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Introduzione. Descrivere, teorizzare, testimoniare la violenza


Fabio Dei

La letteratura etnografica e il dibattito antropologico internazionale degli
ultimi 15-20 anni si sono caratterizzati per una diffusa attenzione al tema
della violenza di massa. Singolarmente trascurata nelle pi classiche fasi
degli studi (sia pure con rilevanti eccezioni), la violenza sembra trovarsi
oggi al centro della riflessione antropologica; non solo come nuovo
oggetto, o come una ulteriore antropologia speciale, ma come campo
decisivo per i complessivi scenari teorico-epistemologici della disciplina,
cos come per i problemi legati al suo uso pubblico e alletica della
ricerca e della scrittura. Questo volume presenta ai lettori italiani una scelta
di saggi che di tale dibattito sono in qualche modo rappresentativi, sia per la
rilevanza degli autori che per la variet dei temi trattati. Nelle pagine
introduttive, cercher di ricostruire per grandi tratti il contesto in cui la
moderna antropologia della violenza si sviluppa, discutendo alcuni fra i
numerosi problemi che essa solleva.







1) Perch la violenza?
Il Novecento, il secolo in cui la scienza antropologica diventata adulta e
ha conosciuto il suo massimo sviluppo, stato anche unepoca di guerre,
genocidi e violenze di massa di straordinarie dimensioni e intensit.
Lappellativo di secolo delle tenebre (Todorov 2001) forse unilaterale ed
eccessivo; ma indubbio che lapplicazione della razionalit tecnologica e
amministrativa agli obiettivi dello sterminio di grandi masse di persone
stata senza precedenti. Inoltre, il grado altissimo di violenze e atrocit ha
prodotto uno stridente e scandaloso contrasto con le autorappresentazioni in
termini di progresso e di civilt in cui la cultura novecentesca si a lungo
cullata. Ma di tutto ci nella letteratura antropologica non c praticamente
traccia. Inutilmente, o quasi, si sfoglierebbero gli autori pi classici o le
riviste pi prestigiose in cerca di riferimenti alla Shoah, a Hiroshima, alle
carneficine delle due guerre mondiali fenomeni che pure hanno scosso
lopinione pubblica e la coscienza contemporanea, modificando
profondamente quella che ben potremmo chiamare lautopercezione
antropologica della contemporaneit.

Ancora pi sorprendente la scarsit dei riferimenti alle violenze subite dai
popoli cosiddetti indigeni il principale e caratterizzante soggetto di studio
della disciplina. Almeno da Malinowski in poi gli antropologi si sono posti
lobiettivo prioritario di salvare descrivendole etnograficamente le
culture diverse e primitive che rischiavano di scomparire; ma hanno quasi
sempre trascurato il fatto che questa scomparsa era il frutto non solo
dellinarrestabile incedere della civilt e del progresso, ma anche e
soprattutto di politiche palesemente etnocide, talvolta di vere e proprie
pratiche di sterminio, da parte dei poteri coloniali. Il moderno assalto
globale degli stati-nazione contro popolazioni tribali di piccola scala e
autosufficienti, con i suoi effetti spesso devastanti e con sistematici episodi
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di violenza e atrocit, e con un numero di vittime che nel secolo doro
dellimperialismo si conta nellordine delle decine di milioni (Bodley 1992,
p. 37), un macro-fenomeno storico che gli antropologi hanno avuto sotto
gli occhi senza apparentemente riuscire a vederlo, e comunque senza
tematizzarlo nei loro lavori.

Molti critici contemporanei, soprattutto nellambito dei post-colonial studies,
vedono in questo silenzio un sintomo di complicit, perlomeno passiva,
dellantropologia. un giudizio che a me sembra quantomeno parziale in
termini di storia delle idee, e sul quale torner oltre. Si pu intanto osservare
che la mancata tematizzazione della violenza strettamente legata alle
principali condizioni pratiche ed epistemologiche del lavoro antropologico
novecentesco. Sul piano pratico, sia per ragioni di sicurezza che per
lesplicita proibizione delle autorit locali o coloniali, gli antropologi
lavorano spesso in aree pacificate, nelle quali il conflitto non presente o
perlomeno non si manifesta apertamente; e abbandonano il terreno quando le
condizioni si fanno difficili. Ma anche quando guerra e violenza si
manifestano apertamente, raro che esse emergano alla superficie dei
resoconti etnografici. Se ne parla magari nei diari di campo, nei corridoi
delle Facolt, e al massimo nelle prefazioni di monografie dedicate a pi
comuni temi antropologici, sempre per dando per scontato che si tratta di
elementi estranei al vero nucleo scientifico della disciplina. Il caso forse pi
noto, e certamente emblematico, di questo atteggiamento costituito dal
lavoro di Evans-Pritchard fra i Nuer, condotto in un periodo di forte tensione
fra questi ultimi e il governo del Sudan anglo-egiziano, per conto del quale
lantropologo conduceva la sua ricerca. A tali conflitti egli fa cenno soltanto
nellintroduzione alla sua fortunata monografia del 1940, nel contesto di una
esposizione delle difficolt incontrate nella ricerca sul campo, e attribuite
principalmente alla intrattabilit di carattere dei Nuer. Al momento della
mia visita scrive essi erano particolarmente ostili perch la sconfitta
recente e le misure adottate dal governo per assicurarsi la loro sottomissione
finale avevano suscitato profondo risentimento. Il livello di tensione
testimoniato dallunico episodio di cui Evans-Pritchard riferisce: un giorno,
allalba, truppe governative circondarono il nostro campo, lo perquisirono
per cercare due profeti che avevano capeggiato una recente rivolta, e
portarono via alcuni ostaggi minacciando di prenderne molti altri, se i profeti
non fossero stati consegnati. Con una buona dose di understatement,
lantropologo commenta di essersi sentito in una posizione equivoca, e di
aver deciso poco dopo di lasciare il villaggio (Evans-Pritchard 1940, p.
44)[1].

Di tutto ci non v altro cenno nel resto del libro. Perch Evans-Pritchard
non sente il bisogno, o lobbligo, di tematizzare una situazione di guerra e
violenza che palesemente domina la vita del popolo presso cui si trova, e che
inevitabilmente sottodetermina lincontro etnografico? Lobiettivo
dellantropologia, dal suo punto di vista, descrivere e spiegare le normali
strutture sociali e istituzioni culturali del popolo studiato: lorganizzazione
ecologico-economica, la parentela, il sistema politico, la religione, e cos via.
Lantropologia che Evans-Pritchard rappresenta interessata cio a cogliere
caratteristiche strutturali, indipendenti dagli episodi e dalla contingenza
storica. Rispetto a queste finalit, i conflitti possono apparire puri elementi
di disturbo che, oltre ad ostacolare un regolare fieldwork, sconvolgono
lordinario andamento della vita indigena e non consentono di coglierne,
appunto, la normalit[2]. Quello che a noi oggi appare come un
atteggiamento reticente e irriflessivo, che nasconde al lettore le condizioni
politiche dellincontro etnografico, era per lantropologia classica un
requisito di pertinenza disciplinare, nonch di oggettivit e di dovuto
distacco scientifico.

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In altre parole, sono state le condizioni della produzione antropologica
descritte come realismo etnografico con la tendenza a non tematizzare il
carattere storicamente e politicamente situato della ricerca a ostacolare la
visibilit dei fenomeni della violenza, e a impedire un loro riconoscimento
come problemi centrali della rappresentazione culturale e del dibattito
teorico. Questo riconoscimento infatti iniziato proprio nel momento in cui
le convenzioni del realismo etnografico hanno cominciato a incrinarsi. La
svolta riflessiva che ha investito lantropologia a partire dagli anni 80, per
quanto tuttaltro che pacificamente accolta e causa di infinite discussioni, ha
profondamente cambiato il modo di fare etnografia: o meglio, il modo di
intendere il rapporto tra scrittura etnografica e ricerca, tra la soggettivit
dellesperienza di campo e loggettivit della rappresentazione culturale. E
vero che la sperimentazione di nuove forme di autorit etnografica,
sbandierata negli anni 80 da autori come James Clifford e George Marcus,
rimasta qualcosa di assai vago; tuttavia limperativo di tematizzare, piuttosto
che nascondere, le condizioni soggettive e politiche della ricerca, nonch le
retoriche rappresentative adottate, si diffuso in modo ampio e irreversibile.

Gli antropologi che si sono trovati a lavorare in contesti dominati dalla
violenza, dunque, non hanno pi potuto fingere di ignorarne gli effetti sul
loro campo di studio e sul proprio stesso ruolo di ricercatore. Del resto, nello
stesso periodo (pi o meno, lultimo quarto di secolo), altre condizioni
hanno contribuito a far emergere in primo piano il problema della violenza
etnica e politica. Non mi sembra irrilevante il fatto che protagonista di
questa stagione degli studi sia stata una generazione di antropologi formatasi
negli anni 60, nel clima della contestazione studentesca, dei movimenti di
liberazione antiimperialista, dellopposizione alla guerra in Vietnam, di
ampia diffusione di una cultura pacifista e dei movimenti per i diritti umani.
Sono anche gli anni in cui nella cultura occidentale emerge
progressivamente la memoria della Shoah come tema portante della
coscienza contemporanea, e le figure della vittima e del testimone divengono
emblemi della soggettivit tardo-moderna (Wieviorka 1998). Molti di questi
studiosi, in aperto contrasto con gli ideali di distacco e neutralit scientifica
che avevano guidato generazioni precedenti, hanno cercato di coniugare il
rigore della ricerca scientifica con la passione dellimpegno etico-politico
sostenendo anzi che il primo non veramente tale se non fa i conti
(riflessivamente, appunto) con il secondo. Al centro di questo impegno
non poteva non collocarsi la denuncia e lanalisi delle forme di sopraffazione
e violenza sia quella palese sia quella simbolica connessa alle forme del
potere e ai relativi campi del sapere, secondo la lezione di teorici in questi
anni assai influenti come Foucault e Bourdieu. Ci non significa affatto, o
almeno non necessariamente, trasformazione dellantropologia in una
disciplina militante (un esito, come vedremo, auspicato invece da una delle
autrici di questo volume; v. Scheper-Hughes 1995): significa per una
profonda trasformazione dellagenda teorica e del modo stesso di concepire
il compito della rappresentazione etnografica.

Un terzo grande ordine di motivi, ancora, contribuisce allinevitabile
incontro di antropologia e violenza nellultima parte del Novecento. Mi
riferisco ai mutamenti nella natura delle guerre e della violenza che affligge
molte parti del mondo, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda. I
conflitti regionali cosiddetti a bassa intensit, cos come gli scontri etnici o
religiosi, le guerre sporche latino-americane e la violenza di stato, la
pratica sistematica del terrorismo cancellano progressivamente il confine tra
guerra e non guerra, tra militari e civili, tra normalit dei rapporti sociali e
straordinariet o emergenza dello stato di guerra. Nei conflitti di fine secolo,
come noto, la gran parte delle vittime (tra ottanta e novanta per cento) si
conta fra i civili; il monopolio statale della violenza si allenta a favore della
proliferazione di gruppi paramilitari; colpire e terrorizzare le popolazioni
non pi un effetto collaterale, ma lobiettivo stesso delle strategie belliche
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e dei nuovi metodi di combattimento (Kaldor 1999, pp. 15-18, 117; v. anche
Lutz 1999, p. 610). In ci gioca un ruolo anche la diffusione di
particolarismi e di politiche dellidentit etnica, che trapassano in alcuni casi
in pratiche sistematiche di pulizia etnica e talvolta di vero e proprio
genocidio, come nei due casi paradigmatici del Ruanda e della ex-
Jugoslavia, discussi in alcuni saggi di questo volume.

La violenza assume dunque un carattere pi diffuso nel tempo e nello spazio,
penetra a fondo nella quotidianit, inverando la citatissima ottava tesi sulla
filosofia della storia di Walter Benjamin - La tradizione degli oppressi ci
insegna che lo "stato di emergenza" in cui viviamo non pi leccezione ma
la regola. Anche unantropologia tutta concentrata sulle strutture piuttosto
che sugli eventi non pu pi fare a meno di ignorarla. Anche perch la
natura etnica dei conflitti e il loro intrecciarsi con politiche dellidentit
chiamano direttamente in causa le categorie antropologiche di analisi, in
alcuni casi, come vedremo, persino accusate di complicit nella costruzione
di una cultura di discriminazione e di terrore. Si deve anche considerare, fra
le differenze rispetto alle condizioni classiche della ricerca, che nel contesto
tardo-moderno letnografo non pi solo sul campo, ma lavora accanto a
giornalisti, troupes televisive, attivisti della cooperazione internazionale e
dei diritti umani che proprio sui fenomeni di violenza dirigono la loro
attenzione. Secondo alcuni (Avruch 2001, p. 645), stato proprio limpatto
del movimento dei diritti umani ad esercitare uninfluenza decisiva sugli
sviluppi dellantropologia contemporanea in particolare, con la grande
diffusione di relazioni sulle violazioni di diritti, i tentativi di dar voce alle
vittime, la circolazione di testimonianze spesso assai dense sul piano
etnografico.

Se una simile influenza plausibile, per anche vero che lantropologia ha
mantenuto un rapporto spesso assai critico nei confronti delle organizzazioni
umanitarie, nelle cui politiche ha scorto assunti etnocentrici e una scarsa
comprensione delle culture locali (v. ad esempio Malkki 1996). La cultura
umanitaria e buona parte del discorso mediale sembrano considerare le
manifestazioni della violenza nel mondo contemporaneo come legata a
sacche di arretratezza, alla permanenza di una barbarie e di una irrazionalit
che stridono scandalosamente rispetto alle conquiste della civilt. Vi alla
base di ci quella visione progressista della storia cui Benjamin reagiva, al
culmine dellaggressione fascista allEuropa, parlando di stato di emergenza
permanente. Lo stupore perch le cose che viviamo sono ancora possibili
nel ventesimo secolo tuttaltro che filosofico. Non all'inizio di nessuna
conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta pi
in piedi. Al contrario, il filosofo tedesco esortava a giungere a un concetto
di storia che corrisponda a questo fatto, cio alla consapevolezza di
unemergenza come regola e non come eccezione (Benjamin 1955, p.76). In
qualche modo, aggiungendo cultura a storia, questo il programma
dellantropologia contemporanea, che non solo attribuisce significati alla
violenza, ma cerca di comprenderla come costitutiva di una teoria della
societ e della cultura.







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2) Scrivere la violenza
Lo sviluppo di una sistematica attenzione alla violenza avviene dunque in
relazione, da un lato, ai mutamenti delle condizioni strutturali nelle quali il
lavoro antropologico ha luogo, dallaltro alla svolta riflessiva della disciplina
e alla crisi della rappresentazione che la investe. Chi decide di affrontare
questo campo si trova cos di fronte, in primo luogo, al problema di come
scrivere la violenza. I modelli discorsivi classici, dalle trasparenze
etnografiche di Evans-Pritchard ai cristalli semiotici di Lvi-Strauss,
sembrano poco appropriati; n vengono molto in aiuto le vaghe formule
postmoderne che suggeriscono rappresentazioni dialogiche e polifoniche.
Ci che occorre ripensare il presupposto usuale della scrittura etnografica,
che classica o postmoderna si pone lobiettivo di scoprire e restituire un
ordine culturale, lethos di una societ, la profonda coerenza di un modo di
vita. proprio questordine che viene disintegrato nelle situazioni di
violenza radicale. Soprattutto nelle nuove guerre di fine XX e inizio XXI
secolo, la distruzione delle pi basilari strutture antropologiche non pi
soltanto un effetto collaterale dei combattimenti, ma un obiettivo
consapevolmente perseguito. Le operazioni di pulizia etnica, come osserva
Mary Kaldor (1999, p. 116), mirano a rendere un territorio inabitabile, non
solo colpendone lorganizzazione produttiva, ma anche istillando ricordi
insopportabili sulla patria di un tempo oppure profanando tutto ci che ha un
significato sociale: ad esempio attraverso la rimozione dei punti di
riferimento fisici che definiscono lambiente sociale di particolari gruppi di
persone, oppure la contaminazione attraverso lo stupro e labuso sessuale
sistematicoo mediante altri atti di brutalit pubblici e molto visibili.

Lantropologa Carolyn Nordstrom, a proposito delle sue esperienze in Sri
Lanka e in Mozambico, parla di guerre in cui il controllo del territorio
perseguito disseminando paura, brutalit e assassinio. La cultura del
terrore che ne risulta si basa sulla forzata decostruzione delle realt
accettate nella vita quotidiana, in modo da disabilitare i sistemi basilari di
significato e di conoscenza, quelli che definiscono i mondi della vita delle
persone e rendono comprensibile lazione [...] Se la cultura fonda la societ,
e la societ fonda la costruzione sociale della realt, allora disabilitare le
cornici culturali equivale a disabilitare, per la popolazione civile, il senso
stesso di una realt vivibile, nonch la capacit individuale di agire
(Nordstrom 1992, p. 261). Se lobiettivo della scrittura antropologica farci
cogliere il punto di vista dei nativi, cio ricostruire la compattezza
fenomenologica del loro mondo, di fronte alla violenza radicale si tratta
piuttosto di restituire il senso della dissoluzione di un mondo culturale. E
come se letnografo, abituato a cercare di seguire faticosamente la via che
porta al significato, dovesse adesso ripercorrerla a ritroso. E in questo
tornare indietro la stessa nozione di ragione etnografica viene messa in
discussione. Nordstrom nota come il tentativo di capire le ragioni della
guerra e della violenza si avvicini pericolosamente allobiettivo di rendere
la guerra ragionevole, e rischi di fatto di mettere a tacere la realt della
guerra (1995, p. 138). Dunque, la ricerca di significati e ragioni della
violenza contrasterebbe profondamente con lobiettivo etnografico di
comprendere il ruolo della violenza nel mondo-della-vita degli attori sociali.

Qui tocchiamo un punto importante. Si pu ben sostenere, naturalmente, che
in quanto attivit umana la violenza una pratica significativa e governata-
da-regole come tutte le altre, e che comprenderla equivale a scoprire tali
regole e significati; se pensassimo che comprendere equivalga a perdonare,
confonderemmo lidioma disciplinare delle scienze sociali con il linguaggio
quotidiano (Abbink 2000, pp. xii-xiii). Ma largomento sollevato da
Nordstrom mette proprio in discussione ladeguatezza del normale
linguaggio delle scienze sociali, con i suoi effetti distanzianti e
generalizzanti, con la sua ricerca di un coerente insieme di motivi, ragioni,
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cause[3]. Un ulteriore problema si pone per quegli etnografi che lavorano in
contesti dominati dalla violenza di stato, dove le atrocit, le torture e la
repressione sono al tempo stesso supportati e celati da un ordine discorsivo
normalizzante, che le mostra appunto come ragionevoli e necessarie (ad
esempio presentando il terrore come contro-terrore; v. Chomski 2004).
Alcuni autori, in particolare M. Taussig, hanno avvertito il rischio di parlare
del terrore con un linguaggio eccessivamente contiguo a quello che il terrore
copre contiguo se non nei contenuti, almeno nella forma di un ordine
discorsivo conciliante, di una asettica chiusura nelle convenzioni
accademiche, di un realismo che normalizza lo status quo. La complicit
reale, non soltanto simbolica, dal momento che il fatto stesso di parlare della
violenza (ad esempio la diffusione di un repertorio di storie di atrocit)
parte integrante della cultura del terrore, anzi ci che le permette di
funzionare. Il legame indissolubile di violenza e ragione che fonda lo Stato
moderno (il discorso della ragione come guanto di velluto che nasconde il
pugno dacciaio) per Taussig[4] allorigine dellinevitabile aporia in cui
cadono i tentativi delle scienze sociali di parlare della violenza. Aporia che
prende la forma di mimesi tra la rappresentazione e ci che viene
rappresentato[5].

Costruire un controdiscorso, scrivere del terrore contro il terrore, diventa
allora una faccenda assai complicata, che richiede almeno per Taussig -
una sovversione delle convenzioni compositive e della poetica del bene e
del male radicata nel discorso egemonico; per accostarsi invece a quella
poetica dello sciamanismo e della guarigione cui fa cenno in conclusione del
saggio qui presentato, e che svilupper nella sua pi nota monografia
(Taussig 1987). Ne risulta una scrittura frammentaria, discontinua, pi
evocativa che analitica e peraltro non sempre facile da seguire soprattutto
nelle opere degli anni Novanta. Non tutti gli etnografi sono, come Taussig,
ossessionati dalla compenetrazione tra discorso e potere, e dai tranelli
mimetici di una violenza che pu infiltrarsi nelle forme stesse della sua
rappresentazione e persino della sua denuncia. Tutti sono per alla ricerca di
forme di scrittura adeguate a restituire la particolare tensione fra aspetti
epistemologici, emozionali ed etici della propria esperienza di ricerca. I
problemi sollevati dalletnografia della violenza non sono forse diversi da
quelli che caratterizzano oggi letnografia tout court; si manifestano per in
modo pi accentuato e spesso decisamente drammatico. Ad esempio, la
classica tensione malinowskiana fra lesperienza di partecipazione
soggettiva del ricercatore, da un lato, e dallaltro le esigenze di oggettivit
della rappresentazione, cambia aspetto quando il ricercatore coinvolto in
esperienze di altissimo impatto emotivo, di terrore, di rabbia, di odio che
annullano ogni possibile margine di distacco scientifico.

Ancora, uno dei problemi sollevati dalla svolta riflessiva dellantropologia
il diritto delletnografo di parlare in nome dei soggetti della sua ricerca
assume qui caratteristiche peculiari. Non si tratta solo del fatto, ormai
ampiamente affermato dalla tradizione dei cultural e postcolonial studies,
che la presa di parola antropologica per conto degli Altri si fonda su
presupposti di potere non analizzati, collocando i prodotti antropologici
nellambito del discorso coloniale. Il posizionamento politico e discorsivo
degli etnografi della violenza pi complesso e ambiguo di quello classico
analizzato da critici come E. Said e G. Chakrabarti Spivak. In molti casi, la
presa di parola concordata con gli attori sociali, i quali possono vedere
nel rapporto con letnografo, nella scelta di affidare alla sua scrittura
informazioni riservate, segrete o magari strettamente intime, un importante
ritorno comunicativo e pragmatico. I terroristi nord-irlandesi che concordano
con letnografo le modalit di scrittura di un libro a loro dedicato (Sluka
1989, 1995a); i parenti dei desaparecidos argentini che confidano nel
ricercatore, straniero e scientificamente obiettivo, perch si faccia portatore
di una denuncia che in patria non riesce a farsi sentire (Robben 1995); i
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rifugiati che vedono nellintervista biografica una legittimazione della loro
storia e un riconoscimento del loro status (Malkki 1995a), sono solo alcuni
fra gli esempi di un rapporto non unilaterale, di un complesso negoziato tra
gli interessi delletnografo e quelli dei suoi interlocutori.

Il problema che si pone di tipo diverso, e riguarda la messa in scena dello
spettacolo del dolore e della sofferenza. Proprio per la sua pretesa di
mantenersi vicina allesperienza vissuta, di mostrare la violenza non nella
genericit delle sue ragioni politiche ma negli effetti sui corpi e sulle
soggettivit degli attori sociali, letnografia lascia emergere in primo piano i
dettagli delle atrocit e i tormenti della memoria di chi sopravvissuto.
Questo sguardo ravvicinato, sia sullorrore della violenza fisica e della
tortura, sia sullumiliazione e la disperazione di persone colpite alle basi
stesse della propria dignit e dei propri affetti, produce per il lettore un
effetto irriducibilmente ambiguo. La descrizione puntigliosamente
dettagliata delle sevizie subite dagli indios del Putumayo, nel saggio qui
presentato di Taussig, ne un esempio; non meno forti e disturbanti sono i
resoconti delle scene di genocidio, degli stupri e delle torture eseguite
pubblicamente, delle mutilazioni dei corpi che punteggiano le etnografie
delle nuove guerre contemporanee. Da un lato, lo shock emotivo che tutto
ci provoca pu diventare strumento di testimonianza e di denuncia: la
scrittura consegue il suo scopo scuotendo e indignando il lettore, e
combattendo cos quellindifferenza che troppo spesso ha accompagnato le
violenze di massa nella modernit. Dallaltro lato, tuttavia, lo spettacolo
ravvicinato della violenza pu suscitare effetti pornografici e voyeuristici, e
la scrittura etnografica degenerare in una messa in scena in cui corpi e anime
afflitti sono arbitrariamente e talvolta oscenamente esposti nella loro pi
profonda intimit[6]. Ci si chiede allora se la trasparenza etnografica sia un
atteggiamento moralmente legittimo di fronte alla sofferenza, e se
lindignazione militante non possa troppo facilmente trapassare in
morbosit: tanto pi allinterno di un contesto comunicativo e mass-mediale
che ci ha fin troppo abituati allo sfruttamento delle immagini di violenza e
alla penetrazione morbosa dellintimit emotiva a fini di audience e di
successo commerciale (Sontag 2003, p. 83 sgg.). Non forse immorale
usare quel dolore per sostenere la nostra impresa rappresentativa? Non
sarebbe pi corretto e rispettoso tacere, ritrarre lo sguardo in nome di una
piet che non forse del tutto compatibile con la ragione etnografica?
Naturalmente, tacere non serve per a portare testimonianza, a rendere o
almeno a chiedere pubblicamente giustizia per le vittime.

Il confine tra i due aspetti delletnografia della violenza testimonianza e
spettacolo, denuncia e pornografia non mai ben definito. N. Scheper-
Hughes e P. Bourgois (2004, p. 1) lo fanno dipendere dalla capacit di tener
conto delle dimensioni sociali e culturali che conferiscono significato alla
violenza, non limitandosi a rilevarne i soli aspetti fisici. Ma per lavori
antropologici questa poco pi di una tautologia. Pi che dalla natura del
testo (o dalle intenzioni dellautore), la risoluzione in un senso o nellaltro
dellambiguit sembra dipendere da effetti di lettura e dalle diverse
sensibilit dei lettori. E curioso che uno stesso autore, ad esempio il gi
citato Taussig, possa esser considerato da alcuni come ossessivamente volto
a sottolineare il perverso erotismo della violenza estrema (Avruch 2001, p.
643); da altri (e a mio parere pi sensatamente), come portatore, con la sua
capacit di raffigurare il terrore visceralmente, di una istanza morale
contro il potere esercitato nelle sue forme pi grottesche (Green 1995, p.
107).

Una possibile uscita dallambiguit pu consistere in una etnografia centrata
attorno alle voci dirette dei testimoni, in grado di aggirare (almeno in
apparenza) i rischi di effetti estetizzanti e voyeuristici. In effetti, questa
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strategia cospicuamente presente nella letteratura recente a fronte di un
uso assai limitato delle fonti orali nella tradizione etnografica anglosassone.
L. Green (1995, p. 108) sintetizza questo atteggiamento nella formula dell
antropologo come uno scriba, che documenta fedelmente le storie narrate
dalla gente, ci che essi hanno visto, sentito, annusato, toccato, interpretato e
pensato. Qui sorgono tuttavia nuove difficolt. Intanto, quando i testimoni
sono i perpetratori della violenza piuttosto che le vittime, la posizione
morale del ricercatore si fa ancora pi complessa ed equivoca. Ci accade in
numerosi lavori sul terrorismo o su gruppi di guerriglia (dove gli
interlocutori sono quasi sempre al tempo stesso esecutori e vittime)[7], sulla
violenza di stato, o su crimini comuni in contesti non bellici. La tensione fra
le convinzioni e il senso di giustizia delletnografo, da un lato, e dallaltro la
sua propensione professionale a empatizzare con gli informatori e a guardare
il mondo dal loro punto di vista, si fa qui fortissima. Le riflessioni di A.
Robben (1995) sulle interviste ai militari argentini responsabili della guerra
sporca, su cui torner oltre, ne sono un esempio. Ancora pi forte, per
lampio uso di trascrizioni di intervista e per il dilemma morale
consapevolmente sollevato dallautore, il lavoro di P. Bourgois (1995)
sugli stupri di gruppo nei quartieri portoricani di New York. Lo spazio
lasciato al racconto diretto ed esplicito dei violentatori lascia emergere per
intero il loro inquietante universo morale, e produce un profondo effetto
etnografico e pornografico al tempo stesso[8].

Il problema della voce dei testimoni ha per una dimensione pi ampia, che
riguarda anche le vittime stesse e che stato messo a fuoco in primo luogo
dagli storici. La storiografia contemporanea sulla Shoah, ad esempio, ha
guardato con un certo disagio al ruolo crescente assunto nei media dalla
narrazione autobiografica come strumento principale di rappresentazione
degli eventi. Se la storia di vita e la memoria individuale sono fonti
importanti per il sapere storico, esse non possono tuttavia sostituirlo e
rendersi del tutto autonome, come sembra accadere in quella che A.
Wieviorka ha chiamato lera del testimone. Ora, contrapporre nettamente
il discorso storico e la testimonianza biografica, il primo rivolto alla ragione
e alla ricerca critica della verit, la seconda al cuore e alla costruzione del
senso (Wieviorka 1998, pp. 153-54), una semplificazione inaccettabile dal
punto di vista antropologico. I dubbi sollevati da Wieviorka e da altri storici
sono per tuttaltro che infondati. Non si tratta tanto di deplorare il carattere
parziale e soggettivo della testimonianza e della memoria. Il perseguimento
dell imparzialit sembra non avere molto senso in contesti di violenza
estrema; e passare attraverso il piano degli effetti soggettivi della violenza e
del terrore indispensabile, come abbiamo visto, per un approccio che si
voglia definire etnografico (ne un ottimo esempio il saggio di V. Das
incluso in questo volume).

Ci che occorre evitare per lassolutizzazione delle versioni testimoniali
come rappresentazioni realistiche della verit. Il lavoro antropologico sulle
storie di vita, cos come gli studi psicologici sulla memoria individuale e
collettiva, ci mostrano la complessit delle procedure di plasmazione
culturale del ricordo autobiografico, di fusione tra esperienze personali e
modelli culturali diffusi[9]. Ci rende i racconti testimoniali documenti di
inestimabile valore antropologico, senza che tuttavia il discorso etnografico
stesso si possa esaurire in essi o nascondersi dietro la loro autorit. Il rischio
del ventriloquismo etnografico denunciato in un famoso passo di C. Geertz
(1988, p. 145) si fa qui particolarmente forte; cos come peraltro si fa forte,
se non insormontabile, la difficolt di sottoporre a critica delle fonti e ad
esercizi di distaccato scetticismo i racconti drammatici ed emotivamente
esplosivi delle vittime di violenza estrema. Ancora una volta, limpatto con
il dolore e la sofferenza, oltre che con limplicita o esplicita richiesta di
solidariet e partecipazione umana, sembra paralizzare latteggiamento
scientifico e porre in questione le pi consolidate forme di scrittura.
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Vorrei far notare la prossimit tra questi problemi e quelli posti dal dibattito
storiografico ed epistemologico sulle modalit di rappresentazione della
Shoah un ambito con il quale lantropologia ha finora dialogato troppo
poco. Anche in questo caso, sono centrali i dilemmi etici sollevati dalla
rappresentazione della sofferenza e quelli relativi al rapporto tra scrittura ed
eventi estremi. Quale forma espressiva consente di parlare legittimamente
della Shoah nel senso di restituire la natura terribile e peculiare
dellevento, e rispettare al contempo la memoria delle vittime? Come
Adorno sosteneva che barbaro fare poesia dopo Auschwitz, non potremmo
considerare ugualmente inappropriata sul piano etico la scrittura saggistica e
accademica, con il suo sfoggio di erudizione, le sue note a pi di pagina, il
suo compiacimento intellettualistico (Kellner 1994, p. 409)?
Loggettivazione e il distanziamento storiografico non contrastano forse con
le istanze della memoria e del lutto? E, soprattutto, il medium ordinante e
normalizzante della scrittura non tradisce di per s lessenza estrema della
pratica genocida, che consiste proprio nello spezzare lordine e la normalit
culturale? Come osserva J. Young (1988, p. 16), una volta scritti, gli eventi
assumono laspetto della coerenza che la narrativa necessariamente impone
loro, e il trauma della loro non assimilabilit superato laddove proprio
la traumatica straordinariet ci che la testimonianza intenderebbe restituire.

Sulla base di queste premesse, il dibattito si concentra sul realismo come
strategia di rappresentazione. Si sostiene da un lato la necessit di
rappresentare la Shoah attraverso uno stile fattuale, che conceda il meno
possibile alla costruzione letteraria e agli interventi esplicitamente
autoriali[10]. Dallaltra, si obietta che quando la realt stessa diventa cos
estrema e aberrante, straordinaria rispetto al contesto culturale comune, un
semplice linguaggio fattuale non pi in grado di restituirne la qualit. Il
primo argomento molto forte: lesperienza della Shoah segnerebbe il limite
invalicabile oltre il quale non pu spingersi la decostruzione postmoderna
delloggettivit e della verit storica. Come pensare di mettere in discussione
la fondamentale realt dellevento, o meglio, come accettare la possibilit di
una medesima infondatezza di pi versioni narrative, ad esempio quella
dei carnefici e quella delle vittime? La ripugnanza morale per gli esiti
relativistici del decostruzionismo, potenzialmente di supporto alle tesi
negazioniste, ha spinto molti autori in questa direzione[11]; e largomento
spesso ripreso nella letteratura etnografica sulla violenza. Di fronte
allenormit delle stragi, delle torture e degli stupri, e alla profondit della
sofferenza incontrata, sembra intollerabile lidea di una pluralit di versioni
possibili degli eventi e della dipendenza dellidea stessa di verit da finzioni
retoriche[12].

Tuttavia, come detto, la letteratura etnografica ben lontana dal seguire
modelli di scrittura cronachistica e fattuale. Al contrario, proprio lo sforzo di
cogliere la verit ultima della violenza, lautenticit di una esperienza
straordinaria e non convenzionale, spinge i ricercatori verso forme di
scrittura varie e complesse di tono pi modernista che realista, con ampio
uso di riflessioni soggettive e di estratti di diari e note di campo, con lo
stretto intreccio tra narrazioni di eventi e sollecitazioni teoriche e
interpretative, la giustapposizione di contesti ottenuta attraverso i frequenti
riferimenti letterari. Unanalisi in questo senso del corpus etnografico
prodotto dagli anni 90 ad oggi sarebbe estremamente interessante. Il piano
etnografico non tuttavia centrale nei saggi di questo volume, che mirano
piuttosto a costruire una cornice teorica in cui inquadrare i fenomeni della
violenza di massa contemporanea. Nel resto dellintroduzione, vorrei
discutere appunto alcuni aspetti del dibattito teorico.

10


3) Identit e violenza
Un tratto peculiare delle nuove guerre, forse il tratto peculiare, la loro
connessione con politiche dellidentit, vale a dire con movimenti che
muovono dallidentit etnica, razziale o religiosa per rivendicare a s il
potere dello stato (Kaldor 1999, p. 90). Nel linguaggio giornalistico e
nellopinione pubblica occidentale, si infatti parlato prevalentemente di
conflitti etnici o, nel caso dellAfrica, tribali, intendendo con questo che:
a) i gruppi in conflitto sono definiti sulla base di unappartenenza e di
vincoli pre-politici, cio della condivisione di certi tratti razziali e culturali
(il sangue, la lingua, la religione, etc.) concepiti come patrimonio
antichissimo e primordiale;
b) le cause del conflitto, al di l di specifiche contingenze storiche, sono
da individuarsi in odii ancestrali tra gruppi etnici, che covano costantemente
sotto la cenere per emergere periodicamente in modo esplosivo.
In molti casi, una simile concezione primordialista dellappartenenza e del
conflitto esplicitamente sostenuta e usata come forza ideologica e
strumento di consenso dalle parti in lotta: un caso paradigmatico
naturalmente quello della ex-Jugoslavia, dove i diversi nazionalismi hanno
alimentato la guerra sostenendo che i croati non possono vivere insieme ai
serbi, questi non possono vivere insieme ai musulmani e cos via,
rivangando presunti motivi di divisione che si perderebbero nella storia.

Ora, laddove non assuma tinte decisamente razziste, una simile concezione
dellappartenenza sembra poggiare su categorie antropologiche quali cultura,
tradizione, identit. Pi di ogni altra scienza, lantropologia si battuta nel
corso del Novecento per laffermazione dellidea di culture compatte,
autonome e distintive, di pari dignit e tendenzialmente incommensurabili,
come patrimonio dei diversi popoli. Lelaborazione di una nozione
pluralista e relativista di culture avvenuta nel quadro di un deciso
impegno antietnocentrico, sul piano epistemologico come su quello etico-
politico. Impegno volto al riconoscimento della dignit delle culture
cosiddette primitive, nonch alla valorizzazione e salvaguardia della
diversit culturale a fronte dellomologazione prodotta dallimperialismo e
dalla occidentalizzazione. Il discorso sulle culture e sulle identit, plasmato
allinterno dello specialismo disciplinare, ha incontrato resistenze ma
lentamente entrato a far parte del linguaggio comune. In questo passaggio i
concetti si sono per fortemente reificati: culture e identit sono state intese
come essenze pi o meno immutabili, quasi-naturali, non costruite nella
storia e nei rapporti politici ma date prima e indipendentemente dalla politica
e dagli eventi storici. Inoltre il loro segno progressivamente cambiato: se
ne sono appropriati ideologie xenofobe e fondamentaliste, aggressivi
nazionalismi e regionalismi, movimenti volti pi al mantenimento del
privilegio che al riconoscimento delle differenze. Una volta naturalizzati, tali
concetti sono stati posti a fondamento di politiche di pregiudizio e
intolleranza in una parola, di un atteggiamento neo-razzista, in unepoca in
cui il razzismo classico di impronta biologica, screditato dalluso fattone dal
nazismo, non sembrava pi sostenibile.

A questi usi pubblici dellidentit culturale ha fatto riscontro una radicale
critica (o autocritica) da parte degli studi antropologici. Nel dibattito
disciplinare degli ultimi decenni del Novecento ha giocato un ruolo centrale
la revisione del concetto di cultura, secondo linee argomentative molto note
che qui appena il caso di rammentare. Da un lato, si reagito alla
essenzializzazione della identit culturale, insistendo sulla sua natura di
costrutto teorico o di finzione retoricamente prodotta allinterno della
scrittura etnografica: non una peculiarit delloggetto, dunque, ma una
modalit dello sguardo antropologico. Dallaltro lato, si cercato di
11


mostrare che le rivendicazioni identitarie, laddove si diffondono in
determinati contesti storico-sociali, lo fanno in relazione a precisi interessi o
conflitti di potere, ai quali forniscono un supporto ideologico. Ne risulta che
i discorsi dellidentit possono accompagnare i conflitti, ma non ne sono la
causa: non rappresentano condizioni prepolitiche dei rapporti tra gruppi
umani, e dai rapporti politici sono invece determinati. Quando gli uomini
entrano in conflitto non perch hanno costumi o culture diverse, ma per
conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici
perch quello delletnicit diventa il mezzo pi efficace per farlo (Fabietti
1995, p. 151). Nelle sue forme pi radicali, lautocritica antropologica
giunge a denunciare le basi stesse dellimpresa disciplinare, cio il discorso
sulle differenze culturali, in quanto correlato ideologico delle strategie di
potere nei confronti dellAltro: dal momento che non esistono differenze
culturali date, il discorso che pretende di descriverle contribuisce in realt
alla loro costruzione e perpetuazione. La differenza sarebbe dunque laltra
faccia della disuguaglianza e del dominio: e unantropologia critica
dovrebbe porsi come obiettivo non quello di scrivere sulle culture e sulle
differenze ma di scrivere contro di esse (Abu-Lughod 1991).

Largomento che si delinea abbastanza chiaro. Le politiche dellidentit
sono uno strumento della violenza; lantropologia ha contribuito in modo
determinante a forgiare un discorso su identit e differenze culturali; di
conseguenza, lantropologia oggettivamente complice della violenza. Per
meglio dire, una di quelle discipline della violenza che accompagnano
secondo lanalisi di Foucault lesercizio del potere nel regime della
modernit. Nella letteratura recente sulla violenza, diversi contributi sono
stati dedicati a queste forme di complicit. Ne un esempio lintensa
discussione di N. Scheper-Hughes, nel saggio qui presentato, del ruolo
ambiguo dellantropologia nello sterminio degli indiani californiani
chiaramente visibile nel singolare rapporto tra Alfred Kroeber e Ishi,
lultimo sopravvissuto di un silenzioso ma implacabile etnocidio. Di
particolare interesse sono inoltre i lavori sul supporto delle scienze umane ai
programmi razzisti e genocidi del nazismo e di altri regimi totalitari (Dow-
Lixfeld 1994, Conte-Essner 1995, Linke 1997, 1999, Arnold 2002, Shaff
2002); nonch le ricostruzioni degli atteggiamenti intellettuali e delle prese
di posizione istituzionale dellantropologia accademica di fronte alla
scomparsa progressiva dei popoli indigeni, causata in modo talvolta
involontario, ma pi spesso volontariamente e consapevolmente,
dallimperialismo occidentale (Bodley 1990, 1992, Maybury-Lewis 2002).
Nel leggere questi lavori, siamo in effetti colpiti dalla facilit con cui
consistenti settori ed esponenti di spicco della disciplina abbiano aderito a
ideologie di regime, e abbiano assunto posizioni di pi o meno aperta
giustificazione delle pratiche genocide. Ci vale non solo per il nazismo e
per i contesti totalitari, ma anche per le grandi tradizioni antropologiche dei
paesi liberali. Di fronte allevidenza dei genocidi indigeni, queste ultime li
hanno per lo pi accettati come una condizione inevitabile dell incontro
fra civilt e culture diverse, contribuendo, come scrive John Bodley (1992,
p. 47), a mascherare la dimensione politica della violenza contro i gruppi
tribali. Questo autore sintetizza cos le posizioni delle diverse scuole
antropologiche in proposito:


Gli antropologi sono stati ovviamente consapevoli del destino dei gruppi
tribali. Per un secolo, essi sono stati a guardare mentre un gruppo dopo
laltro veniva sterminato dalle politiche governative, senza fare tuttavia
alcun tentativo per fermare la violenza, dal momento che la prevalente teoria
evoluzionistica considerava naturale e inevitabile la scomparsa dei gruppi
tribali. Con il declino dellevoluzionismo, gli antropologi hanno scoperto
che la teoria funzionalista facilitava lintervento scientifico nel processo di
12


conquista, aiutando a ridurre, ma non a eliminare, la violenza della conquista
politica. Gli antropologi dello sviluppo in contesto postcoloniale hanno teso
ad accettare la conquista delle aree tribali interne in stati indipendenti come
un inevitabile progresso del processo di costruzione nazionale (Ibid.).


Ma non si tratta solo del mancato o troppo tiepido impegno politico dei
singoli antropologi o delle loro associazioni. Come detto, la stessa
epistemologia della disciplina, il suo apparato concettuale, il suo modo di
rappresentare, classificare, oggettivare e astrarre (Comaroff, Comaroff 2003)
gli altri che al tempo stesso presuppone e sostiene la politica del dominio
violento. In ambito evoluzionista, ci passato soprattutto attraverso lidea
di progresso e la primitivizzazione dellaltro; nella fase relativista, attraverso
la reificazione delle culture e il sogno di una loro descrizione e
classificazione universale un censimento o anagrafe antropologica
globale, in grado di incasellare ogni differenza e di renderla disponibile al
controllo di ununica intelligenza, la nostra. Come nellanalisi
dellorientalismo di Said (1978), il discorso antropologico incorpora ed
reso possibile da quegli stessi presupposti che, sul piano dellazione politica,
producono loppressione e la violenza. Non questione dunque di buona
volont dei singoli studiosi: la disciplina non riformabile, secondo tale
concezione, e pu esser solo completamente rifondata a partire da una
prospettiva antiegemonica.

Lambito dei post-colonial studies lega strettamente linteresse per la
violenza con questo approccio radicalmente critico allintera tradizione
antropologica. Portare in primo piano la violenza, soprattutto quella che
percorre lasse egemonia-subalternit (nel senso sia di violenza di classe che
di relazioni internazionali neo-imperialiste), farebbe esplodere le
contraddizioni interne allantropologia classica, colpendo quello che forse
il suo principale nucleo epistemico la necessit di nascondere dietro una
maschera culturalista la natura politica, oppressiva e in ultima analisi
genocida dell incontro con gli altri. A mio parere questo tipo di critica,
per quanto ineludibile, va accolto con molte cautele. In primo luogo, non
trovo giustificata la sua pretesa di rovesciare la tradizione ermeneutica o
interpretativa dellantropologia in nome di un neomaterialismo tutto volto a
identificare le cause reali dei fenomeni storici al di sotto delle
apparenze sovrastrutturali (la cultura, il significato). In secondo luogo, mi
pare che occorra distinguere lanalisi dei presupposti retorico-politici del
discorso antropologico da un giudizio storico ed etico sulla disciplina una
confusione, questa, che ha caratterizzato anche alcune letture di Said. Le
denunce di complicit rivolte allantropologia accademica non sembrano
tener conto dei contesti storici in cui essa si sviluppa. Occorre chiedersi
quale ruolo abbia svolto il discorso antropologico, nelle varie fasi del suo
sviluppo, in relazione al senso comune e alle posizioni prevalenti
dellopinione pubblica o di altre scienze. Storicizzando, possiamo forse
formulare un giudizio pi prudente e articolato, senza fare di ogni erba un
fascio. Possiamo constatare, ad esempio, come lantropologia si sia in
prevalenza caratterizzata per la promozione di una sensibilit
antietnocentrica a fronte di istituzioni politiche e di unopinione pubblica
apertamente razzista; come abbia sostenuto le ragioni della comprensione e
del dialogo contro quelle del puro dominio economico e militare[13].

Lasciando per il momento sullo sfondo questa discussione, quel che certo
che molti antropologi contemporanei hanno reagito alle interpretazioni di
senso comune delle nuove guerre contestandone la natura e lorigine
specificamente etnica, e denunciando la strumentalizzazione che del discorso
etnico e identitario fanno alcune parti in conflitto. I saggi di J. Bowen e di R.
13


Hayden qui presentati sono esempi chiari e molto netti di questa reazione
antropologica allinterpretazione etnicista sostenuta dalla maggior parte dei
media. Entrambi sostengono che i conflitti cosiddetti etnici sono il prodotto
di scelte politiche compiute dallalto e non del naturale scontro fra identit
precostituite. Bowen sviluppa un argomento generale, in riferimento a una
pluralit di casi ma con lattenzione particolarmente rivolta a Ruanda e
Balcani; Hayden si concentra sulla ex-Jugoslavia, sottolineando il ruolo
cruciale dei nazionalismi e della loro convinzione (non solo serba e croata)
che unaggregazione statale sia possibile solo su base etnica. Il rapporto tra
eventi politici, violenza e quella che potremmo chiamare realt
antropologica dei territori interessati qui capovolta rispetto
allinterpretazione comune. Non abbiamo a che fare con strutture
antropologiche (separazioni etniche, divisioni identitarie) che rendono
impossibile la convivenza e laccordo politico e che, venuto meno
loppressivo dominio comunista (Balcani) o coloniale (Africa), esplodono
producendo disgregazione politica e conflitti violenti. Al contrario, la
violenza lunico modo in cui i nazionalismi possono imporre il proprio
modello ideale di uniformit etnica su una realt sociale e su strutture
antropologiche che sono ormai divenute multietniche. Vittime reali per
comunit immaginate, appunto, come si esprime Hayden parafrasando la
celebre formula di Benedict Anderson.

Se largomentazione dei due saggi nel complesso convincente, ci sono
per alcuni aspetti che meriterebbero di essere approfonditi. Daccordo, le
appartenenze etniche non sono mai precostituite, e producono conflitti solo
dove vengano spinte in questo senso dall alto, vale a dire dai leader
politici e da campagne propagandistiche che fanno leva su sentimenti di
paura e odio. Ma queste analisi lasciano in secondo piano il problema
antropologico forse pi importante, vale a dire una valutazione del reale
grado e dei motivi della diffusione del sentimento di appartenenza etnica.
Hayden, come detto, imposta la sua argomentazione attorno al contrasto tra i
modelli di purezza etnica immaginati e promossi dai nazionalismi e la
cultura vivente dei territori jugoslavi vale a dire le strutture
antropologiche realmente diffuse. Queste ultime sarebbero state dominate,
fino al crollo del comunismo, dalla eterogeneit, dal mescolamento, da
pratiche quotidiane che rendevano sempre pi irrilevante la questione
dellappartenenza etnica. Proprio il solido radicamento di una realt della
vita cos difforme dai modelli essenzialisti avrebbe reso necessario il
ricorso alla violenza estrema della pulizia etnica. Ora, questa tesi di un
multiculturalismo realizzato nella cultura viva della Jugoslavia sarebbe
tutta da dimostrare sul piano empirico ed etnografico: non possono bastare i
riferimenti statistici di Hayden al crescente numero di matrimoni misti e di
cittadini che nei censimenti si dichiaravano jugoslavi piuttosto che
appartenenti a unetnia particolare[14]. Ma, se anche cos fosse, come
potrebbe spiegarsi il grande consenso, anche elettorale, suscitato dai
movimenti e dalle idee nazionaliste? E soprattutto, come potrebbe spiegarsi
lapparente facilit con cui si trascorsi dalla tranquilla convivenza allodio
e a una inaudita pratica di violenza? Il controllo dei mezzi di comunicazione
di massa, ladesione di buona parte del mondo intellettuale, le campagne
propagandistiche, gli effetti devastanti della crisi economica sono fattori
chiave, certo, per il successo del nazionalismo pi sciovinista e per lo
scatenamento dei conflitti: ma possono bastare, da soli, a dar conto della
formazione di un cos vasto appoggio e di una cos immediata adesione ai
progetti di pulizia etnica? E difficile pensare che tutto sia potuto avvenire
cos rapidamente senza solide basi nella cultura vivente di quei
territori[15].

Qualcosa di simile si pu affermare per il Ruanda. Si pu ripetere
allinfinito, e con ogni ragione, che hutu e tutsi non esistono come etnie, e
che la loro contrapposizione frutto delle politiche coloniali; e si pu
14


mostrare quanto il loro reciproco odio, tuttaltro che atavico, derivi da una
serie di atti politici recenti e sia frutto, pi che causa, della violenza (Vidal
1997, Fusaschi 2000, p. 124 sgg.). Nondimeno, gli uomini comuni che
nellaprile 1994 impugnarono il machete vivevano in un mondo fondato
sullopposizione hutu-tutsi, o persone-scarafaggi, opposizione che sembrava
godere dello statuto di un presupposto ontologico, mai messo in dubbio
neppure per un istante. La propaganda radiofonica e le strutture di partito
hanno reso organizzativamente possibile il genocidio, ma hanno trovato
terreno fertile, e volenterosi carnefici senza nessuna incertezza su chi fosse il
nemico da fare a pezzi. Hanno cio trovato una realt vivente, una
struttura antropologica di base nella quale il genocidio era fin dallinizio una
possibilit concreta. Lantropologia non pu trascurare il problema delle
modalit della costituzione di un sentimento di appartenenza e di
contrapposizione etnica cos forte. E scontato che si tratti di un sentimento e
di una contrapposizione storicamente creati e non naturali: ma una volta
ribadito questo punto, tutto il lavoro di interpretazione della visione del
mondo locale, dei significati attribuiti allidentit hutu e a quella tutsi, resta
ancora da fare.

Trasportati dalla corretta critica alle visioni essenzialiste dellidentit etnica,
Bowen e Hayden eccedono nel ricondurre ogni aspetto delle politiche
identitarie a pura ideologia inculcata dallalto. La capacit dei leader di
convincere e persuadere la gente a odiare e uccidere sembra la
condizione necessaria e sufficiente del genocidio; e un simile argomento
porta a trascurare la profondit del radicamento storico di appartenenze e
divisioni, il grado di consolidamento della memoria o del sentimento etnico.
Questultimo ha una propria autonomia come ambito di motivazione di
comportamenti individuali e collettivi, come elemento costitutivo delle
soggettivit che sono protagoniste dei genocidi[16]. Per quanto
inestricabilmente intrecciato alla politica, non neppure integralmente
riducibile ad essa. Questa irriducibilit fondamentale per la prospettiva
antropologica, poich la stessa che si d fra modelli culturali e astratta
razionalit. Se pensassimo di poter dissolvere senza residui lopaco spessore
della cultura nella trasparenza della ragione utilitarista o economica,
lantropologia perderebbe in effetti la propria ragion dessere. Se la nostra
disciplina serve a qualcosa di fronte alla complessit del mondo
contemporaneo (e della sua violenza), il suo contributo consiste
nellintegrare luniversalismo della teoria politica pura con una sensibilit
per le peculiarit locali aprendo la teoria politica, come si esprime C.
Geertz (1999), al lessico eterogeneo e impreciso delle differenze culturali.


4) Violenza, stato e il continuum genocida
Dunque, la relazione causale che molti antropologi istituiscono fra pratiche
amministrative dello Stato-nazione, politiche identitarie e violenza appare
troppo schematica e determinista. Si teorizza talvolta una violenza
intransitiva, che pu operare concettualmente prima di manifestarsi
nellazione (Bowman 2001, p.27), presente in ogni istituzione promotrice
di confini e identit: la violenza non una performance nel corso della
quale una entit compatta (una persona, una comunit, uno Stato) viola
lintegrit di unaltra; piuttosto, essa consiste nel processo stesso che
genera tali identit compatte per mezzo della inscrizione di confini (Ibid., p.
28). Una enunciazione come questa, a parte lenigmatica inclusione del
concetto di persona, sembra considerare la costruzione di comunit e identit
sociali come una artificiosa e interessata forzatura rispetto a uno stato
naturale di assenza di confini e, per cos dire, di afflato universale
dellumanit dal quale la violenza sarebbe assente. Un assunto, questo,
spesso implicitamente presente nelle posizioni di una critical anthropology
tutta volta a indicare lorigine della disuguaglianza e della violenza nello
15


Stato, in particolare nel moderno Stato-nazione e nelle sue politiche
identitarie[17]. Ora, evidente che sul piano storico non si pu stabilire un
nesso esclusivo e causale tra stato-nazione, politica della differenza-identit
e violenza: proprio lantropologia ci mostra la presenza di questi ultimi due
elementi al di fuori della forma statuale. Daltra parte, in relazione al
contesto contemporaneo, attribuire le cause della violenza e della
discriminazione a un fattore cos generale come lo stato non ha molto senso,
e non ci pone in grado di distinguere societ pi o meno violente (al loro
interno e nei confronti di altre); n ci consente di valutare, nelle forme
moderne di gestione del potere, il rapporto e la tensione tra gli aspetti
repressivi, da un lato, e dallaltro il riconoscimento dei diritti e della dignit
degli individui (ancora una volta, e in varia misura, interni ed esterni).
Pensare al nazismo, al nazionalismo balcanico o alla carneficina ruandese
come al disvelamento della vera natura delle istituzioni della modernit o del
liberalismo pu essere unutile provocazione, ma di certo una prospettiva
parziale, mossa da esigenze pi ideologiche che analitiche.

Lo stesso vale per la nota affermazione di J.L.Amselle (1990, p. 35) sul
genocidio come paradigma identitario pi efficace della nostra epoca. Una
definizione che equipara senzaltro la violenza assoluta con le tensioni
identitarie, identificando in queste ultime il male del secolo e
trascurando cos altri fattori, come il totalitarismo (dal nazismo al
nazionalismo hutu, le politiche dellidentit divengono genocide quando si
combinano con regimi totalitari). Del resto, secondo una diffusa tesi
storiografica (Sternhell 2001), le radici culturali del fascismo e del nazismo
stessi starebbero nellantiuniversalismo romantico, nelle filosofie, come
quella herderiana, che vedono come protagonista della storia la comunit
umana localmente situata pi che lastratta e disincarnata ragione universale
dellilluminismo. Il che renderebbe equivoca e sospetta, e potenzialmente
genocida, quella sensibilit per la differenza che caratterizza lintera
tradizione del pensiero antropologico, nella quale Amselle in effetti non sa
vedere altro che gli aspetti classificatori ed essenzialisti e che riduce a puro
strumento del potere coloniale e addirittura, esagerandone limportanza, a
uno dei fondamenti della dominazione europea sul resto del pianeta (Ibid.,
pp. 41-42): lintento etnologico deve essere visto essenzialmente come il
modo di realizzare praticamente il potere dei dominatori, modo che sfocia a
sua volta nella etnologia come disciplina (p. 44). Eccoci dunque di nuovo al
tema della complicit. Oltre che assai semplicistica sul piano della storia
delle idee, questa tesi stabilisce una serie di equazioni discutibili:
lantiuniversalismo antropologico fa tuttuno con le politiche identitarie
dello stato-nazione; e queste ultime sono assunte a cause principali della
violenza genocida. Siamo cos portati a trascurare il problema veramente
importante: e cio, perch allinterno di un mondo fortemente interconnesso,
percorso, certo, da sentimenti identitari plasmati dalle politiche degli stati-
nazione, si determinino talvolta le condizioni di pratiche genocide.

Tuttavia, per quanto la critical anthropology indulga sovente in
semplificazioni e scorciatoie teoriche difficilmente accettabili, il problema
del nesso tra la violenza di massa contemporanea e le discipline di controllo
dello stato moderno importante e profondo. In questo volume, esso colto
nel modo pi pieno da Nancy Scheper-Hughes attraverso la nozione di
continuum genocida, riferita a quelle violenze quotidiane, nascoste e
spesso autorizzate che si praticano negli spazi sociali normativi: nelle
scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie dospedale,
nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori
pubblici. Questo continuum rinvia alla capacit umana di ridurre gli altri allo
status di non-persone, di mostri o di cose, per mezzo di varie forme di
esclusione sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione, pseudo-
speciazione e reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la
violenza verso gli altri.
16


Lantropologa statunitense tornata spesso su questo tema negli ultimi anni
fra laltro, curando insieme a Philippe Bourgois unantologia dal
significativo titolo Violence in War and Peace (Scheper-Hughes, Bourgois
2004), che raccoglie e affianca in modo provocatorio resoconti e
interpretazioni dei grandi genocidi e delle piccole violenze incastonate nella
normalit quotidiana. La sua carriera di ricercatrice lha portata a
confrontarsi sistematicamente con questultimo tipo di situazioni: dal suo
primo lavoro su un villaggio irlandese, caratterizzato da una socialit
patogena che rendeva la vita impossibile a certe categorie di persone
sfociando in un alto tasso di disturbi psichici (Scheper-Hughes 2000b
[1980]), ai pi recenti studi sulla mortalit infantile nelle baraccopoli
brasiliane (1992) e sul commercio internazionale di organi (Scheper-Hughes
2000a, 2001, 2004; Scheper-Hughes, Wacquant 2002). Ci che caratterizza
queste e analoghe forme di violenza strutturale il legame con istituzioni e
forme di potere volte a preservare privilegi, da un lato, e dallaltro la
tendenza a esercitarsi secondo le linee di una classificazione gerarchica di
individui e gruppi, colpendo quelli che sono considerati in qualche modo
come non pienamente umani (la strategia della pseudospeciazione,
secondo lespressione di E. Erikson[18]; Scheper-Hughes, Bourgois 2004,
p.21). Sono tali caratteristiche che accomunano, per qualit, questa violenza
a quella che si manifesta nei grandi genocidi del ventesimo secolo[19].

Le categorie interpretative che la studiosa utilizza insistono appunto in
questa direzione: il caso della nozione di crimini di pace, che Franco
Basaglia aveva introdotto nel 1975 in riferimento alle pratiche repressive
delle istituzioni totali, ma anche a tutte quelle forme di disciplinamento dei
corpi e delle menti che cancellano la dignit di individui stigmatizzati
trattandoli come non-persone (Basaglia, Ongaro Basaglia 1975). Gli stessi
meccanismi di distruzione dellidentit personale descritti da Primo Levi in
relazione ai lager nazisti sembrano manifestarsi nel pieno della normalit
quotidiana, producendo una violenza strisciante e invisibile non solo
perch praticata allinterno di istituzioni chiuse, ma perch legata a uno
sfondo di consuetudine che rende difficile percepirla come tale. Beninteso,
Scheper-Hughes non trascura le differenze tra i grandi genocidi e quelli
piccoli e invisibili, come li definisce: e anzi, enuncia una serie di
condizioni storicamente collegate ai primi, che consentono cio al
potenziale genocida di trasformarsi in atto.



I genocidi sono spesso preceduti da sconvolgimenti sociali, da un declino
radicale delle condizioni economiche, da disorganizzazione politica, da
cambiamenti culturali improvvisi che mettono in crisi i valori tradizionali e
diffondono anomia e assenza di norme. Anche i conflitti tra gruppi che
competono per il controllo di risorse materiali come terra o acqua, talvolta,
possono trasformarsi in eccidi di massa se combinati con sentimenti sociali
che negano la basilare umanit degli avversari (Scheper-Hughes, Bourgois
2004, p. 14)



Si pu notare che tali condizioni sembrano contraddire la teoria del
continuum, dal momento che legano gli eventi genocidi alla rottura della
normalit istituzionale e politica, alla disgregazione dellapparato statale. Ma
allora, il potere statale o la sua assenza a produrre il genocidio? Una
domanda che ci riporta alle note tesi di Annah Arendt sulla contrapposizione
17


tra potere e violenza: lontano dal rappresentare la diretta espressione del
potere, la violenza compare dove il potere scosso (Arendt 1969, p. 61).
Il potere, scrive la filosofa, fa parte dellessenza di tutti i governi: non cos la
violenza, la quale da sola non pu mai fondare un potere (ibid., pp. 54-7). Le
sue osservazioni critiche sono assai pertinenti rispetto allimpianto teorico
dellodierna critical anthropology: equiparare il potere politico all
organizzazione della violenza ha senso soltanto se si segue la valutazione
data da Marx dello Stato come strumento di oppressione nelle mani della
classe dominante, cosicch linsieme della politica e delle sue leggi e
istituzioni [sarebbero] pure e semplici sovrastrutture coercitive,
manifestazioni secondarie di altre forze sottostanti (ibid. pp. 37-8).

Tornando a Scheper-Hughes, tutto ci non inficia tuttavia lidea di continuit
fra crimini di pace e di guerra. La continuit riguarda infatti la qualit
specifica della violenza genocida e le motivazioni soggettive degli esecutori.
A proposito di queste ultime, lantropologa insiste sul fatto che non esiste
alcun impulso specifico per la violenza di massa, la quale semplicemente
incardinata nel senso comune della vita sociale quotidiana, e preparata
dalle pi diffuse istituzioni e sentimenti sociali (Scheper-Hughes, Bourgois
2204, p. 22). Un punto che sembra del resto corroborato dagli studi sugli
uomini comuni protagonisti della Shoah (Browning 1992), e dalle ricerche
di psicologia sociale che mostrano come le aspettative di ruolo o una
situazione di eteronomia o obbedienza allautorit siano presupposti
sufficienti a fondare comportamenti violenti e prevaricanti[20]. Ci che
manca invece nellanalisi di Scheper-Hughes la dimensione storica.
Intendo dire che la tesi della continuit potrebbe essere riformulata nei
termini di una genealogia della violenza genocida che ha caratterizzato il
ventesimo secolo. E questo il tema di un recente studio di Enzo Traverso
(2002) che analizza le origini della violenza nazista, riconducendole a una
serie di fenomeni centrali in quella che potremmo chiamare la costituzione
antropologica della modernit. Si tratta in gran parte di radici ottocentesche,
che ancorano il nazismo (ma anche ampia parte della violenza genocida del
ventesimo secolo) alla storia dellOccidente, allEuropa del capitalismo
industriale, del colonialismo, dellimperialismo, della rivoluzione scientifica
e tecnologica, lEuropa del darwinismo sociale e delleugenismo, lEuropa
del lungo XX secolo concluso nei campi di battaglia della prima guerra
mondiale (Traverso 2002, p. 22).

Il nesso tra tutti questi diversi elementi e la fenomenologia della violenza
che caratterizza Auschwitz (con le peculiari trasformazioni antropologiche
del lager e la pianificata esecuzione dello sterminio su scala industriale) ha a
che fare con i rapporti tra potere, corpo e tecnologia. Traverso prende avvio
dallintroduzione della ghigliottina, che apre unepoca di morte seriale in
cui la mediazione dellapparato tecnico attenua la responsabilit morale
delluccisore; prosegue analizzando lo sviluppo ottocentesco di istituzioni
chiuse come le caserme, le prigioni, le workhouses o istituti di lavoro
forzato e le stesse fabbriche tutti luoghi dominati dallo stesso principio di
chiusura, di disciplina del tempo e del corpo, di divisione razionale e di
meccanizzazione del lavoro, di gerarchia sociale e di sottomissione dei corpi
alle macchine (p .37). Importanza cruciale Traverso attribuisce (seguendo
in ci le tesi della stessa Hannah Arendt) allesperienza della conquista e
della dominazione coloniale, in particolare di quella conquista dellAfrica
che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo industriale: in essa trovano
per la prima volta una sintesi storica il razzismo, che declassa certi gruppi
umani in nome delle obiettive verit della scienza, lamministrazione e la
burocrazia moderne e il massacro razionalmente pianificato (p. 66). Infine,
decisivi appaiono gli sviluppi della pratica militare che troveranno il loro
culmine nella Grande Guerra, con la formazione di eserciti di massa
composti da soldati-macchina sul modello del lavoro fordista, nei quali il
valore della vita umana perde radicalmente di significato e lepica della
18


gloriosa morte in battaglia viene sostituita dalla banalit della morte
anonima di massa (p. 102).

Nel costruire una simile genealogia della violenza nazista, Traverso intende
attribuire questultima alla storia dellOccidente contemporaneo, senza per
questo vedere nel nazismo il naturale compimento di questa storia o la sua
essenza profonda. Si tratta piuttosto di condizioni sul cui sfondo la
violenza genocida diviene possibile:


La ghigliottina, il mattatoio, la fabbrica fordista, lamministrazione razionale
cos come il razzismo, leugenismo, i massacri coloniali e quelli della
Grande Guerra hanno modellato luniverso sociale e il paesaggio mentale
entro i quali stata concepita e messa in atto la Soluzione finale; ne hanno
creato le premesse tecniche, ideologiche e culturali; hanno edificato il
contesto antropologico nel quale Auschwitz stato possibile (p. 180).


Questo contesto antropologico ha forse a che fare con la tesi del
continuum della violenza di Scheper-Hughes, con lidea di uno stretto
rapporto tra crimini di guerra e crimini di pace. E un simile contesto che
rende sensato stabilire una relazione tra la Shoah e, poniamo, la catena di
montaggio oppure la scortesia dellinfermiera di una casa di riposo che tratta
i suoi assistiti come non-persone. La dimensione genealogica conferisce
maggiore profondit a questa tesi, disancorandola al tempo stesso da un
banale e astorico radicalismo che vede nella violenza genocida una diretta e
quasi automatica manifestazione delle istituzioni dello stato moderno, o del
potere in generale (una tentazione da cui la stessa Scheper-Hughes non
appare sempre esente). Il contesto antropologico fabbricato dalla storia degli
ultimi due secoli crea le condizioni per una peculiare qualit della violenza
di massa, ma pone al contempo le basi per pratiche sociali completamente
diverse, guidate ad esempio dalla pace, dal rispetto e dal riconoscimento
dellaltro. Le stesse istituzioni di cui si denuncia la complicit nel
trasmettere i sentimenti sociali che preparano gli stermini, tra cui Scheper-
Hughes include, oltre allesercito, anche la famiglia, la scuola, le chiese e gli
ospedali (Scheper-Hughes, Bourgois 2004, p. 22), contengono anche le
potenzialit della pace e della giustizia sociale. In quale direzione esse
vengano spinte un problema che riguarda la nostra responsabilit e le
nostre scelte etico-politiche. In questo senso, difficile sottrarsi al richiamo
che Scheper-Hughes ci rivolge nel saggio di questo volume: quello a saper
riconoscere una potenzialit genocida anche in noi stessi, e ad esercitare una
costante ipervigilanza difensiva anche verso le sue forme meno visibili e
meno direttamente riconoscibili.

5) La sintassi della violenza.
Vorrei tornare adesso al tema portante del rapporto tra violenza e costruzioni
identitarie, considerando la discussione profonda e raffinata che ne propone
Arjun Appadurai, nella sua opera principale Modernity at Large e in alcuni
saggi degli ultimi anni[21]. Anche per lantropologo indiano il punto di
partenza il rifiuto delle tesi primordialiste. Non il permanere di unantica
conflittualit radicata nelle appartenenze locali che fonda i conflitti etnici: al
contrario, questi ultimi vanno compresi nel quadro delle trasformazioni
indotte dalla globalizzazione e soprattutto in relazione al fenomeno del
culturalismo definito come deliberata mobilitazione delle differenze
culturali al servizio di pi vaste politiche nazionali o transnazionali
19


(Appadurai 1996, p. 32). Appadurai rivolge una serrata critica a quella teoria
politica che vede le appartenenze primordiali come residui premoderni,
fattori dinerzia che ostacolano il pieno dispiegamento della razionalit
politica (lo stato) ed economica (il mercato) della modernit. Al contrario,
sottolinea come la creazione di sentimenti primordiali, lungi dallessere un
ostacolo per lo stato modernizzatore, si situa vicino al centro del progetto del
moderno stato nazionale, come strumento di controllo e di consenso (ibid.,
p. 188); e come lesplosione di tali sentimenti rappresenti una delle
principali reazioni dello stato agli elementi di crisi che oggi lo percorrono a
fronte dei processi di globalizzazione.

Tuttavia, Appadurai si rende conto che non basta considerare questi
fenomeni come ideologie imposte dallalto, e si interroga proprio su come
essi possano plasmare a fondo la costituzione antropologica culturale,
emozionale e corporea - di determinati gruppi sociali. Se in definitiva
unampia motivazione politica a muovere le pratiche sociali, essa va per
compresa nella sua capacit di inscriversi nellesperienza fisica e psichica
dei soggetti coinvolti, fino nellintimit degli attori sociali incarnati (ibid.,
p. 191). Non si tratta di ricondurre la politica ai sentimenti primordiali, ma di
seguire semmai il percorso inverso, leggendo questi ultimi sullo sfondo di
foucaultiane cornici di potere e disciplina. Dunque, la sfida riuscire a
catturare la frenesia della violenza etnica senza ridurla al nucleo universale e
banale dei sentimenti profondi e primordiali. Dobbiamo preservare la
sensazione della furia psichica e incarnata cos come lintuizione che i
sentimenti coinvolti nella violenza etnica [] acquistano senso solo entro
vasti conglomerati di ideologia, immaginazione e disciplina (ibid., p. 192).
Se in questa dichiarazione programmatica laccento di Appadurai cade
sullopposizione al primordialismo, oggi sembra di dover piuttosto
sottolineare laltra esigenza, quella di una comprensione che preservi il
senso della furia psichica e incarnata che nella violenza si esprime;
esigenza, come detto, tanto trascurata quanto cruciale per una prospettiva
che possa ancora dirsi antropologica.

Loriginalit della soluzione di Appadurai sta nel tentativo di legare la
furia della violenza etnica non a certezze identitarie ataviche, bens alle
incertezze che il mondo contemporaneo porta costantemente ad esperire a
proposito delle identit nostre e altrui. Mentre la gente in tutto il mondo si
sente sempre pi definita in termini di macro-identit inventate dagli stati
nazionali, i criteri per determinare lappartenenza o meno ad esse di specifici
individui o gruppi sono sempre meno chiari. Soprattutto, sempre meno
chiaro se i nostri vicini, la gente che ci vive accanto, fa parte di noi o
degli altri. Le mappe corporee e caratteriali cos tipiche del repertorio dei
nazionalismi, classificando ogni individuo sotto la sua grande categoria
etnica, non sembrano pi consentire un sicuro riconoscimento. Questa
incertezza diviene cruciale in situazioni di aperto conflitto, in cui il
nemico pu nascondersi fra noi; qui lesperienza quotidiana dominata,
sostiene Appadurai, dalla sindrome dellinfiltrato, dellagente segreto, della
falsa identit dalla possibilit che la realt non sia mai ci che sembra. In
altre parole, si costituiscono universi morali dominati dallorrore per
lindeterminazione e per la confusione categoriale da quella stessa ansia
cognitiva per la materia fuori posto che Mary Douglas ha posto alla base
dei sistemi simbolici e del concetto di tabu.

Qui sta per Appadurai la chiave di comprensione di quelle peculiari forme di
violenza che caratterizzano i conflitti etnici contemporanei: una violenza
che si compie fra persone che hanno spesso in precedenza vissuto fianco a
fianco, negli stessi spazi sociali e in rapporti di vicinato e persino amicizia, e
che implica daltra parte forme di brutalit fisica straordinariamente crudeli,
con una qualit che potremmo quasi definire rituale. Queste forme di
20


violenza sono un modo per estrarre certezza da una situazione di
angosciosa incertezza; non per eliminare le anomalie, come nei sistemi
simbolici analizzati da Douglas, ma per dare forzatamente ordine a una
realt in cui lanomalia divenuta la regola. Appadurai ha qui in mente in
modo particolare i materiali discussi da Liisa Malkki nel suo importante
lavoro su gruppi di hutu rifugiati in Tanzania dal Burundi a seguito dei
massacri etnici del 1972 (Malkki 1995a). Lavorando sulle narrazioni dei
rifugiati, Malkki mostra come esse costituiscano nel loro complesso un
corpus condiviso di rappresentazioni del passato di natura, come la studiosa
si esprime, mitico-storica: vale a dire, un insieme di racconti volti a
produrre un ordine morale e classificatorio, che costruiscono un passato
esemplare e fondano al tempo stesso il senso dellesistenza nel contesto
presente (quello del campo profughi, in questo caso, particolarmente
interessante perch in esso si costruisce unimmaginazione di appartenenza
nazionale senza alcuna delle condizioni usuali che ad essa si accompagnano,
come territorialit, istituzioni statuali etc.; v. anche Malkki 1995b, 1996).
Questa mito-storia focalizzata sulla continua esplorazione, reiterazione e
sottolineatura dei confini tra s e gli altri, hutu e tutsi, bene e male. Le due
categorie principali, hutu e tutsi, sono identificate per mezzo di astratte
qualit morali: i tutsi incorporano il male, la pigrizia, la bellezza, il pericolo
e la malignit, gli hutu esattamente lopposto (ibid., p.54). A loro volta,
queste qualit morali si connettono a mappe corporee che dettagliano le
differenze fisiche tra hutu e tutsi un punto sul quale il discorso dei rifugiati
insiste in continuazione, esprimendo la necessit di evitare ogni ambiguit
nella distinzione categoriale (p. 78).

E la stessa Malkki a suggerire il nesso tra queste mappe di riconoscimento
basate su dettagli fisiologici e qualit caratteriali, da un lato, e dallaltro le
mappe necrografiche attraverso le quali gli hutu descrivono i dettagli dei
massacri e della violenza, le tecniche di uccisione, di mutilazione, di
manipolazione del corpo del nemico. Queste sono percepite come dotate di
un chiaro valore simbolico: forme di umiliazione e deumanizzazione dei
nemici etnici che insistono proprio sulle peculiarit loro assegnate dalle
rappresentazioni cosmologiche condivise. Una pratica atroce come quella di
impalare donne e uomini con lunghi fusti di bamb, dalla vagina o dallano
fino alla bocca, percepita ad esempio come una violazione del corpo dei
bassi hutu da parte di un sostituto simbolico degli alti tutsi (p. 92); e si
potrebbe inversamente osservare il significato simbolico delluso del
machete nel genocidio ruandese dei tutsi nel 1994, compiuto appunto con lo
strumento principale di quellagricoltura che i tutsi non saprebbero praticare
perch troppo pigri. Gli stessi assassini hutu che hanno raccontato la loro
esperienza a Jean Hatzfeld hanno osservato lanalogia tra il tagliare nel
lavoro dei campi e il tagliare a pezzi i corpi dei tutsi nelle paludi dove
questi si rifugiavano: il gesto era simile, anche se molto pi faticoso e la
sensazione meno scontata (Hatzfeld 2003, p. 69). Gli stessi testimoni
riportano la frequente pratica di tagliare le gambe delle vittime,
accorciandole secondo una sorta di legge del contrappasso: se un
uccisore crudele acchiappava una vittima un po alta tra i canneti, poteva
anche colpirla alle gambe, allaltezza delle caviglie per esempio, o anche alle
braccia, e lasciarla l, accorciata, senza darle il colpo di grazia (ibid., p.
153).

Questa percezione dei significati simbolici di specifiche forme di atrocit,
sostiene Malkki, non soltanto presente nei resoconti mitico-storici, ma
nella stessa esecuzione della violenza. In altre parole, le pratiche concrete di
crudelt e violenza si strutturano gi secondo una consapevolezza mitico-
storica, appaiono stilizzate e mitologicamente significative fin dalla loro
messa in atto (Malkki 1995a, p. 94). Appadurai, per tornare a lui, riprende
con forza queste osservazioni collegandole al tema dellincertezza
identitaria. In una situazione in cui i corpi, della vittima come dellassassino,
21


sono potenzialmente ingannevoli e rischiano di tradire le stesse cosmologie
che dovrebbero invece fondare, i riti atroci dei massacri si presentano come
forme brutali di disvelamento del corpo forme di vivisezione, tecniche
per esplorare, marcare, classificare e immagazzinare i corpi di quelli che
possono essere i nemici etnici (Appadurai 1998, p.291). In definitiva,
Appadurai si avvicina ancor pi di Hayden allidea della violenza come
tecnica per immaginare una comunit: essa consentirebbe infatti di rendere
concretamente e sensorialmente presenti quelle imprecise astrazioni che
sono le etichette etniche di vasta scala. Le pi orribili forme di violenza
etnocida sono meccanismi per produrre persone a partire da quelle che
resterebbero altrimenti etichette diffuse e di vasta scala, efficaci ma non
localizzate. In ci, la violenza genocida manifesta una qualit
autenticamente rituale, nel senso tecnico che a questo termine attribuito
dalla tradizione antropologica che fa capo a Van Gennep. I riti producono
persone attraverso performance che agiscono sui corpi anche se in questo
caso ci troviamo di fronte a una orribile inversione del ciclo della vita di Van
Gennep, che si trasforma in un vero e proprio ciclo della morte (p. 296).

Il grande merito della teoria di Appadurai consiste dunque nel radicare la
violenza in modelli culturali e categoriali profondi, che plasmano ai livelli
pi basilari la percezione dei corpi e le pratiche della quotidianit contro la
tesi che ne riconduce le cause al puro indottrinamento ideologico. In questo
modo, Appadurai apre la strada a unanalisi della sintassi simbolica di
specifiche pratiche di sopraffazione e crudelt, che non sono viste come pura
esplosione di furore bestiale e pre-culturale ma come governate da codici
che solo un ampio approccio antropologico in grado di cogliere. Non
poche obiezioni si potrebbero tuttavia muovere al punto di vista espresso
dallo studioso indiano. Provo ad articolarne due che mi sembrano
importanti. In primo luogo, lidea che lorrore per la confusione categoriale
sia la forza che muove e struttura simbolicamente la violenza (una forza
intesa non come fattore storico generale ma come motivazione incarnata
negli attori sociali) sembra contrastare con un fatto che emerge dalla
letteratura disponibile sugli esecutori stessi della violenza: questi ultimi
sembrano a loro volta sperimentarla come pratica di dissolvimento
dellordine culturale, delle categorie del mondo ordinario. Dai tedeschi del
battaglione 101 di C. Browning, ai gi citati hutu intervistati da J. Hatzfeld,
agli archetipici massacratori rappresentati da W.Sofski (1996, pp. 156-60),
linaudita prossimit con la morte con i suoi pi spaventosi dettagli fisici
non pu non trascinare gli assassini fuori da qualunque ordine, in uno stato
che a posteriori non riescono a ricordare come pienamente reale. Gli uccisori
vivono una situazione di liminarit, caratterizzata da elementi pressoch
universali quali leffervescenza emotiva, la forte coesione di gruppo o senso
di communitas, il consumo di alcolici e la ricerca di stati alterati di
coscienza[22]. Pi che nella riparazione di una normalit quotidiana
minacciata dalle anomalie, essi sono impegnati nella distruzione radicale di
un ordine sulla spinta del sogno di fondarne uno nuovo.

Un secondo problema sollevato dalla teoria di Appadurai riguarda
luniversalit della sintassi rituale della violenza. Se, come egli afferma,
colpire e mutilare i corpi etnicizzati uno sforzo disperato di restituire
validit ai contrassegni somatici dellalterit, a fronte delle incertezze
sollevate dalle definizioni dei censimenti, dai mutamenti demografici e
linguistici che rendono le appartenenze etniche sempre meno corporee o
somatiche, e pi sociali ed elettive (1998, p. 297) dovremmo allora poter
considerare il simbolismo di questa violenza come peculiare e distintivo dei
conflitti pi recenti, collocati nel contesto della globalizzazione e della crisi
dello stato-nazione classico, di cui rappresenterebbero una sorta di colpo di
coda. Sembra invece di trovarci di fronte a modalit simboliche meno
specifiche e pi universali. La bestializzazione del corpo, le inversioni
categoriali cui le vittime sono sottoposte, la violazione delle sfere pi
22


protette di intimit personale e familiare fanno parte di un repertorio ben
noto, ampiamente dispiegato nel corso di diverse epoche e contesti storico-
culturali. Si ha limpressione che la crudelt esercitata sul corpo dellaltro
possa assumere solo una serie limitata di forme, ricalcando in negativo il
limitato numero di universali antropologici: le caratteristiche strutturali dello
schema corporeo, il divieto dellincesto, lopposizione natura-cultura si
mostrano nella fenomenologia della violenza come in un grottesco
controluce.

Al di l di questi dubbi, il tentativo di autori come Malkki e Appadurai di
decifrare la sintassi della violenza ponendola in rapporto con cosmologie
locali e con tensioni sociologiche inscritte nelle soggettivit e nei corpi di
grande forza, e apre un percorso di analisi della violenza peculiarmente
antropologico. Su questa linea si colloca una crescente letteratura, dalla
quale vorrei estrarre due ulteriori esempi. Ancora in relazione al genocidio
ruandese del 1994, lantropologo medico Christopher Taylor (2002) ha
sostenuto lesistenza di un potente nesso tra le concezioni tradizionali di
corpo, salute e malattia e le pi cruente modalit della violenza genocida. In
sintesi, nella medicina popolare la salute vista come un libero trascorrere di
fluidi vitali attraverso il corpo, mentre la malattia dovuta a blocchi che
impediscono ai fluidi di scorrere. Secondo Taylor, questa idea fondamentale
ha plasmato in profondit le concrete manifestazioni di violenza,
funzionando come una sorta di schema generativo ancora una volta,
attraverso una inversione di senso che trasforma una cosmologia vitale in un
macabro ordine della morte. Questo modello culturale sembra a Taylor
connesso, ed esempio, allampio ricorso delle milizie hutu ai blocchi
stradali: istituiti al di l di ogni reale funzione strategica o razionalit
politica, questi ultimi divenivano luoghi privilegiati di uccisione e di
esercizio del potere (p. 163). Lidea di bloccare i movimenti si manifesta
anche nella grande diffusione di ferite inferte alle vittime alle gambe, ai
piedi e ai tendini di Achille anche in questo caso, pratica non spiegabile in
una logica utilitaristica (impedire alle vittime la fuga), giacch venivano
colpite in questo modo anche persone inferme, anziani e bambini molto
piccoli. Si manifesta qui un potere associato, in termini simbolici, alla
capacit di ostruire (p. 164). Infine, strettamente legata allimmaginario
dei flussi e dei blocchi la pratica dellimpalamento.Visti come blocking
beings, al pari di minacciose figure stregonesche della tradizione, i tutsi
ostruiscono lunit cosmologica della nazione hutu, e meritano lostruzione
del loro corpo con un palo o una lancia. Il che ricorda da vicino le metafore
predilette da Hitler sugli ebrei come batteri o agenti patogeni che infettano il
corpo della societ tedesca: cambia solo il modello medico-culturale
sottostante. Per quanto le interpretazioni di Taylor appaiano a tratti forzate,
convincente la sua proposta di leggere i macabri dettagli della violenza come
messaggi inscritti sui corpi delle vittime. I torturatori non si limitavano a
uccidere le loro vittime, trasformandone invece i corpi in potenti segni in
risonanza con un habitus ruandese (p. 168) come accade con linquietante
macchina di tortura della Colonia penale di Kafka, che inscrive a sangue la
sentenza sul corpo del condannato.

Un approccio analogo proposto da Robert L. Hinton (1998a) a proposito
dei massacri dei Khmer Rossi in Cambogia. Qui il modello culturale
tradizionale individuato come rilevante quello della vendetta
sproporzionata, una sorta di sistema di valori onore-vergogna secondo cui
chi subisce un torto sviluppa un inestinguibile rancore e perde la faccia
finch non riesce a procurare al suo nemico un danno assai maggiore. Lidea
della vendetta sproporzionata una specie di sfondo etico della societ
cambogiana tradizionale, presente nei miti e nelle narrazioni esemplari che
riguardano la socialit quotidiana: in esse si suggerisce costantemente che
lunica possibile riparazione a unoffesa allonore sia la completa distruzione
del nemico e persino della sua discendenza familiare al fine di prevenire
23


ulteriori contro-vendette che si propagherebbero allinfinito. Ebbene, Hinton
suggerisce che tale modello abbia plasmato le motivazioni e i
comportamenti dei Khmer Rossi, i quali avrebbero implicitamente
equiparato loppressione di classe (la povert dei contadini, la mancanza di
rispetto nei loro confronti) a unonta morale, indirizzando il risentimento
verso i ceti urbani. La loro educazione politica era interamente improntata
allo sviluppo di rabbia e odio verso gli oppressori, e la lotta di classe
interpretata nei termini delle tradizionali virt guerriere. La vendetta dei
poveri contro i ricchi, dei ceti rurali contro quelli urbani, era il tema
ricorrente della propaganda comunista, e mediava sul piano motivazionale
lidea stessa di rivoluzione e di fondazione di una societ nuova.

Anche in questo caso, chiaramente la propaganda ad accendere lodio e a
spingere a una violenza estrema legittimata come giustizia storica; ma
lideologia non potrebbe far presa se non innestandosi su modelli
tradizionali che la rendono assimilabile sul piano etico e su quello delle
pratiche sociali. La tesi plausibile, e suggerisce interessanti orizzonti di
ricerca anche in relazione ad altri contesti. Tuttavia, Hinton non sembra
considerare un punto essenziale: nella cultura tradizionale, il modello mitico
della vendetta spropositata fonda in realt una pratica quotidiana in cui essa
non si attua. I valori di onore, vergogna e vendetta fanno parte di un sistema
di regole relazionali che rendono possibile una convivenza civile e non
violenta (per quanto possano implicare un alto grado di violenza simbolica,
soprattutto sessuale e generazionale). Il problema, per la Cambogia come per
altri casi di eccidi di massa, capire come sia possibile la transizione da tale
civile convivenza alla cultura della morte e del terrore; come, dunque, i
modelli culturali che usualmente mediano e gestiscono il conflitto possano
trasformarsi nel loro opposto, sostenendo pratiche che fanno esplodere le
strutture sociali[23].
6) Lantropologia della violenza tra epistemologia ed etica.
Sono giunto a quel rituale momento in cui si dice che i limiti di
unintroduzione non consentono di approfondire altri e importanti aspetti
dellargomento in questione. Ci particolarmente vero in questo caso.
Vorrei perlomeno segnalare tre di questi ulteriori temi sollevati dai saggi qui
raccolti, concludendo con alcune osservazioni su un punto gi toccato in
precedenza, vale a dire il complicato rapporto fra la dimensione conoscitiva
e quella etica di unantropologia della violenza.

a) Violenza e genere. Il primo punto su cui occorre insistere, sollevato
esplicitamente nel saggio di Veena Das ma centrale nellintero dibattito
contemporaneo, la dimensione di genere della violenza. Abbiamo visto, nel
precedente paragrafo, che la violenza agisce seguendo a ritroso il lavoro
della cultura. Non si limita a distruggere materialmente i corpi, ma procede
disfacendo sistematicamente le costruzioni culturali del corpo, dellidentit
personale, della socialit primaria; individua le pi radicate fedelt culturali
come punti critici da colpire nella costruzione del terrore. E dunque chiaro
che il terreno dellidentit sessuale e di genere, e lambito ad essa connesso
delle relazioni familiari e di parentela, il suo terreno elettivo
specialmente nei casi di attacco sistematico e consapevole a popolazioni
civili basato sulla diffusione di una cultura del terrore, per usare ancora
lefficace formulazione di Taussig. In questi casi, dal Ruanda ai Balcani,
dalle guerre sporche latino-americane agli odierni conflitti civili africani (e
diversamente, almeno per certi fondamentali aspetti, dalla Shoah) la violenza
si attua come spettacolo del terrore, e mira a colpire le colonne portanti di
ci che culturalmente significativo, potendo penetrare, diversamente da
ogni altra forma di comunicazione simbolica, fin dentro il corpo, nei recessi
pi profondi delle sfere di intimit personale. In queste strategie gioca
ovviamente un ruolo-chiave lo stupro. Se esistono tratti universali nel
24


congegno anti-culturale della violenza, lo stupro sicuramente uno di essi.
Come noto, si tratta di una forma di violenza che paradossalmente produce
senso di colpa nella vittima. Non solo colpisce ai livelli pi profondi la
dignit personale; messo in scena pubblicamente, fa esplodere il livello pi
basilare delle relazioni sociali, sconvolge i sentimenti di fiducia, protezione,
rispetto reciproco su cui esse si fondano. Come nel caso degli stupri etnici
nei Balcani, la violazione del corpo femminile diviene addirittura il
principale strumento, simbolico e biologico al tempo stesso, di affermazione
di unidentit razziale quasi una grottesca caricatura di quelle tesi
sociobiologiche che pensano di poter spiegare ogni comportamento umano
in relazione allobiettivo della massimizzazione della capacit riproduttiva.

Lo stupro anche la forma di violenza che in modo pi netto collega i due
ambiti dei crimini di guerra e dei crimini di pace. Per quanto i suoi
significati culturali possano esser diversi nei due contesti, le indubbie
continuit ci spingono a pensare alla violenza sulle donne come a una sorta
di valore aggiunto nel quadro delle violenza di massa. Del resto, a parte la
diretta aggressione sessuale, sono molti i modi in cui le donne divengono
bersaglio particolare nelle nuove guerre e nelle strategie del terrore.
Queste ultime rendono spesso semplicemente impraticabili i ruoli sociali e
quelle che potremmo chiamare le posizioni morali delle donne, ad esempio
impedendo di seguire limperativo protettivo della funzione materna. I
racconti di donne costrette ad assistere, impotenti, alle violenze subite dai
figli rappresentano quasi sempre il culmine della drammaticit nei resoconti
dei massacri. Per converso, questo fa s che le donne giochino spesso un
ruolo fondamentale nelle forme di resistenza. Il caso paradigmatico
probabilmente quello delle madri argentine di Plaza de Mayo, un movimento
il cui grande impatto si basato proprio sulla rivendicazione delle
caratteristiche attribuite alla donna dallideologia ultraconservatrice della
giunta militare: il sentimento (apparentemente pre-politico) materno, il
diritto-dovere di proteggere e piangere i figli (Robben 2000). Come mostra
Veena Das, comunque lavoro delle donne la ricucitura di un universo di
valori quotidiani che si trova lacerato da eventi traumatici violenti nel
caso della sua ricerca, la Spartizione Indiana del 1947.

b) Memoria traumatica. Nella gran parte dei casi, il lavoro antropologico
sulla violenza si fonda sulle memorie di testimoni degli eventi (le vittime
sopravvissute, i familiari degli uccisi, pi raramente gli esecutori). Gli
antropologi si trovano cio di fronte a racconti di persone che devono fare i
conti con un lacerante e spesso inestinguibile trauma esistenziale, che le ha
colpite nel proprio corpo, negli affetti pi cari, nei pi basilari principi di
socialit. I contesti di ricerca sono quelli di individui e comunit impegnate a
elaborare un lutto per il quale la cultura tradizionale non offre risposte
adeguate; impegnate a ricostruire un senso del passato a partire dai brandelli
irrelati di una memoria insopportabile; impegnate a ristabilire un minimo di
equilibrio psichico e sociale, una possibilit di esistenza in ambienti che
spesso non sono pi i loro (ad esempio campi profughi, centri di accoglienza
per rifugiati, nuovi insediamenti pi o meno provvisori). Il problema
dellantropologia della violenza finisce cos per coincidere in larga parte con
il problema della memoria traumatica in unaccezione del termine che
implica non solo dinamiche psichiche individuali ma anche processi socio-
culturali. E un terreno (come, pi in generale, quello dello studio della
memoria culturale) su cui lantropologia ha bisogno di recuperare un
rapporto forte con la psicologia e la psicoanalisi (Antze, Lambek 1996,
Robben, Surez-Orozco 2000). Lagenda di ricerca che si apre di grande
ampiezza. Si pone prima di tutto il problema di unanalisi retorica dei
racconti di testimonianza, che vanno considerati da un lato nella loro natura
performativa, dallaltro nel loro intreccio con repertori narrativi e codici
culturali presenti nella tradizione. Queste narrazioni culturalmente plasmate
giocano un ruolo di primo piano nella trasmissione intergenerazionale non
25


solo della memoria ma dello stesso trauma un punto, questultimo,
ampiamente studiato in relazione alle generazioni di figli della Shoah. La
psicoanalista Yolanda Gampel (2000, p. 59) ha coniato il termine
radioattivit per esprimere il modo in cui le esperienze traumatiche si
insediano nella costituzione psichica degli individui, continuando ad agire
molto tempo dopo che gli eventi sono conclusi, e penetrando, appunto,
anche nelle generazioni successive. Peraltro, qui non il solo livello delle
narrazioni culturalmente accreditate ad agire: anzi, la memoria della
violenza radicale sembra agire in unarea psichica in cui le parole non
esistono (il reale lacaniano), configurandosi come un ineffabile o
indicibile che si rivela attraverso immagini, emozioni, espressioni corporee.

Lo studio della memoria traumatica si configura dunque da un lato come
tentativo di comunicare con le soggettivit ferite - un compito
particolarmente delicato sul piano etico, dal momento che il classico
obiettivo etnografico dell estrarre informazioni non pu qui andar
disgiunto da un obiettivo terapeutico (si veda in proposito il lavoro degli
etnopsichiatri con i rifugiati e le vittime di tortura; Beneduce 1999).
Dallaltro lato, lo studio della memoria ci porta invece verso unetnografia
delle forme pubbliche di elaborazione del lutto, delle rappresentazioni
simboliche e delle pratiche rituali che sono mobilitate a tal fine. Le
commemorazioni e le celebrazioni degli eventi pi drammatici, nonch la
costituzione di monumenti, musei o luoghi consacrati alla memoria, sono tra
le principali pratiche attraverso cui una comunit cerca di far trascendere
nel valore un cattivo passato, collocandolo in una narrazione storica (o in
un modello mitico) in grado di conferire senso al presente[24].
Lelaborazione del lutto si intreccia spesso, talvolta anche molto tempo dopo
la fase pi intensa delle violenze, con il perseguimento della giustizia: vale a
dire con attivit istituzionali, sostenute sul piano nazionale o internazionale,
volte ad accertare giuridicamente le responsabilit e a punire i colpevoli. Si
pu dire anzi che lo svolgimento di processi e il riconoscimento istituzionale
(non solo storico e morale) delle responsabilit una delle condizioni
essenziali per il superamento del trauma. Ma la giustizia non pu che esser
praticata in forme di compromesso. La societ normalizzata che esce dalla
violenza infatti sempre profondamente divisa e conflittuale, per effetto
delle stesse dinamiche della violenza, che si dimostrano invariabilmente
capaci di prolungare il loro effetto dirompente molto a lungo dopo che i
massacri sono finiti e firmati i trattati di pace (Surez-Orozco, Robben
2000, p. 5; Surez-Orozco 1990). Com stato osservato per lAmerica
Latina, si verificano profonde spaccature sociali fra quanti non vogliono
ricordare e coloro che non possono dimenticare, nutrite da risentimenti
residui per i differenti prezzi pagati nei confronti del terrore (Viar,
Ulriksen Viar 2001, p, 213). La memoria stessa destinata cos a restare
divisa, terreno di manifestazione di conflitti rispetto ai quali la giustizia deve
cercare mediazioni. Molti casi recenti, dalla commissione dinchiesta
argentina sui desaparecidos (CONADEP; Surez-Orozco 1992, p. 236 sgg.)
alla Commissione per la verit e la riconciliazione del Sudafrica (Wilson
2000, 2001 Ross 2003a, 2003b), mostrano il complesso rapporto che si
instaura tra le istanze strettamente giudiziarie, quelle di obiettiva
ricostruzione storica e quelle di riconciliazione nazionale. Il che significa
complesso rapporto tra giustizia, verit e politica (Wilson 2003, Flores 2005,
p. 115 sgg.). Scrivere la storia e fare giustizia, per quanto attivit
governate da propri interni criteri di coerenza e oggettivit, possono allora
rivelarsi come momenti di un complesso rituale di transizione tra regimi
politici, che sottodetermina - come ha sostenuto il giurista Ruti Teitel (2001,
pp. 272-3) - la rivelazione della conoscenza della verit.



26


c) Violenza e diritti umani. Il saggio di Talal Asad ci introduce in uno
scenario di riflessione ancora diverso, concernente il carattere storicamente e
culturalmente determinato di ci che noi intendiamo per violenza - in
particolare di ci che percepiamo come trattamento crudele, inumano e
degradante, in riferimento alla formulazione con la quale la Dichiarazione
dei diritti umani del 1948 condanna la tortura e analoghe forme di crudelt.
Asad prende una posizione nettamente critica nei confronti del linguaggio
universalizzante dei diritti umani. Non solo questultimo cieco di fronte
alla variet delle pratiche culturali; di pi, le sue pretese di solidariet
ecumenica celano laffermazione di un modello di individualit o di agente
razionale che fortemente e acriticamente etnocentrico, che affonda anzi le
radici nel dominio coloniale dellOccidente sul resto del mondo. Il saggio
procede mostrando le ambiguit e le palesi contraddizioni della nozione di
trattamento crudele, inumano e degradante: una nozione illuminista che,
paradossalmente, stata spesso imposta con la forza e con luso di sanzioni
violente alle culture colonizzate. Particolarmente interessante per Asad il
contrasto tra la condanna della crudelt e la sua legittimazione in alcuni
ambiti della modernit: da un lato quello della guerra, che si combatte con
armi sempre pi sofisticate ed efficaci nel distruggere i corpi e produrre
sofferenza, dallaltro lambito delle pratiche sadomasochiste, dove infliggere
e subire sofferenza accettato come libera scelta di adulti consenzienti. Ci
mostrerebbe, a suo parere, in che misura la proibizione di crudelt e tortura
sia sottodeterminata da una certa concezione (politica ed epistemica al
tempo stesso) di individuo e di civilt, rispetto alla quale si definisce lo
stesso significato della percezione del dolore, e se ne stabiliscono le
quantit ammissibili.

Il saggio di Asad si colloca nel quadro dellattuale dibattito antropologico
sui diritti umani, con lassunzione di una posizione decisamente relativista
da parte dellautore il quale si preoccupa peraltro di precisare la natura
intellettuale e non morale (o pratica) del suo scetticismo verso il linguaggio
universalista dei diritti. Ma davvero possibile mantenere questa
distinzione? Se li accostiamo a resoconti dettagliati di torture, da quelli del
Putumayo cui ci introduce Taussig fino ai recenti casi di Abu-Ghraib, non
rischiano di apparire futili le sottili distinzioni di Asad? Non c forse nella
pratica della tortura una immediata (universale, forse) riconoscibilit? Come
potremmo sbagliarci riguardo il significato di quegli atti di sopraffazione
violenta che usano laltrui corpo come strumento per la costruzione del
terrore? In effetti largomentazione di Asad si focalizza sulla nozione
liberale di diritti umani e sul significato del provare e infliggere dolore
nella societ contemporanea; e certo efficace la sua critica alla
formulazione trattamento crudele, inumano e degradante, con la quale la
dichiarazione del 1948 tentava di dare una formulazione pi ampia del
concetto di tortura. Ma cos il saggio finisce per perdere di vista il tema della
tortura come strumento di un potere che (forse per la sua imperfezione, come
suggerisce Hannah Arendt) si esercita per mezzo della violenza e del terrore.
E questo tipo di peculiari relazioni fra esseri umani che va messo a fuoco
per capire la tortura, quelle relazioni di cui ci parlano le immagini di Abu-
Ghraib o quelle del quasi dimenticato Sal di Pasolini (fra laltro, in
entrambi i casi si manifesta un nesso con la pornografia sadomasochista che
getta una luce diversa sullo stesso accostamento proposto da Asad).

Quale teoria ci aiuta a distinguere le relazioni sociali o i sistemi politici che
implicano la tortura da quelli che la escludono? E evidente che categorie
come modernit o Occidente non servono molto a capire tutto ci. La
tortura non ha mai prosperato cos bene come nella modernit, specialmente
allinterno di quelle che si autodefiniscono come missioni civilizzatrici.
Neppure la frattura democrazia-totalitarismo sembra decisiva, cos come
altre categorie politiche care al liberalismo. Asad cerca appunto di
evidenziare paradossi e contraddizioni del discorso moderno e liberale. Nella
27


linea della critical anthropology, vuol mostrare come lastratta morale del
liberalismo e la dichiarazione universale dei diritti umani che ne
espressione non sia in grado di tener fuori dalla modernit le pratiche
crudeli e degradanti; e come, anzi, i principi su cui tale morale si fonda
(luniversalit come correlato dei rapporti capitalistici di produzione e
dunque del dominio di classe; Turner 1998, p. 344) ne ricreino
costantemente le condizioni. Ma nella modernit, e per certi versi nelle
democrazie liberali, coesistono cose molto diverse: guerre sempre pi
distruttive e movimenti pacifisti e non violenti, torturatori di ogni tipo e
attivisti per i diritti umani. Si tratta solo di ambiguit interne, come pare ad
Asad, o di facce antagoniste e alternative? Una teoria della violenza, mi
pare, si dovrebbe misurare anche sulla capacit di aiutarci a discernere fra
queste diverse opzioni della modernit o del liberalismo; e non pu limitarsi
a considerare la dichiarazione dei diritti umani come una ingenua e ipocrita
copertura delle reali contraddizioni che muovono la storia.



Torniamo cos a chiederci se per unantropologia della violenza sia possibile
separare la discussione intellettuale, come si esprime Asad, da un impegno
pratico (politico, etico). Il problema viene esplicitamente posto in molta
letteratura etnografica, in termini di inevitabile coinvolgimento personale del
ricercatore e di umana solidariet nei confronti delle vittime. Ma raramente
la tensione fra i due aspetti della conoscenza e dellimpegno viene portata
fino alle sue conseguenze pi significative. Chi lo fa ancora una volta
Scheper-Hughes, secondo la quale la testimonianza etnografica della
violenza conduce necessariamente verso una concezione militante della
disciplina. Nel gi ricordato recente lavoro con P.Bourgois sulla violenza in
guerra e in pace, parla dellantropologo come di una persona responsabile,
riflessiva, moralmente o politicamente impegnata, che sappia prender
parte quando necessario e rifiutare i privilegi della neutralit (Scheper-
Hughes, Bourgois 2004, p. 26). Rispetto alla situazione etnografica classica,
nei contesti di violenza diviene impossibile ottenere e mantenere ogni forma
di distanziamento dagli interlocutori: che tipo di osservazione
partecipante, che tipo di testimonianza oculare appropriata di fronte al
genocidio e alle sue conseguenze, o anche soltanto di fronte alla violenza
strutturale e alletnocidio? Quando lantropologo diviene testimone di
crimini contro lumanit, la pura empatia scientifica non basta pi (p. 27).
Latteggiamento del distacco trapassa troppo facilmente in quello dello
spettatore, e persino del complice. Semplicemente, non si pu evitare di
schierarsi il che significa porre la propria competenza e il proprio sapere al
servizio di una causa, rovesciando una intera tradizione di disimpegno
accademico ma restando fedeli a quello che per Scheper-Hughes il
mandato originario dellantropologia:



schierare saldamente noi stessi e la nostra disciplina dalla parte dellumanit,
della salvezza e della ricostruzione del mondo anche se possiamo non esser
sempre sicuri di cosa ci significhi e di cosa ci venga richiesto in momenti
particolari. In ultima analisi, possiamo solo sperare che i nostri celebrati
metodi della testimonianza empatica e impegnata, dello stare con e dello
stare l, per quanto possano apparire vecchi e stanchi, ci forniscano gli
strumenti necessari per fare dellantropologia una piccola pratica di
liberazione umana (ibid.)

28


La formulazione abbastanza appassionata ma anche abbastanza modesta
da risultare convincente. Nessuno negherebbe un qualche grado di impegno
nei confronti delle persone di cui si rappresentano ( o si studiano) le
sofferenze; resta tuttavia aperto il problema di quali valori e obiettivi
rappresentano le fedelt ultime dellantropologo. Quelli della conoscenza o
quelli della partecipazione? Dellepistemologia o della politica? Per quanto
non necessariamente in contrasto, questi obiettivi hanno diversa natura e
possono trovarsi a confliggere anche in modo estremamente drammatico.
Scheper-Hughes parte dallimplicito presupposto che la verit
rivoluzionaria, e che la denuncia delle sopraffazioni e il sostegno alle vittime
facciano tuttuno con la ricerca delloggettivit[25]. Questo pu essere anche
vero in ultima analisi, ma i percorsi del rigore metodologico e scientifico e
quelli della solidariet politica sono spesso assai diversi. Il problema si pone
soprattutto in relazione alla principale fonte dellantropologia della violenza,
cio i racconti delle vittime sopravvissute e dei testimoni diretti.
Lepistemologia ci spinge a praticare verso questi racconti una critica delle
fonti: ad esempio, a non assumerli immediatamente come resoconti realisti,
a studiarne le forme di costruzione retorica e di adesione a modelli culturali,
eventualmente a farne risaltare le interne inconsistenze e cos via. Ma questo
rigore metodologico non serve ai fini della solidariet, e pu anzi risultare
controproducente sul piano pratico e politico (si pensi ai racconti dei
rifugiati e dei richiedenti asilo; v. Daniel-Knudsen 1995), e intollerabile sul
piano etico: che senso hanno le sottigliezze analitiche di fronte a persone che
hanno subito violenze e lutti terribili? Di fronte alla loro tragedia e alla loro
sofferenza, che importanza ha come la raccontano? Latteggiamento critico
sembra voler negare la verit assoluta di quelle esperienze; la sofisticazione
teoretica sembra del tutto fuori posto, quasi immorale, a fronte della
semplice enormit del Male e del Dolore che traspirano da quelle biografie.

Nelletnografia della violenza, questo punto espresso con grande efficacia
da Antonius Robben, in un intenso testo (1995) di riflessione su una ricerca
condotta in Argentina sulla memoria dei crimini della giunta militare.
Robben intervista tre categorie di persone: militari coinvolti pi o meno
direttamente nei crimini, ex-guerriglieri e parenti dei desaparecidos. Avverte
con forza la tendenza di tutte e tre queste componenti a tirare e far schierare
il ricercatore dalla propria parte, a chiedergli di condividere la propria
visione del mondo: e conia per questa tendenza la nozione di seduzione
(nel senso etimologico del termine) etnografica. Questultima si manifesta in
modo particolarmente drammatico nel rapporto con i parenti delle vittime.
Robben si sofferma ad esempio sul suo incontro col padre di uno scomparso,
un ragazzo della Giovent Peronista rapito nel 1976 a diciassette anni.
Luomo racconta dei suoi tentativi di avere notizie del figlio, attraverso
contatti con ufficiali dellesercito. Il climax del suo racconto lincontro con
un colonnello, in servizio attivo, che ha promesso attraverso la mediazione
di amici di dargli informazioni:








29


Dopo che gli ebbi raccontato tutto, [il colonnello] disse: Guardi, immagini
che suo figlio abbia il cancro [ ] e si trovi in una sala operatoria dove ci
sono un macellaio e un dottore: preghi che sia il dottore a operarlo.
Questuomo aveva infilato un pugnale nella mia ferita e lo rigirava dentro di
me. Mi scusi, signore dissi ma lei sa qualcosa? . No, no, sto solo
soppesando le possibilit e facendo una supposizione. Avrei voluto
prenderlo per la gola e strangolarlo; [] per la prima volta in vita mia
provavo il desiderio di uccidere qualcuno [] perch ero disperato. Non pu
immaginare con quanta soddisfazione mi disse quelle cose. E lei dovrebbe
analizzare il fatto che quelluomo era in servizio attivo (ibid., pp. 92-3).

Ma io ero incapace di analizzare, commenta Robben. Il testimone lo ha
incorporato nel suo tormento; le domande di approfondimento che avrebbe
voluto fare gli si spengono sulle labbra, e pu solo condividere in silenzio il
dolore di questuomo (ibid., p. 93). Se questa partecipazione pu essere
fondamentale per la comprensione della natura degli eventi studiati, essa
implica tuttavia grandi rischi. Quando il ricercatore sopraffatto
dallemozione, e sente di non poter fare nessunaltra domanda, perch non
c nientaltro da chiedere di fronte allenormit della tragedia, allora rischia
di non esser pi ricercatore. In questi momenti di completo collasso della
distanza critica tra i due interlocutori, perdiamo ogni dimensione
dellimpresa scientifica (ibid., p. 94); questultima implica per lappunto
distanza, scetticismo, lucidit e obiettivit, valori diversi rispetto a quelli
della solidariet morale e politica (v. anche Robben 1996, che rilegge il
problema della seduzione etnografica alla luce dei concetti psicoanalitici di
transfert e controtransfert).
Malgrado le apparenze, le posizioni espresse da Scheper-Hughes e Robben
non sono alternative. Esprimono invece una tensione alla quale il lavoro
antropologico non pu sfuggire. Robben pensa che dalla seduzione
etnografica ci si debba programmaticamente difendere: ma sa bene, lui per
primo, che cederle almeno per un po una condizione della comprensione
soprattutto quando ci che ci interessa non una pura conoscenza fattuale,
ma il significato della violenza nella memoria e nella vita delle persone. Per
quanto riguarda Scheper-Hughes, anche il suo appello allimpegno pu
difficilmente essere eluso; ricordandosi per che lantropologo pu forse
dare il suo piccolo contributo alla liberazione umana continuando a fare il
suo mestiere, e non trasformandosi in un attivista politico tout court. Il che
significa continuare a seguire le regole del metodo, della critica delle fonti,
del rigore argomentativo; e anche mantenere quella certa dose di distacco da
immediate finalit pratiche che sempre requisito del lavoro scientifico, e di
cui il vituperato disimpegno accademico non che unespressione. In altre
parole, comprensione critica, partecipazione morale e impegno politico
possono magari coesistere nella stessa persona, ma sono destinati a non
fondersi mai completamente gli uni negli altri: nella loro costante tensione,
vorrei suggerire, risiede la forza particolare del lavoro antropologico.








30


[1] La rilevanza di questo passo de I Nuer dipende non solo dallimportanza
dellautore e dallo statuto di classico che il libro si guadagnato, ma anche
dal fatto che negli anni Ottanta queste pagine sono divenute emblema dei
limiti del realismo etnografico, ed oggetto di feroci critiche da parte degli
autori del movimento di Writing Culture (si veda in particolare Rosaldo
1986, p. 132 sgg. e, per una difesa di Evans-Pritchard, Free 1991).

[2] Nellantropologia classica, gli unici lavori che tematizzano
esplicitamente la violenza sono infatti quelli che la considerano non come
un fenomeno storico ma come una caratteristica strutturale delle societ
primitive. Penso ad esempio allopera di Clastres (1977), che vede una
condizione di guerra permanente come necessaria allesistenza delle societ
senza Stato; o a una tradizione di studi neoevoluzionisti e sociobiologici che
spiegano naturalisticamente la guerra in termini di strategia adattiva e di
selezione del patrimonio genetico (per un quadro di tali approcci v. Knauft
1987, 1991; rimando anche a Dei 1999, pp. 290-4, per una valutazione
critica degli approcci naturalistici allantropologia della guerra). Per certi
versi pionieristica per il suo accento sulluso sistematico del terrore, ma
legata comunque allidea della violenza politica come caratteristica
strutturale di societ premoderne (in senso weberiano), lopera di E.V.
Walter (1969). Lantologia curata da D. Riches (1986) segnala lapertura di
un sistematico interesse antropologico per la violenza, senza tuttavia ancora
aprirsi a quelli che saranno i temi predominanti del dibattito degli anni 90.

[3] Peraltro, sembra eccessivo e inutile spingere questa critica fino al
concetto stesso di ragione, come fa Nordstrom, o contro la tendenza
antropologica alla ricerca del senso. Questultima oscurerebbe i concreti
individui che vivono, soffrono e muoiono, i quali sono la guerra; e le
ragioni, di fronte alle questioni di vita e di morte, sono rimpiazzate da una
cacofonia di realt (1995, p. 137). A parte la vaghezza di questultima
formula, non chiaro dove stia la contraddizione fra la ricerca del senso e il
metodo etnografico della studiosa, centrato sulla raccolta di storie
individuali e sullanalisi del simbolismo della violenza e di quello della
resistenza quotidiana. Proprio il suo sforzo di attingere la realt soggettiva
del dolore, del disfacimento del mondo e i tentativi di ricostruirlo con i
mezzi della cultura testimonia a favore di una nozione di comprensione
antropologica come elucidazione delle ragioni e dei significati che rendono
umane certe pratiche. Cfr. anche Nordstrom 1997, 2004, Finnstrm 2001.

[4] 1992, p. 115. Questo tema di fatto lasse portante dellintera opera
dello studioso, che esplora il nesso violenza-ragione-stato in una serie assai
compatta di volumi degli anni 80 e 90 (Taussig 1983, 1987, 1992, 1993,
1997, 1999).

[5] A proposito dei resoconti di Handenburg e Casement sulle atrocit
coloniali nel Putumayo, discussi nel saggio qui presentato, Taussig osserva
come, per quanto critici nellintenzione, essi presuppongono e rafforzano
quegli stessi rituali dellimmaginazione coloniale cui gli uomini
soccombevano torturando gli indiani. Nel loro cuore immaginativo, queste
critiche erano complici con ci a cui si opponevano (Taussig 1987, p. 133).
Sulla stessa linea si collocano le osservazioni mosse da Taussig alla poetica
conradiana di Cuore di tenebra.

[6] Un esempio tanto noto quanto drammatico di questa ambiguit
rappresentato da una foto di Kevin Carter, vincitrice nel 1993 del premio
Pulitzer: una bambina sudanese denutrita, crollata a terra con un avvoltoio
31


appostato a pochi passi di distanza. La foto, di grande impatto
comunicativo, ha svolto un ruolo importante nel mobilitare lopinione
pubblica internazionale attorno ai problemi della carestia provocata in
quegli anni nel Sudan meridionale dalla guerra civile. Daltra parte, la
stessa realizzazione della foto sembra implicare profondi problemi etici. Lo
stesso fotografo ha raccontato di aver atteso venti minuti che lavvoltoio
spiegasse le ali. Non ha forse strumentalizzato la situazione, anteponendo
la ricerca di unimmagine di successo allimperativo dellaiuto? Inoltre, la
diffusione mediale della foto non finisce per spettacolarizzarla, rendendo la
stessa sofferenza della bambina una forma di intrattenimento? Il dilemma
reso pi drammatico dal suicidio, nel 1994, dello stesso autore della foto
un suicidio che, come hanno commentato A. e J. Kleinman (1997, p. 7),
sembra disintegrare la dicotomia morale tra soggetto e oggetto di quella
foto, fondendo le rispettive sofferenze.

[7] Si vedano ad esempio i lavori sui guerriglieri sick di J. Pettigrew (1995)
e C.K. Mahmood (1996), quelli sui terroristi nord irlandesi di Feldman
(1991, 2000) e Sluka (1995a, 1995b), sul contesto israelo-palestinese di
Swedenburg 1995 e Bornstein 2001.

[8] Il lavoro di Bourgois (1995; v. anche Bourgois 1996) incentrato su un
gruppo di spacciatori di crack portoricani. Lautore fa un lungo periodo di
osservazione partecipante: diventa loro amico, ci fa sentire le loro voci,
ricostruisce una cultura subalterna la cui violenza esteriore
sottodeterminata dalla violenza emarginante e discriminante della cultura
egemonica. Ma lempatia e la solidariet politica delletnografo vacillano
quando i suoi amici iniziano a raccontargli degli stupri di gruppo che
compiono abitualmente. Per quanto disgustato, continua a fare il suo
lavoro, e ci offre le voci narranti degli stupratori, con il loro gusto da
bravata, i loro risolini, le usuali patetiche giustificazioni ( quello che lei
voleva), la loro cosmologia. Ci troviamo immersi in un universo di
relazioni sociali, di rapporti uomo-donna, di principi morali
particolarmente rivoltanti, e la distaccata testimonianza etnografica
sconfina a tratti nella pornografia pi oscena. Assai inquietante anche il
contributo dellantropologa americana Cathy Winkler (1991, 1995), che
descrive uno stupro da lei stessa subito cercando di utilizzare le tecniche di
osservazione etnografica, dunque con una sconcertante attenzione per il
dettaglio, e con il tentativo di capire e restituire il punto di vista
dellaggressore. Sono ricostruiti i gesti, i dialoghi, latteggiamento dello
stupratore, il terrore della vittima. Per lautrice, questo racconto
evidentemente una delle risposte possibili al trauma: oggettivare se stessi e
le proprie emozioni, riconquistare la padronanza della situazione, e anche
raccogliere elementi che possano servire ad ottenere giustizia. Per il lettore,
una costante e dolorosa oscillazione fra lidentificazione narrativa con la
vittima e una sorta di effetto morbosamente pornografico, limpressione di
star assistendo a qualcosa che non si dovrebbe vedere, perlomeno non cos
da vicino.

[9] Per una pi approfondita discussione del rapporto tra ricordo
individuale e sociale, in relazione a una ricerca sulla memoria degli eccidi
nazifascisti di civili nella Toscana del 1944, rimando a Dei 2005.

[10] Si vedano ad esempio le posizioni del filosofo B. Lang (1990), che
ammette solo la possibilit di una cronaca fattuale degli eventi della Shoah,
condannandone ogni resa attraverso un linguaggio figurato e stilizzato, o
attraverso forme narrative e di emplotment, colpevoli di introdurre un
significato e unintenzione autoriale estranee allautentico contesto del
genocidio e irrispettose dellesperienza delle vittime. Sul piano etico, come
32


se un persistente lutto imponesse di tenere sotto stretto controllo limpulso
allespressione artistica e creativa, a favore di uno stile impersonale in cui il
linguaggio per quanto possibile trasparente.

[11] Fondamentali sono i saggi raccolti in Friedlander (ed.) 1992, e in
particolare la discussione fra H. White e C. Ginzburg (per la traduzione
italiana dei loro due testi v. White 1999 e Ginzburg 1992)

[12] Chi sostiene unidea delletnografia come puro racconto pone
lautorit degli studiosi (sia pure involontariamente) al servizio dei sinistri
tentativi di negare lOlocausto, la guerra sporca latino-americana e altri
recenti episodi di distruzione organizzata. Attraverso la lente postmoderna,
essi divengono semplicemente racconti o finzioni, il che repellente in
termini sia intellettuali che morali..: (Surez-Orozco, Robben 2000, p. 12
nota).

[13] Per un approfondimento di questa argomentazione rimando a Dei
2004a.

[14] Oltretutto, i dati che Hayden riporta potrebbero esser letti in
opposizione alla sua tesi. Se vero che nel dopoguerra questi indici di
integrazione sono in progresso, si tratta tuttavia di un progresso molto
lento. Le percentuali restano basse, mostrando la persistenza nella gran
parte della popolazione di un forte senso di appartenenza etnico-nazionale
(cfr. in proposito Botev-Wagner 1993, secondo i quali lomogamia etnica
stata e rimane la norma in quella che era la Jugoslavia, paese in cui
lintegrazione etnica non si mai realizzata; v. anche Simic 1994). Anzi,
il senso di appartenenza etnico-nazionale stato probabilmente rafforzato,
come nota Bowen, dalla politica di integrazione titoista, basata sulla
circolazione dei dirigenti politici e statali, che portava ad associare il potere
con la diversit etnica, loppressione politica con una sorta di occupazione
straniera. Per unampia rassegna di posizioni in proposito v. Kideckel-
Halpern 1993.

[15] Che lideologia nazionalista, concepita come ancestrale o come
artificiosamente imposta dai leader, sia la causa della guerra una tesi
fortemente avversata anche dagli studiosi croati dellIstituto di Etnologia e
Folklore di Zagabria, autori di numerosi contributi di etnografia della
guerra (v. ale Feldman, Prica, Senjkovi 1993; Jambrei Kirin,
Povrzanovi 1996; Povrzanovi 2000). Un contributo nettamente schierato
contro la tesi di unorigine dallalto della pulizia etnica quello di M.
Bax (2000). Per altri contributi antropologici sulla guerra jugoslava, si
vedano Denich 1994, Bringa 2002, Nahoum-Grappe 1997, Marta 1999,
Maek 2001, Cushman 2004.

[16] Nella recente etnografia sulla violenza, questo punto stato espresso
nel modo forse pi incisivo da E. Valentine Daniel in unampia monografia
dedicata alla memoria degli scontri etnici in Sri Lanka. Daniel lavora sulle
costruzioni identitarie e sulle relative rappresentazioni del passato (o forme
di memoria etnica) di tre diversi gruppi, e insiste sul fatto che la critica anti-
essenzialista non deve spingere lantropologia a ignorare la realt storica
di queste costruzioni: nelleccitazione di scoprire che non ci sono altro che
costruzioni, si appiattita la cultura a una sola dimensione e si perso di
vista quanto le differenti costruzioni culturali possano differire in quanto a
resistenza e a grado di latenza (o profondit, come qualcuno preferirebbe
33


chiamarla) (Daniel 1996, p. 14). Considerazioni non dissimili a proposito
delle identit religiose in India sono svolte da S. Kakar (1996), pur nel
quadro di unetnografia profondamente diversa, informata da una
sensibilit psicoanalitica pi che strettamente antropologica. Sulle radici
etniche del fratricidio nello Sri Lanka si veda anche limportante lavoro
di S.J. Tambiah (1991).

[17] Si veda ad esempio lautorevole e citatissmo saggio di Verena Stolcke,
Talking culture, che si chiude con un vero e proprio anatema contro lo
Stato. Ogni discorso sulla diversit culturale, ella afferma, implica
disuguaglianza e discriminazione, ed dunque da condannare eccetto che
in una societ genuinamente democratica ed egalitaria, afferma lautrice,
chiedendosi retoricamente se questo sia possibile nei confini del moderno
stato-nazione, o, se per questo, di ogni forma di stato (Stolcke 1995,
p.13). Sfortunatamente, Stolcke non ci dice nulla di pi sulla utopia non-
statuale e cosmopolita al cui servizio lantropologia dovrebbe a suo parere
porsi.

[18] Sul nesso tra pseudo-speciazione e conflitti etici v. Tambiah 1989

[19] Per laltro curatore del volume, P. Bourgois, il continuum della
violenza si manifesta anche in modo pi netto nella difficolt di tracciare
netti confini tra la guerra e la quotidianit. Soprattutto nel suo lavoro su El
Salvador, egli insiste sulle modalit con cui la violenza della guerra civile
trapassa in un dopoguerra che solo apparentemente di pace, e in cui le
politiche neoliberiste impongono ai contadini poveri sofferenze non minori
di quelle del passato. La violenza bellica e quella strutturale, in definitiva,
apparirebbero come due facce di un ordine mondiale di ingiustizia che,
dopo la fine della guerra fredda, apparirebbe nella sua pi profonda natura
oppressiva (Bourgois 2001; v. Farmer 200 per una analoga prospettiva a
proposito di Haiti).

[20] I lavori pi noti in questo campo sono quelli di S. Milgram (1974) e P.
Zimbardo; questultimo autore intervenuto fra laltro sul recente caso
delle torture americane nel carcere iracheno di Abu Ghraib, sostenendo che
la forte propensione alla violenza e alla crudelt determinata dal contesto
stesso della prigione, in cui un gruppo di individui esercita un potere
assoluto e socialmente legittimato su un altro gruppo (Zimbardo 2004; v.
anche http://www.prisonexp.org/links.htm). Per unampia discussione delle
posizioni della psicologia sociale sul problema della violenza v. E. Staub
(1989) e la recente rassegna di M. Ravenna (2004).

[21] Di particolare rilievo il saggio Dead certainty (Appadurai 1998),
che non inserito in questa antologia solo perch una sua traduzione
italiana attualmente in corso, sempre presso leditore Meltemi, nel quadro
di un volume monografico dello stesso Appadurai.

[22] In questottica sono da leggersi una serie di comportamenti
particolarmente sconcertanti degli esecutori, come la derisione e la
spettacolare umiliazione delle vittime, e gli scherzi e battute scambiate in
proposito con i compagni, a fine giornata. Questo uno dei punti di dissidio
nella celebre discussione fra C. Browning e J. Goldhagen sugli uomini
comuni del Battaglione 101: le loro testimonianze parlano spesso di
momenti di socialit festiva che seguivano i massacri, nel corso dei quali
34


alcuni si vantavano delle uccisioni compiute o le prendevano a oggetto di
macabri scherzi. Browning ritiene impossibile che si tratti di veri
festeggiamenti, e li interpreta come segno dell'ottundimento della
sensibilit, dell'abbrutimento di chi era contrario al massacro o almeno ne
era turbato. Goldhagen, al contrario, afferma che l'allegria allegria, e che
essa si spiega solo col fatto che i tedeschi non consideravano delittuosi
quegli eccidi. Quella non era gente abbrutita e insensibile: scherzavano su
azioni che ovviamente approvavano, e alle quali avevano preso parte con
evidente piacere (1996, p. 562 nota). Lipotesi di comportamenti legati a
una situazione liminale sembra pi plausibile delle interpretazioni dei due
storici, i quali sembrano considerare il problema dellespressione delle
emozioni in una dimensione puramente psicologico-individuale.

[23] La tesi di Hinton sembra fra laltro poco coerente con quella sostenuta
dallo stesso autore in un precedente articolo (1996), in cui la violenza dei
massacri cambogiani interpretata alla luce della nozione di dissonanza
psico-sociale: gli eccessi e le forme altrimenti inspiegabili di accanimento
persecutorio sarebbero la risposta al conflitto fra gli imperativi aggressivi
dei Khmer rossi e i valori di solidariet (l etica della gentilezza)
largamente diffusi nella societ cambogiana tradizionale. Un analogo
approccio proposto da Hinton (1998) anche in relazione al problema della
crudelt inutile nello sterminio nazista degli ebrei: i valori del nazismo
non potevano non confliggere con pi universali imperativi morali,
generando cos una dissonanza che si manifesta in comportamenti abnormi.

[24] Le celebrazioni rituali e la politica dei monumenti sono al centro
negli ultimi anni di una vasta produzione storiografica ed etnografica. Si
vedano fra laltro limportante lavoro di J. Winter (1995) sulle
commemorazioni della Grande Guerra, e i contributi raccolti in Gillis, a
cura, 1994 e Lorey, Beezlet, a cura, 2002. Per una discussione del tema nel
quadro di un pi ampio approccio allantropologia della memoria rimando
a Dei 2004b.

[25] Una convinzione che implicitamente o esplicitamente condivisa da
molte etnografie contemporanee della violenza. Si veda ad esempio il lavoro
sui guerriglieri sick di C.K. Mahmood (1996), che teorizza unetnografia
partigiana e militante, e in cui la ricercatrice dichiara di porsi al
servizio dei suoi interlocutori ex-guerriglieri, per salvare la loro voce e
contribuire cos ai loro obiettivi politici e ideologici finalit ultima,
questa, della ricerca, in contrapposizione all oggettivismo degli studi
accademici e dellantropologia classica. Ci si pu chiedere fino a che
punto, con tali premesse, ci troviamo ancora di fronte a un libro di
antropologia (lautrice dichiara persino di aver rivisto il testo sulla base
delle correzioni ideologiche dei suoi interlocutori; v. Dusenbery 1997 per
una critica a questi aspetti); ma soprattutto, si pu notare la contraddizione
tra, appunto, la critica alloggettivismo accademico e la pretesa, pi volte
riaffermata dallautrice, di parlare in nome della verit (v. anche
Mahmood 2001).






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47


Cultura del terrore - Spazio della morte.
Lo studio di Roger Casement sul Putumayo e la spiegazione della tortura
di Michael Taussig.

(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp.
77-124; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)


Questo saggio prende in esame la tortura e la cultura del terrore di cui molti
di noi me incluso hanno solo una conoscenza indiretta, attraverso
racconti altrui. Nelle pagine che seguono mi occuper quindi delle
rappresentazioni della cultura del terrore attraverso la narrazione, nonch dei
problemi legati ad una scrittura realmente antagonista rispetto al terrore.

Jacobo Timerman conclude il suo recente lavoro Prigioniero senza nome,
cella senza numero lasciando aperto uno spiraglio di speranza sullo spazio
della morte:


Ha qualcuno di voi mai guardato negli occhi un altro prigioniero steso sul
pavimento di una cella, il quale sa che sta per morire sebbene nessuno glielo
abbia detto? Sa che sta per morire ma si aggrappa al suo proprio destino
biologico di vivere, come a ununica speranza, e questo perch nessuno gli
ha detto che stanno per giustiziarlo.

Ho molti di questi sguardi incisi in me []

Quegli sguardi che io ho incontrato nelle carceri clandestine dellArgentina e
che ho trattenuto a uno a uno sono stati il punto culminante, il momento pi
puro della mia tragedia.

Oggi sono qui con me. E, sebbene io desideri farlo, non posso e non so come
condividerli con voi (Timerman 1982, p. 174-175).


Lo spazio della morte fondamentale per la creazione del significato e della
coscienza, in particolare in quelle societ in cui la tortura un male
endemico e prospera la cultura del terrore. Possiamo pensare allo spazio
della morte come ad una soglia, anche se in realt si tratta di un territorio
ampio, la cui estensione comprende spazi di entrata e di uscita. Qualche
volta una persona ci passa attraverso e poi ritorna per farcene un resoconto,
come fa Timerman che entrato, come racconta, perch ha ritenuto
opportuno battersi contro la dittatura militare (Ibid., p. 34).

Timerman si battuto con le parole, con il suo giornale La Opinin,
muovendosi allinterno e contro il silenzio imposto dagli arbitri del discorso
che hanno costruito una nuova realt nelle celle carcerarie in cui torturatori e
torturati vivevano gli uni accanto agli altri.


Noialtri vittime e persecutori facciamo parte di una stessa umanit, colleghi
nello stesso sforzo di dimostrare lesistenza di ideologie, sensazioni, atti
eroici, religioni, ossessioni. E il resto dellumanit, la grande maggioranza,
in cosa impegnata? (Ibid., p. 119)

La costruzione della realt coloniale avvenuta nel Nuovo Mondo stata e
rimarr un tema di grande interesse e molto studiato: quel Nuovo Mondo
dove gli indiani e gli africani divennero soggetti per un numero inizialmente
molto piccolo di cristiani. Come pot questa egemonia realizzarsi cos
rapidamente? Qualunque risposta possiamo dare, non sarebbe saggio
ignorare o sottovalutare il ruolo svolto dal terrore. Con questo voglio dire
che dobbiamo pensare attraverso il terrore, che oltre ad uno stato fisiologico
48


anche un fatto sociale e una costruzione culturale, le cui dimensioni
barocche gli permettono di essere usato come mediatore par excellence
nellegemonia coloniale. Lo spazio della morte uno degli spazi
fondamentali in cui indiani, africani e bianchi dettero vita al Nuovo Mondo.

Questo spazio della morte ha unantica e ricca cultura. Limmaginazione
sociale lo ha riempito delle proprie immagini metamorfiche del male e degli
inferi: nella tradizione occidentale, lo troviamo in Omero, in Virgilio, nella
Bibbia, in Dante, in Bosch, nellInquisizione, in Baudelaire, in Rimbaud, in
Cuore di tenebra; nella tradizione dellAmazzonia occidentale, nelle zone di
apparizioni, di comunicazione tra terrestri ed esseri soprannaturali, di
putrefazione, morte, rinascita e genesi, forse nei fiumi e nella terra del latte
materno, eternamente immerso nella tenue luce verde delle foglie di coca
(Reichel-Dolmatoff 1971). Con la conquista e la colonizzazione degli
europei, questi spazi della morte si mescolano, diventando una fonte comune
di significanti chiave che legano la cultura dei conquistatori con quella dei
conquistati. Lo spazio della morte fondamentalmente uno spazio di
trasformazione: attraverso lesperienza della morte, la vita; attraverso la
paura, la perdita di s e la conformit ad una nuova realt; oppure anche
attraverso il male, il bene. Perso nella selva oscura, camminando poi
attraverso lInferno con la sua guida, Dante raggiunge il Paradiso solo dopo
essersi arrampicato sulla schiena di Satana. Timerman pu farci da guida,
proprio come gli sciamani del Putumayo che conosco fanno da guida a chi si
perso nello spazio della morte.


Un vecchio indiano Ingano del Putumayo una volta mi disse di questo
spazio:

Con la febbre ero ancora cosciente di ogni cosa. Ma dopo otto giorni persi
conoscenza. Non sapevo dove mi trovavo. Vagavo come un pazzo,
consumato dalla febbre. Mi dovevano coprire sopra a dove cadevo, faccia a
terra. Dopo altri otto giorni non ero pi cosciente di niente. Persi del tutto la
conoscenza. Di quello che diceva la gente non ricordo niente. Del dolore,
della febbre non ricordo niente. Solo lo spazio della morte, camminavo nello
spazio della morte. Cos, seguivo i rumori che parlavano. Rimasi
incosciente. Ora il mondo era rimasto indietro. Ora il mondo non cera pi.
E allora ho capito. Ora i dolori stavano parlando. Sapevo che non sarei
vissuto a lungo. Ora io ero morto. La mia vista se ne era andata. Del mondo
non capivo niente, nemmeno il suono delle mie orecchie. Di parole, niente.
Silenzio. Cos si conosce lo spazio della morte, l E questa la morte: lo
spazio che io ho visto. Ci stavo in mezzo, immobile. Allora andai in cielo,
mi sembrava di seguire una stella. Ero immobile. Poi venni gi. L cercavo i
cinque continenti del mondo, per restare, per trovarmi un posto nei cinque
continenti del mondo, nello spazio in cui stavo vagando. Ma non ci riuscivo.

Potremmo chiederci: in quale posto dei cinque continenti del mondo chi
vaga nello spazio della morte trover se stesso? E per estensione: dove
unintera societ trover se stessa? Il vecchio teme il male della stregoneria,
la battaglia per la sua anima. Tra lui, lo stregone e lo sciamano guaritore, si
cerca e si lotta per i cinque continenti. Ma in questa storia ce anche del riso,
che punteggia la paura del mistero, facendoci tornare a mente il commento
di Walter Benjamin sul modo in cui il romanticismo pu travisare
pericolosamente la natura dellintossicazione.

Ogni indagine seria delle doti e dei fenomeni occulti, surrealistici e
allucinatori egli scrive presuppone un intreccio dialettico di cui una
mentalit romantica non verr mai a capo. E infatti non molto utile
sottolineare con tono patetico o fanatico gli aspetti enigmatici
dellenigmatico; noi riusciamo invece a penetrare il mistero solo nella
misura in cui lo ritroviamo nella vita quotidiana, grazie a unottica dialettica
49


che riconosce il quotidiano come impenetrabile, limpenetrabile come
quotidiano (Benjamin 1967, p. 23).

Dalla cronaca di Timerman e da testi come El seor presidente di Miguel
Angel Asturia sufficientemente chiaro che le culture del terrore sono
fondate e alimentate dal silenzio e dal mito; una dimensione in cui
linsistenza fanatica sugli aspetti enigmatici dellenigmatico prospera per
mezzo di dicerie finemente intessute in ragnatele di realismo magico.
chiaro anche come il carnefice abbia bisogno della vittima per produrre
verit, oggettivando le sue fantasie nel discorso dellaltro. E vero, il
torturatore anche mosso da una volont prosaica: acquisire informazioni,
agire in accordo con le strategie economiche su larga scala elaborate dai
padroni e dalle esigenze della produzione. Ma allo stesso tempo, se non
forse pi importante, c il bisogno di controllare grandi popolazioni
attraverso lelaborazione culturale della paura.
Questo il motivo per cui viene imposto il silenzio e per cui Timerman,
leditore, era cos importante; ed egli, sempre per questo motivo, sapeva
quando doveva stare zitto e tagliare fuori la realt nella camera di tortura.

Questo silenzio - ci dice - comincia coi mezzi di comunicazione. Certi leader
politici, certe istituzioni e certi sacerdoti tentano di denunciare quello che sta
succedendo, ma sono impossibilitati a stabilire contatti con la popolazione. Il
silenzio comincia con un forte odore. La gente annusa i suicidi, che per
sono sfuggenti. Poi il silenzio trova un altro alleato: la solitudine. La gente
teme i suicidi come teme i folli. E colui che vuole combattere capisce la
propria solitudine e si spaventa (Timerman 1982, p. 59).

Sentiamo allora il bisogno di combattere questa solitudine, questa paura e
questo silenzio, di esaminare queste condizioni di produzione della verit e
della cultura, di seguire Michel Foucault (1977, p. 12) nel vedere
storicamente come si producano degli effetti di verit allinterno di discorsi
che non sono in s n veri n falsi. Allo stesso tempo non solo dobbiamo
vedere, ma dobbiamo vedere di nuovo attraverso la creazione di
controdiscorsi.
Se gli effetti della verit sono potere, allora la questione rilevante non solo
relativamente al potere di parlare e di scrivere, ma anche rispetto a quale
forma deve avere questo controdiscorso. La questione della forma ha
suscitato ultimamente grande interesse per gli autori di saggi storici o
etnografici. Ma di fronte allendemicit della tortura, al terrore e alla crescita
degli eserciti, nel Nuovo Mondo siamo oggi assaliti da una nuova
emergenza. Bisogna fare lo sforzo di comprendere il terrore, per farlo
comprendere agli altri. La realt che ci sta di fronte ridicolizza la
comprensione e deride la razionalit, come quando il giovane Jacobo
Timerman chiese a sua madre: Perch ci odiano? E lei rispose: Perch
non capiscono. E cos, dopo la sua ordalia, il vecchio Timerman scrive del
bisogno di un oggetto dellodio e allo stesso tempo della paura di
quelloggetto - una ineluttabilit quasi magica dellodio - e conclude:

No. Nessun dubbio che fosse mia madre a sbagliarsi. Non sono gli antisemiti
che debbono essere portati a capire. Siamo noi ebrei (Timerman 1982, p. 70,
74)

Odiate e temute, oggetti da disprezzare, ma anche da temere, essenza
reificata del male nellessere stesso dei loro corpi, queste figure dellebreo,
del nero, dellindiano e della donna stessa sono chiaramente oggetti di una
costruzione culturale, la grigia chiatta del male e del mistero che stabilizza la
nave e la rotta, cio la storia dellOccidente. Con la guerra fredda si
aggiunge il comunista. Con la bomba ad orologeria piazzata dentro alla
famiglia nucleare, aggiungiamo le femministe e gli omosessuali. I militari e
la Nuova Destra, come i conquistatori di un tempo, svelano il male che essi
stessi hanno attribuito a queste figure dellalterit, imitandone la presunta
natura selvaggia.
50


Che tipo di comprensione che tipo di discorso, di scrittura e di costruzione
di senso pu affrontare e sovvertire tutto ci?
Su una cosa Timerman chiaro. Combattere lerotizzazione e la
romanticizzazione della violenza con gli stessi mezzi o con forme
ugualmente mistiche un vicolo cieco; ma ugualmente insensate sono le
comuni spiegazioni razionali della cultura del terrore. Perch dietro alla
ricerca dei profitti, al bisogno di controllare la manodopera, al bisogno di
alleviare la frustrazione e cos via, ci sono logiche culturali di significato
strutture del sentire che sono il risultato di un processo lungo ed intricato,
le cui basi poggiano su un mondo simbolico e non su quello del razionalismo
utilitarista. In ultima analisi ci sono due aspetti: i pi crudi fatti empirici,
come gli elettrodi e i corpi umani mutilati, e lesperienza di passare
attraverso la tortura. Nel suo testo Timerman crea un potente controdiscorso,
in particolare perch, come la tortura stessa, esso ci fa passare attraverso
quello spazio della morte in cui la realt fuori portata, per confrontarsi con
le allucinazioni dei militari. Il suo testo sulla pazzia e sul male istituisce una
poetica rivoluzionaria e, secondo me, efficace, perch trova un antidoto e un
equilibrio in quella che a me pare la pi difficile delle posizioni politiche,
allinterno di uno spazio contraddittorio tra socialismo e anarchia. Egli sta a
Victor Serge come V.S. Naipaul sta a Arthur Koestler e a Josoph Conrad.
Conrad ha trattato il tema del terrore legato allo sfruttamento della gomma in
Congo in Cuore di tenebra. In questo romanzo, come osserva Frederick
Karl, ci sono tre realt: quella del re Leopoldo, composta da intricati
camuffamenti e inganni; il realismo colto di Roger Casement; e quella dello
stesso Conrad, che, per citare Karl, sta a met strada fra le altre due, per
come egli ha tentato di scoprire il velo restando per ansioso di conservarne
la qualit allucinatoria. (Karl 1979, p. 286).
Questa formulazione acuta e importante: scoprire il velo, conservandone la
qualit allucinatoria. Ci evoca le due ermeneutiche di cui parla Paul
Ricoeur nel suo importante commento a Freud: quella del sospetto (o della
riduzione) e quella della rivelazione (Ricoeur 1970). Riguardo alle
conseguenze politiche di Cuore di tenebra, mentre Ian Watt (1979, p. 161)
lo descrive come il pi duraturo e potente atto daccusa letterario nei
confronti dellimperialismo, io non sono sicuro che la sua qualit letteraria
straordinaria e la sua trasparenza allucinatoria alla fine non accechino e non
facciano cadere in trance il lettore, che annega nella corrente delle visioni. Il
pericolo qui risiede nellorrore estetizzante e se Conrad in grado di
fermarsi, noi dobbiamo renderci conto che appena oltre sta in agguato la
poetica seduttiva del fascismo, quella fonte immaginativa del terrore e della
tortura che profondamente impressa dentro di noi. Il problema artistico e
politico sta nelloccuparsene, mantenendo questa qualit allucinatoria, ma
rigirandola in effetti contro se stessa. Questa potrebbe essere la vera catarsi,
il grande controdiscorso di cui dobbiamo elaborare la poetica nel terreno
politico che oggi si apre con urgenza: la forma in cui tutto ci che attrae e
seduce nelliconografia e nella sensualit degli inferi diventa una forza di
autosovversione. La nozione di discorso di Foucault elude questa
aspirazione e questo concetto di sovversione dialetticamente impegnata. Ma
tramite una simile poetica che noi dobbiamo sviluppare le politiche
culturali appropriate ai nostri tempi.

La posizione di Casement contrasta sorprendentemente con quella di
Conrad. La differenza tra i due risulta tanto pi forte quando si consideri
come i loro sentieri si incrociarono in Congo nel 1890, in virt di un loro
comune background politico di esiliati o quasi-esiliati da societ europee
sottomesse ad imperi, come la Polonia e lIrlanda. Inoltre, cera una
indefinibile, anche se superficiale, somiglianza tra i due per il temperamento
e lamore per la letteratura. Fu tuttavia Casement che fece ricorso
allimpegno militante per la sua terra natia, organizzando un rifornimento di
armi dalla Germania ai ribelli di Dublino per la domenica di Pasqua del
1916, finendo per essere impiccato per tradimento; Conrad si tenne invece
pi ancorato ai propri obiettivi di artista, sommerso dalla nostalgia e dal
senso di colpa per la Polonia, prestando il suo nome ma per il resto
51


rifiutando di aiutare Casement nella Congo Reform Society, sostenendo a
sua discolpa di essere solamente un povero romanziere.
A questo proposito, un testo chiave la lettera di Conrad al suo caro amico e
socialista, laristocratico Don Roberto, altrimenti conosciuto come R. B.
Cunninghame Graham (che Jorge Borges considerava, insieme allaltro
grande romantico inglese W.H. Hudson, lautore dei pi accurati brani e
opere letterarie della societ della Pampa nel diciannovesimo secolo). In
questa lettera, datata 26 dicembre 1903, Conrad rende onore a don Roberto
per il suo eccellente libro sul grande conquistatore spagnolo, Hernando de
Soto, in particolare per la capacit simpatetica ad entrare nellanima dei
conquistadores il fascino, la passione e il romanticismo di quei tempi - una
sorta di sedativo che ci induce a dimenticare i conquistadores moderni come
Leopoldo e la mancanza di romanticismo e fantasia nellimperialismo
borghese tra diciannovesimo e inizio del ventesimo secolo. Conrad quindi va
ad informare don Roberto di un uomo che si chiama Casement e dei suoi
piani di fondare una societ di riforma del Congo per fermare il terrore che
l associato con lindustria della gomma, lo stesso terrore che ispir il
romanzo di Conrad. Conrad paragona Casement ad un conquistador ed
indulge ad una sua raffigurazione del tutto romanticizzata recisamente
corretta da Brian Inglis, uno dei biografi di Casement, settanta anni dopo.[1]
Ci che rende amara e istruttiva questa indulgenza, che deriva da e pervade
la teoria di Conrad sulla poetica, come essa formulata nellintroduzione a Il
negro del Narciso, il mutato atteggiamento dellautore al tempo del
processo a Casement per tradimento e alla sua pubblica diffamazione in
quanto omosessuale, nel 1916. Conrad abbandona qui completamente quel
romanticismo che laveva portato quasi a deificare il Casement incontrato in
Congo nel 1890. Scrivendo a John Quinn, Conrad rievoca il suo primo
incontro con Casement, descrivendolo ora non pi, come nel Diario del
Congo, un uomo che pensa, parla bene, molto intelligente e simpatico, ma
come un reclutatore di manodopera. Egli passa a denigrare Casement come
un romantico opportunista e aggiunge:

Era un buon compagno, ma gi in Africa ritenevo che egli fosse un uomo,
propriamente parlando, che non pensava. Non voglio dire stupido. Dico che
era molto emotivo. La carica emozionale (rapporto sul Congo, sul Putumayo
ecc.) era divenuto il suo stile e il puro emozionalismo lha rovinato. Una
creatura di temperamento puro una personalit veramente tragica: in lui
non cera nessuna traccia di grandezza. Solo vanit. Ma in Congo non era
ancora visibile. [2]

Tuttavia, resta il fatto che i rapporti di Casement sul Congo e sul Putumayo
fecero molto per arginare la brutalit diffusa in quei luoghi; secondo
Edmund Morel, essi inocularono la diplomazia di questo Paese [Gran
Bretagna] con una tossina morale, tanto che gli storici considerano questi
due casi come i soli in cui la diplomazia britannica si elevata al di sopra
dei luoghi comuni (Inglis 1974, p. 46).
Oltre alle coincidenze della storia imperialista, quello che accomuna
Casement e Conrad il problema che entrambi pongono riguardo alla forza
retorica e ai risultati politici del realismo sociale e del realismo mitico. Nello
spazio che separa lemotivo console generale, che da realista e da
razionalista scriveva schierandosi dalla parte dei colonizzati, e il grande
artista che invece non lo ha fatto, si trovano molti dei problemi cruciali
riguardo alla dominazione della cultura e alle culture della dominazione.

Il rapporto sul Putumayo

A questo punto utile una breve analisi letterale del rapporto di Casement
sul Putumayo presentato a Sir Edward Grey, capo del British Foreign
Service, e pubblicato dalla House of Commons il 13 luglio 1913, quando
Casement aveva 49 anni.
Per cominciare si potrebbe osservare che lattaccamento di Casement alla
causa dellautonomia irlandese e la sua collera nei confronti
52


dellimperialismo britannico rese il suo compito di console britannico, che
port avanti quasi tutta la vita, estremamente denso di contraddizioni. In pi
egli sentiva che le sue esperienze in Africa e in Sud America lo aiutavano a
comprendere meglio gli effetti del colonialismo in Irlanda, che a sua volta
stimolava la sua sensibilit etnografica e politica riguardo alle condizioni di
vita a sud dellequatore. Egli affermava, ad esempio, che proprio la sua
conoscenza della storia irlandese gli consentiva di capire le atrocit che
avvenivano in Congo, mentre quelli del Ministero degli Esteri non ne
sarebbero stati in grado perch levidenza empirica per loro non aveva
senso. In una lettera ad una sua cara amica, Alice Green, egli osservava:

Sapevo che il Ministero degli Esteri non avrebbe capito questa cosa, per cui
mi resi conto che stavo guardando a questa tragedia con gli occhi di unaltra
razza di persone che a loro volta erano state cacciate, quelle stesse persone i
cui sentimenti si basavano sullaffetto come principio originario del contatto
con i loro compagni e il cui giudizio della vita non era qualcosa da
analizzare sempre in base al suo prezzo di mercato (Ibid., p. 131).

Nellarticolo che scrisse per la prestigiosa Contemporary Review nel
1912, egli affermava che gli indiani del Putumayo, dal punto di vista morale,
avevano un grado pi alto di sviluppo rispetto ai loro oppressori bianchi.
Agli indiani mancava la vena competitiva: essi erano socialisti per
carattere, indole e probabilmente per effetto di lunga memoria della civilt
Inca e pre-Inca. Alla fine Casement chiedeva: troppo tardi per sperare
che attraverso la stessa mediazione umana e fraterna, qualcosa della bont e
della benevolenza della vita cristiana possa essere trasmessa ai bambini della
foresta, lontani, perduti e senza amici? In uno scritto successivo, si riferiva
ai contadini di Connemara in Irlanda come a degli indiani bianchi (Ibid., p.
234).
La sostanza del suo rapporto di 136 pagine sul Putumayo, basato su un
viaggio di sette settimane durante il quale, nel 1910, aveva attraversato le
aree di raccolta della gomma nelle giungle del Caraparan e
dellIgaraparan, affluenti del tratto di mezzo del fiume Putumayo, e su altri
sei mesi trascorsi nel bacino dellAmazzonia, sta da un lato nei dettagli sul
terrore e sulle torture, dallaltro nella spiegazione delle cause e nelle stime
sul tributo pagato in vite umane. La gomma del Putumayo non sarebbe stata
un buon affare senza il lavoro forzato degli indiani locali, in particolare di
quelli chiamati Huitotos. Durante i dodici anni a partire dal 1900 in cui nel
Putumayo furono prodotte qualcosa come 4000 tonnellate di gomma,
migliaia di indiani pagarono con la propria vita. Le morti per tortura,
malattia e forse le fughe fecero diminuire la popolazione di questa area di
circa 30.000 unit, nel corso di questi anni.[3]
Il governo britannico si sent in obbligo di inviare Casement come proprio
rappresentante consolare nel Putumayo a causa del grande clamore suscitato
nel 1909 da una serie di articoli apparsi sulla rivista londinese %Truth%$.
Gli articoli descrivevano la brutalit della compagnia della gomma,
costituita a partire dal 1907 come consorzio di imprese peruviane e
britanniche. Intitolati The Devils Paradise: A British Owned Congo (Il
paradiso del demonio: il dominio britannico del Congo), questi articoli erano
opera di un giovane ingegnere e avventuriero statunitense chiamato Walter
Hardenburg. Insieme ad un compagno di viaggio era entrato nel remoto
angolo del bacino dellAmazzonia passando dalle Ande colombiane nel
1907 ed era stato fatto prigioniero dalla Compagnia peruviana della gomma,
fondata da Julio Csar Arana nel 1903. La cronaca di Hardenburg in gran
parte unelaborazione di un testo fondamentale per la saga del Putumayo,
vale a dire un articolo uscito nel giornale iquito %La Sancin%$, poco
prima che la sua pubblicazione venisse sospesa dal governo peruviano e
dallo stesso Arana.
Hardenburg affermava che gli alberi della gomma stavano diminuendo
rapidamente e che nel giro di quattro anni sarebbero del tutto scomparsi a
causa della rapacit del sistema di produzione. Larticolo continuava con
laffermazione che i pacifici indiani lavoravano notte e giorno estraendo la
53


gomma senza ricevere la minima remunerazione. Non veniva dato loro
niente da mangiare o di cui vestirsi. Il loro raccolto, cos come le loro donne
e i loro bambini, venivano portati via per il piacere dei bianchi. Venivano
fustigati in modo disumano, fino a scoprire le ossa. Non ricevevano
trattamenti sanitari, venivano lasciati morire una volta finita la tortura,
sbranati dai cani della compagnia. Venivano castrati e venivano tagliate loro
orecchie, dita, braccia e gambe. Venivano torturati con il fuoco, con lacqua
e crocifissi a testa in gi. I bianchi li tagliavano a pezzi con il machete e
spaccavano la testa ai bambini piccoli facendoli sbattere contro alberi e
muri. I pi grandi venivano uccisi se non erano pi in grado di lavorare. Per
divertirsi i funzionari della compagnia praticavano il tiro a segno, usando gli
indiani come bersaglio. In occasioni speciali come il sabato di Pasqua il
Sabato Santo gli sparavano a gruppi oppure, a scelta, li cospargevano di
kerosene e li mettevano sul fuoco, per divertirsi nel vederli agonizzare.[4]
In una lettera scritta a Hardenburg da un dipendente della compagnia
leggiamo che una commissione era stata incaricata di sterminare un
gruppo di indiani perch non producevano gomma a sufficienza. La
commissione torn quattro giorni dopo con dita, orecchie e diverse teste di
indiani per dimostrare di aver eseguito gli ordini (Hardenburg 1912, p. 258).
In unaltra occasione, il direttore chiam centinaia di indiani perch si
radunassero sul posto.

Afferr la sua carabina e il suo machete e inizi ad uccidere questi indiani
inermi, lasciando il suolo ricoperto di pi di 150 cadaveri, tra cui uomini,
donne e bambini. Immersi in un lago di sangue e implorando piet, i
sopravvissuti venivano ammassati con i morti e bruciati, mentre il direttore
gridava: Sterminer tutti gli indiani che non obbediscono ai miei ordini, che
non producono tutta la gomma che io pretendo.

Quando erano ubriachi, aggiunge il corrispondente, i dipendenti di livello
pi alto della compagnia brindavano con lo champagne alla salute delluomo
che si vantava di aver compiuto il numero pi alto di assassinii (Ibid., pp.
260 e 259).
Laspetto forse pi drammatico del terrore nel Putumayo, riportato in un
articolo di giornale iquito nel 1908 e confermato sia da Casement che da
Hardenburg, riguarda la pesatura della gomma portata dagli indiani dalla
foresta:

Gli indiani sono cos remissivi che appena vedono che lago della bilancia
non indica i dieci chili, allungano essi stessi le mani e si gettano a terra per
ricevere la punizione. Allora il comandante [della stazione della gomma] o
un suo subordinato viene avanti, si china, prende lindiano per i capelli, lo
percuote, gli solleva la testa e gli picchia la faccia in terra. Dopo che la
faccia stata picchiata e presa a calci ed ricoperta di sangue, lindiano
viene frustato. Questo accade quando gli va bene, perch spesso vengono
fatti a pezzi con il machete.[5]

Nella stazione della gomma di Matanzas, continua lautore, Ho visto
indiani legati ad un albero, con i piedi circa mezza iarda sopra il terreno.
Viene messo sotto del carburante e vengono bruciati vivi. Questo si fa per
passare il tempo.

Il rapporto di Casement alla House of Commons sobrio e posato, quasi
nello stile di un avvocato che discute un caso: del tutto diverso dal suo diario
in cui racconta la stessa esperienza. Casement aggiunge fatti a fatti brutali,
suggerisce tutto un insieme di analisi e fa le sue raccomandazioni. Il suo
materiale viene da tre fonti: fatti di cui egli stato testimone; testimonianze
di 30 neri delle Barbados che, insieme ad altri 166, lavorarono sotto
contratto per la compagnia dal 1903 al 1904 come sorveglianti e le cui
affermazioni occupano 85 pagine protocollo; infine, frammisti alle
osservazioni dello stesso Casement, numerosi racconti degli abitanti del
luogo e dei dipendenti della compagnia.
54


Allinizio del suo rapporto, in una battuta molto efficace, Casement evoca la
banalit della violenza. I dipendenti di tutte le stazioni, quando non
cacciano gli indiani, passano il tempo stando distesi sulle amache o a giocare
dazzardo Colpisce latmosfera irreale dellordinario, lordinariet della
straordinario: In alcune delle stazioni il principale fustigatore era il cuoco
della stazione due di loro mi furono direttamente citati, e ho mangiato il
cibo preparato da loro, mentre molte delle loro vittime trasportavano il mio
bagaglio da una stazione allaltra e spesso mostravano terribili cicatrici sui
loro arti, inflitte dalla mano di quegli stessi uomini (ibid., p. 34).
Dalla presenza delle cicatrici Casement cap che la grande maggioranza
(forse pi del 90%) degli oltre 1.600 indiani che aveva visto erano stati
violentemente percossi (ibid., pp. 33-4). I casi peggiori erano quelli dei
ragazzi piccoli e le morti dovute a fustigazione erano frequenti, o sotto la
frusta oppure, pi spesso, qualche giorno dopo quando le ferite si infettavano
(ibid., p. 37). Le fustigazioni avevano luogo quando un indiano produceva
una quantit insufficiente di gomma e diventavano pi sadiche per quelli che
osavano cercare di scappare. La fustigazione era unita ad altri tipi di tortura
come il quasi-annegamento, pensato, come osservava Casement, per
fermarsi appena in tempo prima di annegare la vittima, suscitando cos una
forma acuta di panico psicologico e infliggendo unagonia fisica del tutto
simile a quella della morte. Casement era stato informato da un uomo che
aveva egli stesso pi volte fustigato gli indiani che in alcuni casi le madri
venivano fustigate perch i loro bambini piccoli non avevano prodotto
abbastanza gomma. Mentre i ragazzi rimanevano immobili, pietrificati dal
terrore, piangendo a quella vista, le loro madri venivano picchiate giusto
con un paio di colpi per farne lavoratori migliori (ibid., p. 37).
Gli indiani venivano lasciati deliberatamente senza mangiare per giorni,
qualche volta per spaventarli, ma pi spesso per ucciderli. Uomini e donne
venivano rinchiusi nei magazzini fino a quando morivano di fame. Uno delle
Barbados riport di aver visto indiani che in questa situazione grattavano la
terra con le dita e la mangiavano. Altri dichiararono di averli visti mangiare
i vermi delle loro ferite (ibid., p. 39).
I magazzini qualche volta si trovavano sopra la veranda superiore o la parte
abitata delledificio principale della stazione della gomma, direttamente
sotto la vista del direttore e dei suoi dipendenti. Bambini, uomini e donne
potevano rimanervi confinati per mesi e alcuni degli uomini delle Barbados
dicevano di aver visto stuprare le donne mentre erano nei magazzini (ibid.,
p. 42).
Molte delle misure di sorveglianza e delle punizioni venivano eseguite da
corpi di guardie indiane chiamate i muchachos. I membri di questo corpo
armato venivano addestrati dalla compagnia gi in giovane et e per
controllare i salvajes venivano impiegati solo questi che erano loro affini.
Casement pensava che essi non fossero in generale peggiori dei loro capi
bianchi.[6] Quando gli uomini delle Barbados erano presenti, veniva spesso
assegnato loro il compito di fustigare gli indiani, ma, sottolinea Casement,
nessun dipendente godeva il diritto di un monopolio della fustigazione. Il
comandante della sezione di solito prendeva lui stesso la frusta che, a turno,
poteva essere usata da ogni membro dello staff civilizzato o razionale
(Casement 1912-1913, p. 33).
Tali uomini, racconta Casement, avevano perso completamente la
prospettiva o il senso della realt dellestrazione della gomma, essi erano
semplicemente belve da preda che vivevano a spese degli indiani e si
divertivano a versare il loro sangue. Inoltre i dirigenti delle stazioni delle
aree in cui Casement aveva le informazioni pi precise avevano contratto
debiti (nonostante i loro considerevoli tassi di commissione), gestendo
operazioni in perdita per la compagnia, anche per molte migliaia di sterline
(ibid., pp. 44-5).
A questo punto necessario osservare che sebbene gli indiani fossero le
principali vittime del terrore, anche bianchi e neri erano possibili bersagli.
Poteva trattarsi dei concorrenti per lestrazione della gomma indiana, come i
commercianti indipendenti di gomma della Colombia che per primi
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conquistarono il Putumayo e che furono costretti ad andarsene dalla
compagnia di Arana nel 1908, oppure anche degli stessi dipendenti della
compagnia: solo pochi riuscirono a sfuggire alla minaccia, sempre
incombente, della tortura e della degradazione. Interrogato da Casement che
gli chiese se non sapesse che era sbagliato torturare gli indiani, uno degli
uomini delle Barbados rispose che egli non poteva disattendere gli ordini,
che un uomo pu essere un uomo laggi tra gli iquitos, ma pu non essere
un uomo quass Inoltre la maggior parte dei dipendenti bianchi e neri della
compagnia erano essi stessi intrappolati in un sistema di peonaggio, anche se
diverso da quello impiegato per controllare gli indiani.
Dalla testimonianza degli uomini delle Barbados chiaro che il dissenso,
lodio e la diffidenza provocavano risse tra tutti i membri della compagnia.
Potremmo addirittura pensare seriamente che tale anomia e diffidenza
potevano esser controllate solo attraverso la ritualizzazione collettiva delle
torture agli indiani; una ritualizzazione in grado di garantire alla compagnia
la solidariet richiesta per mantenerla come effettiva unit sociale.
Leggendo i resoconti (riportati da Casement di seconda mano e da
Hardenburg come testimone) sugli attacchi della compagnia contro i
commercianti bianchi della Colombia si diventa a poco a poco consapevoli
di quelle caratteristiche rituali che fecero della violenza nel Putumayo una
vera e propria cultura del terrore.


L'analisi di Casement

La principale linea di analisi di Casement sta nella sua argomentazione che
non era la gomma, ma la manodopera ad essere scarsa nel Putumayo e che la
scarsit fu la causa fondamentale dell'uso del terrore. La gomma del
Putumayo era di qualit molto scadente, la lontananza ne rendeva il trasporto
costoso rispetto alla gomma proveniente da altre zone e i salari per i
lavoratori liberi erano molto alti. Casement sostiene quindi che la compagnia
ricorreva all'uso di manodopera coatta sottomessa attraverso il sistema del
peonaggio, usando la tortura per mantenere la disciplina dei lavoratori..
Il problema di questa argomentazione, che chiama in causa una presunta
razionalit degli affari e una logica capitalistica della merce (tra cui la
manodopera), che essa va incontro ad alcune contraddizioni e, anche se
non del tutto errata, mi sembra che non dia sufficiente peso a due questioni
fondamentali. La prima riguarda le forme della manodopera e
l'organizzazione economica che la storia locale e la societ indiana avevano
messo a disposizione, almeno potenzialmente, al capitalismo mondiale nelle
giungle del Putumayo. La seconda questione, in poche parole, che il terrore
e la tortura non derivano solo dalla pressione esercitata dal mercato (che
possiamo qui considerare la causa immediata), ma anche dal processo di
costruzione culturale del male. "La pressione del mercato" si rif al
paradigma della scarsit che fondamentale per l'economicismo capitalista e
per la teoria socio-economica capitalista. Lasciando da parte la questione di
quanto sia esatta una descrizione della societ capitalista come risulta da
questo paradigma, comunque dubbio che esso riveli molto della realt
dello sfruttamento della gomma del Putumayo. Qui il problema, per
un'impresa capitalista, era proprio quello che non c'erano istituzioni sociali
capitaliste o un mercato per la forza lavoro astratta all'interno del quale il
capitale si potesse alimentare e moltiplicare. Anzi, si potrebbe andare oltre e
sostenere che proprio questa mancanza di relazioni sociali mercificate,
insieme alle pressioni del mercato mondiale della gomma, stata
responsabile della produzione della tortura e del terrore. Daltra parte, dire
che la cultura del terrore era funzionale alla necessit di forza lavoro non
spiega le contraddizioni pi significative che emergono dal rapporto di
Casement: vale a dire che il massacro di questa preziosa manodopera aveva
dimensioni incredibili e che, come sostiene lo stesso Casement, non solo i
dirigenti della stazione costavano alla compagnia grandi somme di denaro,
ma "tali uomini avevano perso completamente la prospettiva o lobiettivo
dellestrazione della gomma: essi erano semplicemente belve da preda che
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vivevano a spese degli indiani e si divertivano a versare il loro sangue.
Rivendicare la razionalit degli affari in questo caso significa rivendicare e
sostenere una razionalit illusoria, offuscando la nostra comprensione del
modo in cui gli affari possono trasformare l'uso del terrore da mezzo a fine
in s.
La storia locale e dell'organizzazione economica richiederebbero una
trattazione molto pi completa di quella che pu essere condotta in questa
sede. Vorrei comunque osservare per inciso che la "scarsit" della
manodopera non pu essere ricondotta alla scarsit degli indiani, di cui
invece sembra che ci fosse abbondanza, ma piuttosto al fatto che gli indiani
non lavoravano in un modo regolare e fidato, necessario ad un'impresa
capitalista su larga scala. Casement sottovalut questo fenomeno, ora spesso
descritto come curva di offerta di lavoro inclinata allindietro, anche se nel
Congo aveva egli stesso lamentato che i nativi non volevano lavorare (Inglis
1974, p.29). Egli era sicuro che se ricompensati meglio, gli indiani
avrebbero lavorato al livello richiesto dalla compagnia senza l'uso della
forza. Molte persone con una lunga esperienza nel Putumayo rifiutavano
questa affermazione ingenua e sostenevano, con una logica impeccabile
quanto quella di Casement, che la scarsit di manodopera e la facilit con cui
gli indiani vivevano dei prodotti della foresta obbligava i datori di lavoro a
trattarli con riguardo.[7] In ogni caso, con o senza l'uso della coercizione, il
livello di produttivit della manodopera non raggiungeva quello desiderato
dai padroni.
Le contraddizioni aumentano ulteriormente considerando l'analisi del
sistema del peonaggio che Casament considera schiavit. Era un pretesto,
secondo lui, che gli indiani in una tale relazione fossero in debito, perch
erano costretti a lavorare per la compagnia con la forza e non sarebbero
potuti scappare (Casement 1913, vol. 14, p.113, par. 2809). Ci si potrebbe
chiedere perch la compagnia continuasse con questa finzione, considerati
soprattutto i mezzi di coercizione a sua disposizione.
Con ogni probabilit si registravano i pagamenti anticipati sotto forma di
beni (come machete, vestiti o fucili) per ogni coltivatore della gomma. Gli
acconti erano corrispondenti pi o meno a cinque pence per ogni libbra di
gomma, che nel 1910 veniva rivenduta a tre scellini e dieci pence sul
mercato di Londra. (Nell'Africa occidentale i nativi venivano pagati
l'equivalente di una cifra compresa tra due scellini e due scellini e sei pence
a sterlina di gomma "Ibi Red niggers", di qualit paragonabile a quella del
Putumayo).[8] Il dirigente di una stazione rifer a Casement che gli indiani
non chiedevano mai il prezzo o il valore della gomma. Qualche volta gli si
dava una singola moneta e Casement incontr molte donne indiane che
indossavano collane fatte di monete (Casement 1912-1913, p. 50). Joachin
Rocha scrive che gli indiani della stazione della gomma di Tres Esquinas
consideravano il denaro non come mezzo di scambio ma come un oggetto
prezioso: essi usavano battere le monete fino a farle diventare delle forme
triangolari spianate e lucide da usare come anelli da naso e pendagli per le
orecchie (Rocha 1095, p. 75). Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che gli
indiani mancassero di interesse o non comprendessero le finalit del
commercio e quello che i bianchi facevano con la gomma nel mondo
esterno. "Voi comprate queste cose con la gomma che noi produciamo",
disse un capo indiano guardando, incantato, nei binocoli di Casement. A
Casement fu detto che i dirigenti della stazione fissavano la quantit di
gomma dovuta da ogni individuo in relazione ai beni che erano stati dati in
acconto e a questo proposito Padre Gridilla riporta un episodio interessante
che risale al 1912, quando era in viaggio nella regione del Carapan.
In quel periodo migliaia di indiani venivano alla stazione della gomma di La
Occidente per consegnare la gomma. Prima c'era una grande danza che
durava cinque giorni - il tipo di evento che Joachin Rocha dieci anni prima
aveva paragonato alla festa del raccolto. Quando la gomma veniva
consegnata si davano beni in acconto e Padre Gridilla commenta:

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i selvaggi non conoscono il denaro, i loro bisogni sono molto limitati e
chiedono solo fucili, munizioni, asce, machete, specchi e occasionalmente
amache

Un indiano descritto come un selvaggio grosso e brutto rifiutava di accettare
qualsiasi cosa, e dopo molte insistenze rispose: "Io non voglio niente. Io ho
tutto". I bianchi continuarono a insistere che chiedesse qualcosa. Alla fine
l'indiano replic "Voglio un cane nero". "E dove posso trovare un cane nero
o anche uno bianco, se non ce n in tutto il Putumayo?" rispose il dirigente
della stazione. "Tu mi chiedi gomma" rispose il selvaggio "e io ti porto
gomma. Se io ti chiedo un cane nero, tu devi darmene uno."[9]
Basandosi su storie sentite raccontare, Hardenburg scrisse che gli indiani
ricevevano i loro acconti con grande piacere, perch se non l'avessero fatto
sarebbero stati fustigati a morte (Hardenburg 1912, p. 218).
Anche se era un pretesto, il debito che assicurava il peonaggio era
nondimeno reale e il suo realismo magico era essenziale all'organizzazione
della forza lavoro nella raccolta della gomma del Putumayo, proprio come
quella "finzione della merce" che Karl Polany descrive per l'economia del
capitalismo maturo (Polany 1957; v. anche Taussig 1980a). Per analizzare la
costruzione di queste realt fittizie abbiamo bisogno di guardare a qualcuna
delle loro caratteristiche pi chiaramente mitiche, racchiuse nella relazione
sinergica tra mondo selvaggio e affari, tra cannibalismo e capitalismo. Julio
Csar Arana, la forza propulsiva della compagnia della gomma, fu
interrogato nel 1913 dalla Commissione del Parlamento Britannico sul
Putumayo. Gli fu chiesto di spiegare che cosa intendesse quando affermava
che gli indiani avevano resistito all'istituzione della civilizzazione nelle loro
zone, che essi avevano resistito per molti anni e che avevano praticato il
cannibalismo. Quello che intendo, rispose, che essi non ammettevano lo
scambio o che qualcuno facesse affari con loro - i bianchi, per esempio[10].


La giungla e la barbarie

In tutti i resoconti delle atrocit commesse durante il periodo dello
sfruttamento della gomma nel Putumayo c un problema cui ho finora solo
accennato. Anche se non ci sono dubbi sull'immensit della violenza, gran
parte delle prove ci giunge attraverso racconti. Uno storico meticoloso
vedrebbe in ci una sfida a saper cogliere la verit filtrandola dalle
esagerazioni o dai sottintesi. Ma limplicazione pi importante, mi sembra,
che i racconti sono in s stessi testimonianze del processo attraverso cui una
cultura del terrore stata creata e sostenuta.
Emergono in particolare due motivi correlati: gli orrori della giungla e gli
orrori dello stato selvaggio. Tutti i fatti sono distorti attraverso il prisma
formato da questi motivi che, in accordo con la teoria dellarte di Conrad,
mediano la verit effettiva non tanto attraverso la disseminazione
dellinformazione quanto attraverso il fascino delle impressioni sensoriali
sui temperamenti. Limmagine europea e colonialista della giungla
primordiale, con i suoi rampicanti, gli alberi della gomma e con il suo
dominio sul dominio umano, si presenta come la metafora colonialmente pi
appropriata di un grande spazio del terrore e della crudelt pi profonda.
(LEuropa del tardo xix secolo, che stava penetrando le antiche foreste dei
tropici.) Carlos Fuentes afferma che la letteratura latino-americana si muove
tra i poli formati dalla natura e dalla dittatura, in cui la distruttivit della
prima serve a riflettere relazioni sociali ancora pi distruttive. Un autore
colombiano, Jos Eustacio Rivera, scrive negli anni 20 in veste di peone
preso nella trappola del debito nel Putumayo:

Ero un cauchero [coltivatore della gomma] e sar sempre un cauchero. Vivo
nel pantano melmoso, nella solitudine delle foreste, con la mia combriccola
di malarici, perforando la corteccia degli alberi, da cui esce del sangue
bianco, come quello degli dei [] Ero e sar sempre un cauchero. E quello
che la mia mano infligge agli alberi, pu infliggere anche agli uomini.[11]
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In Cuore di tenebra Marlowe siede a gambe incrociate come un Buddha e
nellintroduzione al suo racconto prefigura lo sfruttamento coloniale del
Congo della fine del xix secolo, evocando un mercenario della Roma
imperiale che si muove attraverso le paludi del Tamigi

Sbarcare in una palude, marciare attraverso i boschi, e in qualche posto
dellinterno sentire che la barbarie, lestrema barbarie gli si rinchiusa
intorno tutta quella vita misteriosa e primitiva che si muove nella foresta,
nelle giungle, nei cuori selvaggi. Non c iniziazione per simili misteri. Egli
deve vivere in mezzo allincomprensibile, che altres detestabile. Ma che
ha pure del fascino, che agisce su di lui. Il fascino del disgusto sapete.
Immaginate i crescenti rimpianti, la brama di fuggire, il disgusto impotente,
la capitolazione, lodio (Conrad 1967, p. 283).

Il padre cappuccino Gaspar de Pinell, che intraprese una leggendaria
excursin apostlica presso gli Huitotos e altre trib selvagge nelle foreste
del Putumayo alla fine degli anni 20, ricorda come la sua guida bianca, un
uomo di grande esperienza, si fosse ammalato e cercasse di farsi curare da
uno sciamano Huitoto (che il padre chiamava stregone) piuttosto che con i
farmaci dei bianchi. Mor poco dopo, affidando a Padre Pinell il dilemma
morale del colonialista:

Questo mostra scriveva che pi probabile che un uomo civilizzato
diventi un selvaggio o si mescoli con gli indiani, che gli indiani diventino
civilizzati attraverso le azioni dei civilizzati (de Pinell 1924, p.156)

E con un torrente di virtuosismo fenomenologico, il suo collega, Padre
Francisco de Vilanova, affronta lo stesso annoso problema, con la differenza
che qui la giungla del Putumayo a costituire la grande immagine della
condizione selvaggia. In un libro che descrive la missione del Cappuccino
tra gli Huitotos a partire dagli anni 20, si legge:

una cosa quasi incredibile per chi non conosce la giungla. un fatto
irrazionale che rende schiavo chi ci va. un turbinio di passioni selvagge
che si impossessa delle persone civilizzate che hanno troppa fiducia in s
stesse. la degenerazione dello spirito in unubriacatura di circostanze
improbabili ma reali. Luomo razionale e civilizzato perde il rispetto per se
stesso e per la propria patria. Getta il suo patrimonio nel pantano da dove
chiss quando sar tirato fuori. Il cuore gli si riempie di morbosit e di
sentimenti selvaggi. Diventa insensibile rispetto alle cose pi grandi e vere
dellumanit. Anche gli spiriti istruiti, finemente formati e ben educati, alla
fine hanno ceduto (de Vilanova 1948).

Non certamente la giungla, ma i sentimenti che gli uomini vi proiettano
che sono decisivi per riempire i loro cuori di sentimenti selvaggi. E quello
che pu compiere la giungla, tanto pi possono farlo i suoi abitanti nativi, gli
indiani selvaggi, come quelli torturati nelle piantagioni della gomma. Non si
deve dimenticare che limmagine, costruita dal colonialismo, dellindiano
selvaggio di cui qui si parla era unimmagine fortemente ambigua,
altalenante, bifocalizzata e vagamente composta di animale e umano. Nella
loro forma umana o quasi umana, gli indiani selvaggi potevano restituire agli
occhi dei colonizzatori le loro ampie e barocche proiezioni di unumanit
selvaggia: proiezione di cui avevano bisogno per stabilire la propria realt di
persone civilizzate (per non dire di affaristi). Ed solo perch gli indiani
selvaggi erano uomini che potevano essere impiegati come manodopera (e
sottoposti alla tortura). Ed la vittima umana, non quella animale, che
gratifica il torturatore, consentendogli di trasformarsi a sua volta in un
selvaggio.


59


Quanto erano selvaggi gli Huitotos?

La barbarie degli indiani selvaggi svolgeva un ruolo chiave nella propaganda
della compagnia della gomma. Hardenburg scrive che gli Huitotos sono
molto ospitali, e che mentre la Chiesa migliora la loro morale, i preti sono
accuratamente esclusi nelle propriet della compagnia.

Anzi continua per spaventare le persone e trattenerle cos dallentrare
nella regione, la compagnia aveva messo in circolazione racconti che
facevano gelare il sangue nelle vene sulla ferocia e il cannibalismo di questi
indiani inermi, che i viaggiatori come me conoscevano come riservati,
pacifici, mansueti, industriosi e remissivi (Hardenburg 1912, p. 163).

Padre Pinell ha pubblicato un documento peruviano che descrive un film
documentario commissionato dalla compagnia di Arana nel 1917. Mostrato
nei cinema di Lima, il film ritrae gli effetti civilizzatori della compagnia su

queste regioni selvagge che non pi di 25 anni fa erano popolate
esclusivamente da cannibali. Grazie allenergia di questo infaticabile
combattente [Arana], essi sono stati trasformati in utili elementi di
manodopera (de Pinell 1924, p. 196).

La propaganda normalmente fioriva solo dove il terreno era stato bene e a
lungo preparato e mi sembra che quella di Arana non fosse uneccezione, dal
momento che la mitologia della barbarie risale a tempi a lui anteriori. Ma le
passioni suscitate dallo sfruttamento della gomma alimentarono questa
mitologia con una forza seduttiva. Prima di andare avanti nellanalisi dei
modi in cui la compagnia della gomma acquis lo stesso livello di barbarie
che attribuiva agli indiani, necessario fermarsi un momento per esaminare
la mitologia e il folklore colonialista relativo alle popolazioni delle foreste
dellAlta Amazzonia.
A pi riprese Casement ci racconta che gli Huitotos e gli indiani dellAlta
Amazzonia erano gentili e pacifici. Egli non d credito al loro cannibalismo,
dice che sono tutto meno che violenti e si riferisce alla loro docilit come ad
una caratteristica naturale e straordinaria. Ci spiegherebbe la facilit con
cui furono conquistati e costretti a raccogliere la gomma.

Un indiano prometterebbe qualsiasi cosa per un fucile o per unaltra delle
cose allettanti che gli vengono offerte per indurlo a produrre la gomma.
Molti indiani cedevano alla proposta, per scoprire che, una volta nei registri
dei conquistadores, essi avevano perso ogni libert e si riducevano a dover
soddisfare le infinite richieste di altra gomma e a svolgere i compiti pi
diversi. Un cacicco o capitn poteva essere indotto a mettere a
disposizione la manodopera del suo intero clan; la sua forte influenza unita
alla naturale remissivit degli indiani, caratteristica tipica delle trib
dellAlta Amazzonia, rendeva meno difficile di quanto si potesse pensare
lopera di conquista di una popolazione primitiva e il ridurla ad un continuo
sforzo per la ricerca della gomma (Casement 1912-1913, pp. 27-28).

Ma daltra parte, tale remissivit rende la violenza dei bianchi ancora pi
difficile da comprendere.
Molti punti possono essere contestati nella versione di Casement sopra
riportata, come ad esempio la sua asserzione sul grado di potere del capo
trib, nonch la ingannevole semplicit con cui egli parla dei problemi di
temi come la durezza e la docilit in una societ cos estranea alla propria.
Non si dovrebbe nemmeno dimenticare che la storia che Casement voleva
raccontare era quella degli indiani ingenui, innocenti e gentili brutalizzati
dalla compagnia della gomma e questa immagine di un controllo totale dava
al suo rapporto una grande forza retorica. Inoltre in lui cera la tendenza ad
equiparare le sofferenze degli irlandesi con quelle degli indiani e a vedere in
entrambe le loro storie pre-imperialiste una cultura pi umana di quella dei
loro signori civilizzati. (Conrad non indulge mai in questo tipo di transfert.)
60


Ancora un altro fattore si intrecciava al precedente: linnata tenerezza del
carattere di Casement e la sua abilit a suscitare questa qualit negli altri,
come testimoniato da molte persone. questo aspetto della sua
omosessualit, non il desiderio sessuale, che deve esser qui sottolineato,
come mostra ad esempio questa nota del suo diario del Putumayo:

Colpi di frusta, spari, frustate con il machete lungo la schiena [] Facevo il
bagno nel fiume, incantevole, e gli [indiani] Andoke sono scesi a cacciare
farfalle per Barnes e me. Allora un capitano [capo indiano] ci ha
abbracciato, appoggiando la sua testa sul nostro petto. Non ho mai assistito
ad una scena cos toccante, povera anima, egli sentiva che noi eravamo loro
amici (Singleton-Gates, Girodias 1959, p. 251).

Alfred Simson, un inglese che aveva attraversato i fiumi Putumayo e Napo
negli anni 80 del xix secolo e aveva passato l molto pi tempo di
Casement, riporta unimmagine del tutto diversa dalla sua. Un esempio si
trova nella sua descrizione dei Zaparos che, alla stregua degli Huitotos,
erano considerati dai bianchi indiani selvaggi. Dopo aver osservato che essi
saccheggiavano gli altri gruppi e rapivano i loro bambini per venderli ai
commercianti bianchi, Simson afferma:

Quando non sono provocati, come dei veri indiani selvaggi, sono molto
riservati e vivono ritirati, ma sono del tutto impavidi e non si sottomettono a
nessuno, n ai bianchi n a nessun altro, che tenti di attaccarli. Ci si pu
trattare solo con molta attenzione, cortesia e qualche volta semplicemente
ragionando. Altrimenti, se vengono trattati in modo ostile e offensivo oppure
si cerca di ricorrere alle percosse, [essi reagiscono] con la peggiore delle
violenze [] Sono sempre mutevoli, inaffidabili e mostrano in diverse
circostanze (e perfino nella stessa, come molti della loro classe) tutti i pi
contrastanti tratti del carattere, eccetto forse il servilismo una vera
caratteristica del Vecchio Mondo e lavarizia, che non ho mai riscontrato
in loro. Lassenza di servilismo tipica di tutti gli indiani indipendenti
dellEquador(Simson 1886, p. 170).

Simson osserva anche che essi si divertono molto nel distruggere la vita.
Sono sempre pronti ad uccidere animali o persone e provano diletto nel
farlo (ibid., pp.170-171).

Simson era impiegato sulla prima lancia a vapore che risal il Putumayo,
quella di Rafael Reyes, che divenne successivamente presidente della
Colombia. Egli assistette dunque allapertura della regione al commercio
moderno e si trov in una posizione privilegiata per osservare
listituzionalizzazione delle ideologie riguardo a razza e classe. Non solo
egli presenta un giudizio sulla durezza indiana opposto e pi complesso di
quanto fece Casement. Egli fornisce anche lindizio e il motivo etnografico
necessario per capire perch tali immagini contrastanti coesistano e si
sviluppino, come le immagini indiane della vita selvaggia si incontrino a
met strada, per cos dire, e si fondano con le immagini coloniali del
primitivo e, infine, come tale immaginario funzioni nella creazione del
terrore.
Per prima cosa necessario osservare che, a quanto dice Joaquin Rocha a
cavallo fra i due secoli, gli abitanti del Putumayo erano divisi in due grandi
classi di tipi sociali: i bianchi e gli indiani selvaggi. La prima categoria,
quella dei bianchi (che si riferisce anche ai razionali, ai cristiani e ai
civilizzati) includeva non solo persone fenotipicamente bianche, ma anche
meticci, neri, mulatti, Zambos e indiani di quei gruppi assimilati dalla
civilizzazione fin dal tempo della conquista spagnola (Rocha 1905, p.64).
Simson ci porta avanti in questa classificazione e anche se le sue
osservazioni si riferiscono qui alla regione montaa, alle sorgenti dei fiumi,
esse mi sembrano applicabili in generale anche allarea centrale del
Putumayo e sono certamente importanti per comprendere la cultura
colonialista.
61


Simson osserva che quelli che egli chiama i veri indiani della foresta sono
divisi dai bianchi e dagli indiani che parlano spagnolo in due classi: indiani
(indios) e pagani (infieles). Gli indios parlano Quichua, mangiano salato e
sono semi-cristiani, mentre gli infedeli, conosciuti anche come aucas,
parlano dei dialetti particolari, mangiano raramente salato e non sanno niente
n della Chiesa Battista n di quella Cattolica.[12] Di passaggio si potrebbe
osservare che oggi, se non gi molto tempo fa, il termine auca connota
anche i cannibali che vagano nudi per la foresta, non hanno regole
matrimoniali e praticano lincesto.
Simons afferma anche che il termine auca, come viene interpretato
comunemente, ha il significato che ebbe anticamente in Per sotto gli Inca.
Questo include il senso di infedele, traditore, barbaro e spesso impiegato in
un senso ostile In Per era usato egli dice per designare quelli che si
ribellavano contro il loro re e lincarnazione della loro divinit, lInca. Che
questa asserzione sia storicamente precisa o no, anche se sembra di s, non
cosa fondamentale, perch la sua importanza sta nel suo carattere di mito che
plasma la vita quotidiana al tempo dello sfruttamento della gomma.
Il secondo punto di grande interesse proposto da Simons sugli aucas
riguarda le loro qualit animalesche, cos pronunciate, egli dice, che hanno
qualcosa di occulto e spirituale. In riferimento agli Zaparos, per esempio,
egli scrive che le loro percezioni visive e auditive sono del tutto sorprendenti
e superano considerevolmente quelle degli indiani non-auca. La loro
conoscenza della foresta cos perfetta che spesso viaggiano di notte in parti
sconosciute del territorio. Sono grandi combattenti e possono individuare
suoni e orme dove gli uomini bianchi non percepiscono niente. Sulle tracce
di un animale, fanno deviazioni improvvise per poi cambiare strada
nuovamente, come se stessero seguendo lodore della loro preda. Hanno
movimenti felini e si muovono agevolmente attraverso il groviglio del
sottobosco e dei rovi. Per comunicare tra loro generalmente imitano il verso
del tucano o della pernice e tutto questo si discosta completamente dai
non-aucas o dagli indiani civilizzati che vivono nel timore e nel rispetto di
loro, ma li disprezzano o mostrano di disprezzarli in quanto pagani dietro le
loro spalle (Simson 1886, pp. 166-168).
Vorrei aggiungere che lo sciamano indiano dellaltipiano con cui lavoro
nelle Ande colombiane che sovrastano le giungle del Putumayo considera gli
sciamani della giungla inferiori agli aucas, i quali, essendo degli ibridi, met
animali e met spiriti, sono in possesso di una potente magia. Gli Huitotos
sono per lui una forza spirituale con cui fa un patto mistico attraverso
incantesimi e canti, con o senza allucinogeni, per assicurarsi il successo della
sua battaglia magica contro il male.
importante comprendere la dialettica dei sentimenti qui legati al nome
degli auca, una dialettica avvolta nella magia e composta sia di timore che di
disprezzo identica a quellinsieme di misticismo, odio e timore proiettati
sul socialista sionista Timerman nella camera di tortura della milizia. Nel
caso degli aucas, questa proiezione inseparabile dallaccusa di resistenza
alla sacra autorit imperiale, nonch dalla ulteriore accusa di possedere
poteri magici, rivolta agli abitanti della foresta del bassopiano e dai loro
oracoli, veggenti e guaritori i loro sciamani in particolare. Inoltre questa
costruzione indigena, che potrebbe benissimo essere pre-colombiana, si
intreccia con la mitologia europea medievale dellUomo Selvaggio, portata
sulle Ande e in Amazzonia da spagnoli e portoghesi. Oggi, nelle alture del
Putumayo che ho conosciuto, la mitologia degli auca e dellUomo Selvaggio
spiega il ricorso agli sciamani indiani da parte dei coloni bianchi e neri che
cercano una cura dalla stregoneria e dalle disgrazie gli stessi coloni che
disprezzano gli indiani in quanto selvaggi (Taussig 1980b, pp. 217-278).
Durante lo sfruttamento della gomma, con il suo disperato bisogno di
manodopera indiana, la stessa mitologia alimentava unincredibile violenza e
paranoia da parte dei bianchi. a questo lascito mitico ereditato dal mondo
del capitalismo nella giungla del Putumayo che dobbiamo prestare
attenzione se vogliamo capire gli eccessi irrazionali del terrore e della
tortura descritti da Casement.

62



La paura della ribellione indiana

Casement menziona la possibilit che, oltre al desiderio del profitto, fosse il
timore che avevano i bianchi di una ribellione degli indiani che li spingeva
verso la malvagit. Ma, coerentemente con le sue opinioni sulla docilit
degli indiani, Casement fornisce quattro ragioni che rendevano improbabile
una ribellione indiana. Le comunit indiane erano disunite molto prima
dellavvento dello sfruttamento della gomma, mentre i bianchi erano armati
e ben organizzati. Gli indiani erano armati rozzamente e le loro cerbottane, i
loro archi e le loro lance erano state confiscate. Ancora pi importante nella
sua opinione era il fatto che gli anziani erano stati uccisi in modo sistematico
dalla compagnia, accusati del crimine di dare cattivi consigli (Casement
1912-1913, p. 45).
Rocha, che si trovava in quella zona circa sette anni prima di Casement, la
pensava in modo diverso. Egli affermava che i bianchi temevano le
conseguenze dellodio indiano e che questa paura era centrale nella loro
politica e nel loro pensiero. La vita per i bianchi nella terra degli Huitotos,
dichiarava, appesa ad un filo. Piccole ribellioni erano comuni e Rocha ci
fornisce il resoconto di una di queste.
Nel 1930 il colombiano Emilio Gutirrez risal la Caquet partendo dal
Brasile alla ricerca di un luogo dove fondare una stazione della gomma.
Raggiunta la zona che desiderava conquistare, risped indietro la maggior
parte dei suoi uomini per portare la merce, mentre Gutirrez rimase l con
altri tre. Durante il sonno, Gutirrez e i suoi compagni furono uccisi dagli
indiani selvaggi. Appresa la notizia, altri bianchi si preparavano ad una
vendetta quando appresero che anche trenta indiani civilizzati, impiegati da
Gutirrez, erano stati uccisi contemporaneamente in altre parti della giungla.
Gli indiani che lavoravano per i bianchi vennero mandati alla ricerca dei
ribelli. Alcuni furono catturati e uccisi sul colpo, altri furono fatti prigionieri
per i bianchi e la maggior parte scapp. Una piccola parte fu catturata e
divorata dai mercenari indiani cos si racconta (Rocha 1905, pp. 125-126).
Nel 1910 Casement sent lo stesso episodio raccontato da un peruviano, che
present la sua storia dicendo che i metodi usati dai conquistatori colombiani
erano molto deplorevoli. In questa versione, gli indiani ribelli decapitavano
Gutirrez insieme con un numero imprecisato di altri bianchi ed esponevano
i loro teschi sulle mura della loro casa dei tamburi, tenendo i corpi
smembrati nellacqua pi tempo possibile per mostrarli agli altri indiani.
Linformatore di Casement diceva di aver trovato i corpi di altri dieci appesi
ad un palo, riferendo a Casement che la ragione per cui non li avevano
mangiati era che gli indiani sentivano ripugnanza a mangiare uomini
bianchi, che odiavano troppo. In seguito, terribili rappresaglie si
scatenarono sugli indiani, osserva Casement.[13]
Raffrontato alla versione di Rocha, questo racconto di Casement stabilisce
un punto importante: la paura dei bianchi per una ribellione degli indiani non
era ingiustificata, ma era percepita allinterno di una visione mitica e
colonialmente paranoica, dominata dalle vivide immagini dello
smembramento dei corpi e del cannibalismo.


La paura del cannibalismo

Il cannibalismo acquist una grande forza ideologica per i colonialisti fin
dallinizio della conquista europea del Nuovo Mondo. Limmagine del
cannibale stata elaborata e usata per molti tipi di scopi, come risposta ad
alcune delle pi potenti forze simboliche conosciute al genere umano.
stata usata per giustificare la schiavit e, in questo senso, ha avuto una sua
importanza nella prima economia del Brasile[14]; da qui ha influenzato le
aree dellalto bacino amazzonico come il Putumayo, dove il cannibalismo
stato tenuto vivo con grande forza nellimmaginazione dei bianchi fino
allepoca dello sfruttamento della gomma.
63


Rocha fornisce molti esempi. Egli segnala il suo arrivo nel territorio degli
Huitotos scrivendo di questa singolare terra dei cannibali, la terra degli
Huitotos conquistata da una dozzina di valenti colombiani che ripropone
leroismo dei loro antenati spagnoli (Rocha 1905, p. 92-93). I commercianti
della gomma, sottolinea Rocha, hanno provato a soffocare il cannibalismo
con pene severe. Ma il cannibalismo in aumento. Gli Huitotos pensano di
poter ingannare i bianchi su questo punto, ma essi cedono alla
soddisfazione dei loro appetiti bestiali (ibid., p. 118). Il pi famoso dei
conquistadores moderni, il colombiano Crisstomo Hernandez un
colombiano degli altipiani, un mulatto che era sfuggito alla polizia e aveva
cercato rifugio nella giungla a quanto racconta Rocha aveva ucciso tutti i
bambini, le donne e gli uomini di un villaggio indiano perch essi
praticavano il cannibalismo. Una storia sorprendente, dato il bisogno di
manodopera, ma altres tipico delle leggende popolari dei bianchi nel
Putumayo (ibid., pp. 106-7).
Don Crisstomo fu leroe anche di unaltra storia leggendaria. Essa mostra
che, sebbene i costumi indiani fossero in conflitto con quelli dei bianchi (ad
esempio, la loro incomprensione del valore del denaro e del lavoro),
cerano tuttavia caratteristiche della cultura indiana che i bianchi potevano
sfruttare per i bisogni della compagnia della gomma. La pratica di coniugare
qualche volta la consegna della gomma con una grande danza come un
preludio di una sorta di scambio di doni, come riportato da Gridilla e Rocha,
gi stato menzionato. Ancora pi interessante il rito che i bianchi
chiamavano chupe del tabaco, succhiare il tabacco, che gli indiani adulti
svolgevano durante quasi tutte le occasioni rituali: un rito che forse
affascinava i bianchi anche pi degli stessi indiani.
Seduti in cerchio, di solito di notte, con le donne e i bambini che restavano
dietro nei loro giacigli ma a portata dorecchio, gli uomini mettevano a turno
un dito in un miscuglio denso di succo di tabacco cotto e lo succhiavano.
Hardenburg riferisce che questa cerimonia era indispensabile in tutte le feste
oppure per solennizzare una decisione o un contratto. In queste occasioni gli
uomini, e in particolare i capi, andavano avanti anche tutta la notte con
grande foga oratoria.

Questo il giuramento solenne degli Huitotos scrive Hardenburg - e non
viene mai spezzato. Ogniqualvolta i bianchi desiderino stringere un
importante accordo con gli indiani, essi insistono sempre perch la
cerimonia venga eseguita.[15]

Casement dice la stessa cosa, ma si spinge oltre a citare un esploratore
francese, Eugenio Robuchon, cui attribuita laffermazione che in questo
rito gli indiani richiamavano la loro libert perduta, le loro sofferenze
presenti e formulavano i loro terribili giuramenti di vendetta contro i
bianchi.[16]
Rocha diceva che Crisstomo Hernandez era un oratore di grande
esperienza: egli prendeva posto come capitn o capitn general nel cerchio
degli uomini indiani. A raccolta in una grande assemblea di capi attorno ad
una ciotola di tabacco, don Crisstomo avrebbe parlato nella lingua e nello
stile Huitoto dalle otto di sera alle quattro del mattino, con un tale potere di
seduzione che i capi indiani accettarono unanimemente le sue proposte.
Questo, dice Rocha, accadde prima che egli dominasse attraverso il terrore e
il potere militare. Il suo potere fu in seguito mantenuto con la forza delle
armi, ma fu con loratoria che egli inizi la sua conquista, perch per gli
Huitotos egli era il loro re e il loro Dio (Rocha 1905, p. 111).
La storia che pi impressionava Rocha era quella del rito indiano
dellomicidio giudiziario o della pena capitale. Ci si pu facilmente
immaginare quali corde di terrore esotico toccasse tra i coloni e i dipendenti
della compagnia della gomma che ascoltavano il racconto durante le veglie
notturne nella foresta.

Tutti gli individui della nazione che ha catturato i prigionieri si ritirano
nellarea boschiva, assolutamente proibita alle donne, eccetto per quelle che
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svolgono un ruolo particolare. Anche i bambini ne sono rigorosamente
esclusi. Al centro viene posta una tazza di salsa di tabacco cotto per il
piacere degli uomini e seduto in un angolo su uno sgabello, ben legato, c il
prigioniero.
Tenendosi lun laltro per le braccia, i selvaggi formano una lunga fila e il
suono del tamburo scandisce il loro movimento mentre danzano attorno alla
vittima. Si allontanano e si riavvicinano molte volte, mentre gli individui
vanno a bere a turno dalla tazza del tabacco. Poi il tamburo interrompe la
danza dei cannibali e cos la sfortunata vittima pu vedere quanto si perde
morendo: appare la pi bella ragazza della trib, regalmente ornata con le
pi diverse e lucenti penne degli uccelli di queste foreste. Il tamburo riparte
e la bella ragazza danza da sola davanti alla vittima, quasi toccandola. Si gira
e viene avanti, mostrandosi a lui con atteggiamenti appassionati ed erotici,
girandogli attorno e ripetendo questa danza per tre o quattro volte. Poi la
ragazza se ne va e termina cos il secondo atto di questa solenne
rappresentazione. Segue la terza parte con la stessa danza di uomini come
prima, eccetto che la fila dei danzatori ogni volta si avvicina di pi al
prigioniero, uno degli uomini si stacca dalla fila e declama qualcosa del
genere: Ti ricordi quanto la tua gente uccise Jatijiko, uomo della nostra
nazione che non poteste prendere prigioniero perch egli sapeva come
morire prima di permettere di essere trascinato di fronte alla tua gente? Noi
ci stiamo vendicando della sua morte su di te, vigliacco, che non sai morire
in battaglia come lui. Oppure Ricordi che tu e la tua gente avete sorpreso
mia sorella Jifisino mentre faceva il bagno, che lavete catturata e ancora
viva avete fatto una festa con la sua carne e lavete brutalizzata fino al suo
ultimo respiro? Ti ricordi? Ora, tu uomo bestemmiatore, ti divoreremo vivo
e non ti faremo morire fino a quando ogni traccia della tua carne
insanguinata non sia scomparsa dalle nostre bocche.
Seguiva il quarto e ultimo atto della terrificante tragedia. Uno dopo laltro i
danzatori venivano avanti e ognuno con il proprio pugnale tagliava via un
pezzo di carne del prigioniero che si mangiavano mezzo abbrustolito al
suono del suo rantolo mortale. Quando finalmente moriva, finivano di
tagliarlo e continuavano ad arrostire e a cuocere la sua carne, mangiando
fino allultimo pezzetto (ibid., pp. 116-7).


La mediazione narrativa. Il buio epistemico.

Mi sembra che storie come questa rappresentino il fondamento
indispensabile alla formazione e allo sviluppo dellimmaginazione coloniale
durante lo sfruttamento della gomma del Putumayo. La loro immaginazione
era morbosa scrisse il giudice peruviano Rmulo Paredes nel 1911,
riferendosi ai dirigenti della stazione della gomma e vedono dovunque
attacchi degli indiani, cospirazioni, ribellioni, tradimenti ecc. e per salvarsi
da questi pericoli immaginari [] uccidono e uccidono senza
compassione.[17] Lontano dallessere banali fantasie da concedersi dopo
una giornata di lavoro, queste storie e limmaginazione che esse
producevano rappresentavano una potente arma politica, senza la quale il
lavoro di conquista e di controllo della raccolta di gomma sarebbe stato
impossibile. importante capire che queste storie funzionavano creando,
attraverso un magico realismo, una cultura del terrore che dominava sia sui
bianchi che sugli indiani.
Limportanza di questopera immaginativa va oltre la qualit epica e
grottesca del suo contenuto. Il carattere veramente cruciale sta nel creare
attraverso la finzione una realt incerta, una realt da incubo in cui
linterazione instabile di verit e illusione diviene una forza sociale di
dimensioni orrende e fantastiche. In una certa misura, tutte le societ vivono
di finzioni considerate come realt. Quello che distingue le culture del
terrore che il problema epistemologico, ontologico e da un certo punto di
vista puramente filosofico di realt-e-illusione, certezza-e-dubbio, diventa
molto pi che un problema meramente filosofico. Diventa uno strumento
molto potente di dominazione e il veicolo principale della pratica politica.
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Durante lo sfruttamento della gomma nel Putumayo questo strumento di
confusione epistemica ed ontologica era rappresentato ed oggettivizzato
come spazio della morte.
Nel suo rapporto, Peredes ci dice che i dirigenti della stazione della gomma
vivevano con lossessione della morte. Vedevano pericoli dovunque e
pensavano solamente al fatto di essere circondati da vipere, tigri e cannibali.
Questa idea della morte, scrive, colpiva la loro immaginazione, rendendoli
atterriti e capaci di ogni tipo di azione. Come i bambini che leggono Le mille
e una notte, continua Peredes, essi avevano incubi di streghe, spiriti maligni,
morte, tradimento e sangue. Il solo modo che avevano di vivere in un mondo
tanto terribile osserva era di suscitare essi stessi terrore (Paredes 1911, in
Eberhardt 1913, p. 158).


La mediazione sociologica e mitica: i muchachos

Se il racconto delle leggende suscitava terrore, dovremmo allora
approfondire il ruolo del soggetto sociologico che media tale mediazione,
cio il corpo della guardia indiana addestrata dalla compagnia e conosciuta
come i muchachos. Nelle parole di Rmulo Paredes, essi stanno

costantemente a ideare esecuzioni e continuamente a denunciare gli incontri
degli indiani in cui si succhia il tabacco durante i quali si sarebbe fatto
giuramento di uccidere i bianchi ribellioni immaginarie che non esistevano
e altri crimini simili.[18]

In quanto indiani civilizzati o razionali, i muchachos mediavano tra i
selvaggi della foresta e i bianchi degli accampamenti della gomma,
impersonando tutte le distinzioni cruciali nel sistema di classi e caste della
produzione della gomma. Tagliati fuori dalla loro gente, che avevano
perseguitato e tradito e in cui suscitavano invidia ed odio, ora classificati
come civilizzati, ma dipendenti dai bianchi per il cibo, le armi e i beni
materiali, i muchachos rappresentavano alla perfezione tutto ci che cera di
orribile nella mitologia coloniale del mondo selvaggio, perch occupavano
lo spazio sociologico e mitico perfettamente adatto per farlo. Non solo
creavano finzioni attizzando il fuoco della paranoia dei bianchi, ma
incorporavano anche la brutalit che i bianchi temevano, creavano e
cercavano di sfruttare per i loro stessi scopi. In un senso molto letterale, i
muchachos scambiavano la loro identit di selvaggi per il loro nuovo status
sociale di indiani civilizzati e guardie. Come osserva Paredes, essi
mettevano a disposizione dei bianchi i loro particolari istinti, come il senso
di orientamento, lolfatto, la loro frugalit e la loro conoscenza della
foresta. (Paredes 1911, in Eberhardt 1913, p. 147). Cos come compravano
gomma dagli indiani della foresta, i bianchi compravano anche listinto
selvaggio, simile a quello auca, degli indiani muchachos.
Ma diversamente dalla gomma, questi istinti selvaggi erano per lo pi
costruiti nellimmaginazione dei bianchi. Tutto ci che i muchachos
dovevano fare, per ricevere il loro compenso, era oggettivare e restituire
attraverso le parole ai bianchi, come in uno specchio, gli spettri che
popolavano la cultura colonialista. Considerati i secoli di mitologia coloniale
riguardante gli auca e lUomo Selvaggio e considerata limplosione di
questa mitologia nella contraddittoria esistenza sociale dei muchachos, il
compito era facile. Le storie dei muchachos si muovevano allinterno di una
pi antica storia che ricomprendeva i muchachos stessi come oggetti di un
discorso colonialista, pi che come i suoi autori.
Il sistema commerciale del peonaggio istituito dallo sfruttamento della
gomma nel Putumayo fu quindi qualcosa di pi di un semplice scambio tra i
beni dei bianchi e la gomma raccolta dagli indiani. Esso fu anche un
commercio di mitologie terrificanti e realt fittizie, incentrate sulla
mediazione dei muchachos, i quali, raccontando storie, barattavano il
tradimento della realt indiana con la conferma delle fantasie coloniali.

66


Lo specchio coloniale

Ho cominciato questo saggio dicendo che volevo occuparmi del modo in cui
la cultura del terrore viene mediata dalla narrazione e dei problemi connessi
al tentativo di scrivere contro il terrore. In parte il mio problema era valutare
e interpretare i fatti riportati in diversi resoconti delle atrocit nel
Putumayo. Questo problema di interpretazione si ampliato sempre pi, fino
a farmi comprendere che si tratta proprio del problema centrale alla cultura
del terrore. Ci rende assi difficile parlare e scrivere efficacemente contro il
terrore; ma soprattutto, rende la terribile realt delle squadre della morte, dei
desaparecidos e della tortura assolutamente efficace, paralizzando la
capacit di resistenza delle persone. Mentre nelle scienze sociali si presta
molta attenzione allideologia, non si considera invece il fatto che le
persone delineano il proprio mondo, inclusa la politica tanto su larga che su
piccola scala, attraverso storie e creazioni narrative, e solo molto raramente,
se non forse mai, attraverso ideologie (come vengono comunemente
definite). Sicuramente nel gorgo delle voci, del pettegolezzo, dei racconti e
nelle chiacchiere che le ideologie e le idee acquistano un potere emozionale
ed entrano nella circolazione sociale attiva e nellesistenza significante. Cos
succede anche con il terrore nel Putumayo. Dai resoconti sembra chiaro che i
coloni e i dipendenti della compagnia della gomma non solo temevano, ma
creavano anche essi stessi, attraverso i racconti, angosciose e confuse
immagini della vita selvaggia, immagini che tenevano insieme la societ
coloniale attraverso il buio epistemico dello spazio della morte. Il sistema
della tortura che essi avevano ideato per garantire la produzione della
gomma rispecchiava lorrore del mondo selvaggio che essi temevano,
condannavano e inventavano. Inoltre, in relazione al compito di creare
controrappresentazioni e controdiscorsi, dobbiamo considerare che molti se
non tutti i racconti riportati da Hardenburg e Casement, che si riferiscono
alle atrocit e le criticano, sono allo stesso modo romanzati, basati sulla
stessa fonte storicamente modellata a cui gli uomini soccombono quando
torturano gli indiani.
La tortura e il terrore nel Putumayo erano motivati dal bisogno di
manodopera a basso costo. Ma la manodopera per se forza lavoro come
merce non esiste nelle giungle del Caraparan e dellIgaraparan, affluenti
del Putumayo. Ci che esisteva non era un mercato della forza lavoro, ma
una societ e una cultura di esseri umani che i colonialisti chiamavano
indiani, irrazionali, selvaggi, con una loro specifica vicenda storica, forma di
vita e sistemi di scambio. Nellerroneo tentativo coloniale di far combaciare
forzatamente la struttura del mercato capitalista con una o con altra delle
possibilit rappresentate dalla raccolta della gomma e offerte da questi
sistemi di scambio, la tortura, come fa capire Casement, prende una vita
propria. Come lappetito vien mangiando, cos ogni crimine stimola nuovi
crimini (Casement 1912-1913, p. 44). A ci dovremmo aggiungere che
passo dopo passo, il terrore e la tortura diventarono la forma di vita per circa
quindici anni. Una cultura organizzata con le sue regole sistematiche, un suo
immaginario, le sue proprie procedure e significati, che trovavano
espressione in spettacoli e rituali volti a sostenere la precaria solidariet dei
dipendenti della compagnia della gomma, nonch a proclamare attraverso il
corpo del torturato una sorta di verit canonica sulla Civilt e sugli Affari.
La forza decisiva nella creazione del terrore non stata il feticismo della
merce, ma il feticismo del debito implicato nella realt fittizia
dellistituzione del peonaggio, con i suoi anticipi obbligatori e la farsa
teatraleggiante dello scambio commerciale. La tortura si trasformava cos
dallo status di mezzo a quello di modalit se non, infine, al vero e proprio
obiettivo della produzione.
Dai rapporti sia di Timerman sia di Casement risulta ovvio che la tortura e il
terrore istituzionalizzato sono una forma darte rituale. E non si tratta di
qualcosa di spontaneo, sui generis, un abbandono di ci che spesso
chiamiamo i valori della civilt: tali riti hanno invece una storia profonda
in cui su quei valori vengono fondati il potere e il significato.
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Ci che richiede unulteriore analisi la mimesis tra la natura selvaggia
attribuita agli indiani e le pratiche selvagge perpetrate dai colonialisti in
nome di ci che Julio Csar Arana chiamava civilt.
Questa mimesis reciproca, per quanto distorta, stata e continua ad essere di
grande importanza nella costruzione della cultura coloniale: lo specchio
coloniale che riflette sui colonialisti la barbarie delle loro stesse relazioni
sociali, attribuendola per alle figure selvagge e malvagie che essi vogliono
colonizzare. La troviamo presente nel folclore colonialista del Putumayo,
come riportato per esempio nel terribile racconto di Joaquin Rocha sul
cannibalismo degli Huitotos. Ci che i colonialisti mettevano in forma di
discorso nei loro racconti e ci che facevano sui corpi degli indiani, sono la
stessa cosa..[19]
Tenacemente radicate in questa pratica narrativa sono una storia e una
iconografia occidentale del male, vaste e mistificanti, basate su un
immaginario dellinferno e del selvaggio coniugato ed inseparabile
dallimmaginario del paradiso, dellutopia e del bene. alla sovversione di
questa dialettica apocalittica che dovrebbero esser mirati i nostri sforzi
controdiscorsivi: in altre parole, a una poetica del tutto differente del bene e
del male, la cui forza catartica non stia nella risoluzione cataclismica delle
contraddizioni, ma nella loro distruzione.
La cultura europea post-illuminista rende difficile se non impossibile
penetrare sotto il velo allucinatorio del cuore di tenebra senza soccombere
alla sua qualit allucinatoria o perdendo quella qualit. La poetica fascista ha
successo laddove il razionalismo liberale si autodistrugge. Per uscire da
questa impasse servirebbe proprio ci che cos dolorosamente assente in
tutti i resoconti del Putumayo, cio il racconto e la modalit narrativa degli
indiani; un racconto che priva il terrore del suo carattere sensazionale, cos
che linsistenza istrionica sullaspetto enigmatico dellenigmatico (per usare
lespressione di Benjamin) negata da unottica che percepisce invece il
quotidiano come impenetrabile, limpenetrabile come quotidiano. Questa
la poetica della magia e dello sciamanismo che ho conosciuto nelle alture del
Putumayo, ma questa unaltra storia per un altro tempo, non solo tempo di
terrore ma anche di guarigione.


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Watts, C. T., 1969, Joseph Conrads Letters to R. B. Cunninghame Graham,
Cambridge, Cambridge University Press
Watt, I., 1979, Conrad: In the Nineteenth Century, berkeley and Los
Angeles, University of California Press
Wolf, H. e Wolf, R., 1936, Rubber: A Story of Glory and Greed, New York,
Covici, Friede
Woodroffe, J. F., 1914, The Upper Reaches of the Amazon, London,
Methuen


69


[1] Inglis 1974, p. 32. Nella lettera di Conrad a Cunninghame Graham si
legge: Le posso assicurare che egli [Casement] una personalit
trasparente. In lui c anche qualcosa del conquistador: ad esempio lho
visto avventurarsi in luoghi indicibilmente selvaggi avendo come unica
arma un bastone ricurvo, con due bolldog - Paddy (bianco) e Biddy (nero)
alle calcagna e un ragazzo portatore Loanda come sola compagnia. Dopo
qualche mese lo vidi tornare, un po pi magro e pi scuro, con il suo
bastone, i cani e il ragazzo Loanda e del tutto tranquillo, come se avesse
fatto una passeggiata nel parco. Inglis aggiunge il tempo ha infiorato il
ricordo di Conrad. Casement stesso descriveva quello che comportava il
lavoro di costruzione in una lettera ad una giovane cugina; il territorio su
cui era stata costruita la ferrovia, le raccontava, consisteva di praterie
erbose coperte di cespugli; inospitale, ma non certo indicibile. Il
riferimento a Jorge L. Borges About the Purple Land (in Rodriguez
Monegal, Reid 1981, pp. 136-139).
[2] Karl 1979, p. 289n. Il testo completo della lettera di Conrad a
Cunninghame Graham si pu trovare in C.T. Watts 1969, pp. 148-152; si
veda anche Najder 1987.
[3] Le autorit esaminarono il rapporto di Casement e stimarono che la
cifra dei morti fu di 30.000 tra il 1900 e il 1912. Altri invece che avevano
una certa conoscenza del territorio e della sua storia o presentarono cifre
ampiamente diverse o affermarono che era impossibile dare una cifra esatta
perch il censimento era praticamente impossibile. Resta comunque una
questione dibattuta quanto la diminuizione della popolazione fosse dovuta a
malattie, soprattutto al vaiolo, e quanto alla tortura o alla fuga. Allo stesso
modo il numero degli Huitotos che abitavano nelle regioni dellIgaraparan
e del Caraparan alla fine del xix secolo stimato in modi molto diversi che
vanno da circa 50.000 fino a un quarto di milione (!). Questultima stima si
trova in Rocha 1905, p. 138. In ogni caso, il numero degli indiani nel
territorio risulta essere stato molto alto rispetto alla norma dellAlta
Amazzonia e proprio questa stata unimportante causa per listituzione del
commercio della gomma sul posto. Occorre notare che Casement nel suo
rapporto stato estremamente cauto nel presentare cifre sulla popolazione
o sulla sua diminuizione. Egli ha fornito dettagli riguardo al problema nella
sua testimonianza presentata alla commissione del parlamento britannico
sul Putumayo (House of Commons Sessional Papers, 1913, vol. 14, p. 30,
707). Padre Gaspar de Pinell (1924, pp. 38-39) presenta uneccellente
discussione, come anche in de Pinell 1929, pp. 227-235.
[4] Hardenburg 1912, p. 214. La prima pubblicazione delle rivelazioni di
Hardenburg sulla rivista Truth inizi con questo articolo tratto dal
giornale iquito La Sancin. Questi articoli, e probabilmente il libro
successivo, furono probabilmente scritti come gosthwriter da Sidney
Paternoster, assistente redattore di Truth.
[5] Ibid., p. 236. Citato anche da Casement nel suo rapporto sul Putumayo
a Sir Edward Grey. Qui Casement afferma che questa descrizione gli era
stata ripetuta pi e pi volte da uomini che erano stati impiegati per
questo lavoro (Casement 1912-1913, p. 35).
[6](Ibid., p. 31. Da diverse stime sembra che la proporzione dei guardiani
armati rispetto agli indiani selvaggi addetti allestrazione della gomma
andasse allincirca da 1 a 16 a 1 a 50. Di questi guardiani armati, i
muchachos superavano il numero dei bianchi di 2 a 1. Si vedano Wolf,
Wolf 1936, p. 88; Eberhardt 1913, p.112; Casement 1913, p. xi; Casement
1912-1913, p. 33.
[7] Rocha (1905, pp. 123-124) afferma che siccome gli indiani sono
fannulloni per natura, essi ritardano sempre il pagamento dei loro debiti
ai commercianti della gomma, costringendo questi ultimi ad usare la forza
fisica. Eberhardt (1913, p. 110) scrive che gli indiani iniziano a lavorare
per qualche coltivatore della gomma, spesso spontaneamente, ma non poche
volte essendovi costretti con la forza e subito cominciano ad indebitarsi con
lui per il cibo ecc. Tuttavia la scarsit di manodopera e la facilit con cui
gli indiani potevano fuggire, vivendo dei prodotti naturali della foresta,
obbliga i proprietari a trattarli con riguardo. Gli indiani lo capiscono e il
70


loro lavoro del tutto insoddisfacente, secondo i nostri standard. Tutto
questo mi apparso con grande evidenza durante una mia recente visita ad
uno stabilimento dove si distillava cachassa o aguadiente dalla canna.
Gli uomini sembrava che lavorassero quando e come volevano, richiedendo
in cambio ogni giorno una grande quantit di liquore (di cui erano
particolarmente avidi); se non ce nera, oppure se venivano trattati in
qualche modo con durezza, se ne ritornavano nella foresta. Il padrone aveva
la legge dalla sua parte e se riusciva a trovare il fuggitivo aveva il diritto di
riportarlo indietro. Ma il tempo perso e il il vano tentativo di rintracciare
lindiano attraverso la fitta foresta e i torrenti faceva s che fosse molto pi
pratico trattarli con una certa considerazione fin dallinizio.
[8] Morel 1913, pp. 553 e 556. Si veda anche la testimonianza del
ragioniere britannico, H. Parr, della Peruvian Amazon Company presente
tra il 1909 e il 1910 alla stazione di La Chorrera (pp. 336-348).
[9] Gidrilla 1943, p. 29. La descrizione di Rocha di una base della
gomma colombiana e non di quella di Arana:(Rocha 1905, pp. 119-120).
[10] Testimonianza di Julio Csar Arana al British Parliamentary Select
Committee on Putumayo, House of Commons Sessional Papers, 1913, vol.
14, p. 488, 12.222.
[11] Si vedano Fuentes 1969, pp. 10-11 e Rivera 1974.
[12] Simson 1886, p. 58. Degno di nota che durante il xvii e il xviii secolo i
missionari lavorarono in mezzo ad alcuni dei gruppi indiani designati come
auca e quindi non vero che essi come riporta Simson non sanno
niente della Chiesa Cattolica. Si veda Chantre y Herrera 1901, pp. 283,
321-328, 365-369.
[13] Casement 1912-1913, p. 30. Padre Pinell parl di una grande
ribellione dei lavoratori della gomma e di altri indiani lungo lIgaraparan
nel 1917; per sedarla fu richiesto lintervento delle truppe peruviane. Si
veda de Pinell 1924, pp. 39-40.
[14] Uneccellente discussione a riguardo si pu trovare in Sweet 1975, pp.
113-114, 116, 120, 126, 130-131, 141, 347.
[15] Hardenburg 1912, p. 155. Per luso della coca nel chupe del tabaco si
veda Woodroffe 1914, pp. 151-155. Riguardo allattendibilit e alle fonti
delle affermazioni di Hardenburg pu forse essere utile citare alcune delle
testimonianze che egli forn al British Parliamentary Select Committee on
Putumayo, House of Commons Sessional Papers, 1913, vol 14. Interrogato
sulle crudelt nei confronti degli indiani a cui aveva assistito, Hardenburg
rispose Dei crimini che sono stati commessi di recente io, praticamente,
non ho visto niente; tutto quello che ho visto che gli indiani nella [stazione
della gomma di] El Encanto erano quasi nudi, magri e con un aspetto
cadaverico; ho visto che avevano molte ferite e ho visto di che cosa si
cibavano (p. 510, #12848). Le sue informazioni venivano dai racconti di
altre persone. In realt penso di poter dire che la maggior parte delle
persone citavano altri. Essi dicevano Conosco un altro uomo che pu dire
questo e quello e lo portavano (p. 511, #12881). Quando gli chiesero se
avesse posto domande dettagliate a queste persone sulle loro affermazioni,
Hardenburg rispose Non posso dire di aver fatto molto (p. 511, #12882).
Che queste atrocit accadessero disse Hardenburg era di dominio
pubblico. Questo dominio pubblico esattamente quello che io mi sono
sforzato di ricercare, non perch pensi che le atrocit non siano
adeguatamente descritte dai diversi autori su cui mi baso, ma perch questo
pubblico dominio sotto forma di racconto mitico agisce come uno schermo e
come una rete di significanti senza cui i fatti non esisterebbero. Pi
precisamente, la funzione di questo schermo di significanti quella di
aumentare il timore e quindi la funzione di controllo della cultura del
terrore. Le prove raccolte da Casement appartengono a tutta unaltra
categoria, perch raccolte con pi attenzione, verificate in modo incrociato
ecc.; su questa base, possiamo anche accettare resoconti assai meno curati,
come quello di Hardenburg. Tuttavia la testimonianza di Casement utile
non per sgonfiare il carattere mitico, ma per indicare la sua terribile realt.
[16] Casement 1912-1913, p. 48. Il testo di Robuchon apparve in volume
(Official Edition), pubblicato a Lima nel 1907 e intitolato En el Putumayo
71


y sus afluentes. Fu curato da Carlos Rey de Castro, uno scagnozzo di Julio
Csar Arana e una volta console peruviano in Brasile, sulla base dei
documenti di Robuchon dopo la sua misteriosa morte nella foresta pluviale
del Putumayo. A giudicare dal libro di Rey de Castro sul Putumayo (de
Castro 1917) e dalla sua relazione con Arana, si pu supporre che sarebbe
insensato leggere il testo di Robuchon pensando che questo fosse veramente
lopera inalterata di Robuchon. probabile che questo sia stato curato
presentando i fatti con un taglio pi favorevole ad Arana. Limportanza
della preistoria, dell etnostoria e della storia indiana nella guerra
ideologica per conquistarsi lopinione pubblica mondiale risalta
chiaramente in Los pobladores del Putumayo, in cui de Castro si propone di
dimostrare che gli Huitotos e i gruppi indiani confinanti sono in realt
discendenti dagli orejones di Cuzco, nellinterno del Per rafforzando cos
la rivendicazione peruviana di diritti sulla zona della gomma del Putumayo
e sulle sue popolazioni indigene.
[17] Paredes, R., 1911, Confidential Report to hte Ministery of Foreign
Relations, Peru, tradotto in (Eberhardt 1913, p. 146). Il lavoro di Paredes
esposto ed introdotto nel contesto di un insieme di testimonianze nel libro di
Carlos A. Valcarcei. Si veda Valcarcei, C. A., 1915, El proceso del
Putumayo, Lima, Imprenta Comercial de Horacio La Rosa.
[18] Ibid., p. 147. Sono grato a Fred Chin e a Judy Farquahar del
Dipartimento di Antropologia dellUniversit di Chicago per avermi
convinto dellimportanza dei muchachos come forza di mediazione.
Certamente non si pu dimenticare il ruolo dei neri reclutati nelle
Barbados, nella mediazione tra bianchi e indiani. In modo molto simile
allesercito britannico che, dalla met del xix secolo in poi, utilizzava i
diversi gruppi coloniali ed etnici in modo da massimizzare le rispettive
reputazioni di ferocia e mettendo alla prova gli uni contro gli altri, le
compagnie della gomma britannica e peruviana li utilizzavano come
soldati etnici nel Putumayo.
[19] Un esempio del modo in cui la tortura degli indiani seguiva alla lettera
le indicazioni dei racconti si trova nei rari dialoghi che Casement concede
ai suoi testimoni, nella sezione del rapporto riservato alla testimonianza
degli uomini reclutati nelle Barbados, come nel caso seguente:

Cos tu dici di aver visto bruciare degli indiani? Chiese il console
generale Casement ad Augustus Walcott, nato nellisola caraibica di
Antigua 23 anni prima.
S
Bruciati vivi?
Vivi
Che cosa intendi? Descrivilo.
Ho visto solo uno bruciare vivo.
Bene. Raccontami di questo
Non aveva raccolto caucho, era scappato e aveva ucciso un muchacho,
un ragazzo, e loro gli hanno tagliato le braccia e le gambe fino alle
ginocchia e hanno bruciato il suo corpo
Sei sicuro che fosse ancora vivo e non morto quando lhanno gettato nel
fuoco?
S, era ancora vivo. Ne sono sicuro lo vedevo muoversi aprire gli occhi,
gridare
Aurelio Rodriguez [il dirigente della stazione della gomma] ha assistito
per tutto il tempo?
S, tutto il tempo.
Dava ordini?
Sissignore.
Disse di tagliargli le braccia e le gambe?
S.

Cera ancora qualcosa che il console generale non riusciva a capire e cos
richiam Walcott per farsi spiegare che cosa intendesse quando diceva
72


siccome egli diceva agli indiani che anche noi eravano indiani e che li
mangiavamo. Quello che voleva dire, sintetizzava Casement, era che il
dirigente della stazione, il seor Normand, per impaurire gli indiani,
diceva loro che i negri erano cannibali, una trib selvaggia di cannibali che
mangiavano le persone e che se non avessero consegnato la gomma, questi
uomini neri sarebbero stati spediti ad ucciderli e a mangiarli. (Casement
1912-1913, pp. 115 e 118)
Un altro esempio, pi complesso, il seguente:

Hai mai visto Aguero uccidere indiani? chiese il console generale a
Evelyn Bateson, 25 anni, nata nelle Barbados, impiegata presso la stazione
della gomma di La Chorrera.
No, signore; non lho mai visto uccidere indiani ma lho visto inviare
muchachos a uccidere gli indiani. Aveva preso un indiano e laveva dato
da mangiare ai muchachos, e loro stavano facendo una danza per questo

Hai visto uccidere luomo?
Sissignore. Lavevano legato ad un palo e gli avevano sparato. Gli
tagliarono la testa, quando gi gli avevano sparato, i piedi e le mani. Lo
portarono in giro per tutta la sezione nel cortile- Lo portavano su e gi e
cantavano. Lo portarono a casa loro e ballavano
Sai se li mangiavano?
Ho sentito che li mangiavano. Io non ho assistito, signore, ma ho sentito il
direttore seor Aguero dire che avevano mangiato questuomo.
Il dirigente disse proprio cos?
Sissignore, lo disse. (Casement 1912-1913, p. 103)

Questo tipo di incitamento se non di invenzione del cannibalismo su
pressione dei colonialisti riportato anche nelle lettere dei missionari
riguardanti lestrazione della gomma nello Stato libero del Congo di re
Leopoldo. Si veda per esempio il resoconto di Mr. John Harris in Morel
1905, pp. 437-441.





























73


Il mito del conflitto etnico globale

John R. Bowen

(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp.
125-44; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)

Le attuali discussioni sui problemi internazionali sono spesso basate su
unassuzione del tutto fuorviante, secondo la quale il mondo sarebbe oggi
attraversato da un rigurgito di conflitti etnici primordiali. I diversi gruppi
etnici si fronteggiano lun laltro, rinfocolando vecchie ostilit e trattenuti
soltanto dagli stati pi potenti. Ma, una volta tolto il coperchio, il contenuto
del calderone comincerebbe a traboccare. I sostenitori di questa tesi
propongono due diverse previsioni per il futuro: per alcuni lordine mondiale
destinato a frammentarsi in piccoli gruppi tribali, per altri il risultato sar
invece la formazione di pi ampie coalizioni che rappresenteranno le diverse
civilt. Tutti comunque sono daccordo nel ritenere che siano le antiche
lealt etniche e le differenze culturali ad alimentare gli attuali conflitti.[1]
Questa visione non riesce a cogliere la genesi del conflitto e non tiene conto
della capacit che hanno popolazioni diverse di vivere luna accanto
allaltra. La stessa espressione conflitto etnico ci porta fuori strada: essa
divenuta infatti una sorta di scorciatoia per riferirsi ad ogni tipo di scontro
tra persone che vivono nello stesso paese. Alcuni di questi conflitti
implicano lesistenza di identit etniche e culturali diverse, ma la maggior
parte scatenata da motivi legati al controllo del potere, della terra o di altre
risorse e non ha niente a che fare con la diversit etnica. Pensare che invece
sia cos ci spinge verso politiche sbagliate, e ci porta a tollerare quei
governanti che incitano alla violenza di massa e sopprimono le differenze
etniche.
Parlando di conflitti tra gruppi locali si tende normalmente a dare per
scontate tre assunzioni: la prima, che le identit etniche sono antiche e
immutabili; la seconda, che queste identit forniscono i motivi per
persecuzioni e omicidi; la terza, che la diversit etnica in s conduce
inevitabilmente alla violenza. Tutte e tre sono sbagliate.
Contrariamente a quanto sostenuto nella prima assunzione, il concetto di
etnicit un prodotto della politica moderna.
Tutti gli individui hanno sempre posseduto unidentit che li caratterizza in
base alla religione, al luogo di nascita, alla lingua che parlano e cos via.
Allo stesso modo gli esseri umani hanno sempre avuto una cultura; ma solo
nellet moderna, con il colonialismo e la formazione degli Stati nazionali,
essi hanno cominciato a considerare s stessi come membri di ampi gruppi
etnici, contrapposti ad altri gruppi dello stesso tipo.
Lidea che la connotazione etnica sia antica e immutabile si proietta oggi
nelle potenti immagini del calderone e della trib. Dai fenomeni di violenza
nellEuropa dellEst scaturita unimmagine di quella regione come un
calderone ribollente di sentimenti etnonazionalistici, destinati
inesorabilmente a traboccare se non tenuti sotto controllo da Stati forti.
Limmagine del calderone contrasta con quella del melting pot americano:
un po come se si sostenesse che le etnicit occidentali possono essere
mescolate, mentre quelle dellEst devono essere soppresse dai poco
simpatici, ma forse necessari, Tito o Stalin di turno.

Questa idea sembra proprio fatta apposta per spiegare la situazione dellex
Jugoslavia. Non forse vero che i serbi, i croati e i bosniaci sono gruppi
etnici distinti, destinati a scontrarsi nel corso della storia? Ma troppo spesso
non si tiene conto di quanto siano minime le differenze tra le parti che si
stanno combattendo nei Balcani: serbi, croati e bosniaci parlano tutti la
stessa lingua (lItalia ad esempio conosce differenze linguistiche pi
pronunciate) e hanno vissuto per secoli gli uni accanto agli altri, quasi
sempre in pace. Spesso si sente dire che le differenze si fanno sentire in
campo religioso, infatti i croati appartengono alla Chiesa cattolica romana, i
serbi sono cristiani ortodossi e i bosniaci sono musulmani. In realt ognuna
74


di queste popolazioni comprende un numero considerevole di membri delle
altre due religioni. Le tre religioni sono quindi divenute il simbolo delle
differenze tra i gruppi, anche se non sono state le differenze di religione in
quanto tali a causare i conflitti tra i diversi gruppi. Le percentuali crescenti
di matrimoni misti (che raggiungono il 30 % in Bosnia) hanno contribuito ad
attenuare sempre di pi le linee di demarcazione tra i diversi gruppi.
Alcuni attenti osservatori dei processi a lungo termine, come Misha Glenny,
hanno richiamato lattenzione sul fatto che le radici dellattuale ondata di
violenza nei Balcani non sono da ricercare in primordiali differenze etniche
e religiose, ma piuttosto nei recenti tentativi di raccogliere consensi
attraverso idee nazionaliste. Letnicit diviene nazionalismo quando
implica il tentativo di ottenere il monopolio sul territorio, sulle risorse e sul
potere. Ma anche il nazionalismo, a sua volta, un insieme di idee apprese e
manipolate e non un sentimento primordiale. Nel xix secolo gli intellettuali
serbi e croati si batterono insieme agli altri europei per il diritto dei popoli ad
autogovernarsi in Stati-nazione, cio Stati composti da una sola
nazionalit. Da parte loro i serbi si sono appellati al ricordo degli Stati
nazionali serbi, che avevano avuto breve durata, per rivendicare il loro
diritto ad espandersi e ad occupare i territori di altre popolazioni, cos come
altri paesi europei (in particolare la Francia) avevano fatto in passato. Il fatto
che i popoli balcanici parlassero la stessa lingua rendeva agli occhi di molti
serbi le proprie mire espansionistiche ancora pi legittime. [2]
Allo stesso tempo i croati stavano scoprendo una propria ideologia
nazionalista, ma con una differenza: invece di reclamare il diritto di
assoggettare i non croati, si ripromettevano di espellerli. Il nazionalismo dei
croati era diretto naturalmente contro i loro forti vicini serbi: il risentimento
verso di loro era cresciuto in ragione del predominio serbo allinterno dello
stato jugoslavo creato dopo la prima guerra mondiale. Molti militanti del
movimento nazionalista croato si riunirono in unorganizzazione clandestina
chiamata Ustasha (Insurrezione). Questa associazione segreta, a cui i
nazisti lasciarono il controllo sulla Croazia, fu responsabile di conversioni
forzate, espulsioni e massacri di serbi durante la seconda guerra mondiale.
Quando il leader serbo Slobodan Miloevi chiam alla guerra, i suoi appelli
puntavano a risvegliare la memoria ancora viva di queste tragedie.
Con questo non si vuole certo sostenere che i massacri degli anni 90 siano
stati una diretta conseguenza della seconda guerra mondiale: la memoria del
tempo di guerra avrebbe potuto essere superata se i nuovi leader jugoslavi
avessero cercato di creare le premesse sociali per una societ multietnica. Il
maresciallo Tito cerc invece di rafforzare il suo governo proibendo la
formazione di gruppi civici indipendenti e promuovendo la diffusione di
valori politici condivisi. In Croazia, cos come in Serbia o in Slovenia,
lopposizione politica si aggregava invece sul solo simbolismo disponibile,
cio il nazionalismo di ogni regione. Tra laltro Tito soffi sul fuoco del
nazionalismo concedendo privilegi sia ai serbi che ai croati, ma ad ognuno
nel territorio degli altri. Cos i serbi detenevano posizioni di potere in
Croazia e i croati a Belgrado. Nelle regioni interne la presenza di queste
minoranze aliment il risentimento nazionalista. La scarsa lungimiranza
politica di Tito, a cui qualcuno in occidente guarda con nostalgia, fornir le
premesse per i successivi massacri. I risentimenti e le paure generate dalla
guerra recente, lassenza di una societ civile, e non certamente le differenze
etniche, hanno reso possibile il successo di politici nazionalisti come
Miloevi e Franjo Tudjman.


Leredit del colonialismo

Cosa dire allora dellAfrica? Come negare che l ci troviamo di fronte a dei
veri e propri conflitti etnici? Le nostre interpretazioni della violenza africana
sono sempre state offuscate non tanto dallimmagine del gi citato calderone
ribollente, quanto da quella di unatavica condizione di guerra tribale. A
questo proposito vorrei riportare il caso di un giornalista della National
Public Radio che intervistava un funzionario africano delle Nazioni Unite
75


sulla situazione del Ruanda. Per tutto il colloquio il giornalista spingeva il
funzionario a parlare degli antichi odii tribali che avrebbero a suo dire
alimentato i massacri. Il funzionario obiettava garbatamente, ricordando
pi volte al giornalista che il conflitto di massa era cominciato allorch i
dominatori coloniali belgi avevano concesso ai tutsi un potere assoluto sullo
Stato. Ma come spesso succede, limmagine dellantico tribalismo era
talmente radicata nella mente del giornalista che questi non riusciva a dare
ascolto al messaggio del funzionario ONU.
Ci che questultimo sosteneva era giusto: il pensiero etnico entrato nella
vita politica come conseguenza dei recenti conflitti, per ottenere potere e
risorse, non come un ostacolo antico sulla strada della modernit politica. E
vero che in passato, prima dellepoca moderna, gli africani si definivano
hutu o tutsi, nuer o zande, ma queste etichette non avevano un ruolo
fondamentale nella costruzione della loro identit quotidiana. Il sentimento
di appartenenza di una donna che viveva nellAfrica centrale dipendeva in
parte dal suo luogo di nascita e in parte dal lignaggio sia della famiglia di
provenienza che di quella del marito. Lidentit tribale o etnica raramente si
faceva sentire nella vita di tutti i giorni ed era soggetta a cambiamenti nel
caso in cui un popolo uscisse dai propri territori alla ricerca di scambi
commerciali o di nuove terre. I conflitti si verificavano allinterno delle
strutture tribali pi spesso che tra trib diverse: si combatteva per il controllo
di sorgenti, di terre da coltivare o di diritti di pascolo.
Furono invece le potenze coloniali e gli Stati indipendenti che a queste
seguirono a dichiarare che ogni persona possedeva una identit etnica che
determinava il suo posto allinterno della colonia o del sistema post-
coloniale. Un evento a prima vista insignificante come un censimento
riuscito a creare lidea di una categoria etnica ampia quanto lintera colonia,
a cui ogni individuo appartiene e verso cui nutre sentimenti di lealt.
Per inciso vorrei ricordare che questo fenomeno non si verific soltanto in
Africa. Alcuni studiosi della storia indiana fanno risalire la nascita del
nazionalismo hindu al primo censimento britannico, con il quale le persone
cominciarono a definirsi come membri della popolazione hindu,
musulamana o sikh. Le potenze coloniali belgi, tedeschi, francesi,
britannici e olandesi si rendevano conto del fatto che, essendo in inferiorit
numerica allinterno delle colonie, essi avrebbero potuto avere il reale
controllo solo nel caso in cui si fossero trovati dei partner tra la
popolazione locale, spesso tra le minoranze o tra la popolazione
cristianizzata. Ma facendo questo, separando cio il gruppo partner dagli
altri, le potenze coloniali creavano automaticamente i gruppi etnici.
In Ruanda e in Burundi i colonizzatori tedeschi e belgi provavano
ammirazione per i tutsi, un popolo di alta statura che rappresentava una
piccola minoranza allinterno delle due colonie. I belgi concessero ai tutsi
alcuni privilegi nellaccesso allistruzione e al lavoro, stabilendo fra laltro
un requisito minimo di altezza per lammissione al college. Per riconoscere i
tutsi, gli ufficiali coloniali imposero a tutti di portare con s la carta
didentit con le etichette tribali.
Ma le persone non possono mai essere inquadrate in categorie cos rigide:
molti tutsi sono alti e molti hutu bassi, ma hutu e tutsi hanno per lungo
tempo contratto matrimoni misti a tal punto da renderne difficile il
riconoscimento in base alle caratteristiche fisiche. La stessa difficolt esiste
tuttoggi. Entrambi parlano la stessa lingua e praticano la stessa religione. In
molte aree delle colonie i due raggruppamenti hanno assunto un carattere
economico: cos i tutsi poveri sono diventati hutu, e gli hutu pi ricchi sono
diventati tutsi. Nei casi in cui le etichette hutu e tutsi non erano ancora
entrate nelluso comune, le famiglie con molto bestiame sono state
semplicemente etichettate tutsi, mentre le famiglie pi povere sono
divenute degli hutu. La discriminazione coloniale nei confronti degli hutu ha
creato qualcosa che prima non esisteva: un senso di identit collettiva hutu,
una questione hutu. Alla fine degli anni 50 gli hutu (incoraggiati dagli
europei che se ne stavano andando) cominciarono a ribellarsi contro il
dominio tutsi e costituirono in Ruanda uno Stato indipendente a
dominazione hutu. Questa nuova formazione provoc a sua volta il
76


risentimento dei tutsi e listituzione di un esercito ribelle tutsi, il Fronte
Patriottico Ruandese.
Lo stesso metodo di imposizione di un dominio attraverso la divisione in
etnie diverse stato impiegato anche altrove. Il caso dello Sri Lanka (lex-
Ceylon) mostra come, anche quando non siano i colonizzatori a favorire un
gruppo nei confronti degli altri, la presenza stessa del dominio coloniale
alimenta la violenza interetnica. I cingalesi e i tamil dello Sri Lanka hanno
unorigine comune. Secondo gli stereotipi in circolazione i tamil sarebbero
scuri di carnagione, mentre i cingalesi avrebbero la pelle chiara, ma in realt
i due gruppi sono difficilmente distinguibili luno dallaltro sulla base delle
loro caratteristiche somatiche. La differenza sta piuttosto nella lingua. Prima
del xx secolo i due gruppi convivevano abbastanza tranquillamente e non si
percepivano come tipi distinti di persone. Poi arrivarono i colonizzatori
britannici. Come erano soliti fare dappertutto nel loro impero, i britannici
governarono Ceylon creando unlite che parlava inglese. Qui, come altrove,
il loro favoritismo fece nascere unopposizione interna che a Ceylon si
color di toni razziali e religiosi. La maggior parte di coloro i quali non
facevano parte dell lite scelta dagli inglesi parlava cingalese ed era
buddista. Questa fetta di popolazione si fece promotrice di unidea razzista
di superiorit cingalese, definita nei termini di razza ariana. Dopo
lindipendenza questa parte della popolazione che parlava cingalese ottenne
il controllo del nuovo Stato dello Sri Lanka e inizi ad escludere i tamil dalle
migliori scuole e dai posti di lavoro pi prestigiosi. Questultimo risultato fu
perseguito soprattutto introducendo tra i requisiti di competenza la
conoscenza della lingua cingalese. Non sorprende il fatto che i tamil si siano
risentiti di questa discriminazione nei loro confronti ed alcuni inizialmente
solo una piccola minoranza dettero vita nel corso degli anni 70 a violente
proteste. Queste rivolte scatenarono una massiccia repressione di Stato e,
con un meccanismo simile a quello che port alle ribellioni dei tutsi in
Ruanda, furono create le Tigri tamil (le tigri di liberazione del Tamil
Eelam) che rivendicavano lautonomia della regione dei tamil. Come ha
sostenuto lantropologo Stanley Tambiah, la violenza esplosa sullisola
stata una reazione di fine xx secolo alle politiche coloniali e postcoloniali
che poggiavano su un concetto rigido e artificiale di separazione etnica.
[3]

In questi come in altri casi i sikh in India, i maroniti in Libano, i copti in
Egitto, i moluccani nelle Indie orientali olandesi, i karen in Birmania gli
Stati coloniali e postcoloniali hanno prodotto nuovi gruppi sociali e li hanno
identificati in base alla loro appartenenza etnica, religiosa o territoriale. Solo
a partire dalle ultime generazioni i popoli che sono stati divisi in base a
queste categorie hanno cominciato ad agire in concerto, presentandosi come
gruppi politici con interessi comuni quali lautonomia politica, la facilit di
accesso allistruzione e al lavoro e il controllo sulle risorse territoriali.
Lontano dal riflettere antiche lealt etniche o tribali, la loro coesione
nellagire politico una diretta conseguenza delle richieste dello Stato
moderno, in cui le persone devono farsi sentire come gruppi di potere, per
evitare di venire seriamente svantaggiate.


Un pericolo che viene dallalto

Chi ci ha seguito fin qui potrebbe dire a questo punto: bene, quella delle
identit etniche unidea costruita in epoca moderna, ma resta il fatto che
oggigiorno ci sono persone che prendono di mira membri di altri gruppi
etnici con le loro azioni di violenza. La risposta che questo accade meno di
quanto si pensi e comunque solo dopo che qualche capo politico in grado di
controllare lesercito e linformazione si sia preoccupato di preparare,
incitare e minacciare la popolazione. A spingere le persone a commettere atti
di violenza quindi una paura e un odio che vengono indotti dallalto e non
lesistenza di differenze etniche. Si pu avere timore o risentimento nei
confronti di un altro gruppo per una serie di ragioni, in particolare se le
mutate condizioni economiche e sociali sembrano favorire laltro gruppo.
Ma di solito questa rivalit o risentimento, che potremmo chiamare di
77


base, non ancora sufficiente a scatenare fenomeni di violenza tra gruppi,
se non c un intervento dallalto.
Consideriamo i due casi inquietanti di cui abbiamo parlato prima: Ruanda e
Balcani. In Ruanda i continui massacri degli ultimi anni sono stati causati
dalla volont del presidente-dittatore Juvenal Habyarimana di spazzar via
lopposizione politica, composta sia da hutu che da tutsi. Tra il 1990 e il
1991 Habyarimana inizi a mettere insieme delle bande armate, creando una
milizia chiamata Interahamwe. Questa milizia esegu la sua prima strage in
un villaggio nel marzo 1992. Nel 1993 inizi a uccidere sistematicamente
hutu moderati e tutsi. Nel corso del 1993 le tre principali stazioni radio del
paese furono utilizzate in una campagna di odio contro i tutsi, i partiti di
opposizione e contro personalit politiche, preparando cos il terreno a
quello che sarebbe accaduto dopo. Subito dopo lincidente aereo i cui
dettagli sono ancora tutti da chiarire - che port alluccisione del presidente
Habyarimana nellaprile del 1994, la guardia presidenziale inizi a uccidere
leader dellopposizione hutu, attivisti dei diritti umani, giornalisti e altri
personaggi critici nei confronti del governo, soprattutto hutu. Soltanto dopo
questa prima ondata di omicidi, la milizia e i mercenari furono spediti ad
organizzare le stragi di massa nellinterno del paese, prendendo di mira
questa volta i tutsi.
Perch le persone obbedirono allordine di uccidere? Le incessanti
trasmissioni radio degli anni precedenti hanno sicuramente contribuito a
preparare il terreno. In queste trasmissioni i tutsi del fronte patriottico
ruandese venivano ritratti come assassini assetati di sangue. Durante il
periodo dei massacri, la radio prometteva agli assassini la terra delle vittime.
I sindaci delle citt, la milizia, lesercito regolare e la polizia inquadrarono
gli hutu in squadroni della morte, uccidendo quelli che non accettavano di
farne parte. Il presidente ad interim and in giro per tutto il paese a
ringraziare chi aveva preso parte ai massacri. Alcuni approfittarono dei
massacri per regolare dei conti personali e molti furono trascinati da quella
che alcuni osservatori hanno descritto come frenesia di uccidere. Le stragi
del 1994 non furono un fenomeno casuale di violenza di massa, anche se
influenzate dalla psicologia di massa. [4]
Leggendo i resoconti delle stragi in Ruanda fui sorpreso di quanto questi
assomigliassero, punto per punto, ai racconti dei massacri compiuti in
Indonesia nel 1965-66, cos come mi erano stati riportati da persone che ne
erano state protagoniste. La differenza stava solo nel fatto che in Indonesia il
bersaglio da colpire erano i comunisti, ma anche in quel caso le
motivazioni dellazione violenta riguardavano il desiderio di regolare conti
personali, lavidit, la volont di seguire gli ordini dellesercito e il timore
di rappresaglie, tutto ci spinse le persone a compiere azioni difficili da
ammettere anche verso s stesse, anche se molti di loro, cos come molti
hutu, si erano convinti che le stragi avessero fermato un potere malvagio in
procinto di invadere il paese. In entrambi i paesi, alcune persone
raccontarono di aver ucciso bambini e di non aver risparmiato donne incinte,
per evitare che i bambini una volta cresciuti tentassero di vendicarsi degli
assassini. Gli americani continuano a presentare questi massacri in Indonesia
come un esempio di violenza etnica, ritenendo che la popolazione cinese
fosse il principale bersaglio, ma non cos: gli omicidi furono compiuti
anche da giavanesi contro giavanesi, da acenesi contro acenesi e cos via.
I due contesti in cui si sono compiute le stragi sono diversi. Il Ruanda tra il
1993 e il 1994 era uno Stato a partito unico, in cui i media erano controllati
completamente dallo Stato che li utilizzava per indottrinare la popolazione.
LIndonesia invece tra il 1956 e il 1966 era uno Stato politicamente
frammentato, di cui solo gradualmente stavano assumendo il controllo alcuni
settori delle forze armate. In entrambi i casi, comunque, i capi
politici riuscirono a realizzare una strategia, pianificata dallalto, per
spazzar via un gruppo di opposizione. Se ebbero successo, perch
riuscirono a persuadere le persone che lunico modo per sopravvivere era
quello di uccidere preventivamente chi avrebbe tentato di ucciderli.
La stessa opera di persuasione fu intrapresa dai politici serbi e croati, in
particolare dal croato Franjo Tudjman e dal serbo Slobodan Miloevi, che
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misero in guardia i loro fratelli etnici, i serbi che vivevano in Croazia o i
croati che vivevano in Bosnia, dellimminente pericolo: i loro diritti infatti
sarebbero stati calpestati se non si fossero ribellati. Miloevi si serv della
retorica espansionistica del moderno nazionalismo serbo, reclamando per i
serbi il diritto di vivere dovunque uniti. Tudjman, da parte sua, si avvalse
della retorica del moderno nazionalismo di esclusione per formare i suoi
sostenitori. Una volta al potere, per prima cosa egli defin i serbi che
vivevano in Croazia cittadini di serie B, allontan i serbi dai corpi di polizia
e dallesercito e reinser la scacchiera bianca e rossa degli Ustasha
dellepoca nazista nella nuova bandiera croata
Entrambi i leader hanno sfruttato la memoria storica per i loro fini, ma
hanno dovuto anche cancellare le memorie pi recenti delle nuove identit
jugoslave, che si erano formate man mano in uomini e donne che avevano
contratto matrimoni misti o che vivevano in citt cosmopolite. Le nuove
costituzioni riconoscevano solo lidentit etnica, non quella civile, per cui le
persone erano costrette a decidere, a volte sotto la minaccia delle armi, chi
erano realmente.[5]
Diversamente da quello che si legge sui giornali occidentali, i serbi non
vivono nel xiv secolo, ancora pieni di livore per la battaglia del Kosovo; n
il conflitto in corso la conseguenza di una logica del passato che
inevitabilmente si riaffaccia, cos come stato scritto. Politici senza scrupoli
hanno investito molta energia nel convincere la gente comune che dallaltra
parte non cerano pi gli amici e i nemici che avevano conosciuto per anni,
ma persone pronte a commettere un genocidio, che li avrebbero uccisi se essi
non li avessero uccisi prima. Miloevi ha dovuto convincere i serbi che i
croati erano tutti criptonazisti ustasha; a Tudjman invece toccato
convincere i croati che i serbi erano tutti assassini cetnici. Entrambi, ma in
particolare Miloevi, hanno dichiarato che i musulmani bosniaci
rappresentavano lavanguardia di una nuova minaccia islamica. Ogni
governo aiutava indirettamente laltro: il discorso espansionista di Miloevi
confermava le paure dei croati che i serbi volessero assumere il controllo dei
Balcani. Allo stesso tempo la politica di Tudjman faceva rivivere nella
mente dei serbi il ricordo degli ustasha. I media serbi fecero leva su queste
paure, dedicando tra il 1990 e il 1991 ampio spazio ai servizi
sullesumazione delle fosse comuni risalenti alla seconda guerra mondiale e
ai racconti del terrore ustasha. Questa forma di nazionalismo dallalto,
come lo ha definito Warren Zimmermann, lultimo ambasciatore americano
in Jugoslavia, rappresentava uno scontro tra nazionalismi in cui ogni azione
di una parte confermava i timori dellaltra.
Se il Ruanda e i Balcani non si prestano allimmagine del calderone in
ebollizione e degli antichi odii tribali, tanto meno ci vale per altri conflitti
in corso a livello locale. Gran parte di essi sono volti allottenimento
dellautonomia politica, soprattutto nellex Unione Sovietica, dove il crollo
del potere dei Soviet ha fatto s che popoli a lungo repressi abbiano potuto
rivendicare il diritto a usare la propria lingua, a praticare la propria religione,
a controllare il loro territorio e le loro risorse - un rifiuto del dominio
straniero simile a quello delle ribellioni anti-imperialiste nelle Americhe, in
Europa, Asia o Africa.
Anche altre rivolte in varie parti del mondo, ognuna con la sua storia e le sue
motivazioni, sono state spesso considerate, facendo di tutta lerba un fascio,
conflitti etnici. La resistenza di Timor Est al potere indonesiano una lotta
ventennale contro linvasione di una potenza straniera, non unespressione di
identit etnica o culturale. Le persone che combattono nel sud delle Filippine
sotto la bandiera della Nazione Moro a veder bene cercano di
riconquistare il controllo delle loro terre, sottrattogli da politici nominati da
Manila. I guerriglieri zapatisti in Chiapas vogliono lavoro, riforme politiche
e soprattutto terra. Gli zapatisti non fanno cenno a questioni di identit etnica
o culturale nei loro documenti; il loro leader viene dal nord del Messico e
almeno fino a poco tempo fa non parlava la lingua maya. Altri conflitti in
corso sono nati da una pura lotta di potere tra fazioni rivali. Questo accade
soprattutto in diversi paesi africani, come la Liberia, la Somalia e lAngola,
dove le forze avversarie arruolano spesso i soldati da una stessa regione o da
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uno stesso clan - accreditando cos la tesi secondo cui questi sarebbero
conflitti etnici - in modo da poter sfruttare lautorit dei leader locali e lo
spirito di appartenenza per tenere sotto controllo i propri seguaci.[6]


Diversit etnica e conflitto sociale

Arriviamo quindi alla terza affermazione erronea: che la diversit etnica
porti con s instabilit politica e aumenti la probabilit di esplosioni di
violenza. In realt le cose stanno proprio al contrario: le diversit etniche pi
profonde non sono associate a conflitti interetnici di grande rilievo. Alcuni
degli Stati pi etnicamente differenziati al mondo Indonesia, Malesia,
Pakistan bench non immuni da conflitti interni e da repressioni politiche,
hanno conosciuto solo minimamente la violenza interetnica, mentre in paesi
con differenze assai lievi di lingua o cultura (lex Jugoslavia, la Somalia, il
Ruanda) si sono verificati i conflitti pi cruenti. il numero dei gruppi etnici
e la loro relazione con il potere, non la diversit in s, che minaccia pi
seriamente la stabilit politica. Come ha inoltre mostrato nei suoi recenti
studi il politologo Ted Gurr, i conflitti locali, contrariamente a quanto si
pensa comunemente, non sono nettamente aumentati per frequenza o gravit
nel corso dellultimo decennio. Il pi grande aumento dei conflitti locali si
verificato durante la guerra fredda come conseguenza dello sforzo delle due
superpotenze di armare gli Stati alleati. Lidea che tutto sia esploso dopo il
1989, sostiene Gurr, deriva dalle riaffermazioni dellidentit nazionale
nellEuropa dellEst e nellex Unione Sovietica (v. Gurr 1994).
In generale lattenzione dei media si concentra sui paesi turbati dalla
violenza e ignora i casi, assai pi frequenti, in cui le relazioni tra le diverse
popolazioni sono pacifiche. Si prenda ad esempio lIndonesia, dove ho
portato avanti un lavoro sul campo dalla fine degli anni 70. Se qualcuno ha
sentito parlare dellIndonesia probabilmente a causa della sua occupazione
di Timor Est e della soppressione della libert politica, ma questi non sono
elementi di conflitto etnico: questultimo ha davvero poca presa in un paese
composto da pi di 300 popoli, ciascuno con una propria specifica lingua e
cultura. E vero che attorno agli anni 1959 e 1960 ci furono movimenti di
ribellione contro Giakarta in pi parti del paese, ma le rivendicazioni
riguardavano il diritto al controllo sulle risorse locali, sulla scuola e sulla
religione. Una ribellione a fasi alterne organizzata nellarea della mia
ricerca, allestremo nord di Sumatra, stata portata avanti al fine di ottenere
il controllo sulle grandi risorse di petrolio e di gas della regione. Malgrado
questo, la stampa occidentale continua a presentare lo stereotipo del
conflitto etnico.
La diversit culturale rappresenta certo una sfida allintegrazione nazionale e
alla pace sociale. Perch alcuni paesi riescono a vincere questa sfida e altri
no? Ci sono qui da tenere presenti due ordini di ragioni che travalicano la
semplice diversit etnica e culturale.
Prima di tutto esistono materie prime per la pace sociale che i paesi
possono o meno possedere al momento del conseguimento
dellindipendenza. I paesi in cui un gruppo ha a lungo sfruttato tutti gli altri,
come in Ruanda e in Burundi, partono con molti conti da regolare, mentre i
paesi in cui non c stato un gruppo nettamente dominante, come in
Indonesia, hanno inizialmente un vantaggio nella creazione del consenso
politico. I sistemi cosiddetti centralizzati, in cui due o tre gruppi numerosi
polarizzano continuamente la politica nazionale, sono meno stabili rispetto
ai sistemi dispersi, in cui ognuno dei gruppi pi piccoli spinto a costruire
alleanze per raggiungere i propri fini. E se i principali gruppi etnici usano la
stessa lingua o professano la stessa religione, oppure se hanno cooperato
nella lotta rivoluzionaria, dispongono gi di un legame sulla cui base si
possa costruire la cooperazione politica (v. Horowitz 1985, pp. 291-364).
Prendiamo ancora il caso dellIndonesia. NellIndonesia coloniale (le Indie
orientali olandesi), i giavanesi erano, proprio come accade anche oggi, la
popolazione pi numerosa, ma erano concentrati a Giava e solo l
detenevano posizioni di potere. Tutta la popolazione di Giava, di Sumatra e
80


delle isole orientali, compresa la Malesia e parte delle Filippine del sud,
usano da secoli il malese come lingua franca e una volta conquistata
lindipendenza proprio il malese divenne la lingua di base dellIndonesia.
Anche lIslam si diffuse trasversalmente a regioni ed etnicit, unendo la
popolazione di Sumatra, Giava e Sulawesi. Il potere era disperso, nel
senso che molti personaggi importanti della letteratura, della religione e
dello stesso movimento nazionalista provenivano abbastanza di frequente da
localit diverse rispetto a Giava, in particolare da Sumatra. Inoltre la
popolazione di tutto il paese aveva impiegato cinque anni per combattere
contro i tentativi olandesi di riconquistare il controllo del paese dopo la
seconda guerra mondiale, e ci si poteva basare sullesperienza condivisa di
questa lotta comune. [7]
Si pu vedere quanto sia importante ciascuna di queste caratteristiche, se
consideriamo un caso vicino, cio quello di un paese culturalmente molto
simile come la Malesia. I malesi e i cinesi, i gruppi etnici pi numerosi, non
hanno in comune n la lingua n la religione e non condividono una
memoria di lotta a cui ispirarsi. I malesi hanno mantenuto il potere politico
durante il dominio britannico, e al momento dellindipendenza c stata
unevidente spaccatura tra la comunit malese e quella cinese.


Limportanza delle scelte politiche

Queste condizioni di partenza non riescono comunque a chiarire del tutto la
situazione: ecco che entra in scena una seconda serie di ragioni in grado di
determinare il conflitto o la pace sociale. Gli Stati infatti fanno scelte, in
particolare riguardo ai processi politici, che possono distendere o esacerbare
le tensioni tra i diversi gruppi. Come ha rilevato il politologo Donald
Horowitz, se consideriamo solamente le condizioni di partenza, la Malesia
avrebbe dovuto sperimentare delle serie violenze interetniche (per le ragioni
appena spiegate), mentre allo Sri Lanka, in cui tamil e cingalesi si sono
mescolati nelllite educata secondo lo stile britannico, tali violenze non si
sarebbero dovute verificare. Tuttavia la Malesia ha cercato in ogni modo di
evitarle, lo Sri Lanka non lha fatto. La differenza fondamentale, secondo
Horowitz, consiste nei sistemi politici che si sono formati nei due paesi. I
politici della Malesia hanno formato una coalizione multietnica, in grado di
favorire i legami tra i capi politici cinesi e malesi e di spingere i candidati a
cercare un largo consenso elettorale intermedio. In Sri Lanka, come abbiamo
visto prima, i parlanti cingalese hanno formato un movimento nazionalista
sciovinista e quindi la precedente cooperazione tra tamil e cingalesi si
spaccata, creando dei partiti politici su base etnica. In ogni partito si
formata unala estremista che ha costretto i leader a muoversi nella propria
direzione.
Ma i sistemi politici possono essere cambiati e la Nigeria costituisce un buon
esempio. Prima del 1967 la Nigeria era composta da tre regioni Nord, Sud
e Est ognuna rappresentata da un proprio partito sostenuto da alleanze
etniche. Questa tripartizione era cos profondamente radicata da spingere la
regione sudorientale del Biafra a cercare di separarsi dalla Nigeria nel 1967.
La conseguenza fu una guerra civile che traumatizz il paese e spinse i
politici a cercare nuove strade. Il paese fu diviso in 19 Stati i cui confini
attraversavano i territori dei tre gruppi etnici pi numerosi Hausa, Yoruba
e Igbo incoraggiando cos una nuova politica federalista basata su
coalizioni multetniche. Il nuovo sistema, malgrado i suoi vari problemi, ha
impedito la formazione di un nuovo Biafra. I leader politici che sono venuti
dopo hanno per continuato ad aumentare il numero degli Stati ognuno per
ragioni politiche diverse. Lattuale leader, il generale Sani Abaca, sta
continuando ad aggiungere Stati ai trenta gi presenti. Questa eccessiva
frammentazione ha finito per spaccare le coalizioni multietniche e stimolato
di nuovo una politica etnica. Una tendenza simile stata perseguita dal
keniota Daniel Arap Moi, che ha creato una base elettorale etnica che
esclude molti kikuyus, aumentando limportanza delletnicit in politica e
quindi il livello delle tensioni tra gruppi.
81


Secondo il mito del conflitto etnico ci troveremmo di fronte a tensioni di tipo
permanente, mentre in realt esse sono il prodotto di scelte politiche.
Laccettazione di stereotipi negativi, il timore di un altro gruppo, il motto
uccidere prima di essere ucciso: questi sono i prodotti dei cosiddetti
leader, che essi stessi possono tuttavia anche cancellare. Credere, al
contrario, che tali conflitti siano la naturale conseguenza della depravazione
umana presente in alcune parti del mondo, porta a un pensiero e a politiche
perverse. La violenza sembra essere caratteristica di un popolo o di una
regione, invece che la conseguenza di specifiche azioni politiche. Pensare in
questo modo giustifica la mancanza di intervento, come quando il presidente
degli Stati Uniti Bill Clinton, cercando di tirarsi indietro rispetto alle
affermazioni fatte in campagna elettorale, che promettevano una linea dura
in politica estera per quanto riguardava i Balcani, inizi a sostenere che i
bosniaci e i serbi si uccidevano a causa delle loro differenze etniche e
religiose. Questo modo di pensare presenta le parti in lotta come meno
razionali e meno moderne quindi pi tribali, pi etniche di noi, e ci
rende cos pi facile tollerare la loro sofferenza. Ma il presupposto che
questi popoli seguano naturalmente il richiamo dei loro leader ad uccidere
ci distoglie dalla questione fondamentale, che quella di capire in che modo
e perch le persone qualche volta sono spinte a commettere tali orribili
azioni.


Riferimenti bibliografici

Brubaker, R.,1996, Nationaliem Reframed: Nationhood and the National
Question in the new Europe, Cambridge, Cambridge University Press; trad
it. 1998, Nazioni e nazionalismi nellEuropa contemporanea, Roma, Editori
Riuniti

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Gourevitch, P., 1996, The Poisoned Country, New York Review of Books,
giugno, 6, pp. 58-64

Gurr, T., 1994, Ethnic Conflict in World Politics, Boulder, CO, Westview

Hardin, R., 1995, One for All: The Logic of Group Conflict , Princeton, NJ,
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Horowitz, D. L., 1985, Ethnic Groups in Conflict, Berkeley, University of
California Press

Huntington, S. P., 1993, The Clash of Civilisations?, , Foreign Affairs, 72,
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Kapferer, B., 1988, Legends of People, Myths of State, Washington, DC,
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Tambiah, S. J., 1986, Sri Lanka: Ethnic Fratricide and the Dismantling od
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Van der Veer, P., 1994, Religious Nationalism: Hindus and Muslims in
India, Berkley, University of California Press.
Walzer, M., 1983, Spheres of Justice, New York, Basic Books; trad it. 1987,
Sfere di giustizia, Milano, Feltrinelli
82


[1] Due dei pi convinti sostenitori di questa visione che sto criticando sono
Robert Kaplan (1993; vedi anche i suoi interventi per la rivista Atlantic)
e Samuel P. Huntington 1993) Il mio intento non tanto quello di entrare
nel merito delle argomentazioni di questi due autori, cosa che gi altri
hanno fatto, ma piuttosto quello di prendere in considerazione il punto di
vista generale che, come accade a tutti i miti, sopravvive al di l del
succedersi delle sue versioni.
[2] Si veda Glenny 1992 per un resoconto equilibrato e molto interessante
da un punto di vista etnologico sulle guerre dei Balcani. Sulle tendenze pi
recenti del nazionalismo europeo si veda in particolare Brubaker 1996.
Brubaker arriva allimportante conclusione che il nazionalismo dovrebbe
essere considerato come una forma di ideologia politica e sociale e non
come un qualcosa di preideologico.
[3] Tambiah 1986. Per un punto di vista diverso sulla cultura della violenza
in Sri Lanka si veda Kapferer 1988.
[4] Sui recenti resoconti dei massacri in Ruanda e Burundi si vedano
Gourevitch 1996 e Lemarchand 1995
[5] Che esistessero memorie, paure e odii da sfruttare bene tenerlo a
mente, altrimenti rischiamo di andare allestremo opposto e sostenere che
questi conflitti sono stati interamente prodotti dallalto: un estremo in cui
possono essere caduti alcuni studiosi, eccessivamente attaccati a modelli
razionali di scelta.
Russell Hardin, nel suo peraltro eccellente One for All: The Logic of Group
Conflict, a mio avviso si sbaglia quando attribuisce ai due uomini politici
responsabili di aver fatto accendere la passione etnica solo motivazioni
razionali e di autoesaltazione. Hardin non tiene conto del fatto che essi
stessi potrebbero essere vittime di queste passioni. La fredda razionalit dei
leader in s una variabile: probabilmente Miloevi si adatta al modello di
attore razionale proposto da Hardin meglio di Tudjman, Suharto meglio di
Sukarno. In ogni caso, si tratta di un problema contestuale. Si veda Hardin
1995.
[6] Si possono trarre le stesse conclusioni per quanto riguarda la versione
religiosa degli antichi odii nelle relazioni tra musulmani e hindu in India.
Comunque siano state le antiche relazioni, pacifiche o conflittuali (e su
questa questione il dibattito nellAsia del sud ancora vivo), i conflitti degli
ultimi dieci anni in India, che spesso sono sfociati nel sangue, sono stati
alimentati dallambizione dei politici che avevano visto un illimitato bacino
di consensi nel risentimento che la classe media hindu provava riguardo 1.
alle proteste delle caste pi basse perch fossero loro riservati posti di
lavoro e facilitato laccesso allistruzione e 2. al recente arricchimento di
alcuni musulmani provenienti dalla classe media. Si vedano le approfondite
analisi politiche di Susanne Hoeber Rudolph e Lloyd I. Rudolph sulla New
Republic (22 marzo 1993, 14 febbraio 1994)e lo studio storico ed
etnografico di Peter Van der Veer (1994).
[7] Vorrei proporre di chiamare potere disperso la situazione in cui
ognuno dei diversi gruppi considera s stesso come dominante in una data
dimensione politica o sociale il secondo importante meccanismo per
ridurre i conflitti tra gruppi, accanto al pi noto cross-cutting cleavages
che rappresenta la situazione in cui una o pi importanti dimensioni della
diversit sono trasversali ad altre, come succede ad esempio per la religione
che in molti paesi trasversale alletnicit. Il potere disperso si manifesta
nelle dimensioni sociali e culturali, ad esempio sotto forma di superiorit in
campo letterario oppure di un pi alto valore sociale che si fa risalire ad
una supposta origine indigena del gruppo. Si tratta quindi di meccanismi
pi ampi, ma allo stesso tempo analoghi a quello del federalismo, quando
questi meccanismi tendano a far proliferare i punti di potere per usare
lespressione di Donald Horowitz. Questo rappresenta il parallelo empirico
della posizione normativa esposta in Walzer 1983. Secondo lautore il
potere in una sfera (o dimensione) non conferisce necessariamente il potere
nelle altre sfere.


83


Comunit immaginate e vittime reali: autodeterminazione e
pulizia etnica in Jugoslavia
Robert M. Hayden

(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005,
pp.145-82; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)

vero, sono un hegeliano: penso che la sofferenza degli individui sia
irrilevante rispetto allimportanza dei processi storici.
(Alto funzionario, Repubblica Srpska, Marzo 1994)

Certo, sarebbe meglio risolvere i problemi delle minoranze attraverso il
dialogo, ma non dobbiamo mai escludere la possibilit di intervenire
militarmente.
(Alto funzionario, Commissione per i diritti umani delle minoranze,
Parlamento della Repubblica Croata, Marzo 1994)

Non saremo una nazione fino a quando ci sar ancora qualcuno che pensa
che essere serbo sia pi importante che vivere dove hanno vissuto i propri
antenati
(Radovan Karadi, allora presidente della Repubblica Srpska, 13 settembre
1995)



Il crollo dellex-Jugoslavia stato accompagnato da unondata di violenza
che ha profondamente scosso lopinione pubblica mondiale; in particolare,
ha colpito il fatto che tale violenza si verificasse in Europa, per quanto
limitatamente ai Balcani.[1] Lorrore e il disgusto provato anche dagli
antropologi rischia per di far passare sotto silenzio quale sia stata la logica
sottesa alle guerre di secessione e successione in Jugoslavia. In particolare
bisogna considerare la fatale incompatibilit tra le culture oggettivate o
reificate, assunte come base delle diverse imprese nazionaliste, da un lato e
dallaltro le culture viventi delle aree che sono state teatro delle peggiori
violenze.
La geografia della violenza un aspetto da tenere in considerazione perch
dal 1991 in ex-Jugoslavia le guerre sono state combattute quasi sempre nelle
regioni pi miste, quelle cio in cui le diverse nazioni della Jugoslavia si
erano maggiormente mescolate. La violenza che si diffusa cos
improvvisamente in questi luoghi non stata scatenata da passioni
nazionaliste a lungo represse dal comunismo, come ritengono molti
giornalisti e politici. Al contrario, a me pare che al centro delle guerre vi sia
stato il tentativo di rompere con la forza la mescolanza di popoli, alla cui
coesistenza erano contrarie le ideologie politiche uscite vincitrici dalle libere
elezioni del 1990. Tali forme di nazionalismo estremo in ex-Jugoslavia non
hanno solo portato ad immaginare presunte comunit primordiali, ma
hanno anche cercato di rendere inimmaginabili le comunit eterogenee
realmente esistenti.. Da un punto di vista formale, si trattato rafforzare una
definizione essenzialista di nazione e di Stato e di applicarla a regioni in cui
le diverse popolazioni, vivendo luna accanto allaltra, ne confutavano di
fatto la validit. Questo ha comportato una spietata negazione della realt
sociale, al fine di ricostruirne una nuova.
questa ricostruzione delle comunit separate che trasforma
limmaginazione in un processo che produce vittime reali. Non si tratta di
una distinzione cartesiana e nemmeno delladesione a una prospettiva di
analisi simbolico-materialista. I membri pi fortunati di una comunit
immaginaria sono reali tanto quanto gli sfortunati che ne sono rimasti
esclusi. Piuttosto, vorrei mostrare come un sistema culturale reificato e
prescrittivo abbia il potere di disgregare i modelli della vita sociale (cio la
cultura in senso analitico) che vi si oppongono. Si tratta, certo, di un
argomento strutturalista nel senso di Mary Douglas (1966; si veda anche
Herzfeld 1993, p.22): la pulizia etnica (per descrivere uno spargimento di
84


sangue in modo non cruento) rappresenta leliminazione di un particolare
tipo di materiale umano da un dato luogo. Allo stesso tempo la pulizia
etnica pu fare da corollario ad un capovolto mito della nazione
lvistraussiano, un mito cio che non fornisca un modello logico in grado di
superare le contraddizioni nelle strutture sociali esistenti ma che al contrario
affermi che la struttura sociale esistente logicamente incoerente e che deve
quindi essere distrutta.
In quanto processo di uniformazione, la pulizia etnica pu assumere forme
diverse. Nei territori in cui il gruppo dominante costituisce gi una
maggioranza schiacciante, luniformazione pu essere realizzata con mezzi
legali e misure amministrative, come respingere le domande di cittadinanza
ai soggetti che non fanno parte del gruppo giusto, oppure facilitare
lassimilazione di membri delle minoranze ritenuti pi adatti e allontanare
quelli che non possono o non vogliono essere assimilati. In territori pi
misti luniformazione richiede misure pi drastiche: lespulsione fisica,
lallontanamento o lo sterminio del gruppo di minoranza. Sebbene solo
questultimo caso dallinizio delle guerre in Jugoslavia sia stato definito
pulizia etnica, opportuno tenere presente che anche la discriminazione
condotta con misure giuridiche mira allo stesso risultato, cio leliminazione
delle minoranze.
Concettualmente, potremmo considerare la violenza della pulizia etnica
come lo scontro tra un modello prescrittivo di cultura (cultura come
ideologia) e la realt storico-contestuale (cultura vivente) che non si accorda
con la prescrizione. Porre la questione in questi termini non significa voler
dare a tutti i costi risalto al tradizionale oggetto di studio dellantropologia.
Semmai questa impostazione d conto dellimportanza riservata oggi in
Occidente al concetto di cultura come ideologia (ci che Verena Stolcke
(1995) ha definito fondamentalismo culturale), che funziona ormai come
una sorta di parola chiave sempre pi utilizzata nellEuropa occidentale nella
retorica politica sul fenomeno dellesclusione. Una distinzione analoga, in
riferimento ad un altro tipo di retorica dellesclusione e della dominazione,
quella proposta per il caso dellAsia del sud da Ashis Nandy (1990, p. 70),
che distingue tra fede o religione come stile di vita e ideologia o
religione come fattore di identit delle popolazioni. Il nazionalismo
religioso dellIndia di Van der Veer (1994) analiticamente paragonabile al
nazionalismo culturale dellEuropa[2]: in entrambi i casi, risalta la
differenza tra le concezioni prescrittive di come la cultura o la religione
devono essere, e i modi in cui la gente realmente vive in determinati luoghi.
Limperativo qui non solo normativo (come la cultura dovrebbe essere),
ma pretende di essere anche descrittivo, di basarsi cio su assunti riguardanti
leffettiva realt del mondo, ed per questo che le presunte devianze
culturali sono viste come anormali.
Un simile contrasto tra l ideologia e il modo in cui la gente vive
veramente pu forse apparire ingenuo, in unepoca in cui la critica a ogni
forma di empirismo divenuta routine per gli antropologi.
Eppure i modelli di vita sociale luso che si fa di un sistema di scrittura al
posto di un altro, le percentuali di matrimoni misti o quelle di utilizzo di
certi item lessicali si possono analizzare e spesso ci si accorge che non
sono congruenti alla concezione prescrittiva (come tali modelli dovrebbero
essere). Gli orrori della pulizia etnica derivano proprio da questa
incongruenza tra la realt concreta della vita vissuta e loggettivazione della
vita che deve essere vissuta.
Laccostamento di realt e immaginazione che compare nel mio titolo
assume quindi un significato pi profondo del mero espediente retorico.
Lintento di questa ricerca quello di mostrare la logica della traduzione
della violazione categoriale in violenza di massa per parafrasare il
commento di Michael Herzfeld (1993, p. 33) al lavoro di Peter Loizos
(1988) sui delitti intercomunitari a Cipro. Con la precisazione che Loizos si
preoccupato di spiegare il fenomeno della violenza individuale, mentre io
vorrei prendere in considerazione il sistema categoriale sul quale si basa la
forma di Stato etnico che promuove la violenza di massa. A questo proposito
il mio obiettivo simile a quello di Herzfeld. Le attivit amministrative che
85


egli analizza includono il genocidio, anche se poi egli pone laccento su altri
aspetti. Il mio proposito quello di concentrarmi sulla violenza di massa che
ha colpito profondamente gli osservatori, me compreso. Inoltre il fenomeno
da me studiato non pu essere considerato come una causa della produzione
di indifferenza, definita come il rifiuto della comune umanit o come
negazione di identit (Herzfeld 1993, p. 1). Al contrario, nei processi da
me analizzati si riconoscono gli altri popoli come esseri umani (sebbene,
forse, come individui inferiori) e si assegnano delle conseguenze alle identit
che gli stessi gruppi subalterni rivendicano.
I serbi della Croazia ad esempio hanno rivendicato la propria identit dopo il
1990 con maggior frequenza rispetto ai decenni precedenti, quando molti si
definivano jugoslavi. Il significato dellidentit nel frattempo era
cambiato.


Costituzioni come legittimazione della pulizia etnica

In questo saggio mi occuper delle costituzioni delle repubbliche succedute
allo Stato della Jugoslavia, per mostrare come esse rappresentino
unespressione istituzionalizzata delle ideologie nazionaliste e aspirino alla
costruzione di Stati-nazione omogenei in territori eterogenei. Mi interessa
mostrare la logica della costruzione di un particolare tipo di Stato, uno Stato-
nazione in cui il termine nazione ha connotazioni che gli americani
chiamerebbero etniche, anche se queste non sono centrali nel comune uso
americano del termine. La Croazia ad esempio definita costituzionalmente
come lo Stato-nazione del popolo croato (Costituzione delle Repubblica
Croata, 1990, preambolo) e parallelamente la Slovenia si definisce come lo
Stato sovrano del popolo sloveno. In questi casi il riferimento a: Noi, il
popolo ha un significato molto diverso rispetto a quello solitamente diffuso
nellattuale mentalit americana.
Le carte costituzionali sono uno degli elementi pi importanti da tenere
presenti per analizzare la formazione delle ideologie nazionaliste, proprio
per la loro pretesa di essere costitutive, di fornire cio non solo il quadro
concettuale dello Stato, ma anche gli strumenti istituzionali per costruire uno
Stato conforme a quel modello. Quando una costituzione si immagina uno
Stato che esclude alcuni residenti dal suo corpo politico o sociale, cos come
avvenuto negli Stati che si sono formati dalla dissoluzione dellex-
Jugoslavia, allora gli articoli di quella costituzione apparentemente non
cruenti contengono gi in s le premesse di una violenza sociale che pu
diventare cruenta. Il mio primo obiettivo dunque porre in rapporto la
costruzione culturale della nazione con la costituzione giuridica degli Stati
nelle repubbliche della ex-Jugoslavia; unanalisi che pu tornare utile anche
in altri casi, dal momento che i fenomeni costituzionali e giuridici qui
riscontrati hanno stretti paralleli altrove, in particolare in Europa.
Luniformazione di una comunit eterogenea pu avvenire tramite
lassimilazione forzata o lespulsione, cos come tramite la revisione dei
confini (Macartney 1934, pp. 427-449). Lassimilazione forzata pu essere
meno apertamente violenta di quella che noi oggi chiamiamo pulizia
etnica, ma i due processi sono basati sugli stessi principi, e appaiono
semplicemente come strategie diverse per raggiungere lo stesso scopo. Il
ricorso alla violenza fisica avviene laddove la geografia culturale pi
eterogenea ed pi difficile esercitare il dominio con mezzi non violenti (v.
Hayden 1995a). In questo saggio prendo in esame sia la pulizia etnica
amministrativa sia la violenza diretta, riconoscendole come conseguenze di
una medesima logica che opera in contesti sociali diversi.


La ricerca sul campo a distanza: etnografia dellideologia

Le tradizionali modalit etnografiche non sembrano ben adattarsi allanalisi
delle costituzioni come meccanismi di conversione delle ideologie
86


nazionaliste in pratica sociale. Lanalisi dei movimenti nazionalisti deve
basarsi sullanalisi di testi prodotti dai sostenitori e dagli oppositori di
particolari visioni nazionaliste (v. p. es. Handler 1988, pp. 27-29; Verdery
1991, pp. 19-20); il che potrebbe spingere alle sue estreme conseguenze la
metafora post-geertziana della cultura come testo. Tuttavia, tali testi non
possono essere analizzati in isolamento dal campo delle relazioni sociali in
cui sono stati prodotti, letti e interpretati sia nel pensiero che nellazione
(Verdery 1991, p. 20); e per una simile analisi contestuale dei testi
nazionalisti indispensabile la ricerca sul campo nelle rispettive societ.
Certo, il significato di un testo varia con il suo pubblico, ma nello studio
delle ideologie nazionaliste possiamo empiricamente delimitare la gamma di
significati che gli autori dei testi e il loro pi diretto pubblico hanno in
mente. E per conoscere questi significati necessaria una conoscenza
approfondita del campo delle relazioni sociali, raggiungibile solo attraverso
una prolungata partecipazione e osservazione della societ studiata.
Tuttavia, questa ricerca sul campo pu essere di tipo molto diverso rispetto
al tradizionale metodo antropologico del being there. Una volta che
letnografo abbia acquisito una solida conoscenza del campo sociale in cui i
testi nazionalisti sono prodotti, spesso possibile controllarne gli sviluppi a
distanza. I testi viaggiano attraverso i giornali, la radio e oggi sempre pi
spesso attraverso la posta elettronica; con Internet possibile ricevere in
America le versioni elettroniche dei giornali dellIndia, della ex-Jugoslavia e
di altri paesi. Vi sono forum virtuali incentrati su argomenti quali i serbi e la
Serbia, i croati e la Croazia, oppure sulla Bosnia, la Macedonia o la
Slovenia, che forniscono materiali di grande interesse immediatamente
disponibili per i ricercatori e per altri osservatori partecipanti in tutto il
mondo. Cos un lettore attento pu tenersi aggiornato sulle vicende politiche
e ideologiche della ex-Jugoslavia senza bisogno di passare molto tempo
direttamente sul campo.
Una ricerca sul campo a distanza di questo tipo semplicemente un
corollario delle condizioni transnazionali che gli antropologi hanno
evidenziato negli ultimi anni (v. p.es. Appadurai 1991; Basch et al. 1994).
Quando un antropologo americano di origine indiana, facendo ricerca
nellIndia meridionale, scopre che il sacerdote del tempio che vuole
incontrare si trova in Texas (Appadurai 1991, p. 201), non occorre forzare
troppo il concetto di lavoro sul campo per suggerirgli di andare in Texas a
intervistare il sacerdote. Del resto, questa situazione non affatto nuova in
antropologia. Dopo tutto, Lewis Henry Morgan raccolse gran parte dei
materiali sulla parentela del suo Systems of Consanguinity and Affinity
(1870) intervistando nativi (giapponesi e indiani dAmerica) ai quali
capitava di trovarsi proprio dove si trovava lui, a Rochester, ad Albany o a
New York.
La ricerca sul campo a distanza, tuttavia, pu essere ammessa solo dopo che
sia stata svolta una solida ricerca antropologica di tipo pi tradizionale, con
una prolungata residenza nella societ studiate e con la padronanza della
lingua. Inoltre, per la ricerca da lontano sono di grande utilit delle brevi
visite ai luoghi in questione. E questo il caso del lavoro che qui presento. La
mia ricerca sui legami tra le ideologie nazionaliste e la loro espressione
costituzionale cominci nel 1989, in quella che era ancora la Jugoslavia; a
quel punto, avevo gi passato pi di tre anni (in diversi periodi, a partire dal
1981) nel paese, lavorando ad altri progetti. Da allora, ho trascorso nella ex-
Jugoslavia periodi di quattro mesi nel 1991, pochi giorni nel 1993, tre
settimane e in seguito due mesi nel 1994 e dieci giorni nel 1995; ci mi ha
consentito di supportare la mia analisi dei testi attraverso interviste mirate.


La federazione multinazionale e il suo crollo

E noto il significato del termine balcanizzazione in inglese come in molte
altre lingue (ma v. Baki-Hayden, Hayden 1992; Todorova 1994), ed assai
diffusa lassunzione che i diversi popoli jugoslavi si siano sempre combattuti
a vicenda. Per questo, occorre specificare meglio lasserzione che la ex-
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Jugoslavia era uno Stato magari non proprio pacifico, ma in cui le tensioni
etniche e nazionaliste non dominavano la vita quotidiana. In questo e nel
prossimo paragrafo mi concentrer dunque sulla comunit jugoslava,
esaminando dati che mostrano una presenza eterogenea nei suoi territori e la
mescolanza, in tutti i sensi, dei popoli che ne facevano parte. La Jugoslavia
esistita dal 1945 al 1991 era uno Stato multinazionale, basato sul
multiculturalismo, in cui nessun singolo gruppo rappresentava una
maggioranza. E vero che, con una eccezione, era composta da repubbliche
abitate da un gruppo di maggioranza, da cui queste prendevano il nome (ad
esempio i serbi in Serbia, i croati in Croazia ecc.), ma tutte queste
repubbliche avevano consistenti minoranze. Leccezione era rappresentata
dalla repubblica di Bosnia ed Erzegovina, che non aveva un gruppo
maggioritario: nel 1981 la sua popolazione era composta da musulmani
(39,5%), serbi (32%), croati (18,4%), jugoslavi (7,9%), e altri o ignoti
(2,2%). Nel censimento del 1991 le proporzioni erano, rispettivamente, del
43,7%, 31,4%, 17,3%, 5,5%, 2,1% (Petrovi 1992, p. 4). Allaltra estremit
dello spettro la popolazione della Slovenia, la repubblica pi omogenea,
comprendeva il 90,5% di sloveni nel 1981 e l87,6% nel 1991 (Ibid., p. 9).
La geografia politica del paese rifletteva queste concentrazioni territoriali.
La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia (1945-1991/92) era una
federazione di sei repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia,
Montenegro, Serbia, Slovenia) e due province autonome allinterno della
repubblica di Serbia (Vojvodina e Kosovo). Con leccezione della Bosnia-
Erzegovina, ogni repubblica o provincia autonoma rappresentava larea di
maggior concentrazione territoriale di uno dei grandi gruppi nazionali che
formavano la Jugoslavia. Nel 1991, ad esempio, il 99,3% degli sloveni in
Jugoslavia vivevano in Slovenia, mentre il 70,6% dei montenegrini vivevano
in Montenegro.
Nelle libere elezioni tenute nel 1990, dopo il crollo della Lega dei comunisti,
il messaggio vincente in ogni repubblica fu quello del nazionalismo classico:
la Serbia ai serbi, la Croazia ai croati, la Slovenia agli sloveni, la Macedonia
ai macedoni. Nella Bosnia-Erzegovina il voto somigli a un censimento
etnico, con i partiti nazionalisti musulmano, serbo e croato che raccolsero
intorno all80% dei voti una proporzione solo leggermente inferiore a
quella di ciascun gruppo nazionale nella popolazione della repubblica. Il pi
importante partito che sosteneva luguaglianza di tutti i cittadini, lAlleanza
delle Forze Riformiste della Jugoslavia, del primo ministro federale, ottenne
solo il 5,6% dei voti meno del 6% ottenuto dai comunisti riformati
(Hayden 1993a). I politici vittoriosi in Serbia, Slovenia e Croazia lavorarono
indipendentemente, ciascuno per le proprie ragioni, a indebolire il governo
federale, ottenendo quella sovranit di fatto prima ricordata (Woodward
1995; v. anche Jovic 1995). Cos ogni repubblica, eccetto la Bosnia-
Erzegovina, divenne un vero e proprio Stato-nazione basato sulla sovranit
del gruppo nazionale maggioritario.
I diversi movimenti politici nazionalisti erano giustificati dal principio di
autodeterminazione. Ma nella politica e nella cultura popolare jugoslava
questo famoso concetto aveva un significato particolare, con sinistre
implicazioni per ogni concezione di uno Stato civile di cittadini uguali.
Prendiamo unaffermazione contenuta nella prima riga della costituzione
jugoslava del 1974, che parla del diritto di ogni nazione
allautodeterminazione, compreso il diritto alla secessione[3]; qui il
riferimento non tanto alla popolazione o ai cittadini delle repubbliche, ma
alle nazioni, narodi (singolare: narod), della Jugoslavia, etnicamente
definite. Ad ognuna di queste nazioni si riconosceva una repubblica, ma
erano state le nazioni, non le repubbliche, ad essersi unite per formare lo
Stato jugoslavo. Le repubbliche jugoslave, diversamente da quelle
dellUnione Sovietica, non avevano il diritto alla secessione.
Questa distinzione apparentemente arcana tra nazione e repubblica
come fonte dei diritti in realt di vitale importanza. Laspetto centrale dei
movimenti politici nazionalisti nati dopo il 1989 stato proprio lesplicita
fusione di nazione, etnicamente definita, e Stato. Questa formulazione,
per quanto non nuova nella storia europea, apparsa densa di sinistre
88


implicazioni per le minoranze che si sono trovate a vivere in Stati definiti
come gli Stati-nazione delle rispettive maggioranze etniche. Per definizione,
chi non appartiene alla maggioranza etno-nazionale pu essere soltanto un
cittadino di seconda classe. Il nucleo di tale distinzione risiede nel concetto
di sovranit. Raggiunto il potere nelle varie repubbliche jugoslave dopo le
elezioni del 1990, i politici nazionalisti riscrissero le rispettive costituzioni
repubblicane per fondare lo Stato sulla sovranit della nazione etnicamente
definita (narod), cosicch gli altri potevano essere cittadini ma non aspettarsi
un uguale diritto a partecipare al controllo dello Stato.
Dunque, le politiche nazionaliste nella Jugoslavia di fine anni 80 e dei primi
anni 90 trasformarono quelli che prima erano territori abitati da
concentrazioni dei vari gruppi nazionali in Stati in cui erano sovrani i
membri della nazione maggioritaria (v. Denich 1994; Hayden 1992a). I
politici presupponevano che i vari popoli jugoslavi non potessero vivere
insieme, e che dunque il loro comune Stato dovesse essere diviso. Il
successo elettorale di questo messaggio signific il crollo dellidea
jugoslava di uno Stato comune dei popoli slavi meridionali, unideologia
considerata come opposta e rivale alle ideologie nazionaliste di ogni gruppo
(Djilas 1991). Per invertire la celebre espressione di Benedict Anderson
(1983), la disintegrazione della Jugoslavia nel 1991-92 segn il fallimento
dellimmaginazione di una comunit jugoslava. Ma questo fallimento
dellimmaginazione ebbe conseguenze ben reali e tragiche. Quella comunit
jugoslava che non poteva esser mantenuta, e che era divenuta dunque
inimmaginabile, era per effettivamente esistita in molte parti del paese. La
mia tesi che la configurazione spaziale della guerra e la sua terribile ferocia
sono dovute al fatto che in alcune regioni i vari popoli jugoslavi non solo
coesistevano, ma erano sempre pi strettamente intrecciati. In una situazione
politica che traeva ad assunto lincompatibilit, questi territori misti
apparivano anomali e minacciosi, in quanto confutazioni viventi delle
ideologie nazionaliste. Per questo, le regioni miste non potevano esser
lasciate sopravvivere come tali e le loro popolazioni, che si stavano
volontariamente mescolando, dovevano essere separate militarmente.


Eterogeneit, matrimoni misti e jugoslavi

Nonostante la persistenza di alti livelli di concentrazione territoriale dei
gruppi nazionali nelle rispettive repubbliche, in Jugoslavia il livello di
eterogeneit etnonazionale era in aumento. Ad esempio, in Slovenia la
concentrazione della popolazione slovena aumenta dal 97,7% del 1981 al
99,3% del 1991(Petrovic 1992, p. 15). Tuttavia, nello stesso decennio
lomogeneit della Slovenia decresce: nel 1981 il 90,5% della popolazione
era composta da sloveni, a fronte dell87,6% del 1991 (Ibid., p. 9). E la
Slovenia non uneccezione: dal 1953 al 1981 quasi tutti i territori della
Jugoslavia divengono sempre pi eterogenei (Petrovic 1987, p. 48); in altre
parole, in quasi tutte le repubbliche e le province diminuisce la percentuale
di popolazione composta dal gruppo nazionale maggioritario. Le eccezioni
sono le due province autonome della Serbia, la Vojvodina e il Kosovo. In
Vojvodina aumenta la maggioranza serba, in parte a causa del basso indice
di natalit nel secondo gruppo nazionale, gli ungheresi. Nel Kosovo aumenta
la maggioranza albanese, in parte per i suoi alti indici di natalit e per la
massiccia emigrazione serba dalla provincia[4]. Tra il 1981 e il 1991,
leterogeneit cresce in Montenegro, Macedonia, Slovenia e Serbia, ma
decresce in Croazia[5] e Bosnia-Erzegovina (Petrovic 1992).
Parallalemente alla crescente eterogeneit di molte repubbliche, si registra
un aumento nelle percentuali di matrimoni misti fra membri dei differenti
gruppi nazionali. Di solito, i matrimoni misti sono indice di crescente
assimilazione e integrazione fra i gruppi sociali (v. p. es. Blau et al. 1982).
Dai primi anni 50 fino agli anni 80, i matrimoni misti aumentano in
Jugoslavia sia in numero assoluto sia in proporzione agli altri matrimoni
(Vreme 1991): in particolare, divengono frequenti quelli tra serbi e croati, e
89


fra serbi e musulmani in Bosnia-Erzegovina. Come ci si poteva aspettare, le
percentuali pi alte di matrimoni misti si registrano nelle aree in cui le
popolazioni sono pi strettamente intrecciate: le grandi citt, le province
della Vojvodina, della Bosnia-Erzegovina, e quelle parti della Croazia con
ampi gruppi di serbi e croati[6].
Si ritiene spesso che serbi e croati siano divisi da un odio antico. Occorre
allora riflettere sul dato della loro sempre pi stretta convivenza nel
dopoguerra, nonostante i terribili massacri dei serbi perpetrati dal regime
fascista dello Stato indipendente di Croazia dal 1941 al 1945[7]. Secondo
il censimento del 1991, il 12,2 % della popolazione della Croazia era
costituito da serbi, soprattutto residenti a Zagabria, ma anche concentrati in
altre parti della repubblica come la Slavonia, la Banija, il Kordun e la Lika.
Nella Lika la popolazione era quasi interamente serba e cerano pochi
matrimoni misti, ma in aree dove serbi e croati vivevano fianco a fianco, i
matrimoni misti erano assai numerosi. Ad esempio nella citt di Petrinja
nella Banija, dove la popolazione era divisa quasi a met fra serbi e croati,
circa il 25% dei matrimoni erano misti; nelle maggiori citt della Slavonia la
percentuale di matrimoni misti aumentava, raggiungendo il culmine con il
35% nella citt di Pakrac (Borba 1991).
Un ulteriore indicatore di eterogeneit pu esser trovato nelle percentuali di
coloro che nei censimenti si identificavano come jugoslavi invece che
come serbi, croati, musulmani o altri gruppi nazionali. Tra i censimenti del
1971 e del 1981 il numero degli jugoslavi aumenta nettamente, passando
dall1,3 al 5,4% dellintera popolazione (Berg e Berbaum 1989). Ma la
distribuzione territoriale di questi jugoslavi etnici era tuttaltro che
omogenea. Nel 1981 essi vivevano soprattutto a Belgrado e in Vojvodina per
quanto riguarda la Serbia, nei maggiori centri industriali della Bosnia-
Erzegovina e dellIstria, e in alcuni grandi centri o nelle regioni miste della
Croazia (Petrovic 1987, pp. 152-3; Danas 1991). La distribuzione di questi
jugoslavi in termini di et, ancora nel 1981, indica che questa identit era
scelta principalmente da giovani; il che aveva condotto alcuni studiosi ad
azzardare lipotesi che la Jugoslavia stesse sviluppando un crescente senso
di comunit, rendendo prevedibile un crescente sostegno alla comunit
multinazionale e una sempre maggiore autoidentificazione dei cittadini come
jugoslavi (Burg e Barbaum 1989; ipotesi peraltro soffocata dallo sviluppo,
alla fine degli anni 80, di quella stessa politica nazionalista che ha distrutto
la Jugoslavia).
Certo, questi dati statistici non dimostrano la dissoluzione delle identit
nazionali; chiaro per che nei primi anni 80 lidentit nazionale non stava
al primo posto negli interessi della gente. Gli etnografi che hanno lavorato
nelle regioni miste negli anni 80 mostrano che le differenze nazionali erano
s riconosciute, ma il livello delle tensioni rimasto basso fino a quando non
sono intervenuti a rinfocolarle eventi politici provenienti dallesterno di
queste regioni.[8]
E stato lo sviluppo dei nazionalismi rispettivamente ostili a far scendere
drasticamente la percentuale di jugoslavi in tutto il paese, dal 5,4% del 1981
al 3% nel 1991 una caduta del 41,3%. Ma anche qui il declino avvenuto
in modo diverso a seconda delle repubbliche. La percentuale di jugoslavi
diminuita in modo pi drammatico in Croazia, da 8,2 a 2,2% (una caduta del
72,3%); in Bosnia-Erzegovina il declino stato del 26,5%, in Serbia del
28,1%, in Slovenia del 53,4% (Petrovic 1992). La percentuale di jugoslavi
rimasta alta nelle regioni pi miste: in Bosnia-Erzegovina (5,5%) e nelle
aree miste della Croazia, quelle in cui gli jugoslavi erano stati pi numerosi
nel 1981 (Danas 1991).
Si deve tener presente che la diminuzione di chi si identificava come
jugoslavo legata probabilmente alla consapevolezza dei crescenti rischi
che una simile ufficiale autodefinizione comportava. Durante il censimento
dellaprile 1991, in molti mi dissero che avrebbero preferito continuare a
definirsi jugoslavi, ma che, nel clima sciovinista allora dominante, temevano
che ci potesse costar loro il posto di lavoro e persino la confisca delle
propriet[9].
90


Dunque, fino ai primi anni 90, molte parti della Jugoslavia erano
caratterizzate da una crescente eterogeneit della popolazione,
accompagnata da un numero crescente di matrimoni misti e di nascite di
bambini con genitori misti, nonch dallaumento della percentuale di coloro
che si identificavano come jugoslavi piuttosto che come membri di una
categoria etnonazionale. Ma la distribuzione di questi fattori era tuttaltro
che casuale. Leterogeneit era concentrata nella parte centrale del territorio
jugoslavo: la repubblica di Bosnia-Erzegovina, le parti della Croazia
confinanti con la Bosnia-Erzegovina e con la Vojvodina, la Vojvodina
stessa. In queste aree, lidea che i popoli jugoslavi non potessero vivere
insieme pacificamente era empiricamente priva di senso. Questi territori in
cui lintreccio fra popolazioni era stato pi completo sono stati eccetto la
Vojvodina i principali teatri di guerra e la ragione forse consiste proprio
nel loro rappresentare una confutazione vivente delle ideologie nazionaliste
dominanti dalla fine degli anni 80. Affermare questo non significa attribuire
potere causale al modello strutturale individuato; empiricamente, la causa
primaria della guerra consiste nel fatto che i nazionalismi rivendicavano
quegli stessi territori misti e intendevano combattere per ottenerli. Ma il
modello strutturale pu aiutarci a capire in che modo i fatti empirici della
pulizia siano potuti diventare accettabili, forse persino desiderabili[10].


Nazionalismo costituente

Le libere elezioni jugoslave del 1990, contrariamente alla retorica ufficiale
dei vincitori e di molti osservatori occidentali, non sostituirono il socialismo
di Stato con la democrazia. La transizione fu piuttosto da un regime volto a
promuovere gli interessi di quella parte della popolazione costituzionalmente
definita come classe lavoratrice e tutti i lavoratori (Hayden 1992a) a
regimi volti a promuovere gli interessi di quella parte della popolazione
definita come maggioranza etnonazionale. In questo senso, la transizione fu
dal socialismo di Stato allo sciovinismo di Stato e il nemico di classe del
socialismo fu sostituito dal nemico nazionale, identificato da ciascun
sciovinismo locale (ibid.). Ovviamente, questi nemici nazionali erano prima
di tutto i membri della principale minoranza di ciascun Stato, oltre agli
eventuali membri della maggioranza schierati a favore dei diritti della
minoranza.
Una volta al potere, i nazionalisti cominciarono in ciascuna repubblica a
praticare sistemi di nazionalismo costituzionale, nel senso di sistemi
costituzionali e giuridici volti ad assicurare il dominio del gruppo
etnonazionale di maggioranza (Hayden 1992). Ad esempio, la costituzione
della Croazia (1990)[11], nel suo preambolo fornisce una sintesi storica
degli sforzi della nazione (narod) croata di stabilire una piena sovranit
di Stato. Dopo aver menzionato linalienabilediritto della nazione croata
allautodeterminazione e alla sovranit di Stato, la repubblica di Croazia si
instaura come Stato nazionale della nazione croata, e Stato dei membri delle
altre nazioni e minoranze che vivono al suo interno (Costituzione della
Repubblica di Croazia 1990, preambolo). In tutti questi passaggi, la nazione
croata (Hrvatski narod) ha una connotazione etnica ed esclude tutti quelli
che non sono etnicamente croati. Questa definizione esclusivista dei
portatori di sovranit rafforzata dagli emblemi dello Stato: una bandiera e
uno stemma con figurazioni associate solo ai croati (art.11), e la
specificazione che il linguaggio e la scrittura ufficiale della Croazia sono la
lingua croata e la scrittura latina (art. 12), escludendo cos i dialetti serbi e
lalfabeto cirillico solitamente usato per scriverli[12]. imili formulazioni di
nazionalismo costituzionale si sono diffuse in altre repubbliche (Hayden
1992a , pp. 658-663). La transizione dal socialismo di Stato allo sciovinismo
di Stato appare evidente nelle formulazioni dellidentit e delle finalit dello
Stato, contenute nelle diverse costituzioni repubblicane. Mentre le
costituzioni socialiste fondavano lo Stato sulla duplice sovranit della
classe lavoratrice e di tutti i lavoratori da un lato e dallaltro delle nazioni
e nazionalit della Jugoslavia, il crollo del socialismo ha lasciato spazio a
91


ununica sovranit (Samardzic 1990, p. 31). Inoltre, la formazione di uno
Stato per ognuna di queste nazioni sovrane stata giustificata dal diritto di
autodeterminazione. Lo si pu vedere nei preamboli o nelle prefazioni alle
varie costituzioni (i corsivi sono aggiunti):

Premesso () linalienabile e inestinguibile diritto allautodeterminazione e
alla sovranit di Stato della nazione croata, si instaura la Repubblica di
Croazia come Stato nazionale della nazione croata e come Stato dei membri
delle altre nazioni e minoranze che sono suoi cittadini. (Costituzione della
Repubblica di Croazia 1990, Preambolo)

Considerato il patrimonio storico, culturale e spirituale della nazione
macedone e la sua secolare lotta per la libert nazionale e sociale, cos come
per la creazione di un proprio Stato () in Macedonia si instaura lo Stato
nazionale della nazione macedone. (Costituzione della Repubblica di
Macedonia 1991, Preambolo)

Sulla base dello storico diritto della nazione montenegrina ad uno Stato
proprio, consolidato in secoli di lotta per la libert () il parlamento del
Montenegro () promulga e proclama la Costituzione della Repubblica del
Montenegro. (Costituzione della Repubblica del Montenegro 1991,
Preambolo)

Premessa la secolare lotta della nazione serba per lindipendenza () volta
allinstaurazione di uno Stato democratico della nazione serba () i
cittadini della Serbia promulgano la costituzione della Repubblica della
Serbia. (Costituzione della Repubblica della Serbia 1992, Preambolo)

Premesso il diritto fondamentale e perdurante della nazione slovena
allautodeterminazione e premesso il fatto storico che gli sloveni, dopo
secoli di lotta per la liberazione nazionale, hanno formato una loro identit
nazionale e istituito una loro propria sovranit, il parlamento della
Repubblica di Slovenia promulga la costituzione della Repubblica di
Slovenia. (Costituzione della Repubblica di Slovenia, 1990, Preambolo)

Sebbene non riconosciuta a livello internazionale, la Repubblica della
Krajina serba - Stato serbo che si autoproclamato in Croazia - nella sua
costituzione si definita usando pi o meno gli stessi termini degli Stati
ufficiali di nuova costituzione che abbiamo visto sopra[13]:

Premesso il diritto della nazione serba allautodeterminazione () e la
secolare lotta per la libert (), decisa allinstaurazione di uno Stato
democratico della nazione serba sul suo storico ed etnico suolo, in cui agli
altri cittadini viene garantita la realizzazione dei loro diritti nazionali, di uno
Stato basato sulla sovranit appartenente alla nazione serba e ai cittadini ivi
presenti () la nazione serba della Repubblica della Krajina serba ()
proclama la costituzione della Repubblica della Krajina serba. (Costituzione
della Repubblica della Krajina serba 1991, Preambolo)

Allo stesso modo, la Rebupplica Srpska, l entit serba in Bosnia-
Erzegovina stabiliva:

Premesso il naturale, inalienabile e non trasferibile diritto della nazione
serba allautodeterminazione, autorganizzazione e associazione, sulla cui
base si costituisce liberamente il proprio status politico e si assicura lo
sviluppo economico, sociale e culturale () si dichiara la volont [della
nazione serba] di stabilire autonomamente il proprio destino e di dichiarare
la sua ferma intenzione di instaurare un proprio Stato sovrano e democratico
() il parlamento della nazione serba in Bosnia e Erzegovina proclama la
costituzione della Repubblica Srpska. (Costituzione della Repubblica Srpska
1992, Preambolo)

92


In ognuno di questi preamboli, la parola nazione (narod in tutte le lingue
contemplate) ha una connotazione etnica; narod ha la stessa radice (rod) del
verbo roditi (generare, nascere). Quando preceduta dallaggettivazione
etnica (croata, macedone, montenegrina, serba, slovena) lespressione
esclude automaticamente tutti quegli individui di cui non sia specificata
lappartenenza etnica. Dalle citazioni riportate prima e soprattutto dalle parti
in corsivo, chiaro che la nascita delle diverse repubbliche ex-jugoslave
considerata una manifestazione del diritto allautodeterminazione cio del
diritto di formare un proprio Stato del gruppo etnico di maggioranza, che
prende il nome di nazione (narod). Negli esempi considerati non mancano
comunque accenni al diritto di uguaglianza delle minoranze. Di tuttaltra
natura il preambolo della costituzione degli Stati Uniti, la quale stabilisce
semplicemente che Noi, popolo degli Stati Uniti, decretiamo e
stabiliamo questa costituzione.[14]
La realt della Bosnia-Erzegovina, cos come accadde per la stessa ex
federazione jugoslava, nasce dal fallimento di un tentativo di definire lo
Stato in modo da riconoscere la sovranit di tutti i gruppi presenti, senza
privilegiarne nessuno. Lultima costituzione socialista della Bosnia-
Erzegovina (1974) definiva la repubblica come

Stato democratico e socialista, comunit autonoma, democratica, socialista,
di lavoratori, cittadini, nazioni [narodi] di Bosnia e di Erzegovina
musulmani, serbi, croati e membri di altre nazioni e nazionalit ivi presenti -
fondato sulla sovranit e lautonomia della classe lavoratrice e di tutti i
lavoratori, nonch sulla sovranit e luguaglianza delle nazioni di Bosnia e
Erzegovina e dei membri di altre nazioni e nazionalit ivi presenti. (art. 1)

Con il crollo del socialismo questa definizione stata sostituita da un
emendamento costituzionale, il cui larticolo 1, dedicato alla definizione
dello Stato, recitava:

La Repubblica socialista di Bosnia e Erzegovina uno Stato democratico
sovrano, in cui tutti i cittadini godono di pari diritti. composto dalle
nazioni di Bosnia e Erzegovina da musulmani, serbi, croati e membri di
altre nazioni e nazionalit ivi presenti.[15]

Questa definizione non soddisfaceva ancora le aspirazioni dei politici serbi e
croati della Bosnia-Erzegovina. Ci avveniva in parte a causa della difficolt
di definire lo Stato: in Bosnia-Erzegovina non era stata emanata nessuna
nuova costituzione e cos, dopo il crollo dellex-Jugoslavia, i leader serbi e
croati proclamarono lindipendenza delle loro regioni allinterno della
Bosnia. Queste regioni assunsero in poco tempo una forma istituzionale
molto vicina a quella di un vero e proprio Stato, strettamente legate
rispettivamente alla Serbia e alla Croazia, e si resero indipendenti dal
governo della Bosnia Erzegovina, formalmente insediato a Sarajevo (v.
Shoup 1994). La guerra che segu provoc la separazione della Bosnia-
Erzegovina in due regioni destinate a divenire ben presto etnicamente pure
(v. Hayden 1993). Questa suddivisione fu una diretta conseguenza del crollo
dellex-Jugoslavia perch lautodeterminazione delle nazioni (narodi)
jugoslave, cio il programma politico messo in atto nel 1990, faceva s che i
serbi e i croati di Bosnia-Erzegovina venissero attirati inevitabilmente verso
lunione con i propri confratelli etnici.[16] Questa pratica di
autodeterminazione condusse alla guerra civile che provoc la distruzione
della Bosnia-Erzegovina.
La costituzione della Federazione di Bosnia e Erzegovina, scritta con laiuto
dei diplomatici americani e sottoscritta a Washington D.C. da croati e
musulmani nel marzo del 1994, si fonda su unidea di nazionalismo
costituzionale che esclude i serbi dai popoli sovrani della Bosnia-
Erzegovina. Mentre nel preambolo si dichiara Le popolazioni e i cittadini
della Bosnia e dellErzegovina, che hanno convenuto di stabilire piena
uguaglianza nazionale, relazioni democratiche e di rispettare sommamente i
93


diritti e le libert civili, si uniscono qui in federazione, larticolo 1 asserisce
che

Bosniaci e croati, in quanto popoli costituenti (insieme ad altri) e cittadini
della Repubblica di Bosnia e Erzegovina, nellesercizio del loro diritto
sovrano, trasformano la struttura interna dei territori a maggioranza bosniaca
e croata della Repubblica di Bosnia e Erzegovina in Federazione.[17]

Il termine Bosniac (bosniaco), anglicizzazione di Boniak, denota
semplicemente i musulmani e si differenzia da Bosnian (Bosnac). La prima
espressione usata per i musulmani considerati da un punto di vista etnico,
distinti quindi dai Muslimani dei quali non si accettano le specifiche
implicazioni religiose. In ogni caso, questo tipo di costituzione esclude i
serbi dalla struttura della federazione, riservando ai bosniaci musulmani e ai
croati il diritto di spartirsi i ruoli esecutivi (IV.B.1. art. 2-5) e assicurando
alle loro delegazioni un diritto di veto nella legislatura che gli altri gruppi
etnici non hanno (IV.A.4 art. 18). Lesclusione dei serbi divenne chiara
subito dopo la firma del disegno costituzionale a Washington, quando a
Sarayevo un congresso di serbi, fedeli allidea di uno Stato bosniaco
multietnico, chiese di essere incluso nei negoziati: essi furono ignorati (New
York Times 1994). Il trattato di pace di Dayton-Parigi, del dicembre 1995,
che produsse come primo effetto quello di far cessare almeno
temporaneamente la guerra in Bosnia, si rif ad unidea di nazionalismo
costituzionale molto simile a quello della costituzione federale del 1994, in
cui a musulmani e croati vengono riconosciuti pi diritti rispetto agli altri
gruppi etnici nella loro parte della Bosnia e lo stesso viene stabilito per i
serbi relativamente ai loro territori (v. Hayden 1995b).


Cittadinanza: denaturalizzazione come pulizia etnica amministrativa

Per il senso comune, cos come nella retorica di molti documenti
internazionali, il mondo si compone di nazioni. Tuttavia, da un punto di vista
istituzionale, il mondo si compone di Stati. Di solito i cittadini di uno Stato
posseggono dei diritti da cui sono esclusi invece coloro che cittadini non
sono. Questa situazione era quella esistente anche nelle repubbliche dellex-
Jugoslavia, ma una volta raggiunta lindipendenza, i governi dei singoli Stati
iniziarono ad indicare norme che stabilivano chi avesse il diritto di vivere l
e chi non lo avesse, chi poteva lavorare e chi no, a chi veniva concesso il
diritto di voto e a chi no, chi poteva contare su una copertura sanitaria e
godere di altri benefici e chi no e infine a chi si permetteva di possedere beni
immobiliari e a chi no. In ogni caso i cittadini godevano di alcuni diritti e
benefici, mentre i non-cittadini potevano goderne, nella migliore delle
ipotesi, solo provvisoriamente. La questione del diritto di cittadinanza negli
Stati nati dalla dissoluzione dellex-Jugoslavia dunque di estrema
importanza per le persone che vivono in quelle aree: senza cittadinanza non
si accede ai diritti fondamentali che permettono di condurre tranquillamente
la propria esistenza.
Bisogna sottolineare che per molti la questione della cittadinanza era del
tutto nuova. Come abbiamo visto, nella costituzione della Jugoslavia era
previsto un unico status di cittadinanza quello jugoslavo e in tutto il
Paese era garantito il principio di uguaglianza dei cittadini jugoslavi. Ad un
certo punto per il diritto alla cittadinanza di molti residenti nei nuovi Stati
indipendenti stato messo in discussione. Le nuove leggi che regolano il
diritto di cittadinanza sono state scritte con lintento di privilegiare i membri
appartenenti alla maggioranza di volta in volta sovrana, provocando cos una
discriminazione dei residenti che non appartengono al gruppo etnico di
maggioranza. In sostanza, i nuovi regimi di cittadinanza hanno da un lato
esteso la cittadinanza ai membri non residenti della maggioranza
etnonazionale, attraverso semplici procedure di naturalizzazione, dallaltro
lhanno negata a molti residenti che non appartengono al gruppo giusto.
Questultimo processo, che trasforma coloro che da sempre hanno vissuto in
94


Jugoslavia da cittadini a stranieri nelle loro stesse terre, pu essere definito
un processo di denaturalizzazione.
Questi meccanismi non sono stati inventati per la prima volta dai politici
delle repubbliche della ex-Jugoslavia. Lestensione del diritto di cittadinanza
ai connazionali (da un punto di vista etnico e religioso) non residenti la
conosciamo anche altrove, ad esempio in Israele e in Irlanda, mentre il
rifiuto della cittadinanza ad un alto numero di persone che fino a quel
momento avevano pensato di averlo acquisito era alla base dei propositi del
British Nationality Act del 1981 (Gilroy 1987). In questo ultimo caso,
tuttavia, molti dei potenziali cittadini che venivano denaturalizzati non
risiedevano in Gran Bretagna. Il sistema che vede combinate insieme da una
parte la facilitazione per la naturalizzazione e dallaltra la denaturalizzazione
dei residenti pu sembrare un provvedimento insolito, ma stato utilizzato
sia negli Stati nati dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia che dellex Unione
Sovietica (v. Brubaker 1992, 1993). La capacit di una comunit etnica
immaginata (Anderson 1983) di smantellare le comunit gi esistenti
allinterno dello scenario post-comunista sotto gli occhi di tutti.
Con la fine della Jugoslavia, per molti suoi ex cittadini si immediatamente
posta la questione pratica di ottenere la cittadinanza in uno dei nuovi Stati,
nei quali le regole e gli assetti istituzionali erano cambiati. La politica pi
inclusiva stata quella della Slovenia, il cui decreto sulla cittadinanza del
1991 un documento che non pone grossi ostacoli ad una politica di
inclusione: esso concede la cittadinanza a tutti i cittadini di altre repubbliche
jugoslave residenti in Slovenia al giorno in cui si tenne il plebiscito
sullindipendenza e gran parte delle domande sono state accettate
(Mazowiecki 1993, p. 44). Nonostante ci circa 50.000 cittadini jugoslavi
che erano stati censiti nel 1991 come residenti in Slovenia sono divenuti
stranieri dal momento in cui stata affermata lindipendenza di questa
repubblica (Vreme 1993, p.33). Altri Stati sono stati molto meno
accomodanti. A differenza di quanto previsto dalle leggi slovene, la legge
sulla cittadinanza croata del 1991 non prevedeva nessuna disposizione
particolare per i cittadini delle altre repubbliche jugoslave: essi erano
considerati alla stregua di stranieri qualsiasi che richiedevano la
naturalizzazione; per di pi i serbi della Croazia hanno lamentato il rifiuto di
molte delle loro richieste di cittadinanza o di naturalizzazione (v.
Mazowiecki 1992, p. 22, 1993a, p. 26-28). Sebbene le autorit croate si
siano pronunciate contro la discriminazione dei serbi, un numero
relativamente alto di richieste di cittadinanza sono state rifiutate (Vreme
1993, p. 34). La legge che regola il diritto di cittadinanza croata permette
infatti alle autorit locali di non accogliere le richieste, anche nel caso in cui
il candidato rispetti tutti i criteri ma esse siano dellopinione che
nellinteresse della Repubblica croata ci siano motivi per rifiutare la richiesta
di acquisizione della cittadinanza (art. 27, comma 2). Sempre lo stesso
articolo stabilisce che le autorit non hanno bisogno di rendere note le
ragioni del rifiuto di una richiesta (art.27, comma 3). Quindi le proteste dei
serbi erano in effetti fondate, perch le possibilit di discriminazione
esistono.[18]
Le leggi che regolano il diritto di cittadinanza e di naturalizzazione sono
interessanti perch ci indicano quali siano i meccanismi attraverso i quali
una comunit etnica da immaginata diventa manifesta e realizzabile. In
particolare queste leggi stabiliscono i requisiti per lacquisizione di uno
status di appartenenza ad una comunit e rendono manifesti i principi che
stanno alla base della sua definizione. Si prenda ad esempio il caso della
legge che regola la cittadinanza croata del 1991.[19] Larticolo 8 di questa
legge stabilisce quanto segue:

Un cittadino straniero che presenti una richiesta di acquisizione della
cittadinanza croata pu acquisire la cittadinanza croata attraverso la
naturalizzazione se risponde ai seguenti requisiti:

1) [Et richiesta: 18 anni]
2) [omissis]
95


3) che prima di presentare la richiesta, egli abbia avuto residenza
legale nel territorio della Repubblica croata per un periodo non inferiore a
cinque anni senza interruzioni
4) che sia perfettamente competente di lingua croata e di scrittura con
alfabeto latino
5) che si possa dedurre dalla sua condotta che egli aderisce alle leggi
e alle consuetudini della Repubblica croata e che accetta la cultura croata.

A prima vista sui punti 3 e 4 di questo articolo non sembra che ci sia molto
da contestare e invece entrambe si prestano ad uninterpretazione
discriminatoria. Il requisito della residenza fortemente condizionato dalla
precisazione senza interruzioni (neprekidno). Ancora pi interessante la
restrizione relativa alla lingua. I dialetti conosciuti fino ad oggi come serbo-
croato o croato-serbo sono in realt moltissimi e mescolati tra loro: una parte
della popolazione serba parla un dialetto simile a quello in uso presso la
maggioranza dei croati, cos come alcuni croati parlano un dialetto simile a
quello pi diffuso tra i serbi (v. Hammel 1993, p. 7-8). I serbi preferiscono
usare lalfabeto cirillico, mentre i croati non lo usano quasi mai. Dunque il
criterio linguistico pone dei problemi: una persona che parla il dialetto di
Belgrado competente in lingua croata? Chi lo decide e su quali basi? Un
dialetto serbo va bene se chi lo parla etnicamente croato, mentre non va
bene se non lo ?
Ma il punto 5 ancora pi significativo. Che cosa pu significare infatti
esattamente accettare la cultura croata e come fa qualcuno a comportarsi
in modo da mostrare di averla accettata? Se uno dei pi importanti tratti
distintivi della cultura croata il cattolicesimo della Chiesa romana, questo
significa che ci si deve convertire a questa fede? Altrimenti, che cosa
implica laccettazione della cultura croata? Questo requisito legale prende un
concetto che gli antropologi chiamerebbero descrittivo o analitico e lo rende
prescrittivo; anche se poi il concetto resta vuoto di contenuto specifico.
Questa visione prescrittiva della cultura la trasforma in definitiva in un
oggetto (Kapferer 1988, p. 2; cfr. Handler 1988, p. 14). Lessenzialismo si
trasforma in razzismo quando si pensa di poter trapiantare una cultura
reificata in un altro paese, dove il popolo scelto minoritario.[20] Nel caso
della Croazia queste implicazioni diventano evidenti nelle leggi relative agli
emigranti e ai loro discendenti (art.11) o in quelle che si occupano dei
membri della nazione (narod) croata che non risiedono in Croazia (art. 16).
Per entrambe le categorie, la cittadinanza croata pu essere acquisita anche
se il candidato non risponde ai requisiti stabiliti nellarticolo 8, sezioni 1-4,
mentre i requisiti della sezione 5 rimangono tassativi. Per un antropologo
lidea di separare completamente la lingua dalla cultura sicuramente
bizzarra, ma ripetuto due volte e quindi non pu trattarsi di una svista. Tali
limitazioni rappresentano un espediente per estendere la cittadinanza solo ai
croati etnici (ad esempio il figlio di un emigrante croato nato in
Croazia oppure il figlio di una croato etnico che vive in Serbia) e per
negarla ad altri individui che si trovino in situazioni simili (ad esempio il
figlio di un emigrante serbo proveniente dalla Croazia). Complessivamente
le limitazioni alla naturalizzazione previste dalla legge sul diritto di
cittadinanza croata possono portare a situazioni in cui, per esempio, ad un
musulmano che proviene dalla Bosnia ma che vive da lungo tempo in
Croazia ed madrelingua croato (cio si esprime in uno dei dialetti che
siamo soliti chiamare lingua serbocroata) viene negata la cittadinanza,
mentre ad un croato etnico che viene dagli Stati Uniti, che non sia mai stato
in Croazia e che non conosca la lingua, la cittadinanza venga garantita. Non
sappiamo quanti casi di questo genere ci siano in Croazia, ma interessante
notare che anche per quanto riguarda le leggi slovene sulla naturalizzazione,
esse pongono delle restrizioni che avvantaggiano gli sloveni etnici. Cos
50.000 cittadini dellex-Jugoslavia residenti in Slovenia non hanno potuto
acquisire la cittadinanza slovena, mentre 25.000 sloveni etnici che
provenivano da territori esterni alla Slovenia lhanno acquisita.[21] Ancora
una volta, la capacit delle comunit etniche immaginate di distruggere
96


comunit reali sotto gli occhi di tutti. Le nuove leggi che regolano il diritto
di cittadinanza forniscono gli strumenti legislativi per escludere su basi
etniche alcuni individui dalla cittadinanza, costruendo cos le premesse per
la pulizia etnica amministrativa.

Autodeterminazione, uniformazione e pulizia etnica

La logica dellautodeterminazione nazionale in Jugoslavia non ha solo
legittimato luniformazione della popolazione, ma ha anche reso il processo
cos logicamente coerente da divenire inarrestabile. La guerra, nel suo
svolgimento, ha seguito proprio questa logica di costruzione dello stato-
nazione tramite leliminazione delle minoranze. Ci che pu essere ottenuto
amministrativamente da un regime maggioritario in uno Stato con una
maggioranza schiacciante, deve essere perseguito in altri modi se la
maggioranza non ha sufficiente potere di governo: in particolare, attraverso
linvasione militare e la conseguente espulsione della popolazione
indesiderata.
I serbi inizialmente si sono impossessati della maggior parte del territorio e
hanno quindi commesso il pi alto numero di violazioni dei diritti umani.
Nondimeno nel 1993 le azioni militari croate dirette a fondare una Herceg-
Bosna etnicamente pura, cercarono di ottenere lo stesso risultato anche nella
Bosnia centrale (Mazowiecki 1993a, p. 8-10, 1994, p. 6) e a Mostar
(Mazowiecki 1993a). Gli scambi di popolazione furono eseguiti sempre
con questo proposito (Mazowiecki 1994, p. 9-10).
Alla fine del 1994 la guerra aveva prodotto il quasi completo trasferimento
delle popolazioni al di fuori di Sarajevo, come mostra la tabella 11.1.
Durante la primavera e lestate del 1995 si accelerato questo processo di
espulsione della popolazione, di cui si sono rese protagoniste tutte le parti in
conflitto. A maggio lenclave serba della Slavonia occidentale stata
attaccata dai croati. In quelloccasione quasi tutti i serbi che si trovavano in
quella parte di Croazia sono stati espulsi. A luglio lesercito serbo conquist
due delle aree di sicurezza musulmane nella Bosnia orientale ed espulse o
uccise tutti i residenti. Ad agosto i croati attaccarono la Krajina ed espulsero
quasi 200.000 serbi dalla Croazia. Questo evento stato il pi pesante atto di
pulizia etnica nel corso delle guerre balcaniche. Tra il luglio del 1991 e
lagosto del 1995, pi dell85 per cento dei serbi che abitavano in Croazia
erano stati costretti a lasciare la loro terra (Vreme 1995).
In Croazia, lestate del 1995 port con s le pi grandi ondate di pulizia
etnica, compiute dai diversi eserciti. A luglio, come gi ricordato, i serbi
bosniaci occuparono due aree di sicurezza nella Bosnia orientale e ne
espulsero o uccisero gli abitanti. A settembre i musulmani, aiutati
dallesercito croato, dettero vita ad unoffensiva nella Bosnia occidentale
che spinse decine di migliaia di serbi fuori dai settori centro-occidentali della
Bosnia, appena a nord della linea Jajce-Bihac. Prima dello scoppio della
guerra gran parte di questa regione era popolata quasi esclusivamente da
serbi. Gli effetti di queste azioni militari sulla distribuzione della
popolazione sono sintetizzati nella tabella 11.2.
Malgrado la comunit internazionale abbia in pi di unoccasione fatto
presente che non avrebbe accettato una spartizione della Bosnia su basi
etniche, il trattato di pace di Dayton-Parigi invece fa proprio questo,
riconoscendo che la Bosnia composta di due entit, la federazione
croata-musulmana e la Repubblica Srpska, ognuna delle due fondata su
una propria costituzione (Hayden 1995b). Dal momento che, come detto
prima, queste costituzioni definiscono i loro rispettivi Stati in termini etnici,
questo accordo legittimava a livello internazionale la suddivisione della
Bosnia su base etnica. Ma la suddivisione si era gi realizzata nel territorio:
la Bosnia multietnica che esisteva un tempo, prescrittiva dal punto di vista
della comunit internazionale, non esiste pi e quindi non pu pi essere
prescrittiva.


97


Tabella 11.1 Alta commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR).
Stima della popolazione

Censimento 1991 Stima novembre 1994
Federazione croato-
musulmana

Serbi
Croati e Musulmani



205.185
1.209.804



36.000
1.673.000
Territori occupati dai
Serbi

Serbi
Croati e Musulmani



928,857
838.190



1.169.000
73.000
Enclavi esterne

Serbi

Musulmani


20.000
80.000


nessuno
115.000
Fonte: Rapporto della guerra balcanica 1995, p. 5



Dallottimismo della ragione al pessimismo della volont

Ho cercato di presentare la pulizia etnica come unespressione della
incompatibilit tra le culture oggettivate o reificate che stanno alla base delle
diverse imprese nazionaliste, da un lato, e dallaltro le culture viventi delle
zone che sono state teatro delle pi atroci violenze. Una simile analisi
intellettualmente rassicurante ma anche molto preoccupante. Da un punto di
vista intellettuale ci si sente incoraggiati nel sapere che le categorie
dellanalisi antropologica possono spiegare il perch della violenza che ha
distrutto le regioni etnicamente pi eterogenee della ex-Jugoslavia. Un
razionalista potrebbe affermare che nel momento in cui conosciamo a fondo
il fenomeno in questione, forse possiamo evitare che questo si ripeta nel
futuro in unaltra parte del mondo.
Ma un altro tipo di ragionamento razionale pu indurci al pessimismo. La
pulizia etnica ha a che fare con la violazione categoriale. Se nel mito e nei
sogni le contraddizioni possono non risolversi, nel campo della politica
culturale forte la tendenza a conformare il mondo alla nostra visione di
come dovrebbe essere. Che tale visione sia empiricamente infondata
irrilevante. Anzi, quando essa diviene largamente sostenuta, la sua falsit
empirica rende pi feroce la determinazione a realizzarla.
Un punto di vista comparativo pu forse aiutarci a riflettere meglio. Quando
parliamo di pulizia etnica di solito ci riferiamo a casi avvenuti nel corso del
XX secolo soprattutto, anche se non esclusivamente, in Europa. Se si
considerano alcuni di questi esempi possiamo notare come il processo abbia
avuto successo creando una nuova realt. Per esempio, nel 1945 la Polonia
espulse sei milioni di tedeschi e di nuovo tre milioni di ebrei polacchi furono
eliminati tra il 1939 e il 1946, uccisi o deportati nei campi di sterminio. Il
risultato fu la creazione di uno degli Stati europei pi puri dal punto di vista
etnico, condizione questa che di solito viene considerata un vantaggio ai fini
del passaggio ad una democrazia post-socialista. Allo stesso modo
lespulsione di pi di tre milioni di tedeschi dalla Cecoslovacchia nel 1945
ha fatto s che la Repubblica ceca di recente formazione sia oggi etnicamente
pura e quindi, come nel caso della Polonia, pronta per la democrazia.
LUngheria, un altro Stato prossimo ad entrare a far parte dellUnione
Europea e della Nato, divenne etnicamente pura dopo la prima guerra
mondiale, a causa della perdita dei territori in cui la popolazione ungherese
viveva accanto ad altre nazionalit. Slovacchia, Romania, e Serbia sono state
coinvolte in tensioni etniche interne con gli ungheresi, ma in Ungheria non
vive nessuno straniero. Durante le guerre dei Balcani, lespulsione di serbi
98


dalla Croazia fu giudicata dallambasciatore americano in Croazia come un
passo avanti sulla strada della fine del conflitto (OMRI Daily Report 1995).
Quello della pulizia etnica in Europa un fenomeno che si dimostrato
efficace sia per ricostruire una data realt sociale che per ottenere consenso
politico.
Di fronte a queste esperienze storiche e a quella delle guerre balcaniche,
forse mi si permetter di capovolgere il famoso motto di Gramsci. Come
antropologi possiamo ora comprendere molto bene i processi che portano
alla pulizia etnica; ma sappiamo altres che, una volta innescati, questi
processi difficilmente possono essere fermati. Lottimismo della ragione
conduce in questo caso al pessimismo della volont.


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[1] Il tentativo didistinguere tra Balcani ed Europa ha caratterizzato
buona parte delle riflessioni sulla legittimit e sulla necessit dei
provvedimenti relativi al crollo della Jugoslavia e delle guerre che ne sono
seguite. Si vedano Baki-Hayden 1995, Baki-Hayden, Hayden 1992 e
Todorova 1994. Ne sono stati protagonisti non solo alcuni politici jugoslavi,
ma anche tutti coloro che nello scenario mondiale si sono occupati della
crisi della ex-Jugoslavia. Considerata per la portata delle devastazioni che
101


gli Europei sono stati capaci di causare gli uni agli altri, per tacere di
quanto accaduto nel resto del mondo, in quello che Gnther Grass ha
chiamato il secolo dellespulsione, propongo di abbandonare un esercizio
retorico cos ambiguo e sospetto.
[2] In questo saggio non ho potuto approfondire largomento, ma credo che
lelemento che Gunnar Myrdal nel 1944 pose alla base del dilemma
americano il razzismo trovi un parallelo in quello che nel dilemma
europeo il nazionalismo o in quello dellAsia del sud il comunalismo.
Si noti che, in tutti questi casi, il dilemma di tipo morale e nasce dalla
presenza di distinzioni apparentemente naturali allinterno di una prassi
politica che si dichiara democratica.
[3] Cosituzione della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia del
1974, Parte introduttiva, Principi fondamentali.
[4] La Bosnia-Erzegovina ha mostrato una tendenza alquanto diversa: alla
pluralit serba registrata nel 1961 fece seguito una pluralit musulmana nel
1971, cio successivamente al riconoscimento dello status di musulmano
come nazionalit avvenuto nel 1967 e la conseguente modifica nella
dichiarazione di nazionalit di molti che si erano definiti serbi nel 1961. Si
veda Petrovi 1987, p. 47.
[5] Lincremento della percentuale di croati in Croazia nel censimento del
1991 stato determinato probabilmente dal fatto che molti che si erano
definiti jugoslavi nel 1981 sono stati censiti in seguito come croati. Il
numero di jugoslavi in Croazia diminuito del 72% tra questi due
censimenti: dall8,2% della popolazione nel 1981 al 2,2% nel 1991
(Petrovi 1992, p. 7).
[6] Non trovo convincente largomento recentemente esposto d Botev e
Wagner (1993), secondo i quali i matrimoni misti non sarebbero aumentati
in Jugoslavia. Essi considerano infatti i dati aggregati a livello di
repubbliche, non tenendo conto delle variazioni regionali. Inoltre, quello
che gli autori giudicano un basso numero di matrimoni misti in realt un
dato molto rilevante per il suo valore simbolico. Diversamente Ivan iber
dellUniversit di Zagabria ha documentato un netto calo dei matrimoni
misti in Croazia a partire dal 1991, interpretando questo dato come un
segno delluniformazione della popolazione (Feral Tribune 1994).
[7] La gravit di questi massacri divenuto il tema di un acceso dibattito
della fine degli anni 80, in cui gli storici croati hanno tentato di
minimizzare le cifre. Si veda Boban 1990; per un dibattito su questo si
vedano Boban 1991, Hayden 1992b, 1993b, 1994). Si pu valutare la
suscettibilit croata su questo argomento sulla base del feroce attacco che
travalica di gran lunga i dettami della convenienza nella tradizione
americana ai commenti di Hayden su Boban da parte di un secondo
scrittore croato (Kneevi 1993; replica in Hayden 1993b). Recentemente
unanalisi estremamente accurata dei resoconti sulle vittime della seconda
guerra mondiale in Jugoslavia (Bogosavljevi 1995) ha presentato cifre
molto pi basse di quello che molti serbi immaginano, ma anche molto pi
alte di quanto molti croati vogliano ammettere.
[8] Si vedano Bringa 1993 per la Bosnia, Jambrei 1993 per la Banija e
Olsen 1993 per la Slavonia. La trasformazione della popolazione di un
villaggio misto croato-musulmano da vicini di fede diversa a nemici di
diversa nazionalit mostrata nel bellissimo documentario etnologico
Bosnia: We are All Neighbors trasmesso in America sulla PBS nel maggio
1994 (Bringa 1994).
[9] In occasione del censimento si registrata una protesta di alcuni
interessati che si sono censiti come Eschimesi, Bantu, Indiani dAmerica,
Citrons, lampadine e frigoriferi e altre fantasiose categorie. La
natura letale delle categorie fu dimostrata ai partecipanti di un seminario
intitolato Oltre il genocidio che si tenne nellaprile del 1993 al John Jay
College di New York, in occasione del quale un gruppo per i diritti umani
proveniente dalla citt di Zenica in Bosnia-Erzegovina us il retro dei
moduli per il censimento del 1991 come carta per un libro di immagini delle
atrocit commesse sui musulmani della Bosnia-Erzegovina.
102


[10] La terminologia di questi ultimi due periodi deve molto ai
suggerimenti di Bette Denich. La ragionevolezza, in termini di filosofia
occidentale, delle varie rivendicazioni nazionaliste esposta da Vladimir
Gligorov (Gligorov 1995).
[11] In questa parte del saggio e in quella che segue ci riferiremo al
sistema costituzionale e legislativo croato. Sfortunatamente, nel contesto
politico che ha accompagnato la fine della ex-Jugoslavia, la volont di
analizzare dei documenti croati stata spesso giudicata come il segno di un
atteggiamento anti-croato, pro-serbo o sproporzionato a sfavore dei
croati nel caso in cui si dia meno spazio allanalisi dei documenti serbi. Ma
siccome questo articolo si occupa fondamentalmente di documenti
costituzionali e legislativi, prender in considerazione i materiali che
possano esemplificare al meglio le questioni di cui stiamo discutendo, cio
quelli croati. I documenti serbi sono meno adatti ai nostri fini, non perch i
serbi mostrino in misura minore le tendenze qui rilevate, ma perch il
regime di Slobodan Miloevi ha introdotto meccanismi costituzionali e
giuridici che sembrano progressisti ma che in realt hanno poca attinenza
con le azioni di quello Stato autoritario (si veda Hayden 1992a, p. 660). La
critica in ogni caso mal indirizzata se si basa sulla premessa che i
documenti croati dovrebbero essere immuni da analisi a causa delle azioni
dei serbi, affermazione difficile da difendere in un contesto accademico.
[12] Per sicurezza questo stesso articolo costituzionale contiene una
seconda clausola che consente luso, in particolari giurisdizioni locali, di
altre lingue e sistemi di scrittura, alle condizioni stabilite dallo statuto
(corsivo dellautore). Entrambe le limitazioni sono comunque sospette. Se le
giurisdizioni locali sono arbitrariamente divise in distretti, questo fa s che
che nessuna minoranza sia da qualche parte una maggioranza locale. I
provvedimenti costituzionali divengono quindi privi di senso. Inoltre
lassoggettamento di un ipotetico diritto costituzionale alla legislazione
ordinaria vizia di fatto il diritto stesso. Ad esempio uno statuto che
stabilisca che si possa usare la lingua serba con alfabeto cirillico per
scrivere al ministro per le questioni religiose e solo a questo scopo sarebbe
costituzionale, sebbene da un punto di vista pratico neghi il diritto.
[13] La Repubblica della Krajina serba stata distrutta da unazione
militare croata nellagosto del 1995 e quasi tutta la sua popolazione stata
espulsa dalla Croazia.
[14] La costituzione americana scritta nel 1787 riconosceva una differenza
tra individui liberi e tutti gli altri individui ed escludeva gli
indiani non tassati (art. 1, comma 2). Inoltre il diritto di cittadinanza
americana era limitato per legge ai soli bianchi fino al periodo
successivo alla guerra civile e fino al 1952 la naturalizzazione era
consentita ai soli bianchi e agli africani o ai loro discendenti (v. Gettys
1934). Un altro esempio da considerare il preambolo della costituzione
dellIndia (1950), scritta con lintento di costruire un sistema democratico
basato su una struttura suddivisa per caste, religioni, lingue e classi sociali:
Noi, popolo dellIndia, avendo solennemente deciso di costituire in India
una repubblica sovrana, secolare e democratica e di garantire a tutti i suoi
cittadini: giustizia () libert () uguaglianza () fraternit (),
adotttiamo, emaniamo e concediamo con il presente atto questa costituzione.
(Costituzione dellIndia 1950, Preambolo).
[15] Emendamento LX alla Costituzione della Repubblica socialista di
Bosnia e Erzegovina (Slubeni List Socijalistike Republike Bosne i
Hercegovine), 46, 499, n. 21, 31 Luglio 1990.
[16] Il progetto Vance-Owen, che si proponeva di difendere lunit della
Bosnia-Erzegovina, riconosceva questo aspetto della vita politica,
opponendosi alla divisione della Bosnia-Erzegovina in tre sole regioni
etnicamente distinte e affermando che: una confederazione formata da tali
tre Stati sarebbe intrinsecamente instabile, perch almeno due
stringerebbero sicuramente una relazione pi forte con i vicini Stati dellex
Jugoslavia che con le altre due parti di Bosnia e Erzegovina. Nondimeno il
progetto Vance-Owen, che prevedeva la suddivisione della Bosnia-
Erzegovina in dieci regioni completamente autonome, non era realistico,
103


perch affermava che una casa divisa era un condominio nonostante la
manifesta volont di molti residenti di demolire ledificio. (v. Hayden
1993).
[17] Dalla Costituzione della Federazione di Bosnia e Erzegovina (bozza
del 13 marzo 1994, h. 17), testo ottenuto dallambasciata di Croazia di
Washington D.C., in inglese come una delle tre lingue originali, accanto a
croato e bosniaco.
[18] Come nel caso delle limitazioni costituzionali (si veda sopra nota 12),
la Serbia meno adatta allanalisi, perch quello Stato, come la Repubblica
federale di Jugoslavia che lo contiene, non affatto uno Stato legale. Ad
oggi non esiste nessuna nuova legge sul diritto di cittadinanza in Serbia e
non conosco nessuna analisi delle norme serbe su questo argomento. I
requisiti burocratici per ottenere la cittadinanza nella nuova Jugoslavia
(Vreme 1992) e la generalizzata oppressione delle minoranze che esiste nel
paese (v. Mazowiecki 1992, pp. 27-36, e Mazowiecki 1993a, pp. 32-42) -
mostrano comunque che esiste probabilmente una volont di discriminare
chi non serbo.
[19] Zakon o hrvatskom dravljanstvu, Narodne Novine 1991, 53, p. 1466-
1469; emendato in Narodne Novine 1992, 28, 659.
[20] V. Stolcke (1995) distingue tra fondamentalismo culturale e
razzismo ma viene presa in considerazione solo la retorica politica
riguardante limmigrazione, non quella che collega lemigrato con la
madrepatria. a questo secondo collegamento che si deve la visione della
cultura come attributo della nascita, quindi come bene proprio pi che
semplice codice di condotta.
[21] Vreme 1993, p. 34. necessario specificare che la situazione relativa
allattribuzione della cittadinanza serba non diversa (Mazowiecki 1993b,
pp.26-27). Visto che la Serbia a livello internazionale stato un paria fino
al 1992, probabilmente sono stati pochi i casi in cui qualcuno ha lottato per
ottenere la sua cittadinanza. Invece ho incontrato molti serbi che avrebbero
voluto acquisire quella croata, macedone o anche bosniaca a fronte di
ragioni puramente pratiche, quali le facilitazione per viaggiare ed emigrare.
Per molti questo non stato possibile anche se i loro genitori provenivano
da queste repubbliche.




























104



Tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti
Talal Asad

(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp.
183-214; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)

Questo saggio tratta del concetto moderno di crudelt, con particolare
riferimento allarticolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani che
recita: Nessun individuo potr essere sottoposto a tortura o a trattamento o
a punizioni crudeli, inumane o degradanti. In questa affermazione gli
attributi riferiti a trattamento o punizioni sembrano indicare tipi di
comportamento che, anche se non sono lesatto equivalente di tortura,
comunque hanno una stretta affinit con essa.
I giudizi morali e le norme legislative che prendono spunto da questa norma
hanno seguito in Occidente un percorso interessante e a questo far
riferimento il presente contributo. In questo saggio avanzo la tesi che le
norme universali esposte nella Dichiarazione riguardino unampia gamma di
comportamenti qualitativamente distinti. La mia argomentazione poggia su
quattro punti. Primo: la moderna storia della tortura non rappresenta solo
una testimonianza della progressiva messa al bando di pratiche crudeli,
inumane e degradanti, ma fa anche parte di una pi complessa storia della
concezione moderna e secolare di cosa significa essere veramente umani.
Secondo: sebbene lespressione tortura o trattamento crudele, inumano o
degradante venga utilizzata oggi come criterio culturalmente trasversale
nella formulazione di giudizi morali o di norme legislative relative al dolore
e alla sofferenza, in realt il suo significato operativo fortemente
contestualizzato sia culturalmente che storicamente. Il terzo punto
collegato ai primi due: i nuovi tentativi di concettualizzare sia la sofferenza -
che include le categorie di tortura mentale e trattamento degradante
che il sofferente un termine che viene usato ora anche per riferirsi agli
esseri non umani e allambiente naturale divengono sempre pi universali
nella loro portata ma particolari nel contenuto prescrittivo. Lultimo punto
che la sensibilit moderna che vorrebbe eliminare il dolore e la sofferenza si
scontra spesso con altri tipi di impegno e di valori: il diritto degli individui
di scegliere liberamente e la libert degli Stati di difendere i propri interessi.
Presi assieme, questi quattro punti sottolineano la natura instabile di una
categoria centrale della moderna societ occidentale. La sua mancanza di
chiarezza da mettere in relazione con il fatto che i concetti di crudelt,
disumanit e trattamento degradante cercano di misurare quelli che spesso
sono modelli di comportamento incommensurabili. Inoltre questi concetti
sono usati in particolari casi in modo contraddittorio.
Con questo non voglio sostenere che non ci possa essere qualcosa come la
crudelt: semplicemente sono scettico nei confronti dei discorsi
universalisti nati attorno ad essa, anche se il mio scetticismo di natura
intellettuale e non morale. In questo lavoro non mi interessa criticare le
riforme alla tortura e ai trattamenti crudeli, inumani e degradanti ispirate
dalla condanna delle Nazioni Unite; mi concentrer piuttosto sul modo in cui
i discorsi occidentali sulla crudelt sono costruiti e sul modo in cui il
concetto di tortura pu sovrapporsi e sostituirsi ai concetti di trattamento
crudele, inumano e degradante. A mio avviso necessario porsi questi
interrogativi se vogliamo capire meglio i nostri giudizi transculturali.


Le due storie della tortura

Per prima cosa sar utile prendere in considerazione due libri che
rappresentano modi molto diversi di occuparsi della questione della crudelt.
Il primo, di George Riley Scott, presenta la crudelt fisica come una
caratteristica delle societ barbariche, cio di quelle societ che non hanno
ancora conosciuto un processo di umanizzazione; il secondo, di Darius M.
Rejali, propone una distinzione tra due tipi di crudelt fisica, la prima
105


propria delle societ premoderne, laltra di quelle moderne, e descrive queste
differenze nel contesto dellattuale Iran.
Scott stato membro di diverse accademie britanniche, incluso il Royal
Anthropological Institute. La sua Storia della tortura forse la prima
trattazione moderna di questo tipo (Riley Scott 1940). Essa discute a lungo
delle razze selvagge e primitive, dei popoli europei dellantichit e della
prima et moderna oltre che delle civilt asiatiche (Cina, Giappone e India).
Se da una parte si tratta di un resoconto di misure punitive oggi quasi del
tutto abbandonate, dallaltra il testo passa in rassegna quali sono i motivi
radicati o pervasivi per cui viene inflitta la sofferenza. Scott si rif
chiaramente alle idee di Krafft-Ebing, come si pu constatare non solo nei
riferimenti espliciti contenuti nel capitolo su sadismo e masochismo, ma
anche nel pi generale schema evoluzionista che egli adotta, in base al quale
il primitivo impulso a infliggere dolore rimane una possibilit latente (che in
alcuni casi si realizza) nelle societ civilizzate.
La posizione di Scott abbastanza originale per il suo tempo perch prende
in considerazione anche il maltrattamento nei confronti degli animali e
denuncia il fatto che non siano loro riconosciuti diritti. Come altri autori
moderni, Scott vede nellampliamento dei diritti lelemento cruciale per
leliminazione della crudelt, ma, via via che la sua tesi si sviluppa, viene a
galla unambiguit profonda: non del tutto chiaro se egli pensa che la
crudelt umana sia semplicemente un esempio della crudelt bestiale cio
una manifestazione dellistinto apparentemente generalizzato degli animali
pi forti a cacciare e attaccare la preda - oppure se egli ritiene che la crudelt
umana abbia un carattere di unicit e che non sia per niente una caratteristica
del comportamento animale. In questo secondo caso, la quotidiana brutalit
umana rispetto a quella animale sarebbe quindi essenziale per giustificare la
persecuzione di categorie vulnerabili di persone (nemici sconfitti, bambini
non iniziati e cos via), partendo dalla premessa che queste non siano del
tutto umane. In entrambi i casi, Scott mette in discussione lidea liberale di
ci che veramente umano: o gli esseri umani fondamentalmente non si
differenziano dagli animali, o si differenziano in virt della loro particolare
capacit di essere crudeli.
Occorre notare che gli esempi di dolore fisico che Scott descrive come
tortura appartengono qualche volta alla categoria della sottomissione
involontaria alla punizione e qualche volta alla categoria che include le
pratiche della disciplina personale (ad esempio rituali di resistenza o
ascetismo). Scott non fa nessuna distinzione tra i due tipi: il dolore viene
considerato come unesperienza isolabile, da condannare in quanto tale.
Nellincontro tra le razze selvagge e i moderni euroamericani, Scott non
ha dubbi nellaffermare che la tortura qualcosa che le prime fanno ai
secondi, forse perch tortura sinonimo di barbarie; in ogni caso, nella
sua storia della tortura non compaiono le sofferenze inflitte agli indiani
dAmerica dai colonizzatori bianchi e dagli Stati Uniti nel periodo della loro
espansione.
Questo non significa che per Scott la tortura sia del tutto assente nello Stato
moderno: egli parla ad esempio delluso della tortura da parte della polizia
per ottenere la confessione dei sospettati (il terzo grado). La sua posizione
in merito che la storia della modernit sia in parte una storia
delleliminazione progressiva di tutti quei comportamenti sociali che
suscitano indignazione morale, inclusi quelli che adesso la legislazione
internazionale definisce trattamento o punizioni crudeli, inumane o
degradanti. Scott non sostiene che questo obiettivo sia stato completamente
realizzato, ma solo che sono stati fatti dei progressi. In questa storia di
progressi, egli afferma, la definizione dello Stato e la difesa dei diritti sono
gli strumenti pi efficaci per proteggerci dalla crudelt.
Nel suo importante saggio Torture and Modernity, il politologo iraniano
Darius Rejali propone linteressante tesi che la tortura non sia, come
sosteneva Scott, una sopravvivenza barbarica allinterno dello Stato
moderno, ma un suo elemento costitutivo. Rejali (1994) classifica due tipi di
tortura, moderna e premoderna, ma concorda con Scott nel ritenere che il
termine tortura abbia un significato costante. Entrambi gli autori cio
106


pensano che parlare di tortura significhi riferirsi a una pratica in cui un attore
infligge con la forza dolore ad unaltra persona, a prescindere dal ruolo che
occupa questa pratica allinterno di una pi ampia economia morale.
Rejali presenta un resoconto molto dettagliato sulla funzione delle punizioni
politiche in Iran, sia prima che successivamente alla modernizzazione del
paese. La tortura moderna, secondo Rejali, rappresenta una forma di
sofferenza fisica inseparabile da una societ disciplinare. In Iran la pratica
della tortura fondamentale per lattuale repubblica islamica come lo era per
il regime di Pahlevi che la repubblica ha soppiantato: entrambe, ognuna a
suo modo, sono moderne societ disciplinari.
Rejali concepisce il suo saggio come risposta allidea foucaultiana di tortura,
esposta in Sorvegliare e punire[1] e afferma che nella societ moderna la
tortura non viene sostituita dalla disciplina, come pensava Foucault, ma
persiste in modo assai rilevante. Questa idea tuttavia nasce da un malinteso
nella lettura di Foucault, il quale pone laccento non sulla tortura, ma sul
potere e in particolare sulla differenza tra potere sovrano, che ha bisogno di
esibirsi pubblicamente, e potere disciplinare, che agisce attraverso la
normalizzazione del comportamento quotidiano.
I rituali pubblici della tortura non sono pi considerati necessari al
mantenimento del potere sovrano (che poi siano funzionalmente necessari al
mantenimento dellordine sociale naturalmente un altro discorso). La
tesi di Foucault sul potere disciplinare non viene comunque messa in
discussione dallesistenza di torture surrettizie nello stato moderno, anzi,
proprio perch la tortura viene eseguita segretamente ed intimamente
connessa al recupero di informazioni, essa rientra nel campo delle attivit di
polizia, cio in tutto quellinsieme di attivit volte a difendere un
fondamentale interesse della societ: la sicurezza ordinaria e straordinaria
dello Stato e dei suoi cittadini. Si tratta inoltre di unistituzione in cui
conoscenza e potere si sostengono a vicenda. Molte delle attivit di polizia
vengono svolte in segreto, ma curiosamente Rejali non si occupa di questo
aspetto.
La tortura moderna, in quanto parte dellattivit di polizia, viene eseguita
segretamente anche perch infliggere pene fisiche ad un prigioniero per
estorcere informazioni o per un qualsiasi altro scopo ritenuto un
comportamento incivile e quindi illegale. La tortura deve rimanere segreta
anche perch gli agenti di polizia non desiderano rendere pubblico ci che
essi vengono a sapere dai prigionieri, e dopo tutto lefficacia di certi tipi di
conoscenza disciplinare dipende dalla segretezza. Il carattere segreto della
conoscenza acquisita durante il lavoro di polizia quindi da mettere in
relazione, da un lato, con lincertezza delle critiche esterne riguardo al se, e
in caso affermativo al quanto spesso, qualcosa di illegale sia stato compiuto
da un potere burocratico per ottenere questa conoscenza (la tortura
intollerabile in una societ civilizzata); dallaltro, con il come, quando e
dove il potere legale decida di agire una volta che sia entrato in possesso
dellinformazione segreta (ogni societ deve proteggere se stessa contro le
cospirazioni criminali).
La definizione di tortura proposta da Rejali, cio quella di una violenza
sanguinaria tollerata dalle autorit pubbliche, oscilla ambiguamente tra la
pratica pubblica e lecita della tortura classica e il carattere segreto (perch
incivile) della tortura utilizzata dalla polizia in Stati in via di
modernizzazione come lIran. La sua ampia argomentazione non d conto di
questa differenza. La tortura moderna, sostiene Rejali, connaturata a quella
che Foucault chiamava la societ disciplinare e quindi, se non proprio
identica alla disciplina, molto simile ad essa.
Il saggio di Rejali contiene giudizi preziosi riguardo alla brutalit del
processo di modernizzazione. Tuttavia alle argomentazione dellautore si
possono muovere due critiche. Per prima cosa, il caso preso come esempio,
lIran del xx secolo, rappresenta quella che molti lettori definirebbero una
societ in via di modernizzazione e non ancora pienamente moderna.
Non chiaro se tutte le trasformazioni avvenute in Iran nel periodo preso in
considerazione da Rejali rappresentino veramente la modernizzazione nel
senso di un miglioramento morale. Quindi il dato di fatto scandaloso che in
107


questo paese si faccia aperto uso della tortura non basta ancora a dimostrare
che la tortura sia connaturata alla modernit. Largomentazione di Rejali su
questo aspetto sarebbe stata pi convincente se egli avesse preso in esame
una societ moderna, come ad esempio la Germania nazista, invece di
concentrarsi su una societ solamente in via di modernizzazione.[2] Sebbene
la Germania nazista fosse notoriamente una forma di Stato illiberale, essa
era a tutti gli effetti uno Stato moderno.
Laltra critica che si pu muovere a Rejali che egli non spiega perch,
diversamente da quanto accade per la disciplina, luso della tortura da parte
dello Stato moderno richieda una retorica della negazione. Una prima
risposta a questa domanda potrebbe essere che oggi c una nuova sensibilit
riguardo al dolore fisico, infatti, sebbene esso compaia con una certa
frequenza nel nostro tempo, la coscienza moderna considera il dolore inflitto
senza giusto motivo ad esempio nel caso di unoperazione chirurgica
come riprovevole e quindi moralmente condannabile. questo
atteggiamento nei confronti del dolore che ci aiuta a definire il concetto
moderno di crudelt.
La coscienza moderna una coscienza secolare e include quella che noi oggi
chiamiamo religione moderna. Per la cristianit, tradizionalmente radicata
nella dottrina della passione di Cristo, diventa oggi difficile elaborare una
teoria di accettazione della sofferenza. I teologi moderni hanno iniziato ad
ammettere che il dolore un elemento fondamentalmente negativo. La
sfida secolarista, scrive un moderno teologo cattolico,

sebbene separi molti aspetti della vita dallambito religioso, produce un
equilibrio interpretativo pi solido; i fenomeni naturali, anche se a volte di
difficile comprensione, sono radicati in processi che possono e devono
essere riconosciuti. molto difficoltoso riuscire a condurre un tale tipo di
analisi cognitiva sul significato della sofferenza che ci metta nelle condizioni
di affrontarla e di vincerla. Con le sue opere e ancor prima con le sue parole,
Ges di Nazareth ha proclamato la bont della vita e della salute fisica come
immagine di salvezza. Per lui il dolore un elemento negativo[3]

Lautore di questo passaggio sta chiaramente pensando alla malattia, ma dal
momento che il dolore pu essere anche una conseguenza dellintenzionalit
umana, allora tale tipo di dolore dovrebbe essere eliminato anche
dalluniverso dellinterazione umana, cos come dalle discipline religiose e
dalla pratica del martirio, in cui ricopriva, un tempo, un posto donore. Il
cristiano secolare chiamato adesso a rinunciare alla passione per scegliere
lazione. Il dolore non pi semplicemente un elemento negativo, ma
letteralmente uno scandalo.


Labolizione della tortura

Perch infliggere dolore fisico diventa improvvisamente scandaloso? Una
parte della risposta risiede in un ben noto racconto progressista: due secoli
fa, critici della tortura come Beccaria e Voltaire riconobbero quanto essa
fosse disumana, oltre che inaffidabile come mezzo per accertare la verit in
un processo. Essi seppero riconoscere e analizzare quello che altri prima di
loro inspiegabilmente non erano stati in grado di vedere e la loro presa di
posizione contro la tortura giudiziaria provoc una forte reazione nei sovrani
illuminati, al punto da spingerli alla sua abolizione. La tortura appariva ai
loro occhi di una crudelt intollerabile, soprattutto perch il dolore inflitto
nella tortura giudiziaria era considerato gratuito. Inoltre, infliggere dolore ai
prigionieri per farli confessare era immorale, si diceva, soprattutto perch
questo sistema era in gran parte inefficiente per stabilire la loro innocenza o
colpevolezza.[4]
(Vorrei ricordare che i riformatori illuministi non condannavano la
punizione fisica in quanto tale, perch questo avrebbe chiamato in causa
altre considerazioni, non solo quelle strumentali, in particolare lidea di
108


giustizia. E proprio levoluzione del concetto moderno di giustizia ha
contribuito ad aumentare lostilit nei confronti delle punizioni corporali.)
Ma perch prima dellIlluminismo non si condannava il dolore inflitto
gratuitamente? Che cosa impediva alle persone di riconoscere la verit?
Nel suo brillante studio Torture and the Law of Proof, John Langbein ci
fornisce una parziale spiegazione a questa domanda, dimostrando che la
tortura fu vietata quando, nel xvii secolo, perse validit la legge canonica
romana della prova, in base alla quale, per procedere contro qualcuno, si
richiedeva lammissione di colpa o la testimonianza di due testimoni oculari.
Aumentando il ricorso alle prove indiziarie diventava pi semplice e anche
pi rapido assegnare le condanne. Labolizione della tortura giudiziaria
rappresent dunque la condanna morale e la proibizione legale di una
procedura estremamente scomoda e lunga, che iniziava ad essere percepita
come pi o meno superflua. Langbein (1977) suggerisce che la verit morale
riguardo alla tortura giudiziaria fosse stata preceduta e influenzata da una
nuova interpretazione del concetto di verit giudiziaria.
Quando, nel xvii secolo, la tortura divenne oggetto di una vigorosa
polemica, Jeremy Bentham concluse che il dolore inflitto tramite essa fosse
pi facile da giustificare rispetto alla sofferenza inflitta in nome della
punizione. Nel corso della sua argomentazione Bentham si riferiva, per
esempio, ai tribunali che ricorrevano alla carcerazione nei casi di oltraggio;
ebbene, essi avrebbero potuto garantire lobbedienza in un modo meno
penale della prigione infliggendo dolore fisico o anche solo minacciando
di farlo:

Un uomo pu ciondolare in prigione per un mese o due prima di decidersi a
rispondere ad una domanda a cui con un solo giro della ruota di tortura, nel
peggiore dei casi, o addirittura, nella maggior parte dei casi, semplicemente
sapendo di poter essere messo alla ruota, avrebbe risposto subito. Cos come
un uomo decide di rimanere per un mese con il mal di denti che potrebbe
curarsi al costo di un dolore momentaneo.[5]

Di questa citazione quello che vorrei sottolineare, al di l del fatto che
Bentham sembra non distinguere tra sottomissione volontaria o involontaria
alla pena, che per lui le esperienze soggettive di dolore fisico possono
essere comparate oggettivamente. Questa idea fondamentale per la
concezione moderna di trattamento crudele, inumano e degradante in un
contesto interculturale, anche se oggi i liberali criticherebbero aspramente
laffermazione di Bentham che in qualche caso la tortura sia preferibile
allincarcerazione. proprio una certa idea di comparabilit della sofferenza
che rende la carcerazione per molti anni (compreso lisolamento) una
punizione umana e la fustigazione una punizione disumana, anche se le
esperienze di incarcerazione e fustigazione sono del tutto diverse da un
punto di vista qualitativo.
In un interessante passaggio di Sorvegliare e punire, Foucault fa notare
come nel xix secolo la carcerazione sia stata giudicata preferibile ad altre
forme di punizione legale soprattutto perch era considerata come la pi
egalitaria (Foucault 1975, pp. 251-252). Su questa posizione pesava
linfluenza della dottrina filosofica secondo cui la libert la condizione
umana naturale. I riformatori della legislazione penale sostenevano che dal
momento che laspirazione alla libert era presente nella stessa misura in
ogni individuo, privare gli individui della loro libert sarebbe stato un modo
per colpirli indifferentemente, cio senza distinzione di classe sociale o di
costituzione fisica. Infatti per un benestante sarebbe stato pi facile pagare,
come per una persona robusta e forte reggere al dolore fisico. Nessuna forma
di punizione si adattava alla nostra natura umana, tuttavia si scelse la
carcerazione che era considerata una soluzione pi equa rispetto allidea di
infliggere punizioni fisiche gratuite. Per questa ragione il pensiero liberale
moderno non dovrebbe criticare la conclusione di Bentham sulla tortura, ma
approvare il suo metodo di comparare quantitativamente i diversi tipi di
sofferenza. Non difficile capire come il calcolo utilitaristico del piacere e
del dolore sia divenuto centrale per il giudizio interculturale nel pensiero e
109


nella pratica moderna. Utilizzando un tale tipo di riduzione, lidea di
eseguire semplicemente un calcolo ha favorito la formulazione di giudizi
comparativi su quelle che resterebbero altrimenti qualit
incommensurabili.[6]


Umanizzare il mondo

Il processo storico di costruzione di una societ umana dovrebbe, a quanto si
dice, tendere alleliminazione della crudelt. Si spesso osservato che il
dominio coloniale degli europei, sebbene in s non democratico, abbia
comunque apportato un miglioramento morale nel comportamento, per
esempio favorendo labbandono di pratiche offensive verso lumanit. Gli
strumenti pi efficaci di questa trasformazione sono state la legislazione,
lamministrazione e leducazione moderne, che si basavano sulla categoria
moderna di diritto consuetudinario. Scrive James Read:

Di tutte le restrizioni relative allapplicazione delle leggi consuetudinarie
durante il periodo coloniale, il criterio della ripugnanza alla giustizia e alla
moralit era potenzialmente il pi radicale; infatti difficilmente le norme
consuetudinarie potevano apparire ripugnanti al tradizionale senso di
giustizia e moralit delle comunit che ancora le accettavano. E dunque
chiaro che lo standard da applicare era fornito dagli standard di giustizia e
moralit del potere coloniale.

Read sottolinea come lespressione ripugnante alla giustizia e alla moralit
non abbia un preciso significato giuridico e che le prime legislazioni delle
colonie impiegavano qualche volta altre espressioni come non contrario alla
naturale moralit e umanit, sempre per con lintenzione di compiere la
stessa opera rivoluzionaria (Read 1972, p. 175).
Il progresso morale e sociale in questi paesi non stato costante. Sebbene gli
europei abbiano cercato di sopprimere le pratiche crudeli e le forme di
sofferenza che venivano considerate accettabili nel mondo non europeo
prima del loro arrivo, condannando chi ne facesse uso, il loro tentativo non
ebbe sempre successo. Ancor oggi la lotta per leliminazione della
sofferenza sociale portata avanti dalle Nazioni Unite. O ad ogni modo cos
si dice.
Sono tuttavia dellidea che il tentativo di bandire le abitudini che i
dominatori europei consideravano crudeli non fosse mosso tanto dalla vista
della sofferenza degli indigeni, quanto, piuttosto dalla volont di
imporre ci che gli europei stessi consideravano un modello civilizzato di
giustizia e di modernit per una data popolazione, cio dalla volont di
creare nuovi soggetti umani.[7] Langoscia dei soggetti obbligati, sotto la
minaccia delle punizioni, ad abbandonare le pratiche tradizionali ora
giuridicamente bollate come ripugnanti alla giustizia e alla moralit
oppure come contrarie alla naturale moralit umana, oppure ancora come
qualcosa di retrogrado e puerile non poteva dunque avere un ruolo
decisivo nel discorso dei riformatori coloniali. Al contrario, come si
esprimeva Lord Cromer, riferendosi alla miseria prodotta tra i contadini
egiziani dalle riforme giuridiche del governo britannico: la civilizzazione
purtroppo deve avere le sue vittime (Lord Cromerr 1913, p. 44). Nel
processo di apprendimento che avrebbe consentito di diventare del tutto
umani, solo alcuni tipi di sofferenza venivano considerati un affronto
allumanit e di conseguenza eliminati. Questi tipi di sofferenza erano
distinti dalla sofferenza necessaria ai fini del processo di completa
realizzazione dellumanit, vale a dire dal dolore che era adeguato al suo
scopo, non il dolore inutile.
La sofferenza inumana, tipicamente associata al comportamento barbarico,
era una condizione moralmente intollerabile per la quale era necessariamente
responsabile qualcuno; si doveva fare in modo che i responsabili, essi stessi
inumani, desistessero e se necessario fossero puniti. Questa in ogni caso era
110


lidea del riformismo progressista. Quello che i singoli amministratori
coloniali sentivano, pensavano o facevano unaltra questione, anche se non
del tutto scollegata. Gli amministratori veramente esperti erano disposti a
tollerare localmente diverse pratiche incivili per ragioni di convenienza,
ma tutti erano senza dubbio consapevoli del discorso progressista dominante
radicato nelle societ civilizzate.[8]
In un suo recente contributo, Nicholas Dirks offre un esempio convincente
di un simile discorso, nel contesto dellIndia britannica della fine del xix
secolo. Il suo resoconto dellinchiesta condotta dalle autorit coloniali sul
rituale dellhookswinging contiene questo sobrio giudizio dellufficiale
britannico incaricato:[9]

Non ritengo che sia necessario, alla fine del xix secolo, considerato anche il
livello di civilizzazione raggiunto in India, parlare dei motivi che spingono
le persone a prendere parte allhookswinging, a camminare attraverso il
fuoco o a compiere altre simili azioni barbare. Dal punto di vista della loro
morale, i motivi possono essere buoni o cattivi; essi possono abbandonarsi
allautotortura per rispondere a voti religiosi fatti con fervore e in tutta
sincerit o per i motivi pi disinteressati; oppure possono abbandonarsi a
queste pratiche per i pi spregevoli motivi di esaltazione personale, sia per le
elemosine che possono ricevere, sia per la volont di distinguersi o per il
prestigio che queste pratiche possono comportare; ma la domanda che ci
dobbiamo porre se lopinione pubblica in questo paese non sia avversa agli
atti esteriori in s, dal momento che questi sono ripugnanti per i dettami
dellumanit e demoralizzanti per loro stessi e per tutti coloro che vi
assistono. Io credo che la voce dellIndia che ha pi credito a questo
riguardo, cio non solo la voce di chi, attraverso unistruzione superiore, ha
potuto usufruire di alcuni dei vantaggi delleducazione occidentale ed stato
permeato di idee non-orientali, ma anche la voce di coloro il cui stile di vita
e di condotta derivano principalmente dalla filosofia asiatica, dovrebbe
orgogliosamente proclamare che arrivato il momento per il governo di
eliminare concretamente, nellinteresse del suo popolo, tutte le esibizioni
degradanti e di auto-tortura (Dirks, pp. 9-10).

Il fatto che le stesse persone coinvolte dichiarassero di non sentire dolore era
irrilevante, e la stessa cosa valeva anche per lobiezione che si trattava di un
rito religioso: tali rivendicazioni di differenza, semplicemente, non erano
accettabili. Tipi di comportamento assai diverso erano ridotti a un unico
standard sulla base delloffesa che arrecavano ad una determinata visione
dellessere umano.
La conferma di questo carattere oltraggioso veniva dallascoltare solo alcune
voci colonizzate. Di questo gruppo facevano parte anche gli indiani che
erano direttamente in contatto con gli occidentali e, aspetto da non
sottovalutare, coloro che accettavano uninterpretazione occidentalizzata
della loro filosofia asiatica.[10] Dal punto di vista del progresso morale, le
voci di quelli che avevano un punto di vista reazionario non potevano esser
tenute in considerazione.
Chiaramente, per la causa del progresso morale cera sofferenza e
sofferenza. Quello che interessante non solo che alcune forme di
sofferenza furono prese pi seriamente di altre, ma che la sofferenza
inumana, contrapposta a quella necessaria o inevitabile era
considerata come essenzialmente gratuita e quindi giuridicamente punibile.
Il dolore sopportato nel percorso che avrebbe condotto alla completa
umanit, daltra parte, era visto come necessario perch cerano ragioni
sociali o morali che lo giustificavano. Questa visione fa tuttuno con
linteresse post-illuminista a costruire attraverso la punizione giudiziaria lo
strumento pi efficace per riformare i trasgressori e salvaguardare gli
interessi della societ.[11]
Come lidea del progresso prese sempre pi campo negli affari dellEuropa e
del mondo, si sent sempre pi il bisogno di misurare la sofferenza e si cerc
di farlo in modi sempre pi raffinati.

111



Rappresentare la tortura, agire con deliberata crudelt

Il dolore non sempre stato considerato intollerabile nella societ europea e
americana moderna. In guerra, nello sport, negli esperimenti psicologici,
cos come nel campo del piacere sessuale, linflizione di sofferenza fisica
attivamente praticato e ammesso dalla legge. Questo comporta delle
contraddizioni che vengono poi sfruttate nel dibattito pubblico. Quando un
dolore transitivo viene descritto come crudele e inumano, spesso se ne
parla come di tortura e la tortura stessa condannata dallopinione
pubblica nonch proibita dalle leggi internazionali.
Non sorprende, dunque, che molti governi liberal-democratici che hanno
impiegato la tortura abbiano cercato di farlo in segreto.[12] Talvolta si sono
anche preoccupati di ridefinire giuridicamente la categoria dei trattamenti
che generano dolore, nel tentativo di evitare letichetta tortura. Per
esempio:

La tortura vietata dalle leggi israeliane. Le autorit israeliane dicono che la
tortura non autorizzata n tollerata nei territori occupati, ma riconoscono
che si sono verificati degli abusi e dichiarano di aver condotto delle indagini.
Nel 1987 la Commissione giudiziaria Landau condann specificamente la
tortura ma consent di usare moderate pressioni fisiche e psicologiche
per ottenere confessioni e informazioni. Un allegato segreto della relazione,
in cui si definivano le pressioni consentite, non mai stato reso
pubblico.[13]

Altri governi del Medio Oriente, come lEgitto, la Turchia e lIran hanno
tollerato la tortura e diversamente dai governi liberal-democratici ne hanno
fatto apertamente uso contro i propri cittadini. Ma la caratteristica
significativa del caso qui citato di Israele la scrupolosa preoccupazione di
uno Stato liberal-democratico di calibrare la quantit del dolore legalmente
tollerabile. C evidentemente la preoccupazione che non si debba infliggere
troppo dolore. Si ritiene che una moderata pressione fisica e psicologica
sia necessaria e sufficiente per garantire una confessione. Al di sopra di
questa quantit, la pressione considerata eccessiva (gratuita) e quindi
presumibilmente diventa tortura.[14] Altri Stati del Medio Oriente
raramente sono cos puntigliosi o cos moderni nel loro ragionamento.
Il ricorso alla tortura negli Stati liberal-democratici in relazione con il loro
tentativo di controllare popolazioni non composte di loro cittadini. In tali
casi la tortura non pu essere attribuita a impulsi primitivi, come
suggerisce Riley Scott, e nemmeno a tecniche amministrative per
disciplinare i cittadini, come sostiene Rejali. Luso della tortura deve essere
interpretato come uno strumento che diventa parte integrante del
mantenimento della sovranit nello Stato-nazione, proprio come la guerra.
La categoria della tortura non si limita pi solo allinfliggere dolore fisico,
ma include ora anche la coercizione psicologica, compreso il
disorientamento, lisolamento e il lavaggio del cervello. Anzi, il termine
tortura oggigiorno non denota solo un comportamento attualmente
proibito dalla legge, ma anche un comportamento che noi vorremmo fosse
proibito, in accordo alle modifiche subite dal concetto di trattamento
inumano (ad esempio gli abusi sui bambini, le esecuzioni pubbliche, la
fustigazione dei criminali, gli esperimenti sugli animali, lallevamento
industriale o la caccia alla volpe).
Questa pi ampia categoria di tortura o trattamento crudele, inumano e
degradante potrebbe essere applicata in teoria allangoscia e alla sofferenza
psicologica sperimentata da quelle persone di altre societ che sono state
costrette ad abbandonare le proprie credenze e a diventare completamente
umani, nel senso degli euro-americani. Ma per un curioso paradosso, questa
versione del relativismo impedisce una tale applicazione della categoria,
perch langoscia essa stessa la conseguenza di un appassionato
investimento nella verit delle credenze che guidano il comportamento. La
moderna impostazione scettica, al contrario, considera una tale appassionata
112


convinzione come incivile o come una perenne fonte di pericolo per gli
altri e di dolore per s stessi. Le credenze non dovrebbero avere nessuna
diretta connessione con lo stile di vita, oppure essere prese cos alla leggera
da poter essere modificate con facilit.
Si potrebbe essere portati a pensare che con landare del tempo, almeno nelle
societ umanizzate, infliggere dolore venga considerato moralmente
intollerabile. In alcuni casi tuttavia i comportamenti che producono dolore e
che una volta erano scandalosi, ora non scandalizzano pi o almeno non pi
come in passato: ad esempio si mettono in prigione molte persone per i
crimini pi diversi, oppure si infliggono nuove forme di sofferenza in
battaglia.
Alcuni autori che si sono occupati del dolore hanno indicato la guerra come
il fatto pi ovviamente analogo alla tortura (Scarry 1985, p. 104). Pu
darsi, ma significativo che la nozione generale di trattamento o punizione
crudele, inumana o degradante non sia applicata alla normale condotta di
guerra, anche se la moderna guerra tecnologica implica forme di sofferenza
che sono senza precedenti per portata e tipologia. La Convenzione di
Ginevra, in effetti, ha cercato di regolare la condotta in guerra,[15] ma
paradossalmente ha avuto come effetto quello di legalizzare molti dei nuovi
tipi di sofferenza inflitti nella guerra moderna allo stesso modo a militari e a
civili.
Lo studioso di storia militare John Keegan si occupato delle nuove pratiche
di crudelt deliberata quasi ventanni fa, quando ha descritto alcuni
armamenti utilizzati nelle guerre del xx secolo:

Le armi non sono mai state pietose con gli esseri umani, ma il principio
direttivo sotteso alla loro progettazione di solito non era stato quello della
massima accentuazione del dolore e delle lesioni che sono in grado di
provocare. Prima dellinvenzione degli esplosivi, i limiti della forza
muscolare erano di per s sufficienti a ridurne la letalit; ma, una volta
introdotti gli esplosivi, ancora per un certo periodo certe inibizioni morali,
promosse dalla sensazione che fosse poco leale aggiungere dimensioni
meccaniche e chimiche alla capacit delluomo di far del male al proprio
simile, valsero a impedire che la progettazione delle armi rispondesse a una
deliberata barbarie. Alcune di queste inibizioni come per esempio quella
alluso di gas tossici e di pallottole esplosive, vennero codificate ed ebbero
cogenza a livello internazionale grazie alla convenzione dellAja del 1899
[16]; ma lo sviluppo di armi intese alla distruzione di cose in quanto
contrapposta alluccisione di uomini (ne costituisce un esempio lartiglieria
pesante), che come effetti collaterali comportavano enormi sofferenze e
gravissime mutilazioni, vanific le suddette limitazioni. Di conseguenza,
queste furono abbandonate e oggi leffetto che si vuol ottenere da molte armi
atte a uccidere i propri simili appunto che esse possano infliggere ferite
quanto pi possibili atroci e terrificanti. Cos, a esempio, la claymore mine
contiene bulloni metallici [] le cluster bombs lasciano frammenti metallici
seghettati, e in entrambi i casi la forma dei proiettili tale da produrre ferite
e fratture pi rilevanti di quanto non facciano proiettili a superficie
uniforme. I proiettili a carica cava e sottocalibrati, sparati da cannoni
anticarro, sono progettati per rovesciare, nellabitacolo dei veicoli corazzati,
una pioggia di schegge metalliche o rivoli di metallo fuso, mettendo fuori
uso il carro armato in quanto ne uccidono lequipaggio. E il napalm,
avversato per ragioni etiche persino da molti soldati di professione tuttaltro
che teneri, contiene un ingrediente che ha per effetto di aumentare ladesione
alla superficie cutanea del petrolio ardente. I chirurghi militari, che
nellultimo secolo si sono dimostrati cos abili nel riportare in vita soldati
feriti e nel riparare lesioni di crescente gravit, si trovano oggi ad affrontare
la sfida di agenti deliberatamente concepiti per vanificarne le
capacit (Keegan 1978, pp. 348-349).

A questo si pu aggiungere che la manifattura, il possesso e lo schieramento
di armi di distruzione di massa (armi chimiche, nucleari e biologiche)
devono essere considerati esempi di una dichiarata capacit dei governi a
113


mettere in pratica trattamenti crudeli, inumani e degradanti contro le
popolazioni civili, anche se queste armi non vengono effettivamente usate.
In breve, le crudeli tecnologie moderne di distruzione fanno tuttuno con la
guerra moderna e la guerra unattivit essenziale per il mantenimento della
sicurezza e del potere nello Stato moderno, da cui dipende il benessere e
lidentit dei suoi cittadini. In guerra, lo Stato moderno richiede ai propri
cittadini non solo che essi uccidano e feriscano altre persone, ma anche che
essi stessi siano sottoposti al dolore e ad una morte spietata.[17]
Come si possono conciliare le crudelt calcolate della battaglia moderna con
la moderna sensibilit riguardo al dolore? Esattamente trattando il dolore
come unessenza quantificabile. Come nel caso della tortura, si pu tentare
di misurare la sofferenza fisica inflitta nella guerra moderna confrontando il
rapporto tra i mezzi e i fini. La distruzione umana causata non dovrebbe
superare il vantaggio strategico raggiunto. Ma dato il fine della vittoria
definitiva, il concetto di necessit militare pu essere esteso allinfinito:
ogni misura che contribuisca a questo scopo pu essere giustificata in
termini di necessit militare, al di l di quanta sofferenza essa possa
generare. Lo standard di accettabilit in tali casi fissato dallopinione
pubblica e varia in base alla risposta dellopinione pubblica di fronte a
circostanze contingenti (ad esempio chi il nemico o come si sta svolgendo
la guerra)
Vorrei sottolineare che in questa sede non si tratta di pronunciare un giudizio
morale. Il mio intento piuttosto quello di identificare il paradosso del
pensiero e delle pratiche moderne relative allinflizione deliberata del dolore
tra Stati come allinterno di essi. Se mi soffermo sulla crudelt accettata da
uno Stato, questo non perch io ritenga che oggi lo Stato sia lunica fonte
di crudelt, ma perch il discorso morale sui trattamenti e le punizioni
crudeli, inumane e degradanti strettamente collegato a concetti giuridici e
allintervento politico.
Negli esempi fin qui considerati, ho avanzato la tesi che linstabilit del
concetto di sofferenza fisica sia lorigine delle contraddizioni ideologiche
come delle strategie disponibili per evitarle. Se noi spostiamo la nostra
attenzione al campo delle relazioni interpersonali che lo Stato moderno
definisce private, incontriamo una contraddizione che ha radici molto
profonde e che non possiamo risolvere semplicemente ridefinendo il
concetto di tortura o proibendo la crudelt calcolata nel combattimento
militare.


Sottoporre se stessi a trattamento crudele e degradante

Mentre la categoria di tortura stata recentemente ampliata fino ad includere
i casi di inflizione di sofferenza di natura interamente o principalmente
psicologica, essa stata anche ristretta in modo da escludere alcuni casi in
cui si infligge del dolore fisico in modo calcolato. Ci talvolta conduce a
contraddizioni, ma esiste un altro tipo di contraddizione nella moderna vita
sociale: i moderni sono consapevoli che ci sono situazioni in cui lesperienza
negativa del dolore e quella positiva del piacere sono inseparabili. Il
sadomasochismo risulta inquietante per molte persone proprio perch le
mette di fronte ad una sofferenza che non solo qualcosa di spiacevole: sia
dolore che il suo opposto. Due secoli di pesanti critiche rivolte al calcolo
utilitarista del piacere contrapposto al dolore non hanno distrutto la visione
del senso comune che queste due esperienze dovrebbero escludersi a
vicenda.
Ecco un estratto da un manuale sadomasochista, recentemente pubblicato a
New York:

Siccome penso che ogni tentativo di definire il SM in ununica frase sia in
definitiva futile (o masochista), rinuncer ad aggiungere una versione
ulteriore al grande mucchio dellinutile e inadeguata immondizia verbale.
Invece propongo una breve lista di caratteristiche che mi sembrano presenti
nella gran parte delle scene che classificherei come SM:
114



1. Una relazione dominante sottomesso;
2. Dare e ricevere dolore come fatto piacevole per entrambe le parti
3. Fantasia e/o recita di ruoli da parte di uno o di entrambi i partner
4. Una consapevole sottomissione di un partner allaltro (umiliazione)
5. Alcune forme di coinvolgimento feticista
6. La rappresentazione di una o pi interazioni ritualizzate (bondage,
flagellazione ecc.) (Townsend 1989, p. 15).

Si noti che questo testo non parla di espressioni di dolore, e tanto meno di
giochi di ruolo convenzionali, ma di dolore patito e inflitto, in cui entrambi i
partner, lattivo e il passivo, agiscono di comune accordo. Perch il
masochismo non rifiutato da tutti i moderni che condannano il dolore come
unesperienza negativa?
Una possibile risposta, avanzata da alcuni interpreti, che non tutti
confondono la distinzione tra il sadismo sfrenato e la subcultura sociale del
feticismo consensuale. Pensare che nel sadomasochismo consensuale il
dominante ha il potere e lo schiavo no, come non riuscire a capire la
differenza tra il teatro e la vita reale (McClintock 1993, p. 87).
Tuttavia il punto centrale della discussione non quello di abbandonare la
distinzione tra sadismo sfrenato e subcultura sociale del feticismo
consensuale, ma piuttosto interrogarci su che cosa succede quando il
modellamento (self-fashioning) individuale abbraccia ogni differenza,
compresa quella tra dolore e piacere, in un tutto estetico. Qualche volta
si dice che libridazione di categorie, comprese quelle che organizzano la
nostra esperienza sensoriale, un modo per sovvertire unautorit stabilita in
nome della libert. Ma anche possibile che lerotizzazione del dolore sia
semplicemente uno dei modi in cui la soggettivit moderna tenta di
consolidare le sue labili basi.
Recentemente un articolo apparso su un quotidiano londinese forniva il
seguente resoconto dellesibizione di un artista americano allIstituto di Arte
contemporanea:

Con la faccia raccolta in una maschera di concentrazione, Ron Athey si
lascia trafiggere la testa con un ago di sei pollici, proprio sopra le
sopracciglia. Tu osservi, pietrificato, lago che serpeggia sotto la fronte
come lacqua che pulsa in un manicotto. Una goccia di sangue fuoriesce nel
punto in cui lacciaio incontra il cuoio capelluto. Questo il primo chiodo
della corona di spine di Athey: un tributo del body piercer alla forza
delliconografia cristiana, il flirt di un ex junkie con lago, la sfida di un
omosessuale nei confronti dellinfezione da HIV.
Quando il macabro sketch finito, Athey ricoperto di aghi: con una
corona di fil di ferro, grondante di sangue, sembra una parodia della
crocifissione. Ma si tratta veramente di una parodia, definita nel dizionario
come unimitazione cos misera da apparire una deliberata derisione
delloriginale? Oppure si tratta come sosterrebbero i fan di Athey di
unesplorazione della natura del martirio, come appare a una comunit
omosessuale mondiale nellera dellAIDS? (Armistead 1994).

Di questo paragrafo interessante notare che lautore si rende conto di dover
usare la parola sketch che appartiene al mondo del teatro tra virgolette, ma
non fa lo stesso con lespressione martirio, di natura teologica. Il lettore
pensa quindi di trovarsi di fronte a un reale tributo alla forza iconografica
del cristianesimo, vale a dire a una reale esplorazione della natura del
martirio (cristiano), che tuttavia sembra soltanto una forma di teatro,
unimitazione.[18]
Vorrei precisare che non sto cercando di mettere in discussione questa
posizione, ma vorrei solo sottolineare come lautore sia consapevole del
fatto che nel discorso del modellamento moderno, il tentativo di tenere
separati reale e teatrale pu fallire. Specialmente in una cultura
115


moderna, dove la spaccatura tra il reale e le sue mere rappresentazioni stata
istituzionalizzata, pu essere necessario affermare che una determinata
esibizione semplicemente teatrale oppure che unaltra esibizione non
veramente teatro. Secondo me tuttavia il punto della questione che la
differenza tra il reale e il mimetico, cos come la differenza tra dolore
e piacere, possono essere usate per il modellamento moderno. Di
conseguenza la tensione tra il bondage reale e simulato essa stessa
estetizzata e diventa problematico operare una netta distinzione tra consenso
e coercizione.
Certamente le pratiche sadomasochiste definite nel testo riportato prima
differiscono da questa esibizione allIstituto di arte contemporanea. In
questultimo caso, per esempio, esiste una separazione tra colui che si
esibisce e gli spettatori: non c unesperienza del dare e ricevere dolore che
li unisca in un piacere reciproco. Abbiamo di fronte solo una
rappresentazione (presentazione?) unilaterale di unimmagine evocativa
della sofferenza che preceduta da una dolorosa costruzione dellimmagine
sul palcoscenico. Inoltre lintenzione dellesibizione non la produzione di
un piacere privato. Non possiamo sapere se i vari membri del pubblico di
Athey reagiscono principalmente allicona dellultima passione di Cristo o
alla dolorosa costruzione di quella stessa icona sul palcoscenico, oppure ad
entrambe le cose. Non possiamo nemmeno dire quale differenza potrebbe
fare, per quelli che vorrebbero vietare questa esibizione, sapere che Athey
soffre di un malfunzionamento del sistema nervoso che non gli permette di
provare dolore, oppure se gli dicessimo che come un virtuoso della religione
egli ha imparato a percepire positivamente questa esperienza.
Pensiamo ai musulmani della Shia che una volta allanno, ad ogni
muharram, mentre si flagellano compiangono il martirio di Husain, il
primogenito del profeta. Questo esempio di dolore autoinflitto allo stesso
tempo reale e drammatico (non teatrale) e ha meno a che fare con il
piacere rispetto allesibizione di Athey, da cui differisce per essere un rito
collettivo di sofferenza e redenzione religiosa. Non si tratta di unazione
secolare che usa una metafora religiosa per pronunciare unaffermazione
politica sul pregiudizio; e neppure presuppone un diritto al modellamento e
allautonomia delle scelte individuali. Entrambi gli esempi si rivolgono
tuttavia contro la sensibilit moderna che rifugge dallidea di un confronto
con la sofferenza che sia volontario e percepito come qualcosa di positivo.
Per gli asceti cos come per i sadomasochisti il dolore non semplicemente
un mezzo che pu essere misurato e giudicato eccessivo o gratuito in
relazione al suo fine: il dolore non azione, ma passione.
Questi casi di sottomissione volontaria al dolore nella societ moderna ci
aiutano a porre alcune domande a livello interculturale.
I criteri elencati nel testo sadomasochista riportato sopra sono interessanti
perch si pongono in antitesi al quinto articolo della Dichiarazione
universale dei diritti umani: Nessun individuo potr essere sottoposto a
tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti. In
questa norma non compare la precisazione a meno che le parti in questione
non siano adulti consenzienti. Allo stesso modo e per la stessa ragione, un
individuo non pu acconsentire ad essere venduto come schiavo, anche se
per un periodo limitato, neanche se le parti coinvolte ritengono che la
relazione di schiavit abbia un interesse erotico.
Cos la chiesa liberalizzata disapprova energicamente che i monaci si
fustighino su comando dellabate per lespiazione dei peccati anche se la
penitenza ha uno scopo rituale e un carattere drammatico e anche se i
monaci hanno preso i voti monastici di obbedienza. Questo deriva dal
moderno rifiuto del dolore fisico in generale e della sofferenza gratuita in
particolare. Ma pi giusto metterla in questo modo: lostilit moderna non
si rivolge semplicemente al dolore, ma al dolore che non si accorda con una
particolare concezione di essere umano e cio il dolore in eccesso.
Eccesso un concetto che richiama una misurazione. Un aspetto
fondamentale della moderna predisposizione al dolore si basa su un calcolo
che definisce quali siano le azioni appropriate.
116


Niente di quanto ho detto rappresenta unargomentazione contro le pratiche
sadomasochiste: non sto denunciando una pratica sessuale pericolosa[19]
come daltra parte nemmeno sono interessato a celebrare il suo potenziale di
emancipazione sociale.[20] Queste posizioni antagoniste e speculari
sembrano presupporre che il sadomasochismo abbia unessenza. Ma
lessenza di ci che il discorso legale e morale costruisce, controlla e critica
come sadomasochismo non loggetto della mia analisi. Come nel campo
delle pratiche sessuali anormali e innaturali in generale, il potere statale
direttamente e attivamente coinvolto nellaiutare a definire e a regolare la
normalit. Il mio oggetto di studio in queste pagine la struttura del dibattito
pubblico sulla valorizzazione dellesperienza del dolore in una cultura che lo
considera negativamente. E un dibattito particolarmente complesso perch
da una parte i moderni disapprovano il dolore fisico e lo considerano
degradante, mentre, dallaltra, essi difendono il diritto di ciascuno di
ricercare in privato un piacere fisico illimitato, ammesso che ci sia
conforme al principio giuridico che si tratti di adulti consenzienti e che non
conduca alla morte o a lesioni gravi. Uno dei modi in cui i moderni tentano
di risolvere questa contraddizione quello di definire la crudelt in relazione
al principio dellautonomia individuale che rappresenta la base necessaria
della libera scelta. Ma se la nozione di trattamento crudele, inumano e
degradante non pu essere definita coerentemente senza far riferimento al
principio di libert individuale, essa si relativizza.
Ci diviene pi chiaro una volta che ci si sposti nel campo interculturale.
Qui non si tratta semplicemente di eliminare una particolare forma di
crudelt, ma di imporre un discorso moderno complessivo sullessere
umano, in cui giocano un ruolo centrale i concetti di individualismo e di
distacco da un eccessivo impegno credenziale. Quindi, mentre in casa
propria si pu consentire agli adulti di agire allinterno dei vincoli della
legge sulla base dei concetti di libera scelta e di autonomia individuale,
allesterno la presenza di adulti consenzienti pu venire assunta
semplicemente come sintomo di falsa coscienza, di adesione fanatica a
credenze superate; il che spinge a pratiche di correzione forzata. .
Solo lindividuo sospettoso sospettoso verso se stesso come verso gli altri
pu essere veramente autonomo e libero da convinzioni fanatiche. Ma il
sospetto continuo introduce un elemento di instabilit ad un altro livello:
quello del soggetto.


Osservazioni conclusive

Questo saggio ha indagato ed esplorato lidea base sottesa alla dichiarazione
delle Nazioni Unite citata allinizio: Nessun individuo potr essere
sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o
degradanti. Ho sostenuto che si tratta di unidea instabile, soprattutto
perch le aspirazioni e le pratiche cui connessa sono esse stesse
contraddittorie, ambigue o in corso di cambiamento. Certamente il fatto che
unidea sia instabile potrebbe non essere in s una ragione per abbandonarla,
ma n il tentativo degli euro-americani di imporre ad altri i loro modelli
attraverso luso della forza, n linvocazione di questi modelli da parte dei
popoli pi deboli nel Terzo Mondo riesce a rendere i modelli stabili e
universali: semplicemente, li globalizza.
Abbiamo bisogno di etnografie del dolore e della crudelt che possano
fornirci una comprensione pi approfondita di come essi
siano effettivamente praticati allinterno di differenti tradizioni. Un tale tipo
di etnografia sarebbe sicuramente in grado di mostrare che la crudelt pu
essere sperimentata e indirizzata in altri modi invece che come violazione
dei diritti umani, per esempio come il fallimento di specifiche virt o come
unespressione di particolari vizi. Potremmo allora accorgerci che se la
crudelt sempre pi rappresentata nel linguaggio dei diritti e specialmente
dei diritti umani, questo perch la perenne lotta giuridica divenuta la
117


modalit dominante dellimpegno morale in un mondo interconnesso,
incerto e in continuo cambiamento.


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[1] In questo Rejali concorda con Page Du Bois. Si vedano Du Bois 1991,
pp. 153-157 e Foucault 1975.
[2] Z. Bauman (1989) ha esaminato le strutture e i processi dello Stato
moderno in grado di determinare le modalit del comportamento crudele
sotto il nazismo.
[3] (Autiero 1987, p. 24). Interessante da notare qui un curioso paradosso
nelluso di una metafora ripresa dallambito militare (affrontarla e
vincerla) per descrivere lopera compassionevole di salvezza. Ma tali
paradossi abbondano nella storia cristiana.
[4] Beccaria denuncia i barbari tormenti con prodiga e inutile severit
moltiplicati per delitti o non provati o chimerici (Beccaria 1965, p. 4) E
Voltaire, con il suo caratteristico sarcasmo, osserva: On a dit souvent que
la question [torture] tait un moyen de sauver un coupable robuste, et de
perdre un innocent trop faible. (De Voltaire 1818, p. 314).
[5] Si vedano i due frammenti pubblicati per la prima volta con il titolo di
Bentham on Torture in (James 1973, p. 45)
[6] Nel suo importante lavoro Classical Probability in the Enlightenment,
Lorraine Daston (1988) ha descritto come per due secoli i matematici
illuministi abbiano cercato di produrre un modello che potesse stabilire un
calcolo morale utilizzabile dalluomo ragionevole in condizioni di
incertezza. Sebbene la moderna teoria delle probabilit si sia
completamente allontanata da questo progetto morale gi a partire dal 1840
circa, lidea del calcolo continua ad avere un potere di attrazione per il
pensiero liberale sul benessere.
[7] Lord Milner, sottosegretario alla Finanza durante loccupazione
britannica in Egitto che cominci nel 1882, descrisse nel modo seguente il
compito dellimpero britannico nel paese: Questo e niente meno di questo
119


si intendeva con ristabilire lordine, cio riformare da cima a fondo
lamministrazione egiziana; anzi, significava qualcosa di pi. Perch
avremmo dovuto rimodellare il sistema se poi avessimo lasciato ai loro posti
ufficiali del vecchio tipo, animati dal vecchio spirito? Uomini, non misure
dovunque una buona parola dordine, ma in nessun posto pi adeguata
che in Egitto. Il nostro compito quindi prevedeva qualcosa in pi dello
stabilire nuovi principi e nuovi metodi: in ultima analisi dovevamo formare
degli uomini nuovi. Questo compito prevedava di educare le persone a
riconoscere e quindi a pretendere un governo regolare e onesto educare
un corpo di governanti capaci di assumersi questo incarico. (Lord Milner
1928, p. 23; corsivo dellautore)
Qui Milner afferma che il governo ha bisogno di creare soggetti (in
entrambi i sensi) e anche governanti formati attraverso i nuovi modelli di
comportamento umano e giustizia politica. Che questo processo avrebbe
potuto implicare luso di una certa forza e sofferenza era un fatto di
secondaria importanza. Vorrei sottolineare qui non tanto il fatto che gli
amministratori coloniali come Milner difettassero di motivi umanitari,
ma che essi erano spinti da un particolare concetto di umanit.
[8] Sono grato a Jon Wilson per avermi informato che la parola
convenienza (expediency) quella che ritroviamo sempre nei documenti
ufficiali dellIndia imperiale, da quelli del 1820 fino a quello della Reale
comminsione dellagricoltura del 1928. Il ricorso alla convenienza e
allinteresse indicava sfiducia in una credenza appassionata. Si veda
(Hirschman 1977)
[9] Lhookswinging consiste in una cerimonia in cui il celebrante
dondola da una trave costruita appositamente su un carro, appeso a due
uncini di acciaio inficcati nelle reni. Si veda(Kosambe 1967.
[10] In relazione alla pi famosa proibizione britannica del sati
(autoimmolazione di una vedova hindu sullara funeraria del marito) nel
1829, Lata Mani osserva: Piuttosto che parlare a favore della messa fuori
legge del sati come atto crudele e barbaro, come ci si potrebbe aspettare da
un vero modernizzatore, gli ufficiali in favore dellabolizione si davano
un gran da fare per spiegare come essa fosse del tutto coerente con il
principio di un aggiornamento della tradizione indigena . Essi insistevano
sulle presunte sanzioni previste nelle scritture per il sati, e sulla credenza
che la pratica contemporanea trasgredisse il suo originario, e dunque
vero, significato scritturale (Mani 1985, p. 107). Quindi fu un
induismo modernizzato quello che si rese responsabile del giudizio che il
sati era un atto crudele e barbaro.
[11] I riformatori intendevano rivolgere il loro messaggio direttamente ai
prigionieri, cui spiegavano che le punizioni erano inflitte nel loro stesso
interesse, mentre la teoria utilitaria le concepiva quale atto imparziale
socialmente necessario. Nel respingere la teoria retributiva i riformatori
tentavano in effetti di togliere alla pena qualsiasi carattere di vendetta.
Nella giustificazione che se ne dava al prigioniero, la pena non doveva pi
essere, secondo le parole di Bentham, un atto di collera o di vendetta, ma
un calcolo regolato da considerazioni sul bene sociale e sul benessere dei
trasgressori (Ignatieff 1989, p. 83).
[12] Per esempio: la Francia in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam, Israele a
Gaza e in Cisgiordania e i Britannici ad Aden, a Cipro e nellIrlanda del
Nord.
[13] U.S. Department of State, 1994, Country Reports on Human Rights
Practices for 1993, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, p.
1204.
[14] Questa precisamente largomentazione di Bentham riguardo alla
razionalit della tortura in confronto alla punizione: Lintento per cui si fa
ricorso alla tortura tale che ogniqualvolta questo intento sia raggiunto,
essa viene immediatamente cessata. Con lazione punitiva succede
necessariamente altrimenti. Per quanto riguarda la punizione, infatti, per
essere sicuri di applicarla per il tempo necessario si deve normalmente
correre il rischio di applicarla troppo a lungo. Nel caso della tortura invece
120


non c mai bisogno di infliggerla un secondo pi del necessario. Jeremy
Bentham in James 1973, p. 45.
[15] Non bisogna dimenticare che anche la guerra medievale aveva le sue
regole; si veda ad esempio Contamine 1984. In un certo senso la
regolamentazione morale della condotta in guerra era ancora pi rigorosa
nel basso medioevo: uccidere e mutilare il nemico, anche se durante una
battaglia, erano considerati peccati per cui la Chiesa richiedeva la
confessione. Si veda Russell 1975.
[16] Riguardo alla pallottola schiacciata o dum dum, utilizzata per la
prima volta nellIndia britannica nel 1897, Daniel Headrick osserva:
Questa particolare invenzione era cos immorale, perch causava dei
grossi fori nella carne, che gli europei ritennero troppo crudele usarla tra
loro e la utilizzarono solo contro asiatici e africani (Headrick 1979, p.
256).
[17] Il paradosso qui che il cittadino moderno un individuo libero ma
obbligato a rinunciare alla pi importante scelta riservata ad un essere
umano, quella che concerne la propria vita o morte. Lo Stato moderno pu
spedire i propri cittadini verso una morte in guerra che essi stessi non
hanno voluto e non permettere loro di vivere in pace.
[18] Cfr. laffermazione di McClintock (1993, p. 106): Il sadomasochismo
la pi liturgica delle forme e condivide con la cristianit uniconografia
teatrale di punizione ed espiazione: rituali del lavaggio, asservimento, body-
piercing e tortura simbolica. Ma perch solo simbolica?
[19] Si veda ad esempio Linden. et al. 1982; si vedano anche i giudizi legali
sul caso Spanner in Inghilterra, contro cui in corso un appello alla Corte
Europea.
[20] La natura radicale della critica sociale che il sadomasochismo dice di
esprimere esposta efficacemente in McClintock 1993 Ma le implicazioni
liberatorie del sadomasochismo sono esplicitamente ritrattate alla fine
dellarticolo. Si veda anche lintelligente lavoro di Angela Carter
(1979) Tali scritti, se da una parte forniscono una decodificazione
politicamente radicale del sadomasochismo, sembrano anche sostenere che,
in quanto modo per ottenere lorgasmo, il sadomaso il prodotto di
relazioni socialmente distorte e sessualmente repressive.




























121



LAtto del testimoniare. Violenza, conoscenza avvelenata e
soggettivit
Veena Das

(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp.
215-246; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)

In questo articolo vorrei discutere il significato della testimonianza in
relazione alla violenza e alla formazione del soggetto. Una caratteristica
importante della violenza catastrofica prodotta dalla Spartizione dellIndia
nel 1947 e, pi recentemente, dalle guerre etniche nella ex-Jugoslavia stata
la durezza della violenza contro le donne (si vedano Das 1995a, 1997;
Menon, Bhasin 1998; Butalia 1998). Le violazioni incise sul corpo
femminile (letteralmente e metaforicamente) e le formazioni discorsive
riguardanti queste violazioni hanno reso visibile limmaginazione della
nazione come nazione maschile. Quali ne sono state le conseguenze per la
soggettivit delle donne?
Come hanno sostenuto molti contributi recenti alla teoria del soggetto,
lesperienza del divenire soggetto fortemente collegata allesperienza della
sottomissione (Butler 1997; Mohanty 1993). Quindi necessario chiedersi
non solo come le donne siano state rese vittime di violenza etnica o
comunitaria, attraverso specifici atti di violenza di genere come lo stupro,
ma anche come esse abbiano colto questi segni nocivi di violenza e se ne
siano riappropriate attraverso un lavoro di addomesticamento,
ritualizzazione, e ri-narrazione. In alcuni dei miei primi articoli su questo
argomento ho analizzato le formazioni discorsive attraverso le quali nei
discorsi del potere veniva attribuito un particolare tipo di soggettivit alle
donne vittime di stupro e rapimento (Das 1995a). Ma la formazione della
soggettivit femminile, per quanto influenzata da questi discorsi, non
interamente determinata da essi. Ho sostenuto che le donne parlano delle
loro esperienze ancorando i loro discorsi al genere del lutto e del pianto
funebre, un lavoro culturale in cui disponevano di un ruolo gi assegnato
(Das 1986, 1990, 1997; si vedano anche Briggs 1993 e Seremetakis 1991);
ma parlano del dolore e della violenza tanto allinterno di questi generi
quanto al di fuori di essi. Attraverso complessi rapporti tra corpo e
linguaggio, le donne sono state capaci tanto di dare voce al male che era
stato fatto loro, quanto di mostrarlo, come anche di rendere testimonianza
del male perpetrato nei confronti dellintero tessuto sociale il danno fatto
allidea stessa che gruppi diversi possano abitare insieme il mondo.
In questo articolo vorrei analizzare che cosa significhi essere un testimone di
violenza e parlare della morte delle relazioni. Nellimmaginario letterario
occidentale la figura di Antigone come testimone ci fornisce una sorta di
mito di fondazione che esplora le condizioni nelle quali la coscienza pu
trovare una voce al femminile. Hegel, com noto, riconobbe un conflitto di
strutture in questo racconto. Secondo la sua lettura, Creonte opposto ad
Antigone come un principio di legge opposto ad un altro: lopposizione tra
la legge dello Stato e la legge della famiglia.

La legge pubblica dello Stato in aperto conflitto con lintimo amore
familiare e il dovere verso il fratello; linteresse familiare ha come pathos la
donna, Antigone, la salute della comunit Creonte, luomo. Polinice,
combattendo contro la propria citt natale, era caduto di fronte alle porte di
Tebe; Creonte, il sovrano, minaccia di morte, con una legge pubblicamente
bandita, chiunque dia lonore della sepoltura a quel nemico della citt. Ma di
questordine che riguarda solo il bene pubblico dello Stato, Antigone non si
cura, e come sorella adempie al sacro dovere della sepoltura, per la piet del
suo amore per il fratello (Hegel 1986, p. 522).

Finch, con Hegel, guardiamo al dialogo come elemento costitutivo la scena
della rappresentazione, difficile trovare in questa tragedia altri significati al
di fuori del conflitto di questi due discorsi. Di contro, Jacques Lacan ci
122


invita a spostare lo sguardo sulla posizione tragica di Antigone. Qual la
natura della zona che Antigone occupa in questo scenario? Lacan lo
specifica in vari modi: come limite, come un evento tra due morti, come il
punto nel quale la morte in lotta con la vita. La scena della morte di
Antigone rappresentata in questa zona particolare e soltanto da l potr
essere pronunciato un particolare tipo di verit.
Lacan rifiuta linterpretazione di Hegel in base alla quale Creonte si
opporrebbe ad Antigone come un principio di legge si oppone ad un altro. Al
contrario, egli pi in sintonia con la visione di Goethe secondo la quale,
colpendo Polinice, Creonte avrebbe oltrepassato il limite. Il problema,
secondo Lacan, non si pone nei termini di una legge che si oppone ad
unaltra, ma piuttosto bisogna chiedersi se la legge di Creonte potesse
comprendere in se stessa qualsiasi cosa, inclusi i riti funerari. Per Lacan non
si tratta mai di un diritto opposto ad un altro, ma di un torto contro qualcosa
che non pu facilmente trovare un nome. Lacan insiste sul fatto che la
passione di Antigone non si rivolge ai sacri diritti del morto: non parla in
favore dei diritti della famiglia contro le norme di legge. Egli rivolge invece
lattenzione al famoso passaggio del discorso di Antigone che ha causato
molte discussioni tra i commentatori. Si tratta del discorso che Antigone
pronuncia a giochi fatti: la sua cattura, il suo rifiuto di obbedire, la sua
condanna, il suo lamento sono episodi gi occorsi. Nel momento in cui
pronuncia il suo discorso, Antigone di fronte alla tomba in cui sta per
essere seppellita viva. Il discorso cos parafrasato da Lacan:

Sappiatelo, non avrei sfidato la legge dei cittadini per un marito o per un
figlio a cui fosse stata rifiutata la sepoltura, poich dopotutto, essa dice, se
avessi perduto un marito in queste condizioni avrei potuto prenderne un
altro, e se insieme al marito avessi perduto anche un figlio, avrei potuto fare
un altro figlio con un altro marito. Ma qui si tratta di mio fratello, nato dallo
stesso padre e dalla stessa madre (Lacan 1986a, p. 323).

Sembra che qui ci siano due momenti: il primo che Antigone si mossa
verso quel limite oltre il quale il s si separa in una parte che pu essere
distrutta e una che deve invece durare. Antigone pronuncia questo discorso
quando pu immaginarsi gi morta - e tuttavia sopporta questo terribile
gioco del dolore non per affermare i propri desideri ma la non-sostituibilit
del fratello. Lacan, prendendo la voce di Antigone, dice:

Mio fratello tutto quel che volete, il criminale [] Per me questordine che
voi osate intimarmi non conta niente, perch per me, in ogni caso, mio
fratello mio fratello (Lacan 1986b, p. 351).

Per Lacan sembra chiaro che Antigone, parlando da quella zona tra due
morti, pu dar voce allunicit dellesistenza. La verit in nome della quale
parla va oltre le leggi dello Stato e si potrebbe affermare che, ribadendo
lunicit del suo fratello criminale, la sua passione evochi il crimine
sottostante alla legge della citt. Questa unimportante formulazione sul
modo in cui la voce emerge in un momento di trasgressione. Eppure ci che
distingue la formulazione di Lacan dalle centinaia di articoli che appaiono
ogni anno sul desiderio, sul piacere, sulla trasgressione e sulla posizione del
soggetto che laffermazione dellunicit dellessere contro ci che scritto
nella legge non ha a che fare con la sottomissione allimmediatezza del
desiderio. Al contrario: la zona tra le due morti identificata come la zona
dalla quale pu essere affermata lineffabile verit sulla natura criminale
della legge. Perch Antigone che deve affermare lunicit della persona
che stata condannata come criminale dallo Stato e che questo vuol
consegnare alleterno oblio?
Per Lacan, linsostenibile verit sostenuta da Antigone troppo terribile per
essere sopportata. Infatti, nel mettere in discussione la legittimit di una
regola che cancella lunicit dellesistenza persino nella morte, la donna
mostra la criminalit dello stesso ordine sociale. Questa verit, dice Lacan,
ha bisogno dellinvolucro della bellezza che la nasconda e allo stesso tempo,
123


tuttavia, la renda disponibile allo sguardo. Si pu leggere in ci un certo
sospetto per la visione, che alcuni autori hanno notato in Lacan; ma la
relazione tra voce e visione risulta assai complicata nellarticolazione di
questa insostenibile conoscenza.
Il tema della donna che prende la parola mentre occupa la zona tra due morti
svolge un ruolo importante nellimmaginario indiano. E un tema che poggia
sulla suddivisione sessuata di parola e silenzio nel lamento funebre, ma al
tempo stesso si separa da essa. La verit articolata da questa zona per
raramente avvolta nella bellezza e nello splendore, come pure
testimonierebbero le ben note figure femminili della mitologia indiana, come
le dee Kali o Sitala. Invece di guardare a questo contrasto a livello
dellimmaginario, cos come articolato nella mitologia e nella letteratura,
vorrei spostare la discussione in una direzione diversa. Si pu testimoniare
della criminalit della norma sociale che consegna lunicit dellessere
alloblio eterno, non attraverso un atto di drammatica trasgressione, bens
attraverso una discesa nella vita quotidiana? Come possibile articolare la
perdita non semplicemente attraverso un atto di ribellione drammatica, ma
imparando piuttosto ad abitare il mondo, o ad abitarlo di nuovo, da una
posizione di lutto? In questo contesto si pu identificare locchio non come
lorgano che vede ma come lorgano che lacrima. La formazione del
soggetto come soggetto di genere ha dunque a che fare con transazioni
complesse tra la violenza come momento originario e la violenza che si
infiltra nelle relazioni esistenti e diviene una sorta di atmosfera che non pu
essere espulsa verso lesterno. Voglio riproporre a questo punto lidea di
Wittgenstein della non esistenza di un esterno e la sua immagine del
tornare indietro, sebbene il contesto in cui egli parlava fosse ovviamente
diverso.

Lideale, nel nostro pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne.
Devi sempre tornare indietro. Non c alcun fuori; fuori manca laria per
respirare (Wittgenstein 1953, 103, p. 64)

Questa immagine del tornare indietro evoca lidea non tanto di un vero e
proprio ritorno, quanto di un retrocedere ad abitare lo stesso spazio che ora
segnato come spazio di distruzione, ma in cui si deve vivere di nuovo. Da
qui il senso della quotidianit in Wittgenstein come senso di qualcosa di
recuperato. Come ci si possa riappropriare di un tale spazio di distruzione
non attraverso unascesa nella trascendenza ma attraverso una discesa nella
vita di ogni giorno ci che descriver attraverso la vita di una donna, qui
chiamata Asha. Se il personaggio di Antigone ci ha fornito un modo in cui
possiamo pensare alla voce come ad una creazione spettacolare e ribelle del
soggetto attraverso latto del discorso, la figura di Asha mostra la creazione
del soggetto di genere attraverso limpegno in una conoscenza che
ugualmente avvelenata ma affrontata attraverso il lavoro quotidiano della
riparazione.


Il contesto etnografico

Questo articolo si basa su una ricerca che ho condotto tra le famiglie urbane
del Punjab, alcune delle quali trasferite in seguito alla Spartizione dellIndia.
Negli anni 1973 e 1974 sono stata impegnata nello studio di una rete di
famiglie del Punjab residenti in citt, con lobiettivo di capire il loro sistema
di parentela (Das 1976).
Il nucleo di questa rete di parentela era localizzato a Delhi e consisteva di
dieci famiglie che erano fuggite da Lahore al tempo della Spartizione. Altre
famiglie in questa rete si erano sparse in molte citt, incluse Amritsar,
Bombay, Calcutta, Ferozpur, Ludhiana, Jullundher e Simla. Negli stadi
iniziali del mio lavoro sul campo ho raccolto la terminologia riferita alla
parentela, ho ricostruito genealogie, registrato transazioni di doni, e cercato
di ricostruire le alleanze matrimoniali. Allora ero molto interessata alle
politiche della parentela e per questo assistevo da vicino alle discussioni
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durante i matrimoni o i funerali e alle narrazioni relazionali che venivano
ossessivamente discusse e dibattute. La Spartizione ha creato differenze
significative di ricchezza e di reddito allinterno della rete di parentela:
quindi laiuto di coloro che sono sopravvissuti meglio di altri alla distruzione
ha rappresentato una componente essenziale delle strategie di sopravvivenza.
Questo aiuto ha preso la forma delladozione o dellaffidamento dei bambini
di un parente morto o divenuto indigente, oppure si tradotto in aiuti
materiali sotto forma di doni, ospitalit temporanea o prestiti di denaro. Ai
parenti che erano fuggiti da Lahore o Gujranwala veniva offerto un tetto da
parte dei parenti pi fortunati che avevano case sul lato indiano del confine.
Eppure, laltra faccia di queste relazioni di parentela era la costante allusione
al tradimento della fiducia, alle infedelt e allincapacit di conformarsi agli
alti ideali morali della solidariet tra parenti. Il modo in cui queste delusioni
nelle relazioni venivano messe in scena, la performance delle accuse e la
delicata codifica dei riferimenti a favori fatti in passato o a relazioni tradite
formavano lestetica della parentela (v. Das 1976, 1990, 1995).
Non esisteva nessun tab nel riferirsi alla Spartizione o alle case che erano
state lasciate. Eppure la violenza personale subita o i tradimenti dei quali
stavo diventando lentamente consapevole sembravano essere sempre al
margine della conversazione. Cera unestetica sottile su che cosa poteva
essere dichiarato tradimento e cosa poteva soltanto essere sepolto nel
silenzio. Le memorie della Spartizione non avevano quindi natura di
qualcosa di sotterraneo, represso o nascosto, che avesse bisogno di essere
riportato alla luce. In qualche modo questi ricordi erano molto presenti in
superficie. Eppure, intorno ad essi si erano create delle barriere: lo stesso
linguaggio che si faceva carico di queste memorie aveva un certo gusto
straniero, come se il punjabi o lhindi in cui se ne parlava fossero un qualche
tipo di traduzione da unaltra lingua sconosciuta. Per il momento butto l
questa idea, che potrebbe servire a concettualizzare ci che molti hanno
definito linguaggio interno, e passo dai problemi delle rappresentazioni alla
nozione di lavoro nella formazione del soggetto. Una caratteristica del mio
lavoro era il tentativo di comprendere la vita delle donne attraverso la
concretezza delle relazioni in cui esse erano coinvolte. Le nostre lunghe
conversazioni avvenivano nei contesti normali della vita quotidiana: non si
trattava dunque di racconti in risposta alla domanda Che cosa successo?.
Vorrei prima di tutto descrivere il caso di Asha, in cui, come vedremo, il
momento originario della violenza della Spartizione si intrecciato con gli
eventi della sua vita, poich Asha in quanto vedova era gi vulnerabile
nelluniverso etico dei legami di parentela di una casta superiore hindi. Ma
essere vulnerabile non la stessa cosa che essere una vittima e coloro che
sono inclini a dare per scontato che le norme sociali o le aspettative relative
alla vedovanza si tramutino automaticamente in oppressione devono tenere
nella dovuta considerazione lo scarto tra una norma e la sua messa in atto.


Vedovanza e vulnerabilit

Asha aveva cinquantatr o cinquantaquattro anni quando lho conosciuta.
Sposata ad un membro di uninfluente famiglia della casta dei commercianti,
aveva vissuto con il marito e i suoi due fratelli maggiori, a loro volta sposati,
nella casa di famiglia a Lahore. Era rimasta vedova allet di ventanni, nel
1941. Suo marito prese la febbre tifoide e mor dopo tre settimane di
malattia. Era il fratello pi giovane di una famiglia affettivamente molto
unita e inoltre aveva una relazione molto stretta con le due sorelle maggiori
sposate, che lo avevano di fatto cresciuto, visto che la madre era morta di
parto. Asha disse che il dolore delle sorelle di suo marito era stato tanto forte
quanto il suo.
Ricordava il primo periodo del suo lutto come un periodo in cui aveva
ricevuto grandissimo affetto e supporto da tutti loro. Continu a vivere con
la famiglia del fratello pi anziano del marito. Il fatto di non avere figli le
pesava moltissimo. Disse che aveva perso qualsiasi interesse per la vita. Al
fine di risvegliare il suo interesse per la vita, la sorella pi giovane di suo
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marito le diede suo figlio in adozione. Il figlio non era stato allontanato dalla
propria madre, ma si supponeva che, una volta adulto, egli si sarebbe preso
la responsabilit di prendersi cura di lei. Accordi di questo genere erano
comuni allinterno di un gruppo di parentela anche trenta anni fa, poich le
donne spesso trattavano i figli come condivisi (Bache te ji sajhe honde
hain; letteralmente: I figli appartengono a tutti). Non era quindi inusuale
che attorno ad un unico bambino si sviluppassero vari tipi di relazioni.
Questo era il modo in cui una comunit di donne si prendeva cura di un
membro particolare che aveva sofferto un lutto. In qualche modo le donne
sviluppavano dei sottotesti culturali, che erano ancorati ai testi patriarcali e
dominanti della societ e che per creavano spazi per nuove relazioni
affettive. In questo caso, per esempio, sarebbe stato fuori discussione
consentire che la vedova adottasse un bambino al di fuori del gruppo
patrilineare di parentela: assegnandole invece un bambino proveniente
dallinterno del gruppo di parentela come specialmente suo si intendeva
creare una relazione speciale tra di loro. Nella comprensione e costruzione
della natura umana da parte delle donne, si sentiva che, per una donna, la
mancanza della maternit era un grave problema; cos le sorelle del marito
cercavano di riempire il vuoto nella vita di Asha. Si potrebbe obiettare che
questa stessa costruzione del bisogno femminile costringa la donna ad
investire il desiderio nella maternit piuttosto che, diciamo, nella sessualit:
essa costruisce quindi il s femminile in accordo con i paradigmi culturali
dominanti. Questo vero, ma dobbiamo anche notare che le
rappresentazioni culturali non definiscono mai completamente il s. Se il
contesto sociale si altera improvvisamente, una diversa definizione del
bisogno femminile pu essere sviluppato dalla donna stessa o da altri attori
sociali. Le vite individuali risultano cos definite dal contesto, ma sono
anchesse generative di nuovi contesti. Cos era stato per Asha il periodo
turbolento della Spartizione, nel quale sembravano ridefinirsi i rapporti tra
norme sociali e nuove forme di soggettivit. Non che le vecchie posizioni di
soggettivit fossero state semplicemente abbandonate: piuttosto erano nati
nuovi modi in cui persino i segni delle ferite potevano essere abitati. In
questo senso, la domanda di come ci si possa appropriare del mondo per
Asha doveva essere posta nuovamente: Asha si muoveva tra strade diverse
nelle quali poteva trovare i mezzi per ricreare le proprie relazioni, a fronte
della conoscenza avvelenata che si era infiltrata allinterno di queste.
Durante la Spartizione la famiglia acquisita di Asha aveva perso tutto ed era
stata costretta a scappare da Lahore a mani vuote. La sorella maggiore di suo
marito mor nelle rivolte. Non mai stato chiaro se si fosse uccisa o se
invece fosse stata rapita. In tutti i racconti su Lahore che ho ascoltato presso
la famiglia, questo periodo rimaneva sempre oscuro. Ad esempio ho visto
fotografie dellintera famiglia in cui questa donna successivamente
deceduta - appare in diversi contesti felici. Le occasioni in cui le fotografie
venivano mostrate davano vita solitamente a racconti dellevento ritratto
nella foto, ma non veniva fatto alcun riferimento allattuale assenza della
donna. Una domanda del tipo Che cosa le accaduto? incontrava una
risposta superficiale come E morta in quel periodo.
Come ho spiegato prima, nei mesi direttamente precedenti e seguenti alla
Spartizione, le sistemazioni abitative erano molto instabili: le persone si
spostavano da un posto allaltro in cerca di lavoro, di abitazioni e di modi di
riformulare la loro esistenza. La famiglia di origine di Asha viveva ad
Amritsar, la citt pi vicina al confine sul lato indiano e divenne per questo
la prima fonte di aiuto per la sua famiglia acquisita. Asha ricord che una
volta nella loro casa venne data ospitalit contemporaneamente a quaranta
parenti. Lentamente, nel giro di qualche mese, quando altri parenti a Simla,
Dehli e Ferozpur si fecero avanti per aiutare, i parenti acquisiti di Asha
iniziarono a spargersi in posti diversi. Asha rimase con il suo figlio adottivo
presso la famiglia di suo padre, ma mentre i suoi genitori si mostravano
disponibili, suo fratello e la cognata non avevano intenzione di accollarsi
questo peso in pi. La cosa non sarebbe mai venuta fuori esplicitamente, ma
veniva comunicata attraverso discorsi velati ed una particolare estetica dei
gesti. Come ogni enunciato che prende significato dal contesto (il che non
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significa che non possa essere esso stesso generativo di contesto), i
frammenti del suo discorso che citer sono pieni di parole non dette, gesti
performativi e di un intero repertorio di informazioni culturalmente dense
che circondano le espressioni. Non voglio certo suggerire una nozione
oggettivata del significato (Qui una parola, l un significato come si
esprimeva Wittgenstein), ma mi pare che compilare questo repertorio, a cui
alludono i frammenti, ci permetta di costruire il significato come un
processo in cui le espressioni enunciate derivano il loro significato dal
mondo della vita piuttosto che da nozioni astratte di semantica strutturale.[1]
Asha filosofeggiava su ci che considerava come riluttanza di suo fratello a
darle una casa nel modo seguente:

Il cibo di una figlia non mai un peso per i suoi genitori, ma quanto a lungo
vivranno i genitori? Quando persino due pezzi di pane sembrano troppo
pesanti ad un fratello, allora meglio mantenere il proprio onore mettersi
il cuore in pace - e vivere nel posto in cui si destinati a vivere.

La formulazione di Asha - un enunciato indicativo - costituisce anche il suo
rimprovero alla vita. Ne offro unesegesi prendendo espressioni diverse di
questa formulazione e aggiungendo la densa codifica culturale che si pu
dire fornisca il contesto per comprendere il suo rimprovero.[2]
Primo frammento

Il cibo di una figlia non mai un peso per i suoi genitori,
Beti di roti ma pyo te pari nahin hondi,

Asha si rif qui allidea culturale che sebbene le norme di parentela orientino
una figlia verso i propri affini, la famiglia di origine ha alcuni obblighi
residui verso le figlie sposate che abbiano avuto sfortuna. Una donna pu
sempre rivendicare il diritto di ricevere aiuto dalla madre o dal padre in caso
di disgrazia; i genitori non considerano lobbligo di prestare aiuto alla figlia
come un peso, per via dellamore che nutrono per la figlia (anche se bisogna
notare che viene sottolineato che si tratta solo di aiuto finalizzato alla
sopravvivenza: se i genitori cercassero di dare di pi alla figlia, ci
creerebbe risentimento tra i figli maschi, che si ritengono gli eredi legittimi).
Quindi il cibo che la figlia reclama presso la casa paterna non sentito dai
genitori come un peso (cio come un carico gravoso). Qui chiaramente
Asha prende la voce della figlia per rivendicare un diritto, attribuendo una
forma di soggettivit ai genitori: eppure si sa che nella vita punjabi questo
diritto si realizza raramente, spingendo la figlia ad un esilio permanente.[3]

Secondo frammento

ma quanto a lungo vivranno i genitori?
ma-pyo kine din rehenge?

Quando una figlia sposata fa una richiesta ai propri genitori perch sta
affrontando un periodo di disgrazia nella casa del marito, la donna tende a
dimenticare che il tempo cancella le relazioni. Arriver inevitabilmente un
momento in cui i genitori non saranno pi l ad accoglierla: il potere passer
nelle mani di suo fratello e di sua moglie. Allora i due pezzi di pane sui quali
lei rivendica il diritto nella casa dei propri genitori diverranno un peso per
suo fratello e per sua cognata. Una figlia deve sempre tenere a mente la
natura effimera delle proprie rivendicazioni sui beni paterni. Il concetto di
tempo come distruttore delle relazioni si incontra come un ritornello costante
nella vita punjabi e d conto del fatto che il momento attuale, in cui si sta
vivendo, immaginato in relazione al momento eventuale. Il soggetto
quindi concepito come un soggetto plurale che abita il momento presente ma
che parla anche come se stesse gi occupando un momento nel futuro. Ci
ha implicazioni importanti per la comprensione della profondit temporale in
cui il soggetto si costituisce e del modo in cui la memoria traumatica
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dischiude il tempo, rappresentandosi il buio presente da un punto di vista gi
proiettato nel futuro.

Terzo frammento
Quando persino due pezzi di pane sembrano troppo pesanti ad un fratello
Jad do rotiyan wi apne hi pra nun pari pein lagan

Nella societ Punjabi la relazione tra fratelli riconosciuta come carica di
tensioni che derivano dal loro status di co-eredi. C una tensione ulteriore
tra il principio di gerarchia, in virt del quale il fratello maggiore deve essere
trattato come un padre poich eredita lobbligo morale di prendersi cura dei
fratelli minori, e il principio di eguaglianza, in ragione del quale tutti i
fratelli hanno uguali diritti sulle propriet di famiglia e devono essere trattati
come uguali. Diversamente la relazione tra fratello e sorella valorizzata
come una relazione sacra in cui la sorella fornisce protezione spirituale al
fratello e in cambio, in segno di onore, le si porgono doni nella casa del
fratello[1](Bennett 1983).
Una sorella sposata che faccia visita in occasioni rituali, porti doni ai figli
del fratello, come si conviene, e riceva doni dati liberamente e con affetto
dalla casa del fratello si dice che porti onore ad entrambe le famiglie. Invece
una sorella sposata indigente, che sia stata costretta ad abbandonare la casa
della famiglia del marito e a trovarsi un posto nella casa del fratello, diventa
oggetto di diffidenza, specialmente da parte della cognata, la quale teme che
possa usare la sua posizione di figlia benvoluta per usurpare una parte delle
propriet del fratello. Molte canzoni di donne colgono questa sensazione
della donna sposata di essere unesule: il suo desiderio di fare visita alla casa
paterna viene percepito dal fratello come una scusa per richiedere una parte
della propriet del padre (v. Trawick 1986). Ecco perch i due pezzi di pane
che la sorella consuma sembrano un peso: si riferiscono ad un tempo nel
quale langoscia della sorella non verr pi udita nella casa natale. Questa
visione del futuro rende insopportabile per Asha immaginare la propria
trasfigurazione da figlia e sorella benvoluta a peso per la famiglia. E
importante notare che Asha non si sta lamentando del rifiuto che ha gi
vissuto ma sta immaginando in quale direzione potr procedere la sua storia
allinterno di un possibile sviluppo sociale di tali storie.
Quarto frammento
allora meglio mantenere il proprio onore -
pher apni izzat bacchaye rakho -
Asha sa che in queste mutate circostanze i suoi parenti acquisiti sarebbero
costretti ad aiutarla. Allora meglio mantenere il proprio onore, dice,
sopportando lumiliazione nella casa acquisita, cosa che considerata il
dovere di ogni donna. Invece la casa dei genitori immaginata come un
posto dove lei gode del diritto di ricevere onore. Se essa non riesce a
prevedere linevitabile inasprimento delle relazioni e rivendica ci che suo
diritto, perder il proprio onore. Eppure si notano segnali di disappunto per il
fatto che la storia individuale non possa trascendere la trama culturalmente
data nei cui termini Asha immagina la temporalit della relazione fratello-
sorella.

mettersi il cuore in pace
shanti banaye rakko -
Riconciliarsi non ha il senso di una sottomissione passiva ma di un impegno
attivo: il fare costantemente piccole cose che ti faranno vedere dalla famiglia
sotto aspetti diversi da quello di una vedova, cio un peso. Per esempio se
Asha deve far scomparire completamente la propria sessualit, deve per
esser sempre disponibile per faccende dalle quali gli altri si tirano indietro:
arrotolare papads per ore, pulire il sedere di un bambino, macinare o pestare
spezie. Allo stesso modo lespressione di affetto deve essere gestita
attentamente (v. Trawick 1990). La faccia di Asha, per confarsi a quella di
una vedova, deve sempre portare la presenza del dolore - la riga dei capelli,
privata del benaugurante rosso vermiglio, come lei mi disse, era il simbolo
di tutto ci che ha a che fare con un vuoto nel cosmo. La performance
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dellidentit di genere della vedovanza ha la forza di un rituale sociale
obbligatorio. Eppure se il dolore viene messo in piazza in modo troppo
vistoso mette tutti a disagio, come se ridendo o gustando un cibo speciale si
stesse tradendo un fratello morto, o uno zio. C qui una speciale estetica dei
sensi. Una vedova, in particolare una giovane vedova senza figli, comprende
la propria vulnerabilit perch deve introiettare nel proprio comportamento
la credenza culturalmente condivisa che lei di cattivo auspicio: tutti i segni
esterni con cui si trasmette il suo status malaugurante sono incorporati in lei.
Eppure la relazione che lei ha con il suo corpo non semplicemente una
sovrapposizione di questo s esteriore su quello interiore. Asha fa venire a
mente a tutti i membri della famiglia un fratello molto amato, morto
prematuramente, ma questi ricordi non devono interferire con la necessit di
andare avanti con la vita. Il viso di Asha, il suo corpo devono costantemente
rappresentare questa estetica. Ripeto che non intendo dire che esistono
sentimenti, pensieri e sensazioni che sono interni e, dallaltra parte, un
comportamento esterno; invece lintero portamento del corpo, in quanto
fornisce segni esterni attraverso i quali gli altri possono leggere linterno,
a rappresentare unazione importante, incardinata, in questo caso, nella
grammatica della vedovanza nella societ indiana.

e vivere dove si destinate a vivere.
te jithe kismat lei gayi, othe hi rao.
C qui un riferimento allidea culturale che il destino di una donna sia nella
casa del marito. Questa nozione pi volte ripetuta alle ragazze, la cui
socializzazione pone laccento sul loro futuro nella casa del marito. Le
donne pi anziane spesso esprimevano lidea che una ragazza dovrebbe
entrare in casa del marito sulla portantina nuziale (doli) e uscirne per
abbandonarla solo tenuta sulle spalle da quattro uomini, da cadavere.
Lesegesi di questa singola affermazione ci fa capire quanto della voce di
Asha stato formato dalle norme culturali e patriarcali sulla vedovanza,
eppure bisogna ricordare che prima della Spartizione Asha non avrebbe
dovuto prendere in considerazione queste scelte. Non che le norme fossero
diverse in precedenza, ma la composizione della famiglia e, in particolar
modo, la stretta relazione che aveva con la sorella del marito non davano a
tali norme la forza che esse acquisirono in seguito. Per quanto vedova, Asha
si sentita amata ed stata aiutata dalla famiglia acquisita, cosa che le ha
fatto sentire di avere un posto legittimo allinterno di essa.
Con la Spartizione si assistette ad un enorme declino delle fortune della
famiglia. Ogni unit della precedente famiglia allargata doveva affrontare
nuovi e allapparenza insormontabili problemi. Dove avrebbero vissuto?
Dove sarebbero andati a scuola i figli? Uno dei figli era pronto per la scuola
di medicina. Dove avrebbe trovato suo padre i soldi per la sua
istruzione? Con le nuove tensioni cui erano ora soggette le famiglie, Asha
not una sottile differenza nel modo in cui veniva trattata. Mentre prima la
morte di suo marito veniva vista come una grande disgrazia che le era
accaduta, adesso le veniva affibbiata la colpa della sua morte: a poco a poco
veniva a trovarsi in una posizione di capro espiatorio. A volte le donne della
sua famiglia acquisita, cio la moglie del fratello di suo marito e la sorella di
suo marito, avrebbero fatto allusioni al fatto che lei non era stata capace di
richiamare indietro il marito dalle soglie della morte per riportarlo in vita.
Come riportava Asha

Iniziarono ad insinuare lidea che mio marito fosse molto insoddisfatto del
mio aspetto. Lui era un uomo cos bello e io una donna cos comune. Dissero
che forse aveva perso interesse per la vita, perch in realt non gli piacevo.
Queste parole mi fecero sentire cos in colpa e piena di rimorsi che ho
pensato spesso di uccidermi[4]

Asha si spost tra la sua famiglia di origine, la famiglia del fratello di suo
marito e la famiglia della sorella di suo marito per i successivi quattro anni.
In parecchie conversazioni, ecco ci che mi ha comunicato:

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Ho cercato di rendermi utile ovunque. Lavoravo notte e giorno. Ero cos
affezionata ai bambini da essere preparata a sopportare qualsiasi cosa per il
loro bene. Ma presto gli scherni divennero pi pesanti. E ci che fu
insostenibile fu il fatto che il mio jija ji (cognato), che nel frattempo era
rimasto vedovo, inizi a farmi proposte sessuali alle quali era molto difficile
resistere. Ero combattuta tra la lealt verso il mio defunto marito, sua sorella
che avevo amato molto e i nuovi tipi di bisogni che sembravano essere
risvegliati dalla possibilit di una nuova relazione. Ho iniziato a capire che
sarei sempre stata la persona adatta per gli esperimenti. Lui non propose mai
di sposarci, cosa che avrebbe creato uno scandalo poich io avevo vissuto a
lungo nella loro casa.[5] Alla fine scrissi ad un grande amico di mio marito
che viveva a Puna. Mi propose di andare a trovare la sua famiglia. Quando
fui a Puna, lui mi persuase che avevo una lunga vita di fronte e che se non
volevo essere costantemente degradata avrei dovuto risposarmi. A Puna
cera un uomo ricco. Sua moglie lo aveva lasciato. Era molto pi vecchio di
me, ma questo amico ci ha combinato un matrimonio. Allora ho scritto sia
alla mia famiglia di origine (peke) che ai membri della mia famiglia
acquisita (saure) che mi ero risposata. Ci fu una terribile esplosione dira:
giurarono che non mi avrebbero pi voluta vedere. Dissero che con il mio
comportamento li avevo disonorati. E, sicuramente, li avevo disonorati. Mi
avevano coperta di cos tanto affetto, finch la loro vita non era stata
distrutta, e io li avevo ripagati insozzando i loro turbanti bianchi (pagdis).[6]
Non avrebbero potuto pi mostrarsi in pubblico. Ma io non potevo farci
nulla.

Quello che segu fu un periodo di grande tensione per Asha. Sebbene si
fosse risposata e nei successivi quattro anni avesse avuto due figli, sembrava
non essere capace di dimenticare i legami con la precedente famiglia
acquisita. Anche il suo nuovo marito sembrava poco incline a recidere i
legami con la sua prima moglie, che veniva spesso a trovarli dal suo
villaggio e ribadiva i diritti dei suoi figli sulle propriet e sullaffetto del
padre. In effetti, uno dei suoi figli torn a vivere col padre e sembrava
considerarsi il legittimo erede delle sue propriet. Dopo i molti colloqui
informali avuti con Asha su questo argomento, la mia impressione era che si
considerasse pi la concubina del suo nuovo marito che sua moglie. Ad
esempio quando le chiesi come si sentisse, lei che era ancora una giovane
donna, quando la ex moglie di suo marito veniva in visita a casa loro, Asha
sembr un po sorpresa e disse: ma lei aveva il diritto di venirlo a trovare.
Questo modo di dare vita a nuove relazioni senza mai abbandonare i
precedenti legami coniugali potrebbe dipendere dalla forte valenza religiosa
attribuita alla relazione coniugale che, secondo Obeyesekere (1984), sta al
centro dei valori bramanici. Ci che mi sorprendeva, comunque, era che
Asha non sembrava preoccuparsi tanto del primo marito quanto della sorella
che gli era sopravvissuta e del bambino che le era stato affidato. Asha fece
tutto il possibile per ristabilire i legami spezzati con la famiglia del suo
primo marito, riferendosi sempre ad essa come a quella casa: os ghar nal
sambandh bana rahe (possano le relazioni con quella casa continuare).
Questo interessante quando si consideri che queste relazioni avrebbero
potuto facilmente essere cancellate dalla sua vita, perch fonte di ricordi
dolorosi. Inoltre, sebbene lei non ne abbia mai parlato, mi sembra che non
debba esser stato semplice per lei spiegare il suo continuo attaccamento
verso quella famiglia alla luce del suo tanto malvisto secondo matrimonio.
Durante i primi cinque anni di matrimonio con il suo secondo marito,
continu a scrivere lettere alla sorella, ancora in vita, del primo marito. Da
lei aveva saputo che non cera alcuna possibilit di riallacciare i rapporti. La
sorella pi anziana del primo marito, come ho detto, era morta in circostanze
che non sono mai state chiarite. Linteresse sessuale mostrato dal marito
della donna deceduta nei confronti di Asha e limbarazzo che questo aveva
creato in lei lo avevano forse portato ad un atteggiamento difensivo nei suoi
confronti. Il risultato era che il cognato attaccava la moralit di Asha in
modo molto violento. Ma la sorella pi giovane del marito continu a tentare
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un riavvicinamento e alla fine, a distanza di otto anni dal suo secondo
matrimonio, Asha venne invitata ad andare a trovare la famiglia.
Ero curiosa di capire perch per lei era cos importante mantenere la
relazione con la precedente famiglia acquisita. Asha rispose di sentire un
profondo attaccamento verso la sorella del marito che le aveva dato il suo
figlio minore. Sentiva anche che, andandosene, aveva fatto pensare al
bambino di non avere alcuna importanza nella sua vita, mentre Asha sentiva
di dovere la propria vita al bambino e a sua madre.
Bisogna anche considerare la profondit temporale in cui Asha vedeva le sue
relazioni.

Quando mi sono sposata disse - la sorella di mio marito era molto
giovane e si affezion molto a me. Avevamo inventato una grande variet di
giochi come segno della nostra relazione speciale. Ad esempio ci
scambiavamo sempre i nostri duppattas (veli) quando ci sedevamo a
mangiare oppure mangiavamo dallo stesso piatto. Lei mi porgeva un
boccone e poi io uno a lei. Tutti in famiglia ne ridevano, ma noi ci
divertivamo.

Asha non articolava la relazione con la sorella pi giovane del marito come
una relazione individuata, ma tendeva a farla derivare dalla relazione con il
marito defunto. Potremmo quindi dire che le relazioni tra donne si
sviluppavano allombra del patriarcato, perch esse potevano riconoscere il
loro affetto solo attraverso la mediazione di un marito/fratello morto.

Non so. Ho passato cos poco tempo con mio marito. Era quasi come se un
fiore che stava per fiorire fosse stato staccato dal ramo. Ma avevo cos tanti
desideri che in qualche altro momento, in qualche altro posto sarebbero stati
destinati a dare frutti. Lunica cosa importante che io devo mantenere vivi i
legami con quella casa.[7]

Dovremmo chiederci: Che cosa ha significato per lei il secondo matrimonio?
Questo matrimonio, dopo tutto, ha dato dei frutti. Cerano due figlie
adorabili alle quali Asha sembrava molto affezionata. In uno dei rari
momenti in cui parl esplicitamente delle sue relazioni, disse:

Sono stata molto felice, molto fortunata ad aver trovato qualcuno cos
buono da sposarmi. Lui si davvero preso cura di me. In coscienza ho fatto
del mio meglio per dargli tutte le comodit. Ma sono stata condotta a questo
matrimonio per via di questo corpo disgraziato, che ha i suoi bisogni, ha una
vita propria sulla quale io non ho alcun controllo.
E non mi riferisco solo ai miei bisogni. Non potevo evitare che gli uomini mi
guardassero con il desiderio negli occhi. Non ero io, era questo corpo che li
attraeva. Se jija ji non avesse iniziato a fare delle avances (ched chad na
karde) avrei potuto vivere una vita ascetica, appropriata ad una vedova, nella
casa di mio marito. Ma dopo ci che successo tra noi, come avrei potuto
guardare in faccia mia cognata? Come avrei potuto trovarmi di fronte a mio
marito nella mia prossima vita? A lui sono legata per leternit. Con il mio
attuale marito come due bastoncini che si trovano accanto nel mare in
tempesta - lunione di un momento e poi loblio. Io voglio che tutti i conti
con lui siano chiusi in questa vita: tutti i lena-dena (dare e avere) devono
essere compiuti. Poi potr andarmene senza dolore. Dopo tutto lui ha
unaltra moglie e agli occhi di Dio lei che deve stargli accanto, non io. Io
sono una peccatrice (papin).

Da questo discorso pu sembrare che Asha sia profondamente attaccata al
marito morto. Eppure, nelle conversazioni che ho avuto con lei avevo
limpressione che il marito per lei fosse una presenza molto labile. Una volta
precis che quando vedeva vecchie fotografie che la ritraevano con suo
marito aveva la sensazione di guardare due sconosciuti. Vorrei anche far
notare che il ricordo della sorella del marito sembra essere molto pi
concreto e vivido nei racconti di Asha e che stata la sorella del primo
131


marito che a poco a poco super le obiezioni degli uomini per permettere ad
Asha di rientrare nelle loro vite.
Secondo me per molte donne come Asha la violenza della Spartizione
consiste non solo in ci che accaduto loro con le rivolte e la violazione
brutale dei loro corpi, ma anche in ci di cui esse hanno dovuto essere
testimoni, ossia la possibilit del tradimento celata nelle loro relazioni
quotidiane (si vedano Butalia 1998; Das 1990, 1991 e 1995b). Pensiamo per
un attimo alla normalit della vita assunta nel racconto di Asha e a come
questa implicasse una forma di occultamento della quale la donna diventa
consapevole solo nel dispiegarsi degli eventi. Chi avrebbe potuto prevedere
che un importante evento politico avrebbe rivelato la possibilit del
tradimento nelle relazioni con le persone pi amate? Ho descritto altri casi
simili di tradimento in un mio precedente lavoro. Il punto che lorrenda
violenza degli scontri tra comunit da una parte rende pi solida
lappartenenza ad un gruppo, ma dallaltra ha anche leffetto di rompere le
relazioni pi intime (Das 1990). Laltra faccia della medaglia che le
persone si sentono spinte ad offrire il loro aiuto al di l delle normali
aspettative (ad esempio si offre riparo ai vicini appartenenti ad unaltra
comunit anche a rischio della propria vita). Per questo, tali eventi
rappresentano unesperienza eterogenea, in cui si incontrano non solo odio e
violenza ma anche esperienze di solidariet che possono far emergere virt
eroiche, tagliando le lunghe catene di richieste e risposte della vita
quotidiana. Come poi questi momenti appassionati vengano prolungati nella
vita di tutti i giorni rappresenta un altro tipo di problema: il mio disagio con
molti racconti di odio intenso o ugualmente intenso eroico altruismo deriva
dal fatto che non si vede come tali momenti vengano poi riportati al
quotidiano.
Altrove ho descritto il caso di Manjeet. Alcuni dei suoi ricordi che risalivano
alla Spartizione riguardavano un fratello che ogni giorno, prima di uscire di
casa, le lasciava un pacchetto di veleno, con listruzione che non doveva
esitare ad ingoiarne il contenuto se i musulmani avessero invaso la loro casa.
Manjeet, allora appena tredicenne, aveva la vaga sensazione che mentre il
fratello si abbandonava ai giochi mortali dellassassinio e dello stupro, da lei
si aspettava che morisse piuttosto che affrontare il disonore.[8] Questa fu
unesperienza spaventosa quanto quella di attendere ogni giorno con la paura
di essere attaccati oppure di essere liberati dallesercito. Nel caso di Asha,
quando il protettore del passato si trasformato in aggressore, la sua vita ha
dovuto essere riformulata. Alla fine stata la solidariet nata tra le donne
che lha aiutata non solo a sfuggire ad una situazione soffocante ma anche a
collegare il presente col passato. Eppure Asha non stata in grado di
riconoscere che stata la comunit delle donne che lha salvata, inserendo
questa stessa relazione allinterno della relazione dominante maschio-
femmina. Forse questo suggerisce che persino quando una donna ha infranto
i tab pi importanti, come ha fatto Asha, pu non sentire che ha davvero
trasgredito le norme idealizzate. Asha non sente di essere diventata unaltra
persona, solo di essere entrata allinterno di una dimensione di provvisoriet
mentre le sue vere relazioni rimanevano sospese per un po.
Penso che il modo in cui Asha racconta la propria storia ci dice anche
qualcosa di importante sulla stretta relazione tra legislazione e trasgressione.
Non esiste prima una legge e poi una trasgressione - prima un individuo che
ha completamente introiettato le norme e poi qualcuno che trasgredisce.
Piuttosto, infrangendo il tab che vietava ad una vedova di risposarsi e
venendo biasimata per questo, Asha sente di aver infranto le regole senza
per averle cancellate dalla sua vita. Questo evidente nelle sue
affermazioni che la pongono in conflitto con s stessa: sono una peccatrice
e poi Ma dopo ci che successo tra noi, come avrei potuto guardare in
faccia mia cognata? Come avrei potuto trovarmi di fronte a mio marito nella
mia prossima vita? A lui sono legata per leternit.
Nella lettura lacaniana della passione di Antigone, la donna parla
dallesperienza di quel limite dal quale pu vedere la sua vita come gi
vissuta. Mettendo a confronto la forma espressiva di gran lunga meno
esplicita di Asha con quella pi esplicita di Antigone, spero di aver mostrato
132


che donne come Asha hanno occupato una sfera diversa, calandosi nella vita
di ogni giorno piuttosto che innalzandosi ad un livello superiore. In entrambi
i casi, comunque, c una donna testimone non solo nel senso che si trova
allinterno di una cornice di eventi, ma che stata lei stessa segnata da tali
eventi. La sfera del quotidiano, allinterno della quale parla Asha, deve
essere recuperata ri-abitando gli stessi segni delloffesa che lhanno segnata,
in modo che possa prender forma una continuit in quello stesso spazio di
devastazione.

Con gli occhi di un bambino

Fino ad ora ho descritto gli eventi della vita di Asha principalmente con la
sua voce. Vorrei ora descrivere quale fu limpressione che ne ebbe il figlio
adottivo (Suraj), che aveva allora circa otto anni, quando la incontr
durante la sua prima visita (dopo che si era risposata). Una volta giunta la
notizia del suo secondo matrimonio, racconta Suraj, nel frattempo diventato
un adolescente, disse che ricordava con quanto disprezzo tutti parlassero di
lei: si diceva sempre di come loro lavessero riempita di affetto e lei invece
li avesse traditi. Il fratello del suo primo marito, ad esempio, avrebbe detto
labbiamo stretta al nostro cuore pensando che fosse lunica cosa che
rimaneva del nostro fratello morto, ma lei voleva ottenere un altro scopo
(lespressione matlab kadna in punjabi pu riferirsi ad un uso manipolativo
degli altri per ottenere i propri scopi). Nella conversazione familiare tra i
Punjabi che vivono in citt comune rivolgersi ad una persona assente come
se questa fosse presente. In questo caso Asha era fatta oggetto di scherno. Si
diceva ad esempio: vah ni rani- tu badi laj rakhi sadi (Gloria a te, o
regina: tu hai davvero preservato il nostro onore).[9] Suo figlio adottivo
disse che solo sua madre avrebbe mormorato talvolta in sua presenza Che
cos la vita di una donna? Tale tipo di discorso in cui non ci si rivolge
direttamente a nessuno, ma che si inizia deliberatamente in modo da essere
sentite per caso un genere comune di discorso delle donne nel Punjab.
Suraj era molto agitato allidea di rivederla, lei, laltra sua madre. Le
conversazioni familiari avevano costruito una immagine diffusa di lei come
una donna svergognata che aveva tradito la famiglia e specialmente aveva
tradito lui, il suo figlio speciale. Quando Asha arriv, aveva un
bellaspetto: chiaramente aveva molti vestiti nuovi e qualche gioiello. Il suo
corpo non era una proclamazione della sua vedovanza il figlio stesso aveva
voluto evitare di guardarla, come se fosse troppo radiosa. Ma lei non fece
sfoggio del suo nuovo benessere e si mise ad aiutare nei lavori di casa come
aveva sempre fatto. Suraj ricordava unoccasione in particolare in cui egli si
era impuntato che dovevano uscire tutti per andare a prendere un gelato.
Lintera famiglia era riunita e i vecchi non erano particolarmente favorevoli.
Ma, dice Suraj, egli aveva voluto far prevalere la sua volont: voleva
affermare che aveva pi diritti su di lei di chiunque altro. Cedendo alle sue
richieste, Asha entr in casa a cambiarsi ed usc indossando un sari colorato.
Avevano chiamato un tonga per portarli al mercato e mentre Asha, Suraj e
un cugino stavano per salire, suo zio (lo stesso che le aveva fatto avances
sessuali) disse: Non c bisogno di mettere in mostra il grande fascino
(nakre) di una sethani. Il termine si riferisce letteralmente alla moglie di un
seth, un ricco mercante, ma usato tra i Punjabi per riferirsi ad una donna
pigra, che non sbriga le faccende di casa ed solo interessata a vestirsi bene
e a mettere in mostra la sua ricchezza. Gli occhi di Asha si riempirono di
lacrime e, mentre sedevano sul tonga, abbracci Suraj e disse Vedi, per
amor tuo devo stare a sentire questa derisione (Boliyan sun-ni paindiyan
hain).


Osservazioni

Negli ultimi anni la scrittura della storia e dellantropologia stata
fortemente influenzata dallanalisi letteraria del racconto. Come ha osservato
Good, nel contesto dei racconti di malattie, tuttavia, il narratore racconta una
133


storia non ancora finita. Nel contesto della Spartizione, gli storici hanno
spesso raccolto narrazioni orali formulate in risposta alla domanda: Che
cosa successo?. In questo articolo ho scelto di non formulare la domanda
in questi termini. In questo senso il mio lavoro ha preso spunto dal vedere
come la violenza della Spartizione fosse intrecciata alle relazioni del
quotidiano. In altre parole non mi sono chiesta se gli eventi della Spartizione
fossero presenti alla coscienza come eventi passati ma in che modo fossero
stati incorporati nella struttura temporale delle relazioni. Spero quindi di
aver dedicato la giusta attenzione al carattere progettuale dellesistenza
umana.
Nel caso di Asha abbiamo visto come la donna definisca le relazioni di
parentela soprattutto attraverso unidea di cura e come, nella sua storia, la
brutalit della Spartizione appaia sotto forma di una violenza che altera le
modalit con cui i parenti si riconoscono o negano di riconoscersi lun
laltro. Il ricordo traumatico della Spartizione non pu cos essere compreso
nella vita di Asha come una diretta appropriazione del passato, ma
costantemente mediato dal modo in cui il mondo abitato nel presente.
Anche quando sembra che alcune donne siano state relativamente fortunate,
perch sono scampate al dolore fisico, la memoria corporea dellessere-con-
gli altri fa s che il passato circondi il presente come unatmosfera. Questo
ci che intendo quando parlo dellimportanza di trovare modi per parlare
dellesperienza della testimonianza: se il modo che ha una persona di essere-
con-gli altri viene brutalmente ferito, allora il passato entra nel presente non
necessariamente come memoria traumatica, ma come conoscenza
avvelenata. Questa conoscenza pu essere affrontata solo attraverso ci che
Martha Nussbaum chiama sapere attraverso la sofferenza.

Esiste un conoscere che avviene attraverso la sofferenza perch la sofferenza
riconosce in modo appropriato come sia la vita umana in determinati casi. E
in generale: capire un amore o una tragedia con lintelletto non sufficiente
per avere una vera conoscenza di essi. Agamennone sa che Ifigenia sempre
sua figlia, se con ci intendiamo che egli ha su di lei certe convinzioni
giuste, pu rispondere correttamente a molte domande su di lei, e cos via.
Ma poich nelle sue emozioni, nella sua immaginazione e nel suo
comportamento egli non riconosce quel legame, vogliamo unirci al coro e
dire che la sua condizione pi di illusione che di conoscenza. Egli non sa
veramente che Ifigenia sua figlia. Manca una parte della vera conoscenza
(Nussbaum 1986, p. 113-114).

Nel caso di Asha, la donna era anche conosciuta nel ruolo di vedova di un
fratello amato: il suo corpo era assimilato non solo ritualmente, ma anche
nelle interazioni quotidiane della famiglia, al corpo del marito morto. Questo
era il solo aspetto riconosciuto del suo essere. Ma ci potrebbero essere altri
sottotesti che entrano in campo: laffetto tra Asha e la sorella minore del
marito, la consapevolezza della propria entit sessuata, la cui sessualit era
stata forzatamente cancellata dalla morte del marito e dalle pretese di onore
della famiglia. Mi sembra che questi sottotesti siano stati articolati come
risultato del disordine creato dalla Spartizione. Una volta che il suo essere
sessuata stato riconosciuto nel nuovo tipo di sguardo da qualcuno nella
posizione di fratello sostituto che si rivela come amante Asha costretta a
fare una scelta.[10] Decider di portare avanti una relazione clandestina e di
partecipare alla cattiva fede su cui, secondo Bourdieu (1990), si basano le
politiche della parentela? Oppure accetter la pubblica infamia alla quale ha
sottoposto lonore della famiglia per costruire una nuova definizione di s
che prometta una certa integrit, sebbene da esule rispetto ai progetti di vita
che aveva precedentemente formulato per se stessa?
Nel processo di questa decisione il soggetto pu essersi radicalmente
frammentato, e il s pu essere divenuto un fuggitivo; ma io credo di aver
descritto la formazione del soggetto, una mediazione complessa fatta di
posizioni soggettive divise e frammentate. Questo diviene evidente non
tanto al momento della violenza, ma soprattutto negli anni di paziente lavoro
in cui Asha e la sorella del primo marito ricucivano gli strappi nelle
134


relazioni. Cera la conoscenza avvelenata di essere stata tradita dal parente
acquisito pi anziano cos come dal fratello, che non poteva prendersi carico
di sostenere limpegno a lungo termine nei confronti di una sorella in
difficolt. Cera la conoscenza, altrettanto importante per lei, di aver potuto
lei stessa tradire il marito defunto e sua sorella, anchessa defunta,
immaginandosi infedele; e di aver fatto s che un bambino, il suo speciale
figlio adottivo, si sentisse abbandonato. Non stato un gesto eroico
improvviso, ma il paziente lavoro di vivere con questa nuova conoscenza
(conoscenza reale, che nasce non solo dallintelletto ma anche dalle
passioni), che ha fatto del lavoro di queste due donne, descritto
semplicemente come ais ghar nal sambandh bana rahe (che la relazione tra
queste due case continui), un esempio emblematico di agency vista come
prodotto di differenti posizioni soggettive: trasgressore, vittima e testimone.
La relazione tra la formazione del soggetto e lesperienza della
sottomissione stata colta da Foucault (1977, p.33) nella sua analisi della
disciplina del corpo attraverso una metafora di imprigionamento: lanima
la prigione del corpo. Nel contesto della prigione, sostiene Foucault, la
disciplina carceraria non si limita a regolare il comportamento del
prigioniero, ma occupa la sua vita interiore e di fatto la produce.
Rovesciando la relazione tra interiorit ed esteriorit, tra corpo e anima,
Foucault produce un effetto di shock; e tuttavia, mi pare che egli si
posizioni ancora allinterno delle nostre comuni categorie di interno ed
esterno. Nel suo importante studio sulla vita psichica del potere, Butler
(1997, p. 98) dellidea

che dove Lacan restringe la nozione di potere sociale al dominio simbolico e
delega la resistenza allimmaginario, Foucault riconsidera il simbolico come
relazione di potere e interpreta la resistenza come un effetto del potere.

Per cercare di comprendere le complicate relazioni tra lo spiegarsi di una
violenza politica originaria e lo sviluppo dei rapporti di parentela nella vita
di Asha, ho mostrato come i modelli di potere/resistenza o le metafore
dellimprigionamento siano strumenti troppo rudimentali per comprendere il
delicato lavoro di auto-creazione. Al contrario ho mostrato che
nellesplorazione della profondit temporale in cui tali momenti originari di
violenza sono elaborati, la vita quotidiana si rivela al tempo stesso una
ricerca e unindagine[11], come ha detto una volta Stanley Cavell (1988).
Per cogliere le relazioni tra regole esterne e stati interiori, tra corpo e anima,
invece di utilizzare le metafore dellimprigionamento si pu pensare che
questi momenti si delimitino a vicenda, che tra loro ci sia cio una relazione
in cui sono vicini ma uniti, cos come sono uniti legislazione e trasgressione.

E questa relazione di prossimit tra legislazione e trasgressione che
consente ad Asha di rivendicare i propri diritti nei confronti di quella stessa
cultura e di quelle stesse relazioni che lavevano sottomessa. Chiaramente la
terribile violenza provocata dalla Spartizione ha significato la morte del suo
mondo, come lei laveva conosciuto. Questo le ha fornito un modo nuovo di
ri-abitare il mondo. Da un certo punto di vista il suo attaccamento al passato
pu essere letto attraverso la metafora dellimprigionamento, come qualcosa
da cui le impossibile sfuggire; ma daltra parte la profondit temporale in
cui Asha costruisce la propria soggettivit mostra come sia possibile
occupare i segni stessi delloffesa e dare loro un significato non solo
attraverso latto della narrazione, ma anche attraverso il lavoro di riparazione
delle relazioni, riconoscendo quelle che le norme ufficiali avevano
condannato. Questa mi sembra una metafora appropriata per latto della
testimonianza, che un modo per comprendere la relazione tra violenza e
soggettivit.

*****

Sono grata ai partecipanti al seminario intitolato Violenza, mediazione
politica e s per la stimolante discussione. Grazie ad Arthur Kleinman per il
135


suo permanente interesse per i temi di cui ci siamo occupati insieme nel
corso degli anni e a Pamela Reynolds per i suoi commenti critici. Ho
imparato molto dagli scritti di Stanley Cavell e gli sono particolarmente
debitrice per la sua generosa lettura di questo testo.


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[1] Sono ovviamente consapevole che le regole della semantica strutturale
esprimono il significato degli enunciati come entit linguistiche, ma questi
sono enunciati disincarnati. Lintroduzione di un soggetto che produce
queste parole necessita dellintroduzione di un contesto: non solo un
contesto linguistico ma anche un intero mondo della vita. Esito comunque
ad introdurre qui lidea di intenzionalit perch la datit del linguaggio
come parole richiede una certa dimenticanza dellatto del parlare, come
suggerisce Gadamer (1985). Il fatto che Asha non mi abbia mai raccontato
esplicitamente cosa successo durante la Spartizione ma abbia raccontato
qua e l, quando lo richiedeva il momento, alcuni frammenti del suo mondo,
rende questa dimenticanza una parte importante di ci che stato detto.
[2] Ricordo qui parecchi generi performativi in India, specialmente nella
danza, in cui una breve frase pu essere aumentata di intensit attraverso
gesti del volto e degli occhi anche per unora.
[3] Il genere delle canzoni delle donne, specialmente quelli che prendono la
voce della sorella pi giovane, articolano questo dolore e sono comuni in
molte regioni dellIndia. Si vedano (Trawick (1986) e (Gold, Grodzing,
Raheja 1994).
[4] Sto traducendo la parola punjabi gila, usata come affermazione
riflessiva in prima persona, come un composto di colpa e rimorso. Ad
esempio: Mainu apne te aina gila hoya [Ho sperimentato la colpa/il
rimorso su me stessa] resa meglio da un composto di accusa e rimorso
quando si riferisce a qualcun altro, ma questa forma di accusa
appropriata solo tra coloro che hanno una stretta relazione di parentela.
[5] Limplicazione che si sarebbe potuto sparlare del fatto che essi
avessero avuto una lunga relazione sessuale che veniva solo adesso
formalizzata.
[6] Il pagdi (turbante) il segno dellonore; il candore si riferisce qui
allonore senza macchia.
137


[7] Si veda Nicholas 1995 per una simile analogia a proposito del divorzio,
rappresentato nella cultura bengalese come una relazione non pienamente
realizzata piuttosto che come una che ha diviso due persone.
[8] Credo che ci che poteva essere una vaga conoscenza percepita da
bambina sia divenuta certezza nel momento in cui Manjeet ha ripensato ed
elaborato questo ricordo da adulta. Ho descritto altrove come questa
conoscenza sia stata codificata nella sua storia (Das 1996).
[9] La parola inglese taunt (scherno) stata incorporata nel Punjabi in
particolare per indicare una forma di azione (ad esempio: bada taunt karde
si; they did very much taunting; essi schernivano molto).
[10] Devo sottolineare che i vincoli morali di Asha possono essere compresi
se siamo in grado di calarci in un mondo della vita in cui Asha sente che la
sua eternit sia a rischio. Un commento casuale di un lettore sconcertato da
come la presenza di un cognato sessualmente eccitato avesse potuto
causare un cos grande dilemma nella vita di Asha mi ha spinto a rivedere il
punto sulla profondit temporale in cui Asha vedeva le sue relazioni.
Particolarmente importante era la sua convinzione che la relazione con il
suo secondo marito rappresentasse una temporanea alleanza di interessi,
ma che in una vita futura la relazione con il suo primo marito, al quale era
stata sposata di fronte al sacro fuoco come testimone, sarebbe stata
recuperata. Ci mostra che i vincoli morali nel suo mondo della vita non
possono essere compresi al di fuori di questa cornice. Con ci non si vuol
negare che questa storia riguardi anche il modo in cui il patriarcato
struttura linterno nella societ hindu.
[11] Lespressione originale (everyday life reveals itself to be both a quest
and an inquest) evidentemente intraducibile come gioco di parole, e indica
un orientamento riflessivo diretto al tempo stesso verso il futuro e verso il
passato [N.d.C.].



Questioni di coscienza. Antropologia e genocidio
Nancy Scheper-Hughes

(in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp.
247-302; traduzione dall'inglese di Costanza Orlandi)


Lantropologia moderna si sviluppata a fronte di genocidi coloniali,
etnocidi, stermini, estinzioni di popolazioni e altre forme di distruzione di
massa che hanno colpito popoli marginalizzati, le cui vite, sofferenze e morti
ci hanno fornito sostentamento. Eppure, nonostante questa storia e la
posizione privilegiata dellantropologo (o etnografo) come testimone di
alcuni di questi eventi lantropologia stata, fino a poco tempo fa,
relativamente muta riguardo a tale argomento. Ancora oggi la maggior parte
dei segnali dallarme riguardo a sentimenti, gesti ed atti genocidi
provengono dai giornalisti politici piuttosto che dagli etnografi che lavorano
sul campo. La maggior parte delle teorie che trattano delle cause, dei
significati e delle conseguenze del genocidio vengono da altri settori
disciplinari come la storia, la psicologia e la psichiatria, la teologia, il diritto
comparato, i diritti umani e le scienze politiche. Nel complesso,
lantropologia stata lultima ad arrivare in questo campo. I volumi
recentemente curati da A.L. Hinton (2002a, 2002b) rappresentano di fatto il
primo tentativo dellantropologia in questo senso. Perch un tale ritardo?
Come hanno notato Hinton e altri, la violenza non affatto un argomento
naturale per gli antropologi. Tutto, nella formazione della nostra disciplina,
ci predispone a non vedere le forme evidenti e manifeste di violenza che cos
spesso devastano le vite dei nostri soggetti di studio. Sebbene il termine
genocidio nella sua concezione moderna sia stato usato per la prima volta da
Raphael Lemkin nel 1944 come conseguenza ed in risposta allOlocausto,
genocidi e altre forme di uccisione di massa esistevano senza dubbio anche
prima della tarda modernit e in societ relativamente non toccate dalla
138


civilizzazione occidentale. Anzi, se gli antropologi hanno evitato questo
argomento, ci dipeso da un desiderio di evitare ulteriori stigmatizzazioni
delle societ e delle culture indigene che venivano spesso giudicate
negativamente e in base a valori e presunzioni di eurocentrismo.
Una premessa fondamentale a cui si rifaceva la ricerca etnografica del xx
secolo era, abbastanza banalmente, di non osservare, non ascoltare e non
raccontare nessun male (e pochissima violenza) nei resoconti di ricerca.
Lantropologia culturale classica e la sua particolare sensibilit morale ci
orientano, come dei segugi a rovescio, sulle tracce del bene e del giusto nella
societ che studiamo. Alcuni sono convinti che il male non sia un argomento
adeguato allantropologia; di conseguenza, come ha sottolineato Elliot
Leyton (1998a), i contributi dellantropologia per la comprensione della
violenza a tutti i livelli dallabuso sessuale allomicidio, dal terrorismo
politico di Stato alle guerre sporche e al genocidio sono molto modesti.
Chi ha abbandonato la regola aurea del relativismo morale stato accusato
di incolpare le vittime. Ma questi paraocchi morali si sono trasformati in altri
casi in una sorta di generosit ermeneutica verso i colonizzatori occidentali, i
moderni Stati di polizia, le istituzioni politiche e militari di distruzione di
massa. Sebbene i genocidi precedano la diffusione della civilt
occidentale, la colonizzazione selvaggia dellAfrica, dellAsia e del Nuovo
Mondo ha generato alcuni dei peggiori genocidi dal xviii secolo allinizio
del xx. Lincapacit degli antropologi di affrontare direttamente queste
prime scene di distruzione di massa allinterno di diverse nicchie
etnografiche il tema di questo saggio. Nonostante gli antropologi abbiano
distolto lo sguardo dalle scene di genocidio e da altre forme di palese e
brutale violenza fisica, essi sono sempre stati degli attenti osservatori della
violenza pi nascosta. Siamo abbastanza bravi ad analizzare le forme
simboliche (Bourdieu, Wacquant 1992), psicologiche (Devereux 1961;
Goffman 1961; Edgerton 1992; Scheper-Hughes 2000b) e strutturali
(Farmer 1996; Bourgois 1995) di violenza quotidiana che stanno alla base di
molte istituzioni e interazioni sociali: un contributo, questo, che pu fornire
un anello mancante negli studi contemporanei sui genocidi.
Nel mio caso, mi ci sono voluti pi di venti anni per affrontare il tema della
violenza in una forma apertamente politica, il che, data la mia scelta dei
primi casi di studio lIrlanda a met degli anni 70 e il Brasile durante gli
anni della dittatura militare deve aver richiesto una buona dose di
rimozione. Studiando la follia della vita quotidiana in una piccola comunit
rurale dellIrlanda occidentale a met degli anni 70, mi interessavo agli
spazi interiori, con i loro piccoli e oscuri psicodrammi fatti di capri espiatori
e etichettature che si formavano allinterno delle tradizionali famiglie
contadine e che portavano tanti giovani a bere e a soffrire di attacchi di
depressione e schizofrenia. Allepoca prestavo poca attenzione allattivit
politica di Matty Dowd, dal quale avevamo affittato la nostra villetta nella
borgata di montagna di Ballynalacken, e che usava il nostro solaio come
deposito di un piccolo arsenale di pistole ed esplosivi che lui ed alcuni dei
suoi compagni del Sinn Fein stavano trasportando nellIrlanda del Nord. Per
questo non ho concentrato lattenzione, fino a poco tempo fa (Scheper-
Hughes 2000b), sui possibili legami tra la violenza politica nellIrlanda del
Nord ed i tormentati drammi familiari di West Kerry che avevo documentato
tanto dettagliatamente e che pure contenevano una propria violenza..
Da allora ho continuato a studiare altre forme di violenza quotidiana: gli
abusi della medicina praticata in malafede contro i deboli, i malati di mente
e gli affamati, come anche contro i corpi di donatori di organi socialmente
svantaggiati e persino invisibili che stanno spesso dietro al commercio dei
trapianti (Scheper-Hughes 2000 a). E ancora, lindifferenza sociale alla
mortalit infantile nel nordest del Brasile, unindifferenza che permette ai
leader politici, ai preti, ai becchini, e persino alle madri delle bidonvilles, di
spedire allaldil una moltitudine di angioletti affamati. Nel caso del
Brasile non iniziai a studiare la violenza statale e politica fino a quando,
verso la fine degli anni 80, i figli adolescenti di alcuni miei amici e vicini
nella baraccopoli di Alto do Cruzeiro iniziarono a scomparire. In seguito i
139


loro corpi furono ritrovati mutilati per mano degli squadroni della morte
locali, infiltrati nella polizia.


Tristes antropologiques

Nel suo testamento professionale, Oltre i fatti, Clifford Geertz (1995) nota
piuttosto ironicamente di aver sempre avuto la fastidiosa sensazione di
arrivare troppo presto o troppo tardi per osservare gli eventi politici pi
importanti e significativi e gli sconvolgimenti che si abbattevano sui suoi
due campi di ricerca: il Marocco e Giava. Egli scrive che,
comprensibilmente, cercava di evitare i conflitti, andando avanti e indietro
tra i suoi due territori, durante i periodi di relativa calma, riuscendo sempre a
perdersi la rivoluzione (Stern 1992), quando questa scoppiava.
Di conseguenza negli scritti etnografici di Geertz non c mai stato nulla che
alludesse ai campi della morte che iniziarono a proliferare in Indonesia
subito dopo la sua partenza dal paese nel 1965; un massacro di sospetti
comunisti da parte di fondamentalisti islamici paragonabile ai pi recenti
eventi ruandesi. Ci fu un bagno di sangue di misure spaventose un
massacro politico di circa 60.000 balinesi a seguito di un tentativo di colpo
di stato di matrice marxista nel 1965. Probabilmente si pu interpretare la
famosa analisi di Geertz del combattimento dei galli come unespressione
codificata della feroce aggressivit nascosta sotto la superficie di un popolo
che lantropologo descriveva come tra i pi tranquilli, controllati e decorosi
del mondo.
Oggi il mondo, gli oggetti del nostro studio e gli usi dellantropologia sono
cambiati considerevolmente. Coloro che osservano gli eventi umani da
vicino e a lungo e sono perci al corrente di quei segreti locali, comunitari e
anche di Stato, che di solito restano nascosti per molto tempo fin dopo la
scoperta delle fosse comuni e il conteggio dei morti, cominciano ad accettare
una diversa posizione etica, cercano di nominare ed identificare le fonti, le
strutture e le istituzioni della violenza di massa. Questa nuova attitudine di
impegno politico ed etico ha portato a un profondo esame di coscienza,
anche se ben oltre i fatti.
Claude Lvi-Strauss (1995), per esempio, approssimandosi alla fine della
sua lunga e prestigiosa carriera, ha aperto il suo recente saggio fotografico
Saudades do Brasil con un avvertimento: il lettore non deve farsi trarre in
inganno dalla lirica e dalla bellezza delle immagini della foresta vergine
che ritraggono gli Indigeni del Brasile (le foto sono state scattate tra il 1935
e il 1939 nellinterno del Brasile); le immagini infatti, avverte Lvi-Strauss,
sono illusorie e il mondo che ritraggono non esiste pi. Gli Indigeni delle
trib Nambikwara, Caduveo e Bororo, immortalati nelle sue foto,
meravigliosi nel loro stato selvaggio che sembra debba esistere in eterno,
non assomigliano per niente alle popolazioni che si possono incontrare oggi
e che vivono accampate ai margini di trafficate vie di comunicazione o che
vagabondano per villaggi simili a bassifondi scavati nella foresta sventrata. I
Nambikwara e i loro vicini amerindi sono stati decimati dal lavoro salariato,
dai cercatori doro, dalla prostituzione e dalle malattie del contatto culturale,
come il vaiolo, la tubercolosi, laids e la sifilide.
Ma la confessione del vecchio maestro va oltre. Queste antiche foto che
immortalano indigeni seminudi che dormono a terra sotto romantici rifugi di
foglie di palma non hanno nulla a che fare con unidea di umanit intatta che
da allora andato perduto. Le foto scattate negli anni 30 gi mostrano gli
effetti di una selvaggia colonizzazione europea sulle civilt, un tempo
popolose, del Brasile centrale e dellAmazzonia.. Queste civilt indigene
furono distrutte dal contatto con gli europei e ridotte allombra di se stesse
popolazioni non tanto primitive, avverte lautore, quanto bloccate e
spogliate della propria ricchezza materiale e simbolica. La macchina
fotografica di Lvi-Strauss ha catturato le immagini di un tipo di
sfruttamento umano particolarmente brutale, un genocidio invisibile, della
cui gravit lantropologo era forse allepoca ingenuamente ignaro.
140


In precedenza, Lvi-Strauss aveva ammesso che lantropologo deve andar
oltre unattivit di ricerca puramente accademica (si veda anche Sontag 1964
sullantropologia come vocazione spirituale).

Lantropologia non una scienza imparziale come lastronomia, che prevede
unosservazione a distanza. E la conseguenza di un processo storico che ha
reso la maggior parte dellumanit sottomessa ad unaltra parte e durante il
quale milioni di innocenti hanno visto le loro risorse depredate, le loro
istituzioni e le loro fedi distrutte mentre loro stessi venivano uccisi senza
piet, ridotti in schiavit, contaminati da malattie a cui non erano in grado di
reagire. Lantropologia figlia di questera di violenza: la sua capacit di
valutare pi oggettivamente le vicende che riguardano la condizione umana
riflette, a livello epistemologico, uno stato di cose in cui una parte del genere
umano trattava laltra come un oggetto (Lvi-Strauss 1955, p. 126)

Purtroppo, pi spesso di quanto non si creda, gli antropologi sono stati
spettatori passivi, testimoni silenziosi e disimpegnati dei genocidi, degli
etnocidi e delle estinzioni di interi popoli in cui si sono imbattuti seguendo la
loro vocazione.
Gli esami di coscienza che gli antropologi si sono fatti a posteriori, riguardo
ricordi ritrovati di scene di violenza ed etnocidi, risalgono ai giorni di
Bronislaw Malinowski (18841942). Malinowski intraprese la carriera di
antropologo mentre si trovava suo malgrado in una condizione di nemico-
alieno. Era un cittadino austriaco, nato in Polonia, detenuto in Australia
mentre era in viaggio per la sua prima ricerca sul campo allo scoppio della
Prima guerra mondiale. Ottenuta la libert provvisoria da parte del governo
australiano, Malinowski ebbe il permesso di condurre la sua ricerca
etnografica in Nuova Guinea fintanto che la guerra continuava, cosa che
prolung artificialmente la durata prevista della sua ricerca sul campo.
Il diario di campo di Malinowski, che va dal 1914 al 1918, pubblicato
postumo dalla vedova nel 1967, registra la conflittualit delle emozioni e
delle identit dellantropologo che era allo stesso tempo un gentiluomo
europeo, un figlio dellimperialismo occidentale e un naturalista. Egli
cercava di reinventare se stesso e di porre le basi di una nuova scienza e di
un metodo in grado di registrare e capire le differenze umane e culturali. Le
sue simpatie si rivolgevano inizialmente ai valori della propria civilt
europea. In un beffardo e, si spera, ironico passaggio del suo diario,
Malinowski (1967, p. 69) ripete le parole del selvaggio colonizzatore, il
Kurtz del conradiano Cuore di Tenebra: I miei sentimenti verso gli indigeni
tendono [nel complesso] decisamente a: Sterminate i bruti. Qui
lantropologo e limperialista razzista sembrano essere tuttuno. Ma
Malinowski sentiva una profonda nostalgia di casa ed era patologicamente
depresso durante la sua prigionia sul campo e le sue febbrili riflessioni
riportate nel diario dovrebbero essere lette per quello che sono in realt, cio
incubi ad occhi aperti, frutto di unimmaginazione malata, iperattiva e
ipocondriaca. Certo, la vera misura del genio antropologico di Malinowski
non va cercata nelle sue riflessioni private ma nei suoi scritti pubblici e nel
suo metodo di osservazione partecipante che richiedeva unidentificazione
empatica con il nativo.
Dopo i traumi del lavoro sul campo, quando Malinowski si sofferm a
riflettere sui fondamenti della propria disciplina, concluse che:

Il compito dellantropologo quello di essere un interprete giusto e onesto
del nativo e [] di registrare che gli Europei, nel passato, hanno a volte
sterminato intere popolazioni delle isole; che hanno espropriato molte
ricchezze alle razze selvagge; che hanno introdotto la schiavit in una forma
particolarmente crudele e dannosa (Malinowski 1945, pp. 3-4, cit. in James
1973, p. 66).

Malinowski (1945, p. 57) osserv che gli europei erano generosi nel
distribuire i loro doni spirituali ai colonizzati, ma avari nel diffondere gli
strumenti culturali e materiali del potere e dellautonomia. Ad esempio gli
141


europei non dettero agli africani armi da fuoco, aerei da bombardamento,
gas tossici e tutto quello che avrebbe reso efficace lautodifesa o possibile
laggressione. In definitiva, Malinowski critic appassionatamente la
concezione dellantropologo come spettatore oggettivo e neutrale di fronte
alla storia contemporanea dei genocidi e degli etnocidi coloniali e post-
coloniali. Ma questi suoi ultimi scritti vennero largamente screditati a livello
accademico e considerati come chiacchiere irresponsabili di un vecchio che
aveva ormai superato il suo apice intellettuale.


Kroeber e Ishi: la loro ultima trib

Alfred Kroeber mor prima che potesse immaginare un ruolo radicalmente
diverso per lantropologo: un ruolo da testimone impegnato piuttosto che da
spettatore disinteressato di fronte alle scene di sofferenza umana, di
distruzione culturale e di genocidio che ai suoi tempi colpivano gli indigeni
della California del Nord. Quando Kroeber arriv a San Francisco nel 1901
per ricoprire la carica di antropologo museale presso lUniversit della
California, si stava ancora consumando uno spietato e gratuito sterminio
degli indiani della California settentrionale, ufficialmente approvato, che era
iniziato al tempo della Corsa allOro e che continu al volgere del XX
secolo.
Nelle parole freddamente obiettive di uno storico del tempo:

Come tutte le popolazioni indigene nellemisfero occidentale, gli Indiani
della California hanno subito un calo demografico molto forte, come
conseguenza dellarrivo della civilt dei Bianchi. Dallinizio alla fine del
processo la popolazione autoctona ha subito un calo demografico da 310.000
a circa 20.000 unit, un calo di pi del 90 % della cifra di partenza. Questo
collasso stato dovuto alleffetto di fattori prodotti dal conflitto fisico e
sociale tra la razza Bianca e quella Rossa (Cook 1978, p.91).

Cook identific le epidemie come fattore principale nella riduzione della
popolazione locale (Ibid., p. 92). Ma i documenti storici invalidano questa
spiegazione pi neutrale. In realt le campagne militari, i massacri, i
cacciatori di taglie, lasservimento per debiti, la corsa alle terre e le
recinzioni poste dai colonizzatori bianchi e dagli allevatori furono le cause
pi gravi del tributo di sofferenza e morte pagato dalle popolazioni
indigene.[1]
Dallarrivo dei primi colonizzatori nel 1860, gli attacchi dei soldati
americani provocarono la morte di 4.267 indiani californiani. Ma il peggio
doveva ancora venire con la Corsa allOro, quando gli Indiani californiani
iniziarono a subire un assalto totale alle loro comunit. Per esempio, nel
maggio 1852, una banda di bianchi guidata dallo sceriffo di Weatherville in
California, attacc senza preavviso un pacifico villaggio indiano, uccidendo
uomini, donne e bambini: Dei 150 indiani che abitavano in quel villaggio,
solo 2 o 3 riuscirono a scappare, ma erano gravemente feriti; quindi
probabilmente nessuno [] sopravvissuto.[2] La devastazione subita
dalla pi grande comunit dei Maidu descritta dalle seguenti cifre. Nel
1846 vi erano 8000 Maidu; nel 1850 ve ne erano tra i 3500 e i 4500; nel
1910 ne rimanevano solo 900 (Riddell 1978, p. 386).
Nel 1850 le autorit della California approvarono una legge che segnava il
passaggio degli Indiani della California dal peonaggio alla schiavit di fatto.
La legge decretava che ogni Indiano su parola di un solo bianco poteva
essere dichiarato vagabondo, messo in prigione e la sua manodopera messa
allasta fino a quattro mesi senza retribuzione. Inoltre, questa legge
permetteva il rapimento di bambini indiani e questa pratica prosegu fino alla
fine del xix secolo. In un editoriale pubblicato il 6 dicembre 1861, sul
giornale locale di Marysville in California, si leggeva:

E da queste trib montane che i colonizzatori bianchi fanno scorta di
bambini, che poi tirano su per diventare domestici, e di donne che utilizzano
142


per il lavoro e per lussuria. [] E noto che vi sono gruppi, nelle regioni del
Nord di questo Stato, la cui sola occupazione quella di rubare bambini e
squaw [] per poi venderli a buon mercato ai colonizzatori, che, essendo
per lo pi scapoli, pagano volentieri 50 o 60 dollari per una ragazza giovane
(cit. in Castillo 1978, p. 109).

Molti antropologi dellepoca, tra i quali Margaret Mead, sentivano tutta
lurgenza del loro compito (Dobbiamo studiarli prima che scompaiano!)
perch consapevoli della velocit con cui si estinguevano le popolazioni
indigene, la loro lingua e la loro cultura. Anche Kroeber lavor per circa
ventanni in California per portare avanti quella che allora era detta
unetnografia di salvataggio, cio il tentativo di documentare le culture di
popoli in estinzione, facendo affidamento sui ricordi dei membri pi anziani
della trib. Il lavoro fu molto impegnativo e culmin nellopera
monumentale (925 pagine) Handbook of the Indians of California, che
Kroeber complet e consegn allo Smithsonian Institution anche se il
volume non fu pubblicato che nel 1925.
Kroeber, nellHandbook come in altre opere (vedi p.es. 1917, 1952), partiva
dalla premessa che i nativi americani erano destinati a scomparire in un
inevitabile percorso dellevoluzione sociale, determinato dallinevitabile e
progressiva marcia della civilizzazione: si trattava di una versione
antropologica della dottrina americana della Predestinazione. Le bande
sparse, residuo delle trib di cacciatori e raccoglitori della California
settentrionale, avrebbero secondo Kroeber inevitabilmente lasciato il posto
alle attivit di coltivazione, allevamento ed estrazione mineraria degli
angloamericani. Alcuni gruppi indigeni si estinsero velocemente; altri
lottarono strenuamente ed altri ancora fuggirono. La loro sopravvivenza, per
dirla con Kroeber (1972a, p.9), fu straordinaria. Egli si riferiva per
esempio agli inafferrabili Indiani di Mill Creek come agli

ultimi liberi sopravvissuti della razza rossa americana, che, grazie alla loro
fermezza e caparbiet danimo, furono in grado di resistere alla corrente
dilagante della civilizzazione addirittura venticinque anni pi a lungo della
famosa banda di Apaches guidati da Geronimo (Kroeber 1911a, 1972a).

Tuttavia Kroeber avvertiva che il capitolo finale della storia dei
sopravvissuti di Mill Creek si stava avvicinando. E aveva ragione.
Giunto alla conclusione del suo Handbook, Kroeber aveva ormai iniziato a
considerare letnografia di recupero che raccoglieva i ricordi di societ
aborigene morenti da gruppi di sopravvissuti in blue-jeans che vivevano in
culture ormai in rovina e imbastardite (Kroeber 1948a, p.427) - come un
lavoro tuttaltro che soddisfacente. Cos ritorn al suo precedente interesse
per le popolazioni e le culture del sud-est americano, dove era possibile
incontrare degli indigeni americani o degli indiani Pueblo, la cui cultura era
ancora florida e vitale. significativo che la traumatica morte di Ishi, il suo
singolare informatore Yahi, abbia allontanato Kroeber dalletnografia
particolaristica in direzione di saggi pi ampiamente teorici, che,
rifacendosi alla tradizione idealista tedesca, ponevano lattenzione sul
genio collettivo di una data tradizione culturale di fronte al quale la storia
individuale e personale appariva del tutto irrilevante.
Kroeber tratt la scomparsa di intere popolazioni di indigeni californiani,
avvenuta in seguito ai massacri e alla caccia alle taglie organizzata degli
allevatori e dai cercatori doro angloamericani, come un piccolo e irrilevante
effetto collaterale nella lunga durata dellevoluzione sociale.

Dopo alcune esitazioni - scrive Kroeber nel 1925 - ho deciso di evitare ogni
tipo di esposizione direttamente storica [] delle relazioni tra i nativi e i
bianchi e degli eventi accaduti dopo il loro incontro. Non che questo
soggetto sia privo dimportanza o di interesse, ma io non sono nelle
condizioni di affrontarlo adeguatamente. Si tratta anche di un argomento che
143


rispetto ad altri ha unimportanza trascurabile per la cultura aborigena (cit. in
Buckley 1996, p. 294).

Le popolazioni e le culture sconfitte erano gi rovinate da un punto di
vista antropologico e quindi non sarebbero state utili per far luce sulle
autentiche civilt aborigene che precedettero il loro declino e che Kroeber
considerava il vero soggetto della sua ricerca scientifica.
Forse le sofferenze, le morti premature e la devastazione culturale dei suoi
informatori indigeni della California furono per Kroeber un peso troppo
grande da affrontare: cos egli elabor la teoria rassicurante che poneva le
loro perdite allinterno di una pi ampia prospettiva storico-culturale. Una
volta Kroeber confid ad un collega (A. R Pilling, cit. in Buckley 1996, p.
277) di non aver fatto ricerche tra i suoi informatori Yoruk sulle loro
esperienze dellepoca dellincontro con gli angloamericani, perch non
poteva sopportare tutti quei pianti. Cos Kroeber inizi a lasciare
lindividualit fuori dai suoi scritti, tanto che persino un oggettivista ed
empirista cos risoluto come Eric Wolf defin in seguito lapproccio
incorporeo ed impersonale di Kroeber alla cultura (il superorganico) cos
astratto e imperturbabile da mettere addirittura paura (Wolf 1981, pp. 57-8).
La fiducia di Kroeber nel potere del superorganico come massimo livello
di astrazione era lespressione di una sorta di fede scientifica (vedi Kroeber
1948, pp. 22-4). Ma prendendo la distanza dalla tragicit delle storie
personali e collettive dei suoi informatori, lantropologia di Kroeber non
riusc a cogliere la portata distruttiva del suo atteggiamento verso le
popolazioni indigene. Kroeber descrisse il genocidio che fece passare la
popolazione indigena della California da 300.000 (attorno al 1845) a meno
di 20.000 unit (alla fine del secolo) come se si trattasse di una questione
quasi senza importanza, di una piccola storia [] di eventi penosi (cit. in
Buclkey 1996).
difficile stabilire se il rapporto che intercorse dal 1911 al 1916 tra Kroeber
e il suo informatore-chiave, lindigeno californiano Ishi un rapporto
complicato, intenso e anche tragico sia stato causa o conseguenza dei
sentimenti dellantropologo riguardo allinevitabilit del declino e della
morte delle culture indigene in California. Ma su questo gi stato detto
abbastanza. Larrivo di Ishi nella vita di Kroeber, nonch nella nostra
coscienza antropologica e storica stato sovradeterminato in modi
inquietanti.
Nel primo di due articoli giornalistici dedicati agli Indiani Yahi, pubblicato
per la prima volta nellestate del 1911, Kroeber descrisse la scoperta, da
parte di alcuni ispettori della California, di una consistente banda di indiani
sopravvissuti di Mill Creek. The Elusive Mill Creeks (Gli inafferrabili di
Mill Creek), ripubblicato nel 1972 dal Lowie/Hearts Museum of
Antropology, racconta di come nel 1908 una squadra di ispettori locali di
una compagnia elettrica scopr per caso un accampamento, nascosto ad arte
nella foresta nei pressi di Deer Creek. Questo luogo fu con ogni probabilit
uno degli ultimi nascondigli di Ishi e dei pochi parenti sopravvissuti.
Allinterno dellaccampamento gli ispettori trovarono una donna di mezza
et e due indiani anziani, un uomo ed una donna. La donna anziana, che
riposava interamente ricoperta da pelli di coniglio, era molto malata e chiese
dellacqua, che uno degli ispettori le port dopo che altri membri della trib
erano fuggiti a nascondersi. Allora i bianchi, con una crudelt inaudita e
senza motivo, portarono via tutte le coperte, gli archi e le frecce e tutti gli
altri beni rimasti allaccampamento.
In questo racconto, scritto per la divulgazione ad un ampio pubblico,
Kroeber us parole ed espressioni che non comparivano di solito nelle sue
pubblicazioni scientifiche: parla per esempio di una trib indiana
completamente selvaggia ed indipendente, sprovvista di armi da fuoco, che
si nasconde quando luomo bianco si avvicina (Kroeber 1972a, p. 1) e che
riusc a non essere scoperta per quaranta anni. In un altro passo dellarticolo,
Kroeber descriveva gli indiani di Mill Creek come una manciata di
selvaggi e i loro cacciatori di taglie angloamericani come pionieri e
minatori intraprendenti. La migliore fine che Kroeber poteva immaginare
144


per questa banda di indiani superstiti era che essi venissero presi
prigionieri da una squadra di soldati americani, inviati dallOffice of Indian
Affairs (Ufficio per la questione indiana).

Come poi possano essere catturati e portati via un altro grosso problema.
E opinione unanime di chi li conosce che una truppa di cavalleria potrebbe
perlustrare la regione di Deer Creek e di Mill Creek per mesi, senza riuscire
a prenderli. Forse se degli uomini si chiudessero via via in un cerchio
potrebbero circondarli e costringerli a dirigersi verso il centro (Ibid., p. 9).

Lobiettivo sarebbe stato quindi di farli confluire insieme agli altri reduci di
trib senza terra che hanno vissuto per molti anni come vagabondi dispersi
ai margini della civilt. Altrimenti, secondo Kroeber, avrebbero potuto
ottenere poche miglia quadrate di terra nel canyon inaccessibile e senza
valore di Deer Creek, dove vivono attualmente. Oppure il loro futuro
sarebbe stato estremamente atroce:

Se persistono a mantenere il loro attuale stile di vita, i coloni dei dintorni
continueranno probabilmente a subire ulteriori perdite di propriet e di
bestiame. E se gli indiani vengono colti sul fatto, si pu mettere male per
loro, perch gli allevatori in questi distretti hanno sempre il fucile a portata
di mano e non possono essere accusati se ricorrono alla violenza [corsivo
dellautrice] quando le loro propriet sono state ripetutamente prese di mira
(Ibid., p.8).

Quasi come da copione, nel luglio 1911, lultimo membro di quella banda di
fuorilegge, luomo che gli antropologi avrebbero successivamente chiamato
Ishi e che Kroeber avrebbe descritto (in una lettera a Sapir) come lultimo
indiano della California, fece la sua comparsa ad Oroville, Butte County,
cittadina californiana legata alla storia delle miniere doro, sulle rive del
fiume Feather. Spinto dalla fame o dalla disperazione, lindiano scese dalle
pendici del monte Lassen e fu trovato rannicchiato nellangolo di un
macello. Kroeber aveva appena finito di scrivere il suo articolo sugli ultimi
indiani di Mill Creek quando ricevette una telefonata dalla prigione di
Oroville con cui gli chiedevano aiuto per comunicare con il selvaggio.
Lindiano aveva freddo ed era spaventato e, sebbene molto affamato, date le
sue condizioni, si rifiut di accettare il cibo e lacqua che gli venivano
offerti. Il suo unico indumento era un logoro mantello di tela.
Nella prima foto scattata ad Ishi solo poche ore dopo la sua cattura (si veda
figura 14.1), la sua espressione allarmata ed il suo stato di avanzato
deperimento ci appaiono tristemente familiari, ricordando da vicino le foto
scattate ai sopravvissuti allOlocausto, subito dopo la loro liberazione dai
campi di concentramento alla fine della Seconda guerra mondiale. Vengono
in mente anche i campi di lavoro in Kosovo. I capelli di Ishi erano stati
notevolmente accorciati, tagliati o bruciacchiati, nel tradizionale segno di
lutto degli Yahi. Forse lanziana donna abbandonata allaccampamento a
Mill Creek era morta? Le guance di Ishi sono emaciate ed accentuano
linfossatura degli occhi. La foto mostra un uomo intelligente e
profondamente afflitto.
Ishi stato descritto come lAnna Frank della California del nord: vittima di
una caccia crudele, la sua famiglia sterminata, fino a quando, ultimo del suo
gruppo, Ishi fu stanato dal suo nascondiglio tra i boschi. Tra alcuni indiani
della California del nord si ipotizza che Ishi abbia cercato rifugio nel vicino
villaggio del fiume Feather (indiani Maidu). I Maidu, come gli indiani del
villaggio Pit River a nord del monte Lassen, erano noti per aver fornito
qualche volta rifugio ai loro vicini Yahi in fuga. Ishi non era pazzo, mi
disse, nella primavera del 2000, Art Angle, presidente del Comitato
Culturale degli Indiani dAmerica del distretto di Butte ad Oroville. Sapeva
dovera diretto. Ma tradito dai latrati dei cani da guardia, Ishi cadde nelle
mani dei bianchi.
Altri nativi californiani che vivono della zona pensano che Ishi fosse un
tipo solitario, che aveva imparato dalla madre e da altri adulti a lui vicini ad
145


evitare tutte le persone. Un uomo di Pit River disse che Ishi, secondo lui, ,
non resisteva pi senza legami con altri indiani. Troppi anni da solo,
hanno detto altri: Non aveva pi fiducia in nessuno bianchi o indiani, per
lui tutto era indifferente. Ha sofferto troppo, ha detto un altro nativo.
Anche i bianchi che oggi vivono e lavorano vicino allaccampamento di Mill
Creek dove si trovava la famiglia di Ishi, continuano a parlare di lui. come
se avvertissero ancora la sua presenza. Sai mi ha detto con tono
arrabbiato un cacciatore di cervi, un bianco, giovane, incontrato in un
supermercato di fronte a Mill Creek, dove si era fermato a fare provviste:
dettero la caccia a Ishi, come se stessero cercando una volpe non so
proprio come abbiano potuto fare una cosa del genere ad un uomo come
lui.

[Inserire qui figura 14.1 Ritratto di Ishi, 29 agosto 1911. Tratto da Kroeber,
T., 1961, Ishi in two Worlds, Berkeley, University of California Press]

Dopo essere stato salvato da Kroeber e dai suoi colleghi, Ishi trascorse gli
ultimi anni della sua vita (1911 1916) come aiutante custode (pagato 25
dollari alla settimana), come informatore chiave per A. L. Kroeber e come
esemplare vivente per il museo di antropologia dellUniversit della
California, che allepoca aveva sede a San Francisco. Ishi ottenne un
alloggio privato allinterno del museo, ma la sua camera si trovava di fianco
ad un salone che conteneva unampia collezione di scheletri ed ossa umane
che spaventavano e deprimevano lindiano. Durante il periodo che trascorse
tra i bianchi (soprattutto medici e antropologi dellUniversit della
California), Ishi fu utilizzato come informatore chiave per Kroeber, Tom
Waterman ed altri antropologi locali o esterni, tra i quali Edward Sapir della
Yale University, che Watermann accus di sovraccaricare di lavoro Ishi, gi
indebolito dalla malattia. Come migliaia di altre persone di primo contatto,
Ishi contrasse la tubercolosi, una malattia da citt e da uomo bianco, anche
se le sue condizioni non vennero diagnosticate con certezza che nelle ultime
settimane di vita. Kroeber non fu colto di sorpresa, perch temeva questa
fine gi dal momento in cui la sua prima moglie Henriette gli fu portata via
da questa terribile malattia che si stava gi diffondendo in molte citt degli
Stati Uniti, proprio poco dopo larrivo di Ishi al museo. Ishi mor di quella
che fu descritta come una tubercolosi galoppante nel marzo del 1916,
mentre Kroeber si trovava in congedo sabbatico a New York.
Analfabeta e illetterato, Ishi (a differenza di Anna Frank) non scrisse un
diario, ma raccont alcune vicende della sua vita ad Alfred Kroeber, che
registr quei frammenti per iscritto, oltre a registrare su primitivi cilindri di
cera le sue narrazioni di miti, storie delle origini e fiabe yahi. Cerano per
molte cose di cui Ishi non parl mai: la morte dei suoi parenti pi stretti e i
suoi ultimi, terribili anni passati nelle vicinanze di Deer Creek, prima di
decidere di mettersi in cammino verso sud, molto al di l dei territori
normalmente occupati dalla comunit Yahi. Il silenzio di Ishi su alcuni temi
era dettato da un tab degli Yahi a nominare i morti.
Kroeber non riusc mai a scrivere la storia definitiva di Ishi e della sua gente.
Dopo la scomparsa dellindiano, Kroeber evit di parlare del suo amico ed
accanton, per molti anni, i materiali e gli appunti di campo su Ishi e sulla
cultura Yahi. Nella sua biografia di A. L. Kroeber, Theodora Kroeber (1970)
scrisse che quando si parlava di Ishi suo marito si sentiva molto a disagio,
per cui in casa generalmente si evitava largomento. Forse Kroeber stava
rispettando lusanza Yahi di non nominare e non parlare dei morti. O almeno
a me piace pensarlo. Ma molti anni dopo questi tristi eventi, Kroeber
permise alla sua seconda moglie, Theodora, di usare suo marito come un
informatore chiave sugli ultimi anni di Ishi. In questo modo Theodora
Kroeber raccont la storia che lantropologo non riusciva a scrivere e scrisse
due resoconti memorabili e di alto valore letterario: Ishi in Two Worlds
(1961) e Ishi: Last of His Tribe (1964). Di conseguenza, ci che
conosciamo e ricordiamo oggi di Ishi si basa soprattutto su ci che scisse
Theodora.
146


Ishi in Two Worlds si confronta direttamente con il tema che Krober aveva
accuratamente evitato: la storia del genocidio degli indiani della California
per mano dei coloni e degli allevatori bianchi. I capitoli 3, 4 e 5 del libro
costituiscono una delle pi convincenti rappresentazioni della brutalit e
della crudelt dei coloni bianchi in California. Cos, grazie alla
rappresentazione puntuale di Theodora Kroeber della vita di Ishi e del suo
tempo, Ishi ha fornito un volto, un nome e un racconto in prima persona allo
sterminio della sua gente, che sarebbe altrimenti rimasto sconosciuto. Ishi ha
finito per rappresentare pi della vita di un singolo uomo, perch riuscito a
simbolizzare tutta la storia dei nativi americani.
Se il semplice testo di Theodora si mostrato durevole, non cos stato per i
fragili cilindri di cera sui quali Krober (e poi anche Sapir) registrarono le
canzoni e le fiabe di Ishi: essi furono collocati negli archivi del museo di
antropologia, troppo vicino ai caloriferi e molti si sciolsero. Una delle prime
registrazioni superstiti il racconto fatto da Ishi del mito Yahi Il coyote
dorme con sua sorella, che stato attentamente trascritto da Leanne Hinton
e dai suoi studenti di Berkeley e confrontato con leggende simili raccolte tra
le trib vicine. Nella conferenza dedicata a Il lascito di Ishi, tenuta a
Oroville il 12 maggio del 2000, Hinton ha sottolineato con quanto trasporto
Ishi raccontasse questa lunga leggenda, con tutti i suoi complicati significati
nascosti, pieni di dettagli sulle pratiche Yahi della raccolta delle ghiande,
sulla loro cucina e sulle loro abitudini quotidiane. Il motivo per cui Ishi, un
uomo che in tutte le testimonianze viene presentato come eccessivamente
riservato e addirittura pudico, scelse di raccontare proprio questa leggenda,
dal contenuto esplicitamente sessuale e che affronta un tab Yahi molto
radicato lincesto tra fratello e sorella per Hinton rimane un mistero. Ma
il tema deve aver esercitato un certo potere su Ishi, un uomo adulto che era
stato costretto a vivere, viaggiare e a nascondersi dai propri consanguinei, a
lui sessualmente interdetti. Tra le numerose forme di violenza patite da Ishi
per mano dei minatori e degli allevatori bianchi, che davano la caccia alla
sua gente, ci furono anche le limitazioni alla sua sessualit e al suo diritto di
riprodursi. Si trattava sempre di genocidio, anche se sotto unaltra forma.
Anche dopo la sua cattura (o salvataggio) da parte dei bianchi, la sessualit
di Ishi divenne oggetto di scherno. La stampa locale, per esempio, aveva
tirato fuori la storia che Ishi si fosse infatuato di Lily Lena, una cantante
londinese di music hall senza grosse pretese che si esib allOrpheum
Theather di San Francisco nellautunno del 1911. Ma Kroeber (1911b) fece
notare che Ishi fu colpito molto pi dallarchitettura delledificio e dalla folla
che si trovava sotto il palco dove era seduto piuttosto che dalla signorina
Lena, alla quale prest scarsa attenzione.
In questo stesso breve scritto giornalistico Kroeber racconta dellarrivo a
San Francisco di Ishi, durante la Festa dei Lavoratori del 1911. Quando
luomo di nome Ishi scese dal traghetto e si trov in mezzo al luccichio delle
luci elettriche, ai fattorini degli hotel e al rumore dei tram in Market Street,
era spaventato e sconvolto. Ishi, scrive Kroeber, era

una figura curiosa e patetica in quei [primi] giorni. Timido, gentile, con una
paura costante che cercava di contenere e nascondere come meglio poteva,
egli, tuttavia, trasaliva e sussultava a qualsiasi rumore improvviso. La vista
di qualcosa di nuovo o laccalcarsi attorno a lui di una mezza dozzina di
persone gli irrigidiva gli arti. Se gli si prendeva e poi gli si lasciava la mano,
il suo braccio rimaneva come irrigidito in aria per alcuni minuti. Il primo
colpo di un cannone, sparato durante unesercitazione dellartiglieria al
Presidio, a distanza di parecchie miglia, lo faceva saltare in piedi dalla
sediaLa sua pi grande paura, che riusc a sconfiggere ma solo
lentamente, era quella della folla. Non difficile capire questa sua fobia alla
luce della sua vita solitaria in una trib di cinque persone [in seguito ridotta
a tre ed infine ad uno] (Ibid.).

In questo doloroso passaggio Kroeber descrive i sintomi di quella che oggi
potremmo considerare come un classica descrizione di un disturbo causato
da uno stress post-traumatico. I trasalimenti improvvisi, le fobie, la
147


disposizione alla fuga sono simili a quelli di molte vittime del cosiddetto
shock da bombardamento subito in guerra o durante stermini, rapimenti,
torture, stupri e aggressioni fisiche (vedi Herman 1992). Tuttavia,
nonostante la sua vulnerabilit fisica per le malattie della citt e la sua
fragilit psicologica in quanto sopravvissuto ad un trauma estremo, Ishi
veniva esibito al museo di antropologia, meta delle gite domenicali delle
famiglie che vi si recavano per osservare il selvaggio della California che
fabbricava frecce e lance per la pesca. Considerata lacuta paura delle folle
di Ishi, ci si domanda perch Kroeber consentisse la sua esibizione di fronte
alle masse della Fiera del Panama Pacific Trade.
Nel 1915 Ishi inizi il suo inevitabile declino dopo aver contratto la
tubercolosi. In un primo momento il suo grande amico e medico personale,
Saxton Pope, non aveva saputo diagnosticare la malattia e non fu neanche in
grado di notare (fino ad alcuni giorni prima della morte di Ishi) quanto il
corpo dellamico fosse dimagrito e mal ridotto. Nel febbraio del 1916, un
mese prima della morte di Ishi, Pope scrisse:

Per tutto questo tempo ha avuto una tosse moderata; ma unulteriore esame
non ha permesso di mostrare alcun bacillo di tubercolosi.dopo aver
mangiato, a quanto pare, ha provato grande dolore. Anche lacqua lha fatto
star male e lho visto contorcersi in agonia, con le lacrime che gli solcavano
le guance, ma tuttavia senza pronunciare il minimo suono di lamento. A quel
punto, quando sembrava che stesse peggiorando cos in fretta che la fine
doveva essere ormai vicina, lho convinto ad alzarsi dal letto e a farsi
fotografare ancora una volta. Era sempre molto contento di essere
fotografato, quindi acconsent. Fu solo dopo che la foto venne sviluppata che
mi accorsi in quale pietoso stato fosse ridotto (Pope 1920, p. 19; corsivo
aggiunto).

Lultima cartella clinica di Ishi stilata allaccettazione nellospedale
dellUniversit della California riporta:

Ishi numero 11032. 19 marzo 1916. Indiano dalla pelle nera, ben
sviluppato ma estremamente emaciato, giace a letto.vomita ed ha
occasionalmente conati di vomito, in evidente stato di dolore naso largo e
notevolmente arcuato; zigomi alti e guance infossate, profondo
abbassamento delle orbite, apparentemente dovuto a deperimento (Ibid.).

Quando nel 1916 Kroeber decise di lasciare lUniversit della California per
trascorrere un anno sabbatico allestero e a New York City, sapeva che il suo
saluto a Ishi poteva essere lultimo. Ma Ishi, a quanto si dice, rovesci la
situazione nel suo pi ampio significato metaforico, dicendo ad Alfred: Io
vado, tu rimani. Negli ultimi giorni di vita di Ishi, Kroeber invi da New
York numerosi telegrammi nei quali chiedeva notizie aggiornate sulle
sempre pi gravi condizioni di salute dellamico. Ishi aveva affidato a
Kroeber il compito di occuparsi delle sue spoglie, ma quando giunse il
momento, Kroeber che si trovava lontano non riusc ad evitare che fosse
condotta unautopsia sul corpo di Ishi, durante la quale il cervello
dellindiano venne asportato in nome della scienza.
Quando Kroeber ritorn a Berkeley, inspiegabilmente fece in modo che il
cervello di Ishi fosse inviato allo Smithsonian Institution perch fosse
esaminato. Luomo a cui fu inviato il cervello, Ales Hrdlika, era un eminente
antropologo fisico della vecchia scuola, un uomo che si dedicava con
ossessione alla collezione e alla misurazione di esemplari di cervello, di
vari tipi di primati: esseri umani esotici (come Ishi) o genii occidentali
(come John Wesley Powell, il primo direttore del Bureau of American
Ethnology). Kroeber sapeva che Ishi non vedeva di buon occhio la pratica
scientifica delluomo bianco di conservare teschi e altre parti del corpo, ma
probabilmente pens che ormai era troppo tardi per tali remore
sentimentali: Ishi era morto e loltraggio ai suoi resti ormai era gi stato
commesso ed era irreversibile. Probabilmente pens che la scienza, alla
quale aveva dedicato senza riserve la propria vita, avrebbe potuto trarre
148


beneficio dalla tragedia della morte del suo amico e informatore. Se le cose
stanno cos, fu un trionfo della scienza sul sentimento. In ogni caso,
Kroeber scrisse a Hrdlicka, il 27 ottobre del 1916:

Ho visto che, con la morte di Ishi la scorsa primavera, il suo cervello fu
asportato e conservato. Non c nessuno qui che lo possa utilizzare per scopi
scientifici. Se lo desidera, sarei felice di depositarlo nella collezione del
Museo Nazionale

Hrdlicka rispose il 12 dicembre del 1916 che sarebbe stato molto lieto di
ricevere il cervello e che lo avrebbe opportunamente esaminato. Tuttavia
non ci sono prove che il cervello di Ishi sia stato utilizzato in qualche studio
di antropologia fisica o ad uso scientifico: fu semplicemente dimenticato e
abbandonato in un deposito dello Smithsonian Institute, conservato in un
contenitore di formaldeide insieme ad altri esemplari di cervello.
In alternativa, il comportamento di Kroeber pu essere interpretato come un
atto di lutto morboso. Il dolore pu essere espresso in molti modi diversi,
andando dalla negazione e dallincapacit di accettazione alla rabbia dei
cacciatori di teste Ilongot (Rosaldo 1989). Secondo Theodora Kroeber
(1970) suo marit soffr immensamente alla notizia della morte dellamico e
delloltraggio compiuto sul suo cadavere. Cadde in un lungo periodo di
depressione e per sette anni segu un modello di fuga. Kroeber defin questo
sconvolgente periodo della sua vita (dal 1915 al 1922) come la sua egira
un periodo buio, di viaggio, ricerca di se stesso e malinconia -
contraddistinto da sintomi apparentemente strani: perdita di equilibrio,
nausea, vertigini, esaurimento e spossatezza. Il suo stato era simile a quella
che di solito si chiama nevrastenia. Di fronte al dolore represso di Kroeber
per il decesso della sua prima moglie e del suo amico ed informatore chiave,
morti entrambi per la stessa malattia a distanza di poco tempo luno
dallaltra, viene in mente il saggio di Freud su lutto e malinconia.
Subito dopo la morte di Ishi, Kroeber lasci nuovamente la California per
ricoprire un incarico temporaneo presso il Museo di Storia Naturale di New
York. In realt Kroeber and a New York per iniziare una psicoanalisi di
tipo classico con il dottor Jeliffe, un ex studente di Anna Freud. Kroeber
riconosceva che quei segnali erano da ricondurre ad una sua mancanza di
equilibrio psichico. Con la morte di Henriette era stata distrutta la vita
privata di Kroeber; con la morte di Ishi la sua vita professionale sembr
perdere significato. Cos, allet di 40 anni, Kroeber si trov per la prima
volta a mettere in discussione la scelta della propria carriera e dei propri
obiettivi professionali di lungo termine. Quando ritorn a Berkeley, Kroeber
inizi un tirocinio in terapia psicoanalitica presso la Stanford Clinic.
Successivamente apr uno studio privato a San Francisco.
Quando nel 1922 Kroeber riprese a tempo pieno la sua carriera di
antropologo, si rivolse a nuovi campi e nuove impostazioni di ricerca: si
dedic allarcheologia, fece esperimenti avvalendosi di metodi pi oggettivi
e statistici che gli permisero di prendere la distanza dagli aspetti pi
personali e psicologici della vita umana. Lindividuo e il piccolo gruppo
erano ora interpretati come parte di una pi ampia configurazione che
Kroeber chiamava il superorganico. Allo stesso modo il suo nuovo
interesse per le aree culturali permise a Kroeber di raccogliere una grande
quantit di dati statisticamente comparabili per tutti i nativi della California
(T. Kroeber 1970, p. 163). Nel complesso, si trattava di una fuga
nelloggettivismo, guidato dal desiderio di rilevare il flusso e riflusso delle
culture, che Kroeber arriv a ritenere inevitabile come i cicli di giorno e
notte o di vita e morte.
E facile oggi, con il senno di poi, riconoscere la miopia degli antropologi
che ci hanno preceduto, in questo caso il rifiuto intellettuale di Kroeber di
riconoscere il genocidio degli Indiani della California del Nord e la sua
apparente mancanza di sensibilit rispetto alle spoglie di Ishi. Kroeber non
era indifferente nei confronti dei suo informatori indiani viventi. A Berkeley
Kroeber ospitava di frequente informatori e amici, alcuni dei quali vi
149


vivevano con la propria famiglia per diverse settimane (Ibid., 158-9). Negli
anni 50, alla fine della sua lunga e brillante carriera, Kroeber abbandon la
sua normale reticenza nei confronti dellantropologia applicata per
prendere le parti degli indiani californiani in un importante caso di
rivendicazione territoriale: gli Indiani contro gli Stati Uniti dAmerica (Ibid.,
p. 221). Sebbene Kroeber considerasse il caso senza speranza, gli indiani
alla fine vinsero la causa e sei anni dopo la morte di Kroeber ad essi fu
assegnata una cifra simbolica come risarcimento per le loro perdite collettive
(Shea 2000, p.50). Theodora Kroeber (1970) afferm che nel caso della
rivendicazione territoriale i bianchi erano colpevoli e in cattiva fede.
Diciotto anni dopo la prima apertura del caso, il presidente Johnson approv
un disegno di legge in base al quale si assegnavano 800 dollari a tutti gli
indiani (uomini, donne e bambini) correttamente identificati e riconosciuti
che si trovassero negli Stati Uniti nel settembre 1968. Era proprio il tipo di
costoso ma insignificante risultato che Kroeber aveva maggiormente
temuto (Ibid., p. 223).
lecito domandarsi come si sarebbe potuto agire diversamente. Quali
alternative aveva Kroeber? Prima che Ishi si ammalasse Kroeber avrebbe
potuto occuparsi del delicato argomento di stabilire dove e da chi Ishi si
stava dirigendo quando fu catturato mentre stava fuggendo nei pressi di
Oroville? Se, come pensano alcuni indiani Maidu dei nostri giorni, avesse
cercato rifugio presso altre popolazioni native, non poteva essere questa una
possibile soluzione? E dopo che la salute di Ishi inizi a peggiorare, il museo
e lospedale erano veramente i posti migliori dove confinare luomo? Fino
ad oggi ci siamo sempre dati da fare per dimostrare che Ishi era un uomo
felice (si veda la satira di Gerald Vizenor [2000, pp.137-59]), che era
contento della sua nuova vita tra gli amici bianchi, che era incantato dai
fiammiferi, dalle tapparelle e da altre manifestazioni di ingenuit delluomo
bianco; che era contento del posto di custode del museo e della sua
esibizione della domenica. Forse lo fu davvero. Ma i fatti (vedi Heizer, T.
Kroeber 1979) suggeriscono unaltra interpretazione, cio che Ishi fosse
semplicemente stanco di una vita in fuga. Il museo di antropologia fu la fine
del suo percorso. Sebbene non per sua scelta, Ishi accett il suo destino con
grande spirito di sopportazione, una certa dose di umorismo e benevolenza.
Era diventato un grande esperto nellarte del saper attendere.


Le ceneri di Ishi

Il capitolo conclusivo della triste storia di Ishi e dellantropologia di
Berkeley si apr nel 1999 con la riscoperta del cervello di Ishi, che era
rimasto per tre quarti di secolo in un contenitore di formaldeide in un
deposito dello Smithsonian Institution, e con la richiesta dei nativi
californiani di una sua immediata restituzione. I membri del Dipartimento di
Antropologia di Berkeley avevano opinioni diverse su che cosa si dovesse
dire o fare in proposito. Si tenne unapposita riunione di dipartimento e alla
fine fu votato e approvato un documento di compromesso.
Sebbene mancassero le scuse agli indiani del nord della California, che un
gran numero di membri della facolt aveva sottoscritto in una prima stesura,
la versione finale concludeva:[3]

Noi riconosciamo la responsabilit del nostro dipartimento per quello che
successe ad Ishi, un uomo che aveva gi perso tutto ci che aveva di pi
caro. Sollecitiamo caldamente che la procedura di ritorno del cervello di
Ishi presso le istituzioni appropriate dei nativi americani sia portata a
termine il pi velocemente possibile [] invitiamo i popoli nativi della
California a darci indicazioni su come possiamo essere maggiormente utili ai
bisogni delle loro comunit attraverso le nostre attivit di ricerca. Forse,
lavorando assieme, potremo garantire per il prossimo millennio una nuova
era nella relazione tra popoli indigeni, antropologi e opinione pubblica. (29
marzo 1999, Dipartimento di Antropologia, Universit della California,
Berkeley)
150


Le seguenti parole ed espressioni, presenti, nella prima stesura, vennero
cancellate:

Quello che successo al corpo di Ishi in nome della scienza stata una
perversione dei nostri valori antropologici di fondo. La scienza procede
grazie alla correzione degli errori passati e attraverso un graduale processo
di auto-riflessione critica [] Siamo dispiaciuti del ruolo avuto dal nostro
dipartimento, per quanto non voluto, nellultimo tradimento subito da Ishi,
un uomo che aveva gi perso tutto ci che aveva di pi caro per mano dei
colonizzatori occidentali. Riconosciamo che lo sfruttamento ed il tradimento
dei nativi americani ancor oggi un luogo comune nella societ americana.
Lantropologia che nata agli inizi del XX secolo la cosiddetta
antropologia di recupero era una scienza umana dedita a salvare ci
che era rimasto dei popoli e delle culture indigene in seguito ad un genocidio
nazionale.

Ebbi per occasione di leggere questo lungo documento nel corso di
unaudizione presso lassemblea legislativa di stato, tenuta a Sacramento
nellaprile del 1999 e dedicata alla restituzione delle spoglie di Ishi.
Alcuni rappresentanti delle comunit native della California, come Art
Angle del Comitato culturale degli indiani americani di Butte County,
apprezzarono e accettarono latto di scuse, giudicandolo un grande passo
per lantropologia e per lUniversit della California. Altri portavoce indiani,
come Gerald Vizanor, docente di studi sui nativi americani a Berkeley,
respinsero questa dolente retorica e il relativo atto di scuse, che egli defin
troppo breve e troppo in ritardo. Ovviamente, un intero secolo di
diffidenze tra indiani e antropologi (si vedano Deloria 1988 [1969]; Thomas
2000), radicate in una storia di genocidio, richiederebbe, come ha osservato
Vizanor, molto pi di un atto di scuse o di una conferenza accademica. La
consegna del cervello di Ishi da parte dello Smithsonian Institution ai
rappresentanti della trib di Pit River, l8 agosto 2000, ha chiuso un triste
capitolo della storia dei rapporti tra gli antropologi e gli indiani. Forse questo
evento ha anche aperto la strada per un impegno pi costruttivo e
significativo degli antropologi verso i sopravvissuti ai genocidi e agli
etnocidi compiuti dagli Stati Uniti.
Confrontata con il ruolo che lantropologia ha svolto nel fornire una
giustificazione scientifica e un insieme di strumenti concettuali
allOlocausto degli ebrei (Arnold 2002; Schafft 2002), la piccola storia di
una complicit dellantropologia nella cancellazione della storia dei genocidi
in California o nella reificazione di un Ishi ridotto ad oggetto di analisi
antropologica, potrebbe apparire di secondaria importanza. Ma allinterno
del quadro concettuale che qui propongo, cio il continuum genocida,
fondamentale non perdere di vista la facilit con cui lanormale
normalizzato e le morti dei nostri soggetti antropologici vengono fatte
apparire come inevitabili o semplice routine.


Antropologia e apartheid

Un altro esempio, ancora pi estremo, dellapplicazione di idee, metodi e
concetti antropologici ad una politica ufficialmente genocida, riguarda il
ruolo ideologico e pratico che la tradizione dellantropologia culturale
tedesca e olandese (conosciuta in Sud Africa come Volkekunde) ha svolto
nella giustificazione e nel progetto dellapartheid sudafricano. Lidea che le
persone fossero naturalmente divise in gruppi culturali e in popolazioni in
relazione a differenze facilmente riconoscibili sul piano della tipologia
fisica, dellorganizzazione sociale, della lingua e delle istituzioni culturali,
insieme ai concetti chiave di razza, trib, gruppo etnico, comunit ed ethos,
furono elementi prontamente utilizzati come sostegno per la costituzione
delle patrie Bantu del Sud Africa, del Group Areas Act (1950) e di altre
istituzioni di segregazione culturale e razziale. Questa linea politica fu difesa
dagli architetti dellapartheid come misura di protezione del patrimonio
151


culturale unico di popoli diversi (vedi Boonzaier, Sharp 1988). Una simile
applicazione perversa di discorsi antropologici fu chiaramente un pretesto
per favorire la spietata dominazione bianca e la soppressione della
maggioranza nera, un sistema appoggiato in alcune universit e in alcuni
dipartimenti di antropologia degli Afrikaner.
La Volkekunde ha fornito un programma e una spiegazione scientifica per
lapartheid. Si trattava di una tradizione dellantropologia ispirata sia
dalletnografia e dal folklore tedesco della fine del xix secolo, sia
dallantropologia americana del xx secolo, specialmente da quella della
scuola di Boas e Kroeber (che integrava antropologia biologica, linguistica
e culturale) come anche dalla scuola del configurazionalismo culturale
romantico di Ruth Benedict. Infatti Patterns of Culture di Benedict veniva
letto in alcuni circoli del Sud Africa durante gli anni 70 e 80 come una
sorta di Magna Charta romantica di un radicale apartheid, come argomento a
favore della salvaguardia di nozioni reificate di modelli culturali e di
distinzioni. Lantropologia culturale degli afrikaner, che si rifaceva alla
tradizione degli studi americani di cultura e personalit tra gli anni 50 e i
primi anni 60, forn al governo del Partito Nazionale le teorie riduzioniste di
cultura, comunit e personalit di base, che vennero utilizzate per
giustificare una politica di sviluppo culturale parallelo. Le riserve degli
indiani americani sono state spesso citate dai teorici dellApartheid come un
modello per la creazione degli odiati stati bantu.
Tuttavia, durante una visita allUniversit Afrikaner dellOrange Free State
nel 1994, rimasi scioccata nel vedere grandi ritratti dei padri e delle madri
fondatrici dellantropologia americana abbellire le pareti del dipartimento di
antropologia. Sarei stata curiosa di sapere che cosa avrebbero detto il grande
antirazzista Franz Boas, letnografo di Berkeley Robert Lowie e Alfred
Kroeber, il fondatore del dipartimento di Berkeley, nonch lirascibile madre
di tutti noi, Margaret Mead, riguardo al fatto che le loro immagini venissero
esposte da unistituzione che aveva servito, pi o meno fedelmente, lo Stato
dellapartheid in Sud Africa. La giustificazione che mi fu data della loro
presenza fu di ordine genealogico: sia lantropologia culturale americana che
lantropologia afrikaner sono nate dalla stessa tradizione dellidealismo
tedesco del xix secolo, che si occupato di scoprire il genio proprio di
ogni gruppo culturale, un genio che aveva bisogno di essere accuratamente
coltivato e sviluppato, in relazione ai propri valori intrinseci e allinterno del
proprio spazio culturale (nonch geografico). Questo ideale era lobiettivo
originale dellapartheid come era stato concepito dal grande antropologo
sudafricano H. F. Verwoerd. Nel contesto di questa storia tormentata, mi
sono chiesta (Scheper-Hughes 1996, pp. 344-46) quale ruolo avrebbe potuto
eventualmente svolgere unantropologia culturale reinventata e liberata da
queste radici nella costruzione di un nuovo Sud Africa.
Si potrebbero fornire anche altri esempi delluso improprio che stato fatto
di idee e di pratiche antropologiche nel fomentare violenze strutturali e
politiche; ma si possono anche citare molti pi esempi in cui idee e metodi
antropologici sono stati usati come strumento di liberazione umana e di
opposizione a progetti statali di sterminio e di genocidio. La tradizione
oppositiva e marxista dellantropologia sociale come stata praticata da
alcuni antropologi a Witswatersrand, lUniversit di Cape Town, e
allUniversit di Western Cape in Sud Africa, durante gli anni
dellApartheid, ne rappresenta un esempio.
Il coraggioso lavoro politico dellantropologo forense Clyde Snow, in
collaborazione con Mary Clare King, un altro esempio di antropologia
politicamente impegnata di fronte al genocidio. Snow ha aiutato ad
organizzare e ad addestrare lEquipo Argentino de Antropologia Forense di
Buenos Aires, uno dei primi gruppi ad usare la tecnologia del DNA per
identificare i resti dei desaparesidos riesumati dalle fosse comuni. Pi
recentemente questi metodi sono stati usati per localizzare e identificare i
figli e i nipoti gi adulti di alcuni di questi desaparesidos che erano stati
adottati da famiglie di militari durante la guerra sporca in Argentina
(1975-83). Un lavoro simile viene svolto oggi in Salvador, Guatemala e
Bosnia con laiuto dellantropologia forense applicata. Questo nuovo campo
152


dellantropologia forense politicamente impegnata ha visto la luce
nellultimo ventennio come potente pratica politica e scientifica in difesa dei
diritti umani durante ed in seguito a genocidi e ad altri tipi di stragi di massa.
Se alcuni concetti chiave dellantropologia il concetto di cultura di Lowie,
il concetto di razza di Boas, il configurazionalismo di Ruth Benedict e
lidea dei caratteri nazionali di Mead - sono stati applicati in modo perverso
per favorire il razzismo scientifico e gli stermini, questi stessi concetti
sono stati usati in altri tempi e in altri luoghi per promuovere i diritti sociali
e umani di individui e di gruppi culturali svantaggiati. Infine ci sono sempre
pi antropologi che non si sono persi la rivoluzione, che non hanno
distolto lo sguardo dai genocidi e che si sono schierati apertamente dalla
parte delle vittime e dei sopravvissuti di violenze politiche ed etniche,
tentando coraggiosamente di scrivere e agire in modo sovversivo (si vedano
Aretxaga 1995; Binford 1996; Borneman 1997; Bourgois 1999; Daniel
1996; Das 1996; Feitlowitz 1998; Feldman 1991; Green 1999; Leyton
1998b; Nelson 1999; Malkki 1995; Pedelty 1995; Quesada 1998, 1999;
Robben 2000; Suarez-Orozco 1987; Swedenburg 1995; Taussig 1987;
Zulaika 1988, nonch i saggi raccolti in Hinton 2002).

Modernit del genocidio

La controversa tesi di Bauman (1991), che mette in relazione il genocidio
con un determinato stadio di formazione dello Stato, con lefficienza
tecnologica, la razionalit e la soggettivit, smentita in molti degli esempi
etnografici contemporanei.[4] Sebbene il concetto legale di genocidio sia
nuovo, si pu riconoscere un impulso eliminazionista in condizioni di vita
pre-moderne, oltre che moderne o tardo-moderne. Un modello spirituale per
il genocidio si pu trovare nel libro della Genesi, quando il Dio creatore si
trasforma nel Dio distruttore dellumanit, in unespressione di furia
genocida. Il Dio degli ebrei del deserto volle che unalluvione distruggesse
ogni traccia di vita umana (tranne No e la sua famiglia). La distruzione di
Sodoma e Gomorra un altro prototipo biblico di strage di massa, cos come
il decreto di re Erode che ordina luccisione di tutti i neonati primogeniti in
Giudea. In questi racconti biblici, Dio costruito a problematica immagine e
somiglianza delluomo.
Genocidi e stermini sono stati attribuiti a Stati deboli (Bayart 1993; Reno
1998) o alla mancanza di uno Stato, per esempio nella molto discussa tesi di
Robert Kaplan (1994) di un avvento dellanarchia in riferimento al caos e
alla violenza che ha segnato lAfrica equatoriale post-coloniale, soprattutto
lAngola e la Sierra Leone. Altrove i genocidi sono stati messi in relazione
con Stati potenti, autoritari e burocraticamente efficienti come la Germania
della met degli anni 20 (Goldhagen 1997, Arendt 1963). Ancora, i
genocidi sono stati collegati allindividualismo anomico oppure, cambiando
scenario, al comunitarismo e alle sue richieste di ubbidienza e di sacrificio
umano (Gourvitch 1998, p. 33-34; Zulaika 1988).
La caccia alle streghe in alcune zone dellAfrica e sugli altipiani della Nuova
Guinea ha portato, in societ di piccola scala e pre-moderne, a collassi
demografici che potrebbero essere considerati degli esempi alternativi di
genocidio politico. Limpulso a individuare ed eliminare tutte le streghe,
considerate in determinate societ come elementi del male, mosso dallo
stesso tipo di dottrina delligiene sociale, caratteristica del genocidio negli
Stati moderni. I massacri e gli stermini, che hanno spesso causato
lestinzione di intere popolazioni indigene che vivevano in bande isolate,
compiuti da piccoli gruppi di cacciatori di taglie, cercatori doro e coloni
bianchi o meticci, sembrano non rientrare nei tipi di modernit a cui si
riferisce la tesi di Bauman. Infatti, gli stermini, i genocidi e le estinzioni
programmate di popolazioni ridotte a capro espiatorio, sono avvenuti sia in
societ pre-statali sia negli Stati dellantichit e della modernit.
Uli Linke (2002), rifacendosi alla tradizione weberiana e sulla scia di
Hannah Arendt (1963) e Daniel Goldhagen (1997), vede lOlocausto come
una sorta di folle trionfo dellefficienza razionale, un risultato distorto della
crescente razionalizzazione della vita sociale. Ultimamente Agamben (1998)
153


ha descritto il campo di concentramento come il prototipo della biopolitica
tardo-moderna, per la sua creazione di una popolazione di morti viventi,
dei cui corpi e delle cui vite lo Stato pu disporre a suo piacimento e non per
sacrificio (religioso) o per crimini commessi (pena capitale), ma solo grazie
al loro essere disponibili per lesecuzione.
Quindi Olocausto sarebbe un termine improprio, perch non atterrebbe
alla religione o a corpi sacrificati come offerte immolate per placare gli
dei. Se Agamben ha ragione, le moderne forme di genocidio rendono
effettive la capacit e la disponibilit ad essere sterminate da parte di certe
popolazioni vulnerabili - una teoria pericolosa che ricorda la condanna, da
parte di Hannah Arendt, dei capi ebraici che collaboravano con i nazisti.
Nonostante ci, come riconoscono Agamben e Foucault, vero che il corpo
sta al centro delle moderne bio-politiche, cos come delle giustificazioni
razziste del genocidio, ad esempio in Germania (Linke 2002) e in Ruanda
(Taylor 2002).
Con la scioccante ricomparsa di genocidi e di altre stragi di massa negli
ultimi anni del xx secolo in Africa (Malkki 1995), nellAsia del Sud (Das
1996; Daniel 1997), nellEuropa dellEst (Oluijc 1998), in America Latina
(Green 1999; Suarez-Orozco 1987; Robben 2000) gli antropologi sono
stati testimoni della riapparizione di un fenomeno che i moderni pensavano
non potesse pi ripresentarsi dopo lOlocausto. In America Latina, nel
periodo delle guerre sporche e delligiene sociale promosso dai militari,
leliminazione delle popolazioni disprezzate era portata avanti con tecniche e
pratiche di tortura che difficilmente potrebbero essere definite moderne.
Le forze di sicurezza del governo dellapartheid hanno riscoperto i
primitivi roghi per le streghe e hanno eliminato i propri nemici politici
facendoli ardere lentamente, a volte mentre erano ancora vivi sopra delle
fosse ricoperte da una grata (Scheper-Hughes 1998). La tortura del trespolo
del pappagallo dei militari brasiliani e argentini somigliava molto ad una
tecnica usata dallInquisizione. Per la verit i militari argentini utilizzarono
aeroplani moderni per disfarsi, gettandoli in mare, dei cadaveri di chi
avevano sottoposto a torture medievali. I genocidi ruandesi fecero molto
affidamento sui mass-media, in particolare sulla radio, per spingere gli
assassini Hutu a compiere barbarici atti di crudelt (Gourvitch 1998).
Intanto linvenzione presumibilmente moderna delle sparizioni politiche
viene definita dalle popolazioni terrorizzate, soggette a questi rastrellamenti
finalizzati ad uccisioni di massa, nellidioma pre-moderno di rapimento di
corpi, furto di sangue ed organi e omicidio rituale.
Che tipo di modernit rappresentano i genocidi della Cambogia, del Ruanda
e del Burundi? Una caratteristica comune a tutti questi casi limmaginario
corporeo 2002; Taylor 2002); linteresse ossessivo per il corpo, per il
sangue e la genealogia, certo, ma anche per la definizione di fenotipi e tipi di
corpo, ad esempio la forma e la lunghezza particolare di teste, braccia,
gambe, natiche, capelli e labbra, insomma tutto il folle immaginario
corporeo razzista del mondo tardo-moderno.
Alla luce di queste recenti atrocit, siamo costretti a porci nuovamente la
domanda che aveva tormentato unintera generazione post-Olocausto di
studiosi sociali: Che cosa rende possibile il genocidio? Cosa possiamo dire
dopo tutto dellanthropos? Quali sono i suoi limiti e le sue possibilit? E
come si spiega la complicit della gente comune, i proverbiali ed involontari
spettatori, di fronte alle nuove esplosioni di violenza genocida? Adorno e la
Scuola di Francoforte, dopo la Seconda Guerra Mondiale, hanno avanzato la
tesi che la partecipazione ad atti di genocidio richieda un forte
condizionamento nellet infantile, cosa che produce unubbidienza quasi
irrazionale nei confronti delle figure che rappresentano lautorit. Pi
recentemente Goldhagen (1997) ha sostenuto invece che migliaia di comuni
cittadini tedeschi parteciparono volontariamente, addirittura
entusiasticamente allOlocausto, non sotto la minaccia di pene o di vendette
da parte delle autorit, ma perch essi scelsero, a volte con entusiasmo, di
farlo spinti solo dallodio razziale.
Tuttavia i teorici moderni del genocidio hanno proposto alcuni pre-requisiti
necessari per una partecipazione di massa ai genocidi. Le uccisioni di massa
154


raramente fanno la loro apparizione sulla scena allimprovviso, bens si
sviluppano: ci sono punti di partenza identificabili o circostanze che le
scatenano. I genocidi sono spesso preceduti, per esempio, da sconvolgimenti
sociali, da un radicale declino delle condizioni economiche, da
disorganizzazione politica, da cambiamenti socio-culturali che causano una
perdita dei valori tradizionali e anomia. Il conflitto tra gruppi avversari per il
controllo delle risorse materiali terra ed acqua pu avere unescalation e
degenerare in furiose uccisioni di massa, quando si colleghi a sentimenti
sociali che mettano in discussione o denigrino lumanit del gruppo
avversario. Forme estreme di noi-contro-loro possono produrre una
percezione dellidentit sociale fondata sulla svalutazione e la
stigmatizzazione dellaltro, come un nemico meno che umano. Lesempio
tedesco ha allertato una generazione di studiosi post-bellici sul pericolo del
conformismo sociale e della mancanza di dissenso. Pi recentemente i
conflitti in Medio Oriente, nella ex Jugoslavia e in numerose societ post-
coloniali dellAfrica sub-sahariana suggeriscono che una storia in cui ci
siano sofferenza e vulnerabilit sociale, soprattutto una storia in cui compaia
la violenza razziale, rende vulnerabili verso la violenza di massa. Una sorta
di disturbo da stress post-traumatico collettivo pu predisporre certe
popolazioni ferite ad unipervigilanza che, a sua volta, pu portare ad un
altro ciclo di stermini e genocidi per auto-difesa.
Altre condizioni comuni per levoluzione del genocidio sono il sacrificio
rituale e il tentativo di identificare un capro espiatorio, una classe sociale o
un gruppo etnico o razziale cui attribuire la colpa per i problemi sociali ed
economici. Infine ci deve essere unideologia condivisa, una guida e una
visione del mondo e della vita, secondo la quale certi tipi di persone
rappresentano un ostacolo a una vita buona o santa, e per questo devono
essere allontanati, eliminati o annientati. C la convinzione che tutti
trarranno beneficio da questa pulizia sociale, anche le stesse vittime.
Infine ci deve essere un folto gruppo di spettatori che, come nel caso dei
bianchi del Sud Africa, semplicemente permettono che continuino a venir
impiegate politiche di avversione e ostilit contro le vittime designate, senza
consistenti forme di disobbedienza civile; oppure che, come nella Germania
nazista o in Ruanda, vengono reclutati per prender parte agli atti di violenza
genocida. Tuttavia il ruolo degli spettatori esterni o globali non ancora
stato studiato attentamente: ad esempio il comportamento dei potenti Stati
nazionali e delle organizzazioni internazionali o non-governative come le
Nazioni Unite, i cui ritardi o rifiuti di intervento possono aiutare o
incoraggiare i genocidi in un momento in cui la situazione potrebbe ancora
essere arginata. Nel caso del Ruanda, per esempio, le forze di pace
dellONU avevano ricevuto lordine esplicito di non fare nulla. Allo stesso
modo, durante lOlocausto e le peggiori fasi del programma di terrore
politico dellapartheid, molte imprese statunitensi continuarono a fare affari
con gli esecutori della violenza di massa. Le origini e levoluzione del
genocidio sono complesse e sfaccettate, ma non sono imperscrutabili o
imprevedibili.


Crimini di pace. Il continuum genocida

Ho suggerito che esista un continuum genocida fatto di uninfinit di
piccole guerre e genocidi invisibili condotti negli spazi sociali normativi:
nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie
dospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e
negli obitori pubblici. Questo continuum rinvia alla capacit umana di
ridurre gli altri allo status di non-persone, di mostri o di cose, meccanismo
che d una struttura, un significato e una logica alle quotidiane pratiche della
violenza. fondamentale che riconosciamo nella nostra specie (e in noi
stessi) una capacit genocida e che esercitiamo unipervigilanza difensiva,
unipersensibilit nei confronti di atti forse meno evidenti, ma autorizzati e
quotidiani di violenza che, in altre condizioni, rendono possibile la
partecipazione a genocidi e questo forse pi facilmente di quanto ci
155


piacerebbe credere. Includerei tra questi atti tutte le forme di esclusione
sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione, pseudo-speciazione e
reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la violenza verso
gli altri. Un costante richiamo a stare in guardia, uno stato di costante
ipervigilanza la ragionevole risposta alla visione di Benjamin della storia
tardo-moderna come uno stato di emergenza cronico.
Mi rendo conto che riferendomi a un continuum del genocidio mi muovo su
un terreno pericoloso. Questo concetto si scontra direttamente con una
tradizione di studi sul genocidio che sostiene lassoluta unicit
dellOlocausto degli ebrei, per esempio, e invita a porre la massima
attenzione e a limitare luso del termine stesso di genocidio (si vedano
Kuper 1885; Chaulk 1999; Chorbajian 1999). Tuttavia condivido con Carole
Nagengast (2002) il punto di vista alternativo secondo cui dobbiamo fare
proprio tali salti esistenziali per istituire un confronto tra gli atti violenti dei
periodi di normalit e di anormalit. Se moralmente rischioso estendere la
connotazione del concetto di genocidio agli spazi e agli ambiti della vita
quotidiana, in cui di solito potremmo pensare di non trovarlo (e invece c),
ancora pi pericoloso non riuscire a sensibilizzare noi stessi, non
riconoscere quelle pratiche e quei sentimenti protogenocidi praticati
quotidianamente come comportamento normale da brave persone.
Qui ci utile la teoria sulla violenza di Pierre Bourdieu, rimasta parziale ed
incompiuta, che includeva le forme normative e quotidiane di violenza
nascoste nei dettagli delle pratiche sociali normali: larchitettura delle
case, le relazioni di genere, lattivit della comunit, lo scambio di regali e
cos via. Bourdieu ci costringe a riconsiderare i significati pi ampi e lo
status della violenza, soprattutto le connessioni tra la violenza della vita
quotidiana e il pi esplicito terrore politico.
Allo stesso modo, il concetto di crimini di pace formulato da Franco
Basaglia immagina una relazione diretta tra periodi di guerra e di pace, tra
crimini di guerra e di pace. In questa prospettiva i crimini di guerra possono
esser considerati come una forma di violenza ordinaria, come crimini sui
quali vi un pubblico consenso, laddove vengano sistematicamente e
drammaticamente impiegati in periodi di guerra e di genocidio dichiarato. I
crimini di pace ci costringono a considerare gli usi ed i significati paralleli
dello stupro nei periodi di guerra e di pace; oppure a riconoscere le
somiglianze tra, da un lato, i raid di confine e le aggressioni fisiche compiute
da agenti ufficiali INS (Immigration and Naturalization Service) nei
confronti di rifugiati dal Messico e dallAmerica centrale (Nagengast 2002)
e, dallaltro, precedenti genocidi di stato come lesilio forzato degli indiani
Cherokee, il loro sentiero delle lacrime.
Le forme quotidiane della violenza di Stato, i crimini di pace, rendono
possibile un certo tipo di pace interna. Negli Stati Uniti (e soprattutto in
California) la straordinaria crescita di un nuovo complesso carcerario
militarizzato e postindustriale avvenuta senza alcuna diffusa opposizione.
Quante esecuzioni pubbliche di assassini mentalmente ritardati sono
necessarie perch i ricchi si sentano pi sicuri? Quante nuove prigioni di
massima sicurezza sono necessarie per contenere una crescente popolazione
di giovani neri e latinoamericani, emarginati, visti come nemici pubblici? I
crimini di pace ordinari, come la continua trasformazione delle prigioni
americane in campi di concentramento alternativi per neri, costituiscono le
piccole guerre e gli invisibili genocidi a cui mi riferisco. Lo stesso
discorso vale per gli alti tassi di mortalit giovanile ad Oakland, in
California, e a New York. Ci sono genocidi invisibili, non perch siano
occultati o nascosti alla vista, ma esattamente al contrario. Come ha
osservato Wittgenstein, le cose che abbiamo pi difficolt a vedere sono
proprio quelle che stanno davanti ai nostri occhi e che diamo per scontate.
Alla luce di questi fenomeni faremmo bene a recuperare la dottrina
anagogica classica, che permise a Erving Goffman e a Jules Henry (cos
come a Franco Basaglia) di scorgere delle relazioni logiche tra i campi di
concentramento e i manicomi, le case di cura ed altre istituzioni totali, cos
come tra i prigionieri e i malati di mente. Questo spiega la capacit e la
volont della gente comune i tecnici pratici della societ di mettere in
156


pratica, in momenti particolari, crimini di tipo genocida contro classi e
tipologie di persone ritenute scarti, rifiuti, deficienti di umanit, meglio
morti o addirittura meglio se mai nati. I pazzi, i disabili, i malati di mente
sono spesso rientrati in queste categorie, cos come le persone molto anziane
e inferme, gli ammalati indigenti e i gruppi razziali, religiosi ed etnici
disprezzati. Erik Erikson parlava della pseudo-speciazione come della
tendenza umana a classificare alcuni individui o gruppi sociali come non del
tutto umani. Ci rappresenta un prerequisito necessario per il genocidio e
viene accuratamente coltivato durante i periodi di pace ordinari che possono
precedere le improvvise e, solo apparentemente inspiegabili, esplosioni di
genocidio.
Anche la negazione un prerequisito per la violenza di massa e per il
genocidio. In Death Without Weeping ho analizzato lindifferenza sociale
nei confronti degli sconcertanti tassi di mortalit di neonati e bambini nelle
favelas del nord-est del Brasile. I leader politici locali, i preti e le suore
cattoliche, i fabbricanti di bare e le madri stesse nelle baraccopoli
spediscono annualmente allaldil con una certa indifferenza uninfinit di
angioletti affamati, mostrando nei loro confronti una certa indifferenza
con il dire: Loro stessi volevano morire. I bambini sono descritti come
privi di gusto, di capacit e di talento per la vita.
Le pratiche mediche, come la prescrizione di potenti tranquillanti a bambini
nervosi e spaventosamente affamati, le celebrazioni rituali cattoliche della
morte degli angioletti, lindifferenza istituzionale dei leader politici che
mettevano a disposizione gratuitamente le bare per i bambini ma non il cibo
per le famiglie e i bambini indigenti, interagivano con le pratiche materne
come la radicale riduzione di cibo e di liquidi a bambini seriamente
malnutriti e disidratati, per aiutarli, dicevano le madri, a morire meglio e pi
velocemente. Considerati come ormai condannati, i bambini malati
venivano descritti come creature non del tutto umane, come angioletti
spettrali che si trovavano a met strada tra la vita e la morte. Davvero -
dicevano le madri - meglio che questi spiriti-bambini ritornino da dove
sono venuti.
La capacit delle donne disperatamente povere di aiutare questi bambini che
(dicevano) avevano bisogno di morire, richiedeva un lasciar andare
esistenziale che si contrapponeva allopera materna di sostegno, cura e
protezione. Il lasciar andare richiedeva un atto di fede non facile da
raggiungere. Queste donne, in gran parte cattoliche, dicevano spesso che i
loro bambini erano morti proprio come Ges, perch altri, in particolare loro
stesse, potessero vivere. La domanda che occupava, non risolta, la mia
mente era se questo atto di fede kierkegaardiano non richiedesse anche
una parte di cattiva fede in senso marxista.
Non era mia intenzione biasimare le madri delle baraccopoli per aver posto
la propria sopravvivenza prima ed al di sopra di quella dei loro bambini e
neonati, perch queste sono scelte morali che nessuno dovrebbe essere
costretto a fare. Ma le donne finivano per essere in cattiva fede quando
non riconoscevano la responsabilit dei loro atti e attribuivano la morte dei
loro angioletti al desiderio e alla volont degli stessi bambini condannati.
Con il passare del tempo ho iniziato a pensare agli angioletti delle
baraccopoli nei termini dellidea di violenza sacrificale di Ren Girard. I
neonati rifiutati sono stati sacrificati a fronte di terribili conflitti riguardanti
le privazioni e la sopravvivenza. Ed qui che periodo di guerra e periodo di
pace, pensiero materno e pensiero militare, finiscono per convergere.
Quando gli angeli (o i martiri) prendono la forma dei corpi senza vita di chi
muore giovane, il pensiero materno assomiglia pi che mai al pensiero
militare e bellico. Sul campo di battaglia, cos come nella baraccopoli,
predominano lo scarto, il pensiero in serie, la credenza che i morti possano
essere rimpiazzati per magia.
Soprattutto le idee di morte accettabile e di sofferenza sensata (invece
che inutile) servono a placare la rabbia e la sofferenza provate per coloro che
sono morti e permettono lassunzione di nuove vite e di nuovi corpi nella
lotta. Proprio come le madri delle baraccopoli in Brasile si consolavano a
157


vicenda dicendo che i loro neonati affamati erano morti perch questa era la
loro intenzione o perch dovevano farlo, le madri dellIrlanda del Nord
e del Sud Africa nel corso delle veglie e dei funerali politici, durante i tempi
di guerra e di lotta politica, si consolavano a vicenda con la convinzione che
i loro figli sacrificati e martirizzati erano morti per una causa e che erano
morti bene. Questo modo di pensare non specifico di una particolare classe
sociale. Quando gli esseri umani attribuiscono un qualche significato, che sia
politico o spirituale, allinutile sofferenza altrui, noi tutti ci comportiamo,
come ho mostrato, un po come dei pubblici carnefici.
Allo stesso modo, lesistenza di due tipi di infanzia in Brasile - il mio
bambino (ceto medio, amato, un bambino che vive in famiglia e in casa )
contro lodiato bambino di strada (il bambino degli altri, indesiderabile e
sporco) - ha generato alla fine del xx secolo gli attacchi della polizia e degli
squadroni della morte pratiche genocide nelle loro motivazioni sociali e
politiche. I bambini di strada vengono spesso descritti come sporchi
parassiti e cos si invocano politiche non ufficiali di pulizia della strada,
rimozione dei rifiuti, disinfestazione e disinfezione per raccogliere un
ampio consenso pubblico per il loro sterminio.
Il termine bambino di strada riflette le preoccupazioni di una classe o di un
segmento della societ brasiliana riguardo al posto che deve ricoprire laltra
parte. Il termine rappresenta una sorta di apartheid simbolico e mostra come
lo spazio cittadino sia diventato sempre pi privatizzato. Fino a quando i
bambini di strada sporchi rimanevano allinterno dei bassifondi o delle
favelas a cui appartenevano, non erano considerati un problema sociale
urgente per cui si dovesse fare qualcosa. La vera questione la
preoccupazione di una classe sociale per il posto appropriato di unaltra
classe sociale. Come succede per la terra, che pulita finch si trova nel
giardino di casa e sporca quando sotto le unghie, i bambini di strada
sporchi sono semplicemente bambini fuori posto. In Brasile la strada un
universo pericoloso, fuori dal controllo, il posto delle masse (o povo),
dove tutti sono trattati anonimamente. I diritti appartengono alluniverso
della casa. I bambini di strada, scalzi, seminudi e senza una casa
rappresentano lestremo della marginalit sociale. Essi occupano una
posizione sociale particolarmente degradata allinterno della gerarchia
brasiliana di posizione e potere. Come tutti i non-cittadini di strada, questi
ragazzini semiautonomi vivono separati da tutto quello che pu far accedere
a relazioni e propriet, elementi senza i quali i diritti e la cittadinanza sono
impossibili.
A partire dal 1982, ho studiato un gruppo di quaranta bambini di strada
semiautonomi, per la maggior parte senzatetto, nella citt commerciale di
Bom Jesus nel Pernambuco. Oggi, ventidue tra i bambini del gruppo
originario sono morti. Alcuni sono stati uccisi dalla polizia durante atti
definiti come omicidi legittimi; altri sono stati uccisi dagli squadroni della
morte e da sicari, alcuni dei quali erano essi stessi ex bambini di strada. Altri
sono scomparsi e dati per morti. Tra i sopravvissuti, un terzo si trovano in
prigione o sono stati rilasciati e alcuni di questi sono gi divenuti degli
assassini, reclutati da poliziotti fuori servizio e da giudici corrotti per aiutarli
a ripulire la strada dalla loro stessa classe sociale. E cos riparte il ciclo della
violenza, con bambini che uccidono altri bambini, messo in moto dalle cos
dette forze della legge e della sicurezza statale.
Ma senza bisogno di andare cos lontano, anche nelle nostre cliniche
mediche, nei pronto soccorso, negli ospedali pubblici o nelle case di riposo
troviamo altre categorie di rifiuti umani, trattati con la stessa indifferenza
e malevolenza riservata ai bambini di strada in alcune parti del Sud
America. Un numero sempre pi alto di anziani versa in cattive condizioni
economiche e di salute a causa dei costi astronomici delle cure mediche per
la terza et; cos essi rischiano di passare il tempo che rimane loro allinterno
di istituzioni per gli anziani pubbliche o private a basso costo in cui la
cura dei residenti affidata a lavoratori sottopagati e non qualificati. Le
pressioni economiche sono forti e gravano sul personale che deve ridurre le
cure e lattenzione rivolta ai residenti, in particolare quelli i cui risparmi
limitati sono gi esauriti e che sono ora completamente a carico
158


dellassistenza sanitaria nazionale. E cos il personale infermieristico spesso
protegge se stesso quando trasforma le persone e i corpi sotto la sua
protezione in cose, in oggetti ingombranti di cui ci si possa occupare in un
tempo sempre minore.
Quando il corpo viene girato da una parte o dallaltra per la pulizia o per
lavare le lenzuola (corpi e lenzuola si equivalgono); oppure quando il
residente viene spinto in un angolo perch si possa passare pi agevolmente
lo straccio sul pavimento; quando il personale delle pulizie non fa molto per
reprimere espressioni di disgusto in presenza di urina, feci o fuoriuscita di
muco sui vestiti, sotto le unghie, sulle sedie a rotelle oppure nei cestini
della carta la persona intrappolata nel corpo inadeguato pu arrivare a
vedersi come sporco, ripugnante, disgustoso, come un oggetto o una
non-persona. Un saggio di Jules Herny (1966) su Hospitals for the Aged
Poor, che documentava lattacco al gi ridotto capitale personale e
psicologico degli anziani da parte di inconsapevoli infermieri e assistenti
ospedalieri o domestici, vero oggi come quando stato scritto.
La distruzione istituzionale della soggettivit umana viene accelerata dalle
caratteristiche materiali della casa di cura. Quando tutti gli oggetti personali
spazzolino, pettine, occhiali, asciugamano, penna e matita continuano a
sparire non importa quante volte essi vengano rimpiazzati, il residente (se sa
che cosa sia bene per s) alla fine accetta la situazione e si adatta alla nuova
abitudine. Qualche volta i residenti vengono costretti a usare altri oggetti che
sono pi facilmente disponibili per scopi per cui non erano destinati. Il
cestino di plastica diventa un vaso da notte, il vaso da notte una catinella, il
bicchiere diventa una sputacchiera, lodiato pannolino per adulti usato
insolentemente come tovagliolo e cos via. Intanto lindifferenza e la
violenza istituzionale vengono fatte passare come frutto dello stato mentale
confusionale e dellincapacit del residente. Ogni cosa nella natura
dellistituzione spinge il residente ad unulteriore regressione, ad arrendersi,
a sentirsi sconfitto, ad accettare il suo inevitabile status di essere meno che
umano e depersonalizzato. Ma dove sono le forze di liberazione o controlli
sui diritti umani che reagiscano ai genocidi invisibili in istituzioni (di cura)
normative come queste?
Il motivo per cui ho inserito nel discorso sul genocidio tali esperienze
quotidiane e normative di reificazione, depersonalizzazione e morte
accettabile che penso che questo possa aiutarci a rispondere alla domanda:
Che cosa rende possibile il genocidio? Secondo me il genodicio fa parte di
un continuum, socialmente conveniente ed spesso percepito dai carnefici,
dai collaboratori, dagli spettatori nonch a volte dalle stesse vittime
come un atto prevedibile, ordinario, addirittura giustificato.
Insomma, la premessa per le uccisioni di massa si deve ricercare nella
sensibilit diffusa e nelle istituzioni sociali: dalle famiglie alle scuole, alle
chiese, agli ospedali e alle caserme. I primi segnali di pericolo (v. anche
Charney 1991), linnesco (Hinton 2002), o il continuum del genocidio
fanno riferimento ad un crescente consenso sociale nei confronti della
svalutazione di alcune forme di vita umana e di stili di vita (attraverso la
pseudo-speciazione, la disumanizzazione, la reificazione e la
depersonalizzazione); al rifiuto di aiuti sociali e di attenzione umana per
gruppi sociali vulnerabili e stigmatizzati, visti come parassiti sociali
(anziani delle case di riposo, prostitute, stranieri illegali, Gomers[5]
ecc.); alla militarizzazione del quotidiano (per esempio, laumento di
prigioni, il consenso alla pena di morte, le nuove tecnologie di sicurezza
personale, come le armi domestiche e le comunit protette); alla
polarizzazione e al timore sociale (cio la percezione del povero,
dellescluso, del declassato oppure di certi gruppi etnici o razziali come
pericolosi nemici pubblici); a un senso invertito di vittimizzazione, per cui
classi e gruppi sociali dominanti richiedono interventi violenti da parte della
polizia per rimettere i gruppi trasgressori al loro posto.



Andare oltre
159



Tra la fine del XX e linizio del XXI secolo, sia individui che intere nazioni
si sono trovate a lottare per superare leredit della sofferenza, dallo stupro e
dalle violenze domestiche alle atrocit collettive delle guerre sporche volute
dagli Stati, ai genocidi, alle pulizie etniche; in questa lotta, sono emerse
Grandi Narrazioni di rimorso, riconciliazione, riparazione. Molti studi
recenti si occupano dei tentativi individuali e collettivi di riconciliazione e
guarigione, di ricomposizione di corpi straziati, di vite spezzate e di societ
distrutte dal genocidio.
Uri Linke (2002) ci mette di fronte ad una tesi terrificante: lirreversibilit,
limpossibilit di cancellare una ferita cos profonda come lOlocausto degli
ebrei per le nuove generazioni tedesche, figli e nipoti dei carnefici, degli
spettatori e, si spera, anche di semplici uomini e donne. Non sembra esserci
scampo, n via duscita da quella storia rovinosa che continua a ritornare,
come repressa, per ossessionare i giovani tedeschi che cercano di reinventare
s stessi e di liberarsi dalla colpa e dalla complicit ereditaria e
generazionale. Ci appaiono del tutto intrappolati da quella storia, quando
osserviamo la cultura giovanile che accetta la nudit come ideale di
trasparenza e di innocenza, ma che daltra parte mostra delle forti
somiglianze con i culti della foresta, della natura e delleroismo tedesco da
parte della giovent nazista. Inoltre linnocente esibizione della nudit
liberata vista da Linke come una crudele, anche se sicuramente non
intenzionale, parodia della vita nuda dei campi di concentramento.
In aperto contrasto, Ebihara e Ledgerwood (2002) presentano un quadro
meno complesso del recupero della comunit nella Cambogia rurale nel
ventennio successivo al regime di Pol Pot. Quello che fu distrutto dal
buddismo allagricoltura di sopravvivenza sembra sia stato ricostruito
relativamente uguale a prima, mentre i forti squilibri demografici la
mancanza di uomini nei villaggi rurali si stanno correggendo. Forse
troppo presto nella storia dei Khmer Rossi per valutare i danni che
potrebbero ripresentarsi, come nel caso tedesco, ad ossessionare le
generazioni successive. per questa ragione che molte nazioni in via di
recupero e molte popolazioni ferite dal Cile post-dittatura militare, al Sud
Africa post-apartheid, al Ruanda post-genocidio hanno dato fiducia ai
tribunali internazionali o alle commissioni indipendenti che si proponevano
la ricerca della verit per affrontare e seppellire i fantasmi del passato. A
volte questo ha significato scoprire delle fossi comuni e seppellire
nuovamente dei morti che chiedevano giustizia; altre volte come nel caso
della Truth and Reconciliation Commission in Sud Africa (che si basava
sullesperienza del Cile) ha significato un complicato gioco politico in cui
la giustizia stata barattata con la rivelazione della verit.
Infine bisogna chiedersi quale particolare contributo possa apportare
lantropologia ai discorsi interdisciplinari sulla violenza di massa e sul
genocidio. Le critiche post-coloniali ai metodi di osservazione e di
conoscenza dellantropologia hanno avuto come conseguenza una severa
autoanalisi istituzionale e professionale. Una cosa ripensare
unepistemologia di base, come hanno fatto molte scienze sociali durante il
periodo del decostruzionismo; unaltra ripensare un modo di essere e di
agire nel e sul mondo. Gli antropologi sono stati chiamati a trasformare la
pratica centrale che li definisce, la ricerca sul campo, a decolonizzare se
stessi e a re-immaginare nuove relazioni rispetto ai loro soggetti
antropologici: da una parte le vittime e dallaltra i carnefici del genocidio e
delle uccisioni di massa.
Lironia della cosa sta nel fatto che lantropologia culturale tutta basata sui
significati, sulla ricerca di senso in un mondo che spesso assurdo. Si pu
dare un senso alla violenza di massa e al genocidio? Negli ultimi anni
nata unantropologia della sofferenza come nuovo tipo di teodicea, una
ricerca culturale sui modi in cui le persone cercano di spiegare e giustificare
la presenza del dolore, della morte, dellafflizione e del male nel mondo (si
vedano Kleinman and Kleinman 1997; Farmer 1996). Ma il tentativo di dare
un senso alla sofferenza e alla violenza disordinata vecchio quanto Giobbe
e carico di ambiguit morale per gli antropologi-testimoni quanto lo era per i
160


compagni di Giobbe che domandavano una spiegazione compatibile con la
loro idea di un Dio giusto (o un mondo giusto, se si secolarizzati). Come
ha osservato Geertz molti anni fa, lunica cosa che gli esseri umani
sembrano non accettare lidea che il mondo possa in definitiva mancare di
senso.
Il dono delletnografo resta una particolare combinazione di attenta
descrizione, testimonianza oculare e radicale giustapposizione, basata su un
giudizio culturalmente trasversale. Ma le regole del nostro vivere-in o
vivere-con i popoli che stanno per essere annientati rimangono ancora
qualcosa di non scritto, forse addirittura di non detto. Durante i periodi di
genocidio o etnocidio, quale la giusta distanza da prendere dal nostro
soggetto? Che tipo di osservazione partecipante, quale sorta di
testimonianza oculare adatta alle scene di genocidio e alle sue
conseguenze? Quando un antropologo testimone di crimini contro
lumanit, pu bastare la semplice empatia scientifica? In quale momento
lantropologo, da testimone oculare, diventa uno spettatore, se non
addirittura un complice del delitto?
Sebbene questi rimangano problemi assillanti e irrisolti, il compito specifico
dellantropologia e delletnografia resta chiaro: schierare noi stessi e la
nostra disciplina dalla parte dellumanit, della salvezza e del miglioramento
del mondo, anche se non siamo sempre del tutto sicuri di che cosa questo
significhi, di che cosa ci venga richiesto nel momento in cui le vite dei nostri
amici, soggetti di studio e informatori si trovano in pericolo. In ultima
analisi possiamo solo sperare che i nostri metodi di testimonianza empatica e
impegnata (essere con ed essere l) per quanto vecchi e triti possano
essere questi concetti ci forniscano gli strumenti perch lantropologia
possa crescere e svilupparsi come una piccola pratica di liberazione
umana.


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[1] In una lettera al commissario dellIndian Affairs, un funzionario
governativo, Adam Johnson (citato in Castillo 1978, p. 107), riferendosi alle
guerre indiane in California, riportava la seguente descrizione:

La maggioranza delle trib vivono in uno stato di paura costante a causa
del massacro indiscriminato e disumano della loro gente sulla base di
accuse reali o supposte. Essi sono preoccupati per il continuo aumento di
[coloni] [] Era gi incomprensibile per loro [] Non mi mai capitato di
sentir parlare di una sola difficolt tra i bianchi e gli indiani la cui causa
originaria non potesse essere riportata a qualche azione sconsiderata dei
primi.
[2] Daily Alta California, 4 maggio1852, citato in Churchill 1997, p. 220.
[3] Durante unassemblea ordinaria di facolt tenuta il 29 marzo 1999, il
Dipartimento di Antropologia vot lapprovazione del seguente documento
riguardo al cervello di Ishi:

Il recente ritrovamento del cervello di un famoso indiano californiano in
un magazzino dello Smithsonian ha portato il Dipartimento di Antropologia
dellUniversity of California Berkley a ripensare e riflettere su un capitolo
oscuro della nostra storia. Ishi, la cui famiglia e il cui gruppo culturale (gli
166


indiani Yahi) sono stati tra le vittime del genocidio che ha caratterizzato
lafflusso di coloni occidentali in California, ha passato i suoi ultimi anni di
vita nel vecchio museo di antropologia dellUniversity of California. Egli fu
utilizzato come informatore sia da uno dei membri fondatori del nostro
dipartimento, Alfred Kroeber, sia da altri antropologi interni o che si
trovano qui temporaneamente. La natura delle relazioni tra Ishi e gli
antropologi e i linguisti che lavorarono con lui al museo per circa cinque
anni era complessa e contraddittoria. Malgrado Kroeber abbia dedicato con
devozione tutta la sua vita agli Indiani della California e fosse amico di Ishi,
egli manc nel suo impegno di onorare la volont di Ishi, che non voleva
essere sottoposto ad autopsia. Inspiegabilmente Kroeber dispose che il
cervello di Ishi venisse inviato allo Smithsonian per essere esaminato. Noi
riconosciamo la responsabilit del nostro dipartimento per quello che
successe ad Ishi, un uomo che aveva gi perso tutto ci che aveva di pi
caro. Noi sollecitiamo caldamente che la procedura di ritorno del cervello
di Ishi presso le istituzioni appropriate dei nativi americani sia portata a
termine il pi velocemente possibile. Stiamo prendendo in considerazione
diverse possibilit per rendere onore e rispetto alla memoria di Ishi.
Riteniamo la partecipazione pubblica una componente necessaria di queste
discussioni e in particolare invitiamo i popoli nativi della California a darci
indicazioni su come possiamo essere maggiormente utili ai bisogni delle
loro comunit attraverso le nostre attivit di ricerca. Forse, lavorando
assieme, potremo garantire per il prossimo millennio una nuova era nella
relazione popoli indigeni, antropologi e opinione pubblica.
[5] Acronimo per get out from my emergency room, indica
latteggiamento intollerante dei medici verso pazienti anziani e non
autosufficienti per i quali lassistenza medica sembra inutile o sprecata. Il
termine divenuto popolare negli Stati Uniti con il romanzo degli anni 70
The House of God. The classical novel of life and death in an American
Hospital, di Samuel Shem.

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anthropology of genocide, Berkeley, University of California Press,
2002, pp. 348-81.









167


Gli autori

Talal Asad insegna antropologia alla City University of New York (U.S.A.).
Cos sintetizza i propri interessi di ricerca: Sono interessato al fenomeno
della religione (e del secolarismo) come parte integrante della modernit, e
in particolare la revival religioso in medio Oriente. A ci si legano anche i
miei interessi per i legami tra le nozioni religiose e quelle secolari di dolore
e crudelt, e tra queste e il discorso moderno sui diritti umani. La mie
ricerche di lungo termine riguardano le trasformazioni della legge religiosa
(shatiah) nellEgitto del XIX e XX secolo, con particolare riferimento alle
discussioni sulla riforma secolare e progressista. Tra le sue pubblicazioni,
Genealogies of religion: Discipline and reasons of power in Christianity and
Islam (John Hopkins University Press, 1993); Formations of the secular:
Christianity, Islam, Modernity (Stanford University Press, 2003). E inoltre
curatore del volume Anthropology and the colonial encounter (Prometheus
Books, 1995). In traduzione italiana, il suo saggio Il concetto di traduzione
di culture nellantropologia sociale britannica apparso nel volume
Scrivere le culture (Meltemi, 2001).



John R. Bowen insegna antropologia e studi religiosi alla Washington
University in St. Louis (U.S.A.). Il suo lavoro focalizzato sulle
trasformazioni sociali che caratterizzano oggi il mondo musulmano,
concentrandosi in particolare sulla vita islamica in Indonesia e su forme
culturali quali le pratiche relgiose, i generi estetici, il discorso giuridico. Ha
svolto ricerca sul campo a Sumatra tra le popolazioni dellaltopiano Gayo,
documentando i processi di innovazione creativa del loro repertorio di storie
orali, competizioni poetiche e discorsi rituali. Tra le sue pubblicazioni,
Sumatran Politics and Poetics: Gayo History, 1900-1989 (Yale University
Press, 1991), Muslims Through Discourse: Religion and Ritual in Gayo
Society (Princeton University Press, 1993), Religions in Practice: An
Approach to the Anthropology of Religion (Allyn & Bacon, 1998), Islam,
Law, and Equality in Indonesian: An anthropology of public reasoning
(Cambridge University Press, 2003). Ha curato i volumi Religion in culture
and society (Allyn & Bacon, 1997) e, con R. Petersen, Critical comparisons
in politics and culture (Cambridge University Press, 1999).


Veena Das insegna antropologia alla John Hopkins University di Baltimora
(U.S.A.). Ha svolto ricerca etnografica in India su vari temi, occupandosi
prevalentemente negli ultimi anni del nesso tra violenza, sofferenza sociale e
soggettivit. Nei suoi numerosi scritti in questo campo, ha cercato da un lato
di evidenziare i processi istituzionali che producono violenza e sofferenza,
dallaltro di mostrare come i grandi eventi storici vengono incorporati e
mediati nelle soggettivit individuali in particolare di quelle
femminili. Sta attualmente lavorando a una ricerca interdisciplinare su
salute e malattia tra i ceti pi poveri nella citt di Delhi. Tra le sue
opere, Structure and Cognition: Aspects of Hindu Caste and Ritual (Oxford
University Press), 1977, Critical Events: An Anthropological Perspective on
Contemporary India, Oxford University Press, 1995. Ha curato numerose
raccolte di testi sul tema della violenza, tra cui Mirrors of Violence:
Communities, Riots and Survivors in South Asia (Oxford University Press,
1990) e. insieme ad altri curatori, Social Suffering, University of California
Press, 1997; Violence and Subjectivity (University of California Press,
2000), Remaking a World: Violence, Social Suffering, and Recovery
(University of California Press, 2001), Anthropology in the margins of the
State (School of American Research Press, 2004).

Robert M. Hayden insegna antropologia e diritto allUniversit di
Pittsburgh (U.S.A.), allinterno della quale dirige il Centro di studi russi ed
est-europei. Ha svolto ricerche in India e in Europa orientale, distinguendosi
168


negli anni 90 per numerosi interventi sulla situazione di guerra nella ex-
Jugoslavia e sui movimenti nazionalisti che lhanno caratterizzata. Tra i suoi
lavori Social Courts in Theory and Practice: Yugoslav Workers' Courts in
Comparative Perspective (Univ of Pennsylvania Press, 1991), Blueprints for
a House Divided: The Constitutional Logic of the Yugoslav Conflicts
(University of Michigan Press, 1999) Disputes and Arguments Amongst
Nomads: A Caste Council of India (Oxford University Press, 1999).

Nancy Scheper-Hughes insegna antropologia medica alla University of
California di Berkeley (U.S.A.), dove dirige un corso di dottorato dedicato a
Studi critici sulla medicina, la scienza e il corpo. Il filo conduttore della
sua carriera antropologica linteresse per diverse forme della violenza
strutturale e quotidiana, affrontata da una prospettiva di impegno civile e di
comcezione militante della ricerca. I suoi lavori principali riguardano i
disturbi psichici nellIrlanda rurale (Saints, scholars and schizophrenics:
mental illness in rural Ireland (University of California Press, 1979), la
violenza subita dai bambini nelle favelas brasiliane (Death without weeping:
the violence of everyday life in Brazil (University of California Press, 1992),
il sud Africa post-apartheid, e pi di recente il traffico internazionale di
organi (in traduzione italiana Il traffico di organi nel mercato globale, ed.
Ombre corte, 2001, e con L. Wacquant Corpi in vendita, ed. Ombre Corte,
2003). E curarcuce dei volumi Small wars: the cultural politics of
childhood (con C. Sargent, University of California Press, 1998), e Violence
in war and peace: an anthology (con P. Bourgois, Blackwell, 2004).
Michael Taussig insegna antropologia alla Columbia University di New
York (U.S.A.). Dopo una iniziale formazione medico-psichiatrica in
Australia, si dedicato alla ricerca antropologica in varie aree dellAmerica
latina. Al centro dei suoi interessi stanno le forme di violenza dello Stato
moderno, le modalit della loro inscrizione nei corpi e il loro impatto sulle
culture tradizionali. La produzione scientifica di Taussig, assai influente nel
dibattito internazionale degli ultimi ventanni, si caratterizzata per la
sperimentazione di una scrittura etnografica assai innovativa, in costante
confronto con le forme dellestetica postmodernista. Tra le sue numerose
opere, The Devil and Commodity Fetishism in South America (University of
North Carolina Press, 1980); Shamanism, Colonialism and the Wild Man
(University of Chicago Press, 1987); The Nervous System (Routledge, 1992);
Mimesis and Alterity (Routledge, 1993); The Magic of the State (Routledge,
1996), Defacement: public secrecy and the labor of the negative (Stanford
University Press, 1999), Law in a lawless land: diary of a limpieza (New
Press, 2003), My cocaine museum (University of Chicago Press, 2004).

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