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SIRACUSA,

terra amurusa
Vincitore del premio letterario Il templario a
Milano, 1971

Scritto da

Italo Genovese

2015

Siracusa, terra amurusa


La mia infanzia a Siracusa, dove son nato. Intatta, fresca, rimasta l e a me da
tanti anni ormai 'milanese' dolcissimo ne il rimasto il ricordo.
Allora, era una citt mite, Siracusa, met case arroccate in Ortigia e consumate dallo
scirocco, met case bianche sulle rocce bianche delle passeggiate a mare, delle zone
archeologiche. La citt moderna, vista dall'altura dell'Eurialo, la roccaforte di Dionigi il
Vecchio, si distende sullo Jonio come una perla al sole. Il suo retroterra, ricco dei monumenti
greci pi famosi di tutta la Sicilia, di una incomparabile bellezza; ed in questo suolo, che
vide tutto lo splendore della civilt ellenica e le vicende di un grande popolo sensibile ai
meravigliosi svilluppi di tutte le arti, restano ancora le testimonianze pi vive di una citt che,
per grandezza e potenza, non ebbe eguali nell'orbita di sviluppo economico e sociale del
Mediterraneo. Dopo Atene, Siracusa la testimonianza pi tangibile dell'eterna armonia
ellenica che, nella musica dei cantori e nei versi dei pi grandi tragici di Grecia, aleggia come
elemento a se stante di potenza e ci bellezza. I suoi moderni quartieri urbani si estendono
lungo tutta la zona d'oltre Ortigia, in una circonvallazione di viali e strade di nuova
costruzione.
Niente sembra cambiato. Il silenzio, il mare deserto, le piccole strade rettilinee che
sbucano da quel palcoscenico di palazzi e chiese e precipitano di colpo verso il mare, i cortili
estatici, disabitati, le porte e le finestre chiuse.
Vecchia, dolce Siracusa, terra amorosa, gremita di rovine preziose e di vecchi edifici
cadenti, morbida, silenziosa, bianca, malinconica, l'odore delle alghe fradicie dovunque, i
palazzi candidi, leggeri come la cartapesta, svuotati nelle fondamenta da milioni di grandi
scarafaggi rossi, il porto piccolo, verde e quieto, con l'erba nera che affiora dall'acqua e il
porto grande azzurro, deserto e immobile come un lago.
Le ore si trascorrevano vivendo a met il presente e l'antico, antichissimo passato

Italo Genovese

Siracusa, terra amurusa


ancora presente. I pomeriggi si passavano sulle banchine del lungomare, tra gli scogli, alla
ricerca dei granchi o alla Marina, in forsennate corse in bicicletta, o ai Calafatari, tra i
pescatori silenziosi con cui non scambiavamo mai una parola, mentre lavoravano a cucire le
reti, a metri, a chilometri, tra barche sconnesse.
In primavera, partivamo presto, nel pomeriggio, ritrovandoci dopo i richiami
convenuti e fischi sotto i balconi. Le bici erano il nostro trait'd'union: univano i gruppi e ci
portavano nel mondo. Un mondo fatto dei ruderi del Teatro greco, delle grotte delle Latomie,
delle coste scoscese della via Arsenale, su fino ai Cappuccini. In aprile gi faceva caldo e,
sui manubri, le mani sudavano. Pedalavamo ruota contro ruota e, nella sterzata finale,
saltavamo gi esausti, gettando i velocipedi nella cunetta fiorita di margheritine. Ci
arrampicavamo sulla piccola scarpata d'erba e ci buttavamo in mezzo agli alberi, rasenti al
fiume Anapo, dove a volte andavamo, fino ai papiri piumosi sull'acqua. E dopo un po', ancora
via, grondando sudore, al circuito, al Castello Eurialo, su fino all'Ostello della Giovent...
Se ripenso a Siracusa, risento ancora addosso quell'aria tanto carezzevole delle mie
lunghe soste al teatro antico, assiso sui gradini alti, levigati e corrosi insieme. Allora, a casa,
mi affrettavo sui compiti; inforcavo la bicicletta e, felice, arrancavo per le stradine grigie di
scirocco, sul ponte tutto bianco, sotto il quale si nascondevano le barche a imputridire le
chiglie.
Uscito dallo storico Palazzo Montalto, dove abitavo, imboccavo la stretta omonima via
che, brevissima, moriva in piazza Archimede. Poi, in sella, gi per la discesa di via Dione.
Quindi, rasentato il tempio d'Apollo, affrontavo di lena il Rettifilo che m'appariva, dopo
l'angustia delle stradine del centro, largo in modo smisurato. Laggi, in fondo, c'era la brusca
svolta e si rasentavano i villini, le case per gli impiegati, tutte eguali, anche nelle siepi di
pitosforo che ne costituivano lo striminzito giardino. Al di l del Puzzu n'gigneri che in

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fondo, segnava limite alla citt, la strada polverosa su cui stazionavano i carretti con le ruote
di gomma e i cavalli tozzi da traino, con il muso immerso nelle secchie di paglia sdrucita, a
masticare carrube e fieno, la lunga coda e gli zoccoli calcianti mosche dallo sterno.
Arrivavo tra le rocce sopra il Teatro greco che il sole gi calava, la cavea e lo scenario
dinanzi erano in ombra: ombre le file ordinate dei cipressi, le strade, la citt lontana, il mare...
E quando il sole stava immergendosi all'orizzonte, con riflessi e bagliori meravigliosamente
accesi dalle tinte pi sfumate, dal rosso fuoco all'arancione, s da paragonarli ai famosissimi
tramonti sul Bosforo, mi veniva in mente una frase sussurrata dal Carducci a una donna.
Questa: Tu sei bella come il tramonto siracusano, e immaginavo quante volte quella frase,
da grande, l'avrei fatta mia...
Stavo l a guardare, a pensare. Non mi sono mai sentito intimidito da tutto ci che quel
luogo antico conservava d'antico, di splendido e imponente passato. Tragedia, mito, civilt...
Erano per me soltanto parole, parole e parole, usate magari dottamente negli articoli che
puntualmente apparivano ogni due anni sul foglio locale, quando il Teatro greco si riapriva a
suggestivi, rinnovati spettacoli.
Una propagandistica pubblicazione dell'Ente del Turismo di cui un mio zio era
funzionario mi aveva affascinato in quel periodo, con i racconti su dei, semidei, ninfe ed
eroi, spesso misteriosi, spesso piccanti e impudichi. Quindi, con il mio speciale bagaglio di
miti, favole e leggende mi sentivo un po' privilegiato e in diritto di rimanere a pensare in quel
luogo addormentato. Le tragiche figure che Euripide ed Eschilo hanno condannato a lamento
secolare, se ne rimanevano zitte e descrete, per una volta tanto, coro muto in affannosi riposi.
Stranamente, a volte, all'imbrunire, mi sembrava di distinguerne meglio i volti corrucciati, i
neri mantelli, i loro elmi lampeggianti metalli. Allora sentivo quasi il mormorio dei loro
ahim!, attraverso il bruso dei cipressi. E i loro lai asessuati crescevano lentamente, in un

Italo Genovese

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truste coro di nenia cantilenata. I lamenti s'alzavano nel vento e salendo diventavano vento. E
il vento, a sera, era padrone. Portava, il vento, gli odori di quella terra amata dai greci, dagli
esuli, da poeti grandi e infelici, da Archimede, il suo pi illustre figlio. A schiere ripopolavano
la sera abbrunita e con me respiravano l'odore dello scirocco, del salmastro, dei cipressi, dei
pini.
Poi, quando ormai le tenebre avevano quasi vinto la battaglia con la luce, m'alzavo e
tornavo alla fide bici. Ho vissuto quelle ore pensando a mille cose di ribollente adolescente.
Ho lasciato con dolore quei posti, quelle stradine anguste, sempre appannate di scirocco, i
bagni al Lido Azzurro e al 'Nettuno'.

D'estate, il vaporetto, poco pi che un barcone, portava i bagnanti facendo la spola tra
la Marina e il lido. Qui un reticolato tutto strappato e costellato di bidoni e casse, teneva
divise le cabine dagli asini e dai cavalli che i carrettieri portavano a rinfrescare in mare. Alla
domenica noi partivamo col vaporetto delle dieci. Ci precipitavamo gi alla darsena, fino al
botteghino dei biglietti e poi salivamo sul vaporetto, sbatacchiando le sporte con la colazione,
zoccoli e asciugamani. Poi restavamo in attesa che il Capitano, un anziano marittimo dal
volto rugoso e bruciato dal sole, dallo sgrardo tenebroso ed impenetrabile, si decidesse a
ordinare con tono perentorio di lasciare la cima. Fra brontolii, il motore finalmente acquistava
forza e la prua puntava decisa sull'altra parte della costa.
Al lido, il bagno ma, soprattutto, la compagnia. Seduti su un traballante pontile, noi
ragazzi facevamo a chi sputava pi lontano nell'acqua. Vinceva sempre Ettore, un tipo dai
tratti marcati, dalle folte sopracciglia e dai bellissimi occhi color acqua marina ma dal viso

Italo Genovese

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perennemente brufoloso. Aveva un suo inimitabile metodo. Rissuchiava le guance, per
accumulare saliva, senza rumore, senza gracchii. Si concentrava, socchiudendo gli occhi i
appuntando le labbra come per un richiamo ad un gatto. Poi... spuah! Sull'acqua giungeva un
malloppetto schiumoso e biancastro che stentava a disunirsi. Ettore si ritirava tranquillo e in
quello che aveva fatto non c'era niente di volgare. Strano, ma Ettore m' rimasto in mente solo
per questo.
I bagni poi erano un trionfo di tuffi, di scogli bruni e roventi, di mare che s'apriva ad
accoglierci in spruzzi di schiuma salata. Le soste al sole cocente, sdraiati sulla sabbia a
costruire castelli, ponticelli e stradine, a parlare di tutto e di niente, le ricognizioni sugli scogli
alla ricerca di granchi e di 'pateddi', l'odore di alghe seccate al sole tra le rocce.
Ma per sentire diversi profumi di mare in una sola volta, bastava percorrere il tratto
400 metri d'acqua immobile e verde che va dall'imbarcadero di piazza della Posta a quello
di via Arsenale, cio il tratto che serviva a chi, dal centro citt, doveva andare alla Borgata.
La barca, allora, era un usatissimo servizio pubblico, dato che di autobus ce n'era soltanto
qualcuno. In mezzo alle alghe aspettava, la barca, tutta dipinta di variopinti colori, urtando e
sciabordando contro i copertoni d'auto opportunamente fissati sul basso costone di granito.
Arrivava qualcuno, scendeva e si sedeva con le gambe larghe. Poi qualcuno ancora. Senza
rumore ci si stringeva sulle panche. E in piedi il barcaiolo, con gli alluci contratti
ritmicamente sul fondo, faceva andare i remi in un movimento di braccia che era immobilit.
Quando s'era gi deciso all'unanimit di partire, quasi sempre il ritardatario si precipitava gi
dalla scaletta, rovinandoci addosso nel salto squilibrato. Si partiva. Le parole che la gente si
scambiava avevano il ritmo della remata, il sottofondo del cigolio dei remi sugli scalmi. E
man mano, in quel tratto, gli odori che salivano dal mare mutavano continuamente, riempendo
le nari. E tutti aspiravano voluttuosamente...

Italo Genovese

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Giunti allo scalo di via Arsenale, per me c'era il problema d'arrivare fino al termine di
via Piave, lass in cima dov'era il Convitto Santa Maria ove studiavo da 'esterno'. Dovevo
andare a piedi e, per via della cartella in spalle col suo carico di future speranze, vi giungevo
sbuffante come una vecchia locomotiva. Spesso per ero fortunato: se vedevo sopraggiungere
una carrozza solitamente occupata da turisti, facevo finta di niente: aspettavo che m'avese
superato di qualche metro e poi, correndo basso per non farmi scorgere dal conducente, mi
sistemavo nella parte posteriore, sedendomi sulla sbarra di ferro che fungeva da perno delle
ruote. E cos arrivavo alla meta. A volte, per, ero costretto a sloggiare precipitosamente
perch, cammin facendo, qualche dispettoso coetaneo che mi notava l dietro appollaiato,
gridava: U gnuri, u gnuri! (cio: O cocchiere, o cocchiere!). E questi, capita l'antifona,
imbracciava il frustino dalla lunga lingua di cuoio e con qualche ben assestato colpo
all'indietro, mi costringeva a mollare molto velocemente la presa.

Ho trascorso in questa meravigliosa citt piena di luce i primi diciott'anni della mia
esistenza. Furono anni dolcissimi, perch con l'adolescenza si scoprivano la natura e il piacere
di una vita piena e libera. Ed il futuro era ancora una finestra aperta sul mondo.

Molti anni son trascorsi e tante cose purtroppo, la memoria non custodisce pi. Ma in
quelle poche occasioni che ritorno a Siracusa, provo ci che pu provare chi, affetto da
amnesia, riacquista finalmente la memoria e tante cose e tanti particolari mi tornano come

Italo Genovese

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d'incanto in mente. L'incantesimo dura per poco: qualche passo avanti, un'occhiata intorno e
tutto m'appare un po' diverso da allora: pochissime, ormai, le carrozzelle con turisti vocianti;
nessun ragazzino sugli scogli a catturar granchi; alla Marina n vaporetti in partenza per il
lido, n Bartali in erba a pigiar sui pedali in corse forsennate; ai Calafatari non ci son pi,
seduti per terra, i taciturni pescatori che riparano le reti; non pi barche multicolori che
portano alla Borgata; niente carretti con le ruote di gomma e cavalli a mangiar carrube; il
clima sempre mite e salubre ma non pi ricco delle benefiche essenze marine ed agresti d'un
tempo.
Ma, del resto proprio il caso di chiederselosi potrebbe pretenderlo negli anni della
conquista della Luna?

Italo Genovese

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