giungla del Putumayo a costituire la grande immagine della condizione selvaggia. In un libro che descrive la missione del Cappuccino tra gli Huitotos a partire dagli anni 20, si legge:
una cosa quasi incredibile per chi non conosce la giungla. un fatto irrazionale che rende schiavo chi ci va. un turbinio di passioni selvagge che si impossessa delle persone civilizzate che hanno troppa fiducia in s stesse. la degenerazione dello spirito in unubriacatura di circostanze improbabili ma reali. Luomo razionale e civilizzato perde il rispetto per se stesso e per la propria patria. Getta il suo patrimonio nel pantano da dove chiss quando sar tirato fuori. Il cuore gli si riempie di morbosit e di sentimenti selvaggi. Diventa insensibile rispetto alle cose pi grandi e vere dellumanit. Anche gli spiriti istruiti, finemente formati e ben educati, alla fine hanno ceduto (de Vilanova 1948).
Non certamente la giungla, ma i sentimenti che gli uomini vi proiettano che sono decisivi per riempire i loro cuori di sentimenti selvaggi. E quello che pu compiere la giungla, tanto pi possono farlo i suoi abitanti nativi, gli indiani selvaggi, come quelli torturati nelle piantagioni della gomma. Non si deve dimenticare che limmagine, costruita dal colonialismo, dellindiano selvaggio di cui qui si parla era unimmagine fortemente ambigua, altalenante, bifocalizzata e vagamente composta di animale e umano. Nella loro forma umana o quasi umana, gli indiani selvaggi potevano restituire agli occhi dei colonizzatori le loro ampie e barocche proiezioni di unumanit selvaggia: proiezione di cui avevano bisogno per stabilire la propria realt di persone civilizzate (per non dire di affaristi). Ed solo perch gli indiani selvaggi erano uomini che potevano essere impiegati come manodopera (e sottoposti alla tortura). Ed la vittima umana, non quella animale, che gratifica il torturatore, consentendogli di trasformarsi a sua volta in un selvaggio.
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Quanto erano selvaggi gli Huitotos?
La barbarie degli indiani selvaggi svolgeva un ruolo chiave nella propaganda della compagnia della gomma. Hardenburg scrive che gli Huitotos sono molto ospitali, e che mentre la Chiesa migliora la loro morale, i preti sono accuratamente esclusi nelle propriet della compagnia.
Anzi continua per spaventare le persone e trattenerle cos dallentrare nella regione, la compagnia aveva messo in circolazione racconti che facevano gelare il sangue nelle vene sulla ferocia e il cannibalismo di questi indiani inermi, che i viaggiatori come me conoscevano come riservati, pacifici, mansueti, industriosi e remissivi (Hardenburg 1912, p. 163).
Padre Pinell ha pubblicato un documento peruviano che descrive un film documentario commissionato dalla compagnia di Arana nel 1917. Mostrato nei cinema di Lima, il film ritrae gli effetti civilizzatori della compagnia su
queste regioni selvagge che non pi di 25 anni fa erano popolate esclusivamente da cannibali. Grazie allenergia di questo infaticabile combattente [Arana], essi sono stati trasformati in utili elementi di manodopera (de Pinell 1924, p. 196).
La propaganda normalmente fioriva solo dove il terreno era stato bene e a lungo preparato e mi sembra che quella di Arana non fosse uneccezione, dal momento che la mitologia della barbarie risale a tempi a lui anteriori. Ma le passioni suscitate dallo sfruttamento della gomma alimentarono questa mitologia con una forza seduttiva. Prima di andare avanti nellanalisi dei modi in cui la compagnia della gomma acquis lo stesso livello di barbarie che attribuiva agli indiani, necessario fermarsi un momento per esaminare la mitologia e il folklore colonialista relativo alle popolazioni delle foreste dellAlta Amazzonia. A pi riprese Casement ci racconta che gli Huitotos e gli indiani dellAlta Amazzonia erano gentili e pacifici. Egli non d credito al loro cannibalismo, dice che sono tutto meno che violenti e si riferisce alla loro docilit come ad una caratteristica naturale e straordinaria. Ci spiegherebbe la facilit con cui furono conquistati e costretti a raccogliere la gomma.
Un indiano prometterebbe qualsiasi cosa per un fucile o per unaltra delle cose allettanti che gli vengono offerte per indurlo a produrre la gomma. Molti indiani cedevano alla proposta, per scoprire che, una volta nei registri dei conquistadores, essi avevano perso ogni libert e si riducevano a dover soddisfare le infinite richieste di altra gomma e a svolgere i compiti pi diversi. Un cacicco o capitn poteva essere indotto a mettere a disposizione la manodopera del suo intero clan; la sua forte influenza unita alla naturale remissivit degli indiani, caratteristica tipica delle trib dellAlta Amazzonia, rendeva meno difficile di quanto si potesse pensare lopera di conquista di una popolazione primitiva e il ridurla ad un continuo sforzo per la ricerca della gomma (Casement 1912-1913, pp. 27-28).
Ma daltra parte, tale remissivit rende la violenza dei bianchi ancora pi difficile da comprendere. Molti punti possono essere contestati nella versione di Casement sopra riportata, come ad esempio la sua asserzione sul grado di potere del capo trib, nonch la ingannevole semplicit con cui egli parla dei problemi di temi come la durezza e la docilit in una societ cos estranea alla propria. Non si dovrebbe nemmeno dimenticare che la storia che Casement voleva raccontare era quella degli indiani ingenui, innocenti e gentili brutalizzati dalla compagnia della gomma e questa immagine di un controllo totale dava al suo rapporto una grande forza retorica. Inoltre in lui cera la tendenza ad equiparare le sofferenze degli irlandesi con quelle degli indiani e a vedere in entrambe le loro storie pre-imperialiste una cultura pi umana di quella dei loro signori civilizzati. (Conrad non indulge mai in questo tipo di transfert.) 60
Ancora un altro fattore si intrecciava al precedente: linnata tenerezza del carattere di Casement e la sua abilit a suscitare questa qualit negli altri, come testimoniato da molte persone. questo aspetto della sua omosessualit, non il desiderio sessuale, che deve esser qui sottolineato, come mostra ad esempio questa nota del suo diario del Putumayo:
Colpi di frusta, spari, frustate con il machete lungo la schiena [] Facevo il bagno nel fiume, incantevole, e gli [indiani] Andoke sono scesi a cacciare farfalle per Barnes e me. Allora un capitano [capo indiano] ci ha abbracciato, appoggiando la sua testa sul nostro petto. Non ho mai assistito ad una scena cos toccante, povera anima, egli sentiva che noi eravamo loro amici (Singleton-Gates, Girodias 1959, p. 251).
Alfred Simson, un inglese che aveva attraversato i fiumi Putumayo e Napo negli anni 80 del xix secolo e aveva passato l molto pi tempo di Casement, riporta unimmagine del tutto diversa dalla sua. Un esempio si trova nella sua descrizione dei Zaparos che, alla stregua degli Huitotos, erano considerati dai bianchi indiani selvaggi. Dopo aver osservato che essi saccheggiavano gli altri gruppi e rapivano i loro bambini per venderli ai commercianti bianchi, Simson afferma:
Quando non sono provocati, come dei veri indiani selvaggi, sono molto riservati e vivono ritirati, ma sono del tutto impavidi e non si sottomettono a nessuno, n ai bianchi n a nessun altro, che tenti di attaccarli. Ci si pu trattare solo con molta attenzione, cortesia e qualche volta semplicemente ragionando. Altrimenti, se vengono trattati in modo ostile e offensivo oppure si cerca di ricorrere alle percosse, [essi reagiscono] con la peggiore delle violenze [] Sono sempre mutevoli, inaffidabili e mostrano in diverse circostanze (e perfino nella stessa, come molti della loro classe) tutti i pi contrastanti tratti del carattere, eccetto forse il servilismo una vera caratteristica del Vecchio Mondo e lavarizia, che non ho mai riscontrato in loro. Lassenza di servilismo tipica di tutti gli indiani indipendenti dellEquador(Simson 1886, p. 170).
Simson osserva anche che essi si divertono molto nel distruggere la vita. Sono sempre pronti ad uccidere animali o persone e provano diletto nel farlo (ibid., pp.170-171).
Simson era impiegato sulla prima lancia a vapore che risal il Putumayo, quella di Rafael Reyes, che divenne successivamente presidente della Colombia. Egli assistette dunque allapertura della regione al commercio moderno e si trov in una posizione privilegiata per osservare listituzionalizzazione delle ideologie riguardo a razza e classe. Non solo egli presenta un giudizio sulla durezza indiana opposto e pi complesso di quanto fece Casement. Egli fornisce anche lindizio e il motivo etnografico necessario per capire perch tali immagini contrastanti coesistano e si sviluppino, come le immagini indiane della vita selvaggia si incontrino a met strada, per cos dire, e si fondano con le immagini coloniali del primitivo e, infine, come tale immaginario funzioni nella creazione del terrore. Per prima cosa necessario osservare che, a quanto dice Joaquin Rocha a cavallo fra i due secoli, gli abitanti del Putumayo erano divisi in due grandi classi di tipi sociali: i bianchi e gli indiani selvaggi. La prima categoria, quella dei bianchi (che si riferisce anche ai razionali, ai cristiani e ai civilizzati) includeva non solo persone fenotipicamente bianche, ma anche meticci, neri, mulatti, Zambos e indiani di quei gruppi assimilati dalla civilizzazione fin dal tempo della conquista spagnola (Rocha 1905, p.64). Simson ci porta avanti in questa classificazione e anche se le sue osservazioni si riferiscono qui alla regione montaa, alle sorgenti dei fiumi, esse mi sembrano applicabili in generale anche allarea centrale del Putumayo e sono certamente importanti per comprendere la cultura colonialista. 61
Simson osserva che quelli che egli chiama i veri indiani della foresta sono divisi dai bianchi e dagli indiani che parlano spagnolo in due classi: indiani (indios) e pagani (infieles). Gli indios parlano Quichua, mangiano salato e sono semi-cristiani, mentre gli infedeli, conosciuti anche come aucas, parlano dei dialetti particolari, mangiano raramente salato e non sanno niente n della Chiesa Battista n di quella Cattolica.[12] Di passaggio si potrebbe osservare che oggi, se non gi molto tempo fa, il termine auca connota anche i cannibali che vagano nudi per la foresta, non hanno regole matrimoniali e praticano lincesto. Simons afferma anche che il termine auca, come viene interpretato comunemente, ha il significato che ebbe anticamente in Per sotto gli Inca. Questo include il senso di infedele, traditore, barbaro e spesso impiegato in un senso ostile In Per era usato egli dice per designare quelli che si ribellavano contro il loro re e lincarnazione della loro divinit, lInca. Che questa asserzione sia storicamente precisa o no, anche se sembra di s, non cosa fondamentale, perch la sua importanza sta nel suo carattere di mito che plasma la vita quotidiana al tempo dello sfruttamento della gomma. Il secondo punto di grande interesse proposto da Simons sugli aucas riguarda le loro qualit animalesche, cos pronunciate, egli dice, che hanno qualcosa di occulto e spirituale. In riferimento agli Zaparos, per esempio, egli scrive che le loro percezioni visive e auditive sono del tutto sorprendenti e superano considerevolmente quelle degli indiani non-auca. La loro conoscenza della foresta cos perfetta che spesso viaggiano di notte in parti sconosciute del territorio. Sono grandi combattenti e possono individuare suoni e orme dove gli uomini bianchi non percepiscono niente. Sulle tracce di un animale, fanno deviazioni improvvise per poi cambiare strada nuovamente, come se stessero seguendo lodore della loro preda. Hanno movimenti felini e si muovono agevolmente attraverso il groviglio del sottobosco e dei rovi. Per comunicare tra loro generalmente imitano il verso del tucano o della pernice e tutto questo si discosta completamente dai non-aucas o dagli indiani civilizzati che vivono nel timore e nel rispetto di loro, ma li disprezzano o mostrano di disprezzarli in quanto pagani dietro le loro spalle (Simson 1886, pp. 166-168). Vorrei aggiungere che lo sciamano indiano dellaltipiano con cui lavoro nelle Ande colombiane che sovrastano le giungle del Putumayo considera gli sciamani della giungla inferiori agli aucas, i quali, essendo degli ibridi, met animali e met spiriti, sono in possesso di una potente magia. Gli Huitotos sono per lui una forza spirituale con cui fa un patto mistico attraverso incantesimi e canti, con o senza allucinogeni, per assicurarsi il successo della sua battaglia magica contro il male. importante comprendere la dialettica dei sentimenti qui legati al nome degli auca, una dialettica avvolta nella magia e composta sia di timore che di disprezzo identica a quellinsieme di misticismo, odio e timore proiettati sul socialista sionista Timerman nella camera di tortura della milizia. Nel caso degli aucas, questa proiezione inseparabile dallaccusa di resistenza alla sacra autorit imperiale, nonch dalla ulteriore accusa di possedere poteri magici, rivolta agli abitanti della foresta del bassopiano e dai loro oracoli, veggenti e guaritori i loro sciamani in particolare. Inoltre questa costruzione indigena, che potrebbe benissimo essere pre-colombiana, si intreccia con la mitologia europea medievale dellUomo Selvaggio, portata sulle Ande e in Amazzonia da spagnoli e portoghesi. Oggi, nelle alture del Putumayo che ho conosciuto, la mitologia degli auca e dellUomo Selvaggio spiega il ricorso agli sciamani indiani da parte dei coloni bianchi e neri che cercano una cura dalla stregoneria e dalle disgrazie gli stessi coloni che disprezzano gli indiani in quanto selvaggi (Taussig 1980b, pp. 217-278). Durante lo sfruttamento della gomma, con il suo disperato bisogno di manodopera indiana, la stessa mitologia alimentava unincredibile violenza e paranoia da parte dei bianchi. a questo lascito mitico ereditato dal mondo del capitalismo nella giungla del Putumayo che dobbiamo prestare attenzione se vogliamo capire gli eccessi irrazionali del terrore e della tortura descritti da Casement.
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La paura della ribellione indiana
Casement menziona la possibilit che, oltre al desiderio del profitto, fosse il timore che avevano i bianchi di una ribellione degli indiani che li spingeva verso la malvagit. Ma, coerentemente con le sue opinioni sulla docilit degli indiani, Casement fornisce quattro ragioni che rendevano improbabile una ribellione indiana. Le comunit indiane erano disunite molto prima dellavvento dello sfruttamento della gomma, mentre i bianchi erano armati e ben organizzati. Gli indiani erano armati rozzamente e le loro cerbottane, i loro archi e le loro lance erano state confiscate. Ancora pi importante nella sua opinione era il fatto che gli anziani erano stati uccisi in modo sistematico dalla compagnia, accusati del crimine di dare cattivi consigli (Casement 1912-1913, p. 45). Rocha, che si trovava in quella zona circa sette anni prima di Casement, la pensava in modo diverso. Egli affermava che i bianchi temevano le conseguenze dellodio indiano e che questa paura era centrale nella loro politica e nel loro pensiero. La vita per i bianchi nella terra degli Huitotos, dichiarava, appesa ad un filo. Piccole ribellioni erano comuni e Rocha ci fornisce il resoconto di una di queste. Nel 1930 il colombiano Emilio Gutirrez risal la Caquet partendo dal Brasile alla ricerca di un luogo dove fondare una stazione della gomma. Raggiunta la zona che desiderava conquistare, risped indietro la maggior parte dei suoi uomini per portare la merce, mentre Gutirrez rimase l con altri tre. Durante il sonno, Gutirrez e i suoi compagni furono uccisi dagli indiani selvaggi. Appresa la notizia, altri bianchi si preparavano ad una vendetta quando appresero che anche trenta indiani civilizzati, impiegati da Gutirrez, erano stati uccisi contemporaneamente in altre parti della giungla. Gli indiani che lavoravano per i bianchi vennero mandati alla ricerca dei ribelli. Alcuni furono catturati e uccisi sul colpo, altri furono fatti prigionieri per i bianchi e la maggior parte scapp. Una piccola parte fu catturata e divorata dai mercenari indiani cos si racconta (Rocha 1905, pp. 125-126). Nel 1910 Casement sent lo stesso episodio raccontato da un peruviano, che present la sua storia dicendo che i metodi usati dai conquistatori colombiani erano molto deplorevoli. In questa versione, gli indiani ribelli decapitavano Gutirrez insieme con un numero imprecisato di altri bianchi ed esponevano i loro teschi sulle mura della loro casa dei tamburi, tenendo i corpi smembrati nellacqua pi tempo possibile per mostrarli agli altri indiani. Linformatore di Casement diceva di aver trovato i corpi di altri dieci appesi ad un palo, riferendo a Casement che la ragione per cui non li avevano mangiati era che gli indiani sentivano ripugnanza a mangiare uomini bianchi, che odiavano troppo. In seguito, terribili rappresaglie si scatenarono sugli indiani, osserva Casement.[13] Raffrontato alla versione di Rocha, questo racconto di Casement stabilisce un punto importante: la paura dei bianchi per una ribellione degli indiani non era ingiustificata, ma era percepita allinterno di una visione mitica e colonialmente paranoica, dominata dalle vivide immagini dello smembramento dei corpi e del cannibalismo.
La paura del cannibalismo
Il cannibalismo acquist una grande forza ideologica per i colonialisti fin dallinizio della conquista europea del Nuovo Mondo. Limmagine del cannibale stata elaborata e usata per molti tipi di scopi, come risposta ad alcune delle pi potenti forze simboliche conosciute al genere umano. stata usata per giustificare la schiavit e, in questo senso, ha avuto una sua importanza nella prima economia del Brasile[14]; da qui ha influenzato le aree dellalto bacino amazzonico come il Putumayo, dove il cannibalismo stato tenuto vivo con grande forza nellimmaginazione dei bianchi fino allepoca dello sfruttamento della gomma. 63
Rocha fornisce molti esempi. Egli segnala il suo arrivo nel territorio degli Huitotos scrivendo di questa singolare terra dei cannibali, la terra degli Huitotos conquistata da una dozzina di valenti colombiani che ripropone leroismo dei loro antenati spagnoli (Rocha 1905, p. 92-93). I commercianti della gomma, sottolinea Rocha, hanno provato a soffocare il cannibalismo con pene severe. Ma il cannibalismo in aumento. Gli Huitotos pensano di poter ingannare i bianchi su questo punto, ma essi cedono alla soddisfazione dei loro appetiti bestiali (ibid., p. 118). Il pi famoso dei conquistadores moderni, il colombiano Crisstomo Hernandez un colombiano degli altipiani, un mulatto che era sfuggito alla polizia e aveva cercato rifugio nella giungla a quanto racconta Rocha aveva ucciso tutti i bambini, le donne e gli uomini di un villaggio indiano perch essi praticavano il cannibalismo. Una storia sorprendente, dato il bisogno di manodopera, ma altres tipico delle leggende popolari dei bianchi nel Putumayo (ibid., pp. 106-7). Don Crisstomo fu leroe anche di unaltra storia leggendaria. Essa mostra che, sebbene i costumi indiani fossero in conflitto con quelli dei bianchi (ad esempio, la loro incomprensione del valore del denaro e del lavoro), cerano tuttavia caratteristiche della cultura indiana che i bianchi potevano sfruttare per i bisogni della compagnia della gomma. La pratica di coniugare qualche volta la consegna della gomma con una grande danza come un preludio di una sorta di scambio di doni, come riportato da Gridilla e Rocha, gi stato menzionato. Ancora pi interessante il rito che i bianchi chiamavano chupe del tabaco, succhiare il tabacco, che gli indiani adulti svolgevano durante quasi tutte le occasioni rituali: un rito che forse affascinava i bianchi anche pi degli stessi indiani. Seduti in cerchio, di solito di notte, con le donne e i bambini che restavano dietro nei loro giacigli ma a portata dorecchio, gli uomini mettevano a turno un dito in un miscuglio denso di succo di tabacco cotto e lo succhiavano. Hardenburg riferisce che questa cerimonia era indispensabile in tutte le feste oppure per solennizzare una decisione o un contratto. In queste occasioni gli uomini, e in particolare i capi, andavano avanti anche tutta la notte con grande foga oratoria.
Questo il giuramento solenne degli Huitotos scrive Hardenburg - e non viene mai spezzato. Ogniqualvolta i bianchi desiderino stringere un importante accordo con gli indiani, essi insistono sempre perch la cerimonia venga eseguita.[15]
Casement dice la stessa cosa, ma si spinge oltre a citare un esploratore francese, Eugenio Robuchon, cui attribuita laffermazione che in questo rito gli indiani richiamavano la loro libert perduta, le loro sofferenze presenti e formulavano i loro terribili giuramenti di vendetta contro i bianchi.[16] Rocha diceva che Crisstomo Hernandez era un oratore di grande esperienza: egli prendeva posto come capitn o capitn general nel cerchio degli uomini indiani. A raccolta in una grande assemblea di capi attorno ad una ciotola di tabacco, don Crisstomo avrebbe parlato nella lingua e nello stile Huitoto dalle otto di sera alle quattro del mattino, con un tale potere di seduzione che i capi indiani accettarono unanimemente le sue proposte. Questo, dice Rocha, accadde prima che egli dominasse attraverso il terrore e il potere militare. Il suo potere fu in seguito mantenuto con la forza delle armi, ma fu con loratoria che egli inizi la sua conquista, perch per gli Huitotos egli era il loro re e il loro Dio (Rocha 1905, p. 111). La storia che pi impressionava Rocha era quella del rito indiano dellomicidio giudiziario o della pena capitale. Ci si pu facilmente immaginare quali corde di terrore esotico toccasse tra i coloni e i dipendenti della compagnia della gomma che ascoltavano il racconto durante le veglie notturne nella foresta.
Tutti gli individui della nazione che ha catturato i prigionieri si ritirano nellarea boschiva, assolutamente proibita alle donne, eccetto per quelle che 64
svolgono un ruolo particolare. Anche i bambini ne sono rigorosamente esclusi. Al centro viene posta una tazza di salsa di tabacco cotto per il piacere degli uomini e seduto in un angolo su uno sgabello, ben legato, c il prigioniero. Tenendosi lun laltro per le braccia, i selvaggi formano una lunga fila e il suono del tamburo scandisce il loro movimento mentre danzano attorno alla vittima. Si allontanano e si riavvicinano molte volte, mentre gli individui vanno a bere a turno dalla tazza del tabacco. Poi il tamburo interrompe la danza dei cannibali e cos la sfortunata vittima pu vedere quanto si perde morendo: appare la pi bella ragazza della trib, regalmente ornata con le pi diverse e lucenti penne degli uccelli di queste foreste. Il tamburo riparte e la bella ragazza danza da sola davanti alla vittima, quasi toccandola. Si gira e viene avanti, mostrandosi a lui con atteggiamenti appassionati ed erotici, girandogli attorno e ripetendo questa danza per tre o quattro volte. Poi la ragazza se ne va e termina cos il secondo atto di questa solenne rappresentazione. Segue la terza parte con la stessa danza di uomini come prima, eccetto che la fila dei danzatori ogni volta si avvicina di pi al prigioniero, uno degli uomini si stacca dalla fila e declama qualcosa del genere: Ti ricordi quanto la tua gente uccise Jatijiko, uomo della nostra nazione che non poteste prendere prigioniero perch egli sapeva come morire prima di permettere di essere trascinato di fronte alla tua gente? Noi ci stiamo vendicando della sua morte su di te, vigliacco, che non sai morire in battaglia come lui. Oppure Ricordi che tu e la tua gente avete sorpreso mia sorella Jifisino mentre faceva il bagno, che lavete catturata e ancora viva avete fatto una festa con la sua carne e lavete brutalizzata fino al suo ultimo respiro? Ti ricordi? Ora, tu uomo bestemmiatore, ti divoreremo vivo e non ti faremo morire fino a quando ogni traccia della tua carne insanguinata non sia scomparsa dalle nostre bocche. Seguiva il quarto e ultimo atto della terrificante tragedia. Uno dopo laltro i danzatori venivano avanti e ognuno con il proprio pugnale tagliava via un pezzo di carne del prigioniero che si mangiavano mezzo abbrustolito al suono del suo rantolo mortale. Quando finalmente moriva, finivano di tagliarlo e continuavano ad arrostire e a cuocere la sua carne, mangiando fino allultimo pezzetto (ibid., pp. 116-7).
La mediazione narrativa. Il buio epistemico.
Mi sembra che storie come questa rappresentino il fondamento indispensabile alla formazione e allo sviluppo dellimmaginazione coloniale durante lo sfruttamento della gomma del Putumayo. La loro immaginazione era morbosa scrisse il giudice peruviano Rmulo Paredes nel 1911, riferendosi ai dirigenti della stazione della gomma e vedono dovunque attacchi degli indiani, cospirazioni, ribellioni, tradimenti ecc. e per salvarsi da questi pericoli immaginari [] uccidono e uccidono senza compassione.[17] Lontano dallessere banali fantasie da concedersi dopo una giornata di lavoro, queste storie e limmaginazione che esse producevano rappresentavano una potente arma politica, senza la quale il lavoro di conquista e di controllo della raccolta di gomma sarebbe stato impossibile. importante capire che queste storie funzionavano creando, attraverso un magico realismo, una cultura del terrore che dominava sia sui bianchi che sugli indiani. Limportanza di questopera immaginativa va oltre la qualit epica e grottesca del suo contenuto. Il carattere veramente cruciale sta nel creare attraverso la finzione una realt incerta, una realt da incubo in cui linterazione instabile di verit e illusione diviene una forza sociale di dimensioni orrende e fantastiche. In una certa misura, tutte le societ vivono di finzioni considerate come realt. Quello che distingue le culture del terrore che il problema epistemologico, ontologico e da un certo punto di vista puramente filosofico di realt-e-illusione, certezza-e-dubbio, diventa molto pi che un problema meramente filosofico. Diventa uno strumento molto potente di dominazione e il veicolo principale della pratica politica. 65
Durante lo sfruttamento della gomma nel Putumayo questo strumento di confusione epistemica ed ontologica era rappresentato ed oggettivizzato come spazio della morte. Nel suo rapporto, Peredes ci dice che i dirigenti della stazione della gomma vivevano con lossessione della morte. Vedevano pericoli dovunque e pensavano solamente al fatto di essere circondati da vipere, tigri e cannibali. Questa idea della morte, scrive, colpiva la loro immaginazione, rendendoli atterriti e capaci di ogni tipo di azione. Come i bambini che leggono Le mille e una notte, continua Peredes, essi avevano incubi di streghe, spiriti maligni, morte, tradimento e sangue. Il solo modo che avevano di vivere in un mondo tanto terribile osserva era di suscitare essi stessi terrore (Paredes 1911, in Eberhardt 1913, p. 158).
La mediazione sociologica e mitica: i muchachos
Se il racconto delle leggende suscitava terrore, dovremmo allora approfondire il ruolo del soggetto sociologico che media tale mediazione, cio il corpo della guardia indiana addestrata dalla compagnia e conosciuta come i muchachos. Nelle parole di Rmulo Paredes, essi stanno
costantemente a ideare esecuzioni e continuamente a denunciare gli incontri degli indiani in cui si succhia il tabacco durante i quali si sarebbe fatto giuramento di uccidere i bianchi ribellioni immaginarie che non esistevano e altri crimini simili.[18]
In quanto indiani civilizzati o razionali, i muchachos mediavano tra i selvaggi della foresta e i bianchi degli accampamenti della gomma, impersonando tutte le distinzioni cruciali nel sistema di classi e caste della produzione della gomma. Tagliati fuori dalla loro gente, che avevano perseguitato e tradito e in cui suscitavano invidia ed odio, ora classificati come civilizzati, ma dipendenti dai bianchi per il cibo, le armi e i beni materiali, i muchachos rappresentavano alla perfezione tutto ci che cera di orribile nella mitologia coloniale del mondo selvaggio, perch occupavano lo spazio sociologico e mitico perfettamente adatto per farlo. Non solo creavano finzioni attizzando il fuoco della paranoia dei bianchi, ma incorporavano anche la brutalit che i bianchi temevano, creavano e cercavano di sfruttare per i loro stessi scopi. In un senso molto letterale, i muchachos scambiavano la loro identit di selvaggi per il loro nuovo status sociale di indiani civilizzati e guardie. Come osserva Paredes, essi mettevano a disposizione dei bianchi i loro particolari istinti, come il senso di orientamento, lolfatto, la loro frugalit e la loro conoscenza della foresta. (Paredes 1911, in Eberhardt 1913, p. 147). Cos come compravano gomma dagli indiani della foresta, i bianchi compravano anche listinto selvaggio, simile a quello auca, degli indiani muchachos. Ma diversamente dalla gomma, questi istinti selvaggi erano per lo pi costruiti nellimmaginazione dei bianchi. Tutto ci che i muchachos dovevano fare, per ricevere il loro compenso, era oggettivare e restituire attraverso le parole ai bianchi, come in uno specchio, gli spettri che popolavano la cultura colonialista. Considerati i secoli di mitologia coloniale riguardante gli auca e lUomo Selvaggio e considerata limplosione di questa mitologia nella contraddittoria esistenza sociale dei muchachos, il compito era facile. Le storie dei muchachos si muovevano allinterno di una pi antica storia che ricomprendeva i muchachos stessi come oggetti di un discorso colonialista, pi che come i suoi autori. Il sistema commerciale del peonaggio istituito dallo sfruttamento della gomma nel Putumayo fu quindi qualcosa di pi di un semplice scambio tra i beni dei bianchi e la gomma raccolta dagli indiani. Esso fu anche un commercio di mitologie terrificanti e realt fittizie, incentrate sulla mediazione dei muchachos, i quali, raccontando storie, barattavano il tradimento della realt indiana con la conferma delle fantasie coloniali.
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Lo specchio coloniale
Ho cominciato questo saggio dicendo che volevo occuparmi del modo in cui la cultura del terrore viene mediata dalla narrazione e dei problemi connessi al tentativo di scrivere contro il terrore. In parte il mio problema era valutare e interpretare i fatti riportati in diversi resoconti delle atrocit nel Putumayo. Questo problema di interpretazione si ampliato sempre pi, fino a farmi comprendere che si tratta proprio del problema centrale alla cultura del terrore. Ci rende assi difficile parlare e scrivere efficacemente contro il terrore; ma soprattutto, rende la terribile realt delle squadre della morte, dei desaparecidos e della tortura assolutamente efficace, paralizzando la capacit di resistenza delle persone. Mentre nelle scienze sociali si presta molta attenzione allideologia, non si considera invece il fatto che le persone delineano il proprio mondo, inclusa la politica tanto su larga che su piccola scala, attraverso storie e creazioni narrative, e solo molto raramente, se non forse mai, attraverso ideologie (come vengono comunemente definite). Sicuramente nel gorgo delle voci, del pettegolezzo, dei racconti e nelle chiacchiere che le ideologie e le idee acquistano un potere emozionale ed entrano nella circolazione sociale attiva e nellesistenza significante. Cos succede anche con il terrore nel Putumayo. Dai resoconti sembra chiaro che i coloni e i dipendenti della compagnia della gomma non solo temevano, ma creavano anche essi stessi, attraverso i racconti, angosciose e confuse immagini della vita selvaggia, immagini che tenevano insieme la societ coloniale attraverso il buio epistemico dello spazio della morte. Il sistema della tortura che essi avevano ideato per garantire la produzione della gomma rispecchiava lorrore del mondo selvaggio che essi temevano, condannavano e inventavano. Inoltre, in relazione al compito di creare controrappresentazioni e controdiscorsi, dobbiamo considerare che molti se non tutti i racconti riportati da Hardenburg e Casement, che si riferiscono alle atrocit e le criticano, sono allo stesso modo romanzati, basati sulla stessa fonte storicamente modellata a cui gli uomini soccombono quando torturano gli indiani. La tortura e il terrore nel Putumayo erano motivati dal bisogno di manodopera a basso costo. Ma la manodopera per se forza lavoro come merce non esiste nelle giungle del Caraparan e dellIgaraparan, affluenti del Putumayo. Ci che esisteva non era un mercato della forza lavoro, ma una societ e una cultura di esseri umani che i colonialisti chiamavano indiani, irrazionali, selvaggi, con una loro specifica vicenda storica, forma di vita e sistemi di scambio. Nellerroneo tentativo coloniale di far combaciare forzatamente la struttura del mercato capitalista con una o con altra delle possibilit rappresentate dalla raccolta della gomma e offerte da questi sistemi di scambio, la tortura, come fa capire Casement, prende una vita propria. Come lappetito vien mangiando, cos ogni crimine stimola nuovi crimini (Casement 1912-1913, p. 44). A ci dovremmo aggiungere che passo dopo passo, il terrore e la tortura diventarono la forma di vita per circa quindici anni. Una cultura organizzata con le sue regole sistematiche, un suo immaginario, le sue proprie procedure e significati, che trovavano espressione in spettacoli e rituali volti a sostenere la precaria solidariet dei dipendenti della compagnia della gomma, nonch a proclamare attraverso il corpo del torturato una sorta di verit canonica sulla Civilt e sugli Affari. La forza decisiva nella creazione del terrore non stata il feticismo della merce, ma il feticismo del debito implicato nella realt fittizia dellistituzione del peonaggio, con i suoi anticipi obbligatori e la farsa teatraleggiante dello scambio commerciale. La tortura si trasformava cos dallo status di mezzo a quello di modalit se non, infine, al vero e proprio obiettivo della produzione. Dai rapporti sia di Timerman sia di Casement risulta ovvio che la tortura e il terrore istituzionalizzato sono una forma darte rituale. E non si tratta di qualcosa di spontaneo, sui generis, un abbandono di ci che spesso chiamiamo i valori della civilt: tali riti hanno invece una storia profonda in cui su quei valori vengono fondati il potere e il significato. 67
Ci che richiede unulteriore analisi la mimesis tra la natura selvaggia attribuita agli indiani e le pratiche selvagge perpetrate dai colonialisti in nome di ci che Julio Csar Arana chiamava civilt. Questa mimesis reciproca, per quanto distorta, stata e continua ad essere di grande importanza nella costruzione della cultura coloniale: lo specchio coloniale che riflette sui colonialisti la barbarie delle loro stesse relazioni sociali, attribuendola per alle figure selvagge e malvagie che essi vogliono colonizzare. La troviamo presente nel folclore colonialista del Putumayo, come riportato per esempio nel terribile racconto di Joaquin Rocha sul cannibalismo degli Huitotos. Ci che i colonialisti mettevano in forma di discorso nei loro racconti e ci che facevano sui corpi degli indiani, sono la stessa cosa..[19] Tenacemente radicate in questa pratica narrativa sono una storia e una iconografia occidentale del male, vaste e mistificanti, basate su un immaginario dellinferno e del selvaggio coniugato ed inseparabile dallimmaginario del paradiso, dellutopia e del bene. alla sovversione di questa dialettica apocalittica che dovrebbero esser mirati i nostri sforzi controdiscorsivi: in altre parole, a una poetica del tutto differente del bene e del male, la cui forza catartica non stia nella risoluzione cataclismica delle contraddizioni, ma nella loro distruzione. La cultura europea post-illuminista rende difficile se non impossibile penetrare sotto il velo allucinatorio del cuore di tenebra senza soccombere alla sua qualit allucinatoria o perdendo quella qualit. La poetica fascista ha successo laddove il razionalismo liberale si autodistrugge. Per uscire da questa impasse servirebbe proprio ci che cos dolorosamente assente in tutti i resoconti del Putumayo, cio il racconto e la modalit narrativa degli indiani; un racconto che priva il terrore del suo carattere sensazionale, cos che linsistenza istrionica sullaspetto enigmatico dellenigmatico (per usare lespressione di Benjamin) negata da unottica che percepisce invece il quotidiano come impenetrabile, limpenetrabile come quotidiano. Questa la poetica della magia e dello sciamanismo che ho conosciuto nelle alture del Putumayo, ma questa unaltra storia per un altro tempo, non solo tempo di terrore ma anche di guarigione.
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[1] Inglis 1974, p. 32. Nella lettera di Conrad a Cunninghame Graham si legge: Le posso assicurare che egli [Casement] una personalit trasparente. In lui c anche qualcosa del conquistador: ad esempio lho visto avventurarsi in luoghi indicibilmente selvaggi avendo come unica arma un bastone ricurvo, con due bolldog - Paddy (bianco) e Biddy (nero) alle calcagna e un ragazzo portatore Loanda come sola compagnia. Dopo qualche mese lo vidi tornare, un po pi magro e pi scuro, con il suo bastone, i cani e il ragazzo Loanda e del tutto tranquillo, come se avesse fatto una passeggiata nel parco. Inglis aggiunge il tempo ha infiorato il ricordo di Conrad. Casement stesso descriveva quello che comportava il lavoro di costruzione in una lettera ad una giovane cugina; il territorio su cui era stata costruita la ferrovia, le raccontava, consisteva di praterie erbose coperte di cespugli; inospitale, ma non certo indicibile. Il riferimento a Jorge L. Borges About the Purple Land (in Rodriguez Monegal, Reid 1981, pp. 136-139). [2] Karl 1979, p. 289n. Il testo completo della lettera di Conrad a Cunninghame Graham si pu trovare in C.T. Watts 1969, pp. 148-152; si veda anche Najder 1987. [3] Le autorit esaminarono il rapporto di Casement e stimarono che la cifra dei morti fu di 30.000 tra il 1900 e il 1912. Altri invece che avevano una certa conoscenza del territorio e della sua storia o presentarono cifre ampiamente diverse o affermarono che era impossibile dare una cifra esatta perch il censimento era praticamente impossibile. Resta comunque una questione dibattuta quanto la diminuizione della popolazione fosse dovuta a malattie, soprattutto al vaiolo, e quanto alla tortura o alla fuga. Allo stesso modo il numero degli Huitotos che abitavano nelle regioni dellIgaraparan e del Caraparan alla fine del xix secolo stimato in modi molto diversi che vanno da circa 50.000 fino a un quarto di milione (!). Questultima stima si trova in Rocha 1905, p. 138. In ogni caso, il numero degli indiani nel territorio risulta essere stato molto alto rispetto alla norma dellAlta Amazzonia e proprio questa stata unimportante causa per listituzione del commercio della gomma sul posto. Occorre notare che Casement nel suo rapporto stato estremamente cauto nel presentare cifre sulla popolazione o sulla sua diminuizione. Egli ha fornito dettagli riguardo al problema nella sua testimonianza presentata alla commissione del parlamento britannico sul Putumayo (House of Commons Sessional Papers, 1913, vol. 14, p. 30, 707). Padre Gaspar de Pinell (1924, pp. 38-39) presenta uneccellente discussione, come anche in de Pinell 1929, pp. 227-235. [4] Hardenburg 1912, p. 214. La prima pubblicazione delle rivelazioni di Hardenburg sulla rivista Truth inizi con questo articolo tratto dal giornale iquito La Sancin. Questi articoli, e probabilmente il libro successivo, furono probabilmente scritti come gosthwriter da Sidney Paternoster, assistente redattore di Truth. [5] Ibid., p. 236. Citato anche da Casement nel suo rapporto sul Putumayo a Sir Edward Grey. Qui Casement afferma che questa descrizione gli era stata ripetuta pi e pi volte da uomini che erano stati impiegati per questo lavoro (Casement 1912-1913, p. 35). [6](Ibid., p. 31. Da diverse stime sembra che la proporzione dei guardiani armati rispetto agli indiani selvaggi addetti allestrazione della gomma andasse allincirca da 1 a 16 a 1 a 50. Di questi guardiani armati, i muchachos superavano il numero dei bianchi di 2 a 1. Si vedano Wolf, Wolf 1936, p. 88; Eberhardt 1913, p.112; Casement 1913, p. xi; Casement 1912-1913, p. 33. [7] Rocha (1905, pp. 123-124) afferma che siccome gli indiani sono fannulloni per natura, essi ritardano sempre il pagamento dei loro debiti ai commercianti della gomma, costringendo questi ultimi ad usare la forza fisica. Eberhardt (1913, p. 110) scrive che gli indiani iniziano a lavorare per qualche coltivatore della gomma, spesso spontaneamente, ma non poche volte essendovi costretti con la forza e subito cominciano ad indebitarsi con lui per il cibo ecc. Tuttavia la scarsit di manodopera e la facilit con cui gli indiani potevano fuggire, vivendo dei prodotti naturali della foresta, obbliga i proprietari a trattarli con riguardo. Gli indiani lo capiscono e il 70
loro lavoro del tutto insoddisfacente, secondo i nostri standard. Tutto questo mi apparso con grande evidenza durante una mia recente visita ad uno stabilimento dove si distillava cachassa o aguadiente dalla canna. Gli uomini sembrava che lavorassero quando e come volevano, richiedendo in cambio ogni giorno una grande quantit di liquore (di cui erano particolarmente avidi); se non ce nera, oppure se venivano trattati in qualche modo con durezza, se ne ritornavano nella foresta. Il padrone aveva la legge dalla sua parte e se riusciva a trovare il fuggitivo aveva il diritto di riportarlo indietro. Ma il tempo perso e il il vano tentativo di rintracciare lindiano attraverso la fitta foresta e i torrenti faceva s che fosse molto pi pratico trattarli con una certa considerazione fin dallinizio. [8] Morel 1913, pp. 553 e 556. Si veda anche la testimonianza del ragioniere britannico, H. Parr, della Peruvian Amazon Company presente tra il 1909 e il 1910 alla stazione di La Chorrera (pp. 336-348). [9] Gidrilla 1943, p. 29. La descrizione di Rocha di una base della gomma colombiana e non di quella di Arana:(Rocha 1905, pp. 119-120). [10] Testimonianza di Julio Csar Arana al British Parliamentary Select Committee on Putumayo, House of Commons Sessional Papers, 1913, vol. 14, p. 488, 12.222. [11] Si vedano Fuentes 1969, pp. 10-11 e Rivera 1974. [12] Simson 1886, p. 58. Degno di nota che durante il xvii e il xviii secolo i missionari lavorarono in mezzo ad alcuni dei gruppi indiani designati come auca e quindi non vero che essi come riporta Simson non sanno niente della Chiesa Cattolica. Si veda Chantre y Herrera 1901, pp. 283, 321-328, 365-369. [13] Casement 1912-1913, p. 30. Padre Pinell parl di una grande ribellione dei lavoratori della gomma e di altri indiani lungo lIgaraparan nel 1917; per sedarla fu richiesto lintervento delle truppe peruviane. Si veda de Pinell 1924, pp. 39-40. [14] Uneccellente discussione a riguardo si pu trovare in Sweet 1975, pp. 113-114, 116, 120, 126, 130-131, 141, 347. [15] Hardenburg 1912, p. 155. Per luso della coca nel chupe del tabaco si veda Woodroffe 1914, pp. 151-155. Riguardo allattendibilit e alle fonti delle affermazioni di Hardenburg pu forse essere utile citare alcune delle testimonianze che egli forn al British Parliamentary Select Committee on Putumayo, House of Commons Sessional Papers, 1913, vol 14. Interrogato sulle crudelt nei confronti degli indiani a cui aveva assistito, Hardenburg rispose Dei crimini che sono stati commessi di recente io, praticamente, non ho visto niente; tutto quello che ho visto che gli indiani nella [stazione della gomma di] El Encanto erano quasi nudi, magri e con un aspetto cadaverico; ho visto che avevano molte ferite e ho visto di che cosa si cibavano (p. 510, #12848). Le sue informazioni venivano dai racconti di altre persone. In realt penso di poter dire che la maggior parte delle persone citavano altri. Essi dicevano Conosco un altro uomo che pu dire questo e quello e lo portavano (p. 511, #12881). Quando gli chiesero se avesse posto domande dettagliate a queste persone sulle loro affermazioni, Hardenburg rispose Non posso dire di aver fatto molto (p. 511, #12882). Che queste atrocit accadessero disse Hardenburg era di dominio pubblico. Questo dominio pubblico esattamente quello che io mi sono sforzato di ricercare, non perch pensi che le atrocit non siano adeguatamente descritte dai diversi autori su cui mi baso, ma perch questo pubblico dominio sotto forma di racconto mitico agisce come uno schermo e come una rete di significanti senza cui i fatti non esisterebbero. Pi precisamente, la funzione di questo schermo di significanti quella di aumentare il timore e quindi la funzione di controllo della cultura del terrore. Le prove raccolte da Casement appartengono a tutta unaltra categoria, perch raccolte con pi attenzione, verificate in modo incrociato ecc.; su questa base, possiamo anche accettare resoconti assai meno curati, come quello di Hardenburg. Tuttavia la testimonianza di Casement utile non per sgonfiare il carattere mitico, ma per indicare la sua terribile realt. [16] Casement 1912-1913, p. 48. Il testo di Robuchon apparve in volume (Official Edition), pubblicato a Lima nel 1907 e intitolato En el Putumayo 71
y sus afluentes. Fu curato da Carlos Rey de Castro, uno scagnozzo di Julio Csar Arana e una volta console peruviano in Brasile, sulla base dei documenti di Robuchon dopo la sua misteriosa morte nella foresta pluviale del Putumayo. A giudicare dal libro di Rey de Castro sul Putumayo (de Castro 1917) e dalla sua relazione con Arana, si pu supporre che sarebbe insensato leggere il testo di Robuchon pensando che questo fosse veramente lopera inalterata di Robuchon. probabile che questo sia stato curato presentando i fatti con un taglio pi favorevole ad Arana. Limportanza della preistoria, dell etnostoria e della storia indiana nella guerra ideologica per conquistarsi lopinione pubblica mondiale risalta chiaramente in Los pobladores del Putumayo, in cui de Castro si propone di dimostrare che gli Huitotos e i gruppi indiani confinanti sono in realt discendenti dagli orejones di Cuzco, nellinterno del Per rafforzando cos la rivendicazione peruviana di diritti sulla zona della gomma del Putumayo e sulle sue popolazioni indigene. [17] Paredes, R., 1911, Confidential Report to hte Ministery of Foreign Relations, Peru, tradotto in (Eberhardt 1913, p. 146). Il lavoro di Paredes esposto ed introdotto nel contesto di un insieme di testimonianze nel libro di Carlos A. Valcarcei. Si veda Valcarcei, C. A., 1915, El proceso del Putumayo, Lima, Imprenta Comercial de Horacio La Rosa. [18] Ibid., p. 147. Sono grato a Fred Chin e a Judy Farquahar del Dipartimento di Antropologia dellUniversit di Chicago per avermi convinto dellimportanza dei muchachos come forza di mediazione. Certamente non si pu dimenticare il ruolo dei neri reclutati nelle Barbados, nella mediazione tra bianchi e indiani. In modo molto simile allesercito britannico che, dalla met del xix secolo in poi, utilizzava i diversi gruppi coloniali ed etnici in modo da massimizzare le rispettive reputazioni di ferocia e mettendo alla prova gli uni contro gli altri, le compagnie della gomma britannica e peruviana li utilizzavano come soldati etnici nel Putumayo. [19] Un esempio del modo in cui la tortura degli indiani seguiva alla lettera le indicazioni dei racconti si trova nei rari dialoghi che Casement concede ai suoi testimoni, nella sezione del rapporto riservato alla testimonianza degli uomini reclutati nelle Barbados, come nel caso seguente:
Cos tu dici di aver visto bruciare degli indiani? Chiese il console generale Casement ad Augustus Walcott, nato nellisola caraibica di Antigua 23 anni prima. S Bruciati vivi? Vivi Che cosa intendi? Descrivilo. Ho visto solo uno bruciare vivo. Bene. Raccontami di questo Non aveva raccolto caucho, era scappato e aveva ucciso un muchacho, un ragazzo, e loro gli hanno tagliato le braccia e le gambe fino alle ginocchia e hanno bruciato il suo corpo Sei sicuro che fosse ancora vivo e non morto quando lhanno gettato nel fuoco? S, era ancora vivo. Ne sono sicuro lo vedevo muoversi aprire gli occhi, gridare Aurelio Rodriguez [il dirigente della stazione della gomma] ha assistito per tutto il tempo? S, tutto il tempo. Dava ordini? Sissignore. Disse di tagliargli le braccia e le gambe? S.
Cera ancora qualcosa che il console generale non riusciva a capire e cos richiam Walcott per farsi spiegare che cosa intendesse quando diceva 72
siccome egli diceva agli indiani che anche noi eravano indiani e che li mangiavamo. Quello che voleva dire, sintetizzava Casement, era che il dirigente della stazione, il seor Normand, per impaurire gli indiani, diceva loro che i negri erano cannibali, una trib selvaggia di cannibali che mangiavano le persone e che se non avessero consegnato la gomma, questi uomini neri sarebbero stati spediti ad ucciderli e a mangiarli. (Casement 1912-1913, pp. 115 e 118) Un altro esempio, pi complesso, il seguente:
Hai mai visto Aguero uccidere indiani? chiese il console generale a Evelyn Bateson, 25 anni, nata nelle Barbados, impiegata presso la stazione della gomma di La Chorrera. No, signore; non lho mai visto uccidere indiani ma lho visto inviare muchachos a uccidere gli indiani. Aveva preso un indiano e laveva dato da mangiare ai muchachos, e loro stavano facendo una danza per questo
Hai visto uccidere luomo? Sissignore. Lavevano legato ad un palo e gli avevano sparato. Gli tagliarono la testa, quando gi gli avevano sparato, i piedi e le mani. Lo portarono in giro per tutta la sezione nel cortile- Lo portavano su e gi e cantavano. Lo portarono a casa loro e ballavano Sai se li mangiavano? Ho sentito che li mangiavano. Io non ho assistito, signore, ma ho sentito il direttore seor Aguero dire che avevano mangiato questuomo. Il dirigente disse proprio cos? Sissignore, lo disse. (Casement 1912-1913, p. 103)
Questo tipo di incitamento se non di invenzione del cannibalismo su pressione dei colonialisti riportato anche nelle lettere dei missionari riguardanti lestrazione della gomma nello Stato libero del Congo di re Leopoldo. Si veda per esempio il resoconto di Mr. John Harris in Morel 1905, pp. 437-441.
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Il mito del conflitto etnico globale
John R. Bowen
(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 125-44; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)
Le attuali discussioni sui problemi internazionali sono spesso basate su unassuzione del tutto fuorviante, secondo la quale il mondo sarebbe oggi attraversato da un rigurgito di conflitti etnici primordiali. I diversi gruppi etnici si fronteggiano lun laltro, rinfocolando vecchie ostilit e trattenuti soltanto dagli stati pi potenti. Ma, una volta tolto il coperchio, il contenuto del calderone comincerebbe a traboccare. I sostenitori di questa tesi propongono due diverse previsioni per il futuro: per alcuni lordine mondiale destinato a frammentarsi in piccoli gruppi tribali, per altri il risultato sar invece la formazione di pi ampie coalizioni che rappresenteranno le diverse civilt. Tutti comunque sono daccordo nel ritenere che siano le antiche lealt etniche e le differenze culturali ad alimentare gli attuali conflitti.[1] Questa visione non riesce a cogliere la genesi del conflitto e non tiene conto della capacit che hanno popolazioni diverse di vivere luna accanto allaltra. La stessa espressione conflitto etnico ci porta fuori strada: essa divenuta infatti una sorta di scorciatoia per riferirsi ad ogni tipo di scontro tra persone che vivono nello stesso paese. Alcuni di questi conflitti implicano lesistenza di identit etniche e culturali diverse, ma la maggior parte scatenata da motivi legati al controllo del potere, della terra o di altre risorse e non ha niente a che fare con la diversit etnica. Pensare che invece sia cos ci spinge verso politiche sbagliate, e ci porta a tollerare quei governanti che incitano alla violenza di massa e sopprimono le differenze etniche. Parlando di conflitti tra gruppi locali si tende normalmente a dare per scontate tre assunzioni: la prima, che le identit etniche sono antiche e immutabili; la seconda, che queste identit forniscono i motivi per persecuzioni e omicidi; la terza, che la diversit etnica in s conduce inevitabilmente alla violenza. Tutte e tre sono sbagliate. Contrariamente a quanto sostenuto nella prima assunzione, il concetto di etnicit un prodotto della politica moderna. Tutti gli individui hanno sempre posseduto unidentit che li caratterizza in base alla religione, al luogo di nascita, alla lingua che parlano e cos via. Allo stesso modo gli esseri umani hanno sempre avuto una cultura; ma solo nellet moderna, con il colonialismo e la formazione degli Stati nazionali, essi hanno cominciato a considerare s stessi come membri di ampi gruppi etnici, contrapposti ad altri gruppi dello stesso tipo. Lidea che la connotazione etnica sia antica e immutabile si proietta oggi nelle potenti immagini del calderone e della trib. Dai fenomeni di violenza nellEuropa dellEst scaturita unimmagine di quella regione come un calderone ribollente di sentimenti etnonazionalistici, destinati inesorabilmente a traboccare se non tenuti sotto controllo da Stati forti. Limmagine del calderone contrasta con quella del melting pot americano: un po come se si sostenesse che le etnicit occidentali possono essere mescolate, mentre quelle dellEst devono essere soppresse dai poco simpatici, ma forse necessari, Tito o Stalin di turno.
Questa idea sembra proprio fatta apposta per spiegare la situazione dellex Jugoslavia. Non forse vero che i serbi, i croati e i bosniaci sono gruppi etnici distinti, destinati a scontrarsi nel corso della storia? Ma troppo spesso non si tiene conto di quanto siano minime le differenze tra le parti che si stanno combattendo nei Balcani: serbi, croati e bosniaci parlano tutti la stessa lingua (lItalia ad esempio conosce differenze linguistiche pi pronunciate) e hanno vissuto per secoli gli uni accanto agli altri, quasi sempre in pace. Spesso si sente dire che le differenze si fanno sentire in campo religioso, infatti i croati appartengono alla Chiesa cattolica romana, i serbi sono cristiani ortodossi e i bosniaci sono musulmani. In realt ognuna 74
di queste popolazioni comprende un numero considerevole di membri delle altre due religioni. Le tre religioni sono quindi divenute il simbolo delle differenze tra i gruppi, anche se non sono state le differenze di religione in quanto tali a causare i conflitti tra i diversi gruppi. Le percentuali crescenti di matrimoni misti (che raggiungono il 30 % in Bosnia) hanno contribuito ad attenuare sempre di pi le linee di demarcazione tra i diversi gruppi. Alcuni attenti osservatori dei processi a lungo termine, come Misha Glenny, hanno richiamato lattenzione sul fatto che le radici dellattuale ondata di violenza nei Balcani non sono da ricercare in primordiali differenze etniche e religiose, ma piuttosto nei recenti tentativi di raccogliere consensi attraverso idee nazionaliste. Letnicit diviene nazionalismo quando implica il tentativo di ottenere il monopolio sul territorio, sulle risorse e sul potere. Ma anche il nazionalismo, a sua volta, un insieme di idee apprese e manipolate e non un sentimento primordiale. Nel xix secolo gli intellettuali serbi e croati si batterono insieme agli altri europei per il diritto dei popoli ad autogovernarsi in Stati-nazione, cio Stati composti da una sola nazionalit. Da parte loro i serbi si sono appellati al ricordo degli Stati nazionali serbi, che avevano avuto breve durata, per rivendicare il loro diritto ad espandersi e ad occupare i territori di altre popolazioni, cos come altri paesi europei (in particolare la Francia) avevano fatto in passato. Il fatto che i popoli balcanici parlassero la stessa lingua rendeva agli occhi di molti serbi le proprie mire espansionistiche ancora pi legittime. [2] Allo stesso tempo i croati stavano scoprendo una propria ideologia nazionalista, ma con una differenza: invece di reclamare il diritto di assoggettare i non croati, si ripromettevano di espellerli. Il nazionalismo dei croati era diretto naturalmente contro i loro forti vicini serbi: il risentimento verso di loro era cresciuto in ragione del predominio serbo allinterno dello stato jugoslavo creato dopo la prima guerra mondiale. Molti militanti del movimento nazionalista croato si riunirono in unorganizzazione clandestina chiamata Ustasha (Insurrezione). Questa associazione segreta, a cui i nazisti lasciarono il controllo sulla Croazia, fu responsabile di conversioni forzate, espulsioni e massacri di serbi durante la seconda guerra mondiale. Quando il leader serbo Slobodan Miloevi chiam alla guerra, i suoi appelli puntavano a risvegliare la memoria ancora viva di queste tragedie. Con questo non si vuole certo sostenere che i massacri degli anni 90 siano stati una diretta conseguenza della seconda guerra mondiale: la memoria del tempo di guerra avrebbe potuto essere superata se i nuovi leader jugoslavi avessero cercato di creare le premesse sociali per una societ multietnica. Il maresciallo Tito cerc invece di rafforzare il suo governo proibendo la formazione di gruppi civici indipendenti e promuovendo la diffusione di valori politici condivisi. In Croazia, cos come in Serbia o in Slovenia, lopposizione politica si aggregava invece sul solo simbolismo disponibile, cio il nazionalismo di ogni regione. Tra laltro Tito soffi sul fuoco del nazionalismo concedendo privilegi sia ai serbi che ai croati, ma ad ognuno nel territorio degli altri. Cos i serbi detenevano posizioni di potere in Croazia e i croati a Belgrado. Nelle regioni interne la presenza di queste minoranze aliment il risentimento nazionalista. La scarsa lungimiranza politica di Tito, a cui qualcuno in occidente guarda con nostalgia, fornir le premesse per i successivi massacri. I risentimenti e le paure generate dalla guerra recente, lassenza di una societ civile, e non certamente le differenze etniche, hanno reso possibile il successo di politici nazionalisti come Miloevi e Franjo Tudjman.
Leredit del colonialismo
Cosa dire allora dellAfrica? Come negare che l ci troviamo di fronte a dei veri e propri conflitti etnici? Le nostre interpretazioni della violenza africana sono sempre state offuscate non tanto dallimmagine del gi citato calderone ribollente, quanto da quella di unatavica condizione di guerra tribale. A questo proposito vorrei riportare il caso di un giornalista della National Public Radio che intervistava un funzionario africano delle Nazioni Unite 75
sulla situazione del Ruanda. Per tutto il colloquio il giornalista spingeva il funzionario a parlare degli antichi odii tribali che avrebbero a suo dire alimentato i massacri. Il funzionario obiettava garbatamente, ricordando pi volte al giornalista che il conflitto di massa era cominciato allorch i dominatori coloniali belgi avevano concesso ai tutsi un potere assoluto sullo Stato. Ma come spesso succede, limmagine dellantico tribalismo era talmente radicata nella mente del giornalista che questi non riusciva a dare ascolto al messaggio del funzionario ONU. Ci che questultimo sosteneva era giusto: il pensiero etnico entrato nella vita politica come conseguenza dei recenti conflitti, per ottenere potere e risorse, non come un ostacolo antico sulla strada della modernit politica. E vero che in passato, prima dellepoca moderna, gli africani si definivano hutu o tutsi, nuer o zande, ma queste etichette non avevano un ruolo fondamentale nella costruzione della loro identit quotidiana. Il sentimento di appartenenza di una donna che viveva nellAfrica centrale dipendeva in parte dal suo luogo di nascita e in parte dal lignaggio sia della famiglia di provenienza che di quella del marito. Lidentit tribale o etnica raramente si faceva sentire nella vita di tutti i giorni ed era soggetta a cambiamenti nel caso in cui un popolo uscisse dai propri territori alla ricerca di scambi commerciali o di nuove terre. I conflitti si verificavano allinterno delle strutture tribali pi spesso che tra trib diverse: si combatteva per il controllo di sorgenti, di terre da coltivare o di diritti di pascolo. Furono invece le potenze coloniali e gli Stati indipendenti che a queste seguirono a dichiarare che ogni persona possedeva una identit etnica che determinava il suo posto allinterno della colonia o del sistema post- coloniale. Un evento a prima vista insignificante come un censimento riuscito a creare lidea di una categoria etnica ampia quanto lintera colonia, a cui ogni individuo appartiene e verso cui nutre sentimenti di lealt. Per inciso vorrei ricordare che questo fenomeno non si verific soltanto in Africa. Alcuni studiosi della storia indiana fanno risalire la nascita del nazionalismo hindu al primo censimento britannico, con il quale le persone cominciarono a definirsi come membri della popolazione hindu, musulamana o sikh. Le potenze coloniali belgi, tedeschi, francesi, britannici e olandesi si rendevano conto del fatto che, essendo in inferiorit numerica allinterno delle colonie, essi avrebbero potuto avere il reale controllo solo nel caso in cui si fossero trovati dei partner tra la popolazione locale, spesso tra le minoranze o tra la popolazione cristianizzata. Ma facendo questo, separando cio il gruppo partner dagli altri, le potenze coloniali creavano automaticamente i gruppi etnici. In Ruanda e in Burundi i colonizzatori tedeschi e belgi provavano ammirazione per i tutsi, un popolo di alta statura che rappresentava una piccola minoranza allinterno delle due colonie. I belgi concessero ai tutsi alcuni privilegi nellaccesso allistruzione e al lavoro, stabilendo fra laltro un requisito minimo di altezza per lammissione al college. Per riconoscere i tutsi, gli ufficiali coloniali imposero a tutti di portare con s la carta didentit con le etichette tribali. Ma le persone non possono mai essere inquadrate in categorie cos rigide: molti tutsi sono alti e molti hutu bassi, ma hutu e tutsi hanno per lungo tempo contratto matrimoni misti a tal punto da renderne difficile il riconoscimento in base alle caratteristiche fisiche. La stessa difficolt esiste tuttoggi. Entrambi parlano la stessa lingua e praticano la stessa religione. In molte aree delle colonie i due raggruppamenti hanno assunto un carattere economico: cos i tutsi poveri sono diventati hutu, e gli hutu pi ricchi sono diventati tutsi. Nei casi in cui le etichette hutu e tutsi non erano ancora entrate nelluso comune, le famiglie con molto bestiame sono state semplicemente etichettate tutsi, mentre le famiglie pi povere sono divenute degli hutu. La discriminazione coloniale nei confronti degli hutu ha creato qualcosa che prima non esisteva: un senso di identit collettiva hutu, una questione hutu. Alla fine degli anni 50 gli hutu (incoraggiati dagli europei che se ne stavano andando) cominciarono a ribellarsi contro il dominio tutsi e costituirono in Ruanda uno Stato indipendente a dominazione hutu. Questa nuova formazione provoc a sua volta il 76
risentimento dei tutsi e listituzione di un esercito ribelle tutsi, il Fronte Patriottico Ruandese. Lo stesso metodo di imposizione di un dominio attraverso la divisione in etnie diverse stato impiegato anche altrove. Il caso dello Sri Lanka (lex- Ceylon) mostra come, anche quando non siano i colonizzatori a favorire un gruppo nei confronti degli altri, la presenza stessa del dominio coloniale alimenta la violenza interetnica. I cingalesi e i tamil dello Sri Lanka hanno unorigine comune. Secondo gli stereotipi in circolazione i tamil sarebbero scuri di carnagione, mentre i cingalesi avrebbero la pelle chiara, ma in realt i due gruppi sono difficilmente distinguibili luno dallaltro sulla base delle loro caratteristiche somatiche. La differenza sta piuttosto nella lingua. Prima del xx secolo i due gruppi convivevano abbastanza tranquillamente e non si percepivano come tipi distinti di persone. Poi arrivarono i colonizzatori britannici. Come erano soliti fare dappertutto nel loro impero, i britannici governarono Ceylon creando unlite che parlava inglese. Qui, come altrove, il loro favoritismo fece nascere unopposizione interna che a Ceylon si color di toni razziali e religiosi. La maggior parte di coloro i quali non facevano parte dell lite scelta dagli inglesi parlava cingalese ed era buddista. Questa fetta di popolazione si fece promotrice di unidea razzista di superiorit cingalese, definita nei termini di razza ariana. Dopo lindipendenza questa parte della popolazione che parlava cingalese ottenne il controllo del nuovo Stato dello Sri Lanka e inizi ad escludere i tamil dalle migliori scuole e dai posti di lavoro pi prestigiosi. Questultimo risultato fu perseguito soprattutto introducendo tra i requisiti di competenza la conoscenza della lingua cingalese. Non sorprende il fatto che i tamil si siano risentiti di questa discriminazione nei loro confronti ed alcuni inizialmente solo una piccola minoranza dettero vita nel corso degli anni 70 a violente proteste. Queste rivolte scatenarono una massiccia repressione di Stato e, con un meccanismo simile a quello che port alle ribellioni dei tutsi in Ruanda, furono create le Tigri tamil (le tigri di liberazione del Tamil Eelam) che rivendicavano lautonomia della regione dei tamil. Come ha sostenuto lantropologo Stanley Tambiah, la violenza esplosa sullisola stata una reazione di fine xx secolo alle politiche coloniali e postcoloniali che poggiavano su un concetto rigido e artificiale di separazione etnica. [3]
In questi come in altri casi i sikh in India, i maroniti in Libano, i copti in Egitto, i moluccani nelle Indie orientali olandesi, i karen in Birmania gli Stati coloniali e postcoloniali hanno prodotto nuovi gruppi sociali e li hanno identificati in base alla loro appartenenza etnica, religiosa o territoriale. Solo a partire dalle ultime generazioni i popoli che sono stati divisi in base a queste categorie hanno cominciato ad agire in concerto, presentandosi come gruppi politici con interessi comuni quali lautonomia politica, la facilit di accesso allistruzione e al lavoro e il controllo sulle risorse territoriali. Lontano dal riflettere antiche lealt etniche o tribali, la loro coesione nellagire politico una diretta conseguenza delle richieste dello Stato moderno, in cui le persone devono farsi sentire come gruppi di potere, per evitare di venire seriamente svantaggiate.
Un pericolo che viene dallalto
Chi ci ha seguito fin qui potrebbe dire a questo punto: bene, quella delle identit etniche unidea costruita in epoca moderna, ma resta il fatto che oggigiorno ci sono persone che prendono di mira membri di altri gruppi etnici con le loro azioni di violenza. La risposta che questo accade meno di quanto si pensi e comunque solo dopo che qualche capo politico in grado di controllare lesercito e linformazione si sia preoccupato di preparare, incitare e minacciare la popolazione. A spingere le persone a commettere atti di violenza quindi una paura e un odio che vengono indotti dallalto e non lesistenza di differenze etniche. Si pu avere timore o risentimento nei confronti di un altro gruppo per una serie di ragioni, in particolare se le mutate condizioni economiche e sociali sembrano favorire laltro gruppo. Ma di solito questa rivalit o risentimento, che potremmo chiamare di 77
base, non ancora sufficiente a scatenare fenomeni di violenza tra gruppi, se non c un intervento dallalto. Consideriamo i due casi inquietanti di cui abbiamo parlato prima: Ruanda e Balcani. In Ruanda i continui massacri degli ultimi anni sono stati causati dalla volont del presidente-dittatore Juvenal Habyarimana di spazzar via lopposizione politica, composta sia da hutu che da tutsi. Tra il 1990 e il 1991 Habyarimana inizi a mettere insieme delle bande armate, creando una milizia chiamata Interahamwe. Questa milizia esegu la sua prima strage in un villaggio nel marzo 1992. Nel 1993 inizi a uccidere sistematicamente hutu moderati e tutsi. Nel corso del 1993 le tre principali stazioni radio del paese furono utilizzate in una campagna di odio contro i tutsi, i partiti di opposizione e contro personalit politiche, preparando cos il terreno a quello che sarebbe accaduto dopo. Subito dopo lincidente aereo i cui dettagli sono ancora tutti da chiarire - che port alluccisione del presidente Habyarimana nellaprile del 1994, la guardia presidenziale inizi a uccidere leader dellopposizione hutu, attivisti dei diritti umani, giornalisti e altri personaggi critici nei confronti del governo, soprattutto hutu. Soltanto dopo questa prima ondata di omicidi, la milizia e i mercenari furono spediti ad organizzare le stragi di massa nellinterno del paese, prendendo di mira questa volta i tutsi. Perch le persone obbedirono allordine di uccidere? Le incessanti trasmissioni radio degli anni precedenti hanno sicuramente contribuito a preparare il terreno. In queste trasmissioni i tutsi del fronte patriottico ruandese venivano ritratti come assassini assetati di sangue. Durante il periodo dei massacri, la radio prometteva agli assassini la terra delle vittime. I sindaci delle citt, la milizia, lesercito regolare e la polizia inquadrarono gli hutu in squadroni della morte, uccidendo quelli che non accettavano di farne parte. Il presidente ad interim and in giro per tutto il paese a ringraziare chi aveva preso parte ai massacri. Alcuni approfittarono dei massacri per regolare dei conti personali e molti furono trascinati da quella che alcuni osservatori hanno descritto come frenesia di uccidere. Le stragi del 1994 non furono un fenomeno casuale di violenza di massa, anche se influenzate dalla psicologia di massa. [4] Leggendo i resoconti delle stragi in Ruanda fui sorpreso di quanto questi assomigliassero, punto per punto, ai racconti dei massacri compiuti in Indonesia nel 1965-66, cos come mi erano stati riportati da persone che ne erano state protagoniste. La differenza stava solo nel fatto che in Indonesia il bersaglio da colpire erano i comunisti, ma anche in quel caso le motivazioni dellazione violenta riguardavano il desiderio di regolare conti personali, lavidit, la volont di seguire gli ordini dellesercito e il timore di rappresaglie, tutto ci spinse le persone a compiere azioni difficili da ammettere anche verso s stesse, anche se molti di loro, cos come molti hutu, si erano convinti che le stragi avessero fermato un potere malvagio in procinto di invadere il paese. In entrambi i paesi, alcune persone raccontarono di aver ucciso bambini e di non aver risparmiato donne incinte, per evitare che i bambini una volta cresciuti tentassero di vendicarsi degli assassini. Gli americani continuano a presentare questi massacri in Indonesia come un esempio di violenza etnica, ritenendo che la popolazione cinese fosse il principale bersaglio, ma non cos: gli omicidi furono compiuti anche da giavanesi contro giavanesi, da acenesi contro acenesi e cos via. I due contesti in cui si sono compiute le stragi sono diversi. Il Ruanda tra il 1993 e il 1994 era uno Stato a partito unico, in cui i media erano controllati completamente dallo Stato che li utilizzava per indottrinare la popolazione. LIndonesia invece tra il 1956 e il 1966 era uno Stato politicamente frammentato, di cui solo gradualmente stavano assumendo il controllo alcuni settori delle forze armate. In entrambi i casi, comunque, i capi politici riuscirono a realizzare una strategia, pianificata dallalto, per spazzar via un gruppo di opposizione. Se ebbero successo, perch riuscirono a persuadere le persone che lunico modo per sopravvivere era quello di uccidere preventivamente chi avrebbe tentato di ucciderli. La stessa opera di persuasione fu intrapresa dai politici serbi e croati, in particolare dal croato Franjo Tudjman e dal serbo Slobodan Miloevi, che 78
misero in guardia i loro fratelli etnici, i serbi che vivevano in Croazia o i croati che vivevano in Bosnia, dellimminente pericolo: i loro diritti infatti sarebbero stati calpestati se non si fossero ribellati. Miloevi si serv della retorica espansionistica del moderno nazionalismo serbo, reclamando per i serbi il diritto di vivere dovunque uniti. Tudjman, da parte sua, si avvalse della retorica del moderno nazionalismo di esclusione per formare i suoi sostenitori. Una volta al potere, per prima cosa egli defin i serbi che vivevano in Croazia cittadini di serie B, allontan i serbi dai corpi di polizia e dallesercito e reinser la scacchiera bianca e rossa degli Ustasha dellepoca nazista nella nuova bandiera croata Entrambi i leader hanno sfruttato la memoria storica per i loro fini, ma hanno dovuto anche cancellare le memorie pi recenti delle nuove identit jugoslave, che si erano formate man mano in uomini e donne che avevano contratto matrimoni misti o che vivevano in citt cosmopolite. Le nuove costituzioni riconoscevano solo lidentit etnica, non quella civile, per cui le persone erano costrette a decidere, a volte sotto la minaccia delle armi, chi erano realmente.[5] Diversamente da quello che si legge sui giornali occidentali, i serbi non vivono nel xiv secolo, ancora pieni di livore per la battaglia del Kosovo; n il conflitto in corso la conseguenza di una logica del passato che inevitabilmente si riaffaccia, cos come stato scritto. Politici senza scrupoli hanno investito molta energia nel convincere la gente comune che dallaltra parte non cerano pi gli amici e i nemici che avevano conosciuto per anni, ma persone pronte a commettere un genocidio, che li avrebbero uccisi se essi non li avessero uccisi prima. Miloevi ha dovuto convincere i serbi che i croati erano tutti criptonazisti ustasha; a Tudjman invece toccato convincere i croati che i serbi erano tutti assassini cetnici. Entrambi, ma in particolare Miloevi, hanno dichiarato che i musulmani bosniaci rappresentavano lavanguardia di una nuova minaccia islamica. Ogni governo aiutava indirettamente laltro: il discorso espansionista di Miloevi confermava le paure dei croati che i serbi volessero assumere il controllo dei Balcani. Allo stesso tempo la politica di Tudjman faceva rivivere nella mente dei serbi il ricordo degli ustasha. I media serbi fecero leva su queste paure, dedicando tra il 1990 e il 1991 ampio spazio ai servizi sullesumazione delle fosse comuni risalenti alla seconda guerra mondiale e ai racconti del terrore ustasha. Questa forma di nazionalismo dallalto, come lo ha definito Warren Zimmermann, lultimo ambasciatore americano in Jugoslavia, rappresentava uno scontro tra nazionalismi in cui ogni azione di una parte confermava i timori dellaltra. Se il Ruanda e i Balcani non si prestano allimmagine del calderone in ebollizione e degli antichi odii tribali, tanto meno ci vale per altri conflitti in corso a livello locale. Gran parte di essi sono volti allottenimento dellautonomia politica, soprattutto nellex Unione Sovietica, dove il crollo del potere dei Soviet ha fatto s che popoli a lungo repressi abbiano potuto rivendicare il diritto a usare la propria lingua, a praticare la propria religione, a controllare il loro territorio e le loro risorse - un rifiuto del dominio straniero simile a quello delle ribellioni anti-imperialiste nelle Americhe, in Europa, Asia o Africa. Anche altre rivolte in varie parti del mondo, ognuna con la sua storia e le sue motivazioni, sono state spesso considerate, facendo di tutta lerba un fascio, conflitti etnici. La resistenza di Timor Est al potere indonesiano una lotta ventennale contro linvasione di una potenza straniera, non unespressione di identit etnica o culturale. Le persone che combattono nel sud delle Filippine sotto la bandiera della Nazione Moro a veder bene cercano di riconquistare il controllo delle loro terre, sottrattogli da politici nominati da Manila. I guerriglieri zapatisti in Chiapas vogliono lavoro, riforme politiche e soprattutto terra. Gli zapatisti non fanno cenno a questioni di identit etnica o culturale nei loro documenti; il loro leader viene dal nord del Messico e almeno fino a poco tempo fa non parlava la lingua maya. Altri conflitti in corso sono nati da una pura lotta di potere tra fazioni rivali. Questo accade soprattutto in diversi paesi africani, come la Liberia, la Somalia e lAngola, dove le forze avversarie arruolano spesso i soldati da una stessa regione o da 79
uno stesso clan - accreditando cos la tesi secondo cui questi sarebbero conflitti etnici - in modo da poter sfruttare lautorit dei leader locali e lo spirito di appartenenza per tenere sotto controllo i propri seguaci.[6]
Diversit etnica e conflitto sociale
Arriviamo quindi alla terza affermazione erronea: che la diversit etnica porti con s instabilit politica e aumenti la probabilit di esplosioni di violenza. In realt le cose stanno proprio al contrario: le diversit etniche pi profonde non sono associate a conflitti interetnici di grande rilievo. Alcuni degli Stati pi etnicamente differenziati al mondo Indonesia, Malesia, Pakistan bench non immuni da conflitti interni e da repressioni politiche, hanno conosciuto solo minimamente la violenza interetnica, mentre in paesi con differenze assai lievi di lingua o cultura (lex Jugoslavia, la Somalia, il Ruanda) si sono verificati i conflitti pi cruenti. il numero dei gruppi etnici e la loro relazione con il potere, non la diversit in s, che minaccia pi seriamente la stabilit politica. Come ha inoltre mostrato nei suoi recenti studi il politologo Ted Gurr, i conflitti locali, contrariamente a quanto si pensa comunemente, non sono nettamente aumentati per frequenza o gravit nel corso dellultimo decennio. Il pi grande aumento dei conflitti locali si verificato durante la guerra fredda come conseguenza dello sforzo delle due superpotenze di armare gli Stati alleati. Lidea che tutto sia esploso dopo il 1989, sostiene Gurr, deriva dalle riaffermazioni dellidentit nazionale nellEuropa dellEst e nellex Unione Sovietica (v. Gurr 1994). In generale lattenzione dei media si concentra sui paesi turbati dalla violenza e ignora i casi, assai pi frequenti, in cui le relazioni tra le diverse popolazioni sono pacifiche. Si prenda ad esempio lIndonesia, dove ho portato avanti un lavoro sul campo dalla fine degli anni 70. Se qualcuno ha sentito parlare dellIndonesia probabilmente a causa della sua occupazione di Timor Est e della soppressione della libert politica, ma questi non sono elementi di conflitto etnico: questultimo ha davvero poca presa in un paese composto da pi di 300 popoli, ciascuno con una propria specifica lingua e cultura. E vero che attorno agli anni 1959 e 1960 ci furono movimenti di ribellione contro Giakarta in pi parti del paese, ma le rivendicazioni riguardavano il diritto al controllo sulle risorse locali, sulla scuola e sulla religione. Una ribellione a fasi alterne organizzata nellarea della mia ricerca, allestremo nord di Sumatra, stata portata avanti al fine di ottenere il controllo sulle grandi risorse di petrolio e di gas della regione. Malgrado questo, la stampa occidentale continua a presentare lo stereotipo del conflitto etnico. La diversit culturale rappresenta certo una sfida allintegrazione nazionale e alla pace sociale. Perch alcuni paesi riescono a vincere questa sfida e altri no? Ci sono qui da tenere presenti due ordini di ragioni che travalicano la semplice diversit etnica e culturale. Prima di tutto esistono materie prime per la pace sociale che i paesi possono o meno possedere al momento del conseguimento dellindipendenza. I paesi in cui un gruppo ha a lungo sfruttato tutti gli altri, come in Ruanda e in Burundi, partono con molti conti da regolare, mentre i paesi in cui non c stato un gruppo nettamente dominante, come in Indonesia, hanno inizialmente un vantaggio nella creazione del consenso politico. I sistemi cosiddetti centralizzati, in cui due o tre gruppi numerosi polarizzano continuamente la politica nazionale, sono meno stabili rispetto ai sistemi dispersi, in cui ognuno dei gruppi pi piccoli spinto a costruire alleanze per raggiungere i propri fini. E se i principali gruppi etnici usano la stessa lingua o professano la stessa religione, oppure se hanno cooperato nella lotta rivoluzionaria, dispongono gi di un legame sulla cui base si possa costruire la cooperazione politica (v. Horowitz 1985, pp. 291-364). Prendiamo ancora il caso dellIndonesia. NellIndonesia coloniale (le Indie orientali olandesi), i giavanesi erano, proprio come accade anche oggi, la popolazione pi numerosa, ma erano concentrati a Giava e solo l detenevano posizioni di potere. Tutta la popolazione di Giava, di Sumatra e 80
delle isole orientali, compresa la Malesia e parte delle Filippine del sud, usano da secoli il malese come lingua franca e una volta conquistata lindipendenza proprio il malese divenne la lingua di base dellIndonesia. Anche lIslam si diffuse trasversalmente a regioni ed etnicit, unendo la popolazione di Sumatra, Giava e Sulawesi. Il potere era disperso, nel senso che molti personaggi importanti della letteratura, della religione e dello stesso movimento nazionalista provenivano abbastanza di frequente da localit diverse rispetto a Giava, in particolare da Sumatra. Inoltre la popolazione di tutto il paese aveva impiegato cinque anni per combattere contro i tentativi olandesi di riconquistare il controllo del paese dopo la seconda guerra mondiale, e ci si poteva basare sullesperienza condivisa di questa lotta comune. [7] Si pu vedere quanto sia importante ciascuna di queste caratteristiche, se consideriamo un caso vicino, cio quello di un paese culturalmente molto simile come la Malesia. I malesi e i cinesi, i gruppi etnici pi numerosi, non hanno in comune n la lingua n la religione e non condividono una memoria di lotta a cui ispirarsi. I malesi hanno mantenuto il potere politico durante il dominio britannico, e al momento dellindipendenza c stata unevidente spaccatura tra la comunit malese e quella cinese.
Limportanza delle scelte politiche
Queste condizioni di partenza non riescono comunque a chiarire del tutto la situazione: ecco che entra in scena una seconda serie di ragioni in grado di determinare il conflitto o la pace sociale. Gli Stati infatti fanno scelte, in particolare riguardo ai processi politici, che possono distendere o esacerbare le tensioni tra i diversi gruppi. Come ha rilevato il politologo Donald Horowitz, se consideriamo solamente le condizioni di partenza, la Malesia avrebbe dovuto sperimentare delle serie violenze interetniche (per le ragioni appena spiegate), mentre allo Sri Lanka, in cui tamil e cingalesi si sono mescolati nelllite educata secondo lo stile britannico, tali violenze non si sarebbero dovute verificare. Tuttavia la Malesia ha cercato in ogni modo di evitarle, lo Sri Lanka non lha fatto. La differenza fondamentale, secondo Horowitz, consiste nei sistemi politici che si sono formati nei due paesi. I politici della Malesia hanno formato una coalizione multietnica, in grado di favorire i legami tra i capi politici cinesi e malesi e di spingere i candidati a cercare un largo consenso elettorale intermedio. In Sri Lanka, come abbiamo visto prima, i parlanti cingalese hanno formato un movimento nazionalista sciovinista e quindi la precedente cooperazione tra tamil e cingalesi si spaccata, creando dei partiti politici su base etnica. In ogni partito si formata unala estremista che ha costretto i leader a muoversi nella propria direzione. Ma i sistemi politici possono essere cambiati e la Nigeria costituisce un buon esempio. Prima del 1967 la Nigeria era composta da tre regioni Nord, Sud e Est ognuna rappresentata da un proprio partito sostenuto da alleanze etniche. Questa tripartizione era cos profondamente radicata da spingere la regione sudorientale del Biafra a cercare di separarsi dalla Nigeria nel 1967. La conseguenza fu una guerra civile che traumatizz il paese e spinse i politici a cercare nuove strade. Il paese fu diviso in 19 Stati i cui confini attraversavano i territori dei tre gruppi etnici pi numerosi Hausa, Yoruba e Igbo incoraggiando cos una nuova politica federalista basata su coalizioni multetniche. Il nuovo sistema, malgrado i suoi vari problemi, ha impedito la formazione di un nuovo Biafra. I leader politici che sono venuti dopo hanno per continuato ad aumentare il numero degli Stati ognuno per ragioni politiche diverse. Lattuale leader, il generale Sani Abaca, sta continuando ad aggiungere Stati ai trenta gi presenti. Questa eccessiva frammentazione ha finito per spaccare le coalizioni multietniche e stimolato di nuovo una politica etnica. Una tendenza simile stata perseguita dal keniota Daniel Arap Moi, che ha creato una base elettorale etnica che esclude molti kikuyus, aumentando limportanza delletnicit in politica e quindi il livello delle tensioni tra gruppi. 81
Secondo il mito del conflitto etnico ci troveremmo di fronte a tensioni di tipo permanente, mentre in realt esse sono il prodotto di scelte politiche. Laccettazione di stereotipi negativi, il timore di un altro gruppo, il motto uccidere prima di essere ucciso: questi sono i prodotti dei cosiddetti leader, che essi stessi possono tuttavia anche cancellare. Credere, al contrario, che tali conflitti siano la naturale conseguenza della depravazione umana presente in alcune parti del mondo, porta a un pensiero e a politiche perverse. La violenza sembra essere caratteristica di un popolo o di una regione, invece che la conseguenza di specifiche azioni politiche. Pensare in questo modo giustifica la mancanza di intervento, come quando il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, cercando di tirarsi indietro rispetto alle affermazioni fatte in campagna elettorale, che promettevano una linea dura in politica estera per quanto riguardava i Balcani, inizi a sostenere che i bosniaci e i serbi si uccidevano a causa delle loro differenze etniche e religiose. Questo modo di pensare presenta le parti in lotta come meno razionali e meno moderne quindi pi tribali, pi etniche di noi, e ci rende cos pi facile tollerare la loro sofferenza. Ma il presupposto che questi popoli seguano naturalmente il richiamo dei loro leader ad uccidere ci distoglie dalla questione fondamentale, che quella di capire in che modo e perch le persone qualche volta sono spinte a commettere tali orribili azioni.
Riferimenti bibliografici
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Kapferer, B., 1988, Legends of People, Myths of State, Washington, DC, Smithsonian Institution Press.
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Van der Veer, P., 1994, Religious Nationalism: Hindus and Muslims in India, Berkley, University of California Press. Walzer, M., 1983, Spheres of Justice, New York, Basic Books; trad it. 1987, Sfere di giustizia, Milano, Feltrinelli 82
[1] Due dei pi convinti sostenitori di questa visione che sto criticando sono Robert Kaplan (1993; vedi anche i suoi interventi per la rivista Atlantic) e Samuel P. Huntington 1993) Il mio intento non tanto quello di entrare nel merito delle argomentazioni di questi due autori, cosa che gi altri hanno fatto, ma piuttosto quello di prendere in considerazione il punto di vista generale che, come accade a tutti i miti, sopravvive al di l del succedersi delle sue versioni. [2] Si veda Glenny 1992 per un resoconto equilibrato e molto interessante da un punto di vista etnologico sulle guerre dei Balcani. Sulle tendenze pi recenti del nazionalismo europeo si veda in particolare Brubaker 1996. Brubaker arriva allimportante conclusione che il nazionalismo dovrebbe essere considerato come una forma di ideologia politica e sociale e non come un qualcosa di preideologico. [3] Tambiah 1986. Per un punto di vista diverso sulla cultura della violenza in Sri Lanka si veda Kapferer 1988. [4] Sui recenti resoconti dei massacri in Ruanda e Burundi si vedano Gourevitch 1996 e Lemarchand 1995 [5] Che esistessero memorie, paure e odii da sfruttare bene tenerlo a mente, altrimenti rischiamo di andare allestremo opposto e sostenere che questi conflitti sono stati interamente prodotti dallalto: un estremo in cui possono essere caduti alcuni studiosi, eccessivamente attaccati a modelli razionali di scelta. Russell Hardin, nel suo peraltro eccellente One for All: The Logic of Group Conflict, a mio avviso si sbaglia quando attribuisce ai due uomini politici responsabili di aver fatto accendere la passione etnica solo motivazioni razionali e di autoesaltazione. Hardin non tiene conto del fatto che essi stessi potrebbero essere vittime di queste passioni. La fredda razionalit dei leader in s una variabile: probabilmente Miloevi si adatta al modello di attore razionale proposto da Hardin meglio di Tudjman, Suharto meglio di Sukarno. In ogni caso, si tratta di un problema contestuale. Si veda Hardin 1995. [6] Si possono trarre le stesse conclusioni per quanto riguarda la versione religiosa degli antichi odii nelle relazioni tra musulmani e hindu in India. Comunque siano state le antiche relazioni, pacifiche o conflittuali (e su questa questione il dibattito nellAsia del sud ancora vivo), i conflitti degli ultimi dieci anni in India, che spesso sono sfociati nel sangue, sono stati alimentati dallambizione dei politici che avevano visto un illimitato bacino di consensi nel risentimento che la classe media hindu provava riguardo 1. alle proteste delle caste pi basse perch fossero loro riservati posti di lavoro e facilitato laccesso allistruzione e 2. al recente arricchimento di alcuni musulmani provenienti dalla classe media. Si vedano le approfondite analisi politiche di Susanne Hoeber Rudolph e Lloyd I. Rudolph sulla New Republic (22 marzo 1993, 14 febbraio 1994)e lo studio storico ed etnografico di Peter Van der Veer (1994). [7] Vorrei proporre di chiamare potere disperso la situazione in cui ognuno dei diversi gruppi considera s stesso come dominante in una data dimensione politica o sociale il secondo importante meccanismo per ridurre i conflitti tra gruppi, accanto al pi noto cross-cutting cleavages che rappresenta la situazione in cui una o pi importanti dimensioni della diversit sono trasversali ad altre, come succede ad esempio per la religione che in molti paesi trasversale alletnicit. Il potere disperso si manifesta nelle dimensioni sociali e culturali, ad esempio sotto forma di superiorit in campo letterario oppure di un pi alto valore sociale che si fa risalire ad una supposta origine indigena del gruppo. Si tratta quindi di meccanismi pi ampi, ma allo stesso tempo analoghi a quello del federalismo, quando questi meccanismi tendano a far proliferare i punti di potere per usare lespressione di Donald Horowitz. Questo rappresenta il parallelo empirico della posizione normativa esposta in Walzer 1983. Secondo lautore il potere in una sfera (o dimensione) non conferisce necessariamente il potere nelle altre sfere.
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Comunit immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Jugoslavia Robert M. Hayden
(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp.145-82; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)
vero, sono un hegeliano: penso che la sofferenza degli individui sia irrilevante rispetto allimportanza dei processi storici. (Alto funzionario, Repubblica Srpska, Marzo 1994)
Certo, sarebbe meglio risolvere i problemi delle minoranze attraverso il dialogo, ma non dobbiamo mai escludere la possibilit di intervenire militarmente. (Alto funzionario, Commissione per i diritti umani delle minoranze, Parlamento della Repubblica Croata, Marzo 1994)
Non saremo una nazione fino a quando ci sar ancora qualcuno che pensa che essere serbo sia pi importante che vivere dove hanno vissuto i propri antenati (Radovan Karadi, allora presidente della Repubblica Srpska, 13 settembre 1995)
Il crollo dellex-Jugoslavia stato accompagnato da unondata di violenza che ha profondamente scosso lopinione pubblica mondiale; in particolare, ha colpito il fatto che tale violenza si verificasse in Europa, per quanto limitatamente ai Balcani.[1] Lorrore e il disgusto provato anche dagli antropologi rischia per di far passare sotto silenzio quale sia stata la logica sottesa alle guerre di secessione e successione in Jugoslavia. In particolare bisogna considerare la fatale incompatibilit tra le culture oggettivate o reificate, assunte come base delle diverse imprese nazionaliste, da un lato e dallaltro le culture viventi delle aree che sono state teatro delle peggiori violenze. La geografia della violenza un aspetto da tenere in considerazione perch dal 1991 in ex-Jugoslavia le guerre sono state combattute quasi sempre nelle regioni pi miste, quelle cio in cui le diverse nazioni della Jugoslavia si erano maggiormente mescolate. La violenza che si diffusa cos improvvisamente in questi luoghi non stata scatenata da passioni nazionaliste a lungo represse dal comunismo, come ritengono molti giornalisti e politici. Al contrario, a me pare che al centro delle guerre vi sia stato il tentativo di rompere con la forza la mescolanza di popoli, alla cui coesistenza erano contrarie le ideologie politiche uscite vincitrici dalle libere elezioni del 1990. Tali forme di nazionalismo estremo in ex-Jugoslavia non hanno solo portato ad immaginare presunte comunit primordiali, ma hanno anche cercato di rendere inimmaginabili le comunit eterogenee realmente esistenti.. Da un punto di vista formale, si trattato rafforzare una definizione essenzialista di nazione e di Stato e di applicarla a regioni in cui le diverse popolazioni, vivendo luna accanto allaltra, ne confutavano di fatto la validit. Questo ha comportato una spietata negazione della realt sociale, al fine di ricostruirne una nuova. questa ricostruzione delle comunit separate che trasforma limmaginazione in un processo che produce vittime reali. Non si tratta di una distinzione cartesiana e nemmeno delladesione a una prospettiva di analisi simbolico-materialista. I membri pi fortunati di una comunit immaginaria sono reali tanto quanto gli sfortunati che ne sono rimasti esclusi. Piuttosto, vorrei mostrare come un sistema culturale reificato e prescrittivo abbia il potere di disgregare i modelli della vita sociale (cio la cultura in senso analitico) che vi si oppongono. Si tratta, certo, di un argomento strutturalista nel senso di Mary Douglas (1966; si veda anche Herzfeld 1993, p.22): la pulizia etnica (per descrivere uno spargimento di 84
sangue in modo non cruento) rappresenta leliminazione di un particolare tipo di materiale umano da un dato luogo. Allo stesso tempo la pulizia etnica pu fare da corollario ad un capovolto mito della nazione lvistraussiano, un mito cio che non fornisca un modello logico in grado di superare le contraddizioni nelle strutture sociali esistenti ma che al contrario affermi che la struttura sociale esistente logicamente incoerente e che deve quindi essere distrutta. In quanto processo di uniformazione, la pulizia etnica pu assumere forme diverse. Nei territori in cui il gruppo dominante costituisce gi una maggioranza schiacciante, luniformazione pu essere realizzata con mezzi legali e misure amministrative, come respingere le domande di cittadinanza ai soggetti che non fanno parte del gruppo giusto, oppure facilitare lassimilazione di membri delle minoranze ritenuti pi adatti e allontanare quelli che non possono o non vogliono essere assimilati. In territori pi misti luniformazione richiede misure pi drastiche: lespulsione fisica, lallontanamento o lo sterminio del gruppo di minoranza. Sebbene solo questultimo caso dallinizio delle guerre in Jugoslavia sia stato definito pulizia etnica, opportuno tenere presente che anche la discriminazione condotta con misure giuridiche mira allo stesso risultato, cio leliminazione delle minoranze. Concettualmente, potremmo considerare la violenza della pulizia etnica come lo scontro tra un modello prescrittivo di cultura (cultura come ideologia) e la realt storico-contestuale (cultura vivente) che non si accorda con la prescrizione. Porre la questione in questi termini non significa voler dare a tutti i costi risalto al tradizionale oggetto di studio dellantropologia. Semmai questa impostazione d conto dellimportanza riservata oggi in Occidente al concetto di cultura come ideologia (ci che Verena Stolcke (1995) ha definito fondamentalismo culturale), che funziona ormai come una sorta di parola chiave sempre pi utilizzata nellEuropa occidentale nella retorica politica sul fenomeno dellesclusione. Una distinzione analoga, in riferimento ad un altro tipo di retorica dellesclusione e della dominazione, quella proposta per il caso dellAsia del sud da Ashis Nandy (1990, p. 70), che distingue tra fede o religione come stile di vita e ideologia o religione come fattore di identit delle popolazioni. Il nazionalismo religioso dellIndia di Van der Veer (1994) analiticamente paragonabile al nazionalismo culturale dellEuropa[2]: in entrambi i casi, risalta la differenza tra le concezioni prescrittive di come la cultura o la religione devono essere, e i modi in cui la gente realmente vive in determinati luoghi. Limperativo qui non solo normativo (come la cultura dovrebbe essere), ma pretende di essere anche descrittivo, di basarsi cio su assunti riguardanti leffettiva realt del mondo, ed per questo che le presunte devianze culturali sono viste come anormali. Un simile contrasto tra l ideologia e il modo in cui la gente vive veramente pu forse apparire ingenuo, in unepoca in cui la critica a ogni forma di empirismo divenuta routine per gli antropologi. Eppure i modelli di vita sociale luso che si fa di un sistema di scrittura al posto di un altro, le percentuali di matrimoni misti o quelle di utilizzo di certi item lessicali si possono analizzare e spesso ci si accorge che non sono congruenti alla concezione prescrittiva (come tali modelli dovrebbero essere). Gli orrori della pulizia etnica derivano proprio da questa incongruenza tra la realt concreta della vita vissuta e loggettivazione della vita che deve essere vissuta. Laccostamento di realt e immaginazione che compare nel mio titolo assume quindi un significato pi profondo del mero espediente retorico. Lintento di questa ricerca quello di mostrare la logica della traduzione della violazione categoriale in violenza di massa per parafrasare il commento di Michael Herzfeld (1993, p. 33) al lavoro di Peter Loizos (1988) sui delitti intercomunitari a Cipro. Con la precisazione che Loizos si preoccupato di spiegare il fenomeno della violenza individuale, mentre io vorrei prendere in considerazione il sistema categoriale sul quale si basa la forma di Stato etnico che promuove la violenza di massa. A questo proposito il mio obiettivo simile a quello di Herzfeld. Le attivit amministrative che 85
egli analizza includono il genocidio, anche se poi egli pone laccento su altri aspetti. Il mio proposito quello di concentrarmi sulla violenza di massa che ha colpito profondamente gli osservatori, me compreso. Inoltre il fenomeno da me studiato non pu essere considerato come una causa della produzione di indifferenza, definita come il rifiuto della comune umanit o come negazione di identit (Herzfeld 1993, p. 1). Al contrario, nei processi da me analizzati si riconoscono gli altri popoli come esseri umani (sebbene, forse, come individui inferiori) e si assegnano delle conseguenze alle identit che gli stessi gruppi subalterni rivendicano. I serbi della Croazia ad esempio hanno rivendicato la propria identit dopo il 1990 con maggior frequenza rispetto ai decenni precedenti, quando molti si definivano jugoslavi. Il significato dellidentit nel frattempo era cambiato.
Costituzioni come legittimazione della pulizia etnica
In questo saggio mi occuper delle costituzioni delle repubbliche succedute allo Stato della Jugoslavia, per mostrare come esse rappresentino unespressione istituzionalizzata delle ideologie nazionaliste e aspirino alla costruzione di Stati-nazione omogenei in territori eterogenei. Mi interessa mostrare la logica della costruzione di un particolare tipo di Stato, uno Stato- nazione in cui il termine nazione ha connotazioni che gli americani chiamerebbero etniche, anche se queste non sono centrali nel comune uso americano del termine. La Croazia ad esempio definita costituzionalmente come lo Stato-nazione del popolo croato (Costituzione delle Repubblica Croata, 1990, preambolo) e parallelamente la Slovenia si definisce come lo Stato sovrano del popolo sloveno. In questi casi il riferimento a: Noi, il popolo ha un significato molto diverso rispetto a quello solitamente diffuso nellattuale mentalit americana. Le carte costituzionali sono uno degli elementi pi importanti da tenere presenti per analizzare la formazione delle ideologie nazionaliste, proprio per la loro pretesa di essere costitutive, di fornire cio non solo il quadro concettuale dello Stato, ma anche gli strumenti istituzionali per costruire uno Stato conforme a quel modello. Quando una costituzione si immagina uno Stato che esclude alcuni residenti dal suo corpo politico o sociale, cos come avvenuto negli Stati che si sono formati dalla dissoluzione dellex- Jugoslavia, allora gli articoli di quella costituzione apparentemente non cruenti contengono gi in s le premesse di una violenza sociale che pu diventare cruenta. Il mio primo obiettivo dunque porre in rapporto la costruzione culturale della nazione con la costituzione giuridica degli Stati nelle repubbliche della ex-Jugoslavia; unanalisi che pu tornare utile anche in altri casi, dal momento che i fenomeni costituzionali e giuridici qui riscontrati hanno stretti paralleli altrove, in particolare in Europa. Luniformazione di una comunit eterogenea pu avvenire tramite lassimilazione forzata o lespulsione, cos come tramite la revisione dei confini (Macartney 1934, pp. 427-449). Lassimilazione forzata pu essere meno apertamente violenta di quella che noi oggi chiamiamo pulizia etnica, ma i due processi sono basati sugli stessi principi, e appaiono semplicemente come strategie diverse per raggiungere lo stesso scopo. Il ricorso alla violenza fisica avviene laddove la geografia culturale pi eterogenea ed pi difficile esercitare il dominio con mezzi non violenti (v. Hayden 1995a). In questo saggio prendo in esame sia la pulizia etnica amministrativa sia la violenza diretta, riconoscendole come conseguenze di una medesima logica che opera in contesti sociali diversi.
La ricerca sul campo a distanza: etnografia dellideologia
Le tradizionali modalit etnografiche non sembrano ben adattarsi allanalisi delle costituzioni come meccanismi di conversione delle ideologie 86
nazionaliste in pratica sociale. Lanalisi dei movimenti nazionalisti deve basarsi sullanalisi di testi prodotti dai sostenitori e dagli oppositori di particolari visioni nazionaliste (v. p. es. Handler 1988, pp. 27-29; Verdery 1991, pp. 19-20); il che potrebbe spingere alle sue estreme conseguenze la metafora post-geertziana della cultura come testo. Tuttavia, tali testi non possono essere analizzati in isolamento dal campo delle relazioni sociali in cui sono stati prodotti, letti e interpretati sia nel pensiero che nellazione (Verdery 1991, p. 20); e per una simile analisi contestuale dei testi nazionalisti indispensabile la ricerca sul campo nelle rispettive societ. Certo, il significato di un testo varia con il suo pubblico, ma nello studio delle ideologie nazionaliste possiamo empiricamente delimitare la gamma di significati che gli autori dei testi e il loro pi diretto pubblico hanno in mente. E per conoscere questi significati necessaria una conoscenza approfondita del campo delle relazioni sociali, raggiungibile solo attraverso una prolungata partecipazione e osservazione della societ studiata. Tuttavia, questa ricerca sul campo pu essere di tipo molto diverso rispetto al tradizionale metodo antropologico del being there. Una volta che letnografo abbia acquisito una solida conoscenza del campo sociale in cui i testi nazionalisti sono prodotti, spesso possibile controllarne gli sviluppi a distanza. I testi viaggiano attraverso i giornali, la radio e oggi sempre pi spesso attraverso la posta elettronica; con Internet possibile ricevere in America le versioni elettroniche dei giornali dellIndia, della ex-Jugoslavia e di altri paesi. Vi sono forum virtuali incentrati su argomenti quali i serbi e la Serbia, i croati e la Croazia, oppure sulla Bosnia, la Macedonia o la Slovenia, che forniscono materiali di grande interesse immediatamente disponibili per i ricercatori e per altri osservatori partecipanti in tutto il mondo. Cos un lettore attento pu tenersi aggiornato sulle vicende politiche e ideologiche della ex-Jugoslavia senza bisogno di passare molto tempo direttamente sul campo. Una ricerca sul campo a distanza di questo tipo semplicemente un corollario delle condizioni transnazionali che gli antropologi hanno evidenziato negli ultimi anni (v. p.es. Appadurai 1991; Basch et al. 1994). Quando un antropologo americano di origine indiana, facendo ricerca nellIndia meridionale, scopre che il sacerdote del tempio che vuole incontrare si trova in Texas (Appadurai 1991, p. 201), non occorre forzare troppo il concetto di lavoro sul campo per suggerirgli di andare in Texas a intervistare il sacerdote. Del resto, questa situazione non affatto nuova in antropologia. Dopo tutto, Lewis Henry Morgan raccolse gran parte dei materiali sulla parentela del suo Systems of Consanguinity and Affinity (1870) intervistando nativi (giapponesi e indiani dAmerica) ai quali capitava di trovarsi proprio dove si trovava lui, a Rochester, ad Albany o a New York. La ricerca sul campo a distanza, tuttavia, pu essere ammessa solo dopo che sia stata svolta una solida ricerca antropologica di tipo pi tradizionale, con una prolungata residenza nella societ studiate e con la padronanza della lingua. Inoltre, per la ricerca da lontano sono di grande utilit delle brevi visite ai luoghi in questione. E questo il caso del lavoro che qui presento. La mia ricerca sui legami tra le ideologie nazionaliste e la loro espressione costituzionale cominci nel 1989, in quella che era ancora la Jugoslavia; a quel punto, avevo gi passato pi di tre anni (in diversi periodi, a partire dal 1981) nel paese, lavorando ad altri progetti. Da allora, ho trascorso nella ex- Jugoslavia periodi di quattro mesi nel 1991, pochi giorni nel 1993, tre settimane e in seguito due mesi nel 1994 e dieci giorni nel 1995; ci mi ha consentito di supportare la mia analisi dei testi attraverso interviste mirate.
La federazione multinazionale e il suo crollo
E noto il significato del termine balcanizzazione in inglese come in molte altre lingue (ma v. Baki-Hayden, Hayden 1992; Todorova 1994), ed assai diffusa lassunzione che i diversi popoli jugoslavi si siano sempre combattuti a vicenda. Per questo, occorre specificare meglio lasserzione che la ex- 87
Jugoslavia era uno Stato magari non proprio pacifico, ma in cui le tensioni etniche e nazionaliste non dominavano la vita quotidiana. In questo e nel prossimo paragrafo mi concentrer dunque sulla comunit jugoslava, esaminando dati che mostrano una presenza eterogenea nei suoi territori e la mescolanza, in tutti i sensi, dei popoli che ne facevano parte. La Jugoslavia esistita dal 1945 al 1991 era uno Stato multinazionale, basato sul multiculturalismo, in cui nessun singolo gruppo rappresentava una maggioranza. E vero che, con una eccezione, era composta da repubbliche abitate da un gruppo di maggioranza, da cui queste prendevano il nome (ad esempio i serbi in Serbia, i croati in Croazia ecc.), ma tutte queste repubbliche avevano consistenti minoranze. Leccezione era rappresentata dalla repubblica di Bosnia ed Erzegovina, che non aveva un gruppo maggioritario: nel 1981 la sua popolazione era composta da musulmani (39,5%), serbi (32%), croati (18,4%), jugoslavi (7,9%), e altri o ignoti (2,2%). Nel censimento del 1991 le proporzioni erano, rispettivamente, del 43,7%, 31,4%, 17,3%, 5,5%, 2,1% (Petrovi 1992, p. 4). Allaltra estremit dello spettro la popolazione della Slovenia, la repubblica pi omogenea, comprendeva il 90,5% di sloveni nel 1981 e l87,6% nel 1991 (Ibid., p. 9). La geografia politica del paese rifletteva queste concentrazioni territoriali. La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia (1945-1991/92) era una federazione di sei repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Slovenia) e due province autonome allinterno della repubblica di Serbia (Vojvodina e Kosovo). Con leccezione della Bosnia- Erzegovina, ogni repubblica o provincia autonoma rappresentava larea di maggior concentrazione territoriale di uno dei grandi gruppi nazionali che formavano la Jugoslavia. Nel 1991, ad esempio, il 99,3% degli sloveni in Jugoslavia vivevano in Slovenia, mentre il 70,6% dei montenegrini vivevano in Montenegro. Nelle libere elezioni tenute nel 1990, dopo il crollo della Lega dei comunisti, il messaggio vincente in ogni repubblica fu quello del nazionalismo classico: la Serbia ai serbi, la Croazia ai croati, la Slovenia agli sloveni, la Macedonia ai macedoni. Nella Bosnia-Erzegovina il voto somigli a un censimento etnico, con i partiti nazionalisti musulmano, serbo e croato che raccolsero intorno all80% dei voti una proporzione solo leggermente inferiore a quella di ciascun gruppo nazionale nella popolazione della repubblica. Il pi importante partito che sosteneva luguaglianza di tutti i cittadini, lAlleanza delle Forze Riformiste della Jugoslavia, del primo ministro federale, ottenne solo il 5,6% dei voti meno del 6% ottenuto dai comunisti riformati (Hayden 1993a). I politici vittoriosi in Serbia, Slovenia e Croazia lavorarono indipendentemente, ciascuno per le proprie ragioni, a indebolire il governo federale, ottenendo quella sovranit di fatto prima ricordata (Woodward 1995; v. anche Jovic 1995). Cos ogni repubblica, eccetto la Bosnia- Erzegovina, divenne un vero e proprio Stato-nazione basato sulla sovranit del gruppo nazionale maggioritario. I diversi movimenti politici nazionalisti erano giustificati dal principio di autodeterminazione. Ma nella politica e nella cultura popolare jugoslava questo famoso concetto aveva un significato particolare, con sinistre implicazioni per ogni concezione di uno Stato civile di cittadini uguali. Prendiamo unaffermazione contenuta nella prima riga della costituzione jugoslava del 1974, che parla del diritto di ogni nazione allautodeterminazione, compreso il diritto alla secessione[3]; qui il riferimento non tanto alla popolazione o ai cittadini delle repubbliche, ma alle nazioni, narodi (singolare: narod), della Jugoslavia, etnicamente definite. Ad ognuna di queste nazioni si riconosceva una repubblica, ma erano state le nazioni, non le repubbliche, ad essersi unite per formare lo Stato jugoslavo. Le repubbliche jugoslave, diversamente da quelle dellUnione Sovietica, non avevano il diritto alla secessione. Questa distinzione apparentemente arcana tra nazione e repubblica come fonte dei diritti in realt di vitale importanza. Laspetto centrale dei movimenti politici nazionalisti nati dopo il 1989 stato proprio lesplicita fusione di nazione, etnicamente definita, e Stato. Questa formulazione, per quanto non nuova nella storia europea, apparsa densa di sinistre 88
implicazioni per le minoranze che si sono trovate a vivere in Stati definiti come gli Stati-nazione delle rispettive maggioranze etniche. Per definizione, chi non appartiene alla maggioranza etno-nazionale pu essere soltanto un cittadino di seconda classe. Il nucleo di tale distinzione risiede nel concetto di sovranit. Raggiunto il potere nelle varie repubbliche jugoslave dopo le elezioni del 1990, i politici nazionalisti riscrissero le rispettive costituzioni repubblicane per fondare lo Stato sulla sovranit della nazione etnicamente definita (narod), cosicch gli altri potevano essere cittadini ma non aspettarsi un uguale diritto a partecipare al controllo dello Stato. Dunque, le politiche nazionaliste nella Jugoslavia di fine anni 80 e dei primi anni 90 trasformarono quelli che prima erano territori abitati da concentrazioni dei vari gruppi nazionali in Stati in cui erano sovrani i membri della nazione maggioritaria (v. Denich 1994; Hayden 1992a). I politici presupponevano che i vari popoli jugoslavi non potessero vivere insieme, e che dunque il loro comune Stato dovesse essere diviso. Il successo elettorale di questo messaggio signific il crollo dellidea jugoslava di uno Stato comune dei popoli slavi meridionali, unideologia considerata come opposta e rivale alle ideologie nazionaliste di ogni gruppo (Djilas 1991). Per invertire la celebre espressione di Benedict Anderson (1983), la disintegrazione della Jugoslavia nel 1991-92 segn il fallimento dellimmaginazione di una comunit jugoslava. Ma questo fallimento dellimmaginazione ebbe conseguenze ben reali e tragiche. Quella comunit jugoslava che non poteva esser mantenuta, e che era divenuta dunque inimmaginabile, era per effettivamente esistita in molte parti del paese. La mia tesi che la configurazione spaziale della guerra e la sua terribile ferocia sono dovute al fatto che in alcune regioni i vari popoli jugoslavi non solo coesistevano, ma erano sempre pi strettamente intrecciati. In una situazione politica che traeva ad assunto lincompatibilit, questi territori misti apparivano anomali e minacciosi, in quanto confutazioni viventi delle ideologie nazionaliste. Per questo, le regioni miste non potevano esser lasciate sopravvivere come tali e le loro popolazioni, che si stavano volontariamente mescolando, dovevano essere separate militarmente.
Eterogeneit, matrimoni misti e jugoslavi
Nonostante la persistenza di alti livelli di concentrazione territoriale dei gruppi nazionali nelle rispettive repubbliche, in Jugoslavia il livello di eterogeneit etnonazionale era in aumento. Ad esempio, in Slovenia la concentrazione della popolazione slovena aumenta dal 97,7% del 1981 al 99,3% del 1991(Petrovic 1992, p. 15). Tuttavia, nello stesso decennio lomogeneit della Slovenia decresce: nel 1981 il 90,5% della popolazione era composta da sloveni, a fronte dell87,6% del 1991 (Ibid., p. 9). E la Slovenia non uneccezione: dal 1953 al 1981 quasi tutti i territori della Jugoslavia divengono sempre pi eterogenei (Petrovic 1987, p. 48); in altre parole, in quasi tutte le repubbliche e le province diminuisce la percentuale di popolazione composta dal gruppo nazionale maggioritario. Le eccezioni sono le due province autonome della Serbia, la Vojvodina e il Kosovo. In Vojvodina aumenta la maggioranza serba, in parte a causa del basso indice di natalit nel secondo gruppo nazionale, gli ungheresi. Nel Kosovo aumenta la maggioranza albanese, in parte per i suoi alti indici di natalit e per la massiccia emigrazione serba dalla provincia[4]. Tra il 1981 e il 1991, leterogeneit cresce in Montenegro, Macedonia, Slovenia e Serbia, ma decresce in Croazia[5] e Bosnia-Erzegovina (Petrovic 1992). Parallalemente alla crescente eterogeneit di molte repubbliche, si registra un aumento nelle percentuali di matrimoni misti fra membri dei differenti gruppi nazionali. Di solito, i matrimoni misti sono indice di crescente assimilazione e integrazione fra i gruppi sociali (v. p. es. Blau et al. 1982). Dai primi anni 50 fino agli anni 80, i matrimoni misti aumentano in Jugoslavia sia in numero assoluto sia in proporzione agli altri matrimoni (Vreme 1991): in particolare, divengono frequenti quelli tra serbi e croati, e 89
fra serbi e musulmani in Bosnia-Erzegovina. Come ci si poteva aspettare, le percentuali pi alte di matrimoni misti si registrano nelle aree in cui le popolazioni sono pi strettamente intrecciate: le grandi citt, le province della Vojvodina, della Bosnia-Erzegovina, e quelle parti della Croazia con ampi gruppi di serbi e croati[6]. Si ritiene spesso che serbi e croati siano divisi da un odio antico. Occorre allora riflettere sul dato della loro sempre pi stretta convivenza nel dopoguerra, nonostante i terribili massacri dei serbi perpetrati dal regime fascista dello Stato indipendente di Croazia dal 1941 al 1945[7]. Secondo il censimento del 1991, il 12,2 % della popolazione della Croazia era costituito da serbi, soprattutto residenti a Zagabria, ma anche concentrati in altre parti della repubblica come la Slavonia, la Banija, il Kordun e la Lika. Nella Lika la popolazione era quasi interamente serba e cerano pochi matrimoni misti, ma in aree dove serbi e croati vivevano fianco a fianco, i matrimoni misti erano assai numerosi. Ad esempio nella citt di Petrinja nella Banija, dove la popolazione era divisa quasi a met fra serbi e croati, circa il 25% dei matrimoni erano misti; nelle maggiori citt della Slavonia la percentuale di matrimoni misti aumentava, raggiungendo il culmine con il 35% nella citt di Pakrac (Borba 1991). Un ulteriore indicatore di eterogeneit pu esser trovato nelle percentuali di coloro che nei censimenti si identificavano come jugoslavi invece che come serbi, croati, musulmani o altri gruppi nazionali. Tra i censimenti del 1971 e del 1981 il numero degli jugoslavi aumenta nettamente, passando dall1,3 al 5,4% dellintera popolazione (Berg e Berbaum 1989). Ma la distribuzione territoriale di questi jugoslavi etnici era tuttaltro che omogenea. Nel 1981 essi vivevano soprattutto a Belgrado e in Vojvodina per quanto riguarda la Serbia, nei maggiori centri industriali della Bosnia- Erzegovina e dellIstria, e in alcuni grandi centri o nelle regioni miste della Croazia (Petrovic 1987, pp. 152-3; Danas 1991). La distribuzione di questi jugoslavi in termini di et, ancora nel 1981, indica che questa identit era scelta principalmente da giovani; il che aveva condotto alcuni studiosi ad azzardare lipotesi che la Jugoslavia stesse sviluppando un crescente senso di comunit, rendendo prevedibile un crescente sostegno alla comunit multinazionale e una sempre maggiore autoidentificazione dei cittadini come jugoslavi (Burg e Barbaum 1989; ipotesi peraltro soffocata dallo sviluppo, alla fine degli anni 80, di quella stessa politica nazionalista che ha distrutto la Jugoslavia). Certo, questi dati statistici non dimostrano la dissoluzione delle identit nazionali; chiaro per che nei primi anni 80 lidentit nazionale non stava al primo posto negli interessi della gente. Gli etnografi che hanno lavorato nelle regioni miste negli anni 80 mostrano che le differenze nazionali erano s riconosciute, ma il livello delle tensioni rimasto basso fino a quando non sono intervenuti a rinfocolarle eventi politici provenienti dallesterno di queste regioni.[8] E stato lo sviluppo dei nazionalismi rispettivamente ostili a far scendere drasticamente la percentuale di jugoslavi in tutto il paese, dal 5,4% del 1981 al 3% nel 1991 una caduta del 41,3%. Ma anche qui il declino avvenuto in modo diverso a seconda delle repubbliche. La percentuale di jugoslavi diminuita in modo pi drammatico in Croazia, da 8,2 a 2,2% (una caduta del 72,3%); in Bosnia-Erzegovina il declino stato del 26,5%, in Serbia del 28,1%, in Slovenia del 53,4% (Petrovic 1992). La percentuale di jugoslavi rimasta alta nelle regioni pi miste: in Bosnia-Erzegovina (5,5%) e nelle aree miste della Croazia, quelle in cui gli jugoslavi erano stati pi numerosi nel 1981 (Danas 1991). Si deve tener presente che la diminuzione di chi si identificava come jugoslavo legata probabilmente alla consapevolezza dei crescenti rischi che una simile ufficiale autodefinizione comportava. Durante il censimento dellaprile 1991, in molti mi dissero che avrebbero preferito continuare a definirsi jugoslavi, ma che, nel clima sciovinista allora dominante, temevano che ci potesse costar loro il posto di lavoro e persino la confisca delle propriet[9]. 90
Dunque, fino ai primi anni 90, molte parti della Jugoslavia erano caratterizzate da una crescente eterogeneit della popolazione, accompagnata da un numero crescente di matrimoni misti e di nascite di bambini con genitori misti, nonch dallaumento della percentuale di coloro che si identificavano come jugoslavi piuttosto che come membri di una categoria etnonazionale. Ma la distribuzione di questi fattori era tuttaltro che casuale. Leterogeneit era concentrata nella parte centrale del territorio jugoslavo: la repubblica di Bosnia-Erzegovina, le parti della Croazia confinanti con la Bosnia-Erzegovina e con la Vojvodina, la Vojvodina stessa. In queste aree, lidea che i popoli jugoslavi non potessero vivere insieme pacificamente era empiricamente priva di senso. Questi territori in cui lintreccio fra popolazioni era stato pi completo sono stati eccetto la Vojvodina i principali teatri di guerra e la ragione forse consiste proprio nel loro rappresentare una confutazione vivente delle ideologie nazionaliste dominanti dalla fine degli anni 80. Affermare questo non significa attribuire potere causale al modello strutturale individuato; empiricamente, la causa primaria della guerra consiste nel fatto che i nazionalismi rivendicavano quegli stessi territori misti e intendevano combattere per ottenerli. Ma il modello strutturale pu aiutarci a capire in che modo i fatti empirici della pulizia siano potuti diventare accettabili, forse persino desiderabili[10].
Nazionalismo costituente
Le libere elezioni jugoslave del 1990, contrariamente alla retorica ufficiale dei vincitori e di molti osservatori occidentali, non sostituirono il socialismo di Stato con la democrazia. La transizione fu piuttosto da un regime volto a promuovere gli interessi di quella parte della popolazione costituzionalmente definita come classe lavoratrice e tutti i lavoratori (Hayden 1992a) a regimi volti a promuovere gli interessi di quella parte della popolazione definita come maggioranza etnonazionale. In questo senso, la transizione fu dal socialismo di Stato allo sciovinismo di Stato e il nemico di classe del socialismo fu sostituito dal nemico nazionale, identificato da ciascun sciovinismo locale (ibid.). Ovviamente, questi nemici nazionali erano prima di tutto i membri della principale minoranza di ciascun Stato, oltre agli eventuali membri della maggioranza schierati a favore dei diritti della minoranza. Una volta al potere, i nazionalisti cominciarono in ciascuna repubblica a praticare sistemi di nazionalismo costituzionale, nel senso di sistemi costituzionali e giuridici volti ad assicurare il dominio del gruppo etnonazionale di maggioranza (Hayden 1992). Ad esempio, la costituzione della Croazia (1990)[11], nel suo preambolo fornisce una sintesi storica degli sforzi della nazione (narod) croata di stabilire una piena sovranit di Stato. Dopo aver menzionato linalienabilediritto della nazione croata allautodeterminazione e alla sovranit di Stato, la repubblica di Croazia si instaura come Stato nazionale della nazione croata, e Stato dei membri delle altre nazioni e minoranze che vivono al suo interno (Costituzione della Repubblica di Croazia 1990, preambolo). In tutti questi passaggi, la nazione croata (Hrvatski narod) ha una connotazione etnica ed esclude tutti quelli che non sono etnicamente croati. Questa definizione esclusivista dei portatori di sovranit rafforzata dagli emblemi dello Stato: una bandiera e uno stemma con figurazioni associate solo ai croati (art.11), e la specificazione che il linguaggio e la scrittura ufficiale della Croazia sono la lingua croata e la scrittura latina (art. 12), escludendo cos i dialetti serbi e lalfabeto cirillico solitamente usato per scriverli[12]. imili formulazioni di nazionalismo costituzionale si sono diffuse in altre repubbliche (Hayden 1992a , pp. 658-663). La transizione dal socialismo di Stato allo sciovinismo di Stato appare evidente nelle formulazioni dellidentit e delle finalit dello Stato, contenute nelle diverse costituzioni repubblicane. Mentre le costituzioni socialiste fondavano lo Stato sulla duplice sovranit della classe lavoratrice e di tutti i lavoratori da un lato e dallaltro delle nazioni e nazionalit della Jugoslavia, il crollo del socialismo ha lasciato spazio a 91
ununica sovranit (Samardzic 1990, p. 31). Inoltre, la formazione di uno Stato per ognuna di queste nazioni sovrane stata giustificata dal diritto di autodeterminazione. Lo si pu vedere nei preamboli o nelle prefazioni alle varie costituzioni (i corsivi sono aggiunti):
Premesso () linalienabile e inestinguibile diritto allautodeterminazione e alla sovranit di Stato della nazione croata, si instaura la Repubblica di Croazia come Stato nazionale della nazione croata e come Stato dei membri delle altre nazioni e minoranze che sono suoi cittadini. (Costituzione della Repubblica di Croazia 1990, Preambolo)
Considerato il patrimonio storico, culturale e spirituale della nazione macedone e la sua secolare lotta per la libert nazionale e sociale, cos come per la creazione di un proprio Stato () in Macedonia si instaura lo Stato nazionale della nazione macedone. (Costituzione della Repubblica di Macedonia 1991, Preambolo)
Sulla base dello storico diritto della nazione montenegrina ad uno Stato proprio, consolidato in secoli di lotta per la libert () il parlamento del Montenegro () promulga e proclama la Costituzione della Repubblica del Montenegro. (Costituzione della Repubblica del Montenegro 1991, Preambolo)
Premessa la secolare lotta della nazione serba per lindipendenza () volta allinstaurazione di uno Stato democratico della nazione serba () i cittadini della Serbia promulgano la costituzione della Repubblica della Serbia. (Costituzione della Repubblica della Serbia 1992, Preambolo)
Premesso il diritto fondamentale e perdurante della nazione slovena allautodeterminazione e premesso il fatto storico che gli sloveni, dopo secoli di lotta per la liberazione nazionale, hanno formato una loro identit nazionale e istituito una loro propria sovranit, il parlamento della Repubblica di Slovenia promulga la costituzione della Repubblica di Slovenia. (Costituzione della Repubblica di Slovenia, 1990, Preambolo)
Sebbene non riconosciuta a livello internazionale, la Repubblica della Krajina serba - Stato serbo che si autoproclamato in Croazia - nella sua costituzione si definita usando pi o meno gli stessi termini degli Stati ufficiali di nuova costituzione che abbiamo visto sopra[13]:
Premesso il diritto della nazione serba allautodeterminazione () e la secolare lotta per la libert (), decisa allinstaurazione di uno Stato democratico della nazione serba sul suo storico ed etnico suolo, in cui agli altri cittadini viene garantita la realizzazione dei loro diritti nazionali, di uno Stato basato sulla sovranit appartenente alla nazione serba e ai cittadini ivi presenti () la nazione serba della Repubblica della Krajina serba () proclama la costituzione della Repubblica della Krajina serba. (Costituzione della Repubblica della Krajina serba 1991, Preambolo)
Allo stesso modo, la Rebupplica Srpska, l entit serba in Bosnia- Erzegovina stabiliva:
Premesso il naturale, inalienabile e non trasferibile diritto della nazione serba allautodeterminazione, autorganizzazione e associazione, sulla cui base si costituisce liberamente il proprio status politico e si assicura lo sviluppo economico, sociale e culturale () si dichiara la volont [della nazione serba] di stabilire autonomamente il proprio destino e di dichiarare la sua ferma intenzione di instaurare un proprio Stato sovrano e democratico () il parlamento della nazione serba in Bosnia e Erzegovina proclama la costituzione della Repubblica Srpska. (Costituzione della Repubblica Srpska 1992, Preambolo)
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In ognuno di questi preamboli, la parola nazione (narod in tutte le lingue contemplate) ha una connotazione etnica; narod ha la stessa radice (rod) del verbo roditi (generare, nascere). Quando preceduta dallaggettivazione etnica (croata, macedone, montenegrina, serba, slovena) lespressione esclude automaticamente tutti quegli individui di cui non sia specificata lappartenenza etnica. Dalle citazioni riportate prima e soprattutto dalle parti in corsivo, chiaro che la nascita delle diverse repubbliche ex-jugoslave considerata una manifestazione del diritto allautodeterminazione cio del diritto di formare un proprio Stato del gruppo etnico di maggioranza, che prende il nome di nazione (narod). Negli esempi considerati non mancano comunque accenni al diritto di uguaglianza delle minoranze. Di tuttaltra natura il preambolo della costituzione degli Stati Uniti, la quale stabilisce semplicemente che Noi, popolo degli Stati Uniti, decretiamo e stabiliamo questa costituzione.[14] La realt della Bosnia-Erzegovina, cos come accadde per la stessa ex federazione jugoslava, nasce dal fallimento di un tentativo di definire lo Stato in modo da riconoscere la sovranit di tutti i gruppi presenti, senza privilegiarne nessuno. Lultima costituzione socialista della Bosnia- Erzegovina (1974) definiva la repubblica come
Stato democratico e socialista, comunit autonoma, democratica, socialista, di lavoratori, cittadini, nazioni [narodi] di Bosnia e di Erzegovina musulmani, serbi, croati e membri di altre nazioni e nazionalit ivi presenti - fondato sulla sovranit e lautonomia della classe lavoratrice e di tutti i lavoratori, nonch sulla sovranit e luguaglianza delle nazioni di Bosnia e Erzegovina e dei membri di altre nazioni e nazionalit ivi presenti. (art. 1)
Con il crollo del socialismo questa definizione stata sostituita da un emendamento costituzionale, il cui larticolo 1, dedicato alla definizione dello Stato, recitava:
La Repubblica socialista di Bosnia e Erzegovina uno Stato democratico sovrano, in cui tutti i cittadini godono di pari diritti. composto dalle nazioni di Bosnia e Erzegovina da musulmani, serbi, croati e membri di altre nazioni e nazionalit ivi presenti.[15]
Questa definizione non soddisfaceva ancora le aspirazioni dei politici serbi e croati della Bosnia-Erzegovina. Ci avveniva in parte a causa della difficolt di definire lo Stato: in Bosnia-Erzegovina non era stata emanata nessuna nuova costituzione e cos, dopo il crollo dellex-Jugoslavia, i leader serbi e croati proclamarono lindipendenza delle loro regioni allinterno della Bosnia. Queste regioni assunsero in poco tempo una forma istituzionale molto vicina a quella di un vero e proprio Stato, strettamente legate rispettivamente alla Serbia e alla Croazia, e si resero indipendenti dal governo della Bosnia Erzegovina, formalmente insediato a Sarajevo (v. Shoup 1994). La guerra che segu provoc la separazione della Bosnia- Erzegovina in due regioni destinate a divenire ben presto etnicamente pure (v. Hayden 1993). Questa suddivisione fu una diretta conseguenza del crollo dellex-Jugoslavia perch lautodeterminazione delle nazioni (narodi) jugoslave, cio il programma politico messo in atto nel 1990, faceva s che i serbi e i croati di Bosnia-Erzegovina venissero attirati inevitabilmente verso lunione con i propri confratelli etnici.[16] Questa pratica di autodeterminazione condusse alla guerra civile che provoc la distruzione della Bosnia-Erzegovina. La costituzione della Federazione di Bosnia e Erzegovina, scritta con laiuto dei diplomatici americani e sottoscritta a Washington D.C. da croati e musulmani nel marzo del 1994, si fonda su unidea di nazionalismo costituzionale che esclude i serbi dai popoli sovrani della Bosnia- Erzegovina. Mentre nel preambolo si dichiara Le popolazioni e i cittadini della Bosnia e dellErzegovina, che hanno convenuto di stabilire piena uguaglianza nazionale, relazioni democratiche e di rispettare sommamente i 93
diritti e le libert civili, si uniscono qui in federazione, larticolo 1 asserisce che
Bosniaci e croati, in quanto popoli costituenti (insieme ad altri) e cittadini della Repubblica di Bosnia e Erzegovina, nellesercizio del loro diritto sovrano, trasformano la struttura interna dei territori a maggioranza bosniaca e croata della Repubblica di Bosnia e Erzegovina in Federazione.[17]
Il termine Bosniac (bosniaco), anglicizzazione di Boniak, denota semplicemente i musulmani e si differenzia da Bosnian (Bosnac). La prima espressione usata per i musulmani considerati da un punto di vista etnico, distinti quindi dai Muslimani dei quali non si accettano le specifiche implicazioni religiose. In ogni caso, questo tipo di costituzione esclude i serbi dalla struttura della federazione, riservando ai bosniaci musulmani e ai croati il diritto di spartirsi i ruoli esecutivi (IV.B.1. art. 2-5) e assicurando alle loro delegazioni un diritto di veto nella legislatura che gli altri gruppi etnici non hanno (IV.A.4 art. 18). Lesclusione dei serbi divenne chiara subito dopo la firma del disegno costituzionale a Washington, quando a Sarayevo un congresso di serbi, fedeli allidea di uno Stato bosniaco multietnico, chiese di essere incluso nei negoziati: essi furono ignorati (New York Times 1994). Il trattato di pace di Dayton-Parigi, del dicembre 1995, che produsse come primo effetto quello di far cessare almeno temporaneamente la guerra in Bosnia, si rif ad unidea di nazionalismo costituzionale molto simile a quello della costituzione federale del 1994, in cui a musulmani e croati vengono riconosciuti pi diritti rispetto agli altri gruppi etnici nella loro parte della Bosnia e lo stesso viene stabilito per i serbi relativamente ai loro territori (v. Hayden 1995b).
Cittadinanza: denaturalizzazione come pulizia etnica amministrativa
Per il senso comune, cos come nella retorica di molti documenti internazionali, il mondo si compone di nazioni. Tuttavia, da un punto di vista istituzionale, il mondo si compone di Stati. Di solito i cittadini di uno Stato posseggono dei diritti da cui sono esclusi invece coloro che cittadini non sono. Questa situazione era quella esistente anche nelle repubbliche dellex- Jugoslavia, ma una volta raggiunta lindipendenza, i governi dei singoli Stati iniziarono ad indicare norme che stabilivano chi avesse il diritto di vivere l e chi non lo avesse, chi poteva lavorare e chi no, a chi veniva concesso il diritto di voto e a chi no, chi poteva contare su una copertura sanitaria e godere di altri benefici e chi no e infine a chi si permetteva di possedere beni immobiliari e a chi no. In ogni caso i cittadini godevano di alcuni diritti e benefici, mentre i non-cittadini potevano goderne, nella migliore delle ipotesi, solo provvisoriamente. La questione del diritto di cittadinanza negli Stati nati dalla dissoluzione dellex-Jugoslavia dunque di estrema importanza per le persone che vivono in quelle aree: senza cittadinanza non si accede ai diritti fondamentali che permettono di condurre tranquillamente la propria esistenza. Bisogna sottolineare che per molti la questione della cittadinanza era del tutto nuova. Come abbiamo visto, nella costituzione della Jugoslavia era previsto un unico status di cittadinanza quello jugoslavo e in tutto il Paese era garantito il principio di uguaglianza dei cittadini jugoslavi. Ad un certo punto per il diritto alla cittadinanza di molti residenti nei nuovi Stati indipendenti stato messo in discussione. Le nuove leggi che regolano il diritto di cittadinanza sono state scritte con lintento di privilegiare i membri appartenenti alla maggioranza di volta in volta sovrana, provocando cos una discriminazione dei residenti che non appartengono al gruppo etnico di maggioranza. In sostanza, i nuovi regimi di cittadinanza hanno da un lato esteso la cittadinanza ai membri non residenti della maggioranza etnonazionale, attraverso semplici procedure di naturalizzazione, dallaltro lhanno negata a molti residenti che non appartengono al gruppo giusto. Questultimo processo, che trasforma coloro che da sempre hanno vissuto in 94
Jugoslavia da cittadini a stranieri nelle loro stesse terre, pu essere definito un processo di denaturalizzazione. Questi meccanismi non sono stati inventati per la prima volta dai politici delle repubbliche della ex-Jugoslavia. Lestensione del diritto di cittadinanza ai connazionali (da un punto di vista etnico e religioso) non residenti la conosciamo anche altrove, ad esempio in Israele e in Irlanda, mentre il rifiuto della cittadinanza ad un alto numero di persone che fino a quel momento avevano pensato di averlo acquisito era alla base dei propositi del British Nationality Act del 1981 (Gilroy 1987). In questo ultimo caso, tuttavia, molti dei potenziali cittadini che venivano denaturalizzati non risiedevano in Gran Bretagna. Il sistema che vede combinate insieme da una parte la facilitazione per la naturalizzazione e dallaltra la denaturalizzazione dei residenti pu sembrare un provvedimento insolito, ma stato utilizzato sia negli Stati nati dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia che dellex Unione Sovietica (v. Brubaker 1992, 1993). La capacit di una comunit etnica immaginata (Anderson 1983) di smantellare le comunit gi esistenti allinterno dello scenario post-comunista sotto gli occhi di tutti. Con la fine della Jugoslavia, per molti suoi ex cittadini si immediatamente posta la questione pratica di ottenere la cittadinanza in uno dei nuovi Stati, nei quali le regole e gli assetti istituzionali erano cambiati. La politica pi inclusiva stata quella della Slovenia, il cui decreto sulla cittadinanza del 1991 un documento che non pone grossi ostacoli ad una politica di inclusione: esso concede la cittadinanza a tutti i cittadini di altre repubbliche jugoslave residenti in Slovenia al giorno in cui si tenne il plebiscito sullindipendenza e gran parte delle domande sono state accettate (Mazowiecki 1993, p. 44). Nonostante ci circa 50.000 cittadini jugoslavi che erano stati censiti nel 1991 come residenti in Slovenia sono divenuti stranieri dal momento in cui stata affermata lindipendenza di questa repubblica (Vreme 1993, p.33). Altri Stati sono stati molto meno accomodanti. A differenza di quanto previsto dalle leggi slovene, la legge sulla cittadinanza croata del 1991 non prevedeva nessuna disposizione particolare per i cittadini delle altre repubbliche jugoslave: essi erano considerati alla stregua di stranieri qualsiasi che richiedevano la naturalizzazione; per di pi i serbi della Croazia hanno lamentato il rifiuto di molte delle loro richieste di cittadinanza o di naturalizzazione (v. Mazowiecki 1992, p. 22, 1993a, p. 26-28). Sebbene le autorit croate si siano pronunciate contro la discriminazione dei serbi, un numero relativamente alto di richieste di cittadinanza sono state rifiutate (Vreme 1993, p. 34). La legge che regola il diritto di cittadinanza croata permette infatti alle autorit locali di non accogliere le richieste, anche nel caso in cui il candidato rispetti tutti i criteri ma esse siano dellopinione che nellinteresse della Repubblica croata ci siano motivi per rifiutare la richiesta di acquisizione della cittadinanza (art. 27, comma 2). Sempre lo stesso articolo stabilisce che le autorit non hanno bisogno di rendere note le ragioni del rifiuto di una richiesta (art.27, comma 3). Quindi le proteste dei serbi erano in effetti fondate, perch le possibilit di discriminazione esistono.[18] Le leggi che regolano il diritto di cittadinanza e di naturalizzazione sono interessanti perch ci indicano quali siano i meccanismi attraverso i quali una comunit etnica da immaginata diventa manifesta e realizzabile. In particolare queste leggi stabiliscono i requisiti per lacquisizione di uno status di appartenenza ad una comunit e rendono manifesti i principi che stanno alla base della sua definizione. Si prenda ad esempio il caso della legge che regola la cittadinanza croata del 1991.[19] Larticolo 8 di questa legge stabilisce quanto segue:
Un cittadino straniero che presenti una richiesta di acquisizione della cittadinanza croata pu acquisire la cittadinanza croata attraverso la naturalizzazione se risponde ai seguenti requisiti:
1) [Et richiesta: 18 anni] 2) [omissis] 95
3) che prima di presentare la richiesta, egli abbia avuto residenza legale nel territorio della Repubblica croata per un periodo non inferiore a cinque anni senza interruzioni 4) che sia perfettamente competente di lingua croata e di scrittura con alfabeto latino 5) che si possa dedurre dalla sua condotta che egli aderisce alle leggi e alle consuetudini della Repubblica croata e che accetta la cultura croata.
A prima vista sui punti 3 e 4 di questo articolo non sembra che ci sia molto da contestare e invece entrambe si prestano ad uninterpretazione discriminatoria. Il requisito della residenza fortemente condizionato dalla precisazione senza interruzioni (neprekidno). Ancora pi interessante la restrizione relativa alla lingua. I dialetti conosciuti fino ad oggi come serbo- croato o croato-serbo sono in realt moltissimi e mescolati tra loro: una parte della popolazione serba parla un dialetto simile a quello in uso presso la maggioranza dei croati, cos come alcuni croati parlano un dialetto simile a quello pi diffuso tra i serbi (v. Hammel 1993, p. 7-8). I serbi preferiscono usare lalfabeto cirillico, mentre i croati non lo usano quasi mai. Dunque il criterio linguistico pone dei problemi: una persona che parla il dialetto di Belgrado competente in lingua croata? Chi lo decide e su quali basi? Un dialetto serbo va bene se chi lo parla etnicamente croato, mentre non va bene se non lo ? Ma il punto 5 ancora pi significativo. Che cosa pu significare infatti esattamente accettare la cultura croata e come fa qualcuno a comportarsi in modo da mostrare di averla accettata? Se uno dei pi importanti tratti distintivi della cultura croata il cattolicesimo della Chiesa romana, questo significa che ci si deve convertire a questa fede? Altrimenti, che cosa implica laccettazione della cultura croata? Questo requisito legale prende un concetto che gli antropologi chiamerebbero descrittivo o analitico e lo rende prescrittivo; anche se poi il concetto resta vuoto di contenuto specifico. Questa visione prescrittiva della cultura la trasforma in definitiva in un oggetto (Kapferer 1988, p. 2; cfr. Handler 1988, p. 14). Lessenzialismo si trasforma in razzismo quando si pensa di poter trapiantare una cultura reificata in un altro paese, dove il popolo scelto minoritario.[20] Nel caso della Croazia queste implicazioni diventano evidenti nelle leggi relative agli emigranti e ai loro discendenti (art.11) o in quelle che si occupano dei membri della nazione (narod) croata che non risiedono in Croazia (art. 16). Per entrambe le categorie, la cittadinanza croata pu essere acquisita anche se il candidato non risponde ai requisiti stabiliti nellarticolo 8, sezioni 1-4, mentre i requisiti della sezione 5 rimangono tassativi. Per un antropologo lidea di separare completamente la lingua dalla cultura sicuramente bizzarra, ma ripetuto due volte e quindi non pu trattarsi di una svista. Tali limitazioni rappresentano un espediente per estendere la cittadinanza solo ai croati etnici (ad esempio il figlio di un emigrante croato nato in Croazia oppure il figlio di una croato etnico che vive in Serbia) e per negarla ad altri individui che si trovino in situazioni simili (ad esempio il figlio di un emigrante serbo proveniente dalla Croazia). Complessivamente le limitazioni alla naturalizzazione previste dalla legge sul diritto di cittadinanza croata possono portare a situazioni in cui, per esempio, ad un musulmano che proviene dalla Bosnia ma che vive da lungo tempo in Croazia ed madrelingua croato (cio si esprime in uno dei dialetti che siamo soliti chiamare lingua serbocroata) viene negata la cittadinanza, mentre ad un croato etnico che viene dagli Stati Uniti, che non sia mai stato in Croazia e che non conosca la lingua, la cittadinanza venga garantita. Non sappiamo quanti casi di questo genere ci siano in Croazia, ma interessante notare che anche per quanto riguarda le leggi slovene sulla naturalizzazione, esse pongono delle restrizioni che avvantaggiano gli sloveni etnici. Cos 50.000 cittadini dellex-Jugoslavia residenti in Slovenia non hanno potuto acquisire la cittadinanza slovena, mentre 25.000 sloveni etnici che provenivano da territori esterni alla Slovenia lhanno acquisita.[21] Ancora una volta, la capacit delle comunit etniche immaginate di distruggere 96
comunit reali sotto gli occhi di tutti. Le nuove leggi che regolano il diritto di cittadinanza forniscono gli strumenti legislativi per escludere su basi etniche alcuni individui dalla cittadinanza, costruendo cos le premesse per la pulizia etnica amministrativa.
Autodeterminazione, uniformazione e pulizia etnica
La logica dellautodeterminazione nazionale in Jugoslavia non ha solo legittimato luniformazione della popolazione, ma ha anche reso il processo cos logicamente coerente da divenire inarrestabile. La guerra, nel suo svolgimento, ha seguito proprio questa logica di costruzione dello stato- nazione tramite leliminazione delle minoranze. Ci che pu essere ottenuto amministrativamente da un regime maggioritario in uno Stato con una maggioranza schiacciante, deve essere perseguito in altri modi se la maggioranza non ha sufficiente potere di governo: in particolare, attraverso linvasione militare e la conseguente espulsione della popolazione indesiderata. I serbi inizialmente si sono impossessati della maggior parte del territorio e hanno quindi commesso il pi alto numero di violazioni dei diritti umani. Nondimeno nel 1993 le azioni militari croate dirette a fondare una Herceg- Bosna etnicamente pura, cercarono di ottenere lo stesso risultato anche nella Bosnia centrale (Mazowiecki 1993a, p. 8-10, 1994, p. 6) e a Mostar (Mazowiecki 1993a). Gli scambi di popolazione furono eseguiti sempre con questo proposito (Mazowiecki 1994, p. 9-10). Alla fine del 1994 la guerra aveva prodotto il quasi completo trasferimento delle popolazioni al di fuori di Sarajevo, come mostra la tabella 11.1. Durante la primavera e lestate del 1995 si accelerato questo processo di espulsione della popolazione, di cui si sono rese protagoniste tutte le parti in conflitto. A maggio lenclave serba della Slavonia occidentale stata attaccata dai croati. In quelloccasione quasi tutti i serbi che si trovavano in quella parte di Croazia sono stati espulsi. A luglio lesercito serbo conquist due delle aree di sicurezza musulmane nella Bosnia orientale ed espulse o uccise tutti i residenti. Ad agosto i croati attaccarono la Krajina ed espulsero quasi 200.000 serbi dalla Croazia. Questo evento stato il pi pesante atto di pulizia etnica nel corso delle guerre balcaniche. Tra il luglio del 1991 e lagosto del 1995, pi dell85 per cento dei serbi che abitavano in Croazia erano stati costretti a lasciare la loro terra (Vreme 1995). In Croazia, lestate del 1995 port con s le pi grandi ondate di pulizia etnica, compiute dai diversi eserciti. A luglio, come gi ricordato, i serbi bosniaci occuparono due aree di sicurezza nella Bosnia orientale e ne espulsero o uccisero gli abitanti. A settembre i musulmani, aiutati dallesercito croato, dettero vita ad unoffensiva nella Bosnia occidentale che spinse decine di migliaia di serbi fuori dai settori centro-occidentali della Bosnia, appena a nord della linea Jajce-Bihac. Prima dello scoppio della guerra gran parte di questa regione era popolata quasi esclusivamente da serbi. Gli effetti di queste azioni militari sulla distribuzione della popolazione sono sintetizzati nella tabella 11.2. Malgrado la comunit internazionale abbia in pi di unoccasione fatto presente che non avrebbe accettato una spartizione della Bosnia su basi etniche, il trattato di pace di Dayton-Parigi invece fa proprio questo, riconoscendo che la Bosnia composta di due entit, la federazione croata-musulmana e la Repubblica Srpska, ognuna delle due fondata su una propria costituzione (Hayden 1995b). Dal momento che, come detto prima, queste costituzioni definiscono i loro rispettivi Stati in termini etnici, questo accordo legittimava a livello internazionale la suddivisione della Bosnia su base etnica. Ma la suddivisione si era gi realizzata nel territorio: la Bosnia multietnica che esisteva un tempo, prescrittiva dal punto di vista della comunit internazionale, non esiste pi e quindi non pu pi essere prescrittiva.
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Tabella 11.1 Alta commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Stima della popolazione
Censimento 1991 Stima novembre 1994 Federazione croato- musulmana
Serbi Croati e Musulmani
205.185 1.209.804
36.000 1.673.000 Territori occupati dai Serbi
Serbi Croati e Musulmani
928,857 838.190
1.169.000 73.000 Enclavi esterne
Serbi
Musulmani
20.000 80.000
nessuno 115.000 Fonte: Rapporto della guerra balcanica 1995, p. 5
Dallottimismo della ragione al pessimismo della volont
Ho cercato di presentare la pulizia etnica come unespressione della incompatibilit tra le culture oggettivate o reificate che stanno alla base delle diverse imprese nazionaliste, da un lato, e dallaltro le culture viventi delle zone che sono state teatro delle pi atroci violenze. Una simile analisi intellettualmente rassicurante ma anche molto preoccupante. Da un punto di vista intellettuale ci si sente incoraggiati nel sapere che le categorie dellanalisi antropologica possono spiegare il perch della violenza che ha distrutto le regioni etnicamente pi eterogenee della ex-Jugoslavia. Un razionalista potrebbe affermare che nel momento in cui conosciamo a fondo il fenomeno in questione, forse possiamo evitare che questo si ripeta nel futuro in unaltra parte del mondo. Ma un altro tipo di ragionamento razionale pu indurci al pessimismo. La pulizia etnica ha a che fare con la violazione categoriale. Se nel mito e nei sogni le contraddizioni possono non risolversi, nel campo della politica culturale forte la tendenza a conformare il mondo alla nostra visione di come dovrebbe essere. Che tale visione sia empiricamente infondata irrilevante. Anzi, quando essa diviene largamente sostenuta, la sua falsit empirica rende pi feroce la determinazione a realizzarla. Un punto di vista comparativo pu forse aiutarci a riflettere meglio. Quando parliamo di pulizia etnica di solito ci riferiamo a casi avvenuti nel corso del XX secolo soprattutto, anche se non esclusivamente, in Europa. Se si considerano alcuni di questi esempi possiamo notare come il processo abbia avuto successo creando una nuova realt. Per esempio, nel 1945 la Polonia espulse sei milioni di tedeschi e di nuovo tre milioni di ebrei polacchi furono eliminati tra il 1939 e il 1946, uccisi o deportati nei campi di sterminio. Il risultato fu la creazione di uno degli Stati europei pi puri dal punto di vista etnico, condizione questa che di solito viene considerata un vantaggio ai fini del passaggio ad una democrazia post-socialista. Allo stesso modo lespulsione di pi di tre milioni di tedeschi dalla Cecoslovacchia nel 1945 ha fatto s che la Repubblica ceca di recente formazione sia oggi etnicamente pura e quindi, come nel caso della Polonia, pronta per la democrazia. LUngheria, un altro Stato prossimo ad entrare a far parte dellUnione Europea e della Nato, divenne etnicamente pura dopo la prima guerra mondiale, a causa della perdita dei territori in cui la popolazione ungherese viveva accanto ad altre nazionalit. Slovacchia, Romania, e Serbia sono state coinvolte in tensioni etniche interne con gli ungheresi, ma in Ungheria non vive nessuno straniero. Durante le guerre dei Balcani, lespulsione di serbi 98
dalla Croazia fu giudicata dallambasciatore americano in Croazia come un passo avanti sulla strada della fine del conflitto (OMRI Daily Report 1995). Quello della pulizia etnica in Europa un fenomeno che si dimostrato efficace sia per ricostruire una data realt sociale che per ottenere consenso politico. Di fronte a queste esperienze storiche e a quella delle guerre balcaniche, forse mi si permetter di capovolgere il famoso motto di Gramsci. Come antropologi possiamo ora comprendere molto bene i processi che portano alla pulizia etnica; ma sappiamo altres che, una volta innescati, questi processi difficilmente possono essere fermati. Lottimismo della ragione conduce in questo caso al pessimismo della volont.
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[1] Il tentativo didistinguere tra Balcani ed Europa ha caratterizzato buona parte delle riflessioni sulla legittimit e sulla necessit dei provvedimenti relativi al crollo della Jugoslavia e delle guerre che ne sono seguite. Si vedano Baki-Hayden 1995, Baki-Hayden, Hayden 1992 e Todorova 1994. Ne sono stati protagonisti non solo alcuni politici jugoslavi, ma anche tutti coloro che nello scenario mondiale si sono occupati della crisi della ex-Jugoslavia. Considerata per la portata delle devastazioni che 101
gli Europei sono stati capaci di causare gli uni agli altri, per tacere di quanto accaduto nel resto del mondo, in quello che Gnther Grass ha chiamato il secolo dellespulsione, propongo di abbandonare un esercizio retorico cos ambiguo e sospetto. [2] In questo saggio non ho potuto approfondire largomento, ma credo che lelemento che Gunnar Myrdal nel 1944 pose alla base del dilemma americano il razzismo trovi un parallelo in quello che nel dilemma europeo il nazionalismo o in quello dellAsia del sud il comunalismo. Si noti che, in tutti questi casi, il dilemma di tipo morale e nasce dalla presenza di distinzioni apparentemente naturali allinterno di una prassi politica che si dichiara democratica. [3] Cosituzione della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia del 1974, Parte introduttiva, Principi fondamentali. [4] La Bosnia-Erzegovina ha mostrato una tendenza alquanto diversa: alla pluralit serba registrata nel 1961 fece seguito una pluralit musulmana nel 1971, cio successivamente al riconoscimento dello status di musulmano come nazionalit avvenuto nel 1967 e la conseguente modifica nella dichiarazione di nazionalit di molti che si erano definiti serbi nel 1961. Si veda Petrovi 1987, p. 47. [5] Lincremento della percentuale di croati in Croazia nel censimento del 1991 stato determinato probabilmente dal fatto che molti che si erano definiti jugoslavi nel 1981 sono stati censiti in seguito come croati. Il numero di jugoslavi in Croazia diminuito del 72% tra questi due censimenti: dall8,2% della popolazione nel 1981 al 2,2% nel 1991 (Petrovi 1992, p. 7). [6] Non trovo convincente largomento recentemente esposto d Botev e Wagner (1993), secondo i quali i matrimoni misti non sarebbero aumentati in Jugoslavia. Essi considerano infatti i dati aggregati a livello di repubbliche, non tenendo conto delle variazioni regionali. Inoltre, quello che gli autori giudicano un basso numero di matrimoni misti in realt un dato molto rilevante per il suo valore simbolico. Diversamente Ivan iber dellUniversit di Zagabria ha documentato un netto calo dei matrimoni misti in Croazia a partire dal 1991, interpretando questo dato come un segno delluniformazione della popolazione (Feral Tribune 1994). [7] La gravit di questi massacri divenuto il tema di un acceso dibattito della fine degli anni 80, in cui gli storici croati hanno tentato di minimizzare le cifre. Si veda Boban 1990; per un dibattito su questo si vedano Boban 1991, Hayden 1992b, 1993b, 1994). Si pu valutare la suscettibilit croata su questo argomento sulla base del feroce attacco che travalica di gran lunga i dettami della convenienza nella tradizione americana ai commenti di Hayden su Boban da parte di un secondo scrittore croato (Kneevi 1993; replica in Hayden 1993b). Recentemente unanalisi estremamente accurata dei resoconti sulle vittime della seconda guerra mondiale in Jugoslavia (Bogosavljevi 1995) ha presentato cifre molto pi basse di quello che molti serbi immaginano, ma anche molto pi alte di quanto molti croati vogliano ammettere. [8] Si vedano Bringa 1993 per la Bosnia, Jambrei 1993 per la Banija e Olsen 1993 per la Slavonia. La trasformazione della popolazione di un villaggio misto croato-musulmano da vicini di fede diversa a nemici di diversa nazionalit mostrata nel bellissimo documentario etnologico Bosnia: We are All Neighbors trasmesso in America sulla PBS nel maggio 1994 (Bringa 1994). [9] In occasione del censimento si registrata una protesta di alcuni interessati che si sono censiti come Eschimesi, Bantu, Indiani dAmerica, Citrons, lampadine e frigoriferi e altre fantasiose categorie. La natura letale delle categorie fu dimostrata ai partecipanti di un seminario intitolato Oltre il genocidio che si tenne nellaprile del 1993 al John Jay College di New York, in occasione del quale un gruppo per i diritti umani proveniente dalla citt di Zenica in Bosnia-Erzegovina us il retro dei moduli per il censimento del 1991 come carta per un libro di immagini delle atrocit commesse sui musulmani della Bosnia-Erzegovina. 102
[10] La terminologia di questi ultimi due periodi deve molto ai suggerimenti di Bette Denich. La ragionevolezza, in termini di filosofia occidentale, delle varie rivendicazioni nazionaliste esposta da Vladimir Gligorov (Gligorov 1995). [11] In questa parte del saggio e in quella che segue ci riferiremo al sistema costituzionale e legislativo croato. Sfortunatamente, nel contesto politico che ha accompagnato la fine della ex-Jugoslavia, la volont di analizzare dei documenti croati stata spesso giudicata come il segno di un atteggiamento anti-croato, pro-serbo o sproporzionato a sfavore dei croati nel caso in cui si dia meno spazio allanalisi dei documenti serbi. Ma siccome questo articolo si occupa fondamentalmente di documenti costituzionali e legislativi, prender in considerazione i materiali che possano esemplificare al meglio le questioni di cui stiamo discutendo, cio quelli croati. I documenti serbi sono meno adatti ai nostri fini, non perch i serbi mostrino in misura minore le tendenze qui rilevate, ma perch il regime di Slobodan Miloevi ha introdotto meccanismi costituzionali e giuridici che sembrano progressisti ma che in realt hanno poca attinenza con le azioni di quello Stato autoritario (si veda Hayden 1992a, p. 660). La critica in ogni caso mal indirizzata se si basa sulla premessa che i documenti croati dovrebbero essere immuni da analisi a causa delle azioni dei serbi, affermazione difficile da difendere in un contesto accademico. [12] Per sicurezza questo stesso articolo costituzionale contiene una seconda clausola che consente luso, in particolari giurisdizioni locali, di altre lingue e sistemi di scrittura, alle condizioni stabilite dallo statuto (corsivo dellautore). Entrambe le limitazioni sono comunque sospette. Se le giurisdizioni locali sono arbitrariamente divise in distretti, questo fa s che che nessuna minoranza sia da qualche parte una maggioranza locale. I provvedimenti costituzionali divengono quindi privi di senso. Inoltre lassoggettamento di un ipotetico diritto costituzionale alla legislazione ordinaria vizia di fatto il diritto stesso. Ad esempio uno statuto che stabilisca che si possa usare la lingua serba con alfabeto cirillico per scrivere al ministro per le questioni religiose e solo a questo scopo sarebbe costituzionale, sebbene da un punto di vista pratico neghi il diritto. [13] La Repubblica della Krajina serba stata distrutta da unazione militare croata nellagosto del 1995 e quasi tutta la sua popolazione stata espulsa dalla Croazia. [14] La costituzione americana scritta nel 1787 riconosceva una differenza tra individui liberi e tutti gli altri individui ed escludeva gli indiani non tassati (art. 1, comma 2). Inoltre il diritto di cittadinanza americana era limitato per legge ai soli bianchi fino al periodo successivo alla guerra civile e fino al 1952 la naturalizzazione era consentita ai soli bianchi e agli africani o ai loro discendenti (v. Gettys 1934). Un altro esempio da considerare il preambolo della costituzione dellIndia (1950), scritta con lintento di costruire un sistema democratico basato su una struttura suddivisa per caste, religioni, lingue e classi sociali: Noi, popolo dellIndia, avendo solennemente deciso di costituire in India una repubblica sovrana, secolare e democratica e di garantire a tutti i suoi cittadini: giustizia () libert () uguaglianza () fraternit (), adotttiamo, emaniamo e concediamo con il presente atto questa costituzione. (Costituzione dellIndia 1950, Preambolo). [15] Emendamento LX alla Costituzione della Repubblica socialista di Bosnia e Erzegovina (Slubeni List Socijalistike Republike Bosne i Hercegovine), 46, 499, n. 21, 31 Luglio 1990. [16] Il progetto Vance-Owen, che si proponeva di difendere lunit della Bosnia-Erzegovina, riconosceva questo aspetto della vita politica, opponendosi alla divisione della Bosnia-Erzegovina in tre sole regioni etnicamente distinte e affermando che: una confederazione formata da tali tre Stati sarebbe intrinsecamente instabile, perch almeno due stringerebbero sicuramente una relazione pi forte con i vicini Stati dellex Jugoslavia che con le altre due parti di Bosnia e Erzegovina. Nondimeno il progetto Vance-Owen, che prevedeva la suddivisione della Bosnia- Erzegovina in dieci regioni completamente autonome, non era realistico, 103
perch affermava che una casa divisa era un condominio nonostante la manifesta volont di molti residenti di demolire ledificio. (v. Hayden 1993). [17] Dalla Costituzione della Federazione di Bosnia e Erzegovina (bozza del 13 marzo 1994, h. 17), testo ottenuto dallambasciata di Croazia di Washington D.C., in inglese come una delle tre lingue originali, accanto a croato e bosniaco. [18] Come nel caso delle limitazioni costituzionali (si veda sopra nota 12), la Serbia meno adatta allanalisi, perch quello Stato, come la Repubblica federale di Jugoslavia che lo contiene, non affatto uno Stato legale. Ad oggi non esiste nessuna nuova legge sul diritto di cittadinanza in Serbia e non conosco nessuna analisi delle norme serbe su questo argomento. I requisiti burocratici per ottenere la cittadinanza nella nuova Jugoslavia (Vreme 1992) e la generalizzata oppressione delle minoranze che esiste nel paese (v. Mazowiecki 1992, pp. 27-36, e Mazowiecki 1993a, pp. 32-42) - mostrano comunque che esiste probabilmente una volont di discriminare chi non serbo. [19] Zakon o hrvatskom dravljanstvu, Narodne Novine 1991, 53, p. 1466- 1469; emendato in Narodne Novine 1992, 28, 659. [20] V. Stolcke (1995) distingue tra fondamentalismo culturale e razzismo ma viene presa in considerazione solo la retorica politica riguardante limmigrazione, non quella che collega lemigrato con la madrepatria. a questo secondo collegamento che si deve la visione della cultura come attributo della nascita, quindi come bene proprio pi che semplice codice di condotta. [21] Vreme 1993, p. 34. necessario specificare che la situazione relativa allattribuzione della cittadinanza serba non diversa (Mazowiecki 1993b, pp.26-27). Visto che la Serbia a livello internazionale stato un paria fino al 1992, probabilmente sono stati pochi i casi in cui qualcuno ha lottato per ottenere la sua cittadinanza. Invece ho incontrato molti serbi che avrebbero voluto acquisire quella croata, macedone o anche bosniaca a fronte di ragioni puramente pratiche, quali le facilitazione per viaggiare ed emigrare. Per molti questo non stato possibile anche se i loro genitori provenivano da queste repubbliche.
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Tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti Talal Asad
(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 183-214; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)
Questo saggio tratta del concetto moderno di crudelt, con particolare riferimento allarticolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani che recita: Nessun individuo potr essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti. In questa affermazione gli attributi riferiti a trattamento o punizioni sembrano indicare tipi di comportamento che, anche se non sono lesatto equivalente di tortura, comunque hanno una stretta affinit con essa. I giudizi morali e le norme legislative che prendono spunto da questa norma hanno seguito in Occidente un percorso interessante e a questo far riferimento il presente contributo. In questo saggio avanzo la tesi che le norme universali esposte nella Dichiarazione riguardino unampia gamma di comportamenti qualitativamente distinti. La mia argomentazione poggia su quattro punti. Primo: la moderna storia della tortura non rappresenta solo una testimonianza della progressiva messa al bando di pratiche crudeli, inumane e degradanti, ma fa anche parte di una pi complessa storia della concezione moderna e secolare di cosa significa essere veramente umani. Secondo: sebbene lespressione tortura o trattamento crudele, inumano o degradante venga utilizzata oggi come criterio culturalmente trasversale nella formulazione di giudizi morali o di norme legislative relative al dolore e alla sofferenza, in realt il suo significato operativo fortemente contestualizzato sia culturalmente che storicamente. Il terzo punto collegato ai primi due: i nuovi tentativi di concettualizzare sia la sofferenza - che include le categorie di tortura mentale e trattamento degradante che il sofferente un termine che viene usato ora anche per riferirsi agli esseri non umani e allambiente naturale divengono sempre pi universali nella loro portata ma particolari nel contenuto prescrittivo. Lultimo punto che la sensibilit moderna che vorrebbe eliminare il dolore e la sofferenza si scontra spesso con altri tipi di impegno e di valori: il diritto degli individui di scegliere liberamente e la libert degli Stati di difendere i propri interessi. Presi assieme, questi quattro punti sottolineano la natura instabile di una categoria centrale della moderna societ occidentale. La sua mancanza di chiarezza da mettere in relazione con il fatto che i concetti di crudelt, disumanit e trattamento degradante cercano di misurare quelli che spesso sono modelli di comportamento incommensurabili. Inoltre questi concetti sono usati in particolari casi in modo contraddittorio. Con questo non voglio sostenere che non ci possa essere qualcosa come la crudelt: semplicemente sono scettico nei confronti dei discorsi universalisti nati attorno ad essa, anche se il mio scetticismo di natura intellettuale e non morale. In questo lavoro non mi interessa criticare le riforme alla tortura e ai trattamenti crudeli, inumani e degradanti ispirate dalla condanna delle Nazioni Unite; mi concentrer piuttosto sul modo in cui i discorsi occidentali sulla crudelt sono costruiti e sul modo in cui il concetto di tortura pu sovrapporsi e sostituirsi ai concetti di trattamento crudele, inumano e degradante. A mio avviso necessario porsi questi interrogativi se vogliamo capire meglio i nostri giudizi transculturali.
Le due storie della tortura
Per prima cosa sar utile prendere in considerazione due libri che rappresentano modi molto diversi di occuparsi della questione della crudelt. Il primo, di George Riley Scott, presenta la crudelt fisica come una caratteristica delle societ barbariche, cio di quelle societ che non hanno ancora conosciuto un processo di umanizzazione; il secondo, di Darius M. Rejali, propone una distinzione tra due tipi di crudelt fisica, la prima 105
propria delle societ premoderne, laltra di quelle moderne, e descrive queste differenze nel contesto dellattuale Iran. Scott stato membro di diverse accademie britanniche, incluso il Royal Anthropological Institute. La sua Storia della tortura forse la prima trattazione moderna di questo tipo (Riley Scott 1940). Essa discute a lungo delle razze selvagge e primitive, dei popoli europei dellantichit e della prima et moderna oltre che delle civilt asiatiche (Cina, Giappone e India). Se da una parte si tratta di un resoconto di misure punitive oggi quasi del tutto abbandonate, dallaltra il testo passa in rassegna quali sono i motivi radicati o pervasivi per cui viene inflitta la sofferenza. Scott si rif chiaramente alle idee di Krafft-Ebing, come si pu constatare non solo nei riferimenti espliciti contenuti nel capitolo su sadismo e masochismo, ma anche nel pi generale schema evoluzionista che egli adotta, in base al quale il primitivo impulso a infliggere dolore rimane una possibilit latente (che in alcuni casi si realizza) nelle societ civilizzate. La posizione di Scott abbastanza originale per il suo tempo perch prende in considerazione anche il maltrattamento nei confronti degli animali e denuncia il fatto che non siano loro riconosciuti diritti. Come altri autori moderni, Scott vede nellampliamento dei diritti lelemento cruciale per leliminazione della crudelt, ma, via via che la sua tesi si sviluppa, viene a galla unambiguit profonda: non del tutto chiaro se egli pensa che la crudelt umana sia semplicemente un esempio della crudelt bestiale cio una manifestazione dellistinto apparentemente generalizzato degli animali pi forti a cacciare e attaccare la preda - oppure se egli ritiene che la crudelt umana abbia un carattere di unicit e che non sia per niente una caratteristica del comportamento animale. In questo secondo caso, la quotidiana brutalit umana rispetto a quella animale sarebbe quindi essenziale per giustificare la persecuzione di categorie vulnerabili di persone (nemici sconfitti, bambini non iniziati e cos via), partendo dalla premessa che queste non siano del tutto umane. In entrambi i casi, Scott mette in discussione lidea liberale di ci che veramente umano: o gli esseri umani fondamentalmente non si differenziano dagli animali, o si differenziano in virt della loro particolare capacit di essere crudeli. Occorre notare che gli esempi di dolore fisico che Scott descrive come tortura appartengono qualche volta alla categoria della sottomissione involontaria alla punizione e qualche volta alla categoria che include le pratiche della disciplina personale (ad esempio rituali di resistenza o ascetismo). Scott non fa nessuna distinzione tra i due tipi: il dolore viene considerato come unesperienza isolabile, da condannare in quanto tale. Nellincontro tra le razze selvagge e i moderni euroamericani, Scott non ha dubbi nellaffermare che la tortura qualcosa che le prime fanno ai secondi, forse perch tortura sinonimo di barbarie; in ogni caso, nella sua storia della tortura non compaiono le sofferenze inflitte agli indiani dAmerica dai colonizzatori bianchi e dagli Stati Uniti nel periodo della loro espansione. Questo non significa che per Scott la tortura sia del tutto assente nello Stato moderno: egli parla ad esempio delluso della tortura da parte della polizia per ottenere la confessione dei sospettati (il terzo grado). La sua posizione in merito che la storia della modernit sia in parte una storia delleliminazione progressiva di tutti quei comportamenti sociali che suscitano indignazione morale, inclusi quelli che adesso la legislazione internazionale definisce trattamento o punizioni crudeli, inumane o degradanti. Scott non sostiene che questo obiettivo sia stato completamente realizzato, ma solo che sono stati fatti dei progressi. In questa storia di progressi, egli afferma, la definizione dello Stato e la difesa dei diritti sono gli strumenti pi efficaci per proteggerci dalla crudelt. Nel suo importante saggio Torture and Modernity, il politologo iraniano Darius Rejali propone linteressante tesi che la tortura non sia, come sosteneva Scott, una sopravvivenza barbarica allinterno dello Stato moderno, ma un suo elemento costitutivo. Rejali (1994) classifica due tipi di tortura, moderna e premoderna, ma concorda con Scott nel ritenere che il termine tortura abbia un significato costante. Entrambi gli autori cio 106
pensano che parlare di tortura significhi riferirsi a una pratica in cui un attore infligge con la forza dolore ad unaltra persona, a prescindere dal ruolo che occupa questa pratica allinterno di una pi ampia economia morale. Rejali presenta un resoconto molto dettagliato sulla funzione delle punizioni politiche in Iran, sia prima che successivamente alla modernizzazione del paese. La tortura moderna, secondo Rejali, rappresenta una forma di sofferenza fisica inseparabile da una societ disciplinare. In Iran la pratica della tortura fondamentale per lattuale repubblica islamica come lo era per il regime di Pahlevi che la repubblica ha soppiantato: entrambe, ognuna a suo modo, sono moderne societ disciplinari. Rejali concepisce il suo saggio come risposta allidea foucaultiana di tortura, esposta in Sorvegliare e punire[1] e afferma che nella societ moderna la tortura non viene sostituita dalla disciplina, come pensava Foucault, ma persiste in modo assai rilevante. Questa idea tuttavia nasce da un malinteso nella lettura di Foucault, il quale pone laccento non sulla tortura, ma sul potere e in particolare sulla differenza tra potere sovrano, che ha bisogno di esibirsi pubblicamente, e potere disciplinare, che agisce attraverso la normalizzazione del comportamento quotidiano. I rituali pubblici della tortura non sono pi considerati necessari al mantenimento del potere sovrano (che poi siano funzionalmente necessari al mantenimento dellordine sociale naturalmente un altro discorso). La tesi di Foucault sul potere disciplinare non viene comunque messa in discussione dallesistenza di torture surrettizie nello stato moderno, anzi, proprio perch la tortura viene eseguita segretamente ed intimamente connessa al recupero di informazioni, essa rientra nel campo delle attivit di polizia, cio in tutto quellinsieme di attivit volte a difendere un fondamentale interesse della societ: la sicurezza ordinaria e straordinaria dello Stato e dei suoi cittadini. Si tratta inoltre di unistituzione in cui conoscenza e potere si sostengono a vicenda. Molte delle attivit di polizia vengono svolte in segreto, ma curiosamente Rejali non si occupa di questo aspetto. La tortura moderna, in quanto parte dellattivit di polizia, viene eseguita segretamente anche perch infliggere pene fisiche ad un prigioniero per estorcere informazioni o per un qualsiasi altro scopo ritenuto un comportamento incivile e quindi illegale. La tortura deve rimanere segreta anche perch gli agenti di polizia non desiderano rendere pubblico ci che essi vengono a sapere dai prigionieri, e dopo tutto lefficacia di certi tipi di conoscenza disciplinare dipende dalla segretezza. Il carattere segreto della conoscenza acquisita durante il lavoro di polizia quindi da mettere in relazione, da un lato, con lincertezza delle critiche esterne riguardo al se, e in caso affermativo al quanto spesso, qualcosa di illegale sia stato compiuto da un potere burocratico per ottenere questa conoscenza (la tortura intollerabile in una societ civilizzata); dallaltro, con il come, quando e dove il potere legale decida di agire una volta che sia entrato in possesso dellinformazione segreta (ogni societ deve proteggere se stessa contro le cospirazioni criminali). La definizione di tortura proposta da Rejali, cio quella di una violenza sanguinaria tollerata dalle autorit pubbliche, oscilla ambiguamente tra la pratica pubblica e lecita della tortura classica e il carattere segreto (perch incivile) della tortura utilizzata dalla polizia in Stati in via di modernizzazione come lIran. La sua ampia argomentazione non d conto di questa differenza. La tortura moderna, sostiene Rejali, connaturata a quella che Foucault chiamava la societ disciplinare e quindi, se non proprio identica alla disciplina, molto simile ad essa. Il saggio di Rejali contiene giudizi preziosi riguardo alla brutalit del processo di modernizzazione. Tuttavia alle argomentazione dellautore si possono muovere due critiche. Per prima cosa, il caso preso come esempio, lIran del xx secolo, rappresenta quella che molti lettori definirebbero una societ in via di modernizzazione e non ancora pienamente moderna. Non chiaro se tutte le trasformazioni avvenute in Iran nel periodo preso in considerazione da Rejali rappresentino veramente la modernizzazione nel senso di un miglioramento morale. Quindi il dato di fatto scandaloso che in 107
questo paese si faccia aperto uso della tortura non basta ancora a dimostrare che la tortura sia connaturata alla modernit. Largomentazione di Rejali su questo aspetto sarebbe stata pi convincente se egli avesse preso in esame una societ moderna, come ad esempio la Germania nazista, invece di concentrarsi su una societ solamente in via di modernizzazione.[2] Sebbene la Germania nazista fosse notoriamente una forma di Stato illiberale, essa era a tutti gli effetti uno Stato moderno. Laltra critica che si pu muovere a Rejali che egli non spiega perch, diversamente da quanto accade per la disciplina, luso della tortura da parte dello Stato moderno richieda una retorica della negazione. Una prima risposta a questa domanda potrebbe essere che oggi c una nuova sensibilit riguardo al dolore fisico, infatti, sebbene esso compaia con una certa frequenza nel nostro tempo, la coscienza moderna considera il dolore inflitto senza giusto motivo ad esempio nel caso di unoperazione chirurgica come riprovevole e quindi moralmente condannabile. questo atteggiamento nei confronti del dolore che ci aiuta a definire il concetto moderno di crudelt. La coscienza moderna una coscienza secolare e include quella che noi oggi chiamiamo religione moderna. Per la cristianit, tradizionalmente radicata nella dottrina della passione di Cristo, diventa oggi difficile elaborare una teoria di accettazione della sofferenza. I teologi moderni hanno iniziato ad ammettere che il dolore un elemento fondamentalmente negativo. La sfida secolarista, scrive un moderno teologo cattolico,
sebbene separi molti aspetti della vita dallambito religioso, produce un equilibrio interpretativo pi solido; i fenomeni naturali, anche se a volte di difficile comprensione, sono radicati in processi che possono e devono essere riconosciuti. molto difficoltoso riuscire a condurre un tale tipo di analisi cognitiva sul significato della sofferenza che ci metta nelle condizioni di affrontarla e di vincerla. Con le sue opere e ancor prima con le sue parole, Ges di Nazareth ha proclamato la bont della vita e della salute fisica come immagine di salvezza. Per lui il dolore un elemento negativo[3]
Lautore di questo passaggio sta chiaramente pensando alla malattia, ma dal momento che il dolore pu essere anche una conseguenza dellintenzionalit umana, allora tale tipo di dolore dovrebbe essere eliminato anche dalluniverso dellinterazione umana, cos come dalle discipline religiose e dalla pratica del martirio, in cui ricopriva, un tempo, un posto donore. Il cristiano secolare chiamato adesso a rinunciare alla passione per scegliere lazione. Il dolore non pi semplicemente un elemento negativo, ma letteralmente uno scandalo.
Labolizione della tortura
Perch infliggere dolore fisico diventa improvvisamente scandaloso? Una parte della risposta risiede in un ben noto racconto progressista: due secoli fa, critici della tortura come Beccaria e Voltaire riconobbero quanto essa fosse disumana, oltre che inaffidabile come mezzo per accertare la verit in un processo. Essi seppero riconoscere e analizzare quello che altri prima di loro inspiegabilmente non erano stati in grado di vedere e la loro presa di posizione contro la tortura giudiziaria provoc una forte reazione nei sovrani illuminati, al punto da spingerli alla sua abolizione. La tortura appariva ai loro occhi di una crudelt intollerabile, soprattutto perch il dolore inflitto nella tortura giudiziaria era considerato gratuito. Inoltre, infliggere dolore ai prigionieri per farli confessare era immorale, si diceva, soprattutto perch questo sistema era in gran parte inefficiente per stabilire la loro innocenza o colpevolezza.[4] (Vorrei ricordare che i riformatori illuministi non condannavano la punizione fisica in quanto tale, perch questo avrebbe chiamato in causa altre considerazioni, non solo quelle strumentali, in particolare lidea di 108
giustizia. E proprio levoluzione del concetto moderno di giustizia ha contribuito ad aumentare lostilit nei confronti delle punizioni corporali.) Ma perch prima dellIlluminismo non si condannava il dolore inflitto gratuitamente? Che cosa impediva alle persone di riconoscere la verit? Nel suo brillante studio Torture and the Law of Proof, John Langbein ci fornisce una parziale spiegazione a questa domanda, dimostrando che la tortura fu vietata quando, nel xvii secolo, perse validit la legge canonica romana della prova, in base alla quale, per procedere contro qualcuno, si richiedeva lammissione di colpa o la testimonianza di due testimoni oculari. Aumentando il ricorso alle prove indiziarie diventava pi semplice e anche pi rapido assegnare le condanne. Labolizione della tortura giudiziaria rappresent dunque la condanna morale e la proibizione legale di una procedura estremamente scomoda e lunga, che iniziava ad essere percepita come pi o meno superflua. Langbein (1977) suggerisce che la verit morale riguardo alla tortura giudiziaria fosse stata preceduta e influenzata da una nuova interpretazione del concetto di verit giudiziaria. Quando, nel xvii secolo, la tortura divenne oggetto di una vigorosa polemica, Jeremy Bentham concluse che il dolore inflitto tramite essa fosse pi facile da giustificare rispetto alla sofferenza inflitta in nome della punizione. Nel corso della sua argomentazione Bentham si riferiva, per esempio, ai tribunali che ricorrevano alla carcerazione nei casi di oltraggio; ebbene, essi avrebbero potuto garantire lobbedienza in un modo meno penale della prigione infliggendo dolore fisico o anche solo minacciando di farlo:
Un uomo pu ciondolare in prigione per un mese o due prima di decidersi a rispondere ad una domanda a cui con un solo giro della ruota di tortura, nel peggiore dei casi, o addirittura, nella maggior parte dei casi, semplicemente sapendo di poter essere messo alla ruota, avrebbe risposto subito. Cos come un uomo decide di rimanere per un mese con il mal di denti che potrebbe curarsi al costo di un dolore momentaneo.[5]
Di questa citazione quello che vorrei sottolineare, al di l del fatto che Bentham sembra non distinguere tra sottomissione volontaria o involontaria alla pena, che per lui le esperienze soggettive di dolore fisico possono essere comparate oggettivamente. Questa idea fondamentale per la concezione moderna di trattamento crudele, inumano e degradante in un contesto interculturale, anche se oggi i liberali criticherebbero aspramente laffermazione di Bentham che in qualche caso la tortura sia preferibile allincarcerazione. proprio una certa idea di comparabilit della sofferenza che rende la carcerazione per molti anni (compreso lisolamento) una punizione umana e la fustigazione una punizione disumana, anche se le esperienze di incarcerazione e fustigazione sono del tutto diverse da un punto di vista qualitativo. In un interessante passaggio di Sorvegliare e punire, Foucault fa notare come nel xix secolo la carcerazione sia stata giudicata preferibile ad altre forme di punizione legale soprattutto perch era considerata come la pi egalitaria (Foucault 1975, pp. 251-252). Su questa posizione pesava linfluenza della dottrina filosofica secondo cui la libert la condizione umana naturale. I riformatori della legislazione penale sostenevano che dal momento che laspirazione alla libert era presente nella stessa misura in ogni individuo, privare gli individui della loro libert sarebbe stato un modo per colpirli indifferentemente, cio senza distinzione di classe sociale o di costituzione fisica. Infatti per un benestante sarebbe stato pi facile pagare, come per una persona robusta e forte reggere al dolore fisico. Nessuna forma di punizione si adattava alla nostra natura umana, tuttavia si scelse la carcerazione che era considerata una soluzione pi equa rispetto allidea di infliggere punizioni fisiche gratuite. Per questa ragione il pensiero liberale moderno non dovrebbe criticare la conclusione di Bentham sulla tortura, ma approvare il suo metodo di comparare quantitativamente i diversi tipi di sofferenza. Non difficile capire come il calcolo utilitaristico del piacere e del dolore sia divenuto centrale per il giudizio interculturale nel pensiero e 109
nella pratica moderna. Utilizzando un tale tipo di riduzione, lidea di eseguire semplicemente un calcolo ha favorito la formulazione di giudizi comparativi su quelle che resterebbero altrimenti qualit incommensurabili.[6]
Umanizzare il mondo
Il processo storico di costruzione di una societ umana dovrebbe, a quanto si dice, tendere alleliminazione della crudelt. Si spesso osservato che il dominio coloniale degli europei, sebbene in s non democratico, abbia comunque apportato un miglioramento morale nel comportamento, per esempio favorendo labbandono di pratiche offensive verso lumanit. Gli strumenti pi efficaci di questa trasformazione sono state la legislazione, lamministrazione e leducazione moderne, che si basavano sulla categoria moderna di diritto consuetudinario. Scrive James Read:
Di tutte le restrizioni relative allapplicazione delle leggi consuetudinarie durante il periodo coloniale, il criterio della ripugnanza alla giustizia e alla moralit era potenzialmente il pi radicale; infatti difficilmente le norme consuetudinarie potevano apparire ripugnanti al tradizionale senso di giustizia e moralit delle comunit che ancora le accettavano. E dunque chiaro che lo standard da applicare era fornito dagli standard di giustizia e moralit del potere coloniale.
Read sottolinea come lespressione ripugnante alla giustizia e alla moralit non abbia un preciso significato giuridico e che le prime legislazioni delle colonie impiegavano qualche volta altre espressioni come non contrario alla naturale moralit e umanit, sempre per con lintenzione di compiere la stessa opera rivoluzionaria (Read 1972, p. 175). Il progresso morale e sociale in questi paesi non stato costante. Sebbene gli europei abbiano cercato di sopprimere le pratiche crudeli e le forme di sofferenza che venivano considerate accettabili nel mondo non europeo prima del loro arrivo, condannando chi ne facesse uso, il loro tentativo non ebbe sempre successo. Ancor oggi la lotta per leliminazione della sofferenza sociale portata avanti dalle Nazioni Unite. O ad ogni modo cos si dice. Sono tuttavia dellidea che il tentativo di bandire le abitudini che i dominatori europei consideravano crudeli non fosse mosso tanto dalla vista della sofferenza degli indigeni, quanto, piuttosto dalla volont di imporre ci che gli europei stessi consideravano un modello civilizzato di giustizia e di modernit per una data popolazione, cio dalla volont di creare nuovi soggetti umani.[7] Langoscia dei soggetti obbligati, sotto la minaccia delle punizioni, ad abbandonare le pratiche tradizionali ora giuridicamente bollate come ripugnanti alla giustizia e alla moralit oppure come contrarie alla naturale moralit umana, oppure ancora come qualcosa di retrogrado e puerile non poteva dunque avere un ruolo decisivo nel discorso dei riformatori coloniali. Al contrario, come si esprimeva Lord Cromer, riferendosi alla miseria prodotta tra i contadini egiziani dalle riforme giuridiche del governo britannico: la civilizzazione purtroppo deve avere le sue vittime (Lord Cromerr 1913, p. 44). Nel processo di apprendimento che avrebbe consentito di diventare del tutto umani, solo alcuni tipi di sofferenza venivano considerati un affronto allumanit e di conseguenza eliminati. Questi tipi di sofferenza erano distinti dalla sofferenza necessaria ai fini del processo di completa realizzazione dellumanit, vale a dire dal dolore che era adeguato al suo scopo, non il dolore inutile. La sofferenza inumana, tipicamente associata al comportamento barbarico, era una condizione moralmente intollerabile per la quale era necessariamente responsabile qualcuno; si doveva fare in modo che i responsabili, essi stessi inumani, desistessero e se necessario fossero puniti. Questa in ogni caso era 110
lidea del riformismo progressista. Quello che i singoli amministratori coloniali sentivano, pensavano o facevano unaltra questione, anche se non del tutto scollegata. Gli amministratori veramente esperti erano disposti a tollerare localmente diverse pratiche incivili per ragioni di convenienza, ma tutti erano senza dubbio consapevoli del discorso progressista dominante radicato nelle societ civilizzate.[8] In un suo recente contributo, Nicholas Dirks offre un esempio convincente di un simile discorso, nel contesto dellIndia britannica della fine del xix secolo. Il suo resoconto dellinchiesta condotta dalle autorit coloniali sul rituale dellhookswinging contiene questo sobrio giudizio dellufficiale britannico incaricato:[9]
Non ritengo che sia necessario, alla fine del xix secolo, considerato anche il livello di civilizzazione raggiunto in India, parlare dei motivi che spingono le persone a prendere parte allhookswinging, a camminare attraverso il fuoco o a compiere altre simili azioni barbare. Dal punto di vista della loro morale, i motivi possono essere buoni o cattivi; essi possono abbandonarsi allautotortura per rispondere a voti religiosi fatti con fervore e in tutta sincerit o per i motivi pi disinteressati; oppure possono abbandonarsi a queste pratiche per i pi spregevoli motivi di esaltazione personale, sia per le elemosine che possono ricevere, sia per la volont di distinguersi o per il prestigio che queste pratiche possono comportare; ma la domanda che ci dobbiamo porre se lopinione pubblica in questo paese non sia avversa agli atti esteriori in s, dal momento che questi sono ripugnanti per i dettami dellumanit e demoralizzanti per loro stessi e per tutti coloro che vi assistono. Io credo che la voce dellIndia che ha pi credito a questo riguardo, cio non solo la voce di chi, attraverso unistruzione superiore, ha potuto usufruire di alcuni dei vantaggi delleducazione occidentale ed stato permeato di idee non-orientali, ma anche la voce di coloro il cui stile di vita e di condotta derivano principalmente dalla filosofia asiatica, dovrebbe orgogliosamente proclamare che arrivato il momento per il governo di eliminare concretamente, nellinteresse del suo popolo, tutte le esibizioni degradanti e di auto-tortura (Dirks, pp. 9-10).
Il fatto che le stesse persone coinvolte dichiarassero di non sentire dolore era irrilevante, e la stessa cosa valeva anche per lobiezione che si trattava di un rito religioso: tali rivendicazioni di differenza, semplicemente, non erano accettabili. Tipi di comportamento assai diverso erano ridotti a un unico standard sulla base delloffesa che arrecavano ad una determinata visione dellessere umano. La conferma di questo carattere oltraggioso veniva dallascoltare solo alcune voci colonizzate. Di questo gruppo facevano parte anche gli indiani che erano direttamente in contatto con gli occidentali e, aspetto da non sottovalutare, coloro che accettavano uninterpretazione occidentalizzata della loro filosofia asiatica.[10] Dal punto di vista del progresso morale, le voci di quelli che avevano un punto di vista reazionario non potevano esser tenute in considerazione. Chiaramente, per la causa del progresso morale cera sofferenza e sofferenza. Quello che interessante non solo che alcune forme di sofferenza furono prese pi seriamente di altre, ma che la sofferenza inumana, contrapposta a quella necessaria o inevitabile era considerata come essenzialmente gratuita e quindi giuridicamente punibile. Il dolore sopportato nel percorso che avrebbe condotto alla completa umanit, daltra parte, era visto come necessario perch cerano ragioni sociali o morali che lo giustificavano. Questa visione fa tuttuno con linteresse post-illuminista a costruire attraverso la punizione giudiziaria lo strumento pi efficace per riformare i trasgressori e salvaguardare gli interessi della societ.[11] Come lidea del progresso prese sempre pi campo negli affari dellEuropa e del mondo, si sent sempre pi il bisogno di misurare la sofferenza e si cerc di farlo in modi sempre pi raffinati.
111
Rappresentare la tortura, agire con deliberata crudelt
Il dolore non sempre stato considerato intollerabile nella societ europea e americana moderna. In guerra, nello sport, negli esperimenti psicologici, cos come nel campo del piacere sessuale, linflizione di sofferenza fisica attivamente praticato e ammesso dalla legge. Questo comporta delle contraddizioni che vengono poi sfruttate nel dibattito pubblico. Quando un dolore transitivo viene descritto come crudele e inumano, spesso se ne parla come di tortura e la tortura stessa condannata dallopinione pubblica nonch proibita dalle leggi internazionali. Non sorprende, dunque, che molti governi liberal-democratici che hanno impiegato la tortura abbiano cercato di farlo in segreto.[12] Talvolta si sono anche preoccupati di ridefinire giuridicamente la categoria dei trattamenti che generano dolore, nel tentativo di evitare letichetta tortura. Per esempio:
La tortura vietata dalle leggi israeliane. Le autorit israeliane dicono che la tortura non autorizzata n tollerata nei territori occupati, ma riconoscono che si sono verificati degli abusi e dichiarano di aver condotto delle indagini. Nel 1987 la Commissione giudiziaria Landau condann specificamente la tortura ma consent di usare moderate pressioni fisiche e psicologiche per ottenere confessioni e informazioni. Un allegato segreto della relazione, in cui si definivano le pressioni consentite, non mai stato reso pubblico.[13]
Altri governi del Medio Oriente, come lEgitto, la Turchia e lIran hanno tollerato la tortura e diversamente dai governi liberal-democratici ne hanno fatto apertamente uso contro i propri cittadini. Ma la caratteristica significativa del caso qui citato di Israele la scrupolosa preoccupazione di uno Stato liberal-democratico di calibrare la quantit del dolore legalmente tollerabile. C evidentemente la preoccupazione che non si debba infliggere troppo dolore. Si ritiene che una moderata pressione fisica e psicologica sia necessaria e sufficiente per garantire una confessione. Al di sopra di questa quantit, la pressione considerata eccessiva (gratuita) e quindi presumibilmente diventa tortura.[14] Altri Stati del Medio Oriente raramente sono cos puntigliosi o cos moderni nel loro ragionamento. Il ricorso alla tortura negli Stati liberal-democratici in relazione con il loro tentativo di controllare popolazioni non composte di loro cittadini. In tali casi la tortura non pu essere attribuita a impulsi primitivi, come suggerisce Riley Scott, e nemmeno a tecniche amministrative per disciplinare i cittadini, come sostiene Rejali. Luso della tortura deve essere interpretato come uno strumento che diventa parte integrante del mantenimento della sovranit nello Stato-nazione, proprio come la guerra. La categoria della tortura non si limita pi solo allinfliggere dolore fisico, ma include ora anche la coercizione psicologica, compreso il disorientamento, lisolamento e il lavaggio del cervello. Anzi, il termine tortura oggigiorno non denota solo un comportamento attualmente proibito dalla legge, ma anche un comportamento che noi vorremmo fosse proibito, in accordo alle modifiche subite dal concetto di trattamento inumano (ad esempio gli abusi sui bambini, le esecuzioni pubbliche, la fustigazione dei criminali, gli esperimenti sugli animali, lallevamento industriale o la caccia alla volpe). Questa pi ampia categoria di tortura o trattamento crudele, inumano e degradante potrebbe essere applicata in teoria allangoscia e alla sofferenza psicologica sperimentata da quelle persone di altre societ che sono state costrette ad abbandonare le proprie credenze e a diventare completamente umani, nel senso degli euro-americani. Ma per un curioso paradosso, questa versione del relativismo impedisce una tale applicazione della categoria, perch langoscia essa stessa la conseguenza di un appassionato investimento nella verit delle credenze che guidano il comportamento. La moderna impostazione scettica, al contrario, considera una tale appassionata 112
convinzione come incivile o come una perenne fonte di pericolo per gli altri e di dolore per s stessi. Le credenze non dovrebbero avere nessuna diretta connessione con lo stile di vita, oppure essere prese cos alla leggera da poter essere modificate con facilit. Si potrebbe essere portati a pensare che con landare del tempo, almeno nelle societ umanizzate, infliggere dolore venga considerato moralmente intollerabile. In alcuni casi tuttavia i comportamenti che producono dolore e che una volta erano scandalosi, ora non scandalizzano pi o almeno non pi come in passato: ad esempio si mettono in prigione molte persone per i crimini pi diversi, oppure si infliggono nuove forme di sofferenza in battaglia. Alcuni autori che si sono occupati del dolore hanno indicato la guerra come il fatto pi ovviamente analogo alla tortura (Scarry 1985, p. 104). Pu darsi, ma significativo che la nozione generale di trattamento o punizione crudele, inumana o degradante non sia applicata alla normale condotta di guerra, anche se la moderna guerra tecnologica implica forme di sofferenza che sono senza precedenti per portata e tipologia. La Convenzione di Ginevra, in effetti, ha cercato di regolare la condotta in guerra,[15] ma paradossalmente ha avuto come effetto quello di legalizzare molti dei nuovi tipi di sofferenza inflitti nella guerra moderna allo stesso modo a militari e a civili. Lo studioso di storia militare John Keegan si occupato delle nuove pratiche di crudelt deliberata quasi ventanni fa, quando ha descritto alcuni armamenti utilizzati nelle guerre del xx secolo:
Le armi non sono mai state pietose con gli esseri umani, ma il principio direttivo sotteso alla loro progettazione di solito non era stato quello della massima accentuazione del dolore e delle lesioni che sono in grado di provocare. Prima dellinvenzione degli esplosivi, i limiti della forza muscolare erano di per s sufficienti a ridurne la letalit; ma, una volta introdotti gli esplosivi, ancora per un certo periodo certe inibizioni morali, promosse dalla sensazione che fosse poco leale aggiungere dimensioni meccaniche e chimiche alla capacit delluomo di far del male al proprio simile, valsero a impedire che la progettazione delle armi rispondesse a una deliberata barbarie. Alcune di queste inibizioni come per esempio quella alluso di gas tossici e di pallottole esplosive, vennero codificate ed ebbero cogenza a livello internazionale grazie alla convenzione dellAja del 1899 [16]; ma lo sviluppo di armi intese alla distruzione di cose in quanto contrapposta alluccisione di uomini (ne costituisce un esempio lartiglieria pesante), che come effetti collaterali comportavano enormi sofferenze e gravissime mutilazioni, vanific le suddette limitazioni. Di conseguenza, queste furono abbandonate e oggi leffetto che si vuol ottenere da molte armi atte a uccidere i propri simili appunto che esse possano infliggere ferite quanto pi possibili atroci e terrificanti. Cos, a esempio, la claymore mine contiene bulloni metallici [] le cluster bombs lasciano frammenti metallici seghettati, e in entrambi i casi la forma dei proiettili tale da produrre ferite e fratture pi rilevanti di quanto non facciano proiettili a superficie uniforme. I proiettili a carica cava e sottocalibrati, sparati da cannoni anticarro, sono progettati per rovesciare, nellabitacolo dei veicoli corazzati, una pioggia di schegge metalliche o rivoli di metallo fuso, mettendo fuori uso il carro armato in quanto ne uccidono lequipaggio. E il napalm, avversato per ragioni etiche persino da molti soldati di professione tuttaltro che teneri, contiene un ingrediente che ha per effetto di aumentare ladesione alla superficie cutanea del petrolio ardente. I chirurghi militari, che nellultimo secolo si sono dimostrati cos abili nel riportare in vita soldati feriti e nel riparare lesioni di crescente gravit, si trovano oggi ad affrontare la sfida di agenti deliberatamente concepiti per vanificarne le capacit (Keegan 1978, pp. 348-349).
A questo si pu aggiungere che la manifattura, il possesso e lo schieramento di armi di distruzione di massa (armi chimiche, nucleari e biologiche) devono essere considerati esempi di una dichiarata capacit dei governi a 113
mettere in pratica trattamenti crudeli, inumani e degradanti contro le popolazioni civili, anche se queste armi non vengono effettivamente usate. In breve, le crudeli tecnologie moderne di distruzione fanno tuttuno con la guerra moderna e la guerra unattivit essenziale per il mantenimento della sicurezza e del potere nello Stato moderno, da cui dipende il benessere e lidentit dei suoi cittadini. In guerra, lo Stato moderno richiede ai propri cittadini non solo che essi uccidano e feriscano altre persone, ma anche che essi stessi siano sottoposti al dolore e ad una morte spietata.[17] Come si possono conciliare le crudelt calcolate della battaglia moderna con la moderna sensibilit riguardo al dolore? Esattamente trattando il dolore come unessenza quantificabile. Come nel caso della tortura, si pu tentare di misurare la sofferenza fisica inflitta nella guerra moderna confrontando il rapporto tra i mezzi e i fini. La distruzione umana causata non dovrebbe superare il vantaggio strategico raggiunto. Ma dato il fine della vittoria definitiva, il concetto di necessit militare pu essere esteso allinfinito: ogni misura che contribuisca a questo scopo pu essere giustificata in termini di necessit militare, al di l di quanta sofferenza essa possa generare. Lo standard di accettabilit in tali casi fissato dallopinione pubblica e varia in base alla risposta dellopinione pubblica di fronte a circostanze contingenti (ad esempio chi il nemico o come si sta svolgendo la guerra) Vorrei sottolineare che in questa sede non si tratta di pronunciare un giudizio morale. Il mio intento piuttosto quello di identificare il paradosso del pensiero e delle pratiche moderne relative allinflizione deliberata del dolore tra Stati come allinterno di essi. Se mi soffermo sulla crudelt accettata da uno Stato, questo non perch io ritenga che oggi lo Stato sia lunica fonte di crudelt, ma perch il discorso morale sui trattamenti e le punizioni crudeli, inumane e degradanti strettamente collegato a concetti giuridici e allintervento politico. Negli esempi fin qui considerati, ho avanzato la tesi che linstabilit del concetto di sofferenza fisica sia lorigine delle contraddizioni ideologiche come delle strategie disponibili per evitarle. Se noi spostiamo la nostra attenzione al campo delle relazioni interpersonali che lo Stato moderno definisce private, incontriamo una contraddizione che ha radici molto profonde e che non possiamo risolvere semplicemente ridefinendo il concetto di tortura o proibendo la crudelt calcolata nel combattimento militare.
Sottoporre se stessi a trattamento crudele e degradante
Mentre la categoria di tortura stata recentemente ampliata fino ad includere i casi di inflizione di sofferenza di natura interamente o principalmente psicologica, essa stata anche ristretta in modo da escludere alcuni casi in cui si infligge del dolore fisico in modo calcolato. Ci talvolta conduce a contraddizioni, ma esiste un altro tipo di contraddizione nella moderna vita sociale: i moderni sono consapevoli che ci sono situazioni in cui lesperienza negativa del dolore e quella positiva del piacere sono inseparabili. Il sadomasochismo risulta inquietante per molte persone proprio perch le mette di fronte ad una sofferenza che non solo qualcosa di spiacevole: sia dolore che il suo opposto. Due secoli di pesanti critiche rivolte al calcolo utilitarista del piacere contrapposto al dolore non hanno distrutto la visione del senso comune che queste due esperienze dovrebbero escludersi a vicenda. Ecco un estratto da un manuale sadomasochista, recentemente pubblicato a New York:
Siccome penso che ogni tentativo di definire il SM in ununica frase sia in definitiva futile (o masochista), rinuncer ad aggiungere una versione ulteriore al grande mucchio dellinutile e inadeguata immondizia verbale. Invece propongo una breve lista di caratteristiche che mi sembrano presenti nella gran parte delle scene che classificherei come SM: 114
1. Una relazione dominante sottomesso; 2. Dare e ricevere dolore come fatto piacevole per entrambe le parti 3. Fantasia e/o recita di ruoli da parte di uno o di entrambi i partner 4. Una consapevole sottomissione di un partner allaltro (umiliazione) 5. Alcune forme di coinvolgimento feticista 6. La rappresentazione di una o pi interazioni ritualizzate (bondage, flagellazione ecc.) (Townsend 1989, p. 15).
Si noti che questo testo non parla di espressioni di dolore, e tanto meno di giochi di ruolo convenzionali, ma di dolore patito e inflitto, in cui entrambi i partner, lattivo e il passivo, agiscono di comune accordo. Perch il masochismo non rifiutato da tutti i moderni che condannano il dolore come unesperienza negativa? Una possibile risposta, avanzata da alcuni interpreti, che non tutti confondono la distinzione tra il sadismo sfrenato e la subcultura sociale del feticismo consensuale. Pensare che nel sadomasochismo consensuale il dominante ha il potere e lo schiavo no, come non riuscire a capire la differenza tra il teatro e la vita reale (McClintock 1993, p. 87). Tuttavia il punto centrale della discussione non quello di abbandonare la distinzione tra sadismo sfrenato e subcultura sociale del feticismo consensuale, ma piuttosto interrogarci su che cosa succede quando il modellamento (self-fashioning) individuale abbraccia ogni differenza, compresa quella tra dolore e piacere, in un tutto estetico. Qualche volta si dice che libridazione di categorie, comprese quelle che organizzano la nostra esperienza sensoriale, un modo per sovvertire unautorit stabilita in nome della libert. Ma anche possibile che lerotizzazione del dolore sia semplicemente uno dei modi in cui la soggettivit moderna tenta di consolidare le sue labili basi. Recentemente un articolo apparso su un quotidiano londinese forniva il seguente resoconto dellesibizione di un artista americano allIstituto di Arte contemporanea:
Con la faccia raccolta in una maschera di concentrazione, Ron Athey si lascia trafiggere la testa con un ago di sei pollici, proprio sopra le sopracciglia. Tu osservi, pietrificato, lago che serpeggia sotto la fronte come lacqua che pulsa in un manicotto. Una goccia di sangue fuoriesce nel punto in cui lacciaio incontra il cuoio capelluto. Questo il primo chiodo della corona di spine di Athey: un tributo del body piercer alla forza delliconografia cristiana, il flirt di un ex junkie con lago, la sfida di un omosessuale nei confronti dellinfezione da HIV. Quando il macabro sketch finito, Athey ricoperto di aghi: con una corona di fil di ferro, grondante di sangue, sembra una parodia della crocifissione. Ma si tratta veramente di una parodia, definita nel dizionario come unimitazione cos misera da apparire una deliberata derisione delloriginale? Oppure si tratta come sosterrebbero i fan di Athey di unesplorazione della natura del martirio, come appare a una comunit omosessuale mondiale nellera dellAIDS? (Armistead 1994).
Di questo paragrafo interessante notare che lautore si rende conto di dover usare la parola sketch che appartiene al mondo del teatro tra virgolette, ma non fa lo stesso con lespressione martirio, di natura teologica. Il lettore pensa quindi di trovarsi di fronte a un reale tributo alla forza iconografica del cristianesimo, vale a dire a una reale esplorazione della natura del martirio (cristiano), che tuttavia sembra soltanto una forma di teatro, unimitazione.[18] Vorrei precisare che non sto cercando di mettere in discussione questa posizione, ma vorrei solo sottolineare come lautore sia consapevole del fatto che nel discorso del modellamento moderno, il tentativo di tenere separati reale e teatrale pu fallire. Specialmente in una cultura 115
moderna, dove la spaccatura tra il reale e le sue mere rappresentazioni stata istituzionalizzata, pu essere necessario affermare che una determinata esibizione semplicemente teatrale oppure che unaltra esibizione non veramente teatro. Secondo me tuttavia il punto della questione che la differenza tra il reale e il mimetico, cos come la differenza tra dolore e piacere, possono essere usate per il modellamento moderno. Di conseguenza la tensione tra il bondage reale e simulato essa stessa estetizzata e diventa problematico operare una netta distinzione tra consenso e coercizione. Certamente le pratiche sadomasochiste definite nel testo riportato prima differiscono da questa esibizione allIstituto di arte contemporanea. In questultimo caso, per esempio, esiste una separazione tra colui che si esibisce e gli spettatori: non c unesperienza del dare e ricevere dolore che li unisca in un piacere reciproco. Abbiamo di fronte solo una rappresentazione (presentazione?) unilaterale di unimmagine evocativa della sofferenza che preceduta da una dolorosa costruzione dellimmagine sul palcoscenico. Inoltre lintenzione dellesibizione non la produzione di un piacere privato. Non possiamo sapere se i vari membri del pubblico di Athey reagiscono principalmente allicona dellultima passione di Cristo o alla dolorosa costruzione di quella stessa icona sul palcoscenico, oppure ad entrambe le cose. Non possiamo nemmeno dire quale differenza potrebbe fare, per quelli che vorrebbero vietare questa esibizione, sapere che Athey soffre di un malfunzionamento del sistema nervoso che non gli permette di provare dolore, oppure se gli dicessimo che come un virtuoso della religione egli ha imparato a percepire positivamente questa esperienza. Pensiamo ai musulmani della Shia che una volta allanno, ad ogni muharram, mentre si flagellano compiangono il martirio di Husain, il primogenito del profeta. Questo esempio di dolore autoinflitto allo stesso tempo reale e drammatico (non teatrale) e ha meno a che fare con il piacere rispetto allesibizione di Athey, da cui differisce per essere un rito collettivo di sofferenza e redenzione religiosa. Non si tratta di unazione secolare che usa una metafora religiosa per pronunciare unaffermazione politica sul pregiudizio; e neppure presuppone un diritto al modellamento e allautonomia delle scelte individuali. Entrambi gli esempi si rivolgono tuttavia contro la sensibilit moderna che rifugge dallidea di un confronto con la sofferenza che sia volontario e percepito come qualcosa di positivo. Per gli asceti cos come per i sadomasochisti il dolore non semplicemente un mezzo che pu essere misurato e giudicato eccessivo o gratuito in relazione al suo fine: il dolore non azione, ma passione. Questi casi di sottomissione volontaria al dolore nella societ moderna ci aiutano a porre alcune domande a livello interculturale. I criteri elencati nel testo sadomasochista riportato sopra sono interessanti perch si pongono in antitesi al quinto articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani: Nessun individuo potr essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti. In questa norma non compare la precisazione a meno che le parti in questione non siano adulti consenzienti. Allo stesso modo e per la stessa ragione, un individuo non pu acconsentire ad essere venduto come schiavo, anche se per un periodo limitato, neanche se le parti coinvolte ritengono che la relazione di schiavit abbia un interesse erotico. Cos la chiesa liberalizzata disapprova energicamente che i monaci si fustighino su comando dellabate per lespiazione dei peccati anche se la penitenza ha uno scopo rituale e un carattere drammatico e anche se i monaci hanno preso i voti monastici di obbedienza. Questo deriva dal moderno rifiuto del dolore fisico in generale e della sofferenza gratuita in particolare. Ma pi giusto metterla in questo modo: lostilit moderna non si rivolge semplicemente al dolore, ma al dolore che non si accorda con una particolare concezione di essere umano e cio il dolore in eccesso. Eccesso un concetto che richiama una misurazione. Un aspetto fondamentale della moderna predisposizione al dolore si basa su un calcolo che definisce quali siano le azioni appropriate. 116
Niente di quanto ho detto rappresenta unargomentazione contro le pratiche sadomasochiste: non sto denunciando una pratica sessuale pericolosa[19] come daltra parte nemmeno sono interessato a celebrare il suo potenziale di emancipazione sociale.[20] Queste posizioni antagoniste e speculari sembrano presupporre che il sadomasochismo abbia unessenza. Ma lessenza di ci che il discorso legale e morale costruisce, controlla e critica come sadomasochismo non loggetto della mia analisi. Come nel campo delle pratiche sessuali anormali e innaturali in generale, il potere statale direttamente e attivamente coinvolto nellaiutare a definire e a regolare la normalit. Il mio oggetto di studio in queste pagine la struttura del dibattito pubblico sulla valorizzazione dellesperienza del dolore in una cultura che lo considera negativamente. E un dibattito particolarmente complesso perch da una parte i moderni disapprovano il dolore fisico e lo considerano degradante, mentre, dallaltra, essi difendono il diritto di ciascuno di ricercare in privato un piacere fisico illimitato, ammesso che ci sia conforme al principio giuridico che si tratti di adulti consenzienti e che non conduca alla morte o a lesioni gravi. Uno dei modi in cui i moderni tentano di risolvere questa contraddizione quello di definire la crudelt in relazione al principio dellautonomia individuale che rappresenta la base necessaria della libera scelta. Ma se la nozione di trattamento crudele, inumano e degradante non pu essere definita coerentemente senza far riferimento al principio di libert individuale, essa si relativizza. Ci diviene pi chiaro una volta che ci si sposti nel campo interculturale. Qui non si tratta semplicemente di eliminare una particolare forma di crudelt, ma di imporre un discorso moderno complessivo sullessere umano, in cui giocano un ruolo centrale i concetti di individualismo e di distacco da un eccessivo impegno credenziale. Quindi, mentre in casa propria si pu consentire agli adulti di agire allinterno dei vincoli della legge sulla base dei concetti di libera scelta e di autonomia individuale, allesterno la presenza di adulti consenzienti pu venire assunta semplicemente come sintomo di falsa coscienza, di adesione fanatica a credenze superate; il che spinge a pratiche di correzione forzata. . Solo lindividuo sospettoso sospettoso verso se stesso come verso gli altri pu essere veramente autonomo e libero da convinzioni fanatiche. Ma il sospetto continuo introduce un elemento di instabilit ad un altro livello: quello del soggetto.
Osservazioni conclusive
Questo saggio ha indagato ed esplorato lidea base sottesa alla dichiarazione delle Nazioni Unite citata allinizio: Nessun individuo potr essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti. Ho sostenuto che si tratta di unidea instabile, soprattutto perch le aspirazioni e le pratiche cui connessa sono esse stesse contraddittorie, ambigue o in corso di cambiamento. Certamente il fatto che unidea sia instabile potrebbe non essere in s una ragione per abbandonarla, ma n il tentativo degli euro-americani di imporre ad altri i loro modelli attraverso luso della forza, n linvocazione di questi modelli da parte dei popoli pi deboli nel Terzo Mondo riesce a rendere i modelli stabili e universali: semplicemente, li globalizza. Abbiamo bisogno di etnografie del dolore e della crudelt che possano fornirci una comprensione pi approfondita di come essi siano effettivamente praticati allinterno di differenti tradizioni. Un tale tipo di etnografia sarebbe sicuramente in grado di mostrare che la crudelt pu essere sperimentata e indirizzata in altri modi invece che come violazione dei diritti umani, per esempio come il fallimento di specifiche virt o come unespressione di particolari vizi. Potremmo allora accorgerci che se la crudelt sempre pi rappresentata nel linguaggio dei diritti e specialmente dei diritti umani, questo perch la perenne lotta giuridica divenuta la 117
modalit dominante dellimpegno morale in un mondo interconnesso, incerto e in continuo cambiamento.
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[1] In questo Rejali concorda con Page Du Bois. Si vedano Du Bois 1991, pp. 153-157 e Foucault 1975. [2] Z. Bauman (1989) ha esaminato le strutture e i processi dello Stato moderno in grado di determinare le modalit del comportamento crudele sotto il nazismo. [3] (Autiero 1987, p. 24). Interessante da notare qui un curioso paradosso nelluso di una metafora ripresa dallambito militare (affrontarla e vincerla) per descrivere lopera compassionevole di salvezza. Ma tali paradossi abbondano nella storia cristiana. [4] Beccaria denuncia i barbari tormenti con prodiga e inutile severit moltiplicati per delitti o non provati o chimerici (Beccaria 1965, p. 4) E Voltaire, con il suo caratteristico sarcasmo, osserva: On a dit souvent que la question [torture] tait un moyen de sauver un coupable robuste, et de perdre un innocent trop faible. (De Voltaire 1818, p. 314). [5] Si vedano i due frammenti pubblicati per la prima volta con il titolo di Bentham on Torture in (James 1973, p. 45) [6] Nel suo importante lavoro Classical Probability in the Enlightenment, Lorraine Daston (1988) ha descritto come per due secoli i matematici illuministi abbiano cercato di produrre un modello che potesse stabilire un calcolo morale utilizzabile dalluomo ragionevole in condizioni di incertezza. Sebbene la moderna teoria delle probabilit si sia completamente allontanata da questo progetto morale gi a partire dal 1840 circa, lidea del calcolo continua ad avere un potere di attrazione per il pensiero liberale sul benessere. [7] Lord Milner, sottosegretario alla Finanza durante loccupazione britannica in Egitto che cominci nel 1882, descrisse nel modo seguente il compito dellimpero britannico nel paese: Questo e niente meno di questo 119
si intendeva con ristabilire lordine, cio riformare da cima a fondo lamministrazione egiziana; anzi, significava qualcosa di pi. Perch avremmo dovuto rimodellare il sistema se poi avessimo lasciato ai loro posti ufficiali del vecchio tipo, animati dal vecchio spirito? Uomini, non misure dovunque una buona parola dordine, ma in nessun posto pi adeguata che in Egitto. Il nostro compito quindi prevedeva qualcosa in pi dello stabilire nuovi principi e nuovi metodi: in ultima analisi dovevamo formare degli uomini nuovi. Questo compito prevedava di educare le persone a riconoscere e quindi a pretendere un governo regolare e onesto educare un corpo di governanti capaci di assumersi questo incarico. (Lord Milner 1928, p. 23; corsivo dellautore) Qui Milner afferma che il governo ha bisogno di creare soggetti (in entrambi i sensi) e anche governanti formati attraverso i nuovi modelli di comportamento umano e giustizia politica. Che questo processo avrebbe potuto implicare luso di una certa forza e sofferenza era un fatto di secondaria importanza. Vorrei sottolineare qui non tanto il fatto che gli amministratori coloniali come Milner difettassero di motivi umanitari, ma che essi erano spinti da un particolare concetto di umanit. [8] Sono grato a Jon Wilson per avermi informato che la parola convenienza (expediency) quella che ritroviamo sempre nei documenti ufficiali dellIndia imperiale, da quelli del 1820 fino a quello della Reale comminsione dellagricoltura del 1928. Il ricorso alla convenienza e allinteresse indicava sfiducia in una credenza appassionata. Si veda (Hirschman 1977) [9] Lhookswinging consiste in una cerimonia in cui il celebrante dondola da una trave costruita appositamente su un carro, appeso a due uncini di acciaio inficcati nelle reni. Si veda(Kosambe 1967. [10] In relazione alla pi famosa proibizione britannica del sati (autoimmolazione di una vedova hindu sullara funeraria del marito) nel 1829, Lata Mani osserva: Piuttosto che parlare a favore della messa fuori legge del sati come atto crudele e barbaro, come ci si potrebbe aspettare da un vero modernizzatore, gli ufficiali in favore dellabolizione si davano un gran da fare per spiegare come essa fosse del tutto coerente con il principio di un aggiornamento della tradizione indigena . Essi insistevano sulle presunte sanzioni previste nelle scritture per il sati, e sulla credenza che la pratica contemporanea trasgredisse il suo originario, e dunque vero, significato scritturale (Mani 1985, p. 107). Quindi fu un induismo modernizzato quello che si rese responsabile del giudizio che il sati era un atto crudele e barbaro. [11] I riformatori intendevano rivolgere il loro messaggio direttamente ai prigionieri, cui spiegavano che le punizioni erano inflitte nel loro stesso interesse, mentre la teoria utilitaria le concepiva quale atto imparziale socialmente necessario. Nel respingere la teoria retributiva i riformatori tentavano in effetti di togliere alla pena qualsiasi carattere di vendetta. Nella giustificazione che se ne dava al prigioniero, la pena non doveva pi essere, secondo le parole di Bentham, un atto di collera o di vendetta, ma un calcolo regolato da considerazioni sul bene sociale e sul benessere dei trasgressori (Ignatieff 1989, p. 83). [12] Per esempio: la Francia in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam, Israele a Gaza e in Cisgiordania e i Britannici ad Aden, a Cipro e nellIrlanda del Nord. [13] U.S. Department of State, 1994, Country Reports on Human Rights Practices for 1993, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, p. 1204. [14] Questa precisamente largomentazione di Bentham riguardo alla razionalit della tortura in confronto alla punizione: Lintento per cui si fa ricorso alla tortura tale che ogniqualvolta questo intento sia raggiunto, essa viene immediatamente cessata. Con lazione punitiva succede necessariamente altrimenti. Per quanto riguarda la punizione, infatti, per essere sicuri di applicarla per il tempo necessario si deve normalmente correre il rischio di applicarla troppo a lungo. Nel caso della tortura invece 120
non c mai bisogno di infliggerla un secondo pi del necessario. Jeremy Bentham in James 1973, p. 45. [15] Non bisogna dimenticare che anche la guerra medievale aveva le sue regole; si veda ad esempio Contamine 1984. In un certo senso la regolamentazione morale della condotta in guerra era ancora pi rigorosa nel basso medioevo: uccidere e mutilare il nemico, anche se durante una battaglia, erano considerati peccati per cui la Chiesa richiedeva la confessione. Si veda Russell 1975. [16] Riguardo alla pallottola schiacciata o dum dum, utilizzata per la prima volta nellIndia britannica nel 1897, Daniel Headrick osserva: Questa particolare invenzione era cos immorale, perch causava dei grossi fori nella carne, che gli europei ritennero troppo crudele usarla tra loro e la utilizzarono solo contro asiatici e africani (Headrick 1979, p. 256). [17] Il paradosso qui che il cittadino moderno un individuo libero ma obbligato a rinunciare alla pi importante scelta riservata ad un essere umano, quella che concerne la propria vita o morte. Lo Stato moderno pu spedire i propri cittadini verso una morte in guerra che essi stessi non hanno voluto e non permettere loro di vivere in pace. [18] Cfr. laffermazione di McClintock (1993, p. 106): Il sadomasochismo la pi liturgica delle forme e condivide con la cristianit uniconografia teatrale di punizione ed espiazione: rituali del lavaggio, asservimento, body- piercing e tortura simbolica. Ma perch solo simbolica? [19] Si veda ad esempio Linden. et al. 1982; si vedano anche i giudizi legali sul caso Spanner in Inghilterra, contro cui in corso un appello alla Corte Europea. [20] La natura radicale della critica sociale che il sadomasochismo dice di esprimere esposta efficacemente in McClintock 1993 Ma le implicazioni liberatorie del sadomasochismo sono esplicitamente ritrattate alla fine dellarticolo. Si veda anche lintelligente lavoro di Angela Carter (1979) Tali scritti, se da una parte forniscono una decodificazione politicamente radicale del sadomasochismo, sembrano anche sostenere che, in quanto modo per ottenere lorgasmo, il sadomaso il prodotto di relazioni socialmente distorte e sessualmente repressive.
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LAtto del testimoniare. Violenza, conoscenza avvelenata e soggettivit Veena Das
(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 215-246; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)
In questo articolo vorrei discutere il significato della testimonianza in relazione alla violenza e alla formazione del soggetto. Una caratteristica importante della violenza catastrofica prodotta dalla Spartizione dellIndia nel 1947 e, pi recentemente, dalle guerre etniche nella ex-Jugoslavia stata la durezza della violenza contro le donne (si vedano Das 1995a, 1997; Menon, Bhasin 1998; Butalia 1998). Le violazioni incise sul corpo femminile (letteralmente e metaforicamente) e le formazioni discorsive riguardanti queste violazioni hanno reso visibile limmaginazione della nazione come nazione maschile. Quali ne sono state le conseguenze per la soggettivit delle donne? Come hanno sostenuto molti contributi recenti alla teoria del soggetto, lesperienza del divenire soggetto fortemente collegata allesperienza della sottomissione (Butler 1997; Mohanty 1993). Quindi necessario chiedersi non solo come le donne siano state rese vittime di violenza etnica o comunitaria, attraverso specifici atti di violenza di genere come lo stupro, ma anche come esse abbiano colto questi segni nocivi di violenza e se ne siano riappropriate attraverso un lavoro di addomesticamento, ritualizzazione, e ri-narrazione. In alcuni dei miei primi articoli su questo argomento ho analizzato le formazioni discorsive attraverso le quali nei discorsi del potere veniva attribuito un particolare tipo di soggettivit alle donne vittime di stupro e rapimento (Das 1995a). Ma la formazione della soggettivit femminile, per quanto influenzata da questi discorsi, non interamente determinata da essi. Ho sostenuto che le donne parlano delle loro esperienze ancorando i loro discorsi al genere del lutto e del pianto funebre, un lavoro culturale in cui disponevano di un ruolo gi assegnato (Das 1986, 1990, 1997; si vedano anche Briggs 1993 e Seremetakis 1991); ma parlano del dolore e della violenza tanto allinterno di questi generi quanto al di fuori di essi. Attraverso complessi rapporti tra corpo e linguaggio, le donne sono state capaci tanto di dare voce al male che era stato fatto loro, quanto di mostrarlo, come anche di rendere testimonianza del male perpetrato nei confronti dellintero tessuto sociale il danno fatto allidea stessa che gruppi diversi possano abitare insieme il mondo. In questo articolo vorrei analizzare che cosa significhi essere un testimone di violenza e parlare della morte delle relazioni. Nellimmaginario letterario occidentale la figura di Antigone come testimone ci fornisce una sorta di mito di fondazione che esplora le condizioni nelle quali la coscienza pu trovare una voce al femminile. Hegel, com noto, riconobbe un conflitto di strutture in questo racconto. Secondo la sua lettura, Creonte opposto ad Antigone come un principio di legge opposto ad un altro: lopposizione tra la legge dello Stato e la legge della famiglia.
La legge pubblica dello Stato in aperto conflitto con lintimo amore familiare e il dovere verso il fratello; linteresse familiare ha come pathos la donna, Antigone, la salute della comunit Creonte, luomo. Polinice, combattendo contro la propria citt natale, era caduto di fronte alle porte di Tebe; Creonte, il sovrano, minaccia di morte, con una legge pubblicamente bandita, chiunque dia lonore della sepoltura a quel nemico della citt. Ma di questordine che riguarda solo il bene pubblico dello Stato, Antigone non si cura, e come sorella adempie al sacro dovere della sepoltura, per la piet del suo amore per il fratello (Hegel 1986, p. 522).
Finch, con Hegel, guardiamo al dialogo come elemento costitutivo la scena della rappresentazione, difficile trovare in questa tragedia altri significati al di fuori del conflitto di questi due discorsi. Di contro, Jacques Lacan ci 122
invita a spostare lo sguardo sulla posizione tragica di Antigone. Qual la natura della zona che Antigone occupa in questo scenario? Lacan lo specifica in vari modi: come limite, come un evento tra due morti, come il punto nel quale la morte in lotta con la vita. La scena della morte di Antigone rappresentata in questa zona particolare e soltanto da l potr essere pronunciato un particolare tipo di verit. Lacan rifiuta linterpretazione di Hegel in base alla quale Creonte si opporrebbe ad Antigone come un principio di legge si oppone ad un altro. Al contrario, egli pi in sintonia con la visione di Goethe secondo la quale, colpendo Polinice, Creonte avrebbe oltrepassato il limite. Il problema, secondo Lacan, non si pone nei termini di una legge che si oppone ad unaltra, ma piuttosto bisogna chiedersi se la legge di Creonte potesse comprendere in se stessa qualsiasi cosa, inclusi i riti funerari. Per Lacan non si tratta mai di un diritto opposto ad un altro, ma di un torto contro qualcosa che non pu facilmente trovare un nome. Lacan insiste sul fatto che la passione di Antigone non si rivolge ai sacri diritti del morto: non parla in favore dei diritti della famiglia contro le norme di legge. Egli rivolge invece lattenzione al famoso passaggio del discorso di Antigone che ha causato molte discussioni tra i commentatori. Si tratta del discorso che Antigone pronuncia a giochi fatti: la sua cattura, il suo rifiuto di obbedire, la sua condanna, il suo lamento sono episodi gi occorsi. Nel momento in cui pronuncia il suo discorso, Antigone di fronte alla tomba in cui sta per essere seppellita viva. Il discorso cos parafrasato da Lacan:
Sappiatelo, non avrei sfidato la legge dei cittadini per un marito o per un figlio a cui fosse stata rifiutata la sepoltura, poich dopotutto, essa dice, se avessi perduto un marito in queste condizioni avrei potuto prenderne un altro, e se insieme al marito avessi perduto anche un figlio, avrei potuto fare un altro figlio con un altro marito. Ma qui si tratta di mio fratello, nato dallo stesso padre e dalla stessa madre (Lacan 1986a, p. 323).
Sembra che qui ci siano due momenti: il primo che Antigone si mossa verso quel limite oltre il quale il s si separa in una parte che pu essere distrutta e una che deve invece durare. Antigone pronuncia questo discorso quando pu immaginarsi gi morta - e tuttavia sopporta questo terribile gioco del dolore non per affermare i propri desideri ma la non-sostituibilit del fratello. Lacan, prendendo la voce di Antigone, dice:
Mio fratello tutto quel che volete, il criminale [] Per me questordine che voi osate intimarmi non conta niente, perch per me, in ogni caso, mio fratello mio fratello (Lacan 1986b, p. 351).
Per Lacan sembra chiaro che Antigone, parlando da quella zona tra due morti, pu dar voce allunicit dellesistenza. La verit in nome della quale parla va oltre le leggi dello Stato e si potrebbe affermare che, ribadendo lunicit del suo fratello criminale, la sua passione evochi il crimine sottostante alla legge della citt. Questa unimportante formulazione sul modo in cui la voce emerge in un momento di trasgressione. Eppure ci che distingue la formulazione di Lacan dalle centinaia di articoli che appaiono ogni anno sul desiderio, sul piacere, sulla trasgressione e sulla posizione del soggetto che laffermazione dellunicit dellessere contro ci che scritto nella legge non ha a che fare con la sottomissione allimmediatezza del desiderio. Al contrario: la zona tra le due morti identificata come la zona dalla quale pu essere affermata lineffabile verit sulla natura criminale della legge. Perch Antigone che deve affermare lunicit della persona che stata condannata come criminale dallo Stato e che questo vuol consegnare alleterno oblio? Per Lacan, linsostenibile verit sostenuta da Antigone troppo terribile per essere sopportata. Infatti, nel mettere in discussione la legittimit di una regola che cancella lunicit dellesistenza persino nella morte, la donna mostra la criminalit dello stesso ordine sociale. Questa verit, dice Lacan, ha bisogno dellinvolucro della bellezza che la nasconda e allo stesso tempo, 123
tuttavia, la renda disponibile allo sguardo. Si pu leggere in ci un certo sospetto per la visione, che alcuni autori hanno notato in Lacan; ma la relazione tra voce e visione risulta assai complicata nellarticolazione di questa insostenibile conoscenza. Il tema della donna che prende la parola mentre occupa la zona tra due morti svolge un ruolo importante nellimmaginario indiano. E un tema che poggia sulla suddivisione sessuata di parola e silenzio nel lamento funebre, ma al tempo stesso si separa da essa. La verit articolata da questa zona per raramente avvolta nella bellezza e nello splendore, come pure testimonierebbero le ben note figure femminili della mitologia indiana, come le dee Kali o Sitala. Invece di guardare a questo contrasto a livello dellimmaginario, cos come articolato nella mitologia e nella letteratura, vorrei spostare la discussione in una direzione diversa. Si pu testimoniare della criminalit della norma sociale che consegna lunicit dellessere alloblio eterno, non attraverso un atto di drammatica trasgressione, bens attraverso una discesa nella vita quotidiana? Come possibile articolare la perdita non semplicemente attraverso un atto di ribellione drammatica, ma imparando piuttosto ad abitare il mondo, o ad abitarlo di nuovo, da una posizione di lutto? In questo contesto si pu identificare locchio non come lorgano che vede ma come lorgano che lacrima. La formazione del soggetto come soggetto di genere ha dunque a che fare con transazioni complesse tra la violenza come momento originario e la violenza che si infiltra nelle relazioni esistenti e diviene una sorta di atmosfera che non pu essere espulsa verso lesterno. Voglio riproporre a questo punto lidea di Wittgenstein della non esistenza di un esterno e la sua immagine del tornare indietro, sebbene il contesto in cui egli parlava fosse ovviamente diverso.
Lideale, nel nostro pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne. Devi sempre tornare indietro. Non c alcun fuori; fuori manca laria per respirare (Wittgenstein 1953, 103, p. 64)
Questa immagine del tornare indietro evoca lidea non tanto di un vero e proprio ritorno, quanto di un retrocedere ad abitare lo stesso spazio che ora segnato come spazio di distruzione, ma in cui si deve vivere di nuovo. Da qui il senso della quotidianit in Wittgenstein come senso di qualcosa di recuperato. Come ci si possa riappropriare di un tale spazio di distruzione non attraverso unascesa nella trascendenza ma attraverso una discesa nella vita di ogni giorno ci che descriver attraverso la vita di una donna, qui chiamata Asha. Se il personaggio di Antigone ci ha fornito un modo in cui possiamo pensare alla voce come ad una creazione spettacolare e ribelle del soggetto attraverso latto del discorso, la figura di Asha mostra la creazione del soggetto di genere attraverso limpegno in una conoscenza che ugualmente avvelenata ma affrontata attraverso il lavoro quotidiano della riparazione.
Il contesto etnografico
Questo articolo si basa su una ricerca che ho condotto tra le famiglie urbane del Punjab, alcune delle quali trasferite in seguito alla Spartizione dellIndia. Negli anni 1973 e 1974 sono stata impegnata nello studio di una rete di famiglie del Punjab residenti in citt, con lobiettivo di capire il loro sistema di parentela (Das 1976). Il nucleo di questa rete di parentela era localizzato a Delhi e consisteva di dieci famiglie che erano fuggite da Lahore al tempo della Spartizione. Altre famiglie in questa rete si erano sparse in molte citt, incluse Amritsar, Bombay, Calcutta, Ferozpur, Ludhiana, Jullundher e Simla. Negli stadi iniziali del mio lavoro sul campo ho raccolto la terminologia riferita alla parentela, ho ricostruito genealogie, registrato transazioni di doni, e cercato di ricostruire le alleanze matrimoniali. Allora ero molto interessata alle politiche della parentela e per questo assistevo da vicino alle discussioni 124
durante i matrimoni o i funerali e alle narrazioni relazionali che venivano ossessivamente discusse e dibattute. La Spartizione ha creato differenze significative di ricchezza e di reddito allinterno della rete di parentela: quindi laiuto di coloro che sono sopravvissuti meglio di altri alla distruzione ha rappresentato una componente essenziale delle strategie di sopravvivenza. Questo aiuto ha preso la forma delladozione o dellaffidamento dei bambini di un parente morto o divenuto indigente, oppure si tradotto in aiuti materiali sotto forma di doni, ospitalit temporanea o prestiti di denaro. Ai parenti che erano fuggiti da Lahore o Gujranwala veniva offerto un tetto da parte dei parenti pi fortunati che avevano case sul lato indiano del confine. Eppure, laltra faccia di queste relazioni di parentela era la costante allusione al tradimento della fiducia, alle infedelt e allincapacit di conformarsi agli alti ideali morali della solidariet tra parenti. Il modo in cui queste delusioni nelle relazioni venivano messe in scena, la performance delle accuse e la delicata codifica dei riferimenti a favori fatti in passato o a relazioni tradite formavano lestetica della parentela (v. Das 1976, 1990, 1995). Non esisteva nessun tab nel riferirsi alla Spartizione o alle case che erano state lasciate. Eppure la violenza personale subita o i tradimenti dei quali stavo diventando lentamente consapevole sembravano essere sempre al margine della conversazione. Cera unestetica sottile su che cosa poteva essere dichiarato tradimento e cosa poteva soltanto essere sepolto nel silenzio. Le memorie della Spartizione non avevano quindi natura di qualcosa di sotterraneo, represso o nascosto, che avesse bisogno di essere riportato alla luce. In qualche modo questi ricordi erano molto presenti in superficie. Eppure, intorno ad essi si erano create delle barriere: lo stesso linguaggio che si faceva carico di queste memorie aveva un certo gusto straniero, come se il punjabi o lhindi in cui se ne parlava fossero un qualche tipo di traduzione da unaltra lingua sconosciuta. Per il momento butto l questa idea, che potrebbe servire a concettualizzare ci che molti hanno definito linguaggio interno, e passo dai problemi delle rappresentazioni alla nozione di lavoro nella formazione del soggetto. Una caratteristica del mio lavoro era il tentativo di comprendere la vita delle donne attraverso la concretezza delle relazioni in cui esse erano coinvolte. Le nostre lunghe conversazioni avvenivano nei contesti normali della vita quotidiana: non si trattava dunque di racconti in risposta alla domanda Che cosa successo?. Vorrei prima di tutto descrivere il caso di Asha, in cui, come vedremo, il momento originario della violenza della Spartizione si intrecciato con gli eventi della sua vita, poich Asha in quanto vedova era gi vulnerabile nelluniverso etico dei legami di parentela di una casta superiore hindi. Ma essere vulnerabile non la stessa cosa che essere una vittima e coloro che sono inclini a dare per scontato che le norme sociali o le aspettative relative alla vedovanza si tramutino automaticamente in oppressione devono tenere nella dovuta considerazione lo scarto tra una norma e la sua messa in atto.
Vedovanza e vulnerabilit
Asha aveva cinquantatr o cinquantaquattro anni quando lho conosciuta. Sposata ad un membro di uninfluente famiglia della casta dei commercianti, aveva vissuto con il marito e i suoi due fratelli maggiori, a loro volta sposati, nella casa di famiglia a Lahore. Era rimasta vedova allet di ventanni, nel 1941. Suo marito prese la febbre tifoide e mor dopo tre settimane di malattia. Era il fratello pi giovane di una famiglia affettivamente molto unita e inoltre aveva una relazione molto stretta con le due sorelle maggiori sposate, che lo avevano di fatto cresciuto, visto che la madre era morta di parto. Asha disse che il dolore delle sorelle di suo marito era stato tanto forte quanto il suo. Ricordava il primo periodo del suo lutto come un periodo in cui aveva ricevuto grandissimo affetto e supporto da tutti loro. Continu a vivere con la famiglia del fratello pi anziano del marito. Il fatto di non avere figli le pesava moltissimo. Disse che aveva perso qualsiasi interesse per la vita. Al fine di risvegliare il suo interesse per la vita, la sorella pi giovane di suo 125
marito le diede suo figlio in adozione. Il figlio non era stato allontanato dalla propria madre, ma si supponeva che, una volta adulto, egli si sarebbe preso la responsabilit di prendersi cura di lei. Accordi di questo genere erano comuni allinterno di un gruppo di parentela anche trenta anni fa, poich le donne spesso trattavano i figli come condivisi (Bache te ji sajhe honde hain; letteralmente: I figli appartengono a tutti). Non era quindi inusuale che attorno ad un unico bambino si sviluppassero vari tipi di relazioni. Questo era il modo in cui una comunit di donne si prendeva cura di un membro particolare che aveva sofferto un lutto. In qualche modo le donne sviluppavano dei sottotesti culturali, che erano ancorati ai testi patriarcali e dominanti della societ e che per creavano spazi per nuove relazioni affettive. In questo caso, per esempio, sarebbe stato fuori discussione consentire che la vedova adottasse un bambino al di fuori del gruppo patrilineare di parentela: assegnandole invece un bambino proveniente dallinterno del gruppo di parentela come specialmente suo si intendeva creare una relazione speciale tra di loro. Nella comprensione e costruzione della natura umana da parte delle donne, si sentiva che, per una donna, la mancanza della maternit era un grave problema; cos le sorelle del marito cercavano di riempire il vuoto nella vita di Asha. Si potrebbe obiettare che questa stessa costruzione del bisogno femminile costringa la donna ad investire il desiderio nella maternit piuttosto che, diciamo, nella sessualit: essa costruisce quindi il s femminile in accordo con i paradigmi culturali dominanti. Questo vero, ma dobbiamo anche notare che le rappresentazioni culturali non definiscono mai completamente il s. Se il contesto sociale si altera improvvisamente, una diversa definizione del bisogno femminile pu essere sviluppato dalla donna stessa o da altri attori sociali. Le vite individuali risultano cos definite dal contesto, ma sono anchesse generative di nuovi contesti. Cos era stato per Asha il periodo turbolento della Spartizione, nel quale sembravano ridefinirsi i rapporti tra norme sociali e nuove forme di soggettivit. Non che le vecchie posizioni di soggettivit fossero state semplicemente abbandonate: piuttosto erano nati nuovi modi in cui persino i segni delle ferite potevano essere abitati. In questo senso, la domanda di come ci si possa appropriare del mondo per Asha doveva essere posta nuovamente: Asha si muoveva tra strade diverse nelle quali poteva trovare i mezzi per ricreare le proprie relazioni, a fronte della conoscenza avvelenata che si era infiltrata allinterno di queste. Durante la Spartizione la famiglia acquisita di Asha aveva perso tutto ed era stata costretta a scappare da Lahore a mani vuote. La sorella maggiore di suo marito mor nelle rivolte. Non mai stato chiaro se si fosse uccisa o se invece fosse stata rapita. In tutti i racconti su Lahore che ho ascoltato presso la famiglia, questo periodo rimaneva sempre oscuro. Ad esempio ho visto fotografie dellintera famiglia in cui questa donna successivamente deceduta - appare in diversi contesti felici. Le occasioni in cui le fotografie venivano mostrate davano vita solitamente a racconti dellevento ritratto nella foto, ma non veniva fatto alcun riferimento allattuale assenza della donna. Una domanda del tipo Che cosa le accaduto? incontrava una risposta superficiale come E morta in quel periodo. Come ho spiegato prima, nei mesi direttamente precedenti e seguenti alla Spartizione, le sistemazioni abitative erano molto instabili: le persone si spostavano da un posto allaltro in cerca di lavoro, di abitazioni e di modi di riformulare la loro esistenza. La famiglia di origine di Asha viveva ad Amritsar, la citt pi vicina al confine sul lato indiano e divenne per questo la prima fonte di aiuto per la sua famiglia acquisita. Asha ricord che una volta nella loro casa venne data ospitalit contemporaneamente a quaranta parenti. Lentamente, nel giro di qualche mese, quando altri parenti a Simla, Dehli e Ferozpur si fecero avanti per aiutare, i parenti acquisiti di Asha iniziarono a spargersi in posti diversi. Asha rimase con il suo figlio adottivo presso la famiglia di suo padre, ma mentre i suoi genitori si mostravano disponibili, suo fratello e la cognata non avevano intenzione di accollarsi questo peso in pi. La cosa non sarebbe mai venuta fuori esplicitamente, ma veniva comunicata attraverso discorsi velati ed una particolare estetica dei gesti. Come ogni enunciato che prende significato dal contesto (il che non 126
significa che non possa essere esso stesso generativo di contesto), i frammenti del suo discorso che citer sono pieni di parole non dette, gesti performativi e di un intero repertorio di informazioni culturalmente dense che circondano le espressioni. Non voglio certo suggerire una nozione oggettivata del significato (Qui una parola, l un significato come si esprimeva Wittgenstein), ma mi pare che compilare questo repertorio, a cui alludono i frammenti, ci permetta di costruire il significato come un processo in cui le espressioni enunciate derivano il loro significato dal mondo della vita piuttosto che da nozioni astratte di semantica strutturale.[1] Asha filosofeggiava su ci che considerava come riluttanza di suo fratello a darle una casa nel modo seguente:
Il cibo di una figlia non mai un peso per i suoi genitori, ma quanto a lungo vivranno i genitori? Quando persino due pezzi di pane sembrano troppo pesanti ad un fratello, allora meglio mantenere il proprio onore mettersi il cuore in pace - e vivere nel posto in cui si destinati a vivere.
La formulazione di Asha - un enunciato indicativo - costituisce anche il suo rimprovero alla vita. Ne offro unesegesi prendendo espressioni diverse di questa formulazione e aggiungendo la densa codifica culturale che si pu dire fornisca il contesto per comprendere il suo rimprovero.[2] Primo frammento
Il cibo di una figlia non mai un peso per i suoi genitori, Beti di roti ma pyo te pari nahin hondi,
Asha si rif qui allidea culturale che sebbene le norme di parentela orientino una figlia verso i propri affini, la famiglia di origine ha alcuni obblighi residui verso le figlie sposate che abbiano avuto sfortuna. Una donna pu sempre rivendicare il diritto di ricevere aiuto dalla madre o dal padre in caso di disgrazia; i genitori non considerano lobbligo di prestare aiuto alla figlia come un peso, per via dellamore che nutrono per la figlia (anche se bisogna notare che viene sottolineato che si tratta solo di aiuto finalizzato alla sopravvivenza: se i genitori cercassero di dare di pi alla figlia, ci creerebbe risentimento tra i figli maschi, che si ritengono gli eredi legittimi). Quindi il cibo che la figlia reclama presso la casa paterna non sentito dai genitori come un peso (cio come un carico gravoso). Qui chiaramente Asha prende la voce della figlia per rivendicare un diritto, attribuendo una forma di soggettivit ai genitori: eppure si sa che nella vita punjabi questo diritto si realizza raramente, spingendo la figlia ad un esilio permanente.[3]
Secondo frammento
ma quanto a lungo vivranno i genitori? ma-pyo kine din rehenge?
Quando una figlia sposata fa una richiesta ai propri genitori perch sta affrontando un periodo di disgrazia nella casa del marito, la donna tende a dimenticare che il tempo cancella le relazioni. Arriver inevitabilmente un momento in cui i genitori non saranno pi l ad accoglierla: il potere passer nelle mani di suo fratello e di sua moglie. Allora i due pezzi di pane sui quali lei rivendica il diritto nella casa dei propri genitori diverranno un peso per suo fratello e per sua cognata. Una figlia deve sempre tenere a mente la natura effimera delle proprie rivendicazioni sui beni paterni. Il concetto di tempo come distruttore delle relazioni si incontra come un ritornello costante nella vita punjabi e d conto del fatto che il momento attuale, in cui si sta vivendo, immaginato in relazione al momento eventuale. Il soggetto quindi concepito come un soggetto plurale che abita il momento presente ma che parla anche come se stesse gi occupando un momento nel futuro. Ci ha implicazioni importanti per la comprensione della profondit temporale in cui il soggetto si costituisce e del modo in cui la memoria traumatica 127
dischiude il tempo, rappresentandosi il buio presente da un punto di vista gi proiettato nel futuro.
Terzo frammento Quando persino due pezzi di pane sembrano troppo pesanti ad un fratello Jad do rotiyan wi apne hi pra nun pari pein lagan
Nella societ Punjabi la relazione tra fratelli riconosciuta come carica di tensioni che derivano dal loro status di co-eredi. C una tensione ulteriore tra il principio di gerarchia, in virt del quale il fratello maggiore deve essere trattato come un padre poich eredita lobbligo morale di prendersi cura dei fratelli minori, e il principio di eguaglianza, in ragione del quale tutti i fratelli hanno uguali diritti sulle propriet di famiglia e devono essere trattati come uguali. Diversamente la relazione tra fratello e sorella valorizzata come una relazione sacra in cui la sorella fornisce protezione spirituale al fratello e in cambio, in segno di onore, le si porgono doni nella casa del fratello[1](Bennett 1983). Una sorella sposata che faccia visita in occasioni rituali, porti doni ai figli del fratello, come si conviene, e riceva doni dati liberamente e con affetto dalla casa del fratello si dice che porti onore ad entrambe le famiglie. Invece una sorella sposata indigente, che sia stata costretta ad abbandonare la casa della famiglia del marito e a trovarsi un posto nella casa del fratello, diventa oggetto di diffidenza, specialmente da parte della cognata, la quale teme che possa usare la sua posizione di figlia benvoluta per usurpare una parte delle propriet del fratello. Molte canzoni di donne colgono questa sensazione della donna sposata di essere unesule: il suo desiderio di fare visita alla casa paterna viene percepito dal fratello come una scusa per richiedere una parte della propriet del padre (v. Trawick 1986). Ecco perch i due pezzi di pane che la sorella consuma sembrano un peso: si riferiscono ad un tempo nel quale langoscia della sorella non verr pi udita nella casa natale. Questa visione del futuro rende insopportabile per Asha immaginare la propria trasfigurazione da figlia e sorella benvoluta a peso per la famiglia. E importante notare che Asha non si sta lamentando del rifiuto che ha gi vissuto ma sta immaginando in quale direzione potr procedere la sua storia allinterno di un possibile sviluppo sociale di tali storie. Quarto frammento allora meglio mantenere il proprio onore - pher apni izzat bacchaye rakho - Asha sa che in queste mutate circostanze i suoi parenti acquisiti sarebbero costretti ad aiutarla. Allora meglio mantenere il proprio onore, dice, sopportando lumiliazione nella casa acquisita, cosa che considerata il dovere di ogni donna. Invece la casa dei genitori immaginata come un posto dove lei gode del diritto di ricevere onore. Se essa non riesce a prevedere linevitabile inasprimento delle relazioni e rivendica ci che suo diritto, perder il proprio onore. Eppure si notano segnali di disappunto per il fatto che la storia individuale non possa trascendere la trama culturalmente data nei cui termini Asha immagina la temporalit della relazione fratello- sorella.
mettersi il cuore in pace shanti banaye rakko - Riconciliarsi non ha il senso di una sottomissione passiva ma di un impegno attivo: il fare costantemente piccole cose che ti faranno vedere dalla famiglia sotto aspetti diversi da quello di una vedova, cio un peso. Per esempio se Asha deve far scomparire completamente la propria sessualit, deve per esser sempre disponibile per faccende dalle quali gli altri si tirano indietro: arrotolare papads per ore, pulire il sedere di un bambino, macinare o pestare spezie. Allo stesso modo lespressione di affetto deve essere gestita attentamente (v. Trawick 1990). La faccia di Asha, per confarsi a quella di una vedova, deve sempre portare la presenza del dolore - la riga dei capelli, privata del benaugurante rosso vermiglio, come lei mi disse, era il simbolo di tutto ci che ha a che fare con un vuoto nel cosmo. La performance 128
dellidentit di genere della vedovanza ha la forza di un rituale sociale obbligatorio. Eppure se il dolore viene messo in piazza in modo troppo vistoso mette tutti a disagio, come se ridendo o gustando un cibo speciale si stesse tradendo un fratello morto, o uno zio. C qui una speciale estetica dei sensi. Una vedova, in particolare una giovane vedova senza figli, comprende la propria vulnerabilit perch deve introiettare nel proprio comportamento la credenza culturalmente condivisa che lei di cattivo auspicio: tutti i segni esterni con cui si trasmette il suo status malaugurante sono incorporati in lei. Eppure la relazione che lei ha con il suo corpo non semplicemente una sovrapposizione di questo s esteriore su quello interiore. Asha fa venire a mente a tutti i membri della famiglia un fratello molto amato, morto prematuramente, ma questi ricordi non devono interferire con la necessit di andare avanti con la vita. Il viso di Asha, il suo corpo devono costantemente rappresentare questa estetica. Ripeto che non intendo dire che esistono sentimenti, pensieri e sensazioni che sono interni e, dallaltra parte, un comportamento esterno; invece lintero portamento del corpo, in quanto fornisce segni esterni attraverso i quali gli altri possono leggere linterno, a rappresentare unazione importante, incardinata, in questo caso, nella grammatica della vedovanza nella societ indiana.
e vivere dove si destinate a vivere. te jithe kismat lei gayi, othe hi rao. C qui un riferimento allidea culturale che il destino di una donna sia nella casa del marito. Questa nozione pi volte ripetuta alle ragazze, la cui socializzazione pone laccento sul loro futuro nella casa del marito. Le donne pi anziane spesso esprimevano lidea che una ragazza dovrebbe entrare in casa del marito sulla portantina nuziale (doli) e uscirne per abbandonarla solo tenuta sulle spalle da quattro uomini, da cadavere. Lesegesi di questa singola affermazione ci fa capire quanto della voce di Asha stato formato dalle norme culturali e patriarcali sulla vedovanza, eppure bisogna ricordare che prima della Spartizione Asha non avrebbe dovuto prendere in considerazione queste scelte. Non che le norme fossero diverse in precedenza, ma la composizione della famiglia e, in particolar modo, la stretta relazione che aveva con la sorella del marito non davano a tali norme la forza che esse acquisirono in seguito. Per quanto vedova, Asha si sentita amata ed stata aiutata dalla famiglia acquisita, cosa che le ha fatto sentire di avere un posto legittimo allinterno di essa. Con la Spartizione si assistette ad un enorme declino delle fortune della famiglia. Ogni unit della precedente famiglia allargata doveva affrontare nuovi e allapparenza insormontabili problemi. Dove avrebbero vissuto? Dove sarebbero andati a scuola i figli? Uno dei figli era pronto per la scuola di medicina. Dove avrebbe trovato suo padre i soldi per la sua istruzione? Con le nuove tensioni cui erano ora soggette le famiglie, Asha not una sottile differenza nel modo in cui veniva trattata. Mentre prima la morte di suo marito veniva vista come una grande disgrazia che le era accaduta, adesso le veniva affibbiata la colpa della sua morte: a poco a poco veniva a trovarsi in una posizione di capro espiatorio. A volte le donne della sua famiglia acquisita, cio la moglie del fratello di suo marito e la sorella di suo marito, avrebbero fatto allusioni al fatto che lei non era stata capace di richiamare indietro il marito dalle soglie della morte per riportarlo in vita. Come riportava Asha
Iniziarono ad insinuare lidea che mio marito fosse molto insoddisfatto del mio aspetto. Lui era un uomo cos bello e io una donna cos comune. Dissero che forse aveva perso interesse per la vita, perch in realt non gli piacevo. Queste parole mi fecero sentire cos in colpa e piena di rimorsi che ho pensato spesso di uccidermi[4]
Asha si spost tra la sua famiglia di origine, la famiglia del fratello di suo marito e la famiglia della sorella di suo marito per i successivi quattro anni. In parecchie conversazioni, ecco ci che mi ha comunicato:
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Ho cercato di rendermi utile ovunque. Lavoravo notte e giorno. Ero cos affezionata ai bambini da essere preparata a sopportare qualsiasi cosa per il loro bene. Ma presto gli scherni divennero pi pesanti. E ci che fu insostenibile fu il fatto che il mio jija ji (cognato), che nel frattempo era rimasto vedovo, inizi a farmi proposte sessuali alle quali era molto difficile resistere. Ero combattuta tra la lealt verso il mio defunto marito, sua sorella che avevo amato molto e i nuovi tipi di bisogni che sembravano essere risvegliati dalla possibilit di una nuova relazione. Ho iniziato a capire che sarei sempre stata la persona adatta per gli esperimenti. Lui non propose mai di sposarci, cosa che avrebbe creato uno scandalo poich io avevo vissuto a lungo nella loro casa.[5] Alla fine scrissi ad un grande amico di mio marito che viveva a Puna. Mi propose di andare a trovare la sua famiglia. Quando fui a Puna, lui mi persuase che avevo una lunga vita di fronte e che se non volevo essere costantemente degradata avrei dovuto risposarmi. A Puna cera un uomo ricco. Sua moglie lo aveva lasciato. Era molto pi vecchio di me, ma questo amico ci ha combinato un matrimonio. Allora ho scritto sia alla mia famiglia di origine (peke) che ai membri della mia famiglia acquisita (saure) che mi ero risposata. Ci fu una terribile esplosione dira: giurarono che non mi avrebbero pi voluta vedere. Dissero che con il mio comportamento li avevo disonorati. E, sicuramente, li avevo disonorati. Mi avevano coperta di cos tanto affetto, finch la loro vita non era stata distrutta, e io li avevo ripagati insozzando i loro turbanti bianchi (pagdis).[6] Non avrebbero potuto pi mostrarsi in pubblico. Ma io non potevo farci nulla.
Quello che segu fu un periodo di grande tensione per Asha. Sebbene si fosse risposata e nei successivi quattro anni avesse avuto due figli, sembrava non essere capace di dimenticare i legami con la precedente famiglia acquisita. Anche il suo nuovo marito sembrava poco incline a recidere i legami con la sua prima moglie, che veniva spesso a trovarli dal suo villaggio e ribadiva i diritti dei suoi figli sulle propriet e sullaffetto del padre. In effetti, uno dei suoi figli torn a vivere col padre e sembrava considerarsi il legittimo erede delle sue propriet. Dopo i molti colloqui informali avuti con Asha su questo argomento, la mia impressione era che si considerasse pi la concubina del suo nuovo marito che sua moglie. Ad esempio quando le chiesi come si sentisse, lei che era ancora una giovane donna, quando la ex moglie di suo marito veniva in visita a casa loro, Asha sembr un po sorpresa e disse: ma lei aveva il diritto di venirlo a trovare. Questo modo di dare vita a nuove relazioni senza mai abbandonare i precedenti legami coniugali potrebbe dipendere dalla forte valenza religiosa attribuita alla relazione coniugale che, secondo Obeyesekere (1984), sta al centro dei valori bramanici. Ci che mi sorprendeva, comunque, era che Asha non sembrava preoccuparsi tanto del primo marito quanto della sorella che gli era sopravvissuta e del bambino che le era stato affidato. Asha fece tutto il possibile per ristabilire i legami spezzati con la famiglia del suo primo marito, riferendosi sempre ad essa come a quella casa: os ghar nal sambandh bana rahe (possano le relazioni con quella casa continuare). Questo interessante quando si consideri che queste relazioni avrebbero potuto facilmente essere cancellate dalla sua vita, perch fonte di ricordi dolorosi. Inoltre, sebbene lei non ne abbia mai parlato, mi sembra che non debba esser stato semplice per lei spiegare il suo continuo attaccamento verso quella famiglia alla luce del suo tanto malvisto secondo matrimonio. Durante i primi cinque anni di matrimonio con il suo secondo marito, continu a scrivere lettere alla sorella, ancora in vita, del primo marito. Da lei aveva saputo che non cera alcuna possibilit di riallacciare i rapporti. La sorella pi anziana del primo marito, come ho detto, era morta in circostanze che non sono mai state chiarite. Linteresse sessuale mostrato dal marito della donna deceduta nei confronti di Asha e limbarazzo che questo aveva creato in lei lo avevano forse portato ad un atteggiamento difensivo nei suoi confronti. Il risultato era che il cognato attaccava la moralit di Asha in modo molto violento. Ma la sorella pi giovane del marito continu a tentare 130
un riavvicinamento e alla fine, a distanza di otto anni dal suo secondo matrimonio, Asha venne invitata ad andare a trovare la famiglia. Ero curiosa di capire perch per lei era cos importante mantenere la relazione con la precedente famiglia acquisita. Asha rispose di sentire un profondo attaccamento verso la sorella del marito che le aveva dato il suo figlio minore. Sentiva anche che, andandosene, aveva fatto pensare al bambino di non avere alcuna importanza nella sua vita, mentre Asha sentiva di dovere la propria vita al bambino e a sua madre. Bisogna anche considerare la profondit temporale in cui Asha vedeva le sue relazioni.
Quando mi sono sposata disse - la sorella di mio marito era molto giovane e si affezion molto a me. Avevamo inventato una grande variet di giochi come segno della nostra relazione speciale. Ad esempio ci scambiavamo sempre i nostri duppattas (veli) quando ci sedevamo a mangiare oppure mangiavamo dallo stesso piatto. Lei mi porgeva un boccone e poi io uno a lei. Tutti in famiglia ne ridevano, ma noi ci divertivamo.
Asha non articolava la relazione con la sorella pi giovane del marito come una relazione individuata, ma tendeva a farla derivare dalla relazione con il marito defunto. Potremmo quindi dire che le relazioni tra donne si sviluppavano allombra del patriarcato, perch esse potevano riconoscere il loro affetto solo attraverso la mediazione di un marito/fratello morto.
Non so. Ho passato cos poco tempo con mio marito. Era quasi come se un fiore che stava per fiorire fosse stato staccato dal ramo. Ma avevo cos tanti desideri che in qualche altro momento, in qualche altro posto sarebbero stati destinati a dare frutti. Lunica cosa importante che io devo mantenere vivi i legami con quella casa.[7]
Dovremmo chiederci: Che cosa ha significato per lei il secondo matrimonio? Questo matrimonio, dopo tutto, ha dato dei frutti. Cerano due figlie adorabili alle quali Asha sembrava molto affezionata. In uno dei rari momenti in cui parl esplicitamente delle sue relazioni, disse:
Sono stata molto felice, molto fortunata ad aver trovato qualcuno cos buono da sposarmi. Lui si davvero preso cura di me. In coscienza ho fatto del mio meglio per dargli tutte le comodit. Ma sono stata condotta a questo matrimonio per via di questo corpo disgraziato, che ha i suoi bisogni, ha una vita propria sulla quale io non ho alcun controllo. E non mi riferisco solo ai miei bisogni. Non potevo evitare che gli uomini mi guardassero con il desiderio negli occhi. Non ero io, era questo corpo che li attraeva. Se jija ji non avesse iniziato a fare delle avances (ched chad na karde) avrei potuto vivere una vita ascetica, appropriata ad una vedova, nella casa di mio marito. Ma dopo ci che successo tra noi, come avrei potuto guardare in faccia mia cognata? Come avrei potuto trovarmi di fronte a mio marito nella mia prossima vita? A lui sono legata per leternit. Con il mio attuale marito come due bastoncini che si trovano accanto nel mare in tempesta - lunione di un momento e poi loblio. Io voglio che tutti i conti con lui siano chiusi in questa vita: tutti i lena-dena (dare e avere) devono essere compiuti. Poi potr andarmene senza dolore. Dopo tutto lui ha unaltra moglie e agli occhi di Dio lei che deve stargli accanto, non io. Io sono una peccatrice (papin).
Da questo discorso pu sembrare che Asha sia profondamente attaccata al marito morto. Eppure, nelle conversazioni che ho avuto con lei avevo limpressione che il marito per lei fosse una presenza molto labile. Una volta precis che quando vedeva vecchie fotografie che la ritraevano con suo marito aveva la sensazione di guardare due sconosciuti. Vorrei anche far notare che il ricordo della sorella del marito sembra essere molto pi concreto e vivido nei racconti di Asha e che stata la sorella del primo 131
marito che a poco a poco super le obiezioni degli uomini per permettere ad Asha di rientrare nelle loro vite. Secondo me per molte donne come Asha la violenza della Spartizione consiste non solo in ci che accaduto loro con le rivolte e la violazione brutale dei loro corpi, ma anche in ci di cui esse hanno dovuto essere testimoni, ossia la possibilit del tradimento celata nelle loro relazioni quotidiane (si vedano Butalia 1998; Das 1990, 1991 e 1995b). Pensiamo per un attimo alla normalit della vita assunta nel racconto di Asha e a come questa implicasse una forma di occultamento della quale la donna diventa consapevole solo nel dispiegarsi degli eventi. Chi avrebbe potuto prevedere che un importante evento politico avrebbe rivelato la possibilit del tradimento nelle relazioni con le persone pi amate? Ho descritto altri casi simili di tradimento in un mio precedente lavoro. Il punto che lorrenda violenza degli scontri tra comunit da una parte rende pi solida lappartenenza ad un gruppo, ma dallaltra ha anche leffetto di rompere le relazioni pi intime (Das 1990). Laltra faccia della medaglia che le persone si sentono spinte ad offrire il loro aiuto al di l delle normali aspettative (ad esempio si offre riparo ai vicini appartenenti ad unaltra comunit anche a rischio della propria vita). Per questo, tali eventi rappresentano unesperienza eterogenea, in cui si incontrano non solo odio e violenza ma anche esperienze di solidariet che possono far emergere virt eroiche, tagliando le lunghe catene di richieste e risposte della vita quotidiana. Come poi questi momenti appassionati vengano prolungati nella vita di tutti i giorni rappresenta un altro tipo di problema: il mio disagio con molti racconti di odio intenso o ugualmente intenso eroico altruismo deriva dal fatto che non si vede come tali momenti vengano poi riportati al quotidiano. Altrove ho descritto il caso di Manjeet. Alcuni dei suoi ricordi che risalivano alla Spartizione riguardavano un fratello che ogni giorno, prima di uscire di casa, le lasciava un pacchetto di veleno, con listruzione che non doveva esitare ad ingoiarne il contenuto se i musulmani avessero invaso la loro casa. Manjeet, allora appena tredicenne, aveva la vaga sensazione che mentre il fratello si abbandonava ai giochi mortali dellassassinio e dello stupro, da lei si aspettava che morisse piuttosto che affrontare il disonore.[8] Questa fu unesperienza spaventosa quanto quella di attendere ogni giorno con la paura di essere attaccati oppure di essere liberati dallesercito. Nel caso di Asha, quando il protettore del passato si trasformato in aggressore, la sua vita ha dovuto essere riformulata. Alla fine stata la solidariet nata tra le donne che lha aiutata non solo a sfuggire ad una situazione soffocante ma anche a collegare il presente col passato. Eppure Asha non stata in grado di riconoscere che stata la comunit delle donne che lha salvata, inserendo questa stessa relazione allinterno della relazione dominante maschio- femmina. Forse questo suggerisce che persino quando una donna ha infranto i tab pi importanti, come ha fatto Asha, pu non sentire che ha davvero trasgredito le norme idealizzate. Asha non sente di essere diventata unaltra persona, solo di essere entrata allinterno di una dimensione di provvisoriet mentre le sue vere relazioni rimanevano sospese per un po. Penso che il modo in cui Asha racconta la propria storia ci dice anche qualcosa di importante sulla stretta relazione tra legislazione e trasgressione. Non esiste prima una legge e poi una trasgressione - prima un individuo che ha completamente introiettato le norme e poi qualcuno che trasgredisce. Piuttosto, infrangendo il tab che vietava ad una vedova di risposarsi e venendo biasimata per questo, Asha sente di aver infranto le regole senza per averle cancellate dalla sua vita. Questo evidente nelle sue affermazioni che la pongono in conflitto con s stessa: sono una peccatrice e poi Ma dopo ci che successo tra noi, come avrei potuto guardare in faccia mia cognata? Come avrei potuto trovarmi di fronte a mio marito nella mia prossima vita? A lui sono legata per leternit. Nella lettura lacaniana della passione di Antigone, la donna parla dallesperienza di quel limite dal quale pu vedere la sua vita come gi vissuta. Mettendo a confronto la forma espressiva di gran lunga meno esplicita di Asha con quella pi esplicita di Antigone, spero di aver mostrato 132
che donne come Asha hanno occupato una sfera diversa, calandosi nella vita di ogni giorno piuttosto che innalzandosi ad un livello superiore. In entrambi i casi, comunque, c una donna testimone non solo nel senso che si trova allinterno di una cornice di eventi, ma che stata lei stessa segnata da tali eventi. La sfera del quotidiano, allinterno della quale parla Asha, deve essere recuperata ri-abitando gli stessi segni delloffesa che lhanno segnata, in modo che possa prender forma una continuit in quello stesso spazio di devastazione.
Con gli occhi di un bambino
Fino ad ora ho descritto gli eventi della vita di Asha principalmente con la sua voce. Vorrei ora descrivere quale fu limpressione che ne ebbe il figlio adottivo (Suraj), che aveva allora circa otto anni, quando la incontr durante la sua prima visita (dopo che si era risposata). Una volta giunta la notizia del suo secondo matrimonio, racconta Suraj, nel frattempo diventato un adolescente, disse che ricordava con quanto disprezzo tutti parlassero di lei: si diceva sempre di come loro lavessero riempita di affetto e lei invece li avesse traditi. Il fratello del suo primo marito, ad esempio, avrebbe detto labbiamo stretta al nostro cuore pensando che fosse lunica cosa che rimaneva del nostro fratello morto, ma lei voleva ottenere un altro scopo (lespressione matlab kadna in punjabi pu riferirsi ad un uso manipolativo degli altri per ottenere i propri scopi). Nella conversazione familiare tra i Punjabi che vivono in citt comune rivolgersi ad una persona assente come se questa fosse presente. In questo caso Asha era fatta oggetto di scherno. Si diceva ad esempio: vah ni rani- tu badi laj rakhi sadi (Gloria a te, o regina: tu hai davvero preservato il nostro onore).[9] Suo figlio adottivo disse che solo sua madre avrebbe mormorato talvolta in sua presenza Che cos la vita di una donna? Tale tipo di discorso in cui non ci si rivolge direttamente a nessuno, ma che si inizia deliberatamente in modo da essere sentite per caso un genere comune di discorso delle donne nel Punjab. Suraj era molto agitato allidea di rivederla, lei, laltra sua madre. Le conversazioni familiari avevano costruito una immagine diffusa di lei come una donna svergognata che aveva tradito la famiglia e specialmente aveva tradito lui, il suo figlio speciale. Quando Asha arriv, aveva un bellaspetto: chiaramente aveva molti vestiti nuovi e qualche gioiello. Il suo corpo non era una proclamazione della sua vedovanza il figlio stesso aveva voluto evitare di guardarla, come se fosse troppo radiosa. Ma lei non fece sfoggio del suo nuovo benessere e si mise ad aiutare nei lavori di casa come aveva sempre fatto. Suraj ricordava unoccasione in particolare in cui egli si era impuntato che dovevano uscire tutti per andare a prendere un gelato. Lintera famiglia era riunita e i vecchi non erano particolarmente favorevoli. Ma, dice Suraj, egli aveva voluto far prevalere la sua volont: voleva affermare che aveva pi diritti su di lei di chiunque altro. Cedendo alle sue richieste, Asha entr in casa a cambiarsi ed usc indossando un sari colorato. Avevano chiamato un tonga per portarli al mercato e mentre Asha, Suraj e un cugino stavano per salire, suo zio (lo stesso che le aveva fatto avances sessuali) disse: Non c bisogno di mettere in mostra il grande fascino (nakre) di una sethani. Il termine si riferisce letteralmente alla moglie di un seth, un ricco mercante, ma usato tra i Punjabi per riferirsi ad una donna pigra, che non sbriga le faccende di casa ed solo interessata a vestirsi bene e a mettere in mostra la sua ricchezza. Gli occhi di Asha si riempirono di lacrime e, mentre sedevano sul tonga, abbracci Suraj e disse Vedi, per amor tuo devo stare a sentire questa derisione (Boliyan sun-ni paindiyan hain).
Osservazioni
Negli ultimi anni la scrittura della storia e dellantropologia stata fortemente influenzata dallanalisi letteraria del racconto. Come ha osservato Good, nel contesto dei racconti di malattie, tuttavia, il narratore racconta una 133
storia non ancora finita. Nel contesto della Spartizione, gli storici hanno spesso raccolto narrazioni orali formulate in risposta alla domanda: Che cosa successo?. In questo articolo ho scelto di non formulare la domanda in questi termini. In questo senso il mio lavoro ha preso spunto dal vedere come la violenza della Spartizione fosse intrecciata alle relazioni del quotidiano. In altre parole non mi sono chiesta se gli eventi della Spartizione fossero presenti alla coscienza come eventi passati ma in che modo fossero stati incorporati nella struttura temporale delle relazioni. Spero quindi di aver dedicato la giusta attenzione al carattere progettuale dellesistenza umana. Nel caso di Asha abbiamo visto come la donna definisca le relazioni di parentela soprattutto attraverso unidea di cura e come, nella sua storia, la brutalit della Spartizione appaia sotto forma di una violenza che altera le modalit con cui i parenti si riconoscono o negano di riconoscersi lun laltro. Il ricordo traumatico della Spartizione non pu cos essere compreso nella vita di Asha come una diretta appropriazione del passato, ma costantemente mediato dal modo in cui il mondo abitato nel presente. Anche quando sembra che alcune donne siano state relativamente fortunate, perch sono scampate al dolore fisico, la memoria corporea dellessere-con- gli altri fa s che il passato circondi il presente come unatmosfera. Questo ci che intendo quando parlo dellimportanza di trovare modi per parlare dellesperienza della testimonianza: se il modo che ha una persona di essere- con-gli altri viene brutalmente ferito, allora il passato entra nel presente non necessariamente come memoria traumatica, ma come conoscenza avvelenata. Questa conoscenza pu essere affrontata solo attraverso ci che Martha Nussbaum chiama sapere attraverso la sofferenza.
Esiste un conoscere che avviene attraverso la sofferenza perch la sofferenza riconosce in modo appropriato come sia la vita umana in determinati casi. E in generale: capire un amore o una tragedia con lintelletto non sufficiente per avere una vera conoscenza di essi. Agamennone sa che Ifigenia sempre sua figlia, se con ci intendiamo che egli ha su di lei certe convinzioni giuste, pu rispondere correttamente a molte domande su di lei, e cos via. Ma poich nelle sue emozioni, nella sua immaginazione e nel suo comportamento egli non riconosce quel legame, vogliamo unirci al coro e dire che la sua condizione pi di illusione che di conoscenza. Egli non sa veramente che Ifigenia sua figlia. Manca una parte della vera conoscenza (Nussbaum 1986, p. 113-114).
Nel caso di Asha, la donna era anche conosciuta nel ruolo di vedova di un fratello amato: il suo corpo era assimilato non solo ritualmente, ma anche nelle interazioni quotidiane della famiglia, al corpo del marito morto. Questo era il solo aspetto riconosciuto del suo essere. Ma ci potrebbero essere altri sottotesti che entrano in campo: laffetto tra Asha e la sorella minore del marito, la consapevolezza della propria entit sessuata, la cui sessualit era stata forzatamente cancellata dalla morte del marito e dalle pretese di onore della famiglia. Mi sembra che questi sottotesti siano stati articolati come risultato del disordine creato dalla Spartizione. Una volta che il suo essere sessuata stato riconosciuto nel nuovo tipo di sguardo da qualcuno nella posizione di fratello sostituto che si rivela come amante Asha costretta a fare una scelta.[10] Decider di portare avanti una relazione clandestina e di partecipare alla cattiva fede su cui, secondo Bourdieu (1990), si basano le politiche della parentela? Oppure accetter la pubblica infamia alla quale ha sottoposto lonore della famiglia per costruire una nuova definizione di s che prometta una certa integrit, sebbene da esule rispetto ai progetti di vita che aveva precedentemente formulato per se stessa? Nel processo di questa decisione il soggetto pu essersi radicalmente frammentato, e il s pu essere divenuto un fuggitivo; ma io credo di aver descritto la formazione del soggetto, una mediazione complessa fatta di posizioni soggettive divise e frammentate. Questo diviene evidente non tanto al momento della violenza, ma soprattutto negli anni di paziente lavoro in cui Asha e la sorella del primo marito ricucivano gli strappi nelle 134
relazioni. Cera la conoscenza avvelenata di essere stata tradita dal parente acquisito pi anziano cos come dal fratello, che non poteva prendersi carico di sostenere limpegno a lungo termine nei confronti di una sorella in difficolt. Cera la conoscenza, altrettanto importante per lei, di aver potuto lei stessa tradire il marito defunto e sua sorella, anchessa defunta, immaginandosi infedele; e di aver fatto s che un bambino, il suo speciale figlio adottivo, si sentisse abbandonato. Non stato un gesto eroico improvviso, ma il paziente lavoro di vivere con questa nuova conoscenza (conoscenza reale, che nasce non solo dallintelletto ma anche dalle passioni), che ha fatto del lavoro di queste due donne, descritto semplicemente come ais ghar nal sambandh bana rahe (che la relazione tra queste due case continui), un esempio emblematico di agency vista come prodotto di differenti posizioni soggettive: trasgressore, vittima e testimone. La relazione tra la formazione del soggetto e lesperienza della sottomissione stata colta da Foucault (1977, p.33) nella sua analisi della disciplina del corpo attraverso una metafora di imprigionamento: lanima la prigione del corpo. Nel contesto della prigione, sostiene Foucault, la disciplina carceraria non si limita a regolare il comportamento del prigioniero, ma occupa la sua vita interiore e di fatto la produce. Rovesciando la relazione tra interiorit ed esteriorit, tra corpo e anima, Foucault produce un effetto di shock; e tuttavia, mi pare che egli si posizioni ancora allinterno delle nostre comuni categorie di interno ed esterno. Nel suo importante studio sulla vita psichica del potere, Butler (1997, p. 98) dellidea
che dove Lacan restringe la nozione di potere sociale al dominio simbolico e delega la resistenza allimmaginario, Foucault riconsidera il simbolico come relazione di potere e interpreta la resistenza come un effetto del potere.
Per cercare di comprendere le complicate relazioni tra lo spiegarsi di una violenza politica originaria e lo sviluppo dei rapporti di parentela nella vita di Asha, ho mostrato come i modelli di potere/resistenza o le metafore dellimprigionamento siano strumenti troppo rudimentali per comprendere il delicato lavoro di auto-creazione. Al contrario ho mostrato che nellesplorazione della profondit temporale in cui tali momenti originari di violenza sono elaborati, la vita quotidiana si rivela al tempo stesso una ricerca e unindagine[11], come ha detto una volta Stanley Cavell (1988). Per cogliere le relazioni tra regole esterne e stati interiori, tra corpo e anima, invece di utilizzare le metafore dellimprigionamento si pu pensare che questi momenti si delimitino a vicenda, che tra loro ci sia cio una relazione in cui sono vicini ma uniti, cos come sono uniti legislazione e trasgressione.
E questa relazione di prossimit tra legislazione e trasgressione che consente ad Asha di rivendicare i propri diritti nei confronti di quella stessa cultura e di quelle stesse relazioni che lavevano sottomessa. Chiaramente la terribile violenza provocata dalla Spartizione ha significato la morte del suo mondo, come lei laveva conosciuto. Questo le ha fornito un modo nuovo di ri-abitare il mondo. Da un certo punto di vista il suo attaccamento al passato pu essere letto attraverso la metafora dellimprigionamento, come qualcosa da cui le impossibile sfuggire; ma daltra parte la profondit temporale in cui Asha costruisce la propria soggettivit mostra come sia possibile occupare i segni stessi delloffesa e dare loro un significato non solo attraverso latto della narrazione, ma anche attraverso il lavoro di riparazione delle relazioni, riconoscendo quelle che le norme ufficiali avevano condannato. Questa mi sembra una metafora appropriata per latto della testimonianza, che un modo per comprendere la relazione tra violenza e soggettivit.
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Sono grata ai partecipanti al seminario intitolato Violenza, mediazione politica e s per la stimolante discussione. Grazie ad Arthur Kleinman per il 135
suo permanente interesse per i temi di cui ci siamo occupati insieme nel corso degli anni e a Pamela Reynolds per i suoi commenti critici. Ho imparato molto dagli scritti di Stanley Cavell e gli sono particolarmente debitrice per la sua generosa lettura di questo testo.
Bibliografia
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[1] Sono ovviamente consapevole che le regole della semantica strutturale esprimono il significato degli enunciati come entit linguistiche, ma questi sono enunciati disincarnati. Lintroduzione di un soggetto che produce queste parole necessita dellintroduzione di un contesto: non solo un contesto linguistico ma anche un intero mondo della vita. Esito comunque ad introdurre qui lidea di intenzionalit perch la datit del linguaggio come parole richiede una certa dimenticanza dellatto del parlare, come suggerisce Gadamer (1985). Il fatto che Asha non mi abbia mai raccontato esplicitamente cosa successo durante la Spartizione ma abbia raccontato qua e l, quando lo richiedeva il momento, alcuni frammenti del suo mondo, rende questa dimenticanza una parte importante di ci che stato detto. [2] Ricordo qui parecchi generi performativi in India, specialmente nella danza, in cui una breve frase pu essere aumentata di intensit attraverso gesti del volto e degli occhi anche per unora. [3] Il genere delle canzoni delle donne, specialmente quelli che prendono la voce della sorella pi giovane, articolano questo dolore e sono comuni in molte regioni dellIndia. Si vedano (Trawick (1986) e (Gold, Grodzing, Raheja 1994). [4] Sto traducendo la parola punjabi gila, usata come affermazione riflessiva in prima persona, come un composto di colpa e rimorso. Ad esempio: Mainu apne te aina gila hoya [Ho sperimentato la colpa/il rimorso su me stessa] resa meglio da un composto di accusa e rimorso quando si riferisce a qualcun altro, ma questa forma di accusa appropriata solo tra coloro che hanno una stretta relazione di parentela. [5] Limplicazione che si sarebbe potuto sparlare del fatto che essi avessero avuto una lunga relazione sessuale che veniva solo adesso formalizzata. [6] Il pagdi (turbante) il segno dellonore; il candore si riferisce qui allonore senza macchia. 137
[7] Si veda Nicholas 1995 per una simile analogia a proposito del divorzio, rappresentato nella cultura bengalese come una relazione non pienamente realizzata piuttosto che come una che ha diviso due persone. [8] Credo che ci che poteva essere una vaga conoscenza percepita da bambina sia divenuta certezza nel momento in cui Manjeet ha ripensato ed elaborato questo ricordo da adulta. Ho descritto altrove come questa conoscenza sia stata codificata nella sua storia (Das 1996). [9] La parola inglese taunt (scherno) stata incorporata nel Punjabi in particolare per indicare una forma di azione (ad esempio: bada taunt karde si; they did very much taunting; essi schernivano molto). [10] Devo sottolineare che i vincoli morali di Asha possono essere compresi se siamo in grado di calarci in un mondo della vita in cui Asha sente che la sua eternit sia a rischio. Un commento casuale di un lettore sconcertato da come la presenza di un cognato sessualmente eccitato avesse potuto causare un cos grande dilemma nella vita di Asha mi ha spinto a rivedere il punto sulla profondit temporale in cui Asha vedeva le sue relazioni. Particolarmente importante era la sua convinzione che la relazione con il suo secondo marito rappresentasse una temporanea alleanza di interessi, ma che in una vita futura la relazione con il suo primo marito, al quale era stata sposata di fronte al sacro fuoco come testimone, sarebbe stata recuperata. Ci mostra che i vincoli morali nel suo mondo della vita non possono essere compresi al di fuori di questa cornice. Con ci non si vuol negare che questa storia riguardi anche il modo in cui il patriarcato struttura linterno nella societ hindu. [11] Lespressione originale (everyday life reveals itself to be both a quest and an inquest) evidentemente intraducibile come gioco di parole, e indica un orientamento riflessivo diretto al tempo stesso verso il futuro e verso il passato [N.d.C.].
Questioni di coscienza. Antropologia e genocidio Nancy Scheper-Hughes
(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 247-302; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)
Lantropologia moderna si sviluppata a fronte di genocidi coloniali, etnocidi, stermini, estinzioni di popolazioni e altre forme di distruzione di massa che hanno colpito popoli marginalizzati, le cui vite, sofferenze e morti ci hanno fornito sostentamento. Eppure, nonostante questa storia e la posizione privilegiata dellantropologo (o etnografo) come testimone di alcuni di questi eventi lantropologia stata, fino a poco tempo fa, relativamente muta riguardo a tale argomento. Ancora oggi la maggior parte dei segnali dallarme riguardo a sentimenti, gesti ed atti genocidi provengono dai giornalisti politici piuttosto che dagli etnografi che lavorano sul campo. La maggior parte delle teorie che trattano delle cause, dei significati e delle conseguenze del genocidio vengono da altri settori disciplinari come la storia, la psicologia e la psichiatria, la teologia, il diritto comparato, i diritti umani e le scienze politiche. Nel complesso, lantropologia stata lultima ad arrivare in questo campo. I volumi recentemente curati da A.L. Hinton (2002a, 2002b) rappresentano di fatto il primo tentativo dellantropologia in questo senso. Perch un tale ritardo? Come hanno notato Hinton e altri, la violenza non affatto un argomento naturale per gli antropologi. Tutto, nella formazione della nostra disciplina, ci predispone a non vedere le forme evidenti e manifeste di violenza che cos spesso devastano le vite dei nostri soggetti di studio. Sebbene il termine genocidio nella sua concezione moderna sia stato usato per la prima volta da Raphael Lemkin nel 1944 come conseguenza ed in risposta allOlocausto, genocidi e altre forme di uccisione di massa esistevano senza dubbio anche prima della tarda modernit e in societ relativamente non toccate dalla 138
civilizzazione occidentale. Anzi, se gli antropologi hanno evitato questo argomento, ci dipeso da un desiderio di evitare ulteriori stigmatizzazioni delle societ e delle culture indigene che venivano spesso giudicate negativamente e in base a valori e presunzioni di eurocentrismo. Una premessa fondamentale a cui si rifaceva la ricerca etnografica del xx secolo era, abbastanza banalmente, di non osservare, non ascoltare e non raccontare nessun male (e pochissima violenza) nei resoconti di ricerca. Lantropologia culturale classica e la sua particolare sensibilit morale ci orientano, come dei segugi a rovescio, sulle tracce del bene e del giusto nella societ che studiamo. Alcuni sono convinti che il male non sia un argomento adeguato allantropologia; di conseguenza, come ha sottolineato Elliot Leyton (1998a), i contributi dellantropologia per la comprensione della violenza a tutti i livelli dallabuso sessuale allomicidio, dal terrorismo politico di Stato alle guerre sporche e al genocidio sono molto modesti. Chi ha abbandonato la regola aurea del relativismo morale stato accusato di incolpare le vittime. Ma questi paraocchi morali si sono trasformati in altri casi in una sorta di generosit ermeneutica verso i colonizzatori occidentali, i moderni Stati di polizia, le istituzioni politiche e militari di distruzione di massa. Sebbene i genocidi precedano la diffusione della civilt occidentale, la colonizzazione selvaggia dellAfrica, dellAsia e del Nuovo Mondo ha generato alcuni dei peggiori genocidi dal xviii secolo allinizio del xx. Lincapacit degli antropologi di affrontare direttamente queste prime scene di distruzione di massa allinterno di diverse nicchie etnografiche il tema di questo saggio. Nonostante gli antropologi abbiano distolto lo sguardo dalle scene di genocidio e da altre forme di palese e brutale violenza fisica, essi sono sempre stati degli attenti osservatori della violenza pi nascosta. Siamo abbastanza bravi ad analizzare le forme simboliche (Bourdieu, Wacquant 1992), psicologiche (Devereux 1961; Goffman 1961; Edgerton 1992; Scheper-Hughes 2000b) e strutturali (Farmer 1996; Bourgois 1995) di violenza quotidiana che stanno alla base di molte istituzioni e interazioni sociali: un contributo, questo, che pu fornire un anello mancante negli studi contemporanei sui genocidi. Nel mio caso, mi ci sono voluti pi di venti anni per affrontare il tema della violenza in una forma apertamente politica, il che, data la mia scelta dei primi casi di studio lIrlanda a met degli anni 70 e il Brasile durante gli anni della dittatura militare deve aver richiesto una buona dose di rimozione. Studiando la follia della vita quotidiana in una piccola comunit rurale dellIrlanda occidentale a met degli anni 70, mi interessavo agli spazi interiori, con i loro piccoli e oscuri psicodrammi fatti di capri espiatori e etichettature che si formavano allinterno delle tradizionali famiglie contadine e che portavano tanti giovani a bere e a soffrire di attacchi di depressione e schizofrenia. Allepoca prestavo poca attenzione allattivit politica di Matty Dowd, dal quale avevamo affittato la nostra villetta nella borgata di montagna di Ballynalacken, e che usava il nostro solaio come deposito di un piccolo arsenale di pistole ed esplosivi che lui ed alcuni dei suoi compagni del Sinn Fein stavano trasportando nellIrlanda del Nord. Per questo non ho concentrato lattenzione, fino a poco tempo fa (Scheper- Hughes 2000b), sui possibili legami tra la violenza politica nellIrlanda del Nord ed i tormentati drammi familiari di West Kerry che avevo documentato tanto dettagliatamente e che pure contenevano una propria violenza.. Da allora ho continuato a studiare altre forme di violenza quotidiana: gli abusi della medicina praticata in malafede contro i deboli, i malati di mente e gli affamati, come anche contro i corpi di donatori di organi socialmente svantaggiati e persino invisibili che stanno spesso dietro al commercio dei trapianti (Scheper-Hughes 2000 a). E ancora, lindifferenza sociale alla mortalit infantile nel nordest del Brasile, unindifferenza che permette ai leader politici, ai preti, ai becchini, e persino alle madri delle bidonvilles, di spedire allaldil una moltitudine di angioletti affamati. Nel caso del Brasile non iniziai a studiare la violenza statale e politica fino a quando, verso la fine degli anni 80, i figli adolescenti di alcuni miei amici e vicini nella baraccopoli di Alto do Cruzeiro iniziarono a scomparire. In seguito i 139
loro corpi furono ritrovati mutilati per mano degli squadroni della morte locali, infiltrati nella polizia.
Tristes antropologiques
Nel suo testamento professionale, Oltre i fatti, Clifford Geertz (1995) nota piuttosto ironicamente di aver sempre avuto la fastidiosa sensazione di arrivare troppo presto o troppo tardi per osservare gli eventi politici pi importanti e significativi e gli sconvolgimenti che si abbattevano sui suoi due campi di ricerca: il Marocco e Giava. Egli scrive che, comprensibilmente, cercava di evitare i conflitti, andando avanti e indietro tra i suoi due territori, durante i periodi di relativa calma, riuscendo sempre a perdersi la rivoluzione (Stern 1992), quando questa scoppiava. Di conseguenza negli scritti etnografici di Geertz non c mai stato nulla che alludesse ai campi della morte che iniziarono a proliferare in Indonesia subito dopo la sua partenza dal paese nel 1965; un massacro di sospetti comunisti da parte di fondamentalisti islamici paragonabile ai pi recenti eventi ruandesi. Ci fu un bagno di sangue di misure spaventose un massacro politico di circa 60.000 balinesi a seguito di un tentativo di colpo di stato di matrice marxista nel 1965. Probabilmente si pu interpretare la famosa analisi di Geertz del combattimento dei galli come unespressione codificata della feroce aggressivit nascosta sotto la superficie di un popolo che lantropologo descriveva come tra i pi tranquilli, controllati e decorosi del mondo. Oggi il mondo, gli oggetti del nostro studio e gli usi dellantropologia sono cambiati considerevolmente. Coloro che osservano gli eventi umani da vicino e a lungo e sono perci al corrente di quei segreti locali, comunitari e anche di Stato, che di solito restano nascosti per molto tempo fin dopo la scoperta delle fosse comuni e il conteggio dei morti, cominciano ad accettare una diversa posizione etica, cercano di nominare ed identificare le fonti, le strutture e le istituzioni della violenza di massa. Questa nuova attitudine di impegno politico ed etico ha portato a un profondo esame di coscienza, anche se ben oltre i fatti. Claude Lvi-Strauss (1995), per esempio, approssimandosi alla fine della sua lunga e prestigiosa carriera, ha aperto il suo recente saggio fotografico Saudades do Brasil con un avvertimento: il lettore non deve farsi trarre in inganno dalla lirica e dalla bellezza delle immagini della foresta vergine che ritraggono gli Indigeni del Brasile (le foto sono state scattate tra il 1935 e il 1939 nellinterno del Brasile); le immagini infatti, avverte Lvi-Strauss, sono illusorie e il mondo che ritraggono non esiste pi. Gli Indigeni delle trib Nambikwara, Caduveo e Bororo, immortalati nelle sue foto, meravigliosi nel loro stato selvaggio che sembra debba esistere in eterno, non assomigliano per niente alle popolazioni che si possono incontrare oggi e che vivono accampate ai margini di trafficate vie di comunicazione o che vagabondano per villaggi simili a bassifondi scavati nella foresta sventrata. I Nambikwara e i loro vicini amerindi sono stati decimati dal lavoro salariato, dai cercatori doro, dalla prostituzione e dalle malattie del contatto culturale, come il vaiolo, la tubercolosi, laids e la sifilide. Ma la confessione del vecchio maestro va oltre. Queste antiche foto che immortalano indigeni seminudi che dormono a terra sotto romantici rifugi di foglie di palma non hanno nulla a che fare con unidea di umanit intatta che da allora andato perduto. Le foto scattate negli anni 30 gi mostrano gli effetti di una selvaggia colonizzazione europea sulle civilt, un tempo popolose, del Brasile centrale e dellAmazzonia.. Queste civilt indigene furono distrutte dal contatto con gli europei e ridotte allombra di se stesse popolazioni non tanto primitive, avverte lautore, quanto bloccate e spogliate della propria ricchezza materiale e simbolica. La macchina fotografica di Lvi-Strauss ha catturato le immagini di un tipo di sfruttamento umano particolarmente brutale, un genocidio invisibile, della cui gravit lantropologo era forse allepoca ingenuamente ignaro. 140
In precedenza, Lvi-Strauss aveva ammesso che lantropologo deve andar oltre unattivit di ricerca puramente accademica (si veda anche Sontag 1964 sullantropologia come vocazione spirituale).
Lantropologia non una scienza imparziale come lastronomia, che prevede unosservazione a distanza. E la conseguenza di un processo storico che ha reso la maggior parte dellumanit sottomessa ad unaltra parte e durante il quale milioni di innocenti hanno visto le loro risorse depredate, le loro istituzioni e le loro fedi distrutte mentre loro stessi venivano uccisi senza piet, ridotti in schiavit, contaminati da malattie a cui non erano in grado di reagire. Lantropologia figlia di questera di violenza: la sua capacit di valutare pi oggettivamente le vicende che riguardano la condizione umana riflette, a livello epistemologico, uno stato di cose in cui una parte del genere umano trattava laltra come un oggetto (Lvi-Strauss 1955, p. 126)
Purtroppo, pi spesso di quanto non si creda, gli antropologi sono stati spettatori passivi, testimoni silenziosi e disimpegnati dei genocidi, degli etnocidi e delle estinzioni di interi popoli in cui si sono imbattuti seguendo la loro vocazione. Gli esami di coscienza che gli antropologi si sono fatti a posteriori, riguardo ricordi ritrovati di scene di violenza ed etnocidi, risalgono ai giorni di Bronislaw Malinowski (18841942). Malinowski intraprese la carriera di antropologo mentre si trovava suo malgrado in una condizione di nemico- alieno. Era un cittadino austriaco, nato in Polonia, detenuto in Australia mentre era in viaggio per la sua prima ricerca sul campo allo scoppio della Prima guerra mondiale. Ottenuta la libert provvisoria da parte del governo australiano, Malinowski ebbe il permesso di condurre la sua ricerca etnografica in Nuova Guinea fintanto che la guerra continuava, cosa che prolung artificialmente la durata prevista della sua ricerca sul campo. Il diario di campo di Malinowski, che va dal 1914 al 1918, pubblicato postumo dalla vedova nel 1967, registra la conflittualit delle emozioni e delle identit dellantropologo che era allo stesso tempo un gentiluomo europeo, un figlio dellimperialismo occidentale e un naturalista. Egli cercava di reinventare se stesso e di porre le basi di una nuova scienza e di un metodo in grado di registrare e capire le differenze umane e culturali. Le sue simpatie si rivolgevano inizialmente ai valori della propria civilt europea. In un beffardo e, si spera, ironico passaggio del suo diario, Malinowski (1967, p. 69) ripete le parole del selvaggio colonizzatore, il Kurtz del conradiano Cuore di Tenebra: I miei sentimenti verso gli indigeni tendono [nel complesso] decisamente a: Sterminate i bruti. Qui lantropologo e limperialista razzista sembrano essere tuttuno. Ma Malinowski sentiva una profonda nostalgia di casa ed era patologicamente depresso durante la sua prigionia sul campo e le sue febbrili riflessioni riportate nel diario dovrebbero essere lette per quello che sono in realt, cio incubi ad occhi aperti, frutto di unimmaginazione malata, iperattiva e ipocondriaca. Certo, la vera misura del genio antropologico di Malinowski non va cercata nelle sue riflessioni private ma nei suoi scritti pubblici e nel suo metodo di osservazione partecipante che richiedeva unidentificazione empatica con il nativo. Dopo i traumi del lavoro sul campo, quando Malinowski si sofferm a riflettere sui fondamenti della propria disciplina, concluse che:
Il compito dellantropologo quello di essere un interprete giusto e onesto del nativo e [] di registrare che gli Europei, nel passato, hanno a volte sterminato intere popolazioni delle isole; che hanno espropriato molte ricchezze alle razze selvagge; che hanno introdotto la schiavit in una forma particolarmente crudele e dannosa (Malinowski 1945, pp. 3-4, cit. in James 1973, p. 66).
Malinowski (1945, p. 57) osserv che gli europei erano generosi nel distribuire i loro doni spirituali ai colonizzati, ma avari nel diffondere gli strumenti culturali e materiali del potere e dellautonomia. Ad esempio gli 141
europei non dettero agli africani armi da fuoco, aerei da bombardamento, gas tossici e tutto quello che avrebbe reso efficace lautodifesa o possibile laggressione. In definitiva, Malinowski critic appassionatamente la concezione dellantropologo come spettatore oggettivo e neutrale di fronte alla storia contemporanea dei genocidi e degli etnocidi coloniali e post- coloniali. Ma questi suoi ultimi scritti vennero largamente screditati a livello accademico e considerati come chiacchiere irresponsabili di un vecchio che aveva ormai superato il suo apice intellettuale.
Kroeber e Ishi: la loro ultima trib
Alfred Kroeber mor prima che potesse immaginare un ruolo radicalmente diverso per lantropologo: un ruolo da testimone impegnato piuttosto che da spettatore disinteressato di fronte alle scene di sofferenza umana, di distruzione culturale e di genocidio che ai suoi tempi colpivano gli indigeni della California del Nord. Quando Kroeber arriv a San Francisco nel 1901 per ricoprire la carica di antropologo museale presso lUniversit della California, si stava ancora consumando uno spietato e gratuito sterminio degli indiani della California settentrionale, ufficialmente approvato, che era iniziato al tempo della Corsa allOro e che continu al volgere del XX secolo. Nelle parole freddamente obiettive di uno storico del tempo:
Come tutte le popolazioni indigene nellemisfero occidentale, gli Indiani della California hanno subito un calo demografico molto forte, come conseguenza dellarrivo della civilt dei Bianchi. Dallinizio alla fine del processo la popolazione autoctona ha subito un calo demografico da 310.000 a circa 20.000 unit, un calo di pi del 90 % della cifra di partenza. Questo collasso stato dovuto alleffetto di fattori prodotti dal conflitto fisico e sociale tra la razza Bianca e quella Rossa (Cook 1978, p.91).
Cook identific le epidemie come fattore principale nella riduzione della popolazione locale (Ibid., p. 92). Ma i documenti storici invalidano questa spiegazione pi neutrale. In realt le campagne militari, i massacri, i cacciatori di taglie, lasservimento per debiti, la corsa alle terre e le recinzioni poste dai colonizzatori bianchi e dagli allevatori furono le cause pi gravi del tributo di sofferenza e morte pagato dalle popolazioni indigene.[1] Dallarrivo dei primi colonizzatori nel 1860, gli attacchi dei soldati americani provocarono la morte di 4.267 indiani californiani. Ma il peggio doveva ancora venire con la Corsa allOro, quando gli Indiani californiani iniziarono a subire un assalto totale alle loro comunit. Per esempio, nel maggio 1852, una banda di bianchi guidata dallo sceriffo di Weatherville in California, attacc senza preavviso un pacifico villaggio indiano, uccidendo uomini, donne e bambini: Dei 150 indiani che abitavano in quel villaggio, solo 2 o 3 riuscirono a scappare, ma erano gravemente feriti; quindi probabilmente nessuno [] sopravvissuto.[2] La devastazione subita dalla pi grande comunit dei Maidu descritta dalle seguenti cifre. Nel 1846 vi erano 8000 Maidu; nel 1850 ve ne erano tra i 3500 e i 4500; nel 1910 ne rimanevano solo 900 (Riddell 1978, p. 386). Nel 1850 le autorit della California approvarono una legge che segnava il passaggio degli Indiani della California dal peonaggio alla schiavit di fatto. La legge decretava che ogni Indiano su parola di un solo bianco poteva essere dichiarato vagabondo, messo in prigione e la sua manodopera messa allasta fino a quattro mesi senza retribuzione. Inoltre, questa legge permetteva il rapimento di bambini indiani e questa pratica prosegu fino alla fine del xix secolo. In un editoriale pubblicato il 6 dicembre 1861, sul giornale locale di Marysville in California, si leggeva:
E da queste trib montane che i colonizzatori bianchi fanno scorta di bambini, che poi tirano su per diventare domestici, e di donne che utilizzano 142
per il lavoro e per lussuria. [] E noto che vi sono gruppi, nelle regioni del Nord di questo Stato, la cui sola occupazione quella di rubare bambini e squaw [] per poi venderli a buon mercato ai colonizzatori, che, essendo per lo pi scapoli, pagano volentieri 50 o 60 dollari per una ragazza giovane (cit. in Castillo 1978, p. 109).
Molti antropologi dellepoca, tra i quali Margaret Mead, sentivano tutta lurgenza del loro compito (Dobbiamo studiarli prima che scompaiano!) perch consapevoli della velocit con cui si estinguevano le popolazioni indigene, la loro lingua e la loro cultura. Anche Kroeber lavor per circa ventanni in California per portare avanti quella che allora era detta unetnografia di salvataggio, cio il tentativo di documentare le culture di popoli in estinzione, facendo affidamento sui ricordi dei membri pi anziani della trib. Il lavoro fu molto impegnativo e culmin nellopera monumentale (925 pagine) Handbook of the Indians of California, che Kroeber complet e consegn allo Smithsonian Institution anche se il volume non fu pubblicato che nel 1925. Kroeber, nellHandbook come in altre opere (vedi p.es. 1917, 1952), partiva dalla premessa che i nativi americani erano destinati a scomparire in un inevitabile percorso dellevoluzione sociale, determinato dallinevitabile e progressiva marcia della civilizzazione: si trattava di una versione antropologica della dottrina americana della Predestinazione. Le bande sparse, residuo delle trib di cacciatori e raccoglitori della California settentrionale, avrebbero secondo Kroeber inevitabilmente lasciato il posto alle attivit di coltivazione, allevamento ed estrazione mineraria degli angloamericani. Alcuni gruppi indigeni si estinsero velocemente; altri lottarono strenuamente ed altri ancora fuggirono. La loro sopravvivenza, per dirla con Kroeber (1972a, p.9), fu straordinaria. Egli si riferiva per esempio agli inafferrabili Indiani di Mill Creek come agli
ultimi liberi sopravvissuti della razza rossa americana, che, grazie alla loro fermezza e caparbiet danimo, furono in grado di resistere alla corrente dilagante della civilizzazione addirittura venticinque anni pi a lungo della famosa banda di Apaches guidati da Geronimo (Kroeber 1911a, 1972a).
Tuttavia Kroeber avvertiva che il capitolo finale della storia dei sopravvissuti di Mill Creek si stava avvicinando. E aveva ragione. Giunto alla conclusione del suo Handbook, Kroeber aveva ormai iniziato a considerare letnografia di recupero che raccoglieva i ricordi di societ aborigene morenti da gruppi di sopravvissuti in blue-jeans che vivevano in culture ormai in rovina e imbastardite (Kroeber 1948a, p.427) - come un lavoro tuttaltro che soddisfacente. Cos ritorn al suo precedente interesse per le popolazioni e le culture del sud-est americano, dove era possibile incontrare degli indigeni americani o degli indiani Pueblo, la cui cultura era ancora florida e vitale. significativo che la traumatica morte di Ishi, il suo singolare informatore Yahi, abbia allontanato Kroeber dalletnografia particolaristica in direzione di saggi pi ampiamente teorici, che, rifacendosi alla tradizione idealista tedesca, ponevano lattenzione sul genio collettivo di una data tradizione culturale di fronte al quale la storia individuale e personale appariva del tutto irrilevante. Kroeber tratt la scomparsa di intere popolazioni di indigeni californiani, avvenuta in seguito ai massacri e alla caccia alle taglie organizzata degli allevatori e dai cercatori doro angloamericani, come un piccolo e irrilevante effetto collaterale nella lunga durata dellevoluzione sociale.
Dopo alcune esitazioni - scrive Kroeber nel 1925 - ho deciso di evitare ogni tipo di esposizione direttamente storica [] delle relazioni tra i nativi e i bianchi e degli eventi accaduti dopo il loro incontro. Non che questo soggetto sia privo dimportanza o di interesse, ma io non sono nelle condizioni di affrontarlo adeguatamente. Si tratta anche di un argomento che 143
rispetto ad altri ha unimportanza trascurabile per la cultura aborigena (cit. in Buckley 1996, p. 294).
Le popolazioni e le culture sconfitte erano gi rovinate da un punto di vista antropologico e quindi non sarebbero state utili per far luce sulle autentiche civilt aborigene che precedettero il loro declino e che Kroeber considerava il vero soggetto della sua ricerca scientifica. Forse le sofferenze, le morti premature e la devastazione culturale dei suoi informatori indigeni della California furono per Kroeber un peso troppo grande da affrontare: cos egli elabor la teoria rassicurante che poneva le loro perdite allinterno di una pi ampia prospettiva storico-culturale. Una volta Kroeber confid ad un collega (A. R Pilling, cit. in Buckley 1996, p. 277) di non aver fatto ricerche tra i suoi informatori Yoruk sulle loro esperienze dellepoca dellincontro con gli angloamericani, perch non poteva sopportare tutti quei pianti. Cos Kroeber inizi a lasciare lindividualit fuori dai suoi scritti, tanto che persino un oggettivista ed empirista cos risoluto come Eric Wolf defin in seguito lapproccio incorporeo ed impersonale di Kroeber alla cultura (il superorganico) cos astratto e imperturbabile da mettere addirittura paura (Wolf 1981, pp. 57-8). La fiducia di Kroeber nel potere del superorganico come massimo livello di astrazione era lespressione di una sorta di fede scientifica (vedi Kroeber 1948, pp. 22-4). Ma prendendo la distanza dalla tragicit delle storie personali e collettive dei suoi informatori, lantropologia di Kroeber non riusc a cogliere la portata distruttiva del suo atteggiamento verso le popolazioni indigene. Kroeber descrisse il genocidio che fece passare la popolazione indigena della California da 300.000 (attorno al 1845) a meno di 20.000 unit (alla fine del secolo) come se si trattasse di una questione quasi senza importanza, di una piccola storia [] di eventi penosi (cit. in Buclkey 1996). difficile stabilire se il rapporto che intercorse dal 1911 al 1916 tra Kroeber e il suo informatore-chiave, lindigeno californiano Ishi un rapporto complicato, intenso e anche tragico sia stato causa o conseguenza dei sentimenti dellantropologo riguardo allinevitabilit del declino e della morte delle culture indigene in California. Ma su questo gi stato detto abbastanza. Larrivo di Ishi nella vita di Kroeber, nonch nella nostra coscienza antropologica e storica stato sovradeterminato in modi inquietanti. Nel primo di due articoli giornalistici dedicati agli Indiani Yahi, pubblicato per la prima volta nellestate del 1911, Kroeber descrisse la scoperta, da parte di alcuni ispettori della California, di una consistente banda di indiani sopravvissuti di Mill Creek. The Elusive Mill Creeks (Gli inafferrabili di Mill Creek), ripubblicato nel 1972 dal Lowie/Hearts Museum of Antropology, racconta di come nel 1908 una squadra di ispettori locali di una compagnia elettrica scopr per caso un accampamento, nascosto ad arte nella foresta nei pressi di Deer Creek. Questo luogo fu con ogni probabilit uno degli ultimi nascondigli di Ishi e dei pochi parenti sopravvissuti. Allinterno dellaccampamento gli ispettori trovarono una donna di mezza et e due indiani anziani, un uomo ed una donna. La donna anziana, che riposava interamente ricoperta da pelli di coniglio, era molto malata e chiese dellacqua, che uno degli ispettori le port dopo che altri membri della trib erano fuggiti a nascondersi. Allora i bianchi, con una crudelt inaudita e senza motivo, portarono via tutte le coperte, gli archi e le frecce e tutti gli altri beni rimasti allaccampamento. In questo racconto, scritto per la divulgazione ad un ampio pubblico, Kroeber us parole ed espressioni che non comparivano di solito nelle sue pubblicazioni scientifiche: parla per esempio di una trib indiana completamente selvaggia ed indipendente, sprovvista di armi da fuoco, che si nasconde quando luomo bianco si avvicina (Kroeber 1972a, p. 1) e che riusc a non essere scoperta per quaranta anni. In un altro passo dellarticolo, Kroeber descriveva gli indiani di Mill Creek come una manciata di selvaggi e i loro cacciatori di taglie angloamericani come pionieri e minatori intraprendenti. La migliore fine che Kroeber poteva immaginare 144
per questa banda di indiani superstiti era che essi venissero presi prigionieri da una squadra di soldati americani, inviati dallOffice of Indian Affairs (Ufficio per la questione indiana).
Come poi possano essere catturati e portati via un altro grosso problema. E opinione unanime di chi li conosce che una truppa di cavalleria potrebbe perlustrare la regione di Deer Creek e di Mill Creek per mesi, senza riuscire a prenderli. Forse se degli uomini si chiudessero via via in un cerchio potrebbero circondarli e costringerli a dirigersi verso il centro (Ibid., p. 9).
Lobiettivo sarebbe stato quindi di farli confluire insieme agli altri reduci di trib senza terra che hanno vissuto per molti anni come vagabondi dispersi ai margini della civilt. Altrimenti, secondo Kroeber, avrebbero potuto ottenere poche miglia quadrate di terra nel canyon inaccessibile e senza valore di Deer Creek, dove vivono attualmente. Oppure il loro futuro sarebbe stato estremamente atroce:
Se persistono a mantenere il loro attuale stile di vita, i coloni dei dintorni continueranno probabilmente a subire ulteriori perdite di propriet e di bestiame. E se gli indiani vengono colti sul fatto, si pu mettere male per loro, perch gli allevatori in questi distretti hanno sempre il fucile a portata di mano e non possono essere accusati se ricorrono alla violenza [corsivo dellautrice] quando le loro propriet sono state ripetutamente prese di mira (Ibid., p.8).
Quasi come da copione, nel luglio 1911, lultimo membro di quella banda di fuorilegge, luomo che gli antropologi avrebbero successivamente chiamato Ishi e che Kroeber avrebbe descritto (in una lettera a Sapir) come lultimo indiano della California, fece la sua comparsa ad Oroville, Butte County, cittadina californiana legata alla storia delle miniere doro, sulle rive del fiume Feather. Spinto dalla fame o dalla disperazione, lindiano scese dalle pendici del monte Lassen e fu trovato rannicchiato nellangolo di un macello. Kroeber aveva appena finito di scrivere il suo articolo sugli ultimi indiani di Mill Creek quando ricevette una telefonata dalla prigione di Oroville con cui gli chiedevano aiuto per comunicare con il selvaggio. Lindiano aveva freddo ed era spaventato e, sebbene molto affamato, date le sue condizioni, si rifiut di accettare il cibo e lacqua che gli venivano offerti. Il suo unico indumento era un logoro mantello di tela. Nella prima foto scattata ad Ishi solo poche ore dopo la sua cattura (si veda figura 14.1), la sua espressione allarmata ed il suo stato di avanzato deperimento ci appaiono tristemente familiari, ricordando da vicino le foto scattate ai sopravvissuti allOlocausto, subito dopo la loro liberazione dai campi di concentramento alla fine della Seconda guerra mondiale. Vengono in mente anche i campi di lavoro in Kosovo. I capelli di Ishi erano stati notevolmente accorciati, tagliati o bruciacchiati, nel tradizionale segno di lutto degli Yahi. Forse lanziana donna abbandonata allaccampamento a Mill Creek era morta? Le guance di Ishi sono emaciate ed accentuano linfossatura degli occhi. La foto mostra un uomo intelligente e profondamente afflitto. Ishi stato descritto come lAnna Frank della California del nord: vittima di una caccia crudele, la sua famiglia sterminata, fino a quando, ultimo del suo gruppo, Ishi fu stanato dal suo nascondiglio tra i boschi. Tra alcuni indiani della California del nord si ipotizza che Ishi abbia cercato rifugio nel vicino villaggio del fiume Feather (indiani Maidu). I Maidu, come gli indiani del villaggio Pit River a nord del monte Lassen, erano noti per aver fornito qualche volta rifugio ai loro vicini Yahi in fuga. Ishi non era pazzo, mi disse, nella primavera del 2000, Art Angle, presidente del Comitato Culturale degli Indiani dAmerica del distretto di Butte ad Oroville. Sapeva dovera diretto. Ma tradito dai latrati dei cani da guardia, Ishi cadde nelle mani dei bianchi. Altri nativi californiani che vivono della zona pensano che Ishi fosse un tipo solitario, che aveva imparato dalla madre e da altri adulti a lui vicini ad 145
evitare tutte le persone. Un uomo di Pit River disse che Ishi, secondo lui, , non resisteva pi senza legami con altri indiani. Troppi anni da solo, hanno detto altri: Non aveva pi fiducia in nessuno bianchi o indiani, per lui tutto era indifferente. Ha sofferto troppo, ha detto un altro nativo. Anche i bianchi che oggi vivono e lavorano vicino allaccampamento di Mill Creek dove si trovava la famiglia di Ishi, continuano a parlare di lui. come se avvertissero ancora la sua presenza. Sai mi ha detto con tono arrabbiato un cacciatore di cervi, un bianco, giovane, incontrato in un supermercato di fronte a Mill Creek, dove si era fermato a fare provviste: dettero la caccia a Ishi, come se stessero cercando una volpe non so proprio come abbiano potuto fare una cosa del genere ad un uomo come lui.
[Inserire qui figura 14.1 Ritratto di Ishi, 29 agosto 1911. Tratto da Kroeber, T., 1961, Ishi in two Worlds, Berkeley, University of California Press]
Dopo essere stato salvato da Kroeber e dai suoi colleghi, Ishi trascorse gli ultimi anni della sua vita (1911 1916) come aiutante custode (pagato 25 dollari alla settimana), come informatore chiave per A. L. Kroeber e come esemplare vivente per il museo di antropologia dellUniversit della California, che allepoca aveva sede a San Francisco. Ishi ottenne un alloggio privato allinterno del museo, ma la sua camera si trovava di fianco ad un salone che conteneva unampia collezione di scheletri ed ossa umane che spaventavano e deprimevano lindiano. Durante il periodo che trascorse tra i bianchi (soprattutto medici e antropologi dellUniversit della California), Ishi fu utilizzato come informatore chiave per Kroeber, Tom Waterman ed altri antropologi locali o esterni, tra i quali Edward Sapir della Yale University, che Watermann accus di sovraccaricare di lavoro Ishi, gi indebolito dalla malattia. Come migliaia di altre persone di primo contatto, Ishi contrasse la tubercolosi, una malattia da citt e da uomo bianco, anche se le sue condizioni non vennero diagnosticate con certezza che nelle ultime settimane di vita. Kroeber non fu colto di sorpresa, perch temeva questa fine gi dal momento in cui la sua prima moglie Henriette gli fu portata via da questa terribile malattia che si stava gi diffondendo in molte citt degli Stati Uniti, proprio poco dopo larrivo di Ishi al museo. Ishi mor di quella che fu descritta come una tubercolosi galoppante nel marzo del 1916, mentre Kroeber si trovava in congedo sabbatico a New York. Analfabeta e illetterato, Ishi (a differenza di Anna Frank) non scrisse un diario, ma raccont alcune vicende della sua vita ad Alfred Kroeber, che registr quei frammenti per iscritto, oltre a registrare su primitivi cilindri di cera le sue narrazioni di miti, storie delle origini e fiabe yahi. Cerano per molte cose di cui Ishi non parl mai: la morte dei suoi parenti pi stretti e i suoi ultimi, terribili anni passati nelle vicinanze di Deer Creek, prima di decidere di mettersi in cammino verso sud, molto al di l dei territori normalmente occupati dalla comunit Yahi. Il silenzio di Ishi su alcuni temi era dettato da un tab degli Yahi a nominare i morti. Kroeber non riusc mai a scrivere la storia definitiva di Ishi e della sua gente. Dopo la scomparsa dellindiano, Kroeber evit di parlare del suo amico ed accanton, per molti anni, i materiali e gli appunti di campo su Ishi e sulla cultura Yahi. Nella sua biografia di A. L. Kroeber, Theodora Kroeber (1970) scrisse che quando si parlava di Ishi suo marito si sentiva molto a disagio, per cui in casa generalmente si evitava largomento. Forse Kroeber stava rispettando lusanza Yahi di non nominare e non parlare dei morti. O almeno a me piace pensarlo. Ma molti anni dopo questi tristi eventi, Kroeber permise alla sua seconda moglie, Theodora, di usare suo marito come un informatore chiave sugli ultimi anni di Ishi. In questo modo Theodora Kroeber raccont la storia che lantropologo non riusciva a scrivere e scrisse due resoconti memorabili e di alto valore letterario: Ishi in Two Worlds (1961) e Ishi: Last of His Tribe (1964). Di conseguenza, ci che conosciamo e ricordiamo oggi di Ishi si basa soprattutto su ci che scisse Theodora. 146
Ishi in Two Worlds si confronta direttamente con il tema che Krober aveva accuratamente evitato: la storia del genocidio degli indiani della California per mano dei coloni e degli allevatori bianchi. I capitoli 3, 4 e 5 del libro costituiscono una delle pi convincenti rappresentazioni della brutalit e della crudelt dei coloni bianchi in California. Cos, grazie alla rappresentazione puntuale di Theodora Kroeber della vita di Ishi e del suo tempo, Ishi ha fornito un volto, un nome e un racconto in prima persona allo sterminio della sua gente, che sarebbe altrimenti rimasto sconosciuto. Ishi ha finito per rappresentare pi della vita di un singolo uomo, perch riuscito a simbolizzare tutta la storia dei nativi americani. Se il semplice testo di Theodora si mostrato durevole, non cos stato per i fragili cilindri di cera sui quali Krober (e poi anche Sapir) registrarono le canzoni e le fiabe di Ishi: essi furono collocati negli archivi del museo di antropologia, troppo vicino ai caloriferi e molti si sciolsero. Una delle prime registrazioni superstiti il racconto fatto da Ishi del mito Yahi Il coyote dorme con sua sorella, che stato attentamente trascritto da Leanne Hinton e dai suoi studenti di Berkeley e confrontato con leggende simili raccolte tra le trib vicine. Nella conferenza dedicata a Il lascito di Ishi, tenuta a Oroville il 12 maggio del 2000, Hinton ha sottolineato con quanto trasporto Ishi raccontasse questa lunga leggenda, con tutti i suoi complicati significati nascosti, pieni di dettagli sulle pratiche Yahi della raccolta delle ghiande, sulla loro cucina e sulle loro abitudini quotidiane. Il motivo per cui Ishi, un uomo che in tutte le testimonianze viene presentato come eccessivamente riservato e addirittura pudico, scelse di raccontare proprio questa leggenda, dal contenuto esplicitamente sessuale e che affronta un tab Yahi molto radicato lincesto tra fratello e sorella per Hinton rimane un mistero. Ma il tema deve aver esercitato un certo potere su Ishi, un uomo adulto che era stato costretto a vivere, viaggiare e a nascondersi dai propri consanguinei, a lui sessualmente interdetti. Tra le numerose forme di violenza patite da Ishi per mano dei minatori e degli allevatori bianchi, che davano la caccia alla sua gente, ci furono anche le limitazioni alla sua sessualit e al suo diritto di riprodursi. Si trattava sempre di genocidio, anche se sotto unaltra forma. Anche dopo la sua cattura (o salvataggio) da parte dei bianchi, la sessualit di Ishi divenne oggetto di scherno. La stampa locale, per esempio, aveva tirato fuori la storia che Ishi si fosse infatuato di Lily Lena, una cantante londinese di music hall senza grosse pretese che si esib allOrpheum Theather di San Francisco nellautunno del 1911. Ma Kroeber (1911b) fece notare che Ishi fu colpito molto pi dallarchitettura delledificio e dalla folla che si trovava sotto il palco dove era seduto piuttosto che dalla signorina Lena, alla quale prest scarsa attenzione. In questo stesso breve scritto giornalistico Kroeber racconta dellarrivo a San Francisco di Ishi, durante la Festa dei Lavoratori del 1911. Quando luomo di nome Ishi scese dal traghetto e si trov in mezzo al luccichio delle luci elettriche, ai fattorini degli hotel e al rumore dei tram in Market Street, era spaventato e sconvolto. Ishi, scrive Kroeber, era
una figura curiosa e patetica in quei [primi] giorni. Timido, gentile, con una paura costante che cercava di contenere e nascondere come meglio poteva, egli, tuttavia, trasaliva e sussultava a qualsiasi rumore improvviso. La vista di qualcosa di nuovo o laccalcarsi attorno a lui di una mezza dozzina di persone gli irrigidiva gli arti. Se gli si prendeva e poi gli si lasciava la mano, il suo braccio rimaneva come irrigidito in aria per alcuni minuti. Il primo colpo di un cannone, sparato durante unesercitazione dellartiglieria al Presidio, a distanza di parecchie miglia, lo faceva saltare in piedi dalla sediaLa sua pi grande paura, che riusc a sconfiggere ma solo lentamente, era quella della folla. Non difficile capire questa sua fobia alla luce della sua vita solitaria in una trib di cinque persone [in seguito ridotta a tre ed infine ad uno] (Ibid.).
In questo doloroso passaggio Kroeber descrive i sintomi di quella che oggi potremmo considerare come un classica descrizione di un disturbo causato da uno stress post-traumatico. I trasalimenti improvvisi, le fobie, la 147
disposizione alla fuga sono simili a quelli di molte vittime del cosiddetto shock da bombardamento subito in guerra o durante stermini, rapimenti, torture, stupri e aggressioni fisiche (vedi Herman 1992). Tuttavia, nonostante la sua vulnerabilit fisica per le malattie della citt e la sua fragilit psicologica in quanto sopravvissuto ad un trauma estremo, Ishi veniva esibito al museo di antropologia, meta delle gite domenicali delle famiglie che vi si recavano per osservare il selvaggio della California che fabbricava frecce e lance per la pesca. Considerata lacuta paura delle folle di Ishi, ci si domanda perch Kroeber consentisse la sua esibizione di fronte alle masse della Fiera del Panama Pacific Trade. Nel 1915 Ishi inizi il suo inevitabile declino dopo aver contratto la tubercolosi. In un primo momento il suo grande amico e medico personale, Saxton Pope, non aveva saputo diagnosticare la malattia e non fu neanche in grado di notare (fino ad alcuni giorni prima della morte di Ishi) quanto il corpo dellamico fosse dimagrito e mal ridotto. Nel febbraio del 1916, un mese prima della morte di Ishi, Pope scrisse:
Per tutto questo tempo ha avuto una tosse moderata; ma unulteriore esame non ha permesso di mostrare alcun bacillo di tubercolosi.dopo aver mangiato, a quanto pare, ha provato grande dolore. Anche lacqua lha fatto star male e lho visto contorcersi in agonia, con le lacrime che gli solcavano le guance, ma tuttavia senza pronunciare il minimo suono di lamento. A quel punto, quando sembrava che stesse peggiorando cos in fretta che la fine doveva essere ormai vicina, lho convinto ad alzarsi dal letto e a farsi fotografare ancora una volta. Era sempre molto contento di essere fotografato, quindi acconsent. Fu solo dopo che la foto venne sviluppata che mi accorsi in quale pietoso stato fosse ridotto (Pope 1920, p. 19; corsivo aggiunto).
Lultima cartella clinica di Ishi stilata allaccettazione nellospedale dellUniversit della California riporta:
Ishi numero 11032. 19 marzo 1916. Indiano dalla pelle nera, ben sviluppato ma estremamente emaciato, giace a letto.vomita ed ha occasionalmente conati di vomito, in evidente stato di dolore naso largo e notevolmente arcuato; zigomi alti e guance infossate, profondo abbassamento delle orbite, apparentemente dovuto a deperimento (Ibid.).
Quando nel 1916 Kroeber decise di lasciare lUniversit della California per trascorrere un anno sabbatico allestero e a New York City, sapeva che il suo saluto a Ishi poteva essere lultimo. Ma Ishi, a quanto si dice, rovesci la situazione nel suo pi ampio significato metaforico, dicendo ad Alfred: Io vado, tu rimani. Negli ultimi giorni di vita di Ishi, Kroeber invi da New York numerosi telegrammi nei quali chiedeva notizie aggiornate sulle sempre pi gravi condizioni di salute dellamico. Ishi aveva affidato a Kroeber il compito di occuparsi delle sue spoglie, ma quando giunse il momento, Kroeber che si trovava lontano non riusc ad evitare che fosse condotta unautopsia sul corpo di Ishi, durante la quale il cervello dellindiano venne asportato in nome della scienza. Quando Kroeber ritorn a Berkeley, inspiegabilmente fece in modo che il cervello di Ishi fosse inviato allo Smithsonian Institution perch fosse esaminato. Luomo a cui fu inviato il cervello, Ales Hrdlika, era un eminente antropologo fisico della vecchia scuola, un uomo che si dedicava con ossessione alla collezione e alla misurazione di esemplari di cervello, di vari tipi di primati: esseri umani esotici (come Ishi) o genii occidentali (come John Wesley Powell, il primo direttore del Bureau of American Ethnology). Kroeber sapeva che Ishi non vedeva di buon occhio la pratica scientifica delluomo bianco di conservare teschi e altre parti del corpo, ma probabilmente pens che ormai era troppo tardi per tali remore sentimentali: Ishi era morto e loltraggio ai suoi resti ormai era gi stato commesso ed era irreversibile. Probabilmente pens che la scienza, alla quale aveva dedicato senza riserve la propria vita, avrebbe potuto trarre 148
beneficio dalla tragedia della morte del suo amico e informatore. Se le cose stanno cos, fu un trionfo della scienza sul sentimento. In ogni caso, Kroeber scrisse a Hrdlicka, il 27 ottobre del 1916:
Ho visto che, con la morte di Ishi la scorsa primavera, il suo cervello fu asportato e conservato. Non c nessuno qui che lo possa utilizzare per scopi scientifici. Se lo desidera, sarei felice di depositarlo nella collezione del Museo Nazionale
Hrdlicka rispose il 12 dicembre del 1916 che sarebbe stato molto lieto di ricevere il cervello e che lo avrebbe opportunamente esaminato. Tuttavia non ci sono prove che il cervello di Ishi sia stato utilizzato in qualche studio di antropologia fisica o ad uso scientifico: fu semplicemente dimenticato e abbandonato in un deposito dello Smithsonian Institute, conservato in un contenitore di formaldeide insieme ad altri esemplari di cervello. In alternativa, il comportamento di Kroeber pu essere interpretato come un atto di lutto morboso. Il dolore pu essere espresso in molti modi diversi, andando dalla negazione e dallincapacit di accettazione alla rabbia dei cacciatori di teste Ilongot (Rosaldo 1989). Secondo Theodora Kroeber (1970) suo marit soffr immensamente alla notizia della morte dellamico e delloltraggio compiuto sul suo cadavere. Cadde in un lungo periodo di depressione e per sette anni segu un modello di fuga. Kroeber defin questo sconvolgente periodo della sua vita (dal 1915 al 1922) come la sua egira un periodo buio, di viaggio, ricerca di se stesso e malinconia - contraddistinto da sintomi apparentemente strani: perdita di equilibrio, nausea, vertigini, esaurimento e spossatezza. Il suo stato era simile a quella che di solito si chiama nevrastenia. Di fronte al dolore represso di Kroeber per il decesso della sua prima moglie e del suo amico ed informatore chiave, morti entrambi per la stessa malattia a distanza di poco tempo luno dallaltra, viene in mente il saggio di Freud su lutto e malinconia. Subito dopo la morte di Ishi, Kroeber lasci nuovamente la California per ricoprire un incarico temporaneo presso il Museo di Storia Naturale di New York. In realt Kroeber and a New York per iniziare una psicoanalisi di tipo classico con il dottor Jeliffe, un ex studente di Anna Freud. Kroeber riconosceva che quei segnali erano da ricondurre ad una sua mancanza di equilibrio psichico. Con la morte di Henriette era stata distrutta la vita privata di Kroeber; con la morte di Ishi la sua vita professionale sembr perdere significato. Cos, allet di 40 anni, Kroeber si trov per la prima volta a mettere in discussione la scelta della propria carriera e dei propri obiettivi professionali di lungo termine. Quando ritorn a Berkeley, Kroeber inizi un tirocinio in terapia psicoanalitica presso la Stanford Clinic. Successivamente apr uno studio privato a San Francisco. Quando nel 1922 Kroeber riprese a tempo pieno la sua carriera di antropologo, si rivolse a nuovi campi e nuove impostazioni di ricerca: si dedic allarcheologia, fece esperimenti avvalendosi di metodi pi oggettivi e statistici che gli permisero di prendere la distanza dagli aspetti pi personali e psicologici della vita umana. Lindividuo e il piccolo gruppo erano ora interpretati come parte di una pi ampia configurazione che Kroeber chiamava il superorganico. Allo stesso modo il suo nuovo interesse per le aree culturali permise a Kroeber di raccogliere una grande quantit di dati statisticamente comparabili per tutti i nativi della California (T. Kroeber 1970, p. 163). Nel complesso, si trattava di una fuga nelloggettivismo, guidato dal desiderio di rilevare il flusso e riflusso delle culture, che Kroeber arriv a ritenere inevitabile come i cicli di giorno e notte o di vita e morte. E facile oggi, con il senno di poi, riconoscere la miopia degli antropologi che ci hanno preceduto, in questo caso il rifiuto intellettuale di Kroeber di riconoscere il genocidio degli Indiani della California del Nord e la sua apparente mancanza di sensibilit rispetto alle spoglie di Ishi. Kroeber non era indifferente nei confronti dei suo informatori indiani viventi. A Berkeley Kroeber ospitava di frequente informatori e amici, alcuni dei quali vi 149
vivevano con la propria famiglia per diverse settimane (Ibid., 158-9). Negli anni 50, alla fine della sua lunga e brillante carriera, Kroeber abbandon la sua normale reticenza nei confronti dellantropologia applicata per prendere le parti degli indiani californiani in un importante caso di rivendicazione territoriale: gli Indiani contro gli Stati Uniti dAmerica (Ibid., p. 221). Sebbene Kroeber considerasse il caso senza speranza, gli indiani alla fine vinsero la causa e sei anni dopo la morte di Kroeber ad essi fu assegnata una cifra simbolica come risarcimento per le loro perdite collettive (Shea 2000, p.50). Theodora Kroeber (1970) afferm che nel caso della rivendicazione territoriale i bianchi erano colpevoli e in cattiva fede. Diciotto anni dopo la prima apertura del caso, il presidente Johnson approv un disegno di legge in base al quale si assegnavano 800 dollari a tutti gli indiani (uomini, donne e bambini) correttamente identificati e riconosciuti che si trovassero negli Stati Uniti nel settembre 1968. Era proprio il tipo di costoso ma insignificante risultato che Kroeber aveva maggiormente temuto (Ibid., p. 223). lecito domandarsi come si sarebbe potuto agire diversamente. Quali alternative aveva Kroeber? Prima che Ishi si ammalasse Kroeber avrebbe potuto occuparsi del delicato argomento di stabilire dove e da chi Ishi si stava dirigendo quando fu catturato mentre stava fuggendo nei pressi di Oroville? Se, come pensano alcuni indiani Maidu dei nostri giorni, avesse cercato rifugio presso altre popolazioni native, non poteva essere questa una possibile soluzione? E dopo che la salute di Ishi inizi a peggiorare, il museo e lospedale erano veramente i posti migliori dove confinare luomo? Fino ad oggi ci siamo sempre dati da fare per dimostrare che Ishi era un uomo felice (si veda la satira di Gerald Vizenor [2000, pp.137-59]), che era contento della sua nuova vita tra gli amici bianchi, che era incantato dai fiammiferi, dalle tapparelle e da altre manifestazioni di ingenuit delluomo bianco; che era contento del posto di custode del museo e della sua esibizione della domenica. Forse lo fu davvero. Ma i fatti (vedi Heizer, T. Kroeber 1979) suggeriscono unaltra interpretazione, cio che Ishi fosse semplicemente stanco di una vita in fuga. Il museo di antropologia fu la fine del suo percorso. Sebbene non per sua scelta, Ishi accett il suo destino con grande spirito di sopportazione, una certa dose di umorismo e benevolenza. Era diventato un grande esperto nellarte del saper attendere.
Le ceneri di Ishi
Il capitolo conclusivo della triste storia di Ishi e dellantropologia di Berkeley si apr nel 1999 con la riscoperta del cervello di Ishi, che era rimasto per tre quarti di secolo in un contenitore di formaldeide in un deposito dello Smithsonian Institution, e con la richiesta dei nativi californiani di una sua immediata restituzione. I membri del Dipartimento di Antropologia di Berkeley avevano opinioni diverse su che cosa si dovesse dire o fare in proposito. Si tenne unapposita riunione di dipartimento e alla fine fu votato e approvato un documento di compromesso. Sebbene mancassero le scuse agli indiani del nord della California, che un gran numero di membri della facolt aveva sottoscritto in una prima stesura, la versione finale concludeva:[3]
Noi riconosciamo la responsabilit del nostro dipartimento per quello che successe ad Ishi, un uomo che aveva gi perso tutto ci che aveva di pi caro. Sollecitiamo caldamente che la procedura di ritorno del cervello di Ishi presso le istituzioni appropriate dei nativi americani sia portata a termine il pi velocemente possibile [] invitiamo i popoli nativi della California a darci indicazioni su come possiamo essere maggiormente utili ai bisogni delle loro comunit attraverso le nostre attivit di ricerca. Forse, lavorando assieme, potremo garantire per il prossimo millennio una nuova era nella relazione tra popoli indigeni, antropologi e opinione pubblica. (29 marzo 1999, Dipartimento di Antropologia, Universit della California, Berkeley) 150
Le seguenti parole ed espressioni, presenti, nella prima stesura, vennero cancellate:
Quello che successo al corpo di Ishi in nome della scienza stata una perversione dei nostri valori antropologici di fondo. La scienza procede grazie alla correzione degli errori passati e attraverso un graduale processo di auto-riflessione critica [] Siamo dispiaciuti del ruolo avuto dal nostro dipartimento, per quanto non voluto, nellultimo tradimento subito da Ishi, un uomo che aveva gi perso tutto ci che aveva di pi caro per mano dei colonizzatori occidentali. Riconosciamo che lo sfruttamento ed il tradimento dei nativi americani ancor oggi un luogo comune nella societ americana. Lantropologia che nata agli inizi del XX secolo la cosiddetta antropologia di recupero era una scienza umana dedita a salvare ci che era rimasto dei popoli e delle culture indigene in seguito ad un genocidio nazionale.
Ebbi per occasione di leggere questo lungo documento nel corso di unaudizione presso lassemblea legislativa di stato, tenuta a Sacramento nellaprile del 1999 e dedicata alla restituzione delle spoglie di Ishi. Alcuni rappresentanti delle comunit native della California, come Art Angle del Comitato culturale degli indiani americani di Butte County, apprezzarono e accettarono latto di scuse, giudicandolo un grande passo per lantropologia e per lUniversit della California. Altri portavoce indiani, come Gerald Vizanor, docente di studi sui nativi americani a Berkeley, respinsero questa dolente retorica e il relativo atto di scuse, che egli defin troppo breve e troppo in ritardo. Ovviamente, un intero secolo di diffidenze tra indiani e antropologi (si vedano Deloria 1988 [1969]; Thomas 2000), radicate in una storia di genocidio, richiederebbe, come ha osservato Vizanor, molto pi di un atto di scuse o di una conferenza accademica. La consegna del cervello di Ishi da parte dello Smithsonian Institution ai rappresentanti della trib di Pit River, l8 agosto 2000, ha chiuso un triste capitolo della storia dei rapporti tra gli antropologi e gli indiani. Forse questo evento ha anche aperto la strada per un impegno pi costruttivo e significativo degli antropologi verso i sopravvissuti ai genocidi e agli etnocidi compiuti dagli Stati Uniti. Confrontata con il ruolo che lantropologia ha svolto nel fornire una giustificazione scientifica e un insieme di strumenti concettuali allOlocausto degli ebrei (Arnold 2002; Schafft 2002), la piccola storia di una complicit dellantropologia nella cancellazione della storia dei genocidi in California o nella reificazione di un Ishi ridotto ad oggetto di analisi antropologica, potrebbe apparire di secondaria importanza. Ma allinterno del quadro concettuale che qui propongo, cio il continuum genocida, fondamentale non perdere di vista la facilit con cui lanormale normalizzato e le morti dei nostri soggetti antropologici vengono fatte apparire come inevitabili o semplice routine.
Antropologia e apartheid
Un altro esempio, ancora pi estremo, dellapplicazione di idee, metodi e concetti antropologici ad una politica ufficialmente genocida, riguarda il ruolo ideologico e pratico che la tradizione dellantropologia culturale tedesca e olandese (conosciuta in Sud Africa come Volkekunde) ha svolto nella giustificazione e nel progetto dellapartheid sudafricano. Lidea che le persone fossero naturalmente divise in gruppi culturali e in popolazioni in relazione a differenze facilmente riconoscibili sul piano della tipologia fisica, dellorganizzazione sociale, della lingua e delle istituzioni culturali, insieme ai concetti chiave di razza, trib, gruppo etnico, comunit ed ethos, furono elementi prontamente utilizzati come sostegno per la costituzione delle patrie Bantu del Sud Africa, del Group Areas Act (1950) e di altre istituzioni di segregazione culturale e razziale. Questa linea politica fu difesa dagli architetti dellapartheid come misura di protezione del patrimonio 151
culturale unico di popoli diversi (vedi Boonzaier, Sharp 1988). Una simile applicazione perversa di discorsi antropologici fu chiaramente un pretesto per favorire la spietata dominazione bianca e la soppressione della maggioranza nera, un sistema appoggiato in alcune universit e in alcuni dipartimenti di antropologia degli Afrikaner. La Volkekunde ha fornito un programma e una spiegazione scientifica per lapartheid. Si trattava di una tradizione dellantropologia ispirata sia dalletnografia e dal folklore tedesco della fine del xix secolo, sia dallantropologia americana del xx secolo, specialmente da quella della scuola di Boas e Kroeber (che integrava antropologia biologica, linguistica e culturale) come anche dalla scuola del configurazionalismo culturale romantico di Ruth Benedict. Infatti Patterns of Culture di Benedict veniva letto in alcuni circoli del Sud Africa durante gli anni 70 e 80 come una sorta di Magna Charta romantica di un radicale apartheid, come argomento a favore della salvaguardia di nozioni reificate di modelli culturali e di distinzioni. Lantropologia culturale degli afrikaner, che si rifaceva alla tradizione degli studi americani di cultura e personalit tra gli anni 50 e i primi anni 60, forn al governo del Partito Nazionale le teorie riduzioniste di cultura, comunit e personalit di base, che vennero utilizzate per giustificare una politica di sviluppo culturale parallelo. Le riserve degli indiani americani sono state spesso citate dai teorici dellApartheid come un modello per la creazione degli odiati stati bantu. Tuttavia, durante una visita allUniversit Afrikaner dellOrange Free State nel 1994, rimasi scioccata nel vedere grandi ritratti dei padri e delle madri fondatrici dellantropologia americana abbellire le pareti del dipartimento di antropologia. Sarei stata curiosa di sapere che cosa avrebbero detto il grande antirazzista Franz Boas, letnografo di Berkeley Robert Lowie e Alfred Kroeber, il fondatore del dipartimento di Berkeley, nonch lirascibile madre di tutti noi, Margaret Mead, riguardo al fatto che le loro immagini venissero esposte da unistituzione che aveva servito, pi o meno fedelmente, lo Stato dellapartheid in Sud Africa. La giustificazione che mi fu data della loro presenza fu di ordine genealogico: sia lantropologia culturale americana che lantropologia afrikaner sono nate dalla stessa tradizione dellidealismo tedesco del xix secolo, che si occupato di scoprire il genio proprio di ogni gruppo culturale, un genio che aveva bisogno di essere accuratamente coltivato e sviluppato, in relazione ai propri valori intrinseci e allinterno del proprio spazio culturale (nonch geografico). Questo ideale era lobiettivo originale dellapartheid come era stato concepito dal grande antropologo sudafricano H. F. Verwoerd. Nel contesto di questa storia tormentata, mi sono chiesta (Scheper-Hughes 1996, pp. 344-46) quale ruolo avrebbe potuto eventualmente svolgere unantropologia culturale reinventata e liberata da queste radici nella costruzione di un nuovo Sud Africa. Si potrebbero fornire anche altri esempi delluso improprio che stato fatto di idee e di pratiche antropologiche nel fomentare violenze strutturali e politiche; ma si possono anche citare molti pi esempi in cui idee e metodi antropologici sono stati usati come strumento di liberazione umana e di opposizione a progetti statali di sterminio e di genocidio. La tradizione oppositiva e marxista dellantropologia sociale come stata praticata da alcuni antropologi a Witswatersrand, lUniversit di Cape Town, e allUniversit di Western Cape in Sud Africa, durante gli anni dellApartheid, ne rappresenta un esempio. Il coraggioso lavoro politico dellantropologo forense Clyde Snow, in collaborazione con Mary Clare King, un altro esempio di antropologia politicamente impegnata di fronte al genocidio. Snow ha aiutato ad organizzare e ad addestrare lEquipo Argentino de Antropologia Forense di Buenos Aires, uno dei primi gruppi ad usare la tecnologia del DNA per identificare i resti dei desaparesidos riesumati dalle fosse comuni. Pi recentemente questi metodi sono stati usati per localizzare e identificare i figli e i nipoti gi adulti di alcuni di questi desaparesidos che erano stati adottati da famiglie di militari durante la guerra sporca in Argentina (1975-83). Un lavoro simile viene svolto oggi in Salvador, Guatemala e Bosnia con laiuto dellantropologia forense applicata. Questo nuovo campo 152
dellantropologia forense politicamente impegnata ha visto la luce nellultimo ventennio come potente pratica politica e scientifica in difesa dei diritti umani durante ed in seguito a genocidi e ad altri tipi di stragi di massa. Se alcuni concetti chiave dellantropologia il concetto di cultura di Lowie, il concetto di razza di Boas, il configurazionalismo di Ruth Benedict e lidea dei caratteri nazionali di Mead - sono stati applicati in modo perverso per favorire il razzismo scientifico e gli stermini, questi stessi concetti sono stati usati in altri tempi e in altri luoghi per promuovere i diritti sociali e umani di individui e di gruppi culturali svantaggiati. Infine ci sono sempre pi antropologi che non si sono persi la rivoluzione, che non hanno distolto lo sguardo dai genocidi e che si sono schierati apertamente dalla parte delle vittime e dei sopravvissuti di violenze politiche ed etniche, tentando coraggiosamente di scrivere e agire in modo sovversivo (si vedano Aretxaga 1995; Binford 1996; Borneman 1997; Bourgois 1999; Daniel 1996; Das 1996; Feitlowitz 1998; Feldman 1991; Green 1999; Leyton 1998b; Nelson 1999; Malkki 1995; Pedelty 1995; Quesada 1998, 1999; Robben 2000; Suarez-Orozco 1987; Swedenburg 1995; Taussig 1987; Zulaika 1988, nonch i saggi raccolti in Hinton 2002).
Modernit del genocidio
La controversa tesi di Bauman (1991), che mette in relazione il genocidio con un determinato stadio di formazione dello Stato, con lefficienza tecnologica, la razionalit e la soggettivit, smentita in molti degli esempi etnografici contemporanei.[4] Sebbene il concetto legale di genocidio sia nuovo, si pu riconoscere un impulso eliminazionista in condizioni di vita pre-moderne, oltre che moderne o tardo-moderne. Un modello spirituale per il genocidio si pu trovare nel libro della Genesi, quando il Dio creatore si trasforma nel Dio distruttore dellumanit, in unespressione di furia genocida. Il Dio degli ebrei del deserto volle che unalluvione distruggesse ogni traccia di vita umana (tranne No e la sua famiglia). La distruzione di Sodoma e Gomorra un altro prototipo biblico di strage di massa, cos come il decreto di re Erode che ordina luccisione di tutti i neonati primogeniti in Giudea. In questi racconti biblici, Dio costruito a problematica immagine e somiglianza delluomo. Genocidi e stermini sono stati attribuiti a Stati deboli (Bayart 1993; Reno 1998) o alla mancanza di uno Stato, per esempio nella molto discussa tesi di Robert Kaplan (1994) di un avvento dellanarchia in riferimento al caos e alla violenza che ha segnato lAfrica equatoriale post-coloniale, soprattutto lAngola e la Sierra Leone. Altrove i genocidi sono stati messi in relazione con Stati potenti, autoritari e burocraticamente efficienti come la Germania della met degli anni 20 (Goldhagen 1997, Arendt 1963). Ancora, i genocidi sono stati collegati allindividualismo anomico oppure, cambiando scenario, al comunitarismo e alle sue richieste di ubbidienza e di sacrificio umano (Gourvitch 1998, p. 33-34; Zulaika 1988). La caccia alle streghe in alcune zone dellAfrica e sugli altipiani della Nuova Guinea ha portato, in societ di piccola scala e pre-moderne, a collassi demografici che potrebbero essere considerati degli esempi alternativi di genocidio politico. Limpulso a individuare ed eliminare tutte le streghe, considerate in determinate societ come elementi del male, mosso dallo stesso tipo di dottrina delligiene sociale, caratteristica del genocidio negli Stati moderni. I massacri e gli stermini, che hanno spesso causato lestinzione di intere popolazioni indigene che vivevano in bande isolate, compiuti da piccoli gruppi di cacciatori di taglie, cercatori doro e coloni bianchi o meticci, sembrano non rientrare nei tipi di modernit a cui si riferisce la tesi di Bauman. Infatti, gli stermini, i genocidi e le estinzioni programmate di popolazioni ridotte a capro espiatorio, sono avvenuti sia in societ pre-statali sia negli Stati dellantichit e della modernit. Uli Linke (2002), rifacendosi alla tradizione weberiana e sulla scia di Hannah Arendt (1963) e Daniel Goldhagen (1997), vede lOlocausto come una sorta di folle trionfo dellefficienza razionale, un risultato distorto della crescente razionalizzazione della vita sociale. Ultimamente Agamben (1998) 153
ha descritto il campo di concentramento come il prototipo della biopolitica tardo-moderna, per la sua creazione di una popolazione di morti viventi, dei cui corpi e delle cui vite lo Stato pu disporre a suo piacimento e non per sacrificio (religioso) o per crimini commessi (pena capitale), ma solo grazie al loro essere disponibili per lesecuzione. Quindi Olocausto sarebbe un termine improprio, perch non atterrebbe alla religione o a corpi sacrificati come offerte immolate per placare gli dei. Se Agamben ha ragione, le moderne forme di genocidio rendono effettive la capacit e la disponibilit ad essere sterminate da parte di certe popolazioni vulnerabili - una teoria pericolosa che ricorda la condanna, da parte di Hannah Arendt, dei capi ebraici che collaboravano con i nazisti. Nonostante ci, come riconoscono Agamben e Foucault, vero che il corpo sta al centro delle moderne bio-politiche, cos come delle giustificazioni razziste del genocidio, ad esempio in Germania (Linke 2002) e in Ruanda (Taylor 2002). Con la scioccante ricomparsa di genocidi e di altre stragi di massa negli ultimi anni del xx secolo in Africa (Malkki 1995), nellAsia del Sud (Das 1996; Daniel 1997), nellEuropa dellEst (Oluijc 1998), in America Latina (Green 1999; Suarez-Orozco 1987; Robben 2000) gli antropologi sono stati testimoni della riapparizione di un fenomeno che i moderni pensavano non potesse pi ripresentarsi dopo lOlocausto. In America Latina, nel periodo delle guerre sporche e delligiene sociale promosso dai militari, leliminazione delle popolazioni disprezzate era portata avanti con tecniche e pratiche di tortura che difficilmente potrebbero essere definite moderne. Le forze di sicurezza del governo dellapartheid hanno riscoperto i primitivi roghi per le streghe e hanno eliminato i propri nemici politici facendoli ardere lentamente, a volte mentre erano ancora vivi sopra delle fosse ricoperte da una grata (Scheper-Hughes 1998). La tortura del trespolo del pappagallo dei militari brasiliani e argentini somigliava molto ad una tecnica usata dallInquisizione. Per la verit i militari argentini utilizzarono aeroplani moderni per disfarsi, gettandoli in mare, dei cadaveri di chi avevano sottoposto a torture medievali. I genocidi ruandesi fecero molto affidamento sui mass-media, in particolare sulla radio, per spingere gli assassini Hutu a compiere barbarici atti di crudelt (Gourvitch 1998). Intanto linvenzione presumibilmente moderna delle sparizioni politiche viene definita dalle popolazioni terrorizzate, soggette a questi rastrellamenti finalizzati ad uccisioni di massa, nellidioma pre-moderno di rapimento di corpi, furto di sangue ed organi e omicidio rituale. Che tipo di modernit rappresentano i genocidi della Cambogia, del Ruanda e del Burundi? Una caratteristica comune a tutti questi casi limmaginario corporeo 2002; Taylor 2002); linteresse ossessivo per il corpo, per il sangue e la genealogia, certo, ma anche per la definizione di fenotipi e tipi di corpo, ad esempio la forma e la lunghezza particolare di teste, braccia, gambe, natiche, capelli e labbra, insomma tutto il folle immaginario corporeo razzista del mondo tardo-moderno. Alla luce di queste recenti atrocit, siamo costretti a porci nuovamente la domanda che aveva tormentato unintera generazione post-Olocausto di studiosi sociali: Che cosa rende possibile il genocidio? Cosa possiamo dire dopo tutto dellanthropos? Quali sono i suoi limiti e le sue possibilit? E come si spiega la complicit della gente comune, i proverbiali ed involontari spettatori, di fronte alle nuove esplosioni di violenza genocida? Adorno e la Scuola di Francoforte, dopo la Seconda Guerra Mondiale, hanno avanzato la tesi che la partecipazione ad atti di genocidio richieda un forte condizionamento nellet infantile, cosa che produce unubbidienza quasi irrazionale nei confronti delle figure che rappresentano lautorit. Pi recentemente Goldhagen (1997) ha sostenuto invece che migliaia di comuni cittadini tedeschi parteciparono volontariamente, addirittura entusiasticamente allOlocausto, non sotto la minaccia di pene o di vendette da parte delle autorit, ma perch essi scelsero, a volte con entusiasmo, di farlo spinti solo dallodio razziale. Tuttavia i teorici moderni del genocidio hanno proposto alcuni pre-requisiti necessari per una partecipazione di massa ai genocidi. Le uccisioni di massa 154
raramente fanno la loro apparizione sulla scena allimprovviso, bens si sviluppano: ci sono punti di partenza identificabili o circostanze che le scatenano. I genocidi sono spesso preceduti, per esempio, da sconvolgimenti sociali, da un radicale declino delle condizioni economiche, da disorganizzazione politica, da cambiamenti socio-culturali che causano una perdita dei valori tradizionali e anomia. Il conflitto tra gruppi avversari per il controllo delle risorse materiali terra ed acqua pu avere unescalation e degenerare in furiose uccisioni di massa, quando si colleghi a sentimenti sociali che mettano in discussione o denigrino lumanit del gruppo avversario. Forme estreme di noi-contro-loro possono produrre una percezione dellidentit sociale fondata sulla svalutazione e la stigmatizzazione dellaltro, come un nemico meno che umano. Lesempio tedesco ha allertato una generazione di studiosi post-bellici sul pericolo del conformismo sociale e della mancanza di dissenso. Pi recentemente i conflitti in Medio Oriente, nella ex Jugoslavia e in numerose societ post- coloniali dellAfrica sub-sahariana suggeriscono che una storia in cui ci siano sofferenza e vulnerabilit sociale, soprattutto una storia in cui compaia la violenza razziale, rende vulnerabili verso la violenza di massa. Una sorta di disturbo da stress post-traumatico collettivo pu predisporre certe popolazioni ferite ad unipervigilanza che, a sua volta, pu portare ad un altro ciclo di stermini e genocidi per auto-difesa. Altre condizioni comuni per levoluzione del genocidio sono il sacrificio rituale e il tentativo di identificare un capro espiatorio, una classe sociale o un gruppo etnico o razziale cui attribuire la colpa per i problemi sociali ed economici. Infine ci deve essere unideologia condivisa, una guida e una visione del mondo e della vita, secondo la quale certi tipi di persone rappresentano un ostacolo a una vita buona o santa, e per questo devono essere allontanati, eliminati o annientati. C la convinzione che tutti trarranno beneficio da questa pulizia sociale, anche le stesse vittime. Infine ci deve essere un folto gruppo di spettatori che, come nel caso dei bianchi del Sud Africa, semplicemente permettono che continuino a venir impiegate politiche di avversione e ostilit contro le vittime designate, senza consistenti forme di disobbedienza civile; oppure che, come nella Germania nazista o in Ruanda, vengono reclutati per prender parte agli atti di violenza genocida. Tuttavia il ruolo degli spettatori esterni o globali non ancora stato studiato attentamente: ad esempio il comportamento dei potenti Stati nazionali e delle organizzazioni internazionali o non-governative come le Nazioni Unite, i cui ritardi o rifiuti di intervento possono aiutare o incoraggiare i genocidi in un momento in cui la situazione potrebbe ancora essere arginata. Nel caso del Ruanda, per esempio, le forze di pace dellONU avevano ricevuto lordine esplicito di non fare nulla. Allo stesso modo, durante lOlocausto e le peggiori fasi del programma di terrore politico dellapartheid, molte imprese statunitensi continuarono a fare affari con gli esecutori della violenza di massa. Le origini e levoluzione del genocidio sono complesse e sfaccettate, ma non sono imperscrutabili o imprevedibili.
Crimini di pace. Il continuum genocida
Ho suggerito che esista un continuum genocida fatto di uninfinit di piccole guerre e genocidi invisibili condotti negli spazi sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie dospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori pubblici. Questo continuum rinvia alla capacit umana di ridurre gli altri allo status di non-persone, di mostri o di cose, meccanismo che d una struttura, un significato e una logica alle quotidiane pratiche della violenza. fondamentale che riconosciamo nella nostra specie (e in noi stessi) una capacit genocida e che esercitiamo unipervigilanza difensiva, unipersensibilit nei confronti di atti forse meno evidenti, ma autorizzati e quotidiani di violenza che, in altre condizioni, rendono possibile la partecipazione a genocidi e questo forse pi facilmente di quanto ci 155
piacerebbe credere. Includerei tra questi atti tutte le forme di esclusione sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione, pseudo-speciazione e reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la violenza verso gli altri. Un costante richiamo a stare in guardia, uno stato di costante ipervigilanza la ragionevole risposta alla visione di Benjamin della storia tardo-moderna come uno stato di emergenza cronico. Mi rendo conto che riferendomi a un continuum del genocidio mi muovo su un terreno pericoloso. Questo concetto si scontra direttamente con una tradizione di studi sul genocidio che sostiene lassoluta unicit dellOlocausto degli ebrei, per esempio, e invita a porre la massima attenzione e a limitare luso del termine stesso di genocidio (si vedano Kuper 1885; Chaulk 1999; Chorbajian 1999). Tuttavia condivido con Carole Nagengast (2002) il punto di vista alternativo secondo cui dobbiamo fare proprio tali salti esistenziali per istituire un confronto tra gli atti violenti dei periodi di normalit e di anormalit. Se moralmente rischioso estendere la connotazione del concetto di genocidio agli spazi e agli ambiti della vita quotidiana, in cui di solito potremmo pensare di non trovarlo (e invece c), ancora pi pericoloso non riuscire a sensibilizzare noi stessi, non riconoscere quelle pratiche e quei sentimenti protogenocidi praticati quotidianamente come comportamento normale da brave persone. Qui ci utile la teoria sulla violenza di Pierre Bourdieu, rimasta parziale ed incompiuta, che includeva le forme normative e quotidiane di violenza nascoste nei dettagli delle pratiche sociali normali: larchitettura delle case, le relazioni di genere, lattivit della comunit, lo scambio di regali e cos via. Bourdieu ci costringe a riconsiderare i significati pi ampi e lo status della violenza, soprattutto le connessioni tra la violenza della vita quotidiana e il pi esplicito terrore politico. Allo stesso modo, il concetto di crimini di pace formulato da Franco Basaglia immagina una relazione diretta tra periodi di guerra e di pace, tra crimini di guerra e di pace. In questa prospettiva i crimini di guerra possono esser considerati come una forma di violenza ordinaria, come crimini sui quali vi un pubblico consenso, laddove vengano sistematicamente e drammaticamente impiegati in periodi di guerra e di genocidio dichiarato. I crimini di pace ci costringono a considerare gli usi ed i significati paralleli dello stupro nei periodi di guerra e di pace; oppure a riconoscere le somiglianze tra, da un lato, i raid di confine e le aggressioni fisiche compiute da agenti ufficiali INS (Immigration and Naturalization Service) nei confronti di rifugiati dal Messico e dallAmerica centrale (Nagengast 2002) e, dallaltro, precedenti genocidi di stato come lesilio forzato degli indiani Cherokee, il loro sentiero delle lacrime. Le forme quotidiane della violenza di Stato, i crimini di pace, rendono possibile un certo tipo di pace interna. Negli Stati Uniti (e soprattutto in California) la straordinaria crescita di un nuovo complesso carcerario militarizzato e postindustriale avvenuta senza alcuna diffusa opposizione. Quante esecuzioni pubbliche di assassini mentalmente ritardati sono necessarie perch i ricchi si sentano pi sicuri? Quante nuove prigioni di massima sicurezza sono necessarie per contenere una crescente popolazione di giovani neri e latinoamericani, emarginati, visti come nemici pubblici? I crimini di pace ordinari, come la continua trasformazione delle prigioni americane in campi di concentramento alternativi per neri, costituiscono le piccole guerre e gli invisibili genocidi a cui mi riferisco. Lo stesso discorso vale per gli alti tassi di mortalit giovanile ad Oakland, in California, e a New York. Ci sono genocidi invisibili, non perch siano occultati o nascosti alla vista, ma esattamente al contrario. Come ha osservato Wittgenstein, le cose che abbiamo pi difficolt a vedere sono proprio quelle che stanno davanti ai nostri occhi e che diamo per scontate. Alla luce di questi fenomeni faremmo bene a recuperare la dottrina anagogica classica, che permise a Erving Goffman e a Jules Henry (cos come a Franco Basaglia) di scorgere delle relazioni logiche tra i campi di concentramento e i manicomi, le case di cura ed altre istituzioni totali, cos come tra i prigionieri e i malati di mente. Questo spiega la capacit e la volont della gente comune i tecnici pratici della societ di mettere in 156
pratica, in momenti particolari, crimini di tipo genocida contro classi e tipologie di persone ritenute scarti, rifiuti, deficienti di umanit, meglio morti o addirittura meglio se mai nati. I pazzi, i disabili, i malati di mente sono spesso rientrati in queste categorie, cos come le persone molto anziane e inferme, gli ammalati indigenti e i gruppi razziali, religiosi ed etnici disprezzati. Erik Erikson parlava della pseudo-speciazione come della tendenza umana a classificare alcuni individui o gruppi sociali come non del tutto umani. Ci rappresenta un prerequisito necessario per il genocidio e viene accuratamente coltivato durante i periodi di pace ordinari che possono precedere le improvvise e, solo apparentemente inspiegabili, esplosioni di genocidio. Anche la negazione un prerequisito per la violenza di massa e per il genocidio. In Death Without Weeping ho analizzato lindifferenza sociale nei confronti degli sconcertanti tassi di mortalit di neonati e bambini nelle favelas del nord-est del Brasile. I leader politici locali, i preti e le suore cattoliche, i fabbricanti di bare e le madri stesse nelle baraccopoli spediscono annualmente allaldil con una certa indifferenza uninfinit di angioletti affamati, mostrando nei loro confronti una certa indifferenza con il dire: Loro stessi volevano morire. I bambini sono descritti come privi di gusto, di capacit e di talento per la vita. Le pratiche mediche, come la prescrizione di potenti tranquillanti a bambini nervosi e spaventosamente affamati, le celebrazioni rituali cattoliche della morte degli angioletti, lindifferenza istituzionale dei leader politici che mettevano a disposizione gratuitamente le bare per i bambini ma non il cibo per le famiglie e i bambini indigenti, interagivano con le pratiche materne come la radicale riduzione di cibo e di liquidi a bambini seriamente malnutriti e disidratati, per aiutarli, dicevano le madri, a morire meglio e pi velocemente. Considerati come ormai condannati, i bambini malati venivano descritti come creature non del tutto umane, come angioletti spettrali che si trovavano a met strada tra la vita e la morte. Davvero - dicevano le madri - meglio che questi spiriti-bambini ritornino da dove sono venuti. La capacit delle donne disperatamente povere di aiutare questi bambini che (dicevano) avevano bisogno di morire, richiedeva un lasciar andare esistenziale che si contrapponeva allopera materna di sostegno, cura e protezione. Il lasciar andare richiedeva un atto di fede non facile da raggiungere. Queste donne, in gran parte cattoliche, dicevano spesso che i loro bambini erano morti proprio come Ges, perch altri, in particolare loro stesse, potessero vivere. La domanda che occupava, non risolta, la mia mente era se questo atto di fede kierkegaardiano non richiedesse anche una parte di cattiva fede in senso marxista. Non era mia intenzione biasimare le madri delle baraccopoli per aver posto la propria sopravvivenza prima ed al di sopra di quella dei loro bambini e neonati, perch queste sono scelte morali che nessuno dovrebbe essere costretto a fare. Ma le donne finivano per essere in cattiva fede quando non riconoscevano la responsabilit dei loro atti e attribuivano la morte dei loro angioletti al desiderio e alla volont degli stessi bambini condannati. Con il passare del tempo ho iniziato a pensare agli angioletti delle baraccopoli nei termini dellidea di violenza sacrificale di Ren Girard. I neonati rifiutati sono stati sacrificati a fronte di terribili conflitti riguardanti le privazioni e la sopravvivenza. Ed qui che periodo di guerra e periodo di pace, pensiero materno e pensiero militare, finiscono per convergere. Quando gli angeli (o i martiri) prendono la forma dei corpi senza vita di chi muore giovane, il pensiero materno assomiglia pi che mai al pensiero militare e bellico. Sul campo di battaglia, cos come nella baraccopoli, predominano lo scarto, il pensiero in serie, la credenza che i morti possano essere rimpiazzati per magia. Soprattutto le idee di morte accettabile e di sofferenza sensata (invece che inutile) servono a placare la rabbia e la sofferenza provate per coloro che sono morti e permettono lassunzione di nuove vite e di nuovi corpi nella lotta. Proprio come le madri delle baraccopoli in Brasile si consolavano a 157
vicenda dicendo che i loro neonati affamati erano morti perch questa era la loro intenzione o perch dovevano farlo, le madri dellIrlanda del Nord e del Sud Africa nel corso delle veglie e dei funerali politici, durante i tempi di guerra e di lotta politica, si consolavano a vicenda con la convinzione che i loro figli sacrificati e martirizzati erano morti per una causa e che erano morti bene. Questo modo di pensare non specifico di una particolare classe sociale. Quando gli esseri umani attribuiscono un qualche significato, che sia politico o spirituale, allinutile sofferenza altrui, noi tutti ci comportiamo, come ho mostrato, un po come dei pubblici carnefici. Allo stesso modo, lesistenza di due tipi di infanzia in Brasile - il mio bambino (ceto medio, amato, un bambino che vive in famiglia e in casa ) contro lodiato bambino di strada (il bambino degli altri, indesiderabile e sporco) - ha generato alla fine del xx secolo gli attacchi della polizia e degli squadroni della morte pratiche genocide nelle loro motivazioni sociali e politiche. I bambini di strada vengono spesso descritti come sporchi parassiti e cos si invocano politiche non ufficiali di pulizia della strada, rimozione dei rifiuti, disinfestazione e disinfezione per raccogliere un ampio consenso pubblico per il loro sterminio. Il termine bambino di strada riflette le preoccupazioni di una classe o di un segmento della societ brasiliana riguardo al posto che deve ricoprire laltra parte. Il termine rappresenta una sorta di apartheid simbolico e mostra come lo spazio cittadino sia diventato sempre pi privatizzato. Fino a quando i bambini di strada sporchi rimanevano allinterno dei bassifondi o delle favelas a cui appartenevano, non erano considerati un problema sociale urgente per cui si dovesse fare qualcosa. La vera questione la preoccupazione di una classe sociale per il posto appropriato di unaltra classe sociale. Come succede per la terra, che pulita finch si trova nel giardino di casa e sporca quando sotto le unghie, i bambini di strada sporchi sono semplicemente bambini fuori posto. In Brasile la strada un universo pericoloso, fuori dal controllo, il posto delle masse (o povo), dove tutti sono trattati anonimamente. I diritti appartengono alluniverso della casa. I bambini di strada, scalzi, seminudi e senza una casa rappresentano lestremo della marginalit sociale. Essi occupano una posizione sociale particolarmente degradata allinterno della gerarchia brasiliana di posizione e potere. Come tutti i non-cittadini di strada, questi ragazzini semiautonomi vivono separati da tutto quello che pu far accedere a relazioni e propriet, elementi senza i quali i diritti e la cittadinanza sono impossibili. A partire dal 1982, ho studiato un gruppo di quaranta bambini di strada semiautonomi, per la maggior parte senzatetto, nella citt commerciale di Bom Jesus nel Pernambuco. Oggi, ventidue tra i bambini del gruppo originario sono morti. Alcuni sono stati uccisi dalla polizia durante atti definiti come omicidi legittimi; altri sono stati uccisi dagli squadroni della morte e da sicari, alcuni dei quali erano essi stessi ex bambini di strada. Altri sono scomparsi e dati per morti. Tra i sopravvissuti, un terzo si trovano in prigione o sono stati rilasciati e alcuni di questi sono gi divenuti degli assassini, reclutati da poliziotti fuori servizio e da giudici corrotti per aiutarli a ripulire la strada dalla loro stessa classe sociale. E cos riparte il ciclo della violenza, con bambini che uccidono altri bambini, messo in moto dalle cos dette forze della legge e della sicurezza statale. Ma senza bisogno di andare cos lontano, anche nelle nostre cliniche mediche, nei pronto soccorso, negli ospedali pubblici o nelle case di riposo troviamo altre categorie di rifiuti umani, trattati con la stessa indifferenza e malevolenza riservata ai bambini di strada in alcune parti del Sud America. Un numero sempre pi alto di anziani versa in cattive condizioni economiche e di salute a causa dei costi astronomici delle cure mediche per la terza et; cos essi rischiano di passare il tempo che rimane loro allinterno di istituzioni per gli anziani pubbliche o private a basso costo in cui la cura dei residenti affidata a lavoratori sottopagati e non qualificati. Le pressioni economiche sono forti e gravano sul personale che deve ridurre le cure e lattenzione rivolta ai residenti, in particolare quelli i cui risparmi limitati sono gi esauriti e che sono ora completamente a carico 158
dellassistenza sanitaria nazionale. E cos il personale infermieristico spesso protegge se stesso quando trasforma le persone e i corpi sotto la sua protezione in cose, in oggetti ingombranti di cui ci si possa occupare in un tempo sempre minore. Quando il corpo viene girato da una parte o dallaltra per la pulizia o per lavare le lenzuola (corpi e lenzuola si equivalgono); oppure quando il residente viene spinto in un angolo perch si possa passare pi agevolmente lo straccio sul pavimento; quando il personale delle pulizie non fa molto per reprimere espressioni di disgusto in presenza di urina, feci o fuoriuscita di muco sui vestiti, sotto le unghie, sulle sedie a rotelle oppure nei cestini della carta la persona intrappolata nel corpo inadeguato pu arrivare a vedersi come sporco, ripugnante, disgustoso, come un oggetto o una non-persona. Un saggio di Jules Herny (1966) su Hospitals for the Aged Poor, che documentava lattacco al gi ridotto capitale personale e psicologico degli anziani da parte di inconsapevoli infermieri e assistenti ospedalieri o domestici, vero oggi come quando stato scritto. La distruzione istituzionale della soggettivit umana viene accelerata dalle caratteristiche materiali della casa di cura. Quando tutti gli oggetti personali spazzolino, pettine, occhiali, asciugamano, penna e matita continuano a sparire non importa quante volte essi vengano rimpiazzati, il residente (se sa che cosa sia bene per s) alla fine accetta la situazione e si adatta alla nuova abitudine. Qualche volta i residenti vengono costretti a usare altri oggetti che sono pi facilmente disponibili per scopi per cui non erano destinati. Il cestino di plastica diventa un vaso da notte, il vaso da notte una catinella, il bicchiere diventa una sputacchiera, lodiato pannolino per adulti usato insolentemente come tovagliolo e cos via. Intanto lindifferenza e la violenza istituzionale vengono fatte passare come frutto dello stato mentale confusionale e dellincapacit del residente. Ogni cosa nella natura dellistituzione spinge il residente ad unulteriore regressione, ad arrendersi, a sentirsi sconfitto, ad accettare il suo inevitabile status di essere meno che umano e depersonalizzato. Ma dove sono le forze di liberazione o controlli sui diritti umani che reagiscano ai genocidi invisibili in istituzioni (di cura) normative come queste? Il motivo per cui ho inserito nel discorso sul genocidio tali esperienze quotidiane e normative di reificazione, depersonalizzazione e morte accettabile che penso che questo possa aiutarci a rispondere alla domanda: Che cosa rende possibile il genocidio? Secondo me il genodicio fa parte di un continuum, socialmente conveniente ed spesso percepito dai carnefici, dai collaboratori, dagli spettatori nonch a volte dalle stesse vittime come un atto prevedibile, ordinario, addirittura giustificato. Insomma, la premessa per le uccisioni di massa si deve ricercare nella sensibilit diffusa e nelle istituzioni sociali: dalle famiglie alle scuole, alle chiese, agli ospedali e alle caserme. I primi segnali di pericolo (v. anche Charney 1991), linnesco (Hinton 2002), o il continuum del genocidio fanno riferimento ad un crescente consenso sociale nei confronti della svalutazione di alcune forme di vita umana e di stili di vita (attraverso la pseudo-speciazione, la disumanizzazione, la reificazione e la depersonalizzazione); al rifiuto di aiuti sociali e di attenzione umana per gruppi sociali vulnerabili e stigmatizzati, visti come parassiti sociali (anziani delle case di riposo, prostitute, stranieri illegali, Gomers[5] ecc.); alla militarizzazione del quotidiano (per esempio, laumento di prigioni, il consenso alla pena di morte, le nuove tecnologie di sicurezza personale, come le armi domestiche e le comunit protette); alla polarizzazione e al timore sociale (cio la percezione del povero, dellescluso, del declassato oppure di certi gruppi etnici o razziali come pericolosi nemici pubblici); a un senso invertito di vittimizzazione, per cui classi e gruppi sociali dominanti richiedono interventi violenti da parte della polizia per rimettere i gruppi trasgressori al loro posto.
Andare oltre 159
Tra la fine del XX e linizio del XXI secolo, sia individui che intere nazioni si sono trovate a lottare per superare leredit della sofferenza, dallo stupro e dalle violenze domestiche alle atrocit collettive delle guerre sporche volute dagli Stati, ai genocidi, alle pulizie etniche; in questa lotta, sono emerse Grandi Narrazioni di rimorso, riconciliazione, riparazione. Molti studi recenti si occupano dei tentativi individuali e collettivi di riconciliazione e guarigione, di ricomposizione di corpi straziati, di vite spezzate e di societ distrutte dal genocidio. Uri Linke (2002) ci mette di fronte ad una tesi terrificante: lirreversibilit, limpossibilit di cancellare una ferita cos profonda come lOlocausto degli ebrei per le nuove generazioni tedesche, figli e nipoti dei carnefici, degli spettatori e, si spera, anche di semplici uomini e donne. Non sembra esserci scampo, n via duscita da quella storia rovinosa che continua a ritornare, come repressa, per ossessionare i giovani tedeschi che cercano di reinventare s stessi e di liberarsi dalla colpa e dalla complicit ereditaria e generazionale. Ci appaiono del tutto intrappolati da quella storia, quando osserviamo la cultura giovanile che accetta la nudit come ideale di trasparenza e di innocenza, ma che daltra parte mostra delle forti somiglianze con i culti della foresta, della natura e delleroismo tedesco da parte della giovent nazista. Inoltre linnocente esibizione della nudit liberata vista da Linke come una crudele, anche se sicuramente non intenzionale, parodia della vita nuda dei campi di concentramento. In aperto contrasto, Ebihara e Ledgerwood (2002) presentano un quadro meno complesso del recupero della comunit nella Cambogia rurale nel ventennio successivo al regime di Pol Pot. Quello che fu distrutto dal buddismo allagricoltura di sopravvivenza sembra sia stato ricostruito relativamente uguale a prima, mentre i forti squilibri demografici la mancanza di uomini nei villaggi rurali si stanno correggendo. Forse troppo presto nella storia dei Khmer Rossi per valutare i danni che potrebbero ripresentarsi, come nel caso tedesco, ad ossessionare le generazioni successive. per questa ragione che molte nazioni in via di recupero e molte popolazioni ferite dal Cile post-dittatura militare, al Sud Africa post-apartheid, al Ruanda post-genocidio hanno dato fiducia ai tribunali internazionali o alle commissioni indipendenti che si proponevano la ricerca della verit per affrontare e seppellire i fantasmi del passato. A volte questo ha significato scoprire delle fossi comuni e seppellire nuovamente dei morti che chiedevano giustizia; altre volte come nel caso della Truth and Reconciliation Commission in Sud Africa (che si basava sullesperienza del Cile) ha significato un complicato gioco politico in cui la giustizia stata barattata con la rivelazione della verit. Infine bisogna chiedersi quale particolare contributo possa apportare lantropologia ai discorsi interdisciplinari sulla violenza di massa e sul genocidio. Le critiche post-coloniali ai metodi di osservazione e di conoscenza dellantropologia hanno avuto come conseguenza una severa autoanalisi istituzionale e professionale. Una cosa ripensare unepistemologia di base, come hanno fatto molte scienze sociali durante il periodo del decostruzionismo; unaltra ripensare un modo di essere e di agire nel e sul mondo. Gli antropologi sono stati chiamati a trasformare la pratica centrale che li definisce, la ricerca sul campo, a decolonizzare se stessi e a re-immaginare nuove relazioni rispetto ai loro soggetti antropologici: da una parte le vittime e dallaltra i carnefici del genocidio e delle uccisioni di massa. Lironia della cosa sta nel fatto che lantropologia culturale tutta basata sui significati, sulla ricerca di senso in un mondo che spesso assurdo. Si pu dare un senso alla violenza di massa e al genocidio? Negli ultimi anni nata unantropologia della sofferenza come nuovo tipo di teodicea, una ricerca culturale sui modi in cui le persone cercano di spiegare e giustificare la presenza del dolore, della morte, dellafflizione e del male nel mondo (si vedano Kleinman and Kleinman 1997; Farmer 1996). Ma il tentativo di dare un senso alla sofferenza e alla violenza disordinata vecchio quanto Giobbe e carico di ambiguit morale per gli antropologi-testimoni quanto lo era per i 160
compagni di Giobbe che domandavano una spiegazione compatibile con la loro idea di un Dio giusto (o un mondo giusto, se si secolarizzati). Come ha osservato Geertz molti anni fa, lunica cosa che gli esseri umani sembrano non accettare lidea che il mondo possa in definitiva mancare di senso. Il dono delletnografo resta una particolare combinazione di attenta descrizione, testimonianza oculare e radicale giustapposizione, basata su un giudizio culturalmente trasversale. Ma le regole del nostro vivere-in o vivere-con i popoli che stanno per essere annientati rimangono ancora qualcosa di non scritto, forse addirittura di non detto. Durante i periodi di genocidio o etnocidio, quale la giusta distanza da prendere dal nostro soggetto? Che tipo di osservazione partecipante, quale sorta di testimonianza oculare adatta alle scene di genocidio e alle sue conseguenze? Quando un antropologo testimone di crimini contro lumanit, pu bastare la semplice empatia scientifica? In quale momento lantropologo, da testimone oculare, diventa uno spettatore, se non addirittura un complice del delitto? Sebbene questi rimangano problemi assillanti e irrisolti, il compito specifico dellantropologia e delletnografia resta chiaro: schierare noi stessi e la nostra disciplina dalla parte dellumanit, della salvezza e del miglioramento del mondo, anche se non siamo sempre del tutto sicuri di che cosa questo significhi, di che cosa ci venga richiesto nel momento in cui le vite dei nostri amici, soggetti di studio e informatori si trovano in pericolo. In ultima analisi possiamo solo sperare che i nostri metodi di testimonianza empatica e impegnata (essere con ed essere l) per quanto vecchi e triti possano essere questi concetti ci forniscano gli strumenti perch lantropologia possa crescere e svilupparsi come una piccola pratica di liberazione umana.
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[1] In una lettera al commissario dellIndian Affairs, un funzionario governativo, Adam Johnson (citato in Castillo 1978, p. 107), riferendosi alle guerre indiane in California, riportava la seguente descrizione:
La maggioranza delle trib vivono in uno stato di paura costante a causa del massacro indiscriminato e disumano della loro gente sulla base di accuse reali o supposte. Essi sono preoccupati per il continuo aumento di [coloni] [] Era gi incomprensibile per loro [] Non mi mai capitato di sentir parlare di una sola difficolt tra i bianchi e gli indiani la cui causa originaria non potesse essere riportata a qualche azione sconsiderata dei primi. [2] Daily Alta California, 4 maggio1852, citato in Churchill 1997, p. 220. [3] Durante unassemblea ordinaria di facolt tenuta il 29 marzo 1999, il Dipartimento di Antropologia vot lapprovazione del seguente documento riguardo al cervello di Ishi:
Il recente ritrovamento del cervello di un famoso indiano californiano in un magazzino dello Smithsonian ha portato il Dipartimento di Antropologia dellUniversity of California Berkley a ripensare e riflettere su un capitolo oscuro della nostra storia. Ishi, la cui famiglia e il cui gruppo culturale (gli 166
indiani Yahi) sono stati tra le vittime del genocidio che ha caratterizzato lafflusso di coloni occidentali in California, ha passato i suoi ultimi anni di vita nel vecchio museo di antropologia dellUniversity of California. Egli fu utilizzato come informatore sia da uno dei membri fondatori del nostro dipartimento, Alfred Kroeber, sia da altri antropologi interni o che si trovano qui temporaneamente. La natura delle relazioni tra Ishi e gli antropologi e i linguisti che lavorarono con lui al museo per circa cinque anni era complessa e contraddittoria. Malgrado Kroeber abbia dedicato con devozione tutta la sua vita agli Indiani della California e fosse amico di Ishi, egli manc nel suo impegno di onorare la volont di Ishi, che non voleva essere sottoposto ad autopsia. Inspiegabilmente Kroeber dispose che il cervello di Ishi venisse inviato allo Smithsonian per essere esaminato. Noi riconosciamo la responsabilit del nostro dipartimento per quello che successe ad Ishi, un uomo che aveva gi perso tutto ci che aveva di pi caro. Noi sollecitiamo caldamente che la procedura di ritorno del cervello di Ishi presso le istituzioni appropriate dei nativi americani sia portata a termine il pi velocemente possibile. Stiamo prendendo in considerazione diverse possibilit per rendere onore e rispetto alla memoria di Ishi. Riteniamo la partecipazione pubblica una componente necessaria di queste discussioni e in particolare invitiamo i popoli nativi della California a darci indicazioni su come possiamo essere maggiormente utili ai bisogni delle loro comunit attraverso le nostre attivit di ricerca. Forse, lavorando assieme, potremo garantire per il prossimo millennio una nuova era nella relazione popoli indigeni, antropologi e opinione pubblica. [5] Acronimo per get out from my emergency room, indica latteggiamento intollerante dei medici verso pazienti anziani e non autosufficienti per i quali lassistenza medica sembra inutile o sprecata. Il termine divenuto popolare negli Stati Uniti con il romanzo degli anni 70 The House of God. The classical novel of life and death in an American Hospital, di Samuel Shem.
Fonti:
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Gli autori
Talal Asad insegna antropologia alla City University of New York (U.S.A.). Cos sintetizza i propri interessi di ricerca: Sono interessato al fenomeno della religione (e del secolarismo) come parte integrante della modernit, e in particolare la revival religioso in medio Oriente. A ci si legano anche i miei interessi per i legami tra le nozioni religiose e quelle secolari di dolore e crudelt, e tra queste e il discorso moderno sui diritti umani. La mie ricerche di lungo termine riguardano le trasformazioni della legge religiosa (shatiah) nellEgitto del XIX e XX secolo, con particolare riferimento alle discussioni sulla riforma secolare e progressista. Tra le sue pubblicazioni, Genealogies of religion: Discipline and reasons of power in Christianity and Islam (John Hopkins University Press, 1993); Formations of the secular: Christianity, Islam, Modernity (Stanford University Press, 2003). E inoltre curatore del volume Anthropology and the colonial encounter (Prometheus Books, 1995). In traduzione italiana, il suo saggio Il concetto di traduzione di culture nellantropologia sociale britannica apparso nel volume Scrivere le culture (Meltemi, 2001).
John R. Bowen insegna antropologia e studi religiosi alla Washington University in St. Louis (U.S.A.). Il suo lavoro focalizzato sulle trasformazioni sociali che caratterizzano oggi il mondo musulmano, concentrandosi in particolare sulla vita islamica in Indonesia e su forme culturali quali le pratiche relgiose, i generi estetici, il discorso giuridico. Ha svolto ricerca sul campo a Sumatra tra le popolazioni dellaltopiano Gayo, documentando i processi di innovazione creativa del loro repertorio di storie orali, competizioni poetiche e discorsi rituali. Tra le sue pubblicazioni, Sumatran Politics and Poetics: Gayo History, 1900-1989 (Yale University Press, 1991), Muslims Through Discourse: Religion and Ritual in Gayo Society (Princeton University Press, 1993), Religions in Practice: An Approach to the Anthropology of Religion (Allyn & Bacon, 1998), Islam, Law, and Equality in Indonesian: An anthropology of public reasoning (Cambridge University Press, 2003). Ha curato i volumi Religion in culture and society (Allyn & Bacon, 1997) e, con R. Petersen, Critical comparisons in politics and culture (Cambridge University Press, 1999).
Veena Das insegna antropologia alla John Hopkins University di Baltimora (U.S.A.). Ha svolto ricerca etnografica in India su vari temi, occupandosi prevalentemente negli ultimi anni del nesso tra violenza, sofferenza sociale e soggettivit. Nei suoi numerosi scritti in questo campo, ha cercato da un lato di evidenziare i processi istituzionali che producono violenza e sofferenza, dallaltro di mostrare come i grandi eventi storici vengono incorporati e mediati nelle soggettivit individuali in particolare di quelle femminili. Sta attualmente lavorando a una ricerca interdisciplinare su salute e malattia tra i ceti pi poveri nella citt di Delhi. Tra le sue opere, Structure and Cognition: Aspects of Hindu Caste and Ritual (Oxford University Press), 1977, Critical Events: An Anthropological Perspective on Contemporary India, Oxford University Press, 1995. Ha curato numerose raccolte di testi sul tema della violenza, tra cui Mirrors of Violence: Communities, Riots and Survivors in South Asia (Oxford University Press, 1990) e. insieme ad altri curatori, Social Suffering, University of California Press, 1997; Violence and Subjectivity (University of California Press, 2000), Remaking a World: Violence, Social Suffering, and Recovery (University of California Press, 2001), Anthropology in the margins of the State (School of American Research Press, 2004).
Robert M. Hayden insegna antropologia e diritto allUniversit di Pittsburgh (U.S.A.), allinterno della quale dirige il Centro di studi russi ed est-europei. Ha svolto ricerche in India e in Europa orientale, distinguendosi 168
negli anni 90 per numerosi interventi sulla situazione di guerra nella ex- Jugoslavia e sui movimenti nazionalisti che lhanno caratterizzata. Tra i suoi lavori Social Courts in Theory and Practice: Yugoslav Workers' Courts in Comparative Perspective (Univ of Pennsylvania Press, 1991), Blueprints for a House Divided: The Constitutional Logic of the Yugoslav Conflicts (University of Michigan Press, 1999) Disputes and Arguments Amongst Nomads: A Caste Council of India (Oxford University Press, 1999).
Nancy Scheper-Hughes insegna antropologia medica alla University of California di Berkeley (U.S.A.), dove dirige un corso di dottorato dedicato a Studi critici sulla medicina, la scienza e il corpo. Il filo conduttore della sua carriera antropologica linteresse per diverse forme della violenza strutturale e quotidiana, affrontata da una prospettiva di impegno civile e di comcezione militante della ricerca. I suoi lavori principali riguardano i disturbi psichici nellIrlanda rurale (Saints, scholars and schizophrenics: mental illness in rural Ireland (University of California Press, 1979), la violenza subita dai bambini nelle favelas brasiliane (Death without weeping: the violence of everyday life in Brazil (University of California Press, 1992), il sud Africa post-apartheid, e pi di recente il traffico internazionale di organi (in traduzione italiana Il traffico di organi nel mercato globale, ed. Ombre corte, 2001, e con L. Wacquant Corpi in vendita, ed. Ombre Corte, 2003). E curarcuce dei volumi Small wars: the cultural politics of childhood (con C. Sargent, University of California Press, 1998), e Violence in war and peace: an anthology (con P. Bourgois, Blackwell, 2004). Michael Taussig insegna antropologia alla Columbia University di New York (U.S.A.). Dopo una iniziale formazione medico-psichiatrica in Australia, si dedicato alla ricerca antropologica in varie aree dellAmerica latina. Al centro dei suoi interessi stanno le forme di violenza dello Stato moderno, le modalit della loro inscrizione nei corpi e il loro impatto sulle culture tradizionali. La produzione scientifica di Taussig, assai influente nel dibattito internazionale degli ultimi ventanni, si caratterizzata per la sperimentazione di una scrittura etnografica assai innovativa, in costante confronto con le forme dellestetica postmodernista. Tra le sue numerose opere, The Devil and Commodity Fetishism in South America (University of North Carolina Press, 1980); Shamanism, Colonialism and the Wild Man (University of Chicago Press, 1987); The Nervous System (Routledge, 1992); Mimesis and Alterity (Routledge, 1993); The Magic of the State (Routledge, 1996), Defacement: public secrecy and the labor of the negative (Stanford University Press, 1999), Law in a lawless land: diary of a limpieza (New Press, 2003), My cocaine museum (University of Chicago Press, 2004).