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MORTE

CHARD, Chiesa, lotta di classe e strtfteglepol~tiche,.Assisi 1973; G. qUTIERREZ, Teologia delfa ItberaZto~e,

trad. it, Brescia 1972; A.

MANARANCHE,

ESIste

un' etica sociale cristiana? trad. it. Bologna 1971;


G. M ArrA l, Morale politica, Bologna 1971; ].-B.
METZ, Sulla teologia del mondo, trad. it. Brescia

MORTE
GIAMPIERO BOF
Il LA MORTE NELLA STORIA DELLE RELIGIONI. SOFICO.. IIII L'ANTICO TESTAMENTO. - IV/ N
MORTE. . VII LA MORTE COME COMPIMENTO. .
MORTE. - VIII/ LA MORTE E LA SPERANZA IX
MORTE NEL QUADRO DELL'ANTROPOLOGIA TEO
DIO. - XIII LA MORTE IN CRISTO.

Il LA MORTE NELLA STORIA


DELLE RELIGIONI
Anche una mentalit positivisticamente orientata come quella che sembra prevalere nella
nostra et scientifico-tecnologica non riesce facilmente ad elaborare un concetto soddisfacente. non diciamo dell'evento. ma del puro fenomeno della morte. La morte decesso, cessazione di strutture viventi organizzate in forma
di individuo: la definizione a livello biologico, alla quale per oggi va aggiunto in forma
esplicita il carattere di irreversibilit del processo. Ma intesa come processo biologico la
morte si apre ad una complessit di dimensioni
(fisiologiche. patologiche, cliniche, ecc.) che
rendono il fenomeno n facilmente chiaribile
n accertabile senza esitazioni ed ambiguit.
E:~pure questo l'a.spetto che oseremmo dire
pm banalmente OVVlO della morte: la sua problematicit s'annida invece nel suo riconoscimento quale evento umano, in quell'ordine di
considerazioni che la pongono in rapporto alla
esistenza dell'uomo, e con le quali si svolge
meno un discorso di avvenimenti fenomenici e
di nessi causali tra di essi, che di ricerca di senso.
In questa seconda linea ci pare vadano interpretate le innumerevoli rappresentazioni della
morte proposte nei quadri delle religioni antiche. Prime tra tutte quelle cosiddette del cadavere vivente o dei ((morti viventi , secondo le quali non si d essenziale differenza tra i
viventi e coloro che sono morti di recente, cui
si attribuisce solo una relativamente maggiore
difficolt di movimento e di parola, a mo' -di
dormienti. Diversa la concezione se-

590
1969; J. MOLTMANN, Teolof,ia della speranza, trad.
it. Brescia 1970; ID., Religione, Rivoluzione efuturo, trad. it. Brescia 197 I; A. RIZZI, Scandalo e beatitudine della povert, Assisi 1976; D. SOELLE, Teologia politica, trad. it. Brescia 1973; B. SORGE, Capitalismo, scelta di classe, socialismo, Roma 1973.

III LA MORTE NELLA STORIA DEL PENSIERO FILO:UOVO TESTAMENTO. - V/L'ESPERIENZA


DELLA
VII; INTERPRETAZIONE TRASCENDENTALE DELLA
J PER UNA TEOLOGIA DELLA MORTE. - X; LA
LOGICA. XI; LA MORTE ED IL RAPPORTO CON

condo la quale si d nell'uomo la presenza di


una parte che sopravvive (un'anima, un'ombra, un eiddlon, quasi un secondo io), e che pu
apparire ad es. nei sogni.
Comune a queste due rappresentazioni la
convinzione che la morte significa solo una va- .
riazione dello stato di vita, non la sua fine; addirittura essa pu rappresentare il raggiungimento della vita autentica. Comune ancora
l'affermazione che la morte rappresenta ~ma
anomalia, spesso angosciante, della vita. E il
tema prediletto del mito, che riporta spesso la
causa della morte ad azioni colpevoli, a dannosi sortilegi, a forze malvage: i pi vari riti magici sono facilmente addotti come strumenti di
difesa e di liberazione. In ogni caso il defunto
portatore di forze misteriose.
La immensa variet dei miti e delle rappresentazioni circa le vicende che caratterizzano la
sopravvivenza dopo la morte non manca, tuttavia, di temi ricorrenti, facilmente documentabili anche nell'antichit classica greca e latina: il permanere dell'anima nei dintorni del
corpo, sin che questo sussiste; il viaggio dell'anima, spesso in forma di animale; il trapasso
dall'al di qua all'al di l attraverso l'acqua; la
figura del nocchiero, come guida delle anime.
Ulteriori convergenze tra i miti riguardano lo
stato definitivo dei morti, ed altro ancora.

III LA MORTE NELLA STORIA


DEL PENSIERO FILOSOFICO
La forma pi rigida in cui il pensiero filosofico
ha realizzato la sua opposizione al mito nel
quale s' espressa la interpretazione della mor-

591
te rappresentata dal tentativo di ridurre la
morte a fatto ({naturale: intendiamo, con
questo genericissimo termine, indicare la tendenza a privare la morte di quelle dimensioni e
risonanze che la costituiscono evento decisivo
dell' esistenza umana e a deprimerla a momento la cui singolarit irrilevante nell'economia
generale del processo della realt e delle sue
leggi immanenti. La massima di EPICURO:
({Quando ci siamo noi, la morte non c'; e
quando c' la morte, noi non ci siamo (Diog.
L. X, I 2 5), la formula classica di questa tendenza, ripresa e variata in mille toni, dall'antichit ai nostri giorni, da Marco Aurelio a Wittgenstein e a Sartre (cfr. MARCOAURELIO,Ricordi, VI, 24; L. WITIGENSTEIN, Tractatus
lo~ic{)-philosophicus, 6.43 I I; l-P. SARTRE,

L essere e il nulla, p. 65 5).


Ben pi profonda e culturalmente pi feconda
stata la dottrina platonica che, guidata dal
mito, ha interpretato la morte come separazione dell'anima dal corpo (Fed., 64C). Nella
morte il corpo si distacca dali' anima diventando qualcosa solo per se stesso, e l'anima si distacca dal corpo diventando qualcosa solo per
se stessa (Ibidem). Ma la morte altro che un
puro fatto naturale, e nel suo pi profondo significato pu essere anticipata dalla responsabile decisione dell'uomo: Tutti coloro i quali
per diritto modo si occupano di filosofia ... di
niente altro in realt essi si curano se non di
morire e di essere morti (64a). Coloro i
quali filosofano direttamente si esercitano a
morire (67e). Nella filosofia come preparazione ed esercizio di morte (8 la) si riprende con sufficiente chiarezza il motivo orfico
della circolarit di vita e morte, espresso ancora nel Gorgia (429b): forse in realt noi siamo morti; ma qui si introduce come decisivo
~uello che potremmo chiamare il motivo delIautenticit: non la vita per s la vita auten. ne, per se,1
nca,
o e'l a morte: l'una e l'altra presentano una costitutiva ambivalenza che pu
venir superata solo da una consapevole e responsabile assunzione, da parte dell'uomo, dell ideale significato dell'una e dell'altra.
La dottrina platonica non priva di ambiguit
e di difficolt: evasiva della problematica autentica della morte ci pare, infatti, l'opinione
che propone la sopravvivenza dell'anima, qual
soluzione; di un'anima, per di pi, che nella
morte non sarebbe propriamente n colpita n
toccata, ma solo privata del corpo, inteso,
quando non propriamente gravame dell'anima,
e suo impaccio, o. carcere, come elemento comunque da essa facilmente disgiungibile. Se

MORTE

anche alcuni autori compiono seri tentativi per


liberare la genuina concezione platonica dei
rapporti tra anima e corpo dai fraintendimenti,
dalle cattive interpretazioni e dalle ingiuste
semplificazioni, cui stata assoggettata soprattutto nella mentalit illuministica, - alla cui
concezione della immortalit naturale essa non
sarebbe assolutamente riducibile, - resta pur
sempre gravosa l'incidenza del dualismo antropologico, che, impedendo una adeguata intelligenza dell'unit dell'uomo, compromette anche una genuina comprensione della morte.
Se tanta parte della tradizione cristiana ha subito r influenza del platonismo per gli aspetti
che riteniamo deteriori, la linea che potrebbe
congiungere idealmente Agostino, Hegel, Dilthey, Heidegger ed altri ancora, non ha mancato di rendere feconde alcune intuizioni platoniche, sopra richiamate. Citiamo solo due formule, forse le meno note: Agostino Si ex illo
quisque incipit mori, hoc est esse in morte ex
quo in ilio agi coeperit ipsa mors, id est vitae
detractio ... profecto ex quo esse incipit in hoc
corpore, in morte est (S. AGOSTINO,
De Civitate Dei, I 3, IO); e Dilthey: Il rapporto che
caratterizza in modo pi profondo e generale il
senso del nostro essere, quello della vita con
la morte, perch la limitazione della nostra esistenza mediante la morte decisiva per la
comprensione e la valutazione della vita
(DILTHEY,

Das Erlebnis und die Dichtung,Stutt-

gart 19055; p. 2 3o). Sono chiare testimonianze di un indirizzo di pensiero nel quale la
morte assume tutto il suo peso di dimensione
essenziale all'intera esistenza e che nel pensiero
di Scheler, Heidegger, Jaspers giunger alla
sua pi avanzata maturazione.

111/ L'ANTICO TESTAMENTO


Gli aspetti molteplici sotto i quali si vive ordinariamente l'esperienza della morte sono largamente testimoniati dall'A T: la coscienza della
~nevitabilit della morte, come sorte comune a
tutti gli uomini (( la via di tutta la terra [I
Re 2, 2]), alla quale pi spesso l'uomo si ribella, sentendola come ci che amareggia l'intera
sua vita (2 Re 2 o, 2); che talvolta, invece. invoca come prospettiva pi desiderabile della
miseria e della sofferenza imposta dalla esistenza (Sir 41, I; Gb 6, 9; 7, 15). L'AT conosce
la morte serena dei patriarchi sazi di giorni
(Gn 25. 7; 35, 29); la morte tragica. la morte
misteriosa (Mos, Elia, Enoch). Il sentimento
dominante di fronte alla morte una malinco-

MORTE

nia profonda, alla quale corrisponde il senso di


fragilit, di inconsistenza, di assoluta precarier dell'esistenza: tanto pi struggente quanto pi radicalmente opposta all'ardente desiderio ed alla aspirazione ad una vita ricca, piena:
chiare espressioni se ne hanno nella vanit delle vanit di Qo 3; nelle immagini dell'esistenza come erba che l'resto inaridisce (Is 40, 6;
Sal 13, 1 5; 90, 5); in una rassegnazione alla
morte, priva di ogni illusione (2 Sam I 2, Z 3 ;
14, ] 4)

Ma la vera sapienza sa andar oltre, ed accetta


la morte come un decreto divino (Sir 4 I, 4),
come data da Dio'(z Sam 12,15-24; Sal
39, 14; 90, IO).
La coscienza biblica non si limita per a questo: il rapporto della morte con Dio e con il
Dio della rivelazione e della promessa, diventa
l'elemento decisivo nella interpretazione che
via via si svilupper e nella quale la fiducia nel
Dio, che signore anche della morte, s'esprimer nella credenza della risurrezione o della
immortalit, e giunger, nel NT, ad una piena
maturazione cristologica.
In questa linea l'elemento primo rappresentato dalla connessione tra morte e peccato. Originariamente l'idea della connessione sorge e si
pone nell'ambito dell'esperienza e della struttura giuridica, l dove si condanna a morte colui
che s' reso colpevole di gravi infrazioni, l'ingiusto, l'empio. L'interpretazione della morte,
in generale, come pena del peccato non solo
estende l'idea originaria, ma la approfondisce,
ponendo in luce, con la opposizione tra il peccato e Dio, la negativit che esso viene a rappresentare per l'uomo stesso che pecca, il quale
ne ha in contropartita la morte (Pro l l, 19;
cfr. 7, 27; 9, 18; Is 5, 14)
Angoscioso problema per quello che sorge
di fronte alla morte di chi non pu essere accusato di colpa personale, e pi ancora di chi riconosciuto giusto (Gb 9, 22; Qo 7, I 5; Sal
49, I I). Il libro di Giobbe, che esplicitamente
pone la questione, non pu che indicarne la soluzione nel mistero trascendente di Dio: l'uomo non pu che tacere (Gb 40, I; 42, I).
La figura del Servo di Dio sofferente introduce per una nuova prospettiva che, se mostrer
scarsa fecondit nell'ambito dell'AT, si far luminosa nella interpretazione della morte di
Ges: Dio che pu salvare, e salva talvolta da
morte, non salver il suo Servo; ma la morte
che questi dovr soffrire non solo ripeter la figura della sofferenza del giusto causata dagli
ingiusti, ma avr valore espiatorio per molti
(Is 5 3)'

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In questo vasto contesto veterotestamentario,
vita e morte non sono considerate come grandezze astratte, ma come due ambiti di realt,
due forze decisive nella vicenda dell'uomo e
dell' universo intero. Dietro ad esse, alla morte
non meno che alla vita, sta per Jahv, che le
domina: anche la morte opera dove e come
Jahv permette e vuole.
Il regno dei morti, lo sceol, non presenta tratti
assolutamente caratterizzanti rispetto alle rappresentazioni antiche pi largamente diffuse.
Ma l'AT sottolinea, oltre alla particolare intonazione teologica, che ogni diminuzione della
vita dice un irrompere dello sceol nel mondo:
cos accade nella malattia (Sal 13, 22; 3 o;
88), nella prigionia (Sal 142; 143), nella inimicizia (Sal 18; 144), in generale nella infelicit, nella miseria, nella fame, in tutte le forme
dell'indigenza. Lo sceol il regno dell'oblio,
della tenebra, dell' orrore: le determinazioni
negative si moltiplicano. Ma soprattutto -
appunto l'aspetto teologico - il regno della
lontananza da J ahv: l si spegne la lode di
Jahv (Sal 6,6.8;
30,10; 88,6.11-13;
I I 5, I 7) Re dello sceol (Am 9, 2; Sal
139, 8), come della morte, non ha per comunione con i morti: i morti pi non ricorda
(88, 6).
In questo quadro va intesa la morte come sorgente di impurit cultuale; anzi ogni impurit
non che un'anticipazione dell'impurit della
morte (cfr. G. VON RAD, Theologie des A.T.,
vol. 1, p. 276).
Ma pi forte che la convinzione di questa forza distruggente della morte la fede in J ahv e
nella sua promessa, che resiste anche ad una
contestazione che si presenta con siffatta radicalit: di qui, se pur nel giudaismo tardivo, s' apriranno nuove vie di soluzione che influiranno potentemente anche sul NT.

IV /

NUOVO TESTAMENTO

Il NT si rif esplicitamente all'A'I', mediato


per dalla visione apocalittica del tardo giudaismo, secondo la quale la morte, almeno per
una parte del popolo, sar superata grazie alla
risurrezione, ed all'irrompere del nuovo eone.
La morte terrena, quando non sia seguita dalla
morte seconda (Ap 2, II; 20,6. 14; 21,8),
non pi la morte semplicemente.
N aturalmente nel NT r elemento decisivo riconosciuto nell'avvenimento di Cristo e nella
fede in lui che, avendo sofferto la morte, l'ha
superata e vinta nella risurrezione. Il nuovo eo-

593
ne assume perci, nella predicazione del regno
di Dio quale risuona nella comunit cristiana,
tratti decisamente cristocentrici e cristologici.
Parallela modificazione esperimenta il senso
cristiano della vita e della morte. In Giovanni
specialmente assume spiccato rilievo la solidariet della fede con la vita, in antitesi all'altra
connessione tra incredulit e morte: al punto
da rendere la morte terrena pressoch insignificante per colui che crede.
Profondamente innestato nelle prospettive della sua antropologia, il tema della morte occupa
una posizione centrale nel pensiero di Paolo,
all'interno del quale ci pare raggiunga anche
particolare ricchezza ed organicit di sviluppo.
Morte e vita rappresentano, infatti, le possibilit antitetiche che all'uomo si aprono. La formulazione di questa antitesi, quale si presenta
in Paolo, vista dal Cerfaux come suggerita
dall'ambiente greco: ((Passi come I Cor
3, 22-23; Rm 8, 38, confrontati con la letteratura della diatriba stoica, mostrano con evidenza che Paolo ha subito l'influsso della letteratura greca contemporanea) (L. CERFAUX,Le
Cbrist (fans la thologie de Sant Paul, p. 90).
Tuttavia il carattere retorico dell'antitesi n
annulla n sminuisce il suo significato teologico. Piuttosto dobbiamo guardarci dal pericolo
sempre ricorrente di un'interpretazione anacronistica e modernizzante di Paolo. Il significato
di accadimento naturale, di necessit biologica, che nella nostra mentalit attribuito alla
morte, insieme con l'interpretazione della morte in una struttura concettuale di derivazione
dalla dottrina dualistica del platonismo, minaccia la possibilit di una precisa intelligenza
9ella concezione paolina.
E possibile raccogliere attorno al termine tbanatos, in Paolo, una serie di passi capaci di delineare, in un quadro sufficientemente unitario,
la storia intera della salvezza. Il suo inizio infatti la colpa del primo uomo, il padre del genere umano, per il quale il peccato entrato
nel mondo, e con il peccato la morte (Rm
5, I 2. I 7; I Cor I 5, 2 I). Da allora tutti gli
uomini peccarono (Rm 5, I 2) ed in Adamo
muoiono (I Cor I 5, 2 2), cosicch da allora la
morte regna sul mondo.
Simili affermazioni non possono non suonare
estranee alla nostra mentalit corrente, abituata a riconoscere nella morte una necessit naturale e propensa, tutt'al pi, a ricercare quali
possano essere i fondamenti di questa necessit. Ma Paolo si muove in altra direzione;
non manca, vero, in lui un riferimento al mito dell'uomo originario (Urmens,ch) da lui rico-

MORTE

nosciuto in Adamo, che introduce un'umanit


gravata dal male, al quale corrisponde e si oppone in Cristo il secondo Adamo, capostipite
di un'umanit nuova.
presente, ancora, l'indicazione di una certa
naturalezza e necessit della morte, come riconoscibile nell'indicazione di I Cor I 5, 2 I
55., secondo la quale Adamo fu creato solo come anima vivente in opposizione a Cristo, visto come spirito vivificante. Ma l'uno e l'altro
di tali elementi non attenuano minimamente la
concezione del peccato, come atto responsabile
dell'uomo, e della morte, come conseguenza
del peccato. L'indicare, dunque, come talvolta
accade, l'una come necessit naturale ed ambedue come potenze cosmiche va inteso come riferimento ad un'implicita distinzione paolina
tra il semplice decedere e r abissale profondit
della morte; ed ancora va visto - ci pare come testimonianza del fatto che la morte, impegnando la totalit dell'uomo, affonda le sue
radici nella situazione che, a partire dal piano
fisico-biologico, condiziona l essere dell'uomo
sino a definirsi in quel livello superiore della
vita spirituale, nel quale, liberamente determinandosi, l'uomo configura il suo rapporto con
Dio.
In questo quadro si comprende la solidariet
che Paolo sottolinea insistentemente tra peccato e morte. Ci che conferisce forza al potere
della morte il peccato: ((il pungiglione della
morte (I Cor I 5, 56); la morte il suo frutto, il suo termine, il suo salario (Rm
6, 6. 2 I. 23)' Complice del peccato la concupiscenza (Rm 7, 7), dalla quale il peccato
nasce. La carne, che dalla presenza del peccato
definita, ne diventa pure principio: suo desiderio la morte, per la morte fruttifica (Rm
7,5; 8, 6), per questo il nostro corpo diventato corpo di morte (Rm 7, 24). Anche la legge indicata da Paolo quale potenza del peccato; quella legge che di fatto divenuta operatrice della morte, dal momento che ((la sua
lettera uccide (2 Cor 3, 6). La sua funzione
divenuta ministero di morte. Questa non era la
sua destinazione originaria; essa ha rappresentato un tentativo di opposizione al peccato e
alla morte, ma il peccato stato pi forte: esso
ha preso occasione dalla legge per sedurci e
procurarci pi sicuramente la morte (Rm 7. 7I 3)' La legge, da parte sua, offrendo la conoscenza del peccato (Rm 3. 2 o), senza per apportare la forza per superarlo, condannando
inoltre il peccatore in modo esplicito a morte
(Rm 5, 13 ss.], diventata la forza del peccato.

MORTE

Quali possibilit ha, allora, l'uomo di uscire


dalla sua tragica condizione di abbandono al
peccato e alla morte? Le Scritture danno all'umanit una speranza di salvezza che si concretizza in Cristo. Egli, per liberarci dal potere
della morte, ha assunto la nostra condizione
mortale: nato sotto la legge (Gal 4,4), avendo preso una carne simile alla carne di peccato
(Rm 8, 3), solidale con il suo popolo e con
tutta la stirpe umana. La sua morte fu una
morte al peccato (Rm 6, IO), bench Egli fosse innocente, perch assunse sino alla fine la
condizione dei peccatori, gustando la morte
come essi tutti [cfr. I Ts 4, 14; Rm 8, 34).
Cristo morto non soltanto per il suo 'popolo,
ma per tutti gli uomini (2 Cor 5, 14). E morto
per noi (1 Ts 5, 10), mentre eravamo feccatori (Rm 5, 6 ss.}, dandoci in tal modo i segno supremo di amore suo e di Dio. Cristo ha
liberato gli uomini da quella legge del peccato
e della morte di cui fino allora erano schiavi
(Rm 8, 2) e alla fine dei tempi, nella risurrezione, la morte, l'ultimo nemico sar distrutta
per sempre, ingoiata nella vittoria (I Cor
15,26. 54 ss.).
((Paolo non spiega la morte come un fenomeno, che si dispieghi alla superficie della nostra
esistenza umana. La morte ci tocca. Come siamo completamente peccatori, cos moriamo
completamente. La morte non il passaggio
dell'anima attraverso una porta oscura. Essa ci
annienta, ma coloro che sono morti con Cristo
vengono risvegliati alla vita eterna. La sp_eranza nella vita fondata esclusivamente sull'atto
salvifico, non su una dottrina delI'anima o del
ritmo della morte e della vita della natura. Noi ..
abbiamo la certezza che la vita non solo posta nel futuro, ma che essa con noi in sovrabbondanza,
nello
Spirito,
come libert
- sotto forma di speranza di fronte alla thlipsis
- non ancora SOtto forma di risurrezione e di
doxa (Gal 2, 19 s.). La realt della vita futura,
gi presente in questo mondo, viene percepita
paradossalmente sotto forma di sofferenza nel
compiersi della nostra morte quotidiana (2
Cor 6,9; Rm 8, 36; 2 Cor 4,10-12). Questa sofferenza dimostra la verit della speranza
(Rm 5, 2 55.)) (H. CONZELMANN, Teologia del

NT, p. 352).
Cristo, dunque, il nuovo Adamo (I Cor
15,45; Rm 5,14). il nuovo capo dell'umanit. Per questo, se egli morto per noi, noi
tutti siamo morti (2 Cor 5, 14). Tutta via bisogna che questa morte diventi una realt effettiva per ciascun uomo: il senso del battesimo.
Moriamo al peccato (Rm 6, I I), all'uomo

594
vecchio (6, 6), al corpo (6,6; 8, IO), alla legge (Gal 2, 19); la morte con Cristo in re alci
una morte alla morte. Quando eravamo prigionieri del peccato allora eravamo morti, or..
siamo dei viventi da morte (Rm 6, I 3). Ma la
nostra unione con Cristo, realizzata sacrarnentalmente nel battesimo, deve ancora essere attualizzata nella nostra vita quotidiana facendo
morire in noi le opere del corpo (Rm 8, 13)'
La morte ha mutato senso dopo che Cristo ne
ha fatto uno strumento di salvezza. Se l'Apostolo di Cristo appare agli uomini come tu:
morente (2 Cor 6, 6; Fil I, 20; cfr. 2 Co;
I, 9 SS.; I I, 2 3; I Cor I 5, 3 I ), ci non costituisce pi un segno di sconfitta: egli porta in s
la mortalit di Cristo, affinch la vita di Ges
si manifesti pure nel suo corpo (2 Cor 4, IO
ss.).
Cos la morte corporale assume un nuovo significato: non pi un destino inevitabile, una
condanna per i peccati; il cristiano muore per
il Signore come ha vissuto per Lui (Rm 14, 7
ss.; Fil I, 20). Perci per il cristiano morire .
in definitiva, un guadagno, perch Cristo la
sua vita (Fil I, 2 I). La condizione presente.
che lo lega al suo corpo mortale, per lui opprimente: Paolo preferirebbe lasciarla per andare a dimorare presso il Signore (2 Cor
5, 8); ha fretta di indossare la veste di gloria
dei risorti, affinch ci che c' in lui di mortale
sia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 1-4; cfr. I
Cor I 5, 5 1-5 3)' Desidera andarsene per essere con Cristo (Fil I, 2 3)' Ma questo essere
con Cristo, non annullato dalla morte, rappresenta 1'autentico valore.

VI
TE

L'ESPERIENZA

DELLA MOR

La storia delle interpretazioni della morte testimonia nella maniera pi convincente il peso
decisivo che esse hanno sulla determinazione
del senso della vita; addirittura non pare esagerato affermare che la morte decide del seriso
della vita e del suo valore. Riconoscere nella
morte la fine dell'uomo sembra condannare la
vita ad una radicale insignificanza: tutti gli
sforzi intesi a valorizzare la vita come valore
oggettivo appaiono infatti, con grande facilit,
non solo destinati al fallimento, ma ancora come forme evasive ed alienanti. Si tratterebbe
allora di prendere atto, con lucida veracit,
della ,insuperabile assurdit dell'essere dell'uomo. E la tesi del Sartre esistenzialista, per il
quale {(1'uomo l, stupidamente l, per nien-

595
te e ogni esistente nasce senza ragione; si
protrae per debolezza e muore per combinazione n (J.- P. SARTRE,La nausea, p. 191).
Molteplici sono le vie tramite le quali l'uomo
cerca di evitare cos nichilisticaconclusione: richiamandosi alla immortalit, o almeno a qualche forma di permanenza nel ricordo, nelle
opere, nel processo vitale della specie che continua; oppure giungendo ad affermare una forma di permanenza personale, sino al punto
che, nel mondo sia pagano che cristiano, s'
proposta l'ipotesi che proprio nella morte l'uomo raggiunga la sua pienezza. L'ipotesi teologica detta della cc decisione ne oggi rinnovata espressione: {(nella morte si apre per l'uomo
la possibilit per il suo primo atto pienamente
personale; essa costituisce quindi il luogo veramente privilegiato del divenire della coscienza,
della libert, dell'incontro con Dio e della decisione del suo destino eterno (L. BOROS,
Mysterium mortis, p. 30).
In realt il confronto con la morte necessario; gi 1'esprimevala splendida formula di Seneca vivere tota vita discendum est et, quod
magis fortasse miraberis, tota vita discendum
est mori (SENECA,
De brevitate uae, VII, 3)..
Ma come posso confrontarmi con la morte,
dove la colgo? Ne conosco aspetti esteriori;
oppure momenti preliminari, che per di pi
sfuggono, ben spesso, alla coscienza riflessa,
obnubilata o spenta affatto dalla sofferenza e
dai farmaci con i quali si vuol lenirla. Non
certo colui che sorge da situazioni che l'hanno
condotto ai limiti estremi della vita pi qualificato di altri ad offrirei una chiara intelligenza
della morte. Tutto quello che pu proporsi come oggetto di osservazione empiricoscientifica non permette di identificare il tempo, il momento della morte, nonch la sua natura; quello che il biologo od il fisiologo intendono come morte, non coincide con quello che
intendono il filosofo ed il teologo. Quello che
nuove acquisizioni scientifiche o nuove esperienze hanno reso possibile, ad es. in fatto di
rianimazione, ha piuttosto complicato che risolto il problema dello stabilire che cosa sia la
morte.
La morte un momento limite, non assimilabile ad altri momenti della esistenza, che pur ne
condizionano la comprensibilit, e sui quali, a
sua volta, proprio in quanto limite, proietta la
sua ombra. Propriamente non posso esperimentare la morte sin che son vivo: posso esperimentare gli stadi di una evoluzioneche inevitabilmente conduce alla morte, posso esperimentarne le sofferenze preliminari, la stessa

MORTE

agonia; posso soggiacere al venir meno delle


cose; posso soffrire il distacco dilacerante della
persona pi cara. N eppure la mia morte esperienza della morte, se ci atteniamo al senso rigoroso di esperienza come vissuto intramondano. La morte infatti mi pone in una situazione
non pi inquadrabile nelle categorie della vita,
dell'esistenza empirica. In questo senso vale
davvero la massima di Epicuro sopra ricordata. Di qui acquista verit l'affermazione che
dalla morte non v' ritorno.
Ma sembra tendenza costante dell'uomo non
solo lo sfuggire la morte, bens anche robliarne o snaturarne la problematicit. Queste stesse formule, che affermano la morte come semplice fine dell'uomo, ci pare muovano in tal
senso, assumendo la fine, categoria dell'al di
qua, come categoria assoluta; cos come elusive - gi r abbiamo indicato - ci sembrano le
soluzioni fondate su un dualismo platonizzante.
Il dichiarare la morte situazione limite comporta anche che essa limite per la nostra intelligenza, i cui concetti sono misurati su esperienze intramondane. Una realt siffatta ci impone perci un interrogativo, un interrogativo
radicale, assoluto, del quale la vita, l'umana
esistenza condizione di possibilit, posizione
necessaria,ed insieme impossibilit di risposta:
impossibilit non forzata dalla contradditoria
molteplicit di soluzioni: troppo spesso paghe
della evocazione di fantasmi, o, di contro, inclini ad attribuire ai fantasmi che l'accompagnano la problematicit della morte, quasi che
una purificazione da quelli potesse risultare anche liberazione da questa.
In realt dalla morte e non dalle sue figure accidentali, sorge il sempiternus horror, radice di
ogni altro modo dell'orrore: l'orrore del non
essere, colto nella radicale negativit della privazione. Non l'assenza, ma il vuoto, il baratro,
l'abisso infinito. Di fronte al quale non sta
semplicemente,altro e diverso, il pieno, l'essere; piuttosto sembra che da quello si levi una.
nube che tutto intossica, un filtro che tutto ammorba e corrode, rendendolo vano e insignificante.

LA MORTE COME COMPIMENTO

VII

Quello che separa con un segno netto e profondo la morte dell'uomo da un qualsiasi finire, la consapevolezza che l'uomo ha del suo
essere per la morte: consapevolezza che pu

MORTE

assumere le pi diverse figure e sempre si presenta con intonazioni singolari, ma che nella
sua struttura soggiace a tutte le scelte ed agli
orientamenti autenticamente umani: ora appare come speranza o timore, ora come sereno
andare incontro o fuga, altra volta come ricerca di razionale chiarezza o di oblio. La comprensione della esistenza come possibilit intrinsecamente legata al senso della morte; e
mette in luce la contraddizione, nella quale
l'uomo si dilacera tra la inarrestabilit del procedere in tutto il suo essere verso la morte - la
naturalezza della morte - ed il non meno radicato rifiuto che oppone alla morte con tutto il
suo essere; tra la casualit continuamente esperita del vivere e del sopravvivere, ed il senso
della possibilit dell'esistenza come trascendimento di questa casualit.
Al fondo la contraddizione gi sopra dichiarata tra l'essere e il non essere, per la quale il
non essere appare come raccapricciante ed angoscioso, perch non gi il niente, ma il nulla
che insidia l'essere, insidendo in esso, che pur
s'afferma in una apertura progettante. Il non
essere si pone perci come ostacolo, come contraddizione alla radicale volont di vivere, di
essere, dell'essere che vuoi essere, che volont di potenza.
La rassegnazione non impossibile, ma solo
come affermazione dell'esigenza suprema dell'essere, non della sua negazione. Ed in questa
stessa linea anche inquadrabile la gi accennata teoria della morte come decisione o come
compimento. La enuncia chiaramente K. Rahner: Se l'asserzione che la morte per sua natura il compimento personale di s, la "propria
morte" ha ragione di sussistere, allora la morte
non pu essere soltanto un incidente che viene
accettato passivamente (sebbene sia evidentemente anche questo), un evento biologico di
fronte al quale l'uomo come persona si trova
inerme ed estraneo, ma pure da intendere come atto dell'uomo dall'interno e, beninteso,
non soltanto una presa di posizione dell'uomo
nei suoi confronti, che rimanga fuori di essa.
Ed ancora: La morte deve essere dunque
queste due cose: la fine dell'uomo come persona spirituale e attivo compimento dall'interno,
un attivo portarsi-a-compimento, generazione
crescente e comprovante il risultato della vita e
totale prendersi-in-possesso della persona, un
aver-realizzato-se-stessi e pienezza della realt
personale attuata liberamente. E la morte dell'uomo come fine della vita biologica allo
stesso tempo e in maniera indissolubile e riguardante tutto l'uomo, rottura dall'esterno,

596
cos che la "propria morte" dall'interno amaverso ratto della persona stessa al tempo
stesso l' evento del pi radicale depotenziamento dell'uomo, azione e passione in uno. Data
l'unit sostanziale dell'uomo, sempre che sia
presa veramente sul serio, non possibile assegnare semplicemente ciascuna di queste due
parti dell'unica morte all'anima e al corpo ddl'uomo, e cos scomporre la vera e propria essenza della morte umana (K. RAHNER, Sulla
teologia della morte, pp. 29-30).
Sarebbe azzardato affermare da un punto di
vista della ragione naturale la realt effettuale
della morte come compimento; potremmo forse riconoscere il profilarsi di siffatta possibilit..
o addirittura di esigenza, nella constatazione
che tutto quello che di volta in volta s' raggiunto o realizzato gi in qualche modo a noi
sottratto, irrigidito, cristallizzato, e solo pu
valere come momento di un processo sempre
progrediente. Ma anche questo abbisogna di
precise chiarificazioni e solleva gravi difficolt.
In ogni caso l'aspetto primo della morte - e
fenomenicamente rilevante - il venir meno.
il cessare, il non essere pi, la fine. Pu presentarsi nella teoria della decisione un sottile paralogisma quando si salti, senza mediazioni, dalla incornpiutezza del dinamismo spirituale e
delle sue realizzazioni, insuperabile nei limiti
della esperienza terrena, alla affermazione di
un compimento raggiunto nella morte. Una simile illazione o postulazione dovrebbe essere
ben fondata. Perch il compimento piuttosto
che la fine completa? Il dato fenomenico della
fine non pu essere semplicemente disatteso. E
senza un preciso riferimento alla fenomenicit
della morte non possono neppure venir elaborate quelle che, a partire da una fenomenologia
dell'uomo, possono essere indicate come propr~et d~llo spirito (immortalit, indistruttibilit, SUSSIstenza,ecc.).
L'origine del problema evidente: posto che
la morte sia considerata come avvenimento
che interessa tutto l'uomo, essa va vista nel suo
momento di determinazione, come fatto naturale, e nel suo momento umano, di libert. Si
fa allora chiara l'alternativa: sar il momento
naturale quello che prevarr, alla fine, sulla veloce e fuggitiva meteora della libert, quale
momento specificamente umano? Oppure sar
la natura quella che verr assunta nella libert?
Le indicazioni bibliche che abbiamo in precedenza esposto oppongono, ovvio, un chiaro
rifiuto alla prima ipotesi, anche se non permettono di accogliere senza precisazioni la seconda. Rahner ci ricorda che nella dottrina della

597
chiesa i due momenti sopra indicati sono compresi rispettivamente nelle diciture della morte
come ((separazione dell' anima dal corpo e
dine dello status oiae (a.c., p. 15). In ogni caso, se la natura nella morte assunta nella libert, diventa decisivo, sul dover morire, il
voler morire n. Ma come pu essere intesa
questa affermazione? Insistiamo ancora: il duplice aspetto della morte non pu far dimenticare, con la necessit, la casualit del dover
morire, che non coincide senz'altro con la
maturazione del voler morire. Il vangelo
stesso testimonia che la morte viene sempre
cc tamquam fur et latro; e se, come vedremo,
la morte mette in gioco anche 1'abbandono da
parte di Dio, essa non pu semplicemente rappresentare un acquistarsi e possedersi, ma ~ necessariamente un perdersi; ed anche il suo insistito legame con il peccato non permette di
comprenderla senz'altro come compimento.
Ci pare si presenti una linea interpretativa nella direzione della opzione fondamentale dell'uomo per Dio o contro Dio. Potrebbe essere
fecondo istituire un rapporto esplicito tra la
struttura formale della opzione fondamentale
ed il carattere trascendentale della morte: ma
ora ci impossibile.
Positivo risultato della riflessione svolta in
questo paragrafo sarebbe gi 1'aver sufficientemente chiarito che il discorso della morte come compimento, dal punto di vista filosofico,
dice la seria ipotizzabilit di due ipotesi fondamentali di interpretazione della morte: 1'una
nella direzione della morte come pienezza, 1'altra invece come kenosi radicale. Ma cosa pu
inclinarci o deciderci per l'una o per l'altra?

VIII INTERPRETAZIONE
TRASCENDENTALE DELLA MORTE
Prima di tentare una qualsiasi risposta a quest'ultima domanda per necessario soffermarci ancora sulla sua premessa, che direttamente propone il tema di una ontologia della
morte. Che cosa con questa s'intenda detto
chiaramente da Rahner: N ella morte come
avvenimento concreto nel singolo uomo, per il
quale essa decisamente bene o male, ci deve
essere ancora qualcosa di comune, qualcosa di
ancora neutrale che permetta di dire che tutti
gli uomini in senso vero (anche se ci non
esaurisce l'intero avvenimento della morte)
muoiono della stessa morte, cosicch rimane
velato di che morte in realt il singolo uomo
muoia, se di quella di Adamo o di quella di

MORTE

Cristo. Partendo di qui, dunque, la teologia


stessa esige un'ontologia della morte, per
quanto poco, dal motivo accennato, la morte
esperimentata realmente possa venir identificata in partenza in modo ingenuo col postulato
carattere naturale della morte (o.c., p. 35).
Ma un'ontologia della morte pu essere svolta
solo nel quadro di una antropologia ontologica, ed in particolare in connessione con il tema
delia corporeit, della quale essa rappresenta
un elemento cruciale e definitore (cfr. G. BOF,

Una antropologia cristiana nelle lettere di S. Paolo, pp. 77 ss.). N ella morte cessa, anzitutto, la
fenomenicit dell'uomo. L'aspetto primo e pi
immediato con il quale la morte si presenta
quello del sottrarre l'uomo dall'ambito nel
quale egli inserito insieme con tutti gli enti
intramondani: sottrarre che impossibilit di
rinvenimento tra di essi, pi ancora chiusura
di ogni possibilit di ulteriore determinazione
dell'ordine, dell'orientamento, del significato
degli enti intramondani: siffatto rapporto infatti caratterizzante della corporeit e della
mondanit deli' uomo. E forse necessario affermare che la morte rappresenta la fine di questa
corporeit e mondanit?
Ma un secondo non meno rilevante momento
della corporeit rappresentato dal suo essere
fondamento del rapporto interpersonale. Anche per questo aspetto la morte rappresenta
motivo di crisi. Come possibile tessere nuove
trame di umani rapporti, come possibile il
perdurare di quelli gi costituiti, quando venga
meno quell'empiricit dell'uomo, che di ogni
rapporto rappresenta il presupposto?
Il rapporto con Dio, anch'esso mediato dalla
corporeit, dovrebbe diventare terzo essenziale
tema ii quest'ordine di considerazioni.
L'ontologia della morte che in tal modo s'
andata profilando ha chiaramente carattere di
ontologia trascendentale. Ora chiaro che una
riflessione trascendentale sulla morte, posto
che non Eossa esercitarsi sull' esperienza dell'istante della propria morte, e tanto meno sulla
contemplazione del cadavere, possibile solo
se la morte non ci sorprende semplicemente,
ma rappresenta una dimensione della vita, potremmo dire una sua struttura. Questo comporta la presenza della morte in ogni momento
della vita, in ogni espressione vitale; ma non
esclude, d'altro canto, che alcuni momenti ne
permettano una migliore trasparenza, facendone emergere i tratti ~i tipici, cos che se ne
possa istituire una piu attenta disamina. Possiamo addurre, nel quadro delle esperienza pi
tipiche, e al fine indicato pi feconde, quelle

MORTE

gliamo ora solo esplicitare alcuni nessi della


comprensione della morte con altri temi antropologici, attraverso i quali sar anche]ossibile
intravvedere, in forma pi esplicita, . tipo di
risposta alla problematica che nei paragrafi
precedenti abbiamo visto addensarsi attorno
alla morte. Otterremo cos anche un altro risultato: quello di offrire quasi una esemplificazione del tipo di rapporto che riconosciamo tra riflessione filosofica e i dati di fede: il rapporto,
cio, tra un interrogativo proposto a livello
ontologico, ed una risposta in termini onrici:
riconoscendo alla teologia il compito di mediar:_equesto rapporto.
E evidente che, per Paolo, il destino dell'uomo
non si conchiude nei limiti dell' esistenza terrena, ma si proietta, al di l della morte, in una
nuova forma di vita, anzi nella vita autentica.
La morte il momento limite, che separa ed
unisce insieme le due figure fondamentali dell'esistenza umana, quella terrena e quella ultraterrena.
Ma la morte nella prospettiva dell'antropologia paolina non pu essere intesa, platonicamente, come separazione dell'anima dal corpo:
comprometterebbe l'unit che Paolo riconosce
n elI' uomo, e la dialetticit radicale che conferisce alla morte un carattere paradossale: il saper
morire, nel quale lo stoico realizza, con il soggiacervi, il supremo superamento della necessit; la celebrazione della propria personalit
nel conternncre mortern, non sono affari di
Paolo.
Egli vede la morte legata anzitutto alla vicenda di perdizione o di salvezza del mondo: appare con la colpa del primo Adamo ed superata dalla morte di Cristo; ed , insieme, una
realt che, definendo l'uomo come tale, si pone
in qualche modo ad un livello precedente a
quello sul quale l'uomo si definisce come unito
o separato da Cristo. Essa rappresenta la fine
dell'uomo, del quale sconvolge ed annienta resistenza; addirittura: l'uomo non redento ha la
morte come suo fine (Fil 3, 19). Ma insieme
essa ha il positivo carattere del compimento,
per il quale Paolo pu ~esiderare di dissolversi
per essere con Cristo. E termine dell'orrore supremo e del desiderio; minaccia sempre incalzante, nemico che colpisce improvviso, e attivo compimento di s.
La concezione dell'unit dell'uomo che Paolo
esprime diventa per sorgente di difficolt nella rappresentazione di quel che avviene dell'uomo nella, e dopo la morte: Paolo stesso ha
esperimentato il disagio proveniente dalle categorie nelle quali interpretava la realt dell'uo-

600
mo, e che mal si prestavano ad una risposta del
tutto soddisfacente e capace di superare questo
aspetto della problematicit della morte. Per
questo egli ricorso a categorie di origine ed
impronta ellenistica, ed a figure come quelle
dell' abitazione e del vestito (2 Cor 5, I - I o ~
cfr. G. BOF, in: Dizionario teologico, voce
Immortalit). Ma non risulta meno evidente la
fedelt di Paolo all'indirizzo fondamentale
della sua concezione, secondo la quale la corporeit rappresenta un elemento essenziale dell'uomo, cosicch all'c(essere sovrarivestito (2
Cor 5,4) si volge la sua aspirazione, e nel raggiungimento del corpo della risurrezione si
compie la sua salvezza.
Acutamente K. Rahner propone, nella ricerca
di una interpretazione adeguata del pensiero di
Paolo sulla corporeit e sulla mondanit dell'uomo, una chiarificazione di quello che in lui
significhi il rapporto dell'uomo con i principi
del mondo di Gal 4, 3. 9. Ci pare prospettiva interessante, anche se possiamo ora solo richiamarla (cfr. K. RAHNER, Sulla teologia della
morte, pp. 19 ss.).
Inequivocabile la risposta di Paolo ad un altro problema posto dalla morte: quello dei
rapporti personali: coloro che sono morti non
sono affatto sottratti alla possibilit di relazioni tra di loro e con Cristo, e neppure con i viventi; e i viventi non sono esclusi dalla possibilit di incidere in qualche modo su di essi; basterebbe a confermarlo il riferimento al pur
oscuro battesimo per i defunti in I Cor
15, 29

XII LA MORTE ED IL RAPPORTO CON DIO


La gi sottolineata connessione che la Bibbia
pone tra morte e peccato ci dice che il senso
pi preciso e compiuto della morte attingibile
solo se questa vista nel quadro dei rapporti
tra l'uomo e Dio, come momento di questi
rapporti segnato di profonda ne~ativit; in
forma parallela e contrapposta, l essere con
Cristo che si realizza nella morte ne dice il momento di positivo rapporto con Dio. Ma questo secondo aspetto trova pi esplicita trattazione dove si parli della beatitudine dopo la
morte, e della risurrezione. Vogliamo perci
sostare ancora sul primo, negativo.
Vogliamo iniziare dal richiamo alla affermazione della universalit della morte, facilmente
rinvenibile nella scrittura e nella tradizione del-

601
la chiesa. Possiamo dire che la sua portata dogmatica pu essere limitata alla universalit
della morte come fatto biologico o fisico? Da
quanto abbiamo detto ci pare soluzione almeno improbabile. Addirittura ci pare possa legittimamente esser messo in dubbio se l'affermazione comporti necessariamente la morte fisica.
Si potrebbe allora proporre questa ipotesi di
interpretazione: la affermazione della universalit della morte dice la universalit di un' esperienza di separazione da Dio, dunque di morte
come espressione, frutto e compimento del
peccato. Che la morte sia essenzialmente connessa alla separazione da Dio, alla opposizione
a Dio, altro non che la ripetizione della sua
dipendenza dal peccato. Ma l'ipotesi esclude
che la morte sia una semplice estrinseca conseguenza del pe~~ato, la quale si con~umi nella
natura, o addirittura nel corpo dell uomo. Al
contrario, essa , in tutta la sua consistenza
reale, espressione del distacco e della distanza
da Dio. La morte un perdersi, perch un
perdere il rapporto con la vita e con la sua sorgente; l'inferno, nella misura suprema secondo la quale sofferto da tutti gli uomini, anche
dal giusto, anche da Ges che, condannato sulla croce come maledetto, ha espresso la suprema angoscia del suo spirito nel grido: ((perch
mi hai abbandonato? l).
Allora si comprenderebbe anche meglio r angoscia della vita, e quella pi violenta e ineluttabile di fronte alla lucidit spettrale della
morte. Certo questo non traspare molto nella
incoscienza nella quale la sofferenza, da un lato, la nostra formazione culturale ed il moderno assetto clinico ed ospedaliero, dall'altro, celano e violano la tragicit della morte, ed il
suo mistero, sottraendola alla possibilit di una
pur relativa esperienza, che altre epoche ed altre culture sembrano aver avuto pi accessibile.
Ma se ancora in qualche misura la morte pu
essere colta e vissuta come separazione dalla
vita e dalla sua trascendente fonte, allora nella
abissale profondit di questa esperienza si intravvede anche il nesso tra morte, peccato,
dannazione.
N e verrebbe allora un' altra conseguenza alla
tesi della morte come compimento. Sarebbe
impossibile identificare con esso la morte reale
concreta: il compimento potrebbe solo significare una possibilit trascendentale, definitivamente negata, come attuazione positiva, dal
dominio, sul piano antico, del peccato e delle
conseguenze non annullate dalla redenzione. Il
peccato sarebbe allora anche la radicale incompiutezza dell'uomo, che trova nella morte il

MORTE

suo sigillo: come frutto del peccato la morte


la irrealizzabilit dell'uomo.
Tutto converge cos a mostrare nella morte il
momento supremo, nel quale viene alla luce, e
s'afferma, la contraddizione o la paradossalit
propria dell'uomo: nella sua costituzione antologica, nel suo dinamismo spirituale, nella sua
situazione storico-salvifica.

XIII

LA MORTE IN CRISTO

Lasceremmo monco e privo del suo fulcro il


discorso teologico sulla morte se non ne chiarissimo la dimensione cristologica. La morte
non riserva solo una nuova vita, per colui che
crede in Cristo, diversa da quella di chi non
crede: essa diversa, nel suo essere morte, per
chi crede: la morte nel Cristo, nel Signore.
Forse 1'espressione pi pertinente quella della
sacramentalit della morte. La tradizione
teologica ha costantemente dichiarato il rapporto dei sacramenti con la morte di Cristo: in
essi si celebra la memoria passionis l). La vita
cristiana partecipazione alla morte di Cristo:
ma potrebbe darsi un significato non figurato
dell espressione se la morte non fosse dimensione costante della vita di ognuno?
N on pare allora salto eccessivo concludere che
la morte in Cristo, come momento limite dell'esistenza cristiana, come momento limite della partecipazione alla morte di Cristo, realizza
quello che si anticipa e si significa nella realt
dei sacramenti. Non certo possibile nascondere sotto queste affermazioni la difficolt di
precisare ulteriormente che cosa implichi il carattere cristiano della morte, al di l del riferimento alle scelte cristiane dell'esistenza terrena, e della speranza per la vita futura. Ma tali
difficolt sono sufficienti a render vuota e vana raffermazione iniziale?
Certo che la visione teologica della morte
proietta lo 'sguardo meno nell'al di l che nell'al di qua, meno in quello che la misericordiosa benevolenza di Dio offre come speranza ultima per l'uomo, che sulle possibilit, gli impegni, le prospettive ed i valori che essa suscita
in questa vita.
Ed il primo annuncio che noi cogliamo che
l'uomo non pi solo, neppure nel momento
in cui sembra essersi lasciato dietro tutto e tutti, e da tutto e da tutti sembra irraggiungibile.
La morte in Cristo dice questa solidariet che
Cristo ha stabilito con l'uomo, e che nulla pu
infrangere. Di pi: i sacramenti della fede non
dicono la relazione dell'individuo con Cristo,

MORTE

ma annunciano un rapporto ecclesiale con


il Cristo, e dunque del singolo in una comunit.
Per questa via la salvezza investe la realt concreta e globale dell'uomo; e si realizza il valore
salvifico della morte di Cristo, in tutte le figure e le dimensioni di quella.
La sacra mentalit della morte cos intesa ci
rende comprensibile la vita come {(memoria
passionis. Non possiamo certo qui intravvedere altro e pi che una possibilit, che solo in
altro contesto teologico, e con il richiamo di
numerosi principi ed aspetti qui neppure nominati, dovrebbe ricevete la sua chiarificazione e
giustificazione. Si aprirebbe allora alla considerazione della morte anche l'orizzonte sociale e
politico, perch verrebbe problematizzata come forma di partecipazione alla morte di Cristo la fatica, la sofferenza e la lotta del povero,
del maledetto ancora appeso alla croce e
che vive questa maledizione come distacco o
ribellione alla chiesa, a Cristo, a Dio; e ancora
la sofferenza e la lotta di tutti gli oppressi in
cerca ed in attesa di giustizia, il travaglio di intere generazioni per le generazioni successive,
il loro morire per dar vita. Ci si potrebbe chiedere se la miseria, in quanto protesta e sospiro, non sia, pur irriflessamente, in forza della
o.ggettiva unione alla morte di Cristo, invocazione.
Ma intanto s' delineato un altro aspetto: il
senso totale della morte, come per noi raggiungibile, va inteso anche per le possibilit
che essa offre; qui, soprattutto, la coscienza biblica e la figura storica di Ges acquistano valore esemplare. La morte diventa stimolo al timor di Dio: al riconoscimento della sua trascendenza, della nostra relativit, del nostro
assoluto bisogno di Lui: la coscienza di s,
della propria creaturalit, come possesso di s
solo in un rinvio assoluto a Dio creatore. Se
mai una insufficienza antologica, la contingenza, pu essere fondamento e motivo della esigenza di Dio, questo appare radicalmente nella
morte: forse la verit pi profonda della formula che dichiara nella tomba la culla degli
dei. Pi profondo e pi vero certo l'illuminarsi, di fronte alla morte, della fede di molte
anime semplici. L'uomo si riconosce, cos,
mortale di fronte a Dio, che solo immortale
(I T m 6, I 6); gi n elI'AT l'accettazione della
morte dalle mani di Dio era un rendergli onore.
Ma la stessa precariet della vita, il pericolo
che essa venga improvvisamente interrotta, la
insuperabile accidentalit della morte come av-

602
venimento esteriore, vengono a costituirsi come elementi intrinsecamente qualificanti il
vangelo. Il figlio dell'uomo che viene come
fur et latro , la morte improvvisa, inevitabile, la costanza della sua minaccia, l'urgenza
della decisione, il camminare di fronte a Dio:
sono tutti momenti rilevanti dell' annuncio
evangelico, e sono legati alla morte, la quale
diventa per essi anche giudizio di Dio. Nell'affidarsi a questo giudizio sta la fede, che si pone
come affidamento radicale, soprattutto perch
condizionata dal venir meno, nella morte, di
tutte le assicurazioni mondane. E similmente
assumono la loro radicalit cristiana la speranza contro ogni speranza e l'amore che pu
giunger a sacrificare la vita in un'offerta che
dell'amore prova suprema.
Nella morte si esperimenta, dunque, per il suo
nesso con il peccato, il distacco da Dio ed insieme il distacco di Dio, il no del peccatore
detto a Dio che fonte di vita, il c( no di Dio
ad una vita che si ribella alla sua sorgente. Il
rapporto del peccato con la morte prima rapporto di senso che di causa. Ma nella prospettiva cristiana la morte diventa soprattutto il
luogo della grazia come liberazione dal peccato, come risurrezione dai morti: alla luce della
morte acquista la sua 'pienezza di senso l'annuncio del vangelo secondo il quale (c . non ci
sar pi la morte, n lutto, n lamento, n affanno, perch le cose di prima sono passate
(Ap 21,4).

BIBLIOGRAFIA
Ci limitiamo ad indicare le opere alle quali, in forma esplicita o implicita, ci siamo di fatto riferiti nel
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