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Una glossa sul senso esistenziale del “politico” in Carl Schmitt.1

di Tommaso Gazzolo

I. Prospettive soggettive: la costruzione di un Io-esistenziale.

Il politico compone il nemico (Feind) come un concetto dialettico, poiché esso si connota soltanto in una
simmetria, in un gioco autonomo2 di specchi con la figura esistenziale dell’amico (Freund)3.
Sulla portata trascendentale4 di tale dicotomia, Schmitt si limita a sfumarla nel carattere che definisce
esistenziale o concreto: lo schema del politico, in tal senso, non è uno schema categoriale normativo, né
spirituale o simbolico5, ma insiste su una prospettiva legata all’esistenza.
Ma che cosa significa esistenza?
Che cosa significa che il politico si fonda su una divisione che ha significato esistenziale?
Quando Schmitt scrive che le categorie amico-nemico vanno intese in senso esistenziale, che cosa intende?
Glossando questo termine, è possibile ipotizzare che l’esistenzale sia predicato, sia misura, del soggetto,
ossia si riconduca l’antitesi ad un Io-esistenziale che la pone.
Tale prospettiva potrebbe suggerire –come schema di spiegazione del politico- un duplice parallelismo, a
mio avviso fallace, da un lato con la relazione esistenza-morte formulata da Heidegger6 -riducendo così
l’esistenziale schmittiano all’idea dell’essere-per-la-morte del nemico -; dall’altro, con la dialettica hegeliana
servo-padrone –riducendo così amico-nemico ad una figura fenomenologica costruita sullo sguardo verso la
morte e sul desiderio esistenziale di sottomissione.
La esistenza (Existenz) heideggeriana è modo di essere dell’Esserci (Dasein): la comprensione7 (Verstehen)
dell’essere si identifica con l’esistenza, la quale è possibilità dell’essere, è condizione esistentiva od ontica

1
Il presente studio ha la forma della glossa, nel suo significato di annotazione al margine vuoto del testo, di analisi ordinata di ogni singola parola, al
fine di costruire un reticolo di interpretazioni e commenti e singoli percorsi didattici: esso viene qui legato alla de-costruzione ed alla tessitura
giuridica dell’aggettivo con il quale Carl Schmitt qualifica la antitesi amico-nemico: esistenziale. Ritengo infatti essenziale chiarire alcuni aspetti
intorno ad esso. Mi limito a tale ristretto labor limae, affinando il significato di questo nodo ermeneutico, ed evitando pertanto, in tal sede, di
prendere posizioni su temi affini –quali il concetto di guerra, di potere neutro, di società di massa etc.-, ma distinti e la cui trattazione presuppone la
soluzione di questo ninnolo esistenziale.
2
Sulla nozione di autonomia si veda SCHMITT C., Il concetto di politico, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 2003, p.108: “Si può
raggiungere una definizione concettuale del politico solo mediante la scoperta e la fissazione delle categorie specificamente politiche. Il politico ha
infatti i suoi propri criteri che agiscono, in modo peculiare, nei confronti dei diversi settori concreti, relativamente indipendenti, del pensiero e
dell’azione umana, in particolare del settore morale, estetico, economico. Il politico deve perciò consistere in qualche distinzione di fondo alla quale
può essere ricondotto tutto l’agire politico in senso specifico”.
3
Ivi, p. 108: “La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico
(Feind). (…) Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre
contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via. In ogni caso essa è autonoma non nel senso che costituisce
un nuovo settore concreto particolare, ma nel senso che non è fondata né su una né su alcune delle altre antitesi, né è riconducibile ad esse”.
4
Uso il termine trascendentale in senso kantiano (sebbene si siano contate nella sola Critica della ragion pura ben tredici accezioni diverse del
termine) , ad indicare la dicotomia come condizione che rende possibile la conoscenza di ciò su cui essa verte.
5
SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.110: “I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non
come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno
intesi in senso individualistico-privato, come espressione psicologica di sentimenti e tendenze private. Non sono contrapposizioni normative o
«puramente spirituali»”.
6
Tale parallelismo mi pare ad esempio accennato, anche se non apertamente discusso, in HOFMANN H., Legittimità contro legalità. La filosofia
politica di Carl Schmitt, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999, p.135: “Il concetto del politico di Schmitt – del resto pubblicato per la prima volta
nello stesso anno di Sein und Zeit di Heidegger – questa «trattazione semplice ed elementare» in apparenza, la cui «arcaicità» in verità è, però, il
prodotto di una determinata, multiforme situazione spirituale, appartiene alle sue manifestazioni più brillanti e significative, sebbene sia la più
insufficiente sul piano oggettivo e scientifico. Con ciò va detto che questo scritto di Schmitt è in grande misura sintomatico dal punto di vista
storico-spirituale, che la sua povertà, cioè l’indifferenza e l’unilateralità delle affermazioni oggettive sull’essenza del politico è la specifica
conseguenza di un significativo tentativo politico e filosofico in un’«epoca di miseria»”.
7
VATTIMO G., Introduzione a Heidegger, in MASSARENTI A. (a cura di), Heidegger. Vita, pensiero, opere scelte, Milano, 2006, p.102“L’esistenziale
(cioè il modo di essere dell’esserci) che fornisce il filo conduttore di questa parte di analisi è infatti la comprensione (Verstehen). L’esserci è nel
mondo, anzitutto e fondamentalmente, oltre che come affettività (…) come comprensione. Il mondo (…) è una totalità di rapporti e di rimandi. Ora:
«la comprensione mantiene i rapporti su esaminati in uno stato-di-apertura preliminare *…+ Questi rapporti sono fra di loro connessi in una totalità
2

dell’uomo: tale condizione si svela come un progetto gettato8, svela cioè il senso di esistenziale come
temporalità, come sentiero in cui l’uomo deve divenire ciò che è.
Se come un ragno ermeneutico la glossa sottende una tela di fili concettuali che legano il carattere
esistenziale della dicotomia amico-nemico al senso che di esistenziale è dato in Heidegger, il politico viene
ad assumere una precisa caratterizzazione come:
a) sguardo precomprensivo: amico-nemico vengono a significare il senso della trascendenza e del
progetto. Lo sguardo amico-nemico è uno sguardo esistenziale poiché è comprensione, è modo
costitutivo dell’Esserci e modo di costruzione del mondo;
b) destino «autoappropriativo», nel senso che la costruzione di amico-nemico ha il carattere del
tempo, ossia costruisce ciò che l’uomo sarà9;
c) angoscia10: amico-nemico è una distinzione che l’uomo svolge di fronte alla morte, è una
distinzione che sorge dalla comprensione dell’esistenza come possibilità della morte. Lo
sguardo politico è allora uno sguardo di angoscia di fronte alla morte;
d) essere-per11-la-morte: il politico è lo sguardo autentico, in quanto è decisione anticipatrice della
morte. È atto di libertà, che costituisce una coppia di opposte figure, le quali rappresentano la
possibilità della morte12.
L’identificazione heideggeriana di esistenza per la morte ed autenticità13, porta ad una lettura del carattere
esistenziale, che regge la distinzione del politico, nel senso di una distinzione che afferra l’Essere autentico
nell’idea di morte, una summa divisio che è specchio della stessa idea dell’uomo come progetto.
Seppur con caratteri diversi, l’interpretazione esistenzialistica14 della figura fenomenologica hegeliana di
servo-padrone, de-strutturata nel movimento travagliato di lotta per la vita15, porta a conseguenze
ermeneutiche analoghe.

originaria *…+ La totalità dei rapporti di questo significare è ciò che noi chiamiamo col termine significatività. L’esserci, nella sua intimità con la
significatività, è la condizione ontica della possibilità della scopribilità dell’ente che si incontra nel mondo nel modo d’essere dell’utilizzabilità»”.
8
SEVERINO E., La filosofia contemporanea, BUR, 1998, p.249: “Come ex-sistere e poter essere, l’esistenza dell’uomo si porta al di fuori di ciò che
nell’uomo e al di fuori dell’uomo è già dato, per scegliere e decidere se stessa in direzione della possibilità. Questo non significa semplicemente che
l’uomo di trasforma, ma che l’esistenza dell’uomo è essenzialmente e innanzitutto un «progettare» se stessa e che solo all’interno di questo
progettarsi è possibile ogni trasformazione e ogni divenire storico dell’uomo. Il progetto dell’esistenza è un «essere-nel-mondo» che non si
esaurisce in un semplice atto conoscitivo, ma è anche «affettività»”.
9
Si legga D’AGOSTINI F., Breve storia della filosofia nel novecento, Einaudi, Torino, 1999, p.170: “L’esserci è dunque progetto. Ma è «progetto
gettato», ossia collocato senza responsabilità alcuna in una situazione esistenziale che lo determina e lo costituisce. La «gettatezza» [Geworfenheit]
dell’uomo è la sua provenienza, il progetto che lo costituisce è il suo essere e il suo destino di «auto appropriazione». Egli non «è» propriamente se
non in quanto progetto-gettato, ossia in quanto anche «era» e «sarà». Ciò significa che l’essere dell’uomo sta nella temporalità e che l’essere si
consegna all’uomo nella temporalità”.
10
HEIDEGGER M., Essere e Tempo, UTET, Torino, 1969, par.53, p.397: “la situazione emotiva che può tener aperta la costante e radicale minaccia
incombente sul Se stesso –minaccia che proviene dal più proprio e isolato essere dell’Esserci- è l’angoscia. In essa l’Esserci si trova di fronte al nulla
della possibile impossibilità della propria esistenza. L’angoscia si angoscia per il poter-essere dell’ente così costituito e ne apre in tal modo la
possibilità estrema”.
11
ESPOSITO C., Il fenomeno dell’essere. Fenomenologia e ontologia in Heidegger, Dedalo, 1984, p.302: “Il per dell’essere-per-la-morte indica
appunto il senso ontologico del trascendimento proprio dell’esistenza. È in questa sua intrinseca apertura trascendente, che l’essere-per-la-morte
portando l’Esserci «di fronte» alla sua più propria possibilità, al tempo stesso, e proprio per questo, lo porta di fronte al suo più autentico (non più
coperto dietro gli atteggiamenti quotidiani del prendere e dell’avere -cura) essere-gettato nella propria morte. Dunque, possiamo dire che per
Heidegger la morte è un fenomeno originario in quanto esso, lungi dal costituire il momento o la prospettiva della scomparsa dell’Esserci e, con ciò,
una possibile dissoluzione del suo senso ontologico-esistenziale, al contrario porta l’Esserci alla sua più traparente manifestazione”-
12
FORNERO G.-TASSINARI S., Le filosofie del novecento, I, Mondadori, 2002, p.662: “Poiché la morte, esistenzialmente parlando, è una «possibilità»,
essa non può venire intesa e realizzata come esclusiva minaccia sospesa sull’uomo. Non è neppure un’«attesa», perché anche l’attesa non mira che
alla realizzazione, e la realizzazione nega o distrugge la possibilità come tale. Essere-per-la-morte significa procedere al di là delle illusioni del si, cioè
dell’esistenza anonima, e, tramite un atto di libertà, accettare la possibilità più «propria» del nostro destino”.
13
VATTIMO G., cit., p.111: “L’autenticità (Eigentlichkeit) è presa da Heidegger nel senso etimologico letterale, in quanto connessa con l’aggettivo
«proprio» (eigen): autentico è l’esserci che si appropria di sé, cioè che si progetta in base alla possibilità più sua”, p.116: “...da un lato, la morte è la
possibilità più propria, e cioè autentica (si ricordi il nesso autentico-proprio: eigen- Eigentlichkeit) dell’esserci; d’altra parte, in quanto non è mai
sperimentabile come «realtà» (almeno la mia morte, per me), essa è autentica possibilità, cioè possibilità che permanentemente tale, che non si
realizza mai, almeno finchè l’esserci c’è. Essa è dunque possibilità autentica e autentica possibilità”.
14
Mi riferisco alle tesi di Kojève, il quale peraltro intrattenne con Schmitt un carteggio epistolare negli anni ’50. Si legga VEGETTI M., Note sulla fine
del politico nell’epoca dell’unità del mondo, in Oltrecorrente. Comunità dell’altro, 6, Milano, 2002, p.198-199: “Come è noto Kojeve muove dalla
dialettica hegeliana della Begierde per mostrarne la funzione politicamente antropogena. La comunità –speculativamente pensata- non è lo spazio
degli “Io”, di una soggettività già costituita (cioè, in fondo, immortale) che poi entrerebbe in relazione con l’altro. Se la comunità si rivela
3

Amico e nemico diventano allora figure posizionate in una chiave di contesa per il riconoscimento, ed
esistenziale significa mettere in gioco la propria vita16.
In entrambe i casi, la dicotomia politica si ri-costruisce come gesto violento e teoretico, legato alla sfera
dell’essere e della coscienza di sé.
Nelle accezioni predette, Il termine esistenziale è dunque, sotto il profilo logico, un attributo del soggetto: è
l’Io che, in senso esistenziale (ovvero: è l’Io-esistenziale, con tutti i caratteri che lo strutturano: l’angoscia, il
travaglio per il riconoscimento etc.) pone la coppia Feind-Freund, come meccanismo per realizzarsi esso
stesso. La formula residuale e non-oggettiva, ma anzi del tutto chiusa sul soggetto, con cui si identifica il
nemico, confermerebbe tale interpretazione17.

hegelianamente nella lotta e nella morte è perché la morte è il luogo primario della rivelazione di sé nell’altro (…). Ogni comunità proprio in quanto
accomuna e raccoglie sotto l’aspetto di una determinata relazione al tempo stesso presuppone una non-relazione, cioè un più originario esser-
diviso di ciò che viene accomunato. Ma la formulazione è speculativa perché simultaneamente afferma anche il contrario: questo modo d’essere
della non-relazione è al tempo stesso ciò che consente che il separato, il differente, sia posto in relazione. Ciò significa per Kojève che il soggetto
diventa tale solo nella misura in cui è oggetto del desiderio dell’altro, in una relazione di scambio costitutivamente dissimmetrica, e attraversata
dalle linee di allogenia che giustificano il significato archetipo della violenza sociale. Quest’ultima non discende pertanto da un’estrinseca
imposizione della forza, ma è connaturata nella trascendenza stessa della comunità come forma originaria della sua condizione politica (…) In un
senso analogo alle categorie schmittiane di amico e nemico, Kojève concepisce il nucleo primitivo del politico in base alla tensione polare che
mantiene aperto il mondo allo spaziamento dell’alterità”.
15
Si legga HYPPOLITE J., Genesi e struttura della fenomenologia dello spirito di Hegel, Bompiani, Milano, 2005, p.208: “Quest’ultima
*l’autocoscienza+ fa dunque esperienza della lotta per il riconoscimento; ma la verità di tale esperienza ne genera un’altra, quella dei rapporti di
diseguaglianza nel riconoscimento, ossia l’esperienza della signoria (Herrschaft) e della servitù (Knechtschaft). Se infatti la vita è la posizione
naturale della coscienza, la morte ne è a sua volta la negazione solo naturale. (…) Nel mettere a repentaglio la vita, la coscienza esperisce che questa
le è altrettanto essenziale quanto la pura autocoscienza; perciò i due momenti, da prima immediatamente uniti, si separano: l’una delle due
autocoscienze si innalza al di sopra della vita animale; capace di affrontare la morte, di non temere la perdita della sostanza vitale, questa coscienza
pone a propria essenza l’essere-per-sé astratto; sembra sfuggire alla schiavitù della vita: è la coscienza nobile del signore che viene realmente
riconosciuto. L’altra preferisce la vita dell’autocoscienza, dunque ha scelto la schiavitù: risparmiata dal signore, questa coscienza è stata conservata
come si conserva una cosa, riconosce il signore e non ne è riconosciuta”; p.211: “Il servo infatti non è propriamente schiavo del padrone, ma della
vita: è schiavo perché ha esitato, «ha tremato» dinanzi alla morte, ha preferito la servitù alla libertà nella morte, e dunque più che del padrone, è
schiavo della vita”; Sul carattere aperto e dinamico della fenomenologia hegeliana, e pertanto sul movimento servo-padrone come momento che
non risolve in sé il problema del riconoscimento, si legga CHIEREGHIN F., La fenomenologia dello spirito. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma,
2000, p. 90-91: “Nella lotta per il riconoscimento, che qui si accende, il fine risulta inattingibile perché l’autocoscienza non conosce altra forma di
conferma della propria esistenza che le possa venire da un’altra autocoscienza che non sia o la soppressione di questa autocoscienza o la sua
sottomissione. In entrambi i casi tuttavia non c’è vero e proprio riconoscimento. Se il risultato è la morte di uno dei due contendenti, «la morte è la
negazione naturale della coscienza medesima, la negazione senza l’indipendenza, negazione che dunque rimane priva del richiesto significato del
riconoscere». Se il risultato è invece la sottomissione di uno dei due, ciò accade perché una delle due autocoscienze si è ritirata davanti alla paura
della morte e ha preferito ridursi in schiavitù piuttosto che perdere la propria vita. Ma in questo modo la coscienza servile, bloccata nella propria
maturazione dalla paura della morte, è in se stessa qualcosa di monco e di parziale che non può né sa offrire che un riconoscimento altrettanto
parziale e del tutto inadeguato a soddisfare l’autocoscienza vincente”
16
HYPPOLITE J., Genesi e struttura della fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., p.207: “L’uomo si eleva al di sopra della vita, la quale nondimeno
resta la condizione positiva del suo emergere; è capace di mettere in gioco la propria vita liberandosi con ciò stesso dall’unica schiavitù possibile,
quella della vita”.
17
La formula in questione è nel passo di SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p. 109: “non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente
cattivo o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può apparire vantaggioso
concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso
particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir
decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo «disimpegnato» e perciò «imparziale»”; Ivi, p.109-110:
“Nella realtà psicologica, il nemico viene facilmente trattato come cattivo e brutto, poiché ogni distinzione di fondo, e soprattutto quella politica,
che è la più acuta e intensiva, fa ricorso a proprio sostegno a tutte le altre distinzioni utilizzabili (…) La concretezza ed autonomia peculiare del
politico appare già in questa possibilità di separare una contrapposizione così specifica come quella di amico-nemico da tutte le altre e di
comprenderla come qualcosa di autonomo”; Ivi, p.122: “Il reale raggruppamento amico-nemico è per sua natura così forte ed esclusivo che la
contrapposizione non politica, nello stesso momento in cui causa questo raggruppamento, nega i suoi motivi e criteri finora «puramente» religiosi,
politici o culturali e viene sottomessa ai condizionamenti e alle conseguenze del tutto nuove, peculiari e, dal punto di vista di quel punto di partenza
«puramente» religioso, economico o di altro tipo, spesso molto inconseguenti e «irrazionali», della situazione politica”. Per un commento in linea
con la tesi soggettivistica, GUERRI M., Orientarsi dopo l’11 settembre: dalla «instabilità semantica» alla genealogia della politica. Alcune note su Carl
Schmitt, in www.lettere.unimi.it: “la storia della politica moderna è retta dalla metamorfosi del processo di auto-identificazione di una collettività
mediante il conflitto tra amico e nemico. La storia del politico è costituita dalla trasformazione del senso del conflitto amico-nemico su cui si fonda
la capacità di una collettività di riconoscersi in quanto tale. In questo senso il politico da una parte non può essere inteso come mero caos
distruttivo, «inimicizia» che tutto divora, d’altra parte il formarsi della collettività di «amici» avviene attraverso l’esclusione di ciò che si definiscono
come «nemici». L’identità del Noi è fondata sulla esclusione dell’Altro. Il «nemico» deve essere allontanato all’esterno o neutralizzato all’interno
della collettività. Quella «“tranquillità, sicurezza e ordine”» che sono il «presupposto perché le norme giuridiche possano aver vigore» e su cui
dunque poggia la vita «normale» di una collettività organizzata in Stato, emerge dal conflitto: il Noi esiste solo in virtù del riconoscimento, della
separazione e della esclusione dell’Altro. Come ha osservato Galli, attraverso il politico «Schmitt vuole superare l’identità tautologica del moderno
razionalismo politico: il “nemico” in verità è l’Altro in noi, è la nostra stessa esistenza nel suo lato tragico e al contempo energetico; l’Estraneo è il
Prossimo, ovvero, per usare le parole di Rilke, “Feindschaft ist uns das Nächste”». L’idea liberale di politica, la concezione borghese di sicurezza sono
4

A ciò si accompagnerebbe l’idea del carattere esistenziale del politico come lotta per la vita: il soggetto
identifica nell’altro un nemico da sottomettere o uccidere, da sfidare a guardare il volto della morte18.

II. Dal soggetto all’oggetto: la frantumazione dell’identità Stato-politico.

Io credo che tale schema di spiegazione si fondi su una serie di passaggi errati, rispecchiati in una fallacia
logica: l’esistenziale, in Schmitt, non deve considerarsi infatti un predicato del soggetto, dell’Io che pone la
distinzione, ma un predicato dell’oggetto, della distinzione stessa.
Non è cioè un Io-esistenziale, né nelle vesti di gettatezza e progettualità né in quelle di autocoscienza che
pone un Altro rispetto al Sé nel meccanismo di alterità nell’appetire19.
L’Io-esistenziale in Schmitt è assente: la dicotomia amico-nemico non è infatti una dialettica dell’Io, non è
una distinzione del soggetto esistenziale.
Essa è piuttosto una dialettica dell’oggetto, del reale: non c’è un soggetto esistenziale, ma una dicotomia
dell’esistente.
L’amico ed il nemico sono divisioni della realtà, e non divisione dell’Io: non c’è alcuna posizione creatrice
del soggetto, come dimostra il fatto che non vi è legame tra nemico e sentimento di ostilità20.
Il carattere di “esistenziale” riferito alla coppia Feind-Freund va perciò inteso nella sua portata oggettiva, e
non soggettiva: esistenziale non dunque nel senso deontico-soggettivo di divisio dell’esistenza, ma nel
senso ontico-oggettivo di divisio dell’esistente.
Quello che Schmitt sottolinea è l’artificialità del concetto di politico: non vi è né una tensione degli uomini,
dei soggetti, a formare esistenzialmente la dialettica amico-nemico, né tale tensione esiste di per sé nelle
strutture della società.
È in questo senso allora che la nozione di nemico in Schmitt è puramente negativa, è il nemico come Altro:
non perché sia una mera proiezione del soggetto, ma in quanto la soggettività del nemico è irrilevante21. Il
nemico esiste semplicemente, così come l’amico, senza che tale esistenza sia legata allo sguardo teoretico

decostruite e destituite di fondamento: l’identità politica esiste solo mediante l’identificazione di un nemico e successivamente alla sua esclusione.
Noi ci siamo politicamente perché abbiamo escluso l’Altro. La nostra stessa identità dunque deriva dall’esclusione, poggia continuamente sulla
figura di ciò che è stato definito come nemico. L’ordine giuridico-politico (l’amicizia) non viene fondato sul trasparente riferirsi a sé della collettività,
ma è una deriva del conflitto”; HOFMANN H., Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt, cit., p.138: “…diversamente da tutte le
altre contrapposizioni oggettivamente condizionate e determinate, il nemico in senso proprio e politico non è un avversario determinabile
oggettivamente, piuttosto, le differenze oggettive diventano poco significative di fronte alla circostanza che l’avversario divenuto nemico è
semplicemente l’altro, l’estraneo, che viene combattuto semplicemente a causa della sua estraneità e diversità”. Si legga tuttavia l’appunto di
Schmitt stesso, sul tema, in SCHMITT C., Premessa a Il concetto di politico, cit., p.95: “Il rimprovero di un pretesto primato del concetto di nemico è
a sua volta troppo generico e stereotipato. Esso trascura il fatto che la costruzione di un concetto giuridico procede sempre, per necessità dialettica,
dalla sua negazione. Nella pratica come nella teoria giuridica, il riferimento alla negazione è tutt’altra cosa che affermare il «primato» di ciò che
viene negato. Un processo, in quanto controversia giuridica, è pensabile solo se viene negato un diritto. La pena e il diritto penale presuppongono
non un fatto ma un non-fatto. Forse che ciò significa una valutazione «positiva» del non-fatto e un «primato» del delitto?”
18
SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.116: “I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in
modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La guerra consegue dall’ostilità poiché questa è negazione assoluta di ogni altro essere. La
guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di quotidiano o di normale, e neppure di essere vista
come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo
significato”.
19
Sulla nozione di «appetito», vedi HYPPOLITE J., Genesi e struttura della fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., p.196: “In francese noi abbiamo
tradotto il termine tedesco Begierde usato da Hegel con desir e non con appetit. Il fatto è che questa Begierde contiene più di quanto non sembri a
tutta prima: pur confondendosi inizialmente con l’appetito (appetit) sensibile in quanto dà sui diversi oggetti concreti del mondo, reca in sé un
significato infinitamente più ampio. Nel fondo in tale appetire (desir) l’autocoscienza cerca se stessa e si cerca nell’altro”, Ivi, p.201, sul carattere
tragico dell’appetire come movimento dell’autocoscienza che ha bisogno dell’alterità: “Perciò in questa opera l’incontro delle autocoscienze si
manifesta come la lotta delle autocoscienze per farsi riconoscere. Piuttosto che appetito dell’amore, la Begierde è ora aspirazione al riconoscimento
virile di una coscienza che appetisce. Il movimento del riconoscere non si manifesta dunque se non attraverso l’opposizione delle autocoscienze”.
20
SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.112: “Non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha
senso amare il proprio «nemico», cioè il proprio avversario”.
21
Ivi, cit., p. 119: “Il problema continua ad essere sempre lo stesso: se cioè un raggruppamento amico-nemico di tal genere esista oppure no come
possibilità reale o come realtà, senza che importi quali motivi umani sono forti abbastanza da provocarlo” (corsivo mio).
5

di amico e nemico sulla morte: tale esistenza è nella realtà, nel senso che l’uomo è, e non pone, in una delle
due categorie
Essa è piuttosto una tensione della struttura statale e non della società civile: la coppia che regge il politico
è anzi il prodotto dell’intervento dello Stato nella società civile, che è società «neutra»22.
Schmitt dunque non pone amico-nemico come un potenziamento esistenziale del concetto di inimicizia che
è alla base del suo pessimismo antropologico di matrice classica, hobbesiana23, bensì come schemi
esplicativi del fatto che nella società moderna, in cui si legano una struttura sociale eterogenea della società
con lo sviluppo di uno stato a carattere totale, viene frantumata l’identità tra politico e statale24, e perciò –
pur conservando la finzione dell’identità perduta- il politico esplode come possibilità di tensioni continue
tra sfere non più neutrali25, e per questo contrapposte non più alla stregua di avversari o concorrenti, né
tantomeno di inimicus privato, ma di hostis26.
Esistenziale, allora, si riferisce all’oggetto, si riferisce al prodotto della crisi dell’identità Stato-politico, che è
crisi del parlamentarismo odierno27: è il senso del politico che ha connotato di sé tutta l’esistenza,

22
Ivi, cit., p.105: “…tutti gli affari fino allora statali diventano sociali e viceversa tutti gli affari fino allora «solo» sociali diventano statali, come
accade necessariamente in una comunità organizzata in modo democratico. Allora tutti i settori fino a quel momento «neutrali» -religione, cultura,
educazione, economia- cessano di essere «neutrali» nel senso di non-statali e non-politici. Come concetto polemicamente opposto a tali
neutralizzazioni e spoliticizzazioni di settori importanti della realtà appare lo Stato totale proprio dell’identità tra Stato e società, mai disinteressato
di fronte a nessun settore della realtà e potenzialmente comprensivo di tutti. Di conseguenza, in esso tutto è politico, almeno virtualmente, e il
riferimento allo Stato non basta più a fondare un carattere distintivo specifico del politico”; SCHMITT C., Il custode della costituzione, Giuffrè,
Milano, 1981, p.124: “…separazioni antitetiche come: Stato ed economia, Stato e cultura, Stato ed educazione; e inoltre politica ed economia,
politica e scuola, politica e religione, Stato e diritto, politica e diritto, che hanno un senso se ad esse corrispondono ambiti o grandezze concrete,
oggettivamente separate, perdono il loro significato e diventano prive di oggetto. La società divenuta Stato è uno Stato dell’economia, della cultura,
dell’assistenza, della beneficienza, della previdenza; lo Stato divenuto autoorganizzazione della società, quindi di fatto da essa non più separabile,
abbraccia tutto il sociale, cioè tutto quanto occorre alla convivenza umana”.
23
BENDERSKY J.W., Carl Schmitt teorico del Reich, Il Mulino, 1989, p.119-120: “…moralità e immoralità erano per lui aspetti che concernevano la vita
privata e che non potevano costituire il fondamento dell’analisi politica: «Se gli uomini fossero buoni, il mio punto di vista sarebbe malevolo; ma gli
uomini non sono buoni». Questa visione pessimista dell’uomo era al centro di tutta la sua filosofia politica: «In un mondo buono tra uomini buoni
domina naturalmente solo la pace, la sicurezza e l’armonia di tutti con tutti; i preti e i teologi sono qui altrettanto superflui dei politici e degli uomini
di stato». Per tale ragione concludeva Schmitt: «tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono che l’uomo sia *…+ un essere pericoloso e
dinamico» e che la caratteristica fondamentale della vita politica è l’inimicizia”.
24
SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.105: “Anche le definizioni concettuali generali del politico che non contengono niente altro che un
rimando o un rinvio allo Stato, sono comprensibili e legittime sul piano scientifico solo finchè lo Stato è realmente un’entità chiara, univoca e
determinata e si contrappone perciò ai gruppi e agli affari statali e perciò anche «non politici», finchè lo Stato ha il monopolio del politico. Era
questo il caso quando lo Stato o non riconosceva come controparte nessuna «società» (come nel XVIII secolo) oppure almeno si situava come
potere stabile e separato dalla «società» (come in Germania durante il XIX secolo e ancora nel XX)”; SCHMITT C., Premessa a Il concetto di politico,
cit., p.90: “Vi fu realmente un tempo in cui era corretto identificare i concetti di statale e di politico. Infatti allo Stato europeo era accaduto qualcosa
di assai improbabile: di creare la pace al suo interno e di eliminare l’inimicizia come concetto giuridico. Gli era accaduto di accantonare la faida (….)
e di instaurare all’ interno del suo territorio sicurezza e ordine”; PARISE E., Carl Schmitt. La difficile critica del liberalismo, Liguori, Napoli, 2002,
p.103: “…Schmitt attribuisce proprio al liberalismo la responsabilità della bancarotta dello Stato, poiché nel mantenere aperta la porta alla
rappresentanza degli interessi esso avrebbe reso possibile l’occupazione dello Stato da parte degli interessi organizzati, annullando,
definitivamente, lo stesso presupposto del costituzionalismo liberale, ovvero la distinzione tra Stato e società, governo e popolo. «Giacchè, adesso –
dichiara Schmitt- lo Stato diventa “l’autoorganizzazione della società”»”.
25
SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.112-113: “All’interno dello Stato in quanto unità politica organizzata che, come tutto, avoca a sé la
decisione sull’amico-nemico, esistono, sempre però accanto alle decisioni politiche primarie e in difesa della decisione scelta, molti concetti
secondari di politico. In primo luogo con l’aiuto della equiparazione di politico e statale (…). Tale equiparazione fa sì ad esempio che si contrapponga
un comportamento politico-statuale ad uno politico-di partito e che si possa parlare di politica religiosa, scolastica, comunale, sociale e così via
riferendosi allo Stato stesso. Eppure anche qui continua ad essere essenziale per il concetto di politico un contrasto o antagonismo all’interno dello
Stato, anche se esso risulta relativizzato dall’esistenza dell’unità politica dello Stato stesso che è comprensivo di tutti gli altri contrasti. Infine si
sviluppano tipi di «politica» ancor più affievoliti, fino a diventare parassitari e caricaturali, nei quali sopravvive ancora qualche momento
antagonistico del raggruppamento originario in base all’antitesi amico-nemico, che si manifesta in tattiche e pratiche di ogni tipo, in concorrenza ed
intrighi e che definisce i più strani affari e manipolazioni come «politica»”; BENDERSKY J.W., Carl Schmitt teorico del Reich, cit., p.120: “In sé il
politico non ha alcuna natura precisa e immutabile, è semplicemente «*…+ l’antagonismo più estremo e intenso, e ogni altro antagonismo concreto
è tanto più politico quanto si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico». Il politico trae il suo
potere dalle varie sfere della vita, quali la religione, l’economia, il nazionalismo, e non esistono sfere neutre o apolitiche come vorrebbero far
credere i liberali; esse sono tutte potenzialmente politiche”.
26
SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.111: “Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato
che ci odia in base a sentimenti di antipatia.(…) Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in
particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso ampio”.
27
Si legga PARISE E., Carl Schmitt. La difficile critica del liberalismo, cit., p.105-106: “E qui vengono, in primo piano, di nuovo, le responsabilità del
liberalismo. L’avvento dello Stato plurale/totale sarebbe, infatti, impensabile senza il presupposto dello Stato liberale di diritto che, incapace o non
interessato a controllare la dinamica del conflitto sociale, in nome della libertà dei privati, ha consentito che, nel seno della società, prendessero
forma organizzata i diversi interessi e che acquistassero forza al punto da contrapporsi allo Stato come titolari di volontà particolari. I moderni
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frantumandosi in un tessuto policratico e presentandosi, paradossalmente, in una identità nuova, quella tra
Stato e società.
Ma tale identità è conflittuale poiché non si fonda su un’unità politica, ma sulla tensione continua di
interessi particolaristici e contrapposti presenti nella società, i quali ora –ed è questo il senso dell’identità-
aspirano allo Stato, ossia a farsi totalità.
Il nemico, allora, non è l’Altro-esistenziale inteso come il semplicemente Altro, ma è il medesimo soggetto
che, precedentemente alla politicizzazione della società, stava in piedi sul rovescio dell’interesse: il nemico,
sotto il profilo soggettivo, continua ad essere il concorrente nel campo economico, l’avversario nel campo
parlamentare, l’eretico in quello religioso28.
I motivi per cui gli uomini si associano e dissociano restano cioè quelli tradizionali ed è solo sotto il profilo
oggettivo, dell’intensità con cui viene posta la simmetria, che tale soggetto diviene nemico29: è la
trasformazione dell’interesse da privato in pubblico –ossia la politicizzazione dell’interesse stesso- a
costruire il concetto di nemico, come collasso del sistema liberale provocato dall’ingresso delle masse nella
politica, dal suffragio universale, dalla possibilità per gli interessi privati eterogenei della società di
specchiarsi nello Stato30, e di vestirsi di pubblico.
È quasi improprio parlare, a questo proposito, di nemico interno (Staatsfeind). La nozione di nemico interno
è infatti da riferirsi al gruppo di soggetti identificati come tali da una dichiarazione unilaterale di ostilità da
parte dello Stato, nella sua necessità di pacificazione interna31.
La distinzione esterno-interno riferito al nemico, va perciò letta nel senso che, se proviene dallo Stato o si
rivolge verso lo Stato, essa può avere carattere esterno (in un rapporto Stato contro Stato, e quindi sul
piano dello ius belli internazionale) o interno (come determinazione da parte dello Stato di un nemico
pubblico, ma all’interno del suo territorio)32; mentre quando l’identificazione del soggetto nemico provenga

partiti, secondo Schmitt, hanno cessato di essere, in accordo con lo spirito della costituzione liberale, delle formazioni basate sulla libera
propaganda per diventare formazioni sociali solide, stabili, permanenti e ben organizzate. Abbandonata la sfera dell’opinione pubblica, che è la sola
regione nella quale devono esistere, essi hanno invaso, contemporaneamente, la società e lo Stato, trasformandosi da particelle di quella verità
liberale prodotta dal confronto tra le diverse opinioni, in pezzi di società che si «autoorganizzano» in maniera tendenzialmente totale. Il risvolto di
questa profonda trasformazione è, per Schmitt, evidentemente, la crisi del parlamentarismo, ovvero di government by discussion popolato
esclusivamente da uomini «socialmente ed economicamente liberi, spiritualmente ed intellettualmente indipendenti, capaci di un proprio giudizio».
Per le affini posizioni sul punto di Weber, si legga REBUFFA G., Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia
dello Stato, Il Mulino, Bologna, 2007, pp.165-178; WEBER M., Parlamento e governo, in MASSARENTI A. (a cura di), Weber. Vita, pensiero, opere
scelte, Milano, 2006, p.318-324.
28
È il liberalismo ad aver separato Stato e società, e dunque ad aver identificato lo Stato con il politico e degradato la violenza della società a
conflitti di interessi, smilitarizzati e spoliticizzati, come sottolinea SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.111, sottolinea come “Il liberalismo ha
cercato di risolvere (…) il nemico in un concorrente, e in un avversario di discussione, dal punto di vista spirituale. In campo economico non vi sono
nemico, ma solo concorrenti; in un mondo completamente moralizzato ed eticizzato solo avversari di discussione”.
29
Ivi, cit., p.121: “Il politico può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di
altro tipo; esso infatti non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di dissociazione di uomini, i motivi
della quale possono essere di natura religiosa, razionale, nazionale (in senso etnico o culturale), economica o di altro tipo e possono causare, in
tempi diversi, differenti unioni e separazioni”.
30
PARISE E., Carl Schmitt. La difficile critica del liberalismo, cit., p.100-101: “…il vero obiettivo polemico della critica schmittiana del
parlamentarismo è la modernità nella sua forma capitalistica, secolarizzata e politeista. Nel suo antiparlamentarismo si riflette l’esigenza di una
società «ricomposta», non lacerata dal conflitto che inevitabilmente inerisce alla pluralità degli interessi, spiritualmente e socialmente omogenea. Il
«vero» parlamentarismo, nel quale le opinioni in lotta producono verità e legge, è incompatibile con il suffragio universale, in quanto quest’ultimo
rendendo rappresentabili i diversi interessi minerebbe alle fondamenta la comunità di principi e fini che costituisce la premessa indispensabile della
discussione parlamentare. La lotta delle opinioni – sembra voler dire Schmitt- è possibile solo se l’interesse sociale è omogeneo: quando il «corpo»
elettorale perde questa caratteristica anche l’istituzione perde la sua anima, il suo «principio spirituale»”; SCHMITT C., Il custode della costituzione,
cit., p.137: “Così da teatro di una discussione libera e costruttiva dei liberi rappresentanti del popolo, da trasformatore degli interessi partiti in una
volontà sovrapartitica, il parlamento diventa il teatro di una divisione pluralistica delle forze sociali organizzate”.
31
SCHMITT C., Il concetto di politico, cit., p.130: “Questa necessità di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, la fatto che lo Stato, in quanto
unità politica, determina da sé, finchè esiste, anche il «nemico interno». In tutti gli Stati esiste perciò in qualche forma ciò che il diritto statale delle
repubbliche greche conosceva come dichiarazione di πολέμιος e il diritto statale romano come dichiarazione di hostis: forme cioè più o meno acute,
automatiche o efficaci solo in base a leggi speciali, manifeste o celate in prescrizioni generali, di bando, di proscrizione, di estromissione dalla
comunità di pace, di collocazione hors la loi, in una parola di dichiarazione di ostilità interna allo Stato. Questo è il segno, a seconda del
comportamento di colui che è stato dichiarato nemico dello Stato, della guerra civile”.
32
Correttamente, dunque, si legga Ivi, cit. p.115: “La guerra è lotta armata fra unità politiche organizzate, la guerra civile è lotta armata all’interno di
un’unità organizzata (che proprio perciò sta diventando problematica), e a pag.122 si legga: “Ciò che importa è sempre e solo il caso di conflitto. Se
le controforze economiche, culturali o religiose sono così forti da determinare da sé sole la decisione sul caso critico, ciò significa che esse sono
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da e tra gruppi sociali all’interno di uno Stato, il nemico sarà sempre esterno, poiché la pretesa alla totalità
della comunità è ad excludendum, è una pretesa a porsi come lei quale forza unificatrice alla quale spetta il
compito di dichiarazione dell’hostis33.
In una società divenuta politica, la dichiarazione del nemico da parte di un gruppo sociale non è una
dichiarazione di inimicizia, non resta confinata in una tensione e lotta privata, ma è una dichiarazione che si
pensa e pretende d’esser pubblica, totale.
Conto tenuto di quanto esposto, si deve concludere che nella nozione di esistenziale di Schmitt non c’è
alcuna costruzione metafisica del Soggetto –alla stregua della quale la dicotomia politica si porrebbe come
movimento dialettico e tragico dell’Io nel mondo- , bensì in essa si inscrive una de-costruzione dell’oggetto,
ossia della nozione di interesse: il nemico è solo un concorrente visto ora sotto il profilo politico, ossia nella
prospettiva pubblicistica del gruppo sociale che tende ad assumere su di sé l’identità Stato-società.
Il senso esistenziale della dialettica schmittiana sta nella modifica dell’oggetto del politico, del concetto di
interesse: dal carattere neutrale34, spoliticizzato e smilitarizzato ove lo aveva ridotto il liberalismo, ad un
carattere esistenziale nel senso di pretesa ad imporsi su tutto l’esistente, a riconoscersi come pubblico.

divenute la nuova sostanza dell’unità politica. Se invece esse non sono abbastanza forti da impedire una guerra intrapresa contro i loro interessi e
principi, allora è chiaro che esse non hanno raggiunto il punto decisivo del politico. Se esse sono abbastanza forti da impedire una guerra voluta
dalla dirigenza dello Stato, ma contrastante con i loro interessi e principi, ma non forti abbastanza da determinare da se stesse una guerra, in base
ad una decisione propria, in tal caso non esiste più un’entità politica unitaria”.
33
Ivi, cit., p.115: “L’equivalenza politico=politico di partito è possibile allorchè l’idea di un’unità politica (lo «Stato») comprendente tutto e in grado
di relativizzare tutti i partiti politici al suo interno e le loro conflittualità, perde la sua forza e di conseguenza le contrapposizioni interne allo Stato
acquistano intensità maggiore della comune contrapposizione di politica estera nei confronti di un altro Stato. Quando all’interno di uno Stato i
contrasti tra i partiti politici sono divenuti «i» contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della «politica interna»,
cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato”; BENDERSKY,
Schmitt teorico del Reich, cit., p.123: “Se poi gli antagonismi amico-nemico interni allo stato diventano così intensi da sfociare in un conflitto armato,
allora lo Stato cessa di essere l’unità politica decisiva”.
34
Sul concetto di neutralità alla base della teoria liberale, si legga SCHMITT C., Rassegna dei diversi significati e funzioni del concetto di neutralità
politica interna dello Stato, in Le categorie del politico, cit., p.187-191, in cui si individuano significati negativi e significati positivi di neutralità. In
particolare neutralità in senso negativo è intesa come: a) non-intervento, indifferenza, laisser passer; b) Stato nel significato di mezzo tecnico che
deve funzionare in modo prevedibile; c) uguali cianche nella formazione della volontà statale, d) parità, identica ammissione alle medesime
condizioni di tutti i gruppi e le tendenze esiststenti al godimento dei vantaggi o delle altre prestazioni statali. In senso positivo, neutralità va intesa
come: a) obiettività e concretezza sulla base di una norma riconosciuta; b) sulla base di una competenza non fondata su interessi egoistici; c) come
espressione di un’unità e totalità comprendente gli opposti raggruppamenti e che perciò relativizza le contrapposizioni; d) come posizione dello
straniero al di fuori dello Stato che, in caso di necessità, come terzo, provoca la decisione e quindi l’unità.

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