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La questione meridionale:
Come sappiamo il Sud stava vivendo una difficile situazione. Vi fu un grande incremento
demografico, e i poveri contadini si sentivano schiacciati dai grandi proprietari terrieri. Un altro
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fattore che aumentò il malcontento del mezzogiorno fu sicuramente il non mantenimento degli
accordi presi durante la guerra: infatti in cambio del loro appoggio in guerra, ai soldati-contadini
erano state promesse delle terre e questo era stato l’unico motivo per cui i contadini pur non avendo
un’adeguata preparazione militare decisero di combattere. Quindi, uno dei punti deboli del governo
liberale fu quello di non essere riuscito ad affrontare e risolvere la questione agraria una volta per
tutte. Cosi, i contadini decisero di occupare da soli le terre, guidati da leghe sindacali socialiste e
dall’Associazione nazionale dei combattenti. Si giunse ad una radicalizzazione del conflitto, in
quanto i contadini chiedevano le terre incolte delle grandi proprietà, mentre lo Stato si mostrò
impassibile davanti a tali richieste. Di tale problema se ne occuparono anche alcuni intellettuali
dell’epoca, infatti gli intellettuali socialisti si raccolsero attorno all’Ordine Nuovo e ad Antonio
Gramsci e misero in evidenza la centralità del problema meridionale. I contadini dovevano essere i
protagonisti della ricostruzione del paese. Ad eccezione dei sindacati, nessuno si propose di
riorganizzare la società contadina e risolvere i suoi problemi, di conseguenza i contadini poveri
rimasero dopo l’insuccesso dell’occupazione delle terre, estranei allo stato e alle sue istituzioni.
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Successivamente la situazione risultò più pacifica in seguito alla proposta di un accordo che
prevedeva l’indipendenza di Fiume, che era stata subordinata per 15 anni alla Società delle Nazioni.
Però i nazionalisti italiani essendo in disaccordo con questa soluzione si scatenarono contro il
governo. E la situazione peggiorò quando si diffuse la notizia secondo cui a Fiume si erano
verificati degli scontri tra italiani e francesi che erano presenti nella città. Venne mandata una
commissione per decidere di chi fosse la responsabilità e si decise di limitare la presenza italiana a
Fiume, mandando a Ronchi un reggimento di Granatieri di Sardegna. Ma fu proprio da Ronchi che
il 12 settembre 1919 Gabriele d’Annunzio partì alla volta di Fiume e una volta arrivato là,dichiarò
l’annessione di Fiume all’Italia, rimenando il padrone della città per più di un anno. In questa
situazione la debolezza del governo risultò evidente in quanto non riusci ad intervenire per oltre un
anno dando la possibilità a D’Annunzio di cercare di trasformare Fiume in un modello politico di
riferimento e conforme alla propaganda nazionalista, antiparlamentare e militarista. L’occupazione
di D’Annunzio si concluse con il trattato di Rapallo firmato il 12 novembre 1920, attraverso cui
Fiume venne dichiarata città libera, mentre D’Annunzio che si rifiutò di accettare fu cacciato via
insieme ai suoi uomini dalle truppe italiane.
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poter raggiungere un accordo e allearsi ma, nello stesso tempo, nessuno di loro era in grado di
governare il paese da solo.
Il Parlamento rinnovò la fiducia al liberale Nitti (capo de governo dopo Orlando), ma nel maggio
1920 venne costretto alle dimissioni. In questa situazione politica molto difficile riapparve
nuovamente Giolitti (che all’elezioni aveva ottenuto la maggioranza relativa, ma non la
maggioranza dei seggi) come l’unico uomo politico in grado di dar vita ad una maggioranza che
riproducesse nello scenario postbellico il compromesso borghesia-classi lavoratrici che aveva
costituito il principale motivo del decollo industriale di inizio secolo.
Giolitti essendosi presentato con un programma fortemente riformista basato principalmente sul
tentativo di aumentare i poteri del parlamento, non ottenne il consenso dei socialisti e nemmeno
quello dell’intero partito popolare.
Nel frattempo nel paese il conflitto sociale aumentava così come si amplificavano a dismisura le
azioni violente dei fascisti e rimaneva ancora aperta la questione di Fiume.
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In questo periodo risultarono evidenti anche i primi sfaldamenti nella mobilitazione operaia
e contadina, in si stavano facendo sentire i primi sintomi di una nuova crisi economica. E fu
proprio in questa complicata situazione sociale e politica che avvenne la prima grande
offensiva dello squadrismo fascista; infatti, durante l’insediamento del governo socialista a
Bologna, i fascisti, aiutati dalle forze dell’ordine, diedero vita a lotte e tumulti, provocando
decine di vittime e feriti. Il mese seguente accadde lo stesso a Ferrara, dove venne preso
d’assalto dalle truppe fasciste il municipio socialista. Cosi, come sostenne lo stesso Nenni,
avvenne il passaggio dal biennio rosso a quello nero, ovvero i due anni dell’offensiva
socialista che avrebbero dovuto condurre il fascismo al potere.
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Gli errori di prospettiva di Giolitti e l’impasse del partito socialista:
Senza l’appoggio dei liberali il fascismo non avrebbe mai potuto salire al potere; le forze liberali
pur non condividendo le azioni del fascismo, lo appoggiavano allo scopo di combattere il
movimento bracciantile, per poi staccarsi da esso e frenarlo una volta ottenuto il loro scopo.
L’azione del fascio e dei liberali fu agevolata dal fatto che le forze di sinistra e il movimento
sindacale sottovalutavano la gravità della situazione e quindi non puntarono sulla mobilitazione
popolare. Della gravità della situazione se ne accorsero nettamente in ritardo e quindi anche lo
sciopero legalitario (1 agosto 1922) indetto dall’Alleanza del lavoro, nonostante avesse ottenuto un
grande sostegno soprattutto dalle masse popolari, non fu in grado di ostacolare l’azione delle
squadre fasciste, che organizzarono numerose incursioni senza trovare opposizione e spesso furono
aiutate da prefetti e autorità militari.
Giolitti e Nitti non riuscendo ad organizzare insieme le esigenze delle classi lavoratrici e delle
classi medie decise di sostenere il partito fascista.
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lo stato di assedio in modo da permettere l’intervento dell’esercito per bloccare le squadre fasciste e
affidò a Mussolini l’importante compito di formare un nuovo governo (28 ottobre).
Così, il progetto dei liberali di allearsi con il partito fascista per poi controllarlo fallì.
L’appoggio della corona, della borghesia industriale e agraria e la neutralità della chiesa permisero
ai fascisti e a Mussolini di imporre la voluta svolta autoritaria arrivando cosi al potere.
Successivamente si passò dal “colpo di stato” di Mussolini ad una dittatura cupa ed aggressiva.
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Il 1926, l’anno di svolta :la costruzione del regime fascista:
Passata la bufera in seguito all’assassinio di Matteotti, Mussolini diede una svolta radicale alla sua
politica, in quanto fino a quel momento aveva sempre rispettato formalmente le regole
costituzionali. Così, prese corpo un assetto istituzionale e politico conosciuto con il nome di regime
fascista anche per mezzo di iniziative parallele quali:
- riduzione al minimo dell’attività di opposizione politica
- svuotare il parlamento della funzione di massimo organismo politico
- allargare il consenso al fascismo per mezzo della mediazione sociale cioè attraverso
sindacati di stato, istituti di assistenza e previdenza
Il vero anno di svolta fu comunque quello compreso tra il 1925 e il 1926: si passò da un regime ad
una vera e propria dittatura attraverso la promulgazione di una serie di decreti governativi con la
collaborazione di Alfredo Rocco (ministro della Giustizia) uno dei capi del nazionalismo. Tali
decreti limitavano ancora di più la libertà di stampa e di attività politica.
Allo stesso tempo si ebbe una svolta accentratrice dei poteri nelle mani dello stato: il duce
congloba in se i poteri di capo del governo, del partito e titolare di alcuni ministeri come
quello della Guerra, degli Interni e degli Esteri. Non viene abrogato lo statuto albertino ma
subisce nette e sostanziali modificazioni delle sue norme costituzionali. Il parlamento si vide
togliere la funzione legislativa che passò al governo e nello stesso tempo diventò un
semplice organo di controllo.
Venne modificato anche l’assetto amministrativo della compagine statale: vengono
sostituiti sindaci e presidenti di provincia con podestà e presidi; il potere locale passa nelle
mani del prefetto che risponde direttamente al duce del suo operato.
Vennero dichiarati illegali tutti i partiti politici escluso quello fascista; nacque il tribunale
speciale per la difesa dello stato allo scopo di sopprimere le opposizioni al regime. Così,
venne attuata una legislazione repressiva che portò all’arresto di Gramsci (comunista) e alla
nascita del fenomeno del fuoriuscitismo dei dirigenti dei partiti socialista, popolare,
repubblicano e liberale tra i quali spiccavano i nomi di Turati, Sturzo e di Nello e Carlo
Roselli.
Le leggi sindacali:
Nel 1925 l’accordo di palazzo Vidoni obbligò la Confindustria a stipulare accordi solo con il
partito fascista. Infatti, nell’aprile 1926 vennero promulgate delle leggi sindacali che resero illegali
scioperi e chiusure delle fabbriche. Gli organismi di rappresentanza sindacale vennero riconosciuti
come organismi di stato ed inquadrati in corporazioni professionali che avrebbero dovuto risolvere i
conflitti sociali a favore degli interessi superiori della nazione. La tutela di questi interessi della
nazione venne affidata alla Magistratura del lavoro. Con tale azione repressiva venivano
disconosciuti i lavoratori come forza sociale e, nello stesso tempo, diventavano semplice forza
lavoro.
Da queste leggi si nota la volontà di creare uno stato totalitario che impedisce ai lavoratori di
difendersi e contrattare liberamente i propri interessi. Nell’anno successivo venne stilata la
cosiddetta Carta del lavoro, che presentava gli obiettivi generali della nuova politica sociale, che
avrebbero dovuto favorire una collaborazione tra le classi.
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agli industriali che il nuovo governo non assomigliava minimamente a quello vecchio e che la
mediazione non era comunque tanto semplice e scontata.
Mussolini aveva dimostrato di saper fornire garanzie e di saper mediare i suoi interessi verso i
lavoratori; tutto doveva essere subordinato alla completa adesione al regime e al riconoscimento del
suo potere indiscusso. La svolta politica andava quindi resa in questa ottica: lo stato corporativo e
l’irriggimentazione degli organi statali erano condizioni indispensabili affinché le conseguenze
sociali della rivalutazione della lira non portassero ad una nuova conflittualità sociale.
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