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ANTICHE

CIVILTA’
a cura di Fernando Rapi
I PRIMATI

Circa 70 milioni di anni fa, quando si estinsero i grandi rettili e la Terra assunse un aspetto simile a
quello attuale, comparvero i primati, cioè i mammiferi che comprendono le scimmie e gli antenati
dell’uomo.
Il più antico primate che sia stato trovato è il Purgatorius: grande come un topo, viveva sugli alberi
e si nutriva di foglie e di frutta.
Soltanto circa 20 milioni di anni fa i primati si differenziarono in due tronconi: alcuni continuarono
a camminare a quattro zampe, e diedero origine alle grandi scimmie ( gorilla, scimpanzé,
orangutan). Altri erano in possesso di determinate caratteristiche fisiche che permisero loro di
abbandonare gli alberi per vivere a terra, acquisendo nuove capacità e trasmettendole ai discendenti.

GLI OMINIDI

Gli antenati dell’uomo sono chiamati “ominidi”. Nel corso di una lenta evoluzione, durata milioni
di anni, essi assunsero poco alla volta caratteristiche che li distinsero sempre più dalle cugine
scimmie.

Le caratteristiche degli ominidi

Posizione eretta, che conferisce loro una visuale più ampia, utile specialmente nella caccia;
Uso delle mani che, non più adoperate per muoversi, servono come strumento sempre a
disposizione: con esse l’ominide può trasportare oggetti e costruire utensili;
Aumento del volume del cervello: esso è legato all’arrotondamento del cranio, a sua volta favorito
dal passaggio alla posizione eretta, la quale, contrariamente a quelle a 4 zampe, permette
l’espansione del cervello e quindi la diversificazione delle funzioni cerebrali;
uso del linguaggio, perfezionatosi lentamente, man mano che gli ominidi imparavano a vivere
insieme e a collaborare tra loro;
creazione di una cultura, cioè di un insieme di tecniche, conoscenze, credenze che si trasmettono di
generazione in generazione, accrescendosi e perfezionandosi col tempo.

Proprio la formazione di una cultura consentì agli ominidi di differenziarsi nettamente dagli altri
animali, dando origine alla storia umana
La storia degli ominidi è ancora in parte da scoprire. Tutto ciò che di essi abbiamo sono alcuni resti
delle loro ossa, conservati perché si sono trasformati col tempo in minerali, detti fossili, e, per
periodi più vicini a noi, strumenti e resti di tombe o di abitazioni.

AUSTRALOPITECO E HOMO HABILIS:

è il più antico ominide che conosciamo che visse in Africa 3,7 milioni di anni fa. Era alto appena 1
metro e 30 pesava circa 30 chilogrammi con un cervello molto piccolo. Utilizzava pietre e ossa

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come strumenti rudimentali e camminava eretto: la separazione tra l’uomo e la scimmia era già
netta.

HOMO ERECTUS E HOMO SAPIENS:

aveva la capacità di accendere il fuoco (uomo eretto), un ominide decisamente umanizzato,


comparso circa 1,7 milioni di anni fa.

A circa 100.000 anni fa risale la comparsa dell’Homo sapiens con caratteristiche anatomicamente
moderne, mentre 80.000 mila anni fa appare in Europa l’uomo di Neandertal (così chiamato dal
nome della località della Germania in cui furono ritrovati i suoi rest).

Infine circa 40.000 anni fa l’evoluzione dell’uomo portò all’apparizione dell’Homo sapiens sapiens,
la specie a cui noi apparteniamo. Ebbe origine probabilmente in Africa (secondo altri in Asia). I più
antichi resti dell’Homo sapiens sapiens trovati in Europa sono : L’uomo di Cromagnon (località
della Francia meridionale) risalenti a circa 35.000 anni fa..

Tra i mammiferi, che compaiono sulla Terra 70. milioni di anni fa, sono compresi i primati, che 20
milioni di anni fa si divisero in 2 tronconi:

le grandi scimmie (gorilla, scimpanzé)


ominidi, gli antenati dell’uomo.

Le fasi dell’evoluzione dell’ominide :

Australopiteco
Homo habilis
Homo erectus
Homo sapiens
Homo sapiens sapiens

Noi apparteniamo alla specie Homo sapien sapiens, detta anche dell’uomo
anatomicamente moderno.

LA STORIA PRIMORDIALE

L’uomo apprende dalla storia comune solo una piccola parte degli avvenimenti vissuti dall’umanità
in epoche primordiali, e i documenti storici gettano luce solo su alcuni millenni.

Anche ciò che ci insegnano l’archeologia, la paleontologia e la geologia, ha dei limiti assai
ristretti; e a questa insufficienza si aggiunge l’incertezza di tutto ciò che è basato su testimonianze
esteriori.
Osserviamo infatti come l’insieme di un avvenimento o la fisionomia di un popolo, anche non
molto lontano da noi, restino alterati quando vengono ad illuminarli nuovi documenti storici.
Confrontiamo la descrizione che diversi storici ci danno del medesimo fatto e, ci accorgeremo di
trovarci su un terreno assai malsicuro.

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Tutto ciò che appartiene al mondo sensibile esteriore è sottoposto all’azione del tempo e il tempo
a sua volta distrugge ciò che nel tempo ha origine.
Ora, che la storia esteriore non può che fondarsi appunto su quello che il tempo ha conservato; e
chi, fermandosi ai documenti esteriori può affermare che in essi sia conservato appunto
l’essenziale?
Tutto ciò che esiste nel tempo ha la sua origine nell’eterno.
L’eterno non è accessibile alla percezione dei sensi; ma all’uomo si apre la via per arrivare a
percepirlo.
L’uomo può sviluppare le forze latenti in lui in modo da poter riconoscere l’eterno.

LA STORIA SCONOSCIUTA
(Contributo di Piergiorgio Lepori)

-Meteorite nel cretaceo

La teoria dell’evoluzione lineare sta alla base degli assunti archeologici e storici della nostra
cultura; anzi a dire la verità li condiziona addirittura: quando qualche scoperta "avulsa" viene alla
luce, immediatamente la si annovera tra il falso o l’impossibile poiché stride con detta teoria.
Alcuni ritrovamenti archeologici vengono messi al bando oppure lasciati appositamente sotto
traccia poiché sarebbero in grado, qualora approfonditi, di ribaltare l’intero equilibrio cognitivo cui
siamo abituati dall’inizio della nostra storia culturale.
Il diagramma dell’evoluzione lineare è molto semplice: alla fine del Pleistocene, gruppi umani
usciti dalla glaciazione iniziano percorsi di vita fatti non solo di caccia e sopravvivenza, bensì anche
di pastorizia e primi approcci agricoli, passando di fatto da una condizione di nomadismo ad una di
sedentarietà. La prima conseguenza è la creazione di villaggi e centri protourbani con veli di
organizzazione sociale e standardizzazione dei rapporti tra individui.
Sono gli albori di una politica, del riconoscersi "cittadinanza"; probabilmente nascono le prime
regole non scritte, quel codice comportamentale che permette la convivenza; si radicano le credenze
religiose che danno il via ai "controller" psico-sociali. L’ultima fase è la nascita di un codice
univoco finalizzato alla comprensione nelle tribù ossia la scrittura. Le leggi e le regole iniziano ad
essere codificati, i simboli assumono carattere interlocutorio.
Da questo istante in poi si entra nella Storia e nell’accezione convenzionale di Civiltà.
Questa teoria si inscrive in un arco di circa 8.000 anni dalla fine dell’ultima glaciazione -
Pleistocene, appunto - fino al nostro periodo, l’epoca moderna, ultima parte del Quaternario.
L’assunto di base da cui principia la lineare, risiede nell’assoluta preistoricità dei periodi precedenti,
nei quali è pressoché impossibile trovare sia le condizioni naturali generali (climatiche, geologiche
e geografiche) favorevoli, sia le capacità/abilità umane in grado di smentire il diagramma.
L’umanità preistorica è assolutamente involuta, le vette intellettuali, salvo cuspidi in antichità, si
concentrano tutte negli ultimi 2.000 anni.
La storia dell’uomo, intesa come presenza fisica sul pianeta, secondo le convenzioni ortodosse, ha
un milione di anni. Le ossa dei nostri antenati testimoniano una morfologia, soprattutto cranica, più
simile agli ominidi che alla nostra configurazione attuale, partendo dagli 800 cm3 del Neanderthal
fino al nostro range di 1300-1700 cm3.
Si tratta di una capacità cranica posizionata, in media, al doppio delle precedenti in media. In alcuni
casi si arriva fino a 4/5 volte rispetto ai crani dei nostri avi.
Un tempo, a partire da 300 milioni di anni fa circa, tra il Paleozoico ed il Mesozoico, a cavallo tra
Permiano e Triassico, i dominatori del pianeta erano i Sauri, unità biologiche non complesse,
perlopiù mastodontiche e colonizzanti ogni angolo più remoto di terre, cieli, continenti, mari e
laghi. La loro origine, autoctona, vanta la nostra stessa provenienza, gli esseri unicellulari e i
protozoi residenti negli antichi oceani.
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L’aspetto terrestre era di gran lunga diverso da quello attuale; i supercontinenti Gondwana e
Laurasia occupavano due terzi della superficie ed un immenso oceano primordiale ne faceva da
corona.
Circa 50 milioni di anni più tardi il collasso tra zolle tettoniche avrebbe generato l’ipercontinente
Pangea e l’intero globo terracqueo avrebbe goduto di una nettissima distinzione. L’uomo non era
nemmeno nei pensieri di Dio.
Tra il Cretaceo ed il Terziario, limite noto con la sigla di KT, il pianeta avrebbe conosciuto una tra
le più grandi ferite catastrofiche della propria esistenza: 65 milioni di anni fa un immenso asteroide
pose per sempre fine alla stirpe dei sauri impattando la terra a velocità parossistica, scagliandosi
nella zona compresa tra Atlantico e Centro America.
Le successive stagioni sarebbero state invivibili e costellate da una prima glaciazione dovuta alla
immensa nube di detriti scagliati in atmosfera dal proiettile cosmico. Iniziava l’era del Terziario
sotto una luce sinistra, la luce schermata del sole e l’avvio della stirpe dei mammiferi, animali più
complessi e resistenti dei Sauri.
Eppure vi sono delle anomalie nel processo degne di nota e di attenzione.

In questo articolo prendo spunto dal testo di Cornelia Petratu e Bernard Roidinger "Le pietre di
ICA", Edizioni Mediterranee, Roma 1996, Biblioteca dei Misteri.
Contrariamente alle precedenti recensioni mi addentrerò in riflessioni al di là del racconto mero del
testo poiché considero questo scritto, e soprattutto le implicazioni contenute e conseguenti,
un’enorme possibilità di virata culturale del pensiero e degli standard di visione della preistoria.
Farò riferimento oltretutto al n. 68 dei "Quaderni" de "Le Scienze", ottobre 1992, per quanto
riguarda le scoperte relative all’asteroide killer.

IL PROLOGO

Alcune pietre in andesite, scoperte nei deserti sud americani (peruviani per l’esattezza) vicini alla
cittadina di Ica, 360 km da Lima, recano graffiti raffiguranti comportamenti, discipline e morfologie
di una civiltà risalente ad un periodo di 65 milioni di anni fa, estremamente evoluta e
contemporanea ai sauri. La scomparsa di questa umanità potrebbe essere stata determinata da una
catastrofe endogena o esogena, non ne abbiamo sentore in tal senso.
Dapprima considerate come falsi, le pietre furono sottoposte ad analisi, partendo dal sottile strato di
ossidazione che ricopriva sia le pietre che le incisioni. Di questo se ne occupò, nel giugno 1967, la
"Compagnia Mineraria Mauricio Hocshild"; la supervisione fu affidata a Louis Hocshild,
presidente, e al geologo Eric Wolf. I dati furono impressionanti: le ossidazioni riportavano indietro i
graffiti di 12.000 anni.
Preoccupato da un errore grossolano, Wolf fece ripetere le analisi al dr. Joseph Frenchen,
dell'"Istituto di Mineralogia e Petrografia" dell’Università di Bonn. Il 28 febbraio del 1969 il
responso fu lo stesso: 12.000 anni circa. È impossibile quindi stabilire l’esatta collocazione
cronologica della stirpe che incise questa enciclopedia "gliptolitica"; ma la cosa più importante
risiede nel fatto che non si tratta di un falso. Le raffigurazioni ivi incise, tra cui la convivenza tra
uomini e un tyrannosaurus, sposta, per logica descrittiva, l’epoca ad un centinaio di milioni di anni
or sono.
Le pietre rivelano l’esistenza di una civiltà sconosciuta, contemporanea ai grandi sauri, collocata 64
milioni di anni prima dell’ipotesi lineare. Ben 11.000 sono le pietre raccolte e conservate nello
studio del dr. Cabrera, scopritore e detentore del sito da dove esse provengono. L'ex chirurgo ha
dedicato l’intera sua esistenza, mutando una brillante carriera avviata, a catalogare, spiegare e
difendere le Pietre di Ica.

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UN’ANOMALIA NELLA STIRPE

La stirpe cui accenniamo è naturalmente quella umana e l’anomalia riguarda un antenato in


specifico che ha messo in crisi l’assise archeologica internazionale che, naturalmente, si è difesa
con i soliti mezzi. Forse non tutti conoscono l’"Uomo di Mouillans"; personalmente non lo
conoscevo nemmeno io, ma la storia di questo ramo dell’umanità ha dell’incredibile.
In sostanza non sappiamo nulla del Mouillans; i suoi resti furono ritrovati casualmente quando si
cercavano quelli del Neanderthal sulle coste algerine e marocchine.
Questo avo è considerato unico, sia fisiologicamente che culturalmente; ne furono ritrovati a
centinaia inumati in tombe comuni.
Il carbonio 14 rivelò un’età di 12.000 anni, ma nessuno ne conosce la provenienza né tantomeno ha
un’idea dell’improvvisa comparsa di questo ceppo.
La sua costituzione ha una caratteristica inconfondibile, ovvero il cranio allungato con la base
cranica rotonda. In pratica il teschio del Mouillans conservava tratti morfologici infantili,
immutabili nella sua rotondità. Mentre il cranio cresceva, il volto rimaneva piccolo, gli occhi
incavati e i denti presentavano la mancanza del terzo molare (anatomista inglese Arthur Keith) che,
secondo l’opinione dei craniologi moderni, mancherà anche a noi in un prossimo futuro.
Il rapporto volto/fronte negli europoidi è di 3 a 1 mentre nel Mouillans arrivava a 5 a 1. I lineamenti
erano particolarmente delicati e moderni e, soprattutto, non avevano nulla a che vedere con i tratti
forti della razza negroide.
Negli strati in cui furono ritrovati i resti, vennero alla luce anche gli utensili dei Mouillans,
realizzati con una tipologia di lavorazione molto complessa, avanzata e totalmente nuova, senza
nessuna concomitanza con altre scoperte relative all’epoca, nessuna documentabilità di livello
planetario.
Il cranio aveva la capacità cerebrale più grande che l’umanità abbia mai conosciuto: fino a 2.300
cm3; ciò testimonia una intelligenza fuori dagli schemi e probabilmente un’intellettualità
sconosciuta perfino ai nostri giorni.
Un’affascinante considerazione fu fatta dal Dr. Dreman, della "Capeto University" che si chiese se
si trattasse di un naufrago del futuro...
La struttura ossea del cranio, allungata e fragile di costituzione, mal si accorda con i periodi di vita
del Mouillans; è come se fosse apparso alcuni milioni di anni in anticipo rispetto alle previsioni dei
fisiologi i quali immaginano un’evoluzione in tal senso per un lontano futuro dell’umanità. A meno
di non ammettere che il paradigma evolutivo dalle realtà più semplici a quelle estremamente
complesse non sia lineare ma ricorrente.
Il Mouillans rappresenterebbe uno stadio evolutivo avanzatissimo retrodatando la comparsa
dell’uomo a decine, forse centinaia, di milioni di anni fa e non semplicemente uno o due.
Si è voluto vedere nella morfologia dell’Uomo di Mouillans una somiglianza, quanto meno
controversa, con i cosiddetti "Grigi" alieni, ma fermo restando la possibilità non scartabile a priori
dell’esistenza di razze aliene umanoidi, è davvero difficile poter avvalorare una tesi di questo tipo
senza un adeguato "case study" in tal senso. Ad esempio oggettistica non solo di raffinata
manifattura ed unica nel suo genere ma soprattutto di sconosciuta provenienza oltre che di
impossibile interpretazione sull’uso o il ritrovamento di mezzi assolutamente fuori tempo e luogo
rispetto all’epoca; non che il Mouillans non lo fosse, ma le analisi portate sulla composizione ossea
ne testimoniano l’assoluta autoctonia terrestre.
Si potrebbe confutare ciò mettendo in discussione l’autoctonia terrestre stessa dell’uomo e pertanto
ipotizzare un’origine aliena della razza umana, ma ci troveremmo in un contesto molto distante
dalla trattazione in essere e dallo scopo di quest’ultima.

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ANOMALIE NELLE RAFFIGURAZIONI

La casistica inerente le raffigurazioni incise sulle pietre di Ica conduce ad un’unica considerazione:
siamo di fronte alla più importante scoperta del nostro tempo che non incide solamente in campo
archeologico ma antropologico in senso lato ed assoluto.

La storia, il pensiero e le dottrine che fino ad oggi hanno costituito il nostro bagaglio culturale
potrebbero essere messe in seria discussione. L’intera concezione scientifica relativa all’arco
evolutivo umano, ad oggi ritenuta caposaldo di pensiero, cadrebbe inesorabilmente.
La comprovata autenticità della gliptoteca peruviana, retrodata la presenza della razza umana sul
nostro pianeta ad almeno 65 milioni di anni or sono.
Questo significa che l’origine della nostre stirpe si perde nella notte dei tempi.
Come siamo arrivati a determinare un’epoca così remota in cui collocare questa civiltà che il Dr.
Cabrera chiama gliptolitica?
Semplicemente osservando i graffiti stessi e analizzandone alcune caratteristiche di importanza
fondamentale. Non è tanto la presenza di animali preistorici quali il T-rex o lo stegosauro, bensì la
chiara coesistenza tra queste specie e quella umana; vi sono scene di caccia in cui la quotidianità è
intrisa di convivenza; addirittura uomini nell’atto di cavalcare uccelli di notevoli dimensioni e
dall’incredibile somiglianza con gli pterodattili; ma una delle raffigurazioni meno facilmente
discutibili risulta essere la rappresentazione del ciclo biologico di uno stegosaurus. È il caso di
fermarci a riflettere.
La scienza ci ha insegnato che il metodo empirico, e dunque la sperimentazione ed osservazione
diretta di un fenomeno, è metodologia vincente e probabilmente l’unica via per dimostrare
l’assoluta oggettività di alcuni fatti.
Una delle scienze in cui questa via è non solo praticata ma necessaria è sicuramente la medicina in
genere.
Le osservazioni direttamente compiute sul campo permettono di approfondire e fondare le
conoscenze strutturali, ad esempio, del corpo umano, dei suoi componenti e dei processi base atti
alla riproduzione, all’alimentazione, all’esistenza e al congetturare qualora in presenza di individui
vivi. In altri casi è l’esplorazione dei cadaveri che ci svela le strutture del nostro corpo.
Questo aspetto è molto importante ritornando alle pietre di Ica. Innanzitutto perché non si può
negare che l’artista avesse di fronte un "modello" o che comunque stesse riproducendo
graficamente qualcosa suggerito da altri che, giocoforza, l’avrebbero osservato nella realtà. Ma
avrebbe potuto trattarsi di un cadavere o dell’immaginazione dell’artista.
È difficile assemblare aspetti oggettivi di una realtà se non si ha nemmeno la percezione di questa;
nel caso dello stegosaurus si è di fronte alla rappresentazione di un ciclo biologico e quindi in
presenza "contemporanea" di un evento che si sta svolgendo nel medesimo tempo di computazione.
Quell’umanità ha visto il ciclo di trasformazione dello stegosaurus e pertanto si può concludere che
fu contemporanea all’animale.
Le implicazioni le immaginiamo tutti; ma vi sono conseguenze ben più profane che possiamo subito
analizzare.
Sappiamo, o presumiamo, che i dinosauri fossero ovipari; l’artista raffigura il ciclo biologico
mettendo in risalto stadi di trasformazioni in successione dello stegosauro. Questa dinamica è alla
base di una metamorfosi e non di una crescita. Si tratta di una caratteristica degli anfibi i quali, dopo
la dischiusa delle uova, passano da uno stato larvale fino all’animale adulto e formato.
Altri cicli biologici sono rappresentati, tra cui: il tirannosauro, il lambeosauro, il brontosauro ed il
triceratopo.

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Una serie di 205 pietre illustra il ciclo vitale dell’Agnathus, un pesce preistorico che, al contrario
dei precedenti sauri, visse sul pianeta 300 milioni di anni fa circa.
Se il metodo dell’osservazione è alla base della veridicità di un fenomeno e della sua possibile
rappresentazione nel dettaglio e nel corso della sua evoluzione, c’è di che pensare...
Altra pesante prova a carico della vetustà di una razza umana sconosciuta alla storia ordinaria, sono
le 48 andesiti che illustrano il ciclo biologico del megachiropterus, un pipistrello enorme vissuto
circa 63 milioni di anni or sono; inoltre il graffito ne presenta la riproduzione come un uccello e non
come un mammifero.
La gliptoteca di Cabrera è suddivisa in argomenti, così come una normalissima biblioteca; egli ha
voluto interpretare in tal maniera lo sforzo immane compiuto dagli antichissimi cesellatori i quali
probabilmente attuarono la "registrazione" degli eventi culturali più pregnanti per un motivo ben
preciso: la consapevolezza, probabilmente, di non sopravvivere ad un evento straordinario e
drammatico.
Alcune pietre raffigurano uomini intenti nell’osservare, tramite un vero e proprio
cannocchiale/telescopio, una sorta di cometa o corpo incandescente nel cielo terrestre; in alcuni casi
l’osservazione è portata a cavallo di misteriosi mezzi simili ad uccelli, ma dal chiaro aspetto
meccanico dovuto alla rappresentazione schematica e metallica dei mezzi in questione.
Le pietre di Ica possono essere di fatto annoverate nel gruppo degli Ooparts.
Sempre a proposito delle raffigurazioni, una in particolare avvalora certe tesi inerenti la geologia
del tempo.
Si tratta di due andesiti che riportano un "mappamondo" con configurazioni continentali
completamente diverse da quella odierna, ove si contano 8 masse terrestri "galleggianti" su un
oceano intervallato da "fiumi" marittimi che lambiscono le coste continentali. Ci troviamo di fronte
ad uno stadio intermedio prima dell’attuale configurazione tettonica risalente ad un "range"
temporale posizionato tra 100 e 45 milioni di anni fa.
Sulla scorta dei grandi numeri possiamo ipotizzare che la raffigurazione dia un’idea della
conformazione planetaria del periodo cretacico-terziario, ovvero 70-60 milioni di anni fa; è
esattamente il periodo in cui si presume siano state redatte le iscrizioni gliptolitiche.
L’implicazione, che oserei definire inquietante, svela una conoscenza dell’intero globo terracqueo
da parte di questa civiltà che aveva cognizione della sfericità terrestre e di eventuali proiezioni
ortogonali delle carte. Mi vengono in mente le origini cartografiche della mappa di Piri Reis o del
mappamondo di Oronzio Fineo, di Mercator...
Gli uomini gliptolitici avevano sviluppato una notevole conoscenza tecnica nell’arte della medicina
e più in specifico della chirurgia. Alcune raffigurazioni rappresentano delicati interventi cardiaci
con il paziente sottoposto a esocircolazione sanguigna tramite un’apparecchiatura simile ad una
pompa. Uno dei "medici" interviene con una incisione tramite, chiaramente illustrato, un bisturi. La
caratteristica peculiare di queste incisioni è la figura del paziente visto in sezione, che rivela
un’ampia cognizione anatomica dell’uomo.
La capacità di intervento chirurgico presuppone anche una conoscenza approfondita degli aspetti
patologici e dell’anamnesi; conseguentemente dobbiamo ipotizzare la padronanza dell’uomo
gliptolico nella diagnostica e nelle prognosi post-operatorie, che presuppongono, a loro volta,
cognizioni farmaceutiche pre e post operazione come interventi anestetici e successivamente
analgesici, antinfiammatori e curativi.
Cabrera ha in questo senso suddiviso le 11.000 andesiti in suo possesso a seconda dell’argomento
ivi trattato, catalogandole per dottrina: medicina, geologia, astronomia, zoologia e via discorrendo.
L’intento di questa umanità appare chiaro: lasciare un messaggio, annales litici a testimonianza
della presenza di una civiltà consapevole del fatto che, da lì a breve, non sarebbe più esistita. Essa
volle lasciare una traccia per i posteri, un "memento" per chi avrebbe popolato il pianeta "dopo".

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METEORITE NEL CRETACEO

Negli anni ’90, dopo circa quindici anni di studio, un gruppo di scienziati capeggiati da Walter
Alvarez e Frank Asaro, rispettivamente geologo dell’Università di Berkeley in California l’uno,
chimico nucleare al Lawrence Berkeley Laboratory l’altro, affermarono di aver risolto il mistero
dell’eccidio dei sauri: 65 milioni di anni fa un asteroide di 10 km di diametro impattò il pianeta alla
fantastica velocità di 10 km/s (36.000 km/h ca.).
L’energia liberata dall’esplosione fu pari allo scatenarsi dell’intero arsenale nucleare terrestre ma
moltiplicato per 10.000: l’Apocalisse!
Le conseguenze furono infernali: dalle piogge acide alle tempeste, dai terremoti ai maremoti, freddo
e buio cui fecero seguito riscaldamento per effetto serra ed incendi ovunque.
Quali furono gli indizi che portarono all’ipotesi e dunque alla tesi?
Anzitutto un’estinzione in massa, reputata repentina dagli specialisti; poi anomalie chimiche,
minerali ed isotopiche; quindi la presenza globale di queste tracce.
Inoltre, fattore molto importante, la discontinuità tra le rocce sedimentarie fossilifere originatasi 65
milioni di anni fa: animali fino ad allora presenti negli strati sedimentari, scompaiono
improvvisamente.
La discontinuità definisce il limite tra Cretaceo e Terziario ed è nota come "limite KT" (Kreide =
Cretaceo in tedesco).
Quali furono i tempi dell’estinzione?
Alvarez individuò sedimenti di argilla simili a quelli scoperti nella Gola del Bottaccione (Umbria,
Italia) da cui partì l’indagine, in strati calcarei da 6 metri. Il tempo medio in cui si depositarono i
calcari, durante un periodo di polarità invertita (sigla 29R) di 500.000 anni, fanno presupporre che
gli strati d’argilla e l’estinzione possano essersi sviluppati in un migliaio d’anni.
Jan Smit, dell'Università di Amsterdam, ha condotto uno studio simile sui sedimenti di Caravaca,
Spagna del sud, dove la stratigrafia è molto più precisa: i tempi di estinzione si sarebbero svolti in
50 anni; un lasso di tempo, di fronte alla cronologia geologica normale, spaventosamente rapido.
Alvarez e Asaro si concentrarono su un metodo maggiormente efficace per rilevare la datazione del
fenomeno e lo individuarono nella misurazione dell’iridio. L’iridio è un metallo raro sulla terra e la
sua presenza è dovuta massimamente ad apporti esterni come la continua pioggia di polveri che
proviene dallo spazio o il precipitare di meteoriti nel corso delle ere.
Le dimensioni della presenza di iridio nella crosta terrestre sono pari ad una costante di 0,03 parti
per miliardo rispetto alle 500 parti per miliardo presenti nelle meteoriti litoidi.
La caduta costante di iridio potrebbe dare l’idea dell’antichità di un sedimento: ad es., più iridio si
rileva, maggiore è il tempo di deposizione trascorso.
L’ipotesi sullo strato di Gubbio era così strutturata:

• ipotesi di sedimentazione del limite KT in 10.000 anni;


• in assenza di organismi a guscio calcareo e quindi senza carbonato di calcio prodotto dalla
fossilizzazione di questi;
• presenza del 95% di carbonato di calcio e 5% di argilla negli strati superiori;
• 50% di argilla nel limite KT.

Quindi: qualora l’ipotesi fosse vera, il rapporto iridio/argilla, sia negli strati superiori ed inferiori sia
nel KT, dovrebbe essere simile.

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Nel 1978, dopo accurate analisi chimiche dello strato KT, si scoprì che la presenza di iridio era
assimilabile alle quantità depositatesi negli strati superiori (29R) in 500.000 anni.
L’ipotesi dell’asteroide era più che sensata per poter giustificare una presenza massiccia di iridio
come non si era mai vista prima; inoltre, sulla scorta della scoperta, 100 scienziati circa in 21
laboratori di 13 paesi impegnati nella "Gubbio Connection", trovarono negli strati corrispondenti al
KT in 95 paesi al mondo, valori anormali di iridio.
Ma c’è di più...
Sempre Jan Smit, nel 1981, scoprì delle sferule di basalto nel KT di Carvaca; ne fu confermata la
presenza anche nel KT di Gubbio.
L’origine è quella di goccioline di basalto fuse dall’impatto e raffreddatesi repentinamente durante
la traiettoria balistica fuori atmosfera; si trasformarono poi in argilla per alterazione chimica.
Equivalgono alle tectiti vetrose, più ricche di silicati e determinate da impatti più modesti.
La composizione chimica del basalto KT fa pensare che sia originario di crosta oceanica, pertanto
l’impatto deve aver interessato una zona marina.
Bruce Bohor, dell'"US Geological Survey", di Denver e Triplehorn dell'Università dell’Alaska,
scoprirono anche granuli di quarzo con struttra atomica da impatto. I granuli, infatti, presentano
delle lamelle planari che si intersecano generando bande di deformazione e sono indicative di shock
da velocità.
Granuli di quarzo si trovano, a riprova, nei siti sperimentali nucleari o nei crateri da impatto come il
Meteor Crater, dell'Arizona.

OBIETTIVO TERRA:
COINCIDENZE INQUIETANTI TRA IL PROIETTILE E LE FIGURE DI ICA

Due pietre in particolare riportano raffigurazioni che sembrano incastrarsi perfettamente all’interno
del discorso fin qui portato; l’una è la pietra dei continenti, l’altra quella raffigurante un uomo che
osserva la volta celeste solcata da un corpo simile ad una cometa oppure ad un asteroide, comunque
incandescente e particolarmente vicino al pianeta.
La prima pietra, quella dei continenti, sorta di rappresentazione del globo come doveva essere 65
milioni di anni or sono, rappresenta non solo le terre emerse intercorse da mari o da apparenti canali
marini ma anche una certa configurazione atmosferica che, a detta di Cabrera, testimonierebbe un
effetto serra particolarmente violento e strutturato su scala mondiale. Si riconoscono infatti graffiti
del tutto simili ad immensi strati di vapore avvolgenti il pianeta intero.
La seconda pietra riporta un uomo che osserva la volta celeste con un cannocchiale, impossibile da
confondere con qualsivoglia altro oggetto o interpretabile in altra maniera alcuna; e in peculiar
modo sta osservando un corpo incandescente, completo di coda infuocata, che solca i cieli di Gaia e
che probabilmente si scaglierà sulla Terra stessa.
Questa raffigurazione è graffita anche su altre pietre dove l’osservazione avviene, ad esempio, a
bordo di "uccelli meccanici": uomini sempre dotati di cannocchiali puntano un corpo del tutto
simile ad una cometa o ad un meteorite, asteroide in cui la caratteristica costante è l’energia che lo
avvolge.
Interessante è il chiaro dominio medio aereo espresso dalla civiltà di Ica, nonché una notevole
tecnologia in grado di appaiare questo misterioso popolo alle vette dei nostri giorni.
Effetto serra, strati di vapore, asteroidi o comete; un popolo che lascia delle testimonianze scolpite
sulla roccia, probabilmente poiché riconosciuta come l’unico materiale in grado di conservare le
documentazioni "a memoria" e portarle nel futuro resistendo a qualcosa di terrificante.
Asaro e Alvarez, discorrendo sul "killer cosmico", descrivono i modelli di impatto relativi ad una
cometa o ad un asteroide, considerando il diametro base (10 km) degli oggetti che giustifica un
evento di livello estinzione.
Un asteroide di tali dimensioni, al momento dell’impatto, creerebbe un vuoto atmosferico enorme e
l’impatto trasformerebbe l’energia cinetica in calore risolvendosi, come già descritto in apertura, in

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un’esplosione non atomica ma 10.000 volte più potente dell’intero arsenale nucleare terrestre. I
materiali vaporizzati verrebbero scagliati in atmosfera attraverso il vuoto meccanico e la sfera di
fuoco espellerebbe il materiale fuori dall’atmosfera stessa, scagliandolo in orbite pronte a farlo
precipitare in qualsiasi parte del pianeta.
Chi ha letto "L'ipotesi del Killer Stellare", si ricorderà del mistero relativo ai massi erratici: com’è
possibile che massi enormi la cui morfologia geologica e la composizione chimica li fa appartenere
senza dubbio alle catene montuose del Nord America si trovino in Siberia?
Le prove raccolte smentirono l’apporto della meccanica glaciale; quei massi furono scagliati
violentemente e repentinamente in quei luoghi, non vi giunsero delicatamente e nell’arco di un
tempo enorme. C’è di che riflettere...
L’impatto di una cometa è terribilmente più distruttivo; anzitutto si parla di un cratere da impatto di
150 km di diametro; qualsiasi forma di vita all’interno del cerchio di fuoco verrebbe annientata ed
inoltre inquietano i modelli ipotetici di un evento livello estinzione: buio, freddo, incendi, piogge
acide ed effetto serra.
A proposito delle pietre di Ica - in particolare quelle descritte in questo paragrafo - uno dei paralleli
inquietanti è proprio l’effetto serra.
Abbiamo visto che la pietra del mappamondo riporta una raffigurazione di nubi stratificate da
vapore.
Nel 1981 Emiliani, dell'Università di Miami, Krause, dell'Università del Colorado e Eugene
Shoemaker, lo scopritore della famosa cometa, hanno sancito che un impatto oceanico, oltre ad
immettere polvere di roccia in atmosfera immetterebbe anche vapore acqueo; esso risiederebbe più
a lungo creando un fortissimo riscaldamento da effetto serra dopo l’inverno da impatto.
O’Keefe e Ahrens, del MIT, hanno proposto un’ulteriore drammatica ipotesi: qualora l’impatto
fosse avvenuto in un’area calcarea, l’immissione in atmosfera di anidride carbonica avrebbe
peggiorato profondamente l’effetto serra. Probabilmente esseri viventi sfuggiti all’inverno artificiale
sarebbero stati successivamente uccisi da un eccezionale calore.
Le piogge acide, secondo Lewis, Watkins, Hartmann e Prinn (MIT), troverebbero origine nel
parossistico riscaldamento atmosferico in grado di combinare le molecole di ossigeno e azoto,
generando acido nitrico, con le conseguenze che tutti possiamo immaginare al venir delle piogge.
Non solo: gli invertebrati marini, dal guscio calcareo, si sarebbero sciolti a causa della solubilità dei
gusci carbonatici in acque acide.
Insomma, in ultima analisi: le pietre di Ica indicano un evento ben preciso che si sposa
perfettamente, sia nei tempi sia nelle modalità, con l’impatto del KT.
Vi è da considerare, oltremodo, la presenza di raffigurazioni sauriche esistenti proprio in quell’arco
di tempo, anzi, fino a quell’arco di tempo: vedi gli stegosauri, i triceratopi, i tirannosauri e gli
pterodattili tutti raffigurati dal misterioso uomo di Ica.
La conclusione cui arriviamo è quella di ipotizzare, senza remore, un disastro globale e umano
avvenuto all’alba di un giorno maledetto 65 milioni di anni fa, in cui popolazioni evolute, sia
tecnologicamente sia a livello di pensiero, conviventi con i dinosauri, furono sterminate insieme ai
coinquilini planetari da un proiettile spaziale vagante.
Nei prossimi paragrafi scopriremo se si tratta di "proiettili vaganti" oppure di drammatici fenomeni
costanti.

UN ASSASSINO CHIAMATO VENDETTA

Nel 1984 un’ipotesi inquietante, partita da uno studio dell’Università di Chicago, inizia a farsi
strada nel consenso ortodosso: le comete potrebbero colpire periodicamente la Terra.
Raup e Sepkoski pubblicarono uno studio che indicava come estinzioni di massa si siano verificate
ad intervalli di 32 milioni di anni.
La conferma dell’ipotesi, non della tesi dunque, fu data da R. Muller, dell’Università californiana di
Berkeley: la periodicità è calcolabile.

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Quale ipotesi e quali soprattutto i parametri indiziari a disposizione?
L’ipotesi di base contempla una stella compagna del Sole, che compie la sua orbita in 32 milioni di
anni intorno alla nostra stella madre. L’interferenza del corpo celeste denominato "Nemesi"
("Vendetta" in greco) avrebbe turbato le orbite cometarie ai confini del sistema scatenandone una
pioggia per un milione di anni circa, aumentando la possibilità di impatto singolo o multiplo sulle
superfici dei pianeti e del nostro in particolare.
Sottolineo il fatto che Whitemire e Jackson (Southwestern Lousiana e Computer Sciences
Corporation) proposero indipendentemente la stessa ipotesi.
Detta realtà sarebbe risultata effettiva e possibile solo se i crateri da impatto mai avessero presentato
la stessa periodicità.
Alvarez dovette ricredersi nel momento in cui la conferma arrivò anche su questo aspetto: fu Muller
a scoprire la contemporaneità tra fenomeni di estinzione ed età dei crateri terrestri da impatto.
Un intervallo di 32 milioni di anni ci porta facilmente a calcolare due eventi: il primo è senza
dubbio quello riguardante il KT; l’altro, a distanza di 65 milioni d’anni, sottolinea l’ipotetico
disastro dell’11.500 a.C..
Probabilmente 32 milioni di anni or sono qualcos’altro deve essere accaduto. Starà alla scienza
avanguardista, o a quella particolarmente illuminata e progressista, dare una risposta al quesito; noi
terremo la rotta in tal senso cercando quanti più indizi possibili.

I TRAPPI DI DECCAN

Ogni ipotesi che si rispetti deve avere un corollario di negazione, sorta di smentita categorica o
contro analisi in grado di rimettere in discussione il tutto. Oso dire, che più l’ipotesi è ferrata
maggiore dovrà essere la pressione esercitata dalla controparte, e questa pressione deve soprattutto
dimostrare credibilità.
Nel caso del limite KT la controparte è rappresentata da ipotesi alternative quali i fenomeni naturali
endogeni; uno su tutti è il vulcanismo.
La scienza si è chiesta se un’eruzione violentissima o diverse eruzioni contemporanee possano
essere annoverate tra i principali responsabili dell’eccidio cretacico.
I parametri messi in campo sono simmetrici alle prove del KT; l’indiziato principale sono i trappi
del Deccan.

• Il periodo: 65 milioni di anni fa un altro fenomeno di proporzioni immani sconvolgeva il


tranquillo assetto planetario. In India si può osservare una conformazione basaltica di proporzioni
immani denominata "trappi del Deccan"; sembra che, come il KT, sia avvenuta in un periodo di
polarità geomagnetica invertita (V.E. Courtillot, dell'Università di Parigi). Courtillot ha individuato
il periodo nel 29R, momento in cui si verificò il KT stesso. Ma la conformazione basaltica stessa
smentisce l’ipotesi e scagiona l’imputato; questa è avvenuta nell’arco di 500.000 anni e non si sposa
con la scomparsa repentina degli esseri viventi al momento del KT (arco di tempo espresso in 1.000
anni circa, se non meno).

• L’anomalia dell’iridio: ci si è chiesti anche se le mega eruzioni vulcaniche mai avessero


potuto ribaltare i valori dell’iridio sul pianeta. Nel 1983 fu Zoeller, dell'Università del Maryland, a
trovare assieme al proprio gruppo di studio quantità notevoli di iridio nei vapori del vulcano
Kilauea (arcipelago delle Hawaii). Il rapporto iridio-elementi rari nei fumi vulcanici, comunque,
non raggiunge minimamente le quantità rilevate nel KT.

• Il quarzo con strutture lamellari da shock: le osservazioni di quarzite deformata da


esplosione si concentrano anche intorno ai vulcani; tuttavia le strutture lamellari presenti nel KT si
possono formare esclusivamente con shock da impatto. Le quarziti oltretutto contengono stishovite
(J. McHone, dell'Arizona State University), un quarzo particolare la cui generazione può avvenire

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esclusivamente ad altissime pressioni, molto più elevate di una qualsiasi esplosione eruttiva; tali
pressioni si riscontrano solamente in fenomeni da impatto.
• Le sferule basaltiche: queste ultime smentiscono il vulcanismo; esso avrebbe potuto
generare le sferule tramite normalissime eruzioni laviche ma senza essere in grado di portarle in
tutto il globo.
La spiegazione più plausibile è una sintesi tra tesi (impatto) e antitesi (eruzione); ancora oggi, pur
essendo possibile lo scatenarsi di vulcanismo parossistico da impatto, i vulcanologi non ne
conoscono la reazione meccanica.

LA MEMORIA DEI RETTILI

In ogni uomo risiede la memoria di una o più catastrofi che mutarono per sempre il corso della
storia modellando gli eventi fino al punto in cui viviamo noi oggi.
Il Diluvio Universale, con tutte le implicazioni religiose che ivi sono contenute, ci rimanda ad una
testimonianza, un vero e proprio vissuto più che ad un racconto terzo, ascoltato.
Chi tramandò il racconto del Diluvio deve averlo vissuto o udito da chi ancora ne serbava il
terrificante ricordo non fosse altro perché questo fatto viene raccontato da ogni gruppo umano in
ogni istante della storia.
È una delle prove a sostegno della tesi catastrofista, l’imprinting psicologico che ha determinato
l’immagine del diluvio; questa stessa tesi viene riportata anche per la memoria che noi esseri umani
serbiamo dei sauri.
Per dirla con le parole di Jung, alcuni simboli ricorrenti nello scorrere intellettuale umano nel corso
dei millenni, trovano riscontro nel ricordo dei sauri.
Secondo Bylinsky, dell'Accademia delle Scienze di New York, il cervello dei sauri ha
un’importanza fondamentale nell’evoluzione della neocorteccia che ha portato alla razionalità la
stirpe dell’uomo: esso è "una sorta di anello di congiunzione tra noi e le nostre emozioni".
Vi sono delle correnti di pensiero naturaliste che sostengono il ritorno continuo in noi uomini delle
pulsioni rettili; ogni volta che l’uomo disinserisce sentimento e razionalità lasciando correre le
emozioni compulsive, si attiva il cervello originario, la parte più antica. Lo sguardo intelligente
lascia spazio a pupille fredde, violente e, seppur utilizzando tecnologie di altissimo livello, l’uomo
si scaglia contro l’altro uomo in una lotta tesa alla distruzione, né più né meno di come si
comportavano i T-Rex o gli allosauri nel lontanissimo Mesozoico.
La nostra stirpe ricorda gli antichi dominatori poiché non solo può vantarne una appartenenza
genetica ma addirittura una convivenza e oltretutto scomoda.
È noto come saghe e leggende o più semplicemente le religioni siano infarcite di draghi dalle
lunghe corna, squame ed ali; serpenti e mostri che ricordano forme sauriche.
Quale l’origine, dunque, di questo parallelo nel momento in cui, scientificamente, non può esistere
contemporaneità esperienziale tra i sauri e l’umanità?
Allora 16 milioni di anni non bastarono a cancellare il terrore dei dominatori mesozoici?
Questo testimonierebbe dunque una vera e propria convivenza; è il terrore misto a fascino, scatenati
dai dinosauri, ad indurre la psicoanalisi a chiedersene il perché.
Perché solo scimmia e uomo manifestano terrore immediato senza esperienza di fronte ai rettili?
Che cosa sanno i primati rispetto alle altre specie?
Ma soprattutto: cosa hanno vissuto nella loro antichissima origine...?
Non sono queste delle risposte desunte da atteggiamenti singoli; si tratta invero di atteggiamenti
subcoscienti comuni, allargati a tutta la famiglia umana e dei primati.
I test portati sui bambini ribadiscono la radice profonda delle paure suscitate dai sauri: il 40%
rabbrividisce di fronte a serpenti e rettili; nei primati (scimmie), il 100%!

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Tutti gli altri animali debbono esperire i rettili prima di averne paura. Noi e le scimmie, no.
Quindi il tutto deriverebbe da situazioni esperienziali avvenute nel Mesozoico.
I boscimani rappresentano sulle proprie case enormi serpenti e rettili alati e dotati di corna; in
Africa una tribù parla della fuga dal Mindi, enorme serpente dall’odore infausto; gli aborigeni in
Australia raccontano di Aman-Tjuni il grande serpente che uscì dal mare per dimorare sulla terra; i
cinesi da sempre accompagnano le loro manifestazioni culturali e religiose con i serpenti e i draghi.
E poi i Greci, gli Assiri, i Tolteci, gli Aztechi.
I sauri vivono nei nostri ricordi perché la razza umana li vide e vi convisse a lungo.

Si è voluto mettere in risalto il parallelo tra la catastrofe del limite KT e la scomparsa della civiltà di
Ica, passando attraverso prove, indizi e considerazioni che, legate tra loro, tracciano un profilo di
eventi possibili.
È difficile credere che 65 milioni di anni fa una vicenda umana e animale del pianeta Terra non
ebbe più futuro a causa di un impatto cosmico con un corpo che poteva essere una cometa o un
asteroide.
Il fatto è che le prove e gli indizi a carico di questa ipotesi sembrerebbero non lasciare dubbi. In una
sola espressione: l’evento KT e le Pietre di Ica hanno la stessa età...
Il testo di Petratu e Roidinger merita un posto nelle vostre librerie; avvincente come un romanzo e
dettagliato non meno di qualsivoglia saggio archeologico, rivela un passato remoto misterioso ma
che inizia ad essere svelato, spiegato e argomentato.
Noi abbiamo l’obbligo a questo punto di dare una sepoltura a uomini di cui non sospettavamo
nemmeno l’esistenza; eppure essi ebbero il coraggio di testimoniare la propria esistenza in un
momento di profonda e terribile drammaticità, come memoriale destinato a chi sarebbe venuto
dopo; perché in loro l’etica umana aveva già un valore assoluto e radicato.
Approfitto per augurare a tutti buone vacanze e rivederci a settembre con nuovi orizzonti
conoscitivi.

LE PIETRE DI ICA SONO AUTENTICHE

(Corrieredelweb.it – mercoledì 3 giugno 2009 e sul n° 8 della rivista fenix)


Una spedizione nel deserto di Ocucaje in Perù, guidata dagli spagnoli
Mari Carmen Olazar e Felix Arenas Mariscal svela la reale età delle
famose Pietre di Ica, caratterizzate da incisioni che raffigurano
uomini e dinosauri e una civiltà scomparsa dotata di ampie conoscenze
tecnologiche. L'enigma delle Pietre di Ica non sarebbe più tale grazie
ad una ricerca realizzata dai suddetti ricercatori, che hanno
viaggiato sino al Perù per dissotterrare alcune pietre, per la prima
volta da quando queste erano apparse negli anni '60 dello scorso
secolo grazie al dottor Javier D. Cabrera (scomparso alcuni anni fa),
pietre offerte ad università e laboratori spagnoli per la loro
datazione. I risultati, ottenuti dalle prestigiose istituzioni
scientifiche in Spagna, confermano che le pietre sono davvero antiche
e dunque danno ragione al dottor Cabrera e al mistero che questi
reperti rappresentano.

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HIPERBOREI

Il presente breve studio si propone di sintetizzare alcune notizie inerenti il mitico popolo degli
Iperborei, sia all’ ipotetica collocazione geografica, sia nell'ambito del vaglio delle testimonianze
antiche su di esso.

La traduzione dei passi greci e latini è di Francesco Tenni esperto linguista e studioso delle lingue
indoeuropee, nonché studioso dei mitici popoli iperborei.

1. Iperborei

Degli Iperborei, il popolo che dimorava nell'estremo Settentrione, si trova menzione presso
numerosi Autori dell'Antichità latina e greca.

La prima testimonianza risale, probabilmente, ad Ecateo di Mileto (VI secolo a. C.), che li situa
all'estremo Nord della terra, tra l'Oceano ed i Monti Rifei.

Dati analoghi, ma più estesi, vengono forniti da Erodoto, che scrive: [...] Aristea di Proconneso
figlio di Castrobio, componendo un poema epico, disse di essere arrivato, invasato da Febo, presso
gli Issedoni, e che al di là degli Issedoni abitano gli Arimaspi, uomini monocoli, e, al di là di questi,
i grifi custodi dell'oro, e, oltre a questi, gli Iperborei, che si estendono fino ad un mare. Tutti
costoro, eccetto gli Iperborei, a cominciare dagli Arimaspi, aggrediscono di continuo i loro vicini; e
così dagli Arimaspi furono scacciati dal loro paese gli Issedoni, dagli Issedoni gli Sciti; ed i
Cimmeri, che abitano sul mare australe, premuti dagli Sciti, abbandonarono il paese [...] (Storie, IV,
13). Ecateo di Abdera (IV-III secolo a. C.), Autore di un'opera Sugli Iperborei, della quale ci sono
pervenuti solo alcuni frammenti, li colloca, anch'egli, a Nord, in un'isola dell'Oceano [...] non
minore della Sicilia per estensione [...]. Su questa isola, dalla quale è possibile vedere la luna da
vicino, i tre figli di Borea rendono culto ad Apollo, accompagnati dal canto di una schiera di cigni
originari dei Monti Rifei.

Altre citazioni si trovano nel primo Inno a Dioniso pseudomerico, in Pindaro, in Eschilo, in
Diodoro Siculo, in Luciano di Samosata. Da parte sua, Strabone colloca gli Iperborei tra il Mar
Nero, il Danubio e l'Adriatico: [...] Tutti i popoli verso Nord ebbero nome, da parte degli storici
greci, di Sciti o Celtosciti, ma gli scrittori dei tempi ancora più antichi, ponendo distinzioni tra loro,
chiamavano Iperborei quelli che vivevano intorno al Ponto Eusino, all'Istro ed all'Adriatico [...]
(Geografia, 11, 6, 2).

Tra gli Autori latini, troviamo questo passo di Virgilio: [...] tale è la gente selvaggia che sotto
l'iperboreo Settentrione viene sferzata dal vento rifeo e si avvolge il corpo in fulve pellicce di
animali [...] (Georgiche, 3, 381-383). Ma la testimonianza più ricca è quella di Plinio il Vecchio:
[...] Poi ci sono i Monti Rifei e la regione chiamata Pterophoros per la frequente caduta di neve, a
somiglianza di piume, una parte del mondo condannata dalla natura ed immersa in una densa
oscurità, occupata, solo, dall'azione del gelo e dai freddi ricettacoli dell'Aquilone. Dietro quelle
montagne, ed al di là dell'Aquilone, un popolo fortunato (se crediamo), che hanno chiamato

15
Iperborei, vive fino a vecchiaia, famoso per leggendari prodigi. Si crede che in quel luogo siano i
cardini del mondo e gli estremi limiti delle rivoluzioni delle stelle, con sei mesi di chiaro ed un solo
giorno senza sole; non, come hanno detto gl'inesperti, dall'equinozio di primavera fino all'autunno:
per loro il sole sorge una volta all'anno, nel solstizio d'estate, e tramonta una volta, nel solstizio
d'inverno. È una regione luminosa con clima mite, priva di ogni nocivo flagello. Hanno per case
boschi e foreste, venerano gli dèi profondamente ed in comune, la discordia ed ogni malattia sono
loro ignote. Non c'è morte, se non per sazietà di vita, dopo i banchetti e nella vecchiaia colma di
conforto; si gettano in mare da una rupe: questo tipo di sepoltura è il più felice [...]. Non si può
dubitare di quel popolo: tanti Autori tramandano che essi sono soliti inviare a Delo, ad Apollo, da
loro venerato tra tutti, le primizie delle messi. Le portavano alcune fanciulle, venerate per alcuni
anni dall'ospitalità dei popoli, finché, essendo stato violato il patto, essi decisero di deporre le sacre
offerte sui confini degli abitanti più vicini, affinché questi le passassero ai loro vicini, e così fino a
Delo [...] (Naturalis Historia, IV, 88-91).

Un'eco del tema iperboreo può essere individuata nella stessa Odissea. Come è stato osservato, [...]
il primo Autore classico in cui l'idea di Settentrione sembra assumere connotazioni riducibili a
termini reali è l'autore dell'Odissea i cui versi danno un'idea precisa di che cosa significasse il Nord
per i Mediterranei. Quando Ulisse scende agli inferi ne trova l'ingresso nel paese dei Cimmeri,
oscuro e gelido. Sia della Cimmeria che di Lestrigonia, dove d'estate regna la luminosità continua,
Omero aveva avuto notizia tramite i mercanti che frequentavano i porti del Mar Nero settentrionale,
dove i Greci si erano stabiliti a partire dall'VIII secolo [...] (1). In realtà, di ciò che accade nelle
zone settentrionali del globo terrestre i Greci poterono avere notizia già in età micenea, quando
importavano l'ambra dal Baltico. Ma non è escluso che il X libro dell'Odissea abbia custodito un
elemento relativo all'originario stanziamento dei popoli Indoeuropei nella zona artica e subartica,
così come elementi analoghi sono stati conservati dagli inni vedici, secondo quanto ha dimostrato
Bâl Gangâdhar Tilak (2).

A Telepilo Lestrigonia infatti, secondo quanto dice l'aedo, [...] rientrando il pastore chiama il
pastore, e questo uscendo risponde. Qui un uomo insonne (àypnos) riscuoterebbe due paghe: una
pascolando buoi, l'altra pascolando candide greggi; infatti sono vicini i sentieri della Notte e del Dì
[...] (Odissea, X, 82-86). In altre parole, un pastore che fosse in grado di rimanere continuamente
sveglio potrebbe svolgere un doppio turno di lavoro, perché nella terra dei Lestrigoni la durata della
luce diurna è di circa ventiquattro ore. (L'immagine dei sentieri del Dì e della Notte si chiarisce in
questo senso, se la confrontiamo con Esiodo, Teogonia, 746 ss.).

Il fenomeno descritto da Omero trova riscontro in ciò che, effettivamente, avviene nell'estremo
Settentrione; ed anche il nome di Lamo (Làmos), citato nel brano in questione, richiama,
curiosamente, come è stato osservato, quello di Lamøy, un'isola vicina alle coste settentrionali della
Norvegia (3). Infine, non bisogna trascurare il fatto che [...] Telepilo Lestrigonia [...] potrebbe,
benissimo, significare [...] Lestrigonia Porte-Lontane [...], nel qual caso avremmo un sintagma
analogo ad "ultima Thule". Un antico testo taoista, il Lieh-tzu o Vero libro della sublime virtù del
cavo e del vuoto, contiene una lunga descrizione di un paese, il regno dell'Estremo Settentrione, che
si trova a Nord del mare settentrionale, [...] non so a quante migliaia o decine di migliaia di li dalle
province centrali [...]. Questo paese, nel quale le condizioni climatiche sono miti ([...] non c'è vento
e pioggia, gelo e rugiada [...]), [...] non dà vita ad uccelli e ad animali, ad insetti e a pesci, ad erbe e
ad alberi [...]. La geografia di questo paese richiama, per alcuni versi, alcune descrizioni del
Paradiso: [...] Tra i quattro lati è completamente piatto ed è circondato da ripide colline. Nel mezzo
del regno c'è una montagna a forma di orcio, chiamata Hu-ling, sulla sommità della quale c'è un
orificio a forma di braccialetto rotondo, detto Antro dell'Abbondanza, dal quale zampilla un'acqua
chiamata Polla Sovrannaturale: ha un odore più forte di quello delle orchidee e delle spezie, un
sapore più forte di quello del mosto. Questa sola sorgente, dividendosi, forma quattro corsi d'acqua,

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che fluiscono verso il basso della montagna e scorrono ad irrigare tutto il paese [...].

Gli abitanti dell'Estremo Settentrione, prosegue il Lieh-tzu, vivono una vita felice. [...] Essendo di
carattere gentile e compiacente, non litigano e non contendono; avendo il cuore molle e le ossa
deboli, non sono alteri né servili; vivendo separati anziani e giovani, non hanno principi né sudditi;
andando frammisti uomini e donne, non hanno paraninfi e sponsali; vivendo in vicinanza dell'acqua,
non arano e non seminano; essendo il clima mite e uniforme, non tessono e non si vestono.
Muoiono a cent'anni, senza morti premature o malattie; il popolo si moltiplica a iosa, gode di
piaceri e di gioie e non conosce decadimento e vecchiaia, tristezza e dolore. Per costume sono
amanti della musica e, prendendosi per mano, cantano a turno senza mai smettere per tutto il giorno.
Quando hanno fame e sono stanchi, bevono alla Polla Sovrannaturale e ne sono rinfrancati nelle
forze e nella volontà, se eccedono si ubriacano e tornano sobri dopo dieci giorni. Bagnandosi nella
Polla Sovrannaturale, la loro pelle diviene liscia e lucida e la fragranza svanisce solo dopo dieci
giorni [...] (4).

I temi del Paradiso iperboreo e dell'origine polare, attestati nelle forme tradizionali più antiche, si
ripresentano, congiuntamente, in modo definitivo, nella forma tradizionale più recente, quella
islamica, la quale ha situato nell'estremo Settentrione la "terra celeste" di Hûrqalyâ. Questa dottrina,
esposta nell'età contemporanea dalle scuole sciite shaykhî e ishrâqî, riprende il tema mazdaico della
"Terra trasfigurata": infatti il geografo Yaqût affermava che il monte Qâf, la [...] madre di tutte le
montagne [...], dalla quale parte la via polare verso Allâh, un tempo si chiamava Alborz. Henry
Corbin, da parte sua, avverte che l'Oriente del quale parla la cosmologia di Avicenna deve essere
cercato nella [...] dimensione polare [...], e non nell'Est indicato dalle nostre carte geografiche. [...]
Infatti [...] - spiega Corbin - [...] questo Oriente è il polo celeste, il 'centro' di ogni orientamento
concepibile. Bisogna cercarlo nella direzione del Nord cosmico, quella della 'Terra di luce' [...] (5).
Nel suo Libro dell'Uomo Perfetto (Kitâb al-insân al-kâmil), Abd al-Karîm al-Jîlî (1365-1403) parla
di un luogo che, in Corano, VII, 44 e 46, è designato col nome di al-Acrâf ("le Altezze") e in LIV,
55, è definito [...] soggiorno di verità, presso un re potente [...]. Chi dimora in questo luogo è un [...]
desto [...], un [...] vegliante [...] (in Arabo, yaqzân, equivalente all'omerico àypnos); d'altronde, il
vicino paese dell'angelo Yûh, sul quale regna Sayyidn`â al-Khidr, è il paese del sole di mezzanotte,
nel quale non vige l'obbligo della preghiera rituale della sera (salât al-maghreb), perché ivi l'alba
antecede il tramonto.

[...] Dov'era, dove non era, di là dai sette paesi ed un settimo, di là dalla Montagna di Vetro, di là
dal mare di Operencia, c'era una volta [...] (6) Nel motivo dei [...] sei paesi ed un settimo [...]
(hetedhétország) o dei [...] sette mondi [...] (hétvilág), che compare nel consueto incipit delle fiabe
popolari ungheresi, il folclore magiaro ha conservato il residuo fossile di un elemento di dottrina
tradizionale estesamente diffuso nelle culture dell'Eurasia. I "sette paesi" o "sette mondi" della
tradizione magiara trovano, infatti, riscontro nella geografia sacra dei Purâna indù, che parlano di
sette dwîpa, cioè di sette "isole" continentali emerse l'una dopo l'altra. Ma il motivo delle "sette
terre" è presente, anche, nella geografia tradizionale iranica, la quale distingue sette keshvar
(avestico karshvar), sette "climi", che sono, in realtà, sette zone della Terra. Il keshvar centrale, che
rappresenta lo spazio terrestre attualmente accessibile agli uomini, è stato, a sua volta, suddiviso
(per esempio da al-Bîrûnî) nelle sette regioni seguenti: 1) India, 2) Arabia e Abissinia, 3) Siria ed
Egitto, 4) Iran, 5) Bisanzio e mondo slavo, 6) Turkestan, 7) Cina e Tibet. Nell'esoterismo islamico,
le "sette terre" rappresentano sette diverse categorie (tabaqât) dell'esistenza terrena: ciascuna è
governata da un Polo (Qutb), ed i sette Poli sono subordinati al Polo Supremo (al-Qutb al-Ghawth).
Ai sette Poli dell'Islam (ai sette rsi dell'India, ai sette saggi dell'Antichità greca, etc.) corrispondono
i sette Magyar (hetumoger) dei quali parlano le Cronache medioevali, i hét vezér delle tribù ugriche
guidate da Árpád.

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Di là dai "sette paesi", di là dai "sette mondi", tra gli altri personaggi fiabeschi c'è anche il Forte
Giovanni (Erös János, Erös Jancsi). In questo personaggio (che corrisponde al Batyr Ivan delle
favole ciuvasse e allo Starker Hans di quelle tedesche) troviamo il riflesso fiabesco di tutta una serie
di mitici "fanciulli divini", alla quale, come ha mostrato Károly Kerényi (7), appartengono, anche, il
Kullervo del Kalevala ed il Mir-susne-hum della mitologia vogula. Alcune favole raccontano che il
Forte János è figlio di una vedova, come Parsifal, come Mani; altre dicono che non ha né padre né
madre: come Melchisedec (Ebrei, 7, 3), che alcuni identificano con Sayyidnâ` al-Khidr. D'altronde,
la figura del "fanciullo divino" allude, anch'essa, ad un'arché; e, sovente, a questa arché si
accompagnano riferimenti "polari" ed iperborei.

In una favola il Forte János si fa obbedire da un orso che egli ha trovato nella foresta; alcune
varianti spiegano l'eccezionale forza fisica del ragazzo attribuendone la paternità ad un orso. E' noto
che il simbolo dell'orso corrisponde, in una delle sue valenze, al Nord: ce lo ricorda l'Orsa
Maggiore, ma, anche, la terminologia geografica ed astronomica relativa al Nord, che, in varie
lingue, trae origine dal greco àrktos ("orso"). Ma, secondo la tradizione indù, la settentrionale "terra
dell'orso" era stata, antecedentemente, la "terra del cinghiale", Vârâhî, perché il cinghiale (in
sanscrito varâha) simboleggia la terza "discesa" di Vishnu nell'attuale manvantara, ossia nel
presente ciclo di umanità. Tale cambiamento di denominazione, spiega René Guénon, sarebbe
l'effetto di una rivolta della casta guerriera contro quella sacerdotale, rivolta alla quale pose termine
il sesto avatâra di Vishnu, Parashu-Râma.

Ora, se il Forte János si limitasse a sottomettere l'orso, il suo ruolo sarebbe identico a quello di
Parashu-Râma e l'eroe della favola ungherese sarebbe una variante folclorica della figura
dell'avatâra. Anzi, per rimanere in ambito ugrofinnico, János si identificherebbe con Mir-susne-
hum, che insegue l'orso e lo sconfigge. Ma János riunisce intorno alla propria persona sia l'orso sia i
cinghiali, quasi a dimostrazione del fatto che [...] i due simboli del cinghiale e dell'orso non
appaiono sempre necessariamente in opposizione o in lotta, ma, in certi casi, possono anche
rappresentare l'autorità spirituale e il potere temporale, o le due caste dei druidi e dei cavalieri, nei
loro rapporti normali e armonici [...] (8). Dunque, se l'abbinamento dei simboli in questa favola non
è casuale, essa dovrebbe alludere ad un'epoca remota nella quale, tra le due funzioni, esisteva,
ancora, una perfetta armonia.

Infine, un'osservazione sul nome del protagonista. Nel suo studio sulla Dacia iperborea (9), Geticus
(alias Vasile Lovinescu) ha riportato il nome Ion (Giovanni), che, secondo la sua interpretazione,
designa il "Re del Mondo" nella tradizione popolare romena, al nome di Janus, il dio che regnò sul
Lazio nell'età dell'oro. Ma si potrebbe aggiungere che il latino Janus, indipendentemente da ogni
considerazione propriamente etimologica, presenta una curiosa assonanza anche con l'ungherese
János; ed a questa fortuita analogia fonetica tra i due nomi si aggiunge una analogia sostanziale tra
le due figure, perché tanto il bifronte Janus quanto lo János dominatore di orsi e cinghiali
rappresentano un'unità primordiale non ancora dissociata nella dualità.

La tesi di Geticus-Lovinescu è nota. A suo parere la Dacia sarebbe stata, in un certo periodo
dell'Antichità, la sede di un centro spirituale di origine iperborea; in altri termini, gli Iperborei,
spostandosi dall'originaria sede settentrionale verso il Sud, avrebbero sostato nel territorio compreso
tra il Danubio ed i Carpazi, e ne avrebbero fatto una loro sede secondaria. Al fine di suffragare un
tale assunto, l'Autore della Dacia iperborea passa in rassegna un vasto materiale documentario,
desunto, sostanzialmente, dall'opera di Densuçianu (10): il folclore, la toponomastica, la
numismatica, le sorgenti documentarie e letterarie greche e latine, la stessa storia dei Principati
romeni secondo Geticus-Lovinescu avvalora l'ipotesi secondo la quale la tradizione dacica sarebbe
sopravvissuta fino a tempi relativamente recenti.

18
Geticus-Lovinescu espose queste vedute in una serie di articoli che apparvero su Études
Traditionnelles tra il 1936 ed il 1937. Questi scritti hanno avuto più estesa risonanza cinquant'anni
più tardi, quando, in seguito all'edizione italiana del 1984 ed a quella francese del 1987, Vintila
Horia ne parlò con ammirazione, mentre, in Romania, Virgil Candea ebbe modo di richiamare
l'attenzione sull'immagine della Dacia arcaica tracciata da [...] B.P. Has deu, Nicola Densuçianu,
Mihail Sadoveanu, Matila Ghyka, Mircea Eliade, Mihai Valsan, Mihai Avramescu, Vasile (e anche
Horia) Lovinescu, Nichita Stenescu, per citare soltanto quegli Autori scomparsi che hanno coltivato
la philosophia perennis con mezzi, ambizioni e risultati differenti [...] (11). L'edizione francese, in
particolare, destò l'interesse di studiosi quali Charles Ridoux e Paul Georges Sansonetti;
quest'ultimo, allievo di Henry Corbin e Gilbert Durand, tenne, alla Sorbona, un corso sulla Dacia
iperborea.

Le indicazioni contenute nella Dacia iperborea hanno ricevuto un certo sviluppo in Russia, negli
scritti di Aleksandr Dugin, che, ormai nel 1991, faceva circolare in samizdat una sua
Giperborejskaja teorija (12). Scrive Dugin: [...] La 'Dacia iperborea' di Geticus rappresenta il polo
comune di due circoli opposti: il circolo meridionale mediterraneo ed il circolo settentrionale [...]
russo-slavo (nel quale rientrano anche le componenti balto-scandinave). [...] Comunque sia, la
'Dacia iperborea' rappresentava il limite meridionale della Gardarika-Russia iperborea,
concentrando, in sé, le energie sacrali del Nord ed i motivi mitici iperboreo-solari. Però, la sua
posizione intermedia tra i due circoli suddetti fa sì che essa svolga una funzione davvero particolare
all'interno della 'economia del sacro', sicché si spiega, in parte, il radicarsi delle tendenze iperboree
sul territorio romeno [...] (13). Sempre in Russia, nel 1997, Valerij Diomin ha guidato una
spedizione scientifica nella Penisola di Kola, dove sono stati scoperti i resti di una civiltà che
dovrebbe risalire a ventimila anni fa. Riferendosi ai risultati di quella spedizione, la stampa russa
annunciava che l'Iperborea, [...] culla di tutti i popoli indoeuropei [...] non soltanto è esistita, ma si
trovava sul territorio del Settentrione russo [...] (14).

19
Note

(1) Luigi De Anna, Conoscenza e immagine della Finlandia e del Settentrione nella cultura classico-
medievale, Turun Yliopisto, Turku 1988, pp. 17-18.

(2) Bâl Gangâdhar Tilak, The Arctic Home in the Vedas, trad. it. La dimora artica nei Veda, Ecig,
Genova 1986.

(3) Felice Vinci, Homericus nuncius. Il mondo di Omero nel Baltico, Solfanelli, Chieti 1993, p. 45.

(4) Testi taoisti, trad. di F. Tomassini, Utet, Torino 1977, pp. 275-276.

(5) Henry Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, Adelphi, Milano 1986, p. 94.

(6) Cfr. Anikó Steiner, Sciamanesimo e folclore, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1980, p. 26.

(7) Carl G. Jung e Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati
Boringhieri, Torino 1972.

(8) René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Torino 1975, pp. 150-151.

(9) Geticus, La Dacia iperborea, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma, 1984.

(10) Nicolae Densusianu, Dacia preistorica, editia a II-a, studiu introductiv si note de Man
Neagoe, Editura Meridiane, Bucuresti 1986.

(11) Virgil Cândea, Viziuni ale Daciei arhaice în perspectiva istoriei ideilor, "Viata Româneasca",
nn. 2, febbraio 1990, p. 41.

(12) Edizione a stampa: Aleksandr Dugin, Giperborejskaja teorija, Arktogeja, Moskva 1993.

(13) Alexandr Duguin, Rusia. El misterio de Eurasia, Grupo Libro 88, Madrid 1992, pp. 67-72.

(14) Vittorio Strada, Scoperta Iperborea. Nuova linfa per i neonazisti russi, "Corriere della Sera", 19
aprile 1998.
2. Gli Iperborei e l'Iperborea

20
Hyperborea o Iperborea è una terra leggendaria, patria degli Iperborei.

Nei miti della religione greca e nei racconti degli storici greci (tra i quali Erodoto), gli Iperborei
erano un popolo che viveva in questa terra lontanissima, situata a Nord della Grecia. Questa
regione, chiamata Hyperborea o Hyperboria (cioè "oltre Borea, il vento del Nord"), era un paese
perfetto, illuminato dal sole splendente per sei mesi all'anno. In questa terra Latona avrebbe
partorito Apollo (da qui la denominazione di Apollo Iperboreo), divinità greca della luce.

Ecateo di Mileto (VI secolo a. C.) colloca gli Iperborei all’estremo Nord, tra l'Oceano (inteso come
l'anello d'acqua che la cultura greca immaginava scorrere attorno alle terre emerse come se fosse un
fiume) ed i monti Rifei.

Ecateo di Abdera (IV-II secolo a.C.), Autore di un'opera Sugli Iperborei della quale ci sono
pervenuti solo alcuni frammenti, li colloca in un'isola dell'Oceano [...] non minore della Sicilia per
estensione [...]. Su quest'isola, dalla quale è possibile vedere la luna da vicino, i tre figli di Borea
rendono culto ad Apollo, accompagnati dal canto di una schiera di cigni originari dei monti Rifei.

Esiodo (frammento 150 Merkelbach-West, vv. 21-24) colloca gli Iperborei [...] presso le alte
cascate dell'Eridano dal profondo alveo [...]. La cultura greco-romana formulò numerose proposte
in merito alla sede geografica di questo fiume: due sorgenti storiche, in particolare, ci trasmettono la
nozione secondo la quale l'Eridano sfocerebbe nell’Oceano settentrionale: Ferecide di Atene (fr. 16
a Jacoby I) ed Erodoto (Storie, II 115,1).

Pindaro (Olimpiche, 3,13-16) colloca gli Iperborei nella regione delle [...] ombrose sorgenti [...] del
fiume Istro (in greco Ister, l'attuale Danubio). In un passo del Prometeo Liberato Eschilo ricorda la
sorgente dell’Istro come localizzabile nel paese degli Iperborei e presso i sempre ed ovunque citati
monti Rifei; Ellanico di Lesbo (frammento 187 b e c Jacoby I) e Damaste di Sigeo (frammento 1
Jacoby I) pongono la sede iperborea oltre i monti Rifei; quest'ultimo, inoltre, ricorda i monti Rifei
come situati a Nord dei grifoni guardiani dell’oro (si veda, a questo proposito, il poema di Aristea di
Proconneso sugli Issedoni).

Erodoto (in Storie, IV 13) riassume il poema di Aristea di Proconneso, ora perduto, nel quale
l’Autore riferiva di un proprio viaggio compiuto, per ispirazione di Apollo, in regioni lontane, fino
al paese degli Issedoni, [...] al di là [...] dei quali vivrebbero gli Arimaspi monocoli, i grifoni custodi
dell'oro e, infine, gli Iperborei. Bruno Luiselli ricostruisce la posizione degli Iperborei, sulla base di
queste indicazioni, come situata in zona Uralica.

Alcuni hanno voluto identificare Hyperborea con un'ipotetica isola che, alla pari di Atlantide, in
tempi antichissimi, sarebbe stata sommersa (più di 11000 anni fa), estesa dalle coste occidentali
dell'Irlanda alla Groenlandia, comprendendo interamente l'Islanda.

Altri hanno identificato Hyperborea come l'estremità settentrionale di Atlantide, altri, ancora, con
Thule, altri, semplicemente, con la Scandinavia ed il Nord Europa, terre sconosciute e misteriose
per gli antichi Greci.

21
Tra gli scrittori che in una magica terra chiamata Hyperborea hanno ambientato le loro storie di
fantasia citiamo H.P. Lovecraft, Robert E. Howard, Clark Ashton Smith.
3. Iperborea, Atlantide e l'ultima Thule

Ciclo atlantideo e ciclo nordico, in questo settore di mitologia della geografia, si uniscono.
Atlantide ed Iperborea sarebbero i due mondi mitici caratteristici dell’"Età dell’Oro", sorta di "poli"
spirituali aventi, comunque, una matrice comune. Si tratta, in effetti, nel mito, di civiltà
evolutissime, probabilmente collassate, nella mitologia, nel cataclisma noto, nei vari miti del
mondo, come "Diluvio universale".

Thule, l’isola del sole, ed Iperborea erano i centri principali del ciclo nordico della mitologia, il
ricorso del quale si è conservato nelle leggende, nelle saghe, nei poemi e nella concezione religiosa
di molti popoli dell’Antichità.

I Veda, l’Edda e l’epos omerico rivelano molte tracce di questa primitiva, mitologica, patria nordica
degli Indoeuropei. In questo contesto, assume un grande rilievo la teoria di Bâl Gangâdhar Tilak,
che ha parlato di una [...] dimora artica [...], dalla quale provenivano gli Arya dell’antica India, ed a
questa ipotesi è stato indotto grazie all’analisi dei Veda stessi, poema sacro che abbonda di
riferimenti astronomici e climatici ad un primordiale "ciclo" nordico.

Esistono diversi indizi letterari di una civiltà dell’"Età dell’Oro" presente nell’area polare, da porre
in relazione agli Dèi.

Nel Mahabharata, corrispettivo indiano dell’Iliade, si leggono degli accenni alla [...] terra
dell’estremo Nord [...], in sanscrito Uttarakuru, definita, in persiano, Airyana Vaèio, "il seme degli
Arya", o Paradaesa, che è all’origine del termine Paradiso, derivante dal greco Paradèisos, a sua
volta traduzione dell’ebraico / semitico Pardesh.

La tradizione indoeuropea della Persia tramanda il ricordo dell’Airyana Vaèio; gli abitanti
dell’odierno Iran professavano una religione uranica e solare, di tipo olimpico o nordico. Non è un
caso che i Greci attribuissero agli Iperborei il culto del dio solare per eccellenza, Apollo
(Iperboreo).

L’Uttarakuru corrisponde, in maniera sorprendente, all’Iperborea, altra terra estrema posta ai


confini del mondo, sede artica o nordica caratterizzata, nondimeno, da clima mite, ancora libera,
quindi, dai ghiacci che rendono, ormai, inospitale l’area.

La stirpe leggendaria degli Iperborei viveva in un luogo soleggiato per sei o dieci mesi l’anno, e con
una notte della durata di altri sei o due mesi, esattamente come nella zona d’origine degli Arya,
secondo diverse testimonianze contenute nell’Avesta persiano e nei Veda indiani. E, come gli
Iperborei, gli Arya veneravano divinità celesti e solari, peculiari del pantheon indoeuropeo.

Anche l’Inno ad Hermes, tradizionalmente attribuito ad Omero, che menziona la regione della
Pieria, dove nacque il mitico messaggero, confinante con l’Olimpo, il monte sacro degli Dèi greci,
contiene strane anomalie astronomiche relative alle fasi lunari, che possono trovare una spiegazione
apparente, se ambientate in prossimità dell’Artico, nel Nord della Lapponia. Qui, infatti, la notte
solstiziale dura quasi due mesi.

La memoria di un brusco cambiamento climatico è dimostrata dal mito del crepuscolo degli Dèi, il
Ragnarok. Come si legge nell’Edda poetica, [...] verrà l'inverno chiamato Fimbulvetr ('inverno

22
spaventoso'): la neve cadrà vorticando da tutte le parti; ci saranno un grande gelo e venti pungenti;
non ci sarà più il sole. Verranno tre inverni insieme, senza estati di mezzo [...].

La fine dell’Airyana Vaèio fu dovuta, secondo la spiegazione mitologica, ad un drammatico


disastro climatico. Come raccontato nell’Avesta, la divinità Ahura Mazda comunicò al re Yima,
primo signore degli uomini, che una sequela di terribili inverni avrebbe condotto alla distruzione il
suo regno, descritto come una sorta di Eden primordiale.

L’Iperborea, terra primordiale nella quale alcune tradizioni mitologiche sembra attestino che vissero
gli Indoeuropei prima dell’irrigidirsi del clima, può essere identificata con una vasta area compresa
tra la Scandinavia e la Siberia.

Il primo a parlare della mitica terra di Iperborea, come detto, fu Ecateo di Mileto, vissuto nel VI
secolo a. C., che la colloca geograficamente tra la misteriosa catena montuosa dei Rifei - forse gli
Urali? - e l’Oceano.

Erodoto riferisce che Aristea di Proconneso, in un suo poema, elenca alcuni popoli che vivevano a
Nord della Grecia, come gli Issedoni, gli Arimaspi - da notare la radice "ari-" che ci riconduce agli
Arya indoiranici - gli Sciti, e infine gli Iperborei, posti sulle rive di un mare, presumibilmente
l’Artico. È molto interessante notare come, in questo contesto, Erodoto citi, puntualmente, i
Cimmeri, presso i quali arriva Ulisse nell’Odissea, in cerca dell’ingresso dell’Ade, il Regno dei
morti.
Omero scrive che in Cimmeria esiste una notte lunga sei mesi, con ciò rilevando, sembrerebbe così,
la localizzazione artica di questo leggendario paese, che può essere identificato con l’Iperborea.
Diversamente da Erodoto, che localizza l’Iperborea nel Nord-Est dell’Europa, Ecateo di Abdera,
vissuto tra il IV ed il III secolo a. C., definisce, tramite questo nome, un’isola grande all’incirca
come la Sicilia. Può darsi che si tratti di una propaggine insulare dell’Iperborea propriamente detta.
Ecateo di Abdera associa quest’isola ad Apollo, dio della luce, ed ai tre figli di Borea,
personificazione del vento del Nord, che omaggiano la divinità solare in compagnia di uno stormo
di cigni - uccelli sacri all’arciere dell’Olimpo - provenienti dai Monti Rifei. Il geografo Strabone
identifica gli Iperborei con gli Sciti ed i Celtosciti, presenti tra l’Adriatico ed il Mar Nero, che, in
realtà, abitavano molto più a Sud, ma che, rispetto alla Grecia, erano, in effetti, stanziati in una sede
settentrionale. Qui si rivela il duplice significato del termine Iperborei, che, da un lato, indica,
genericamente, le stirpi dell’estremo Nord, mentre, dall’altro, una civiltà artica, primordiale,
ammantata di un’aura mitica e connessa, in qualche modo, agli Dèi. Ma è a Plinio il Vecchio che
dobbiamo la trattazione più esaustiva e completa del mito dell’Iperborea (la trascriviamo, un'altra
volta, qui di seguito, nella sua interezza, per completezza d'informazione):

[...] Poi ci sono i Monti Rifei e la regione chiamata Pterophoros per la frequente caduta di neve, a
somiglianza di piume, una parte del mondo condannata dalla natura ed immersa in una densa
oscurità, occupata solo dall'azione del gelo e dai freddi ricettacoli dell'Aquilone. Dietro quelle
montagne e al di là dell'Aquilone, un popolo fortunato (se crediamo), che hanno chiamato Iperborei,
vive fino a vecchiaia, famoso per leggendari prodigi. Si crede che in quel luogo siano i cardini del
mondo e gli estremi limiti delle rivoluzioni delle stelle, con sei mesi di chiaro e un solo giorno
senza sole; non, come hanno detto gl'inesperti, dall'equinozio di primavera fino all'autunno: per loro
il sole sorge una volta all'anno, nel solstizio d'estate, e tramonta una volta, nel solstizio d'inverno
[...] (Naturalis Historia, IV, 88).

Plinio il Vecchio aggiunge, poi, alcuni particolari, che sono rivelativi dell'aspetto autentico
dell’Iperborea, e che si ritrovano, anche, negli analoghi ritratti delle isole dell’estremo confine del
mondo, da Thule a TirnahnOge. Per Plinio il Vecchio, l’Iperborea:

23
[...] è una regione luminosa con clima mite, priva di ogni nocivo flagello. Hanno per case boschi e
foreste, venerano gli dèi profondamente e in comune, la discordia e ogni malattia sono loro ignote.
Non c'è morte, se non per sazietà di vita, dopo i banchetti e nella vecchiaia colma di conforto; si
gettano in mare da una rupe: questo tipo di sepoltura è il più felice [...].

Questa descrizione riconduce al mito dell’"Età dell’Oro", caratterizzata da fervore religioso e


venerazione per gli Dèi, armonia e salute, tratti che si riscontrano nella storia di Atlantide e nel
ricordo di Thule, terra mitica che poteva, nella geografia del mondo, corrispondere,
presumibilmente, alla Groenlandia, nella quale sussistevano condizioni climatiche temperate, che
quest’isola, oggi così inospitale, conservò fino al Medioevo (si veda, ad esempio, la Saga di Eirik il
Rosso) , fino a meritare l’appellativo, attualmente grottesco, di Terra verde (Grünes land).

Prima che sorgessero i ghiacci polari, le tempeste di vento e le bufere, altre stirpi, altre città ed altri
mondi popolarono, forse, il Nord, illuminato da un sole diverso. Fu, miticamente, l’Era solare, l’Era
della luce e della giovinezza del mondo. E fu l’Iperborea, l’Atlantide artica, travolta, nella mitologia
nordica e non solo in quella, dal crepuscolo degli Dèi e consegnata, così, alla leggenda.
4. L'ultima Thule e gli Iperborei

[...] Tibi serviat ultima Thyle [...], [...] Ti sia schiava l'ultima Thule [...] (Virgilio, Georgiche, I, 30)
Con questo verso Virgilio immortalava, nella storia, non solo le grandezze del principato di
Augusto, ma, anche, la storia di Thule, la mitica isola descritta dal navigatore greco Pitea di
Marsiglia.

Pitea di Marsiglia visse durante IV secolo a. C., ai tempi di Alessandro Magno o, comunque, poco
dopo. Questo personaggio fece (si dice) un viaggio nel Nord dell'Europa e si spinse fino ai limiti del
mondo allora conosciuto, fino all'isola cosiddetta di Thule. Il navigatore descrisse il suo viaggio in
un libro intitolato, se vogliamo darne una traduzione italiana, Intorno all'Oceano, che,
sfortunatamente, è andato perduto. Grande parte degli eruditi e scienziati dell'Antichità non
credettero al racconto di Pitea e solo geografi e matematici come Eratostene ed Ipparco
considerarono come veritiero il suo viaggio. Infatti, il navigatore marsigliese aveva, per primo,
osservato il periodo di sei mesi di luce e sei mesi di buio che è caratteristico delle zone polari, ed
aveva fatto molte rilevazioni di tipo astronomico nelle zone dell'Europa settentrionale. Queste
osservazioni erano state convalidate, anche, dai calcoli degli scienziati greci alessandrini, che
avevano, ormai, raggiunto le conclusioni di Pitea attraverso un calcolo teorico della posizione degli
astri. Nondimeno, molti eruditi autorevoli dell'Antichità furono oppositori di Pitea ed è, assai
probabilmente, per questo che l'opera del navigatore ci è giunta in modo frammentario. Con tutto
che, ancora oggi, sono forti le insicurezze sulla reale veridicità di un simile itinerario. Il viaggio di
Pitea può essere riassunto in questo modo: partito da Marsiglia, costeggiò la Francia e la Spagna ed
oltrepassò lo Stretto di Gibilterra, evitando la sorveglianza cartaginese. Poi, si inoltrò nell'Atlantico
e, arrivato in Gran Bretagna, la circumnavigò, e, lì, raccolse notizie sulla misteriosa isola di Thule.
Nonostante Pitea di Marsiglia abbia visitato le miniere della Cornovaglia, lo scopo del suo viaggio
deve essere stato, principalmente, scientifico e solo in minima parte di tipo commerciale. Il grande
mistero creatosi attorno al viaggio di Pitea è l'identificazione dell'Isola di Thule. Collocata, da
qualche parte, nel Nord Europa, è stata oggetto di molte discussioni. Fino a qualche tempo fa, si
riteneva di identificare l'isola in questione con l'Islanda o con la Groenlandia, ma, più recentemente,
si è pensato di accostarla all'arcipelago delle isole Orcadi o delle Shetland. Può essere che sia più
corretto, nondimeno, identificare l'isola con l'Islanda, poichè, quando si parla di Thule, si fa
riferimento ad un'isola sola e non ad un arcipelago. Come accennato sopra, l'opera di Pitea è andata
perduta e, quindi, per cercare riferimenti all'isola di Thule, occorre consultare gli antichi testi, quelli

24
pervenutici, che ne hanno parlato. Ecco cosa dice Plinio il Vecchio, nella sua Historia naturalis,
riguardo a Thule.

II, 186-187

[...] Così succede che, per l'accrescimento variabile delle giornate, a Meroe il giorno più lungo
comprende 12 ore equinoziali e 8/9 d'ora, ma, ad Alessandria, 14 ore, in Italia 15, 17 in Britannia,
dove le chiare notti estive garantiscono, senza insicurezze, quello che la scienza, del resto, impone
di credere, e sarebbe a dire che, nei giorni del solstizio estivo, quando il sole si accosta di più al
polo e la luce fa un giro più stretto, le terre soggiacenti hanno giorni ininterrotti di sei mesi, ed
altrettanto lunghe notti, quando il sole si è ritirato in direzione opposta, verso il solstizio di inverno.
Pitea di Marsiglia scrive che questo accade nell'isola di Thule, che dista dalla Britannia sei giorni di
navigazione verso Mord; ma certuni lo attestano per Mona, distante circa 200 miglia dalla città
britannica di Camaloduno [...];

IV, 104

[...] Ad una giornata di navigazione da Thule c'è il mare solidificato, che taluni denominano Cronio
[...].

Da questi due brani si può capire che, secondo Plinio il Vecchio e le sue sorgenti letterarie e
documentarie, Thule si trovava molto vicino al Polo Nord. E' importante il fatto che il mare
solidificato (ghiacciato) venga chiamato Cronio, perchè ne Il volto della luna di Plutarco, si fa
menzione di un'[...]isola di Crono [...], localizzata nell'Oceano Atlantico:

[...] Stavo finendo di parlare quando Silla mi interruppe: "Fermati, Lampria, e sbarra la porta della
tua eloquenza. Senza avvedertene rischi di far arenare il mito e di sconvolgere il mio dramma, che
ha un altro scenario e diverso sfondo. Io ne sono solo l'attore, ma ricorderò, anzitutto, che il suo
autore cominciò per noi, se possibile, con una citazione da Omero: "[...] lungi nel mare giace
un'isola, Ogigia, [...]" a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, in direzione occidente. Più in
là si trovano altre isole, equidistanti tra loro e da questa, di fatto in linea col tramonto estivo. In una
di queste, secondo il racconto degli indigeni, si trova Crono, imprigionato da Zeus, e, accanto a lui,
risiede l'antico Briareo, guardiano delle isole e del mare chiamato Cronio. Il grande continente che
circonda l'Oceano dista, da Ogigia, qualcosa come 5000 stadi, un po' meno delle altre isole; ci si
giunge navigando, a remi, con una traversata resa lenta dal fango scaricato dai fiumi. Questi
sgorgano dalla massa continentale e, tramite le loro alluvioni, riempiono a tal punto il mare di
terriccio da aver fatto credere che fosse ghiacciato. [...] Quando, ogni trent'anni, entra nella
costellazione del Toro l'astro di Crono, che noi chiamiamo Fenonte e loro - a quanto mi disse -
Nitturo, essi preparano, con largo anticipo, un sacrificio ed una missione sul mare. [...] Quanti
scampano al mare approdano, anzitutto, alle isole esterne, abitate da Greci, e lì hanno modo di
osservare il sole, su un arco di trenta giorni, scomparire alla vista per meno di un'ora - notte, anche
se con tenebra breve, mentre un crepuscolo balugina ad occidente [...].

Plinio il Vecchio e Plutarco potrebbero, può essere, parlare della stessa isola. Ma adesso vediamo
cosa dice il geografo Strabone su Thule:

Geografia, IV, 5,5

Strabone prima critica Pitea ritenendolo un imbroglione, poi, dice:

[...] Ad ogni modo, pare che (Pitea) abbia dimostrato di sapersi servire correttamente dei principi

25
che riguardano i fenomeni celesti e la teoria matematica, sostenendo che gli abitanti dei luoghi più
vicini alla zona glaciale soffrono di una totale carenza, o, comunque, limitatezza di frutti coltivati e
di animali, e che si nutrono di miglio e di erbe o frutti selvatici e radici: quelli che hanno grano e
miele se ne servono, anche, per farne bevanda; ed il grano, poichè il sole non splende mai senza
velature, lo battono in grandi stanze, dopo averci introdotto i covoni: farlo all'aria aperta è
impossibile, per la mancanza di sole e per le piogge [...].

Thule non doveva essere, sia per la sua posizione geografica, sia per la sua congiuntura climatica,
molto fertile. Dunque, Thule si potrebbe identificare con l'Islanda, che, secondo quanto dicono gli
studiosi del mito di Atlantide, dovrebbe essere un residuo di Atlantide stessa. E' interessante il mito,
descritto da Plutarco, che parla di un'isola nella quale è prigioniero Crono. Siccome Cronide è
definito il mare ghiacciato, il mito dell'isola di Crono potrebbe essere la rappresentazione allegorica
della condizione "attuale" di una parte del continente "atlantico". Si potrebbe, infatti, interpretare
così: l'isola di Atlantide (Crono), dopo un lungo periodo di prosperità (età di Saturno), venne
intrappolata dai ghiacci, a seguito di una grande catastrofe ( la stessa catastrofe che,
mitologicamente, fece scomparire la maggiore parte delle isole di Atlantide che si trovavano molto
più a sud dell'Islanda). Il mito di Thule non finisce qui. Nel Nord Europa, secondo gli Antichi,
viveva una popolazione leggendaria, che veniva definita degli Iperborei. Forse questi Iperborei
erano i mitici abitanti dell'isola di Thule e, quindi, erano appartenenti alla mitica stirpe degli abitanti
di Atlantide? Thule potrebbe essere l'isola degli Iperborei descritta da Diododro Siculo? Gli
Iperborei potrebbero, secondo una visione un po' forzata, che associa mito e storia, avere
influenzato popolazioni pre-celtiche nella costruzione dei cosiddetti siti astronomici? Diodoro
Siculo, nella sua Biblioteca Storica, parla del popolo degli Iperborei e delle loro usanze:

II, 47

[...] 47. Dal momento che abbiamo riservato una descrizione alle parti dell'Asia rivolte a Nord,
crediamo che non sia fuori luogo trattare le storie che si raccontano a proposito degli Iperborei. In
effetti, tra coloro che hanno registrato gli antichi miti, Ecateo ed alcuni altri affermano che, nelle
regioni poste al di là del paese dei Celti, c'è un'isola non più piccola della Sicilia; essa si troverebbe
sotto le Orse, e sarebbe abitata dagli Iperborei, così detti, perché si trovano al di là del vento di
Borea. Quest'isola sarebbe fertile e produrrebbe ogni tipo di frutto; inoltre, avrebbe un clima
eccezionalmente temperato, cosicché produrrebbe due raccolti all'anno. Raccontano che in essa sia
nata Leto: e, per questo, Apollo, lì, sarebbe onorato più degli altri dei; i suoi abitanti sarebbero,
anzi, un po' come dei sacerdoti di Apollo, poiché‚ a questo dio si inneggia, da parte loro, ogni
giorno con canti continui e gli si tributano onori eccezionali. Sull'isola ci sarebbero, poi, uno
splendido recinto di Apollo, ed un grande tempio adornato di molte offerte, di forma sferica. Inoltre,
ci sarebbe, anche, una città sacra a questo dio, e dei suoi abitanti la maggiore parte sarebbe
costituita da suonatori di cetra, che accompagnandosi con la cetra, canterebbero, nel tempio, inni al
dio, celebrandone le gesta. Gli Iperborei avrebbero una loro lingua peculiare, e sarebbero in grande
familiarità con i Greci, soprattutto con gli Ateniesi ed i Delii: avrebbero ereditato questa tradizione
di benevolenza dai tempi antichi. Raccontano, poi, anche, che alcuni Greci siano arrivati presso gli
Iperborei, e, lì, abbiano lasciato splendide offerte, con iscrizioni in caratteri greci. Allo stesso modo,
anche Abari sarebbe, anticamente, venuto, dagli Iperborei, in Grecia, rinnovando la benevolenza e
le relazioni con i Delii. Dicono, poi, che, da quest'isola, la luna appaia a pochissima distanza dalla
terra, e con alcuni rilievi quali quelli della terra chiaramente visibili su di essa. Si dice, inoltre, che il
dio venga nell'isola ogni diciannove anni, periodo nel quale giungono a compimento le rivoluzioni
degli astri - e per questo motivo il periodo di diciannove anni viene denominato, dagli Elleni, "anno
di Metone". In questa sua apparizione, il dio suonerebbe la cetra e danzerebbe di continuo, ogni
notte, dall'equinozio di primavera fino al sorgere delle Pleiadi, compiacendosi dei suoi successi.
Regnerebbero sulla città e governerebbero il recinto sacro i cosiddetti Boreadi, discendenti di

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Borea, e si trasmetterebbero, di volta in volta, le cariche per discendenza [...].

Riguardo ai contatti avuti tra Greci ed Iperborei, Erodoto ci riferisce alcune notizie nel libro IV
delle sue Storie (33-35), che confermano il legame religioso tra il culto di Apollo degli abitanti di
Delo e degli Iperborei. Naturalmente, ciò che unisce questi due popoli (uno storico, l'altro mitico) è
l'interesse comune per l'astronomia, che è caratteristico delle popolazioni di cultura, se così si può
dire, "atlantidea":

IV, 33-35

[...] Ma più di tutti ne parlano (degli Iperborei) i Delii, affermando che offerte avvolte in paglia di
grano, provenienti dagli Iperborei, arrivano in Scizia e che, dagli Sciti in poi, i popoli vicini,
ricevendone uno dopo l'altro, le portano, verso occidente, assai lontano, fino all'Adriatico, e, di là,
mandate innanzi verso Sud, primi tra i Greci le ricevono i Dodonei, e, da questi, scendono al golfo
Maliaco e passano in Eubea, ed una città le manda all'altra fino a Caristo, e, dopo Caristo, viene
lasciata da parte Andro, perché sono i Caristi quelli che la portano a Teno, ed i Teni a Delo. Dicono,
dunque, che in simile guisa queste sacre offerte arrivano a Delo, e che, la prima volta, gli Iperborei
mandarono a portare le offerte due fanciulle, che i Delii dicono avessero nome Iperoche e Laodice,
e che, insieme a queste, per ragioni di sicurezza, gli Iperborei mandarono, anche, come scorta,
cinque cittadini, quelli che, ora, sono denominati Perferei e godono, in Delo, di grandi onori. Ma,
poiché gli inviati non tornavano, gli Iperborei, ritenendo cosa assai grave se fosse sempre dovuto
accadere che inviando dei delegati non li riavessero più indietro, allora, portando ai confini le
offerte sacre avvolte in paglia di grano, le affidarono ai vicini, raccomandando loro di mandarli
innanzi dal proprio ad un altro popolo. Raccontano che queste offerte arrivino a Delo mandate
innanzi in questo modo, ed io stesso so che si pratica un rito simile a questo che ora esporrò: le
donne tracie e peonie, quando sacrificano ad Artemide regina, offrono un sacrificio usando paglia di
grano. Dunque, so che fanno così, mentre in onore delle fanciulle venute dagli Iperborei e morte a
Delo, le giovani ed i giovani delii si recidono le chiome. Le une, tagliandosi, prima delle nozze, un
ricciolo e, avvoltolo intorno ad un fuso, lo depongono sulla tomba - la tomba è sulla sinistra per chi
entri nell'Artemisio, e le sorge accanto un olivo -, mentre tutti i ragazzi delii, avvolta una ciocca di
capelli attorno ad uno stelo verde, la depongono, anch'essi, sul tumulo. Esse, quindi, ricevono questi
onori dagli abitanti di Delo. I Delii stessi, poi, raccontano che anche Arge ed Opi, vergini iperboree,
sarebbero arrivate a Delo ancora, prima che Iperoche e Laodice, facendo lo stesso viaggio. Ma
aggiungono che queste ultime sarebbero venute per portare ad Ilizia il tributo che gli Iperborei si
erano imposti in compenso del rapido parto, e che Arge ed Opi, invece, vennero insieme alle
divinità stesse; e che a queste vengono resi onori diversi; per loro, le donne raccolgono offerte,
invocandone i nomi nell'inno composto da Olen, poeta di Licia, ed avendoli appresi da esse gli
isolani e gli Ioni invocano, nei loro inni, Opi ed Arge evocandole per nome e raccogliendo offerte -
questo Olen venuto dalla Licia compose gli altri antichi inni che si cantano a Delo -, ed usano la
cenere delle cosce bruciate sull'altare gettandola sulla tomba di Opi ed Arge. La loro tomba è dietro
l'Artemisio, rivolta verso oriente, vicinissima alla sala da banchetto dei Cei [...].

Probabilmente questo antico contatto (tra mito e storia) tra Delii ed Iperborei avvenne per il fatto di
possedere un culto in comune. Questo culto potrebbe risalire al periodo mitologico cosiddetto
"atlantideo", quando la Grecia, come si può dedurre dal Crizia di Platone, era, mitologicamente,
un'importante potenza politico-militare.

E' da sottolineare il fatto che gli Iperborei di Erodoto potrebbero essere i discendenti degli Iperborei
vissuti al tempo della cosiddetta civiltà "atlantidea" mitologica. Gli stessi Iperborei di Erodoto sono
stanziati in una zona imprecisata dell'Europa orientale. Inoltre, in Plinio il Vecchio, come visto, gli
Iperborei sono popolazioni non esattamente identificate del Nord-Est europeo. Secondo l'erudito

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romano, come detto, gli Iperborei sarebbero stanziati oltre i monti Rifei (Urali, probabilmente) e,
precisamente, molto vicino al Polo Nord.

Come si è potuto leggere nei passi di Plinio il Vecchio sopra riportati, si tratta, per quanto riguarda
la collocazione degli Iperborei, di un'altra terra felice e prospera. La descrizione può, genericamente
(c'è molta fantasia, in essa, come nota lo stesso Plinio il Vecchio), rappresentare il Nord Europa
prima dell'ultima glaciazione. Il fatto che, secondo gli antichi storici, esistesse uno stanziamento
umano vicino al Polo Nord, non può fare pensare altro che né gli Iperborei "pliniani", né quelli
descritti da Diodoro Siculo siano gli Iperborei "storici" contemporanei ai due scrittori, ma che siano,
in realtà, gli Iperborei "antidiluviani", quelli "mitici", che, probabilmente, abitavano, anche, nella
leggenda, l'isola di Thule. Tutto questo può, anche, fare pensare che nelle attuali zone circumpolari
non dovessero esistere condizioni climatiche sfavorevoli alla vita, nell'epoca descritta dai due
Autori classici (epoca, può essere, collocabile alla fine dell'ultima glaciazione). Nella Letteratura
antica vengono tracciati molti riferimenti ad isole situate nell'Atlantico e, per quanto riguarda
questo discorso può venire in aiuto Eliano che, nelle sue Storie Varie, cita un brano tratto da
Teopompo, il quale parla di un'isola abitata nell'Oceano Atlantico:

[...] L'Europa, l'Asia, l'Africa sono isole, circondate dall'Oceano: c'è solo una terra che si possa
denominare continente, ed è la Meropide, che si trova al di fuori di questo mondo. La sua grandezza
è enorme. Tutti gli animali, lì, sono di grande mole, ed anche gli uomini sono alti il doppio, ed
anche la durata della loro vita è doppia della nostra. Ci sono grandi e numerose città, con costumi
particolari, e con leggi profondamente diverse dalle nostre. [...] Gli abitanti di Eusebes (una città
della Meropide) vivono in pace e godono di grandi ricchezze e raccolgono i frutti della terra senza
fare uso di aratro e buoi: seminare e lavorare non costano loro fatica. Vivono sempre in ottima
salute, e passano il loro tempo in allegria e nei piaceri. La loro giustizia è superiore ad ogni
discussione: anche gli dei amano, perciò, rendere loro visita. Gli abitanti di Machimos (altra città
della Meropide) sono molto bellicosi, si trovano sempre in guerra e tendono a sottomettere le
popolazioni confinanti, cosicchè la loro città ha, ora, il dominio su molti popoli diversi. Essi sono
meno di due milioni [...] Una volta, decisero di passare in queste nostre isole: attraversato l'Oceano,
con migliaia e migliaia di uomini, arrivarono presso gli Iperborei. Ma, avendo saputo che questi
erano considerati il popolo più felice tra noi, considerate le loro misere condizioni di vita, ritennero
inutile procedere oltre [...].

La descrizione dell'Isola di Meropide ci ricorda, vagamente, la storia di Atlantide di Platone e


questo potrebbe essere uno dei pochi riferimenti ad un'Atlantide antecedente alla distruzione finale
e che viene dipinta nel suo periodo di espansione. Probabilmente, questi miti e storie, legate
insieme, si possono riunire in questo modo. Atlantide, nel suo periodo di espansione, conquista la
terra degli Iperborei (forse, miticamente, l'antica popolazione degli Atlantidei è stata, a sua volta,
conquistata culturalmente da quella più evoluta degli Iperborei) e rende questi ultimi suoi sudditi.
Thule, che, all'epoca, poteva essere molto più estesa e collegata con l'isola di Atlantide, divenne
parte di questo mitico Impero Atlantideo e rimase, in questa condizione, fino alla catastrofe naturale
del 9500 a. C.circa (il mutamento climatico attestato dalla geoarcheologia e dalla bioarcheologia). Il
clima cambiò, e le zone del Nord Europa divennero fredde ed inospitali, provocando, tra gli altri
effetti, l'estinzione dei mammut. Tramite questi antichissimi miti, associati alle vicende leggendarie
del meraviglioso e gioioso popolo degli Iperborei, la storia di Atlantide diventa più naturale e
comprensibile.

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L'Apollo Iperboreo d'Italia, al Delta del fiume Po

Il culto di Apollo Iperboreo deriverebbe, lapalissianamente, dalla regione iperborea, il Nord mitico
del quale si è parlato fino ad ora, le tracce del quale si perdono lungo l’asse danubiano dell’Età del
bronzo. Borea è il vento gelido che soffia dai monti della Tracia e sua madre Eos è la dolcissima
alba dalle rosee dita. Taluni riferimenti situano gli Iperborei nelle pianure paludose dove
migravano, d’estate, le oche selvatiche o, addirittura, sul delta del Po (a seconda di dove si voglia
collocare, nella tradizione mitologica, il cosiddetto "giardino delle Esperidi"). Il culto di Apollo
(detto Iperboreo) è, in ogni caso, precisamente attestato presso i Paleoveneti, insediati tra i grandi
fiumi che sfociano nell’Alto Adriatico. A quel tempo, la regione era ricoperta da immensi boschi di
carpino, faggi e querce. Cespugli di sorbo rosso, biancospino e corniolo facevano da sottobosco agli
olmi centenari ed agli alti frassini. Era il regno incontrastato del capriolo, il culto del quale è stato
attribuito, esattamente, ad Apollo.

6. L'Omero nel Baltico di Felice Vinci

Qualche anno addietro è uscito, in Italia, un volume controverso, accolto tiepidamente nell'ambiente
accademico. Si tratta di Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica, presentazione di Rosa
Calzecchi Onesti, prefazione di Franco Cuomo, Fratelli Palombi Editori, Roma, 2003 (2002-1998-
1995), opera di Felice Vinci, ingegnere e storico dilettante.

Secondo l'Autore, che scrive in un'ottica assolutamente paradossale, ma, metodologicamente,


interessante (se si rimane con i piedi per terra e se si accetta il libro come una pura ipotesi teorica),
il reale scenario dell'Iliade e dell'Odissea sarebbe identificabile nell'Europa settentrionale. Le saghe
che hanno dato origine ai due poemi provengono, sempre secondo l'Autore, dal Baltico e dalla
Scandinavia, dove, nel II millennio a. C., fioriva una splendida Età del Bronzo, e dove sarebbero,
tuttora, identificabili molti luoghi omerici, tra i quali Troia ed Itaca; portarono in Grecia queste
leggende, secondo Felice Vinci, in seguito al tracollo dell'Optimum climatico, i grandi navigatori
che, nel XVI secolo a. C., fondarono la civiltà micenea: essi avrebbero ricostruito, nel
Mediterraneo, il loro mondo originario, nel quale si erano svolte la guerra di Troia e le altre vicende
della mitologia greca.

Il libro, dunque, vuole presentare la teoria storico-letteraria dell'Autore sull'ambientazione


dell'Iliade e dell'Odissea: gli eventi in esse narrati non si sarebbero, come detto, svolti nel Mar
Mediterraneo orientale, come si è sempre creduto, ma nei mari dell'Europa settentrionale (Mar
Baltico e Nord Atlantico).

L'Autore sostiene, infatti, che il popolo miceneo vivesse, originariamente, sulle coste del Mar
Baltico; a seguito di un irrigidimento del clima verificatosi nella prima metà del II millennio a. C.
(attestato dai moderni studi di paleoclimatologia), esso sarebbe migrato verso regioni più calde, per
insediarsi, infine, in Grecia. Le gesta narrate nei poemi omerici e molte altre vicende della mitologia
greca risalirebbero, quindi, ad un'epoca antecedente alla migrazione, della quale, col passare dei
secoli, si sarebbe perso il ricordo.

Questa teoria, assai traballante, vorrebbe siglare, anche, una retrodatazione dell'epoca della guerra
di Troia, che secondo l'opinione più corrente si sarebbe svolta intorno al XIII secolo a. C.: l'Autore
propone una datazione intorno al XVIII secolo a. C..

Gli storici concordano, in effetti, che i micenei siano una popolazione non originaria della Grecia,
dove giunsero intorno al XVI secolo a. C. La loro patria di origine non è nota, ma una sua

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collocazione nel Baltico non appare plausibile, anche se, nel II millennio a. C., nel Baltico e nella
Scandinavia, fioriva l'Età del Bronzo. Alcuni decenni prima del Vinci, in modo del tutto
indipendente, lo studioso indiano Bal Gangadhar Tilak, sulla base dell'analisi dei Veda (i testi sacri
dell'Induismo) ha avanzato una teoria secondo la quale le popolazioni indoeuropee avrebbero potuto
vivere, anticamente, nell'estremo Nord dell'Europa o dell'Asia.

La teoria di Vinci, per la sua originalità, ha avuto una piuttosto estesa diffusione da parte dei mezzi
di informazione, ma gode, com'è naturale, vista la quasi assoluta mancanza di riscontri pratici e,
anche, logici, di scarsa considerazione da parte del mondo accademico.

Un'esposizione della "teoria baltica", scritta dallo stesso Vinci, si può leggere al seguente link:
http://www.estovest.net/letture/omero.html.

Gli Iperborei in breve

Gli Iperborei sono stati un popolo mitico, localizzato nell'estremo Nord, vale a dire "oltre Borea",
come indica il loro stesso nome; la loro leggenda è legata a quella di Apollo. Dopo la nascita di
Apollo, Zeus, suo padre, gli ordinò di andare a Delfi, ma il dio, con il suo tiro di cigni, volò, prima,
presso gli Iperborei, dove restò per qualche tempo. Ogni 19 anni, al compiersi del ciclo astrale, il
dio si recava, di nuovo, presso gli Iperborei, e, qui, ogni notte, tra l'equinozio di Primavera ed il
sorgere delle Pleiadi, lo si sentiva cantare, accompagnandosi con la lira. Dopo che ebbe massacrato
i Ciclopi, artefici del fulmine tramite il quale Zeus aveva ucciso suo figlio Asclepio, Apollo nascose
la sua freccia portentosa, nel grande tempio circolare che aveva al centro della città principale degli
Iperborei; secondo alcuni, la freccia di Apollo era volata da sé, in quel luogo, prima di trasformarsi
nella costellazione del Sagittario. La leggenda faceva risalire agli Iperborei alcune pratiche del culto
apollineo. Non soltanto Latona sarebbe nata presso gli Iperborei stessi, per, poi, dare alla luce i suoi
figli a Delo, ma, da quella regione, sarebbero arrivati, nell'isola, alcuni oggetti sacri ad Apollo.
L'oracolo di Delfi, inoltre, sarebbe stato fondato da uno degli Iperborei, denominato Oleno, primo
profeta di Apollo. Gli Iperborei figurano, anche, nella leggenda di Perseo, ed in quella di Eracle
(almeno secondo la versione che situa nell'estremo Nord il giardino delle Esperidi). Soprattutto a
partire dall'epoca classica, si raffigurava il loro paese come una regione ideale, dal clima
felicemente temperato, dove il suolo produceva due raccolti l'anno, e gli abitanti del quale, di
costumi gentili, vivevano nei campi e nei boschi sacri, ed erano estremamente longevi; arrivati al
termine della loro vita, si lasciavano cadere nel mare dall'alto di una scogliera, con la testa coronata
di fiori. Si attribuiva, pure, agli Iperborei, la conoscenza della magia, la capacità di spostarsi
nell'aria, di trovare tesori, etc. Pitagora era considerato un'incarnazione dell'Apollo Iperboreo.

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