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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “TOR VERGATA”

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN DAMS (VECCHIO ORDINAMENTO)

TESI DI LAUREA IN

STORIA DELLA MUSICA

“HANS HAUG E LA SUA MUSICA PER CHITARRA”

RELATORE CANDIDATO
AGOSTINO ZIINO ALFONSO D’AVINO
MATR. 0021003
CORRELATORE
GIORGIO SANGUINETTI

ANNO ACCADEMICO 2003-2004


HANS HAUG

LA SUA MUSICA PER

CHITARRA

(illustrazione: “Le Serenadeur” di Watteau)


INDICE

Sérénade à l’inconnue (Introduzione-preludio) pag. I

Capitolo I. La biografia. pag. 1

I.1. Le aspirazioni di un giovane che esita fra le arti. pag. 1

I.2. La formazione. pag. 3

I.3. Il periodo tra il 1924 e il 1950.

La direzione d’orchestra come attività principale. pag. 4

I.4. Dal 1950 al 1967 (Le période romand).

La composizione in primo piano. pag. 7

I.5. L’incontro con Segovia e la chitarra. pag. 14

Capitolo II. Il catalogo dell’opera. pag. 19

II.1. La realizzazione del catalogo. pag. 20

II.2. Musica da camera. pag. 21

II.3. Musica vocale. pag. 23

II.4. Concerti. pag. 24

II.5. Orchestra sinfonica. pag. 25

II.6. Balletti. pag. 26

II.7 Opere – Operette. pag. 33

II.8. Oratori. pag. 40


II.9. Giochi radiofonici. pag. 42

II.10. Festival – Musica di scena diversa. pag. 44

II.11. Musica per film. pag. 45

II.12. Riflessioni. pag. 47

Capitolo III. Dal contesto al testo. pag. 48

III.1. La musica in Europa nella prima metà del

Novecento. pag. 49

III.2. In Svizzera. pag. 62

III.3. Maestri, amici e colleghi. pag. 73

III.4. Alcuni autori segoviani. pag. 91

Capitolo IV. La chitarra nell’opera di Haug. pag. 111

IV.1. Alba. pag. 122

IV.2. Preludio. pag. 131

IV.3. Étude (Rondo Fantastico). pag. 138

IV.4. Passacaglia. pag. 144

IV.5. Il Trittico: Prélude, Tiento e Toccata. pag. 150

IV.5.1. Rondò (“La Gitarra”). pag. 152

IV.5.2. Prélude (Étude). pag. 157

IV.5.3. Tiento. pag. 161

IV.6. Fantasia. pag. 164


IV.7. Capriccio. pag. 169

IV.8. Concertino per chitarra e piccola orchestra . pag. 176

IV.9. Doppelkonzert. pag. 183

IV.10. Conclusioni. pag. 188

Bibliografia. pag. 190


Sérénade à l’inconnue ( Introduzione…Preludio)

“Sérénade à l’inconnue” è il titolo del secondo movimento del Capriccio per chitarra

e flauto scritto da Haug nel 1963. Ho scelto questo titolo come introduzione alla mia

tesi perché la “sconosciuta” della serenata potrebbe essere - in senso metaforico – la

stessa musica di Haug, la sua vita, la sua arte.

Il mio interesse per Hans Haug è iniziato nel 2000, anno del centenario della nascita

del compositore. Ne ebbi notizia per la prima volta attraverso il Manuale di storia

della chitarra curato da Angelo Giardino. Rimasi sconvolto nel constatare come un

compositore che avesse scritto tanta e varia musica per chitarra, ottenendo anche

prestigiosi riconoscimenti, fosse completamente ignorato, non solo nei programmi

concertistici, ma anche dagli insegnanti di Conservatorio.

Le motivazioni di tanto oblio potevano essere soltanto due: o la sua musica era

talmente brutta, per cui nessuno voleva suonarla; o stava accadendo – per l’ennesima

volta – che la consuetudine di rifarsi ad un repertorio ormai consolidato da parte dei

chitarristi stava per cancellare un capitolo, a mio parere importante, della storia della

chitarra del Novecento.

I
Decisi dunque di verificare personalmente quale delle due possibili cause fosse reale.

Mi procurai tutti gli spartiti per chitarra di Haug… decisi che bisognava fare

qualcosa.

Fui particolarmente colpito dal Concertino per chitarra e piccola orchestra e riuscii

ad eseguirlo con l’ orchestra del Conservatorio “G. da Venosa” di Potenza. Non fu

un’impresa facile. Dovetti confrontarmi con obiezioni del tipo << Ma a chi vuole che

interessi la musica di un compositore minore>>. Se ciò fosse vero, oggi

probabilmente non esisterebbe neanche la ricerca sotico-musicale.

Il mio interesse per Haug non si fermò alla celebrazione del centenario. Volevo

saperne di più su quel “compositore minore” e sulla sua arte “sconosciuta”. La mia

ricerca ha compiuto passi da gigante grazie a due figure con le quali sono entrato in

contatto. Si tratta di Angelo Gilardino, attualmente uno dei personaggi più attenti alla

ricerca storiografica sulla musica per chitarra del Novecento; e Jean-Luois Matthey,

bibliotecario della Bibliothèque cantonale et universitaire di Losanna, che nel 1970

ha curato la realizzazione del catalogo delle opere di Haug.

Tengo a specificare che questo mio lavoro è finalizzato a richiamare l’attenzione dei

miei colleghi chitarristi sulla musica per chitarra di Haug, ma non va trascurata la

titanica produzione che questo compositore ha destinato anche agli altri strumenti.

II
Capitolo primo

La biografia1

I.1. Le aspirazioni di un giovane che esita fra le arti.

Figlio di Hans Haug e di Bertha Bosshardt, Hans Haug è nato il 27 luglio 1900 a

Basilea. Frequentò la scuola primaria e quella secondaria di Basilea, dove suo padre

aveva una pasticceria rinomata.

Già da bambino sviluppò un interesse spontaneo per le belle arti, che si manifestò

allorquando, ragazzino - anziché andare a scuola - si recava nei musei e lasciava il

1
Gran parte delle notizie biografiche ivi contenute provengono da una documentazione privata, redatta dal Prof.
Matthey quale testo di presentazione del “Catalogue de l’oeuvre de Hans Haug (1970)”, gentilmente inviatami a seguito
di precedenti contatti telematici.

1
suo ombrello al guardaroba, quale pegno per la sua impossibilità di pagare il biglietto

(confidenza di Renèe Senn, un'amica di famiglia).

Questa passione per le belle arti ha, molto più tardi (nel 1951), ispirato al nostro

compositore uno dei suoi balletti più originali, Melos, indubbiamente autobiografico.

Questo balletto riflette precisamente le “aspirazioni di un giovane che esita tra le

arti”2. E' affascinato dall'architettura, la scultura e la pittura, ma alla fine decide di

consacrarsi alla musica.

Nel 1915, poco prima della sua Cresima (apparteneva ad una famiglia protestante),

suo padre - temendo per lui le angherie di una carriera artistica - lo piazza in

apprendistato alla banca Cavin, ad Oron.

Questo sarà il suo primo contatto con il paese romanzo, che egli amerà per tutta la sua

vita. Nella chiesa di Chatillens, suona l'organo senza aver probabilmente ricevuto

alcuna formazione musicale preliminare.

Ad Oron, Haug scopre il gusto della lettura. Una mattina, nel castello della città, il

custode lo trova dormiente sul divano della biblioteca; si era addormentato mentre

leggeva i libri che lo affascinavano.

2
J.-L. MATTHEY, Hans Haug – Catalogue du fonds déposé à la B.C.U. de Lausanne (1968) – Textes de présentation,
pag.5, Losanna, 1970.

2
I.2. La formazione

Nel 1917, Haug volta le spalle alla banca, torna alla sua città natale ed entra in

Conservatorio. Riceve la sua prima formazione musicale da grandi maestri: Egon

Petri, ed Ernest Levy, suo insegnante di piano. A Zurigo Haug segue anche i corsi di

Ferruccio Busoni.

(Zurigo, foto del 1914)

Tre anni dopo, ricevuti i diplomi di pianoforte e violoncello, lascia il Conservatorio.

A Monaco, si iscrive all'Accademia di musica. Lì beneficia dell'insegnamento di

grandi professori, quali il Dott. Walter Courvoisier con il quale studia composizione,

strumentazione e direzione d'orchestra. E' a Courvoisier che Haug dedica il suo

Concerto per violino e piccola orchestra, composto nel 1924.

In questo periodo, siamo negli anni del primo dopoguerra, la vita non è facile. Per

sovvenire ai bisogni, gli studenti devono lavorare duramente. Haug dovrà, come

molti suoi colleghi di studi, lavorare la terra della campagna bavarese. Arrivata la

sera, andrà a suonare il piano nei bar per un magro guadagno.

3
A Monaco Haug compone qualche pagina di musica da camera. Numerosi

manoscritti per tenore e orchestra raggruppati sotto il titolo Von Pagen und

Ritterminne sono degni di nota.

Tra i poeti che ispirarono Haug, citiamo i nomi di Richard Dehmel e di Joseph von

Eichendorff.

I.3. Il periodo tra il 1924 e il 1950. La direzione d’orchestra come

attività principale.

(Haug dirige l’Orchestra da Camera di Losanna – foto del 1945)

Nel 1924, terminati i suoi studi, comincia la sua attività a Grenchen e a Solothurn,

dove è nominato maestro e direttore della banda municipale - per la quale compone

4
marce ed ouvertures - del coro misto e di quello femminile. Parallelamente anche il

coro della sinagoga di Basilea lavorerà sotto la sua direzione.

E' nel corso delle innumerevoli repliche con questi Ensembles che Haug acquisterà

una grande maestria nella direzione corale.

Dal 1928 al 1934, Radio-Basilea gli affiderà il posto di vice-direttore della propria

orchestra. Egli prosegue inoltre la sua attività di pianista e partecipa a numerosi

concerti di musica da camera, particolarmente ai recitals tenuti nell'incantevole

cornice del castello di Aarbourg in Argovie.

In seguito le tournées si succedono. Egli percorre la Francia, la Germania e l'Italia

alla quale si affeziona particolarmente. I poeti italiani hanno un posto preferenziale

nella scelta dei soggetti per le sue opere sceniche. I sonetti di Michelangelo gli

ispirano una cantata, i testi di Poliziano un'opera balletto, quelli di Goldoni un'opera.

Questa è un'eclatante dimostrazione della sua passione per la letteratura.

Haug avrebbe deciso di vivere a Tessin, ma lo si ritrova a Ginevra dove dirige

l'orchestra del Kursaal che gli darà il piacere di allestire numerosi spettacoli con

Josephine Baker.

A Ginevra Haug fa del jazz e della musica leggera, generi nei quali lascia ugualmente

qualche componimento. Compone della musica per film: storici, d'attualità,

documentari, pubblicità; la varietà è già una grande costante della sua opera.

5
Dal 1935 al 1938, Haug dirige l'orchestra di Radio-Sottens (Radio Suisse Romande),

che gli viene affidata dal suo fondatore Gustave Doret. Questo incarico sarà per lui

l'occasione di collaborare con i maggiori solisti e compositori del momento. In

particolare egli tiene dei memorabili concerti con Paderewsky, molto elogiati dalla

critica. Fu amico di Jacques Dalcroze e Jean Binet. Poi, al fine di proporre al

pubblico di Losanna le opere popolari del repertorio vocale, fonda il coro " La

Chanson romande". Nel 1936, un altro animatore della vita musicale della Svizzera

francese, Charles Faller, allora direttore del Conservatorio di Chaux-de-Fonds, offre

ad Haug le classi di composizione e direzione d'orchestra.

Nel 1939, Radio-Beromunster propose ad Haug la direzione della propria orchestra; a

Zurigo svolge un'attività fruttuosa. Il posto di direttore d'orchestra gli lascia

abbastanza tempo per la composizione di numerosi Festspiele. Durante l'esposizione

nazionale del 1939, la città di Zurigo gli commissiona il Festspiel Underem

Lällekeenig, opera che testimonia l'umore col quale il nostro compositore coltiva il

genere popolare. Sempre a Zurigo collabora a numerose iniziative musicali, emissioni

radiofoniche o televisive. Durante la guerra, la sua partitura di Gilberte de

Courgenay, personaggio popolare della mobilitazione 1914-1918, divenne celebre.

Nel 1942, succedendo a Herman Lang, Haug riprende la direzione del coro di

Losanna e per ventitré anni presiederà ai destini di questa formazione. Numerose

volte il coro sarà chiamato all'estero. Per esempio nel 1950, in occasione del

6
duecentesimo anniversario della morte di Bach ottenne alla Scala di Milano un

grande successo.

Nel 1944 rompe con la Svizzera tedesca e si installa a Rivaz. Da allora, romando di

adozione, in collaborazione con Jean Villard Gilles, realizza il Passage de l'ètoile;

con suo suocero, Paul Budry, scrisse L'Annèe vigneronne; con C.F. Landry propone

Terre du Rhone.

Dal 1947 al 1960 tiene le classi di armonia e contrappunto al Conservatorio di

Losanna.

I.4. Dal 1950 al 1967 (Le période romand). La composizione in primo

piano.

7
Prima del 1950 Haug era considerato un musicista di formazione svizzero-tedesca, la

cui attività di compositore rimaneva subordinata a quella di direttore d’orchestra. In

effetti Haug dirigeva di persona le opere che scriveva, né vi erano altri interpreti che

prestassero loro un interesse particolare: di qui il gran numero di composizioni non

più eseguite e la scarsità di partiture pubblicate, molte rimasero manoscritte.

Dopo la fine della guerra, privato di un incarico fisso come direttore d’orchestra, egli

cambiò residenza e dedicò la maggior parte del tempo alla composizione. Stabilitosi a

Losanna e nei suoi dintorni immediati, sempre più influenzato da Arthur Honegger e

dalla nuova musica francese e italiana, egli venne da quel momento considerato un

compositore della Svizzera francese, al quale non erano affatto estranee le influenze

popolari dell’ambiente in cui si era stabilito. 3

Abbiamo notato come Haug avesse lasciato la Svizzera tedesca a favore di quella

francese già nel 1944, ma abbiamo scelto il 1950 come data spartiacque nella vita

artistica di Haug perché è da questo momento in poi che egli concentra tutte le sue

forze nella composizione. Si susseguono i riconoscimenti per la sua attività di

compositore. Il suo Concerto per chitarra ottiene il premio dell'Accademia Musicale

Chigiana di Siena nel 1951. Nel 1954 la sua opera radiofonica La colombe ègarèe

vince il Premio Italia. Il 1956 è l’anno della consacrazione: l’opera Orphèe riceve il

premio della Società degli Autori e Compositori Drammatici.

Le périod romand è dunque il periodo in cui Haug vive immerso nella natura, dalla

quale trae ispirazione per le sue composizioni.

3
Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti Vol.3°, voce Haug, Hans, pp.476-7.

8
L’attività di direttore d’orchestra si riduce a sporadici impegni con l’orchestra di

Radio Montecarlo e a concerti all’estero, come quelli in Italia, documentati dagli

archivi RAI. Una prima registrazione risale al 31 ottobre 1956: Haug dirige

l’orchestra e il coro della RAI di Roma; il programma prevede fra l’altro l’esecuzione

della Passacaglia dello stesso Haug. Una seconda registrazione è del 13 giugno 1962;

Haug dirige l’orchestra della RAI di Milano, in programma è previsto anche il suo

Michelangelo. I nastri sono ancora conservati in RAI.

Fino al 1960, Haug non abbandonerà l’attività dell’insegnamento.

Tra i suoi allievi citiamo il maestro d'orchestra Armin Jordan, il compositore Jean

Balissat, la pianista Denyse Rich, Françoise Tille, flautista e professore al

Conservatorio di Losanna, Willy Rochat, intendente musicale alla Radio della

Svizzera romanda e Robert Mermound che così parla del suo insegnante: " Hans

Haug ci ha avvicinati mirabilmente all'orchestra e alla tecnica degli strumenti. Egli ha

avuto la generosa idea di far venire ad ogni lezione uno dei musicisti dell'orchestra

che allora dirigeva, invitandolo a parlare del suo strumento, a dimostrarne le

possibilità e i limiti. Poi si metteva al pianoforte e accompagnava un brano tratto da

un concerto. Era sia utile che appassionante".

Nel 1960 Haug abbandona l’insegnamento e lascia Losanna. Trascorre gli ultimi anni

della sua vita nella città di Belmont, comunque non distante dalla più grande città che

precedentemente lo aveva accolto.

9
Proprio del 1960 è un articolo della “National – Zeitung”4, scritto in occasione del

sessantesimo compleanno del Maestro, che ci aiuta a cogliere la matrice basilense

della prima produzione artistica di Haug, ma allo stesso tempo l’entità del suo

successivo allontanamento.

Il giornalista polemizza con la tendenza delle istituzioni musicali - e soprattutto

teatrali - della città di Basilea, che hanno completamente ignorato le opere teatrali del

loro concittadino negli ultimi anni.

<<…Forse sarebbe anche ora di verificare, in modo oggettivo, perché negli ultimi

anni si è sentito così poco di Haug, perché, per esempio, il teatro – il vero dominio

del compositore – da troppo tempo non ha più rappresentato niente di Haug. Il

palcoscenico di Basilea in passato ha curato con particolare attenzione l’operato del

suo figlio talentato…>>. Molte delle prime opere di Haug ebbero a Basilea la loro

prima rappresentazione. <<…ed ora che abbiamo a disposizione Die Narren, tratto da
4
Una copia dell’articolo, in cui non compare il nome dell’autore, mi è stata gentilmente inviata dal Prof. Jean-Louis
Matthey.

10
un lavoro di Goldoni, una delle sue opere comiche più divertenti (eseguita in prima

da Radio Ginevra nella versione francese) a Basilea non incontra più nessun

interesse!…per l’ennesima volta viene dimostrato che il profeta non viene mai

ascoltato in patria sua…>>.

Alla luce di tali affermazioni verrebbe da domandarsi se Haug ha abbandonato

Basilea e, per estensione, la Svizzera tedesca; o se, viceversa, è stata Basilea ad

abbandonare Haug, e questi, terminata la guerra, senza un incarico come direttore

d’orchestra stabile, senza teatri che rappresentassero le sue opere, abbia deciso di

rifugiarsi nella più “accogliente” Svizzera francese, dove gli si offriva la possibilità di

insegnare, dirigere e comporre con più tranquillità. Il Dizionario Enciclopedico

Universale della Musica e dei Musicisti parla dell’incarico di insegnante al

Conservatorio di Losanna, ricevuto da Haug dopo alcuni anni di traversie, legate a

motivi politici, non meglio precisate. Chissà che queste traversie non fossero anche la

causa del disinteressamento nei confronti di Haug, denunciato nel precedente

articolo?

Il 15 settembre 1967, Haug soccombe alla malattia nella clinica "La Source" di

Losanna. Subito maestri d'orchestra, musicisti e critici rendono omaggio al

compositore scomparso. La stampa riconosce in Haug un grande nome della musica

svizzera contemporanea.

11
(Hans Haug est mort: necrologio dalla Gazette de Lausanne. Sam.16
septembre 1967)

12
I necrologi ci parlano di un Hans Haug versatile ed eclettico… « un umanista che si è

espresso interamente nella sua opera in cui unisce, con talento molto personale ed una

sensibilità vibrante, lo spirito del Rinascimento e le scoperte più audaci della tecnica

moderna ».

<<Haug ha trovato il tono e l’espressione giusti nei campi più svariati lasciando

un’eredità enorme nel mondo strumentale, sinfonico, vocale, nonché teorico. La sua

produzione va dalle musiche per film ai giochi radiofonici, dai balletti alle opere

buffe, scritte con abilità e sensibilità, per cui possedeva in misura superiore la

necessaria leggerezza, lo spumeggiante umorismo del basilense, il senso per la

situazione comica e un carattere ingegnoso sia nella conduzione di effetto drastico

delle parti solistiche sia nell’orchestra drammaticamente potente>> .

Non vanno dimenticati i suoi scritti teorici. Dovrebbe essere abbastanza noto il suo

scritto Für Feinde Klassischer Musik. Alcune opere letterarie sono rimaste

manoscritte, come la sua Naturharmonie e Zeitgemässer Kontrapunkt.

Infine ricordiamo i suoi studi sulle corrispondenze tra musica e pittura, realizzati in

collaborazione col pittore Blanc-Gatti

13
I.5. L’incontro con Segovia e la chitarra.

In ragione della profonda conoscenza della sua arte, Haug prese parte a numerose

giurie di concorsi internazionali ( Ginevra, Atene, Santiago de Compostela e Siena).

Inoltre, fece la conoscenza di solisti di fama internazionale, tra cui Andrès Segovia,

che registrò alcuni suoi pezzi per chitarra sola.

(Giuria del Geneva International Music

Competition, 1956: per la prima volta la chitarra è ammessa alla competizione. Da sinistra verso destra: José de

Azpiazu, Hermann Leeb, Alexandre Tansman, Luise Walker, Henri Gagnebin, Andrés Segovia e Hans Haug).

Nella foto vediamo Haug come componente della giuria del Concorso Musicale

Internazionale di Ginevra5. È il 1956. Per la prima volta, grazie al prestigio che la

chitarra si sta ritagliando nelle sale da concerto mondiali per opera di Segovia, lo

strumento è ammesso alla competizione. Luise Walker ricorderà a proposito il talento

di un giovane concorrente di quindici anni di nome John Williams, che allora non

vinse, ma che oggi conosciamo come uno degli astri del concertismo mondiale.

5
Foto e informazioni scaricate dalla pagina web di Han Jonkers nel link: “A Swiss Homage to Andrés Segovia”.

14
I componenti della giuria sono alcuni tra i più grandi compositori e concertisti,

svizzeri ed europei del momento.

Tra loro, segnaliamo la presenza di Alexandre Tansman, che vinse il concorso di

composizione alla Chigiana di Siena, nella categoria “pezzi per chitarra solista” con

la sua Cavatina, lo stesso anno in cui Haug vinse per la categoria “Concerti con

chitarra”.

Da non sottovalutare la figura di Henri Gagnebin, che come Haug, Frank Martin,

Castelnuovo-tedesco, M.M. Ponce, lo stesso Tansman e tanti altri, subì l’influenza di

Segovia, dedicando alcuni suoi lavori alla chitarra. Ci ricorderemo di alcuni tra questi

personaggi quando andremo ad analizzare più dettagliatamente la produzione

chitarristica di Haug, confrontandola con quella di compositori a lui contemporanei e

che come lui orbitarono attorno alla figura di Segovia.

Infine, continuando a riferirci alla foto di cui sopra, li vediamo seduti uno accanto

all’altro: Andrés Segovia ed Hans Haug.

Il primo contatto fra i due fu indiretto, e fu proprio legato al concorso di

composizione di musica per chitarra indetto dall’Accademia Musicale Chigiana di

Siena nel Dicembre 1950.

La competizione prevedeva tre categorie in concorso:

1) Concertino per chitarra e orchestra da camera;

2) Quintetto per chitarra e quartetto d’archi;

3) Opere per chitarra sola (Sonata, Suite o Fantasia).

15
Vennero presentati venticinque lavori. Il presidente di giuria era Gorge Enescu, tra gli

altri membri vi erano Riccardo Brengola, Gaspar Cassadò e Andrés Segovia. I premi,

assegnati nell’agosto del 1951, non videro nessun vincitore nella categoria

“Quintetto”. La Cavatina di Tansman fu premiata per il brano solistico; il Concertino

per chitarra e orchestra di Haug ricevette il premio nell’altra categoria: fu la prima

composizione per chitarra scritta da Haug.6

Ai vincitori venne promessa la pubblicazione da parte della casa editrice Schott di

Londra e la prima esecuzione mondiale ad opera di Segovia da realizzarsi nell’estate

del 1952. Le promesse furono mantenute nei confronti della Cavatina di Tansman,

ma, per quanto riguarda il Concertino di Haug, né Segovia lo eseguì mai, né vi fu la

pubblicazione da parte della Schott. Bisognò attendere il 1970 perché la Berbèn di

Ancona ne effettuasse la pubblicazione in una collana di musiche per chitarra curata

da Angelo Gilardino. La prima esecuzione, invece, fu realizzata da Alexandre Lagoya

e la Lausanne Chamber Orchestra.

Incoraggiato dal premio ricevuto a Siena, Haug continuò ad esplorare la chitarra.

Prese lezioni di chitarra con Josè de Azpiazu dal 28 ottobre 1953 al 27 gennaio 1954

per conoscere quanto più possibile dello strumento7. Probabilmente Alba e il

Preludio (che Segovia chiamerà poi Postludio), furono scritti in questo periodo8.

In una lettera del 19 settembre 1954 inviata a Gagnebin, Segovia si scusa per aver

studiato un solo brano del compositore, perché impegnato con lo studio di altri brani
6
“Guitar Review”, No.13, 1952
7
informazioni tratte dall’agenda di José de Azpiazu, fornite da Maria Guadalupe Azpiazu ad Han Jonkers.
8
HAN JONKERS, A Swiss Homage to Andrés Segovia, 1996.

16
di Villa-Lobos, Tansman, Haug, Rodrigo, Torroba e Castelnuovo-tedesco. Il pezzo di

Haug di cui Segovia parla è quasi sicuramente Alba. Successivamente Segovia lo

registrò, assieme al Postludio, per la Decca (DL 9832). Furono gli unici lavori di

Haug incisi da Segovia.9

Nel 1961, a dieci anni dalla composizione del Concertino, Segovia chiederà ad Haug

di tenere dei corsi di composizione all’accademia musicale estiva di Santiago di

Compostela. Qui, il 28 settembre 1961, Haug terminerà la composizione del trittico

per chitarra sola Prélude, Tiento e Toccata. Non risultano testimonianze di una

corrispondenza scritta tra Haug e Segovia: probabilmente i due comunicavano

prevalentemente per telefono. È però evidente che il rapporto tra i due era giunto ad

un alto grado di stima reciproca. Vi sono addirittura voci che vogliono i due

personaggi legati da un rapporto di “fratellanza” di tipo massonico,10 ma al di là di

ogni misterioso legame non documentabile in questa sede, appare evidente che ormai

Segovia - che dieci anni prima non aveva eseguito il Concertino per chitarra e

orchestra come concordato – invita Haug a Santiago di Compostela riconoscendolo e

consacrandolo come uno dei compositori che la storia della chitarra ha ribattezzato

come “segoviani”.

Ai pezzi per chitarra sola fin qui citati, vanno aggiunti altri due brani Étude (Rondo

fantastico) e Passacaglia pubblicati per la prima volta nel 2003 dalla Bérben a

9
GRAHAM WADE, Segovia: A Celebration of the Man and his Music, Allison & Busby, London, 1983.
10
Rivelazione fattami da Angelo Giardino durante una conversazione telefonica.

17
seguito del loro provvidenziale ritrovamento da parte di Angelo Giardino

nell’archivio della Fondazione Segovia di Linares.

Haug compose altri brani cameristici con chitarra, frutto di legami con altri

concertisti dell’epoca. Nel 1956 conobbe Luise Walker al concorso di Ginevra (vedi

foto). Frutto di questo incontro fu la Fantasia per chitarra e pianoforte, terminata nel

1957 e a lei dedicata.

Nel 1963 Haug scrisse il Capriccio per chitarra e flauto, dedicato al duo Werner

Tripp (flautista) e Konrad Ragossnig (chitarrista), inciso e distribuito dalla RCA

(RCA Victor 440.182: “L’Anthologie de la guitare”).

Risale al 1966 il Concerto per flauto, chitarra e orchestra.11 Scritto nella residenza di

Belmont l’anno prima della sua morte, il concerto non risulta essere mai stato

eseguito finora.

Haug usò la chitarra anche in altri lavori come: Variazioni su un tema di Jacques

Offenbach (per orchestra); Don Juan à l’étranger (opera comica); Berceuse pour les

canons (brano cameristico); Les Fous (opera comica); Justice du roi

(tragicommedia); Tag ohne Ende (“Giorno senza fine”, musica per film).

11
Non risulta che il concerto sia stato mai eseguito, né registrato. I diritti sono gestiti dalla casa editrice Henn di
Ginevra. Il brano, non essendo pubblicato, sarebbe eseguibile solo noleggiando la partitura presso la suddetta casa
editrice.
Il prof. J.L. Matthey mi ha gentilmente inviato, per fini di studio, una copia del manoscritto della riduzione per chitarra,
flauto e pianoforte, facente parte del fondo “Hans Haug” custodito presso la BCU (Biblioteca Cantonale e Universitaria)
di Losanna.

18
Capitolo secondo

Il catalogo dell’opera

Si è già visto nel precedente capitolo come Haug fosse un compositore eclettico e

versatile, capace di cimentarsi con i più svariati generi di musica (persino jazz e

blues, o colonne sonore per film), in grado di comporre per molteplici ensembles,

strumenti, e nelle più diverse forme sinfoniche, cameristiche o teatrali.

Nel presente capitolo ci imbatteremo nella vastissima ed eterogenea mole della sua

produzione musicale, soffermandoci – laddove è possibile – a fornire quante più

informazioni circa le opere che più ci interessano nella nostra ricerca: opere divenute

19
più celebri di altre o che ci aiutano a definire la presenza eventuale di uno stile

compositivo.

Un’analisi approfondita di tutta la produzione di Haug è un progetto da rinviare ad

altre circostanze, per ovvie ragioni.

Rinviamo anche l’analisi accurata delle opere per chitarra, che sarà affrontata nei

successivi capitoli.

II.1. La realizzazione del catalogo.

Madame Haug - Budry rimise, nel 1968, alla Biblioteca Cantonale ed Universitaria di

Losanna l'opera completa di suo marito.

Si convenne che la biblioteca effettuasse la classificazione definitiva di questo fondo

e che ne pubblicasse l'inventario.

Il fondo musicale Hans Haug è costituito dall'insieme del materiale formante l'opera

del musicista svizzero.

Il catalogo censisce i manoscritti, le copie manoscritte, le riproduzioni eliografiche e

fotografiche.

La catalogazione provvede a fornire, per quanto possibile, notizie dettagliate su data e

luogo di composizione dell'opera, circostanze della creazione, durata dell'esecuzione,

composizione d'orchestra, materiale a disposizione ecc.

20
Il catalogo è stato realizzato nel 1970 dal Sig. Jean-Louis Matthey nell’ambito della

stesura della tesi presentata a l'Ecòle de bibliothècaires di Ginevra.

Il sig. Louis-Daniel Perret, bibliotecario, ne ha assunto la direzione preparandone

l’edizione1.

Il catalogo raccoglie 182 titoli d’opera contrassegnati dalla sigla MUH e da numeri

progressivi, che dispongono le opere in dieci sezioni discriminanti il genere musicale

di appartenenza.

II.2. Musica da camera.

La prima sezione raccoglie ventotto titoli appartenenti al genere «musica da

camera».

L’osservazione degli strumenti, ai quali sono dedicati i lavori contenuti in questa

sezione, e le date di composizione ci suggeriscono alcuni spunti interessanti.

Vengono inseriti in questa categoria di musica da camera anche alcuni brani per

strumento solista. Tali brani sono sorprendentemente pochi e destinati esclusivamente

al pianoforte, il violino e la chitarra.

Che brani solistici siano dedicati al pianoforte e al violino è facilmente

comprensibile, visto che furono gli strumenti ai quali Haug si dedicò nei primi anni

1
Prefazione del Catalogo a cura di Jean-Pierre Clavel (Direttore della B.C.U. nel marzo 1971).

21
della sua formazione. Ciò giustifica anche il fatto che la maggior parte della musica

da camera scritta negli Anni Venti sia dedicata proprio a questi due strumenti, ai quali

il compositore si sentiva particolarmente vicino e che, probabilmente, conosceva

meglio degli altri.

Ad eccezione di una Suite per oboe e viola (MUH20), tutti i brani che prevedono

strumenti diversi dal piano o dagli archi, sono stati composti dopo il 1950, quindi in

quello che abbiamo definito “le period romand” (Vedi cap.I.4).

Il fatto che la chitarra sia l’unico strumento - estraneo alla formazione strumentale del

compositore - al quale Haug dedica pagine solistiche, ci riconduce al suo rapporto

con Segovia e al fascino che tale figura esercitò, col suo strumento, sul compositore

svizzero. Si tratta di brani scritti per il grande concertista spagnolo, per la cui stesura

Haug, ormai cinquantatreenne, prese lezioni da Josè de Azpiazu al fine di conoscere

più profondamente le potenzialità che lo strumento da solo poteva esprimere.

Gli altri strumenti utilizzati da Haug nella musica d’insieme, oltre agli archi, il piano

e la chitarra, furono l’oboe – abbinato alla viola (MUH20), al piano (MUH21) o

inserito in un ensemble di strumenti a fiato (MUH28: Quintetto per flauto, oboe,

clarinetto, corno e fagotto rimasto incompiuto); il flauto, accoppiato al

piano(MUH22 e 23) o alla chitarra(MUH25); e l’arpa (MUH22 Vision d’Hellade

per flauto, clarinetto in la, violino e arpa). L’organo e il trombone tenore sono citati

come alternative, in alcuni brani, al piano e al violoncello.

22
II.3. Musica vocale.

La sezione dedicata alla musica vocale conta tredici titoli (da MUH 29 a MUH 41).

La maggior parte dei brani sono per tenore con accompagnamento di piano, a volte

orchestra. Uniche eccezioni sono Hanferlied (MUH35 per basso e piano o arpa),

Deux chants puor voix d’alto et quatuor à cordes (MUH37) e Der Traurige Page

(MUH40 per voce e orchestra).

Tutti i brani di questa sezione sono stati scritti tra gli anni 1918 e 1925. Escludendo i

brani del 1925, scritti a Granges/Soleure, tutti gli altri risalgono agli anni della

formazione, quando Haug non esercitava ancora né come direttore di coro o

d’orchestra, né come professore. Il giovane Hans cercava di sostenere i suoi studi,

lavorando la terra o suonando la sera nei bar: è possibile che le molteplici

composizioni per tenore di questo periodo fossero destinate proprio a questo tipo di

attività.

L’amore per il lied romantico e per la letteratura è stato probabilmente la forza

generatrice di queste pagine musicali. I testi sono tratti da scrittori ai quali Haug

sembra molto legato: Eichendorf, Goethe, Dehmel e Michelangelo, per citarne solo

alcuni.

23
II.4. Concerti.

Il primo concerto riportato dal catalogo è rimasto incompiuto. Dal titolo Musique

puor orgue, orchestre à cordes et timbales , riporta tra parentesi l’interessante

dicitura in italiano “quasi concerto”. Avremo modo di notare come la parola “quasi”

ricorra spesso nei sottotitoli e nelle didascalie usati dall’autore: è come se egli volesse

sottolineare un certo grado di indefinitezza presente nella sua musica e che le sue

composizioni si avvicinassero continuamente a forme consolidate, senza però mai

identificarsi con esse.

Nel 1924 Haug scrive il suo primo Concerto per violino e piccola orchestra dedicato

al suo maestro Walter Courvoisier. La composizione dell’orchestra è davvero esigua:

un flauto, un oboe, un clarinetto e un quintetto d’archi.

Risale a due anni dopo il Concerto per violoncello e orchestra. Esiste di questo

concerto anche la versione per banda, adattamento fatto probabilmente da Haug per

poter eseguire il suo concerto con la banda municipale di Granges, che allora

dirigeva.

Bisognerà attendere il 1938 per avere un nuovo concerto. Questa volta lo strumento

solista è il pianoforte. Haug compose il concerto nel maggio del 1938 alla Maison du

peuple di Losanna per l’orchestra di Radio-Sottens dedicandolo a Françoise Budry,

sua moglie. Nel 1945 scriverà un Concerto per flauto e piccola orchestra, nel 1947

una trascrizione per pianoforte e orchestra del Rondò per due pianoforti in Do

maggiore op.73 di Chopin. Tutti i restanti nove concerti furono scritti dopo il 1950.

24
Tra questi l’orchestrazione de l’Elégie pastorale per oboe e piano, già visto nella

sezione di musica da camera, e i concerti con chitarra (MUH48 e MUH54).

Quasi per un gioco ironico del destino, l’ultimo concerto, scritto poco prima di

morire, di cui rimane compiuto solo il primo movimento, è di nuovo dedicato al

violino, proprio come il primo. La prima esecuzione fu affidata all’Orchestra da

camera di Losanna un anno dopo la morte del compositore.

II.5. Orchestra sinfonica.

La sezione comprende sedici lavori realizzati tra il 1927 e il 1964. Alcuni di essi sono

tratti da altre opere dello stesso autore. È il caso di Don Juan à l’étranger (MUH 59),

ouverture dell’omonima opera comica; della Sarabande pour orchestre (MUH 64)

tratta dall’oratorio Ariadne; Une Femme disparait (MUH 65), suite sinfonica dal film

di Jacques Feyder; Passacaglia pour orchestre (MUH 66), tratta dall’oratorio

Michelangelo; Dies Irae (MUH 72) dal balletto Das Lob der Torheit. La Symphonie

pour cordes (MUH 61), tratta dal Quartetto n°3, è rimasta incompiuta.

Le Variations sur un thème de Jacques Offenbach (MUH 70) sono state scritte a

Belmont nel 1961. L’organico prevede l’utilizzo della chitarra, ma va sottolineato che

25
si tratta di un’orchestra di musica leggera, nella fattispecie, l’orchestra leggera di

Radio-Bâle, dedicataria del brano.

II.6. Balletti.

Haug scrisse sette balletti tra il 1947 e il 1962. I soggetti di questi lavori ci forniscono

interessanti spunti di riflessione sul patrimonio culturale e la sensibilità artistica

dell’autore.

Il primo balletto scritto da Haug, rappresentato a Basilea nel 1947, fu L’indifférent.

Diviso in cinque parti e tratto da un’idea di Otto Maag, è ispirato ad un evento

realmente accaduto nel 1939, ossia, il furto di un quadro di Watteau (l’”Indifférent”

appunto) dal Museo del Louvre.

(“L’Indifferent” di Watteau”)

26
Il seguito della storia è pura fantasia. Il quadro era stato rubato da un pittore esaltato.

La compagna del pittore si innamora del personaggio ritratto e questi, durante il

sonno del pittore, prende vita ed esce dal suo quadro. Al risveglio del pittore la

coppia fugge e inizia un lungo inseguimento. Alla fine l’”Indifférent” decide di

riconsegnare la donna al pittore e riguadagnare il suo posto nel Louvre. Preso ancora

dall’eccitazione per l’avventura vissuta, coinvolge in una danza altri personaggi dei

quadri, ma l’arrivo del guardiano ristabilisce l’ordine nella galleria, che ricade nel suo

silenzio. I ruoli danzati sono l’”Indifférent”, la donna, il pittore, un professore, un

marinaio, una coppia di ballerini spagnoli. La storia sembra essere vissuta in

un’atmosfera da sogno. Infatti è proprio il momento del sonno del pittore che

determina un allontanamento dell’intreccio dal fatto storico, per continuare in un

contesto di pura fantasia. Che il personaggio di un quadro possa prendere vita è un

evento fantastico, e il fatto che tale soggetto sia stato scelto da Haug per la

realizzazione del suo primo balletto ci conferma il grande amore del compositore per

le arti figurative; propensione che abbiamo avuto modo di sottolineare già nel primo

capitolo e che ricompare ancora più evidente nel secondo balletto da lui scritto:

Mélos.

Composto nel 1951 a Losanna, con libretto di Marie Laure, presenta chiari riferimenti

autobiografici. Il giovane protagonista esita tra le arti, proprio come il giovane Haug,

e decide infine di consacrarsi alla musica, dopo aver percorso un cammino, che

definirei iniziatico. I ruoli danzati sono il giovane uomo, la passeggiatrice Poesia, la

27
passeggiatrice Scultura, il passeggiatore Pittura, il passeggiatore Architettura, il

muratore, il suo apprendista, Melodia.

L’idea di accostare le esitazioni del giovane al “cammino iniziatico” verso la musica

è suggerito dalla decisione di rappresentare i personaggi che incarnano i ruoli delle

arti come dei passeggiatori. Poesia, Scultura, Pittura e Architettura sono personaggi

in movimento, che il giovane incontra lungo il suo cammino. È curioso notare come

gli altri tre personaggi, il Muratore (maçon), il suo apprendista, e Melodia, siano

invece indicati come personaggi non in movimento: quasi dei punti di riferimento o

di arrivo. Quanto sarà azzardato considerare la consacrazione del giovane alla

musica, come metafora di un’iniziazione ai segreti della Libera Muratoria? Forse

tanto, troppo, ma nell’ambito di un’opera già definita autobiografica, alla luce di

rivelazioni che ci indicano Haug come un esponente della Massoneria Svizzera,

iniziato al Rito Scozzese, ci impediscono di non cadere nella tentazione di un simile

accostamento.

Nel 1959 Haug porta a termine nella sua villa di Belmont il balletto Nausicaa, tratto

dall’Odissea di Omero. Il balletto della durata di trentasei minuti ha una struttura

chiaramente ispirata alla tragedia classica con la presenza di un coro parlato,

composto di uomini e donne, che viene affiancato ai ruoli parlati di Pallas Athéna

caratterizzata da un timbro di voce dolce e sonoro; Nausicaa, con voce chiara e

ingenua; Ulisse, con voce virile e patetica. Interessante questa esplicita richiesta del

compositore dei timbri di voce che devono contraddistinguere i personaggi. La voce

28
deve riflettere la sensibilità interiore dei personaggi e allo stesso tempo specificarne il

ruolo e la funzione nella vicenda. Sembra quasi che l’elemento acustico, vocale, vada

ad assumere quella funzione che nella tragedia classica spettava alle grosse maschere

indossate dagli attori.

I ruoli danzati sono quelli di Pallas Athéna, Nausucaa, Ulisse, due giovani

domestiche, il corpo di ballo di giovani ragazze.

Le parti recitate furono adattate alle tre versioni, tedesca, francese e italiana.

La vicenda narrata prende il via col naufragio di Ulisse e il suo salvataggio da parte

della dea Athéna. Ulisse sfinito, si arena sulla spiaggia e si addormenta. Nausicaa,

ispirata da Athéna, sopraggiunge con le sue ancelle cantando e scopre Ulisse.

Spaventate le giovani fuggono mentre Nausicaa si avvicina al naufrago del quale si

innamora. Riconoscendo in lui il favore degli dei, la giovane lo invita al palazzo e si

allontana con la sua gioiosa scorta. Rimasto solo, Ulisse prega con fervore Athéna di

essere ben ricevuto dal re.

Sempre a Belmont, Haug termina, nel 1961, il balletto in tre atti Das Lob der Torheit.

Durata di 50’50. Commissionato dalla Fondazione Pro Helvetia. Eseguito per la

prima volta nel 1963 dall’Orchestre de la Suisse romande. La coreografia è stata

curata dallo steso Haug. Il catalogo ci rinvia al libretto per conoscere i ruoli danzati,

forse per una questione di spazio, vista la grande quantità di energie umane

necessarie per la realizzazione di questo balletto. Vengono invece specificati i ruoli

solisti: si tratta di due soprani, un contralto, un tenore e due bassi. La composizione

29
dell’orchestra appare subito ben più folta rispetto ai balletti precedenti. Ad essa si

affianca un’orchestra di scena, più ridotta, che comunque suggerisce un allestimento

grandioso e conferisce al balletto un tono epico, confermato dalla sua stessa struttura

e articolazione.

Al prologo – ouverture segue il primo atto che porta il titolo “Le grandi pazzie di

questo mondo”. Il secondo atto propone tre leggende. In realtà si tratta della

rappresentazione in successione dei tre balletti successivi riportati dal catalogo: La

Magie des sons (MUH77); Le Voile d’or (MUH78); La Chaste Suzanne (MUH79).

Questi tre balletti portano tutti la data del 1962. Intuiamo dunque che la data 1960-61

indicata dal catalogo per Das Lob der Torheit è relativa al prologo – ouverture, al

primo atto e probabilmente al terzo. Il secondo sarà dunque terminato nel 1962 e ciò

giustifica anche la data della prima rappresentazione, 1963. Sarebbe apparso strano

che un’opera su commissione fosse stata rappresentata ben due anni dopo essere stata

terminata.

Il terzo atto reca il titolo “Enfer, Paradis et Terre”.

Passiamo ora ad inquadrare con più attenzione le tre leggende che costituiscono il

secondo atto. Si tratta degli ultimi lavori che Haug dedica al genere del Balletto.

La magie des sons, anche proposto col titolo di “Pan e Apollon”, è un balletto satirico

della durata di 12’45. i ruoli danzati sono quelli di Pan, Apollo, Mida, Thmolos,

cinque sacerdotesse di Apollo, Oreadi, Ninfee, Fauni, Satiri, Silene. L’orchestra

affianca al quintetto a corde una corposa sezione di fiati e percussioni.

30
I personaggi mitologici, fauni, ninfe, satiri e sileni, circondano Pan che, attraverso il

suo flauto, incanta il suo pubblico col suo stile dodecafonico. Apollo, accompagnato

dalle sacerdotesse, sopraggiunge suonando la lira. Pan, beffardo, propone ad Apollo

una disputa musicale. Il pastore Thmolos farà da arbitro. A turno, Pan e Apollo

suonano, fin quando il re Mida sopraggiunge e d’autorità prende il posto di Thmolos.

Il concorso prosegue. Pan trionfa, le ninfe danzano davanti a Mida che manifesta la

sua approvazione. Apollo si vendica facendo crescere delle orecchie d’asino a Mida

che riconosce il Dio e implora il suo perdono. Apollo se ne va, malizioso, seguito

dalle sacerdotesse e dalle ninfe.

Ciò che più ci fa riflettere in questa ri-proposizione del mito di Pan e Apollo è l’aver

voluto specificare lo stile dodecafonico nella musica di Pan. La disputa sembra ad un

certo punto trascendere dall’elemento mitico e suggerire una riflessione di carattere

estetico. La contrapposizione sembra essere non più quella tra Pan e Apollo, ma tra lo

stile dodecafonico e quello tonale tradizionale. La soluzione temporanea a favore di

Pan potrebbe essere letta come metafora della fortuna avuta dalla dodecafonia nella

prima metà del Novecento, ma la conclusiva imposizione di Apollo e della sua

autorità divina, rappresenterebbe l’inevitabile ritorno alla tonalità classica.

Le Voile d’or o “Venere e Vulcano” è tratto dall’Odissea di Omero. Della durata di

16’ prevede i ruoli danzati di Venere, Vulcano, Marte, Giove, Apollo, Mercurio e le

Ninfe.

31
Venere dorme, contemplata da giovani donne e da suo marito Vulcano, il dio del

fuoco. Questi si reca al lavoro. Sopraggiungono ninfe e putti danzanti attorno a

Venere che si sveglia. Vulcano ritorna e Venere, raggiante, danza con lui. Marte,

amante di Venere, appare scintillante e Vulcano si getta contro di lui, ma questi è

invulnerabile. Vulcano furioso si ritira. Ninfee e putti festeggiano la coppia di amanti.

Ma Vulcano fa gettare su di loro una rete d’oro che li imprigiona. Giove, divertito

dalla disputa, interviene ordinando a Vulcano di liberare gli amanti che si separano

accompagnati da Mercurio e Apollo.

La Chaste Suzanne, della durata di 18’, prevede i ruoli danzati di: Suzanne; Joakim,

suo sposo; due anziani; il giovane profeta Daniel; il seguito di Suzanne; qualche

guardia armata; un importante tribunale.

Due anziani giudici del popolo cercano invano di sedurre Suzanne, sposa del re

Joakim. Sorpresi, essi accusano Suzanne di adulterio con un giovane evaso. Essi si

dichiarano testimoni del fatto e riescono a convincere il tribunale che condanna

l’accusata a morte. A questo punto appare il profeta Daniel che svela le menzogne dei

due uomini e li fa condannare a morte, scagionando la casta Suzanne.

I soggetti utilizzati per Das Lob der Torheit, tratti dal mito classico e da quello

biblico, fungono – a mio avviso - da pre-testo, attribuendo all’intera opera

un’atmosfera metafisica, utilizzabile come chiave di lettura della instabile condizione

dell’esistenza umana. Il titolo del primo atto denuncia le follie del mondo nonché la

32
natura effimera dell’esistenza umana. I tre racconti mitici del secondo atto si

incentrano sulla contrapposizione di valori. In Magie des sons vi è la

contrapposizione di carattere estetico, da una prospettiva prettamente musicale, tra

ciò che è bello e ciò che è brutto. In “Le voile d’or” a contrapporsi sono la fedeltà e la

passione. In fine, ne La Chaste Suzanne si oppongono verità e menzogna,

emblematiche trasfigurazioni del bene e del male. La comprensione di questi valori ci

introduce nell’universo metafisico del terzo atto. Un universo tripartito, che

abbandona la tradizionale cosmogonia cristiana, che prevede l’esistenza di Inferno,

Paradiso e Purgatorio. Quest’ultimo, mera invenzione della cultura cristiana

medievale, di cui non esiste alcun cenno nelle Sacre Scritture, viene sostituito dalla

Terra. Un universo metafisico così articolato può implicare molteplici riflessioni. La

Terra, come il Purgatorio, può essere vista come un luogo di transito, ma può anche

essere vissuta come un Paradiso o come un Inferno a seconda dei valori, giusti o

sbagliati, verso i quali l’uomo si orienta.

II.7. Opere – Operette.

Questa sezione comprende quattordici opere composte tra il 1930 e il 1965.

La prima fu Don Juan a l’etranger. Opera comica in due atti su testi di Dominik

Müller. Scritta nel 1930. I ruoli parlati sono quelli di un ballerino spagnolo, un

33
conferenziere, un ragazzo del vagone ristorante. Ruoli muti: una ballerina spagnola e

un’elegante signora. I ruoli cantati, col loro registro vocale sono i seguenti:

- il narratore baritono lirico

- Don Juan tenore

- Else soprano

- Manke basso

- Hanke basso

- Caesar Zwieback basso buffo

- Clothilde Zwieback soprano

- un poliziotto baritono

- una voce di donna contralto

- una bella donna soprano

- un tenore di jazz tenore

- coro.

Accanto alla corposa orchestra, abbiamo un’orchestra di scena con strumenti tipici

della musica leggera: sax soprano, contralto e tenore, tromba, trombone e tuba,

violino, banjo, armonica a bocca, piano, batteria e chitarra. Quest’ultima, accanto al

mandolino, è presente anche nell’orchestra classica.

La storia è una versione in chiave moderna delle famose, o famigerate, vicende

amorose di Don Giovanni con un finale indubbiamente originale, proprio di

un’esilarante commedia.

34
A Siviglia, Don Juan tenta di sedurre Else, una bionda tedesca, che di primo acchito

gli resiste. Siccome la donna lascerà la Spagna la sera stessa in treno con suo marito,

Don Juan decide di seguirli e li ritrova la sera stessa nell’espresso Siviglia-Parigi.

Allora Else dichiara il suo amore a Don Juan e gli cede, per essere subito dopo

abbandonata per una bella sconosciuta. Più tardi in un caffè – concerto parigino Don

Juan seduce Clithilde in presenza di suo marito e successivamente corteggia una

ballerina spagnola. È lo stesso Don Juan a pronunciare la morale della vicenda: “…al

sud come al nord, le donne sono le donne, esse amano i forti e gli audaci.” In questo

momento una spettatrice da una loggia del teatro chiama Don Juan, gli dichiara il suo

amore e fugge con lui.

Madrisa è un’opera popolare in tre atti scritta a Basilea nel 1933 su libretto di

Johannes Jegerlehner. L’orchestra è affiancata da un coro. I ruoli cantati sono nove

più due voci di basso e una voce infantile.

Il soggetto è tratto da una leggenda montanara.

In un villaggio delle Alpi, il costume vuole che, il primo giorno di primavera, i

fidanzati si scambino le loro promesse di matrimonio dinanzi alla “mazze”, una sorta

di figura mitologica. Mentre Joerg respinge Lena, una creatura ideale, Madrisa, si

presenta a Wendel, un povero pastore che non ha mai osato posare gli occhi su una

fanciulla del villaggio. Madrisa sposa Wendel a condizione che questi non le faccia

mai domande circa la sua origine. Presto il potere soprannaturale di Madrisa, subito

ben accolto dagli abitanti del villaggio (lei ha fatto riconciliare Joerg e Lena), la fa

35
considerare come una strega. Wendel stesso la prega di rivelare la sua origine.

Madrisa scompare e Wendel, accusato di aver incendiato lo chalet di Joerg, si vede

condannato al rogo; ma Madrisa torna, lo salva e svela il suo ruolo di consolatrice e

tutto il villaggio riconosce la sua natura soprannaturale.

Successivamente Haug compone due opere tratte da Molière. Si tratta di Tartuffe e

Der Unsterbliche Kranke (Il malato immaginario).

Tra il 1953 e il 1954 Haug scrive a Losanna Le miroir d’Agrippine, opera in tre atti

su testi di Fridolin Tschudi tratti da un lavoro di Hans Müller-Einigen. I sette

personaggi in scena rivivono una rielaborazione in chiave psicologica del matricidio

attuato da Nerone. Infatti, per ottenere il potere assoluto, Nerone fa assassinare sua

madre Agrippina. L’azione comincia davanti al catafalco dove Nerone riceve lo

specchio che Agrippina portava sempre al polso. Questo specchio diviene per Nerone

la persecuzione della sua coscienza. Esso riflette tutte le immagini dei crimini da lui

commessi. La follia dell’imperatore si accentua, egli è posseduto dall’angoscia e dal

panico: finirà per distruggere lo specchio, ma troppo tardi!

L’Orphée è, tra le opere di Haug, quella che riscosse maggior successo. La prima

esecuzione radiofonica fu realizzata dall’Orchestra della Radio-Televisione francese

il 24 settembre 1954. La prima messa in scena avverrà il 12 giugno 1955 a Losanna

con l’Orchestra della Suisse romande diretta dallo stesso compositore. Quest’opera

36
varrà ad Haug, nel 1956, il Premio della “Società degli autori e compositori

drammatici”.

Degli estratti dalle Metamorfosi di Ovidio commentano la leggenda di Orfeo ed

Euridice e sono cantati in latino nella buca dell’orchestra. Il libretto, la cui versione

francese è stata realizzata da Daniel Anet, è tratto dalla Favola di Orfeo di Poliziano.

Questa duplicità linguistica è sottolineata dall’impiego di due orchestre di differente

formazione: strumenti non temperati per l’opera e strumenti temperati per il

commento. Nell’orchestra non vi è che un solo violino rappresentante Euridice;

infatti il ruolo di Euridice è un ruolo danzato e non cantato. Ad essa si affianca un

corpo di ballo.

I ruoli cantati sono i seguenti:

- Orphée baritono

- Pluton basso

- Proserpine soprano

- Mopsus tenore

- Aristée tenore

- Tirsis soprano

- una Driade Contralto

- una Menade soprano

- Mercurio basso

- tre furie e coro.

37
Les Fous è un’opera comica tratta dal Fanfano, re dei matti di Carlo Goldoni. Il testo

in tedesco è stato curato da Fridolin Tschudi, mentre la versione francese è di Murice

Budry. Scritta a Belmont nel 1957, della durata di un’ora e quarantacenque minuti,

l’opera fu messa in scena per la prima volta nel 1959 presso Radio-Genève con la

partecipazione dell’Orchestra della Suisse romande.

La vicenda narra di Fanfano, il re dei folli, che riceve nel suo regno sei personaggi

che intendono divenire suoi sudditi. Dopo diverse avventure si scopre che il Regno

dei Folli è il mondo stesso e chi si crede folle è in realtà saggio, mentre chi si crede

saggio è un folle inconsapevole di esserlo.

Unico ruolo parlato dell’opera è quello di un araldo.

I ruoli cantati sono i seguenti:

- Fanfano, re dei folli basso comico;

- Garbata, cortigiana soprano;

- Gloriosa, regina di bellezza soprano drammatico;

- Sempliciona, giovane timida soprano lirico;

- Sordidone, avaro e usuraio tenore bufo;

- Malgoverno, dissipatore baritono lirico;

- Furibondo, collerico avido di potere baritono eroico.

Da notare la presenza della chitarra all’interno dell’orchestra.

38
Le Souper de Venise è un’opera in un atto unico scritta a Belmont nel 1965. Il testo

originale francese è di Pierre Sabatier; la versione tedesca è stata realizzata da Haug,

quella italiana da Antonio Gronen-Kubitzki. Della durata di circa cinquantacinque

minuti, l’opera fu rappresentata alla Radio Suisse romande nel 1966, dall’Orchestra

da camera di Losanna, diretta dallo stesso Haug.

Vi sono solo due ruoli cantati. Quello di Wanda, soprano, e Serge, baritono.

In un salotto veneziano, Wanda riceve Serge per una cena galante. I due personaggi

sembrano non sapere nulla l’uno dell’altra. Poco a poco si apprende che Wanda è

convinta di aver attirato in una trappola il principe Ivan di Mostar, che deve uccidere.

Ma innamorata del presunto principe, Wanda decide di tradire i suoi mandanti e di

farlo scappare. A questo punto Serge le svela di non essere il principe Ivan, bensì una

spia incaricata di sorvegliarla e, siccome lei è colpevole di tradimento, si vede

costretto ad eliminarla. Serge uccide Wanda e fugge.

Le Souper de Venise è l’ultima opera scritta da Haug.

Il catalogo procede con l’elencare in successione cronologica le operette, composte

tutte tra il 1938 e il 1945. La prima di queste è un’operetta in tre atti in dialetto

svizzero-tedesco composta nel 1938 dal titolo Liederlig Kleeblatt. L’orchestra non è

corposa come per le opere viste in precedenza, ma, in compenso, è affiancata da

un’orchestra di scena.

A tale opera segue, nella stesura del catalogo, siamo al numero d’opera MUH89,

l’operetta militare Gilberte de Courgenay, composta nel 1940 a Zurigo. Ebbe

notevole successo negli anni della seconda guerra mondiale.

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Annely us der Linde è un’operetta popolare, anch’essa in dialetto svizzero-tedesco.

Composta a Basilea nel 1940 su testo di Albert Roesler e dello stesso Haug, della

durata di due ore e mezza circa, vede, come Liederlig Kleeblatt, la presenza di

un’orchestra di scena.

Segue Barbara, operetta in tre atti, su testo di Gustav Hartung e Kurd Heine, tratta da

La petite Fadette di Gorge Sand. Il testo è in tedesco e fu composta a Zurigo nel

1942. Le ultime due operette furono composte entrambe a Rivaz nel 1944 e 1945. La

prima, Leute von der Strasse, è ancora in tedesco su testo di Emil Hegetschweiler; la

seconda, La Mère Michel, è in francese, su testo di William Aguet.

II.8. Oratori.

La sezione include sei numeri d’opera, da MUH94 a MUH99. Il primo oratorio fu

scritto a Granges nel 1927. Si tratta del Te Deum per voci soliste, coro misto, tre

trombe, tre violoncelli e tre timpani. Durata di venti minuti, dedicato a Cuno Amiet,

fu eseguito per la prima volta a Basilea nel 1934.

Ariadne è un oratorio per voci soliste, coro e orchestra su testo di Emil Ludwig

Müller, adattamento francese di Maurice Budry. Fu scritto a Zurigo tra il 1938 e il

40
1942. Prima esecuzione a Basilea nel 1943. I ruoli recitati sono quelli di Teseo,

Arianna, Dionisio, Pan, Eco e Zeffiro.

Nel 1943 Haug compone la prima versione dell’oratorio Michelangelo per voci, coro,

orchestra e organo. La prima esecuzione fu fatta a Solere nel 1944. I ruoli cantati

sono quelli di Michelangelo, baritono, e una Voce mistica, soprano, affiancati da tre

cori: un coro principale, un coro mistico e un coro di ragazzi. La seconda versione

(MUH99) è del 1958, tradotta in francese da Géo Blanc. Dura quaranta minuti, a

differenza della prima, che durava circa due ore e mezza.

Nel 1944, Haug compone a Rivaz la Grande Année vigneronne. I testi sono di Paul

Budry. Si tratta di un insieme di sei cantate per piccolo coro, strumenti e una voce

recitante. La composizione dell’orchestra varia da una cantata all’altra. I titoli delle

sei cantate sono i seguenti: 1) Générique; 2) Juin; 3) Juillet; 4) Août; 5) Septembre; 6)

Octobre.

La Cantate gastronomique per voci soliste, coro e orchestra è del 1958. Tratta da La

Physiologie du goût di Brillat-Savarin, è stata realizzata nella triplice versione

tedesca, francese e italiana.

41
II.9. Giochi radiofonici.

I giochi radiofonici rientrano in un genere musicale, che testimonia come Haug fosse

un compositore ben integrato nella cultura mass-mediatica del Novecento. Le sue

molteplici collaborazioni con le Radio svizzere, francesi, italiane ecc. in qualità di

compositore e direttore d’orchestra sono documentate da numerose registrazioni

custodite negli archivi sonori delle emittenti audio-visive europee.

Tale attività valse ad Haug un prestigioso riconoscimento di valenza internazionale.

Come abbiamo avuto già modo di sottolineare nel primo capitolo, egli ricevette, nel

1954, il Premio Italia per l’opera radiofonica La colombe égarée.

Il catalogo riporta dodici lavori di questo genere.

Il primo, Charlie Chaplin, fu composto nel 1930 a Granges e trasmesso nello stesso

anno da Radio-Zurich. Si tratta di un poema sinfonico in forma di Rondo, definibile

come un film sonoro senza video, per orchestra e voce recitante. I testi furono scritti

dallo steso compositore. La durata è di circa diciassette minuti.

Morgarten (Tragedia di un popolo) è un dramma radiofonico scritto per le

celebrazioni del primo agosto. Scritto a Rivaz nel 1944, su testi di Benjamin

Romieux, fu trasmesso da Radio Losanna lo stesso anno.

La durata è di circa un’ora e mezza e l’orchestra è affiancata da due cori polifonici.

Da Tantaruffo è la musica per una serie radiofonica in cinque episodi di William

Aguet, mandata in onda nel 1946 da Radio Losanna e scritta da Haug durante il suo

soggiorno a Lonay.

42
Leucosia è un gioco radiofonico con testi di Maurice Budry tratti da alcuni brani

dell’Odissea di Omero. Composta a Lonay nel 1949, fu trasmessa lo stesso anno da

Radio Losanna.

Maurice Budry curò anche i testi di Le Premier Chapeau. Fantasia radiofonica,

racconto dei tempi della Creazione. Composto e trasmesso a Losanna nel 1951 con

una durata di circa mezz’ora. I ruoli cantati sono quattro: “L’uccello senza nome”,

soprano leggero; “Aidim, il primo uomo”, tenore; “Kali, la prima donna”, soprano;

“Il crotalo”, basso. Questo lavoro è un’ennesima testimonianza dell’attenzione rivolta

da Haug a soggetti mitologici o biblici, ma in questo caso è evidente il tentativo di

fondere in un unico racconto i diversi miti della Creazione, provenienti da culture

diverse.

Nel 1953 Haug scrisse a Losanna la Colombe égarée. Il lavoro venne commissionato

e trasmesso da Radio Basilea, che ancora detiene la proprietà della partitura. L’anno

successivo l’opera radiofonica venne presentata al Premio Italia. Esistono ben

quattro versioni dei testi: inglese; tedesca, curata da Walther Franke-Ruta; francese,

di Daniel Anet; italiana, di Antonio Gronen-Kubitzki. Alla voce recitante sono

affiancati tre ruoli cantati: Gaubert, Elaine e Il cavaliere. Da segnalare la presenza di

due orchestre.

I lavori successivi furono tutti composti a Belmont: Fiesco nel 1958; Die Heilige

Johanna nel 1959. Pigeon vole, musica per la fantasia radiofonica di Jean Goudal

tratta da una novella di Diderot, è del 1961. Jaakobs Traum risale al 1964. Le gardien

vigilant è un’operetta radiofonica in un atto con testo di Géo Blanc, tratto da un

43
intermezzo di Miguel de Cervantès; fu scritta nel 1966. Conclude la sezione del

catalogo Le malade immaginaire, commedia radiofonica tratta dall’omonimo lavoro

di Molière, scritta nel 1960.

II.10. Festival – Musica di scena diversa.

La sezione contiene diciannove lavori. I primi sei sono dei Festivals scritti tra il 1935

e il 1954. Tra essi segnaliamo Lällekeenig, per solisti, coro e orchestra, su testo di

Eduard Fritz Knuchel, commissionato ad Haug in occasione dell’Esposizione

nazionale di Zurigo del 1939.

Le opere riportate in seguito rientrano nella categoria di musica di scena, ma non

trattandosi né di balletti, né di opere o operette, vengono inserite in questa sezione

differente. Al numero d’opera MUH118 corrisponde il gioco drammatico biblico per

coro, ottoni e percussioni, Peuple, marche dans la lumière! Fu composto nel 1962 a

Belmont su testi di Roland Jay e Edmond Jeanneret. Segue la pantomima La terre.

Composta a Belmont nel 1964 e rappresentata lo stesso anno a Losanna in occasione

dell’Esposizione nazionale svizzera.

Le Passage de l’ètoile è una musica di scena per il lavoro letterario di Jean Villard-

Gilles, scritto a Losanna nel 1950 e rappresentato a Mézières al teatro Jorat nel

giugno dello stesso anno.

44
Justice du Roi è una tragicommedia del 1963, divisa in tredici frammenti, tratta da

“L’Alcade de Zalamea” di Pedro Calderon, con adattamento francese di Jean Bovey.

Tra i lavori riportati in seguito nel catalogo segnaliamo una Berceuse pour les canons

su testi di Paul Budry; l’armonizzazione di canzoni tradizionali ticinesi; l’adattazione

radiofonica di un’opera comica di Gluck, L’Ivrogne corrige; una commedia musicale

tratta da abbozzi di Offenbach dal titolo Hoelle auf Erden; Der Fländrische

Totentanz del 1937; e un’opera del 1920, Der Tor und der Tod, su testi di Hugo von

Hoffmannstahl.

II.11. Musica per film.

Il catalogo si conclude con l’elenco di cinquantaquattro composizioni destinate ad

essere colonne sonore per film, spot o documentari. È interessante notare come

questa sia la sezione più corposa dell’intero catalogo. Non sono certo questi i lavori

che hanno reso Haug celebre agli occhi dei suoi contemporanei o che suscitano il

maggiore interesse da un punto di vista storiografico, ma evidentemente furono per

lui una importante risorsa economica e rappresentano per noi una preziosa

testimonianza circa il suo inserimento nel contesto socio-culturale dell’Europa del

dopoguerra. Gli anni in cui Haug vive sono gli anni degli sviluppi tecnologici che

portano alla nascita e alla diffusione del cinematografo, della radio e della

45
televisione, senza dimenticare lo sviluppo dell’industria discografica. Questi

diventano gli strumenti di comunicazione più importanti della seconda metà del

Novecento. Molti compositori contemporanei di Haug compresero l’importanza di

tali strumenti come forma di diffusione della propria arte, ma soprattutto come fonte

di sostentamento economico. Basti pensare a Castelnuovo-Tedesco, emigrato negli

Stati-Uniti , si dedicò alla composizione di colonne sonore per l’industria

cinematografica di Hollywood. Non possiamo immaginare quanto possa essere stato

frustrante per un compositore di tale calibro dover sopravvivere grazie a

composizioni che pochissimo hanno a che vedere con la propria arte, ma, in un

mondo in via di ricostruzione a seguito del secondo conflitto mondiale, l’arte deve

spesso piegarsi a nuove regole di mercato. Pertanto è lecito domandarsi se la

dedizione alla composizione di colonne sonore vada considerata come un ripiego

verso una fonte certa di sostentamento economico, oppure come l’intuizione di

percorrere una nuova strada che possa condurre alla popolarità e alla diffusione dei

propri lavori. Probabilmente nel caso di Haug questa seconda ipotesi è più adattabile

ai suoi lavori destinati alla radio, la prima - invece - sembra meglio conciliare con la

sua musica per film.

Concludiamo segnalando, tra tutti i titoli riportati dal catalogo in questa sezione, il

numero d’opera MUH136, Pacem in terris. È la colonna sonora del film di Michel

Dickoff, Nicolas de Flue. Fu scritta a Belmont nel 1963 e porta il titolo di

un’enciclica di Papa Giovanni XXIII.

46
II.12. Riflessioni.

Ciò che maggiormente fa riflettere, al termine dell’ampio sguardo che abbiamo

dedicato all’opera complessiva di Haug, è la scelta dei titoli e delle forme operata dal

compositore. La predilezione dell’autore verso forme quali il preludio, capriccio,

fantasia, serenata, intermezzo, canzonetta, miniature, etc. o titoli come Elegia

pastorale, visione d’Hellade, Aubade, Improvisation, Sehnsucht, Symphonie

romantique, suggeriscono un accostamento quasi ostentato da parte di Haug nei

confronti delle forme e degli ideali sonori romantici, almeno per quanto concerne la

sua produzione di musica strumentale. L’utilizzo di temi dall’ampio respiro melodico

all’interno di forme che prediligono un trattamento molto libero del materiale sonoro

sembrano essere una costante del suo stile compositivo. Avremo modo di evidenziare

questi aspetti in una fase di analisi dettagliata della musica per chitarra, ma una

riflessione di questo tipo ci suggerisce adesso di indagare sul contesto culturale e

artistico nel quale Haug fu inserito, e su eventuali influssi esterni che condizionarono

la formazione di un proprio pensiero sulla musica e l’arte.

47
Capitolo terzo

Dal contesto al testo

In questo capitolo daremo uno sguardo al contesto storico, culturale e artistico in cui

Haug fu inserito. Svolgeremo un percorso dal generale al particolare. Partiremo da

osservazioni sulle tecniche di composizione e sulla situazione musicale in Europa

nella prima metà del Novecento, per focalizzare poi la nostra attenzione su quanto

accadeva in Svizzera nello stesso periodo. Il campo di osservazione si andrà via via

restringendo, focalizzandosi su quei compositori che furono particolarmente legati ad

Haug in quanto suoi maestri, amici o colleghi, che possano in qualche modo,

direttamente o indirettamente, aver influenzato il suo modo di pensare in musica.

48
Concluderemo passando in rassegna alcuni compositori “segoviani”, ossia quei

contemporanei di Haug che scrissero musica per chitarra, orbitando attorno alla

figura di Andrés Segovia.

III.1. La musica in Europa nella prima metà del Novecento.

L’inizio del XX secolo fu caratterizzato da un crescente fermento sociale e da

tensioni internazionali che sfoceranno nel primo conflitto mondiale. Questo stato di

generica agitazione e di instabilità politica, sociale ed economica si manifesta in

campo musicale con l’abbandono dell’idioma tardo romantico e la sua trasformazione

in un nuovo linguaggio musicale, frutto di nuove sperimentazioni e tendenze

individualistiche che, seppur seguendo strade differenti, condurranno verso

l’esaurimento della concezione di tonalità così come i secoli XVIII e XIX l’avevano

intesa.

Il sistema tonale viene posto in dubbio: non è più ritenuto in grado di contenere le

idee creative dei vari autori, i quali – in piena indipendenza fra di loro – tentano vie

nuove e diverse. Il carattere di unità della musica in occidente, perpetuatosi sin dal

XV secolo sotto le successive egemonie delle scuole nazionali olandese, italiana e

tedesca, si interrompe definitivamente nel XX secolo, frantumandosi in una

costellazione di diversi movimenti tra loro separati e indipendenti e in una miriade di

nuovi ed originali tentativi di creare un nuovo e rivoluzionario modo di creare

musica, libero dai vincoli della tonalità classica.

49
Si viene a creare, agli inizi del XX secolo un vero e proprio labirinto fatto di nuove

strade (nuove tecniche compositive e rivoluzionarie teorie musicali) orientate verso

quella terra promessa che è la nuova musica. Molti di questi nuovi sistemi musicali si

manifesteranno come delle strade senza uscita, ossia delle vie individuali, seguite da

singoli compositori e non più imitate da altri.

Ogni autore si forma un linguaggio musicale non imitabile. È il caso di Skryabin e il

suo “accordo mistico” tendente ad abbattere le barriere della tonalità; Alois Haba e

l’introduzione della poetica dei quarti di tono; Ferruccio Busoni e il suo classicismo

contrappuntistico con tentativi di atonalità; Hauer con la sua dodecafonia particolare

in antagonismo con Schoenberg; Messiaen con il suo “sistema di modi a

trasposizione limitata”, che ricorda il “sistema alternato” di Vito Frazzi; Savagnone

ed il suo “prismatismo musicale”; Roberto Lupi e la sua “armonia di gravitazione”1.

Tra i musicisti di inizio secolo si percepisce il senso della crisi della civiltà

occidentale e il senso di dovere di testimoniarla nell’opera d’arte. Il musicista che si

sente estraneo alla propria epoca, vive una condizione di isolamento rispetto al gusto

del pubblico, alle regole del mercato editoriale o alle istituzioni scolastiche. Le

avanguardie musicali, che nascono da tale condizione del musicista, tendono ad

organizzarsi in cenacoli di artisti con un salotto in cui riunirsi, una sala nella quale

esibirsi abitualmente in concerto e magari una rivista che ne divulghi le idee. Non

sempre però le nuove poetiche musicali derivano dal dibattito o dal confronto tra

artisti. La poetica può discendere anche da teorie misteriosofiche, teosofiche o

1
CLAUDIO GREGORAT, Sguardo panoramico sullo sviluppo dei sistemi musicali dall’inizio del ‘900 ad oggi, saggio non
ancora pubblicato, gentilmente inviatomi dall’autore.

50
antroposofiche, come nel caso di Skrjabin o del giovane Satie, appartenente al gruppo

dei Rosacrociati.

All’interno di questo complesso labirinto formatosi nella prima metà del Novecento,

si possono però distinguere tre strade principali, che corrispondono

approssimativamente alle tre linee principali di sviluppo del periodo precedente.

La prima consiste nella creazione di stili musicali in relazione agli idiomi nazionali

folklorici. La seconda, che può essere definita col termine neoclassicismo, consiste

nella nascita di vari movimenti che mirano a introdurre le nuove scoperte della prima

parte del secolo in sistemi musicali ancorati ai principi, alle forme e alle tecniche del

passato, in particolar modo dell’epoca pre-ottocentesca.

La terza strada, che è anche l’unica a poter essere definita come una vera e propria

“scuola”, consiste nella trasformazione dell’idioma post-romantico tedesco nello stile

dodecafonico di Schoenberg, Berg e Webern, passando per la strada del cosiddetto

“espressionismo musicale”.

Agli inizi del XX secolo, lo studio del materiale folklorico fu intrapreso con l’utilizzo

di un metodo scientifico rigoroso. In passato la musica popolare veniva raccolta e

conservata con l’uso poco ortodosso della tradizionale notazione musicale, la quale

non era in grado di riportare con esattezza le peculiarità stilistiche e proprie delle

prassi esecutive di certi canti. Con l’avvento del fonografo fu possibile registrare i

materiali musicali e conservarli senza alcun rischio di filtrare la genuinità della loro

51
origine. Nasce così l’etnomusicologia, disciplina che darà un impulso notevole allo

sviluppo di nuove tendenze musicali che sentivano l’influsso della musica popolare.

L’Europa centrare fu l’ambiente ideale per lo sviluppo dei primi vasti studi scientifici

sulla musica folklorica. Pioniere, in tale campo, fu Janàček in Cecoslovacchia, cui

fecero seguito gli ungheresi Zoltàn Kodàly (1882-1967) e Béla Bartók (1881-1945).

Quest’ultimo coprì un ruolo di primo piano sotto vari aspetti, da quello della ricerca

di materiale folklorico sul campo, all’attività di esecutore e didatta, a quella - per noi

forse la più interessante - di compositore.

Comporre secondo l’influsso del materiale folklorico significava per questi

compositori riproporre, in chiave più o meno colta – quindi secondo le tecniche, i

principi e le forme della composizione “ortodossa” – melodie, ritmi e pratiche

polifoniche e armoniche della tradizione popolare.

Molti compositori cercarono di assorbire le nuove scoperte musicali senza

interrompere la continuità con la tradizione, rimanendo legati ad alcune

caratteristiche del passato come la conservazione di centri tonali, la forma melodica e

il movimento finalizzato delle idee musicali. Le opere che questi compositori

produssero vengono spesso assorbite nella definizione di neoclassicismo in musica. È

il caso del balletto “Pulcinella” (1920) e dell’opera buffa “Mavra” (1922) con i quali

Stravinskij entrava nel periodo “neoclassico” della sua produzione, attuando una

revisione quasi totale della propria scrittura precedente. Il neoclassicismo

stravinskiano assume già ai suoi esordi il duplice aspetto della ricostruzione rispettosa

52
e della caricatura irriverente. Una contraddizione, mai risolta, che troverà il suo

campo ideale di sviluppo nella musica da camera del compositore russo.

Al gusto neoclassico sono riconducibili anche buona parte delle opere di Erik Satie e

del “Gruppo dei Sei”, di cui fu guida spirituale. Le innovazioni più consistenti

presenti nella musica di Satie sono riscontrabili prevalentemente nella sua produzione

pianistica: le armonie sono spesso costruite col procedimento di quarte sovrapposte;

viene abolita la barra di divisione delle battute; non vengono messe le alterazioni in

chiave. Alcune brevi idee musicali vengono ripetute in continuazione, oppure

alternate con altre, anch’esse sempre uguali, oppure trasposte ad altezze differenti. La

qualità stesse delle idee musicali è di un genere sconosciuto: melodie quasi

totalmente diatoniche, a grado congiunto, a piccoli incisi ritmicamente costanti;

accordi solenni o grumi di note, inspiegabili con le regole tradizionali. La

partecipazione di Satie alla setta misteriosofica della Rose-croix (per questo gli amici

lo chiamavano scherzosamente “Esoterik” Satie) comportò un vivo interesse per il

canto gregoriano di cui adottò le modalità.

L’interesse per il canto gregoriano, i motivi di danza e le melodie medievali furono

una componente rilevante anche per la produzione musicale di Arthur Honegger, uno

dei componenti dei Sei, dal quale Haug fu fortemente influenzato.

La denominazione “Les Six” aveva avuto un’origine casuale: ad un concerto in cui si

presentavano le musiche di Milhaud, Poulenc, Honegger, Auric, Durey e della

Tailleferre, il critico Henri Collet aveva intitolato il proprio articolo “I Cinque russi e

i Sei francesi”. L’accostamento, anche se fortuito, di questi sei compositori francesi,

53
andava ad indicare un cenacolo di artisti legati da una stretta amicizia e che

riconoscevano in Satie il loro animatore ed ispiratore. Essi amavano incontrarsi

regolarmente o a casa di Milhaud o al caffè Gaya nel sofisticato locale “Le boef sur le

toit”, così chiamato proprio in omaggio a una composizione di Milhaud. Eseguivano

le loro opere pianistiche con preferenza nella piccola Salle Huyghens e si videro ben

rappresentati dal manifesto di Cocteau “Le coq et l’Arlequin” tanto da pubblicare dal

1920 articoli sulla rivista “Le coq”, in cui ciascuno scrisse le sue cattiverie contro i

comuni nemici. Vorremmo evidenziare, tra i Sei, la figura di Milhaud per la tecnica

della politonalità spesso ricorrente nelle sue opere. Lo stesso Milhaud fornisce una

spiegazione semplice dell’uso di accordi politonali: “Il loro suono soddisfa il mio

orecchio; un accordo tonale quando è tenue è più sottilmente dolce e quando è forte è

più violento di un tipo di accordo normale”. Da un punto di vista più tecnico, la

musica politonale è quella musica in cui, attraverso l’analisi visiva della partitura, si

può verificare il percorso simultaneo di più linee melodiche o più piani armonici,

aventi ognuno una tonalità diversa e distinta.

Una serie di defezioni e litigi smembrò il gruppo dei Sei tra il 1923 e il 1925: Durey e

la Tailleferre non produssero più; Honegger seguì il proprio temperamento più

serioso e complesso; Poulenc subì il fascino di Stravinskij e si legò con Auric al

critico ed impresario Louis Laloy, di cui Satie si considerava nemico giurato perché

gli sembrava incarnasse la concezione mercantile in musica. Alla morte di Satie, nel

1925, ognuno rimase da solo con le proprie capacità personali.

54
Un ultimo componente della corrente neoclassica, seppure non per la totalità della sua

produzione, che vorremmo citare per dovizia storiografica è Paul Hindemith.

Fu un abile violista e rinomato didatta presso la Scuola di Musica di Berlino (dal

1927 al 1937), la Yale University (dal 1940 al 1953) e l’Università di Zurigo (dopo il

1953). Come compositore non attraversò nessuna fase giovanile romantica o

impressionistica, ma si lanciò subito, con le sue prime composizioni nel mondo

disorientato e disorientante della nuova musica tedesca degli Anni Venti. Liquidò ben

presto però questi suoi trascorsi espressionisti con l’opera Cardillac del 1926 e

sviluppò, negli anni seguenti, una personale poetica dell’artigianato musicale e della

Gebrauchsmusik, ossia musica d’uso. Agli inizi degli Anni Trenta operò un’ulteriore

svolta, orientandosi verso posizioni decisamente neobarocche ed accademiche. La

figura di Hindemith va ricordata, forse principalmente, per la sua attività di teorico.

Egli tentò di elaborare una teoria nel suo Manuale di composizione, pubblicato a

Magonza fra il 1937 e il 1939, secondo la quale i centri tonali venivano stabiliti

mediante una sorta di movimento melodico gravitazionale e di un decorso armonico

fondato su accordi di maggiore o minor tensione, sicchè la triade tradizionale

conservava una posizione di primato come centro focale del flusso cadenzale. La

tonalità era per Hindemith inevitabile in musica come la legge di gravità lo è per il

mondo fisico; egli sosteneva che i tentativi di evitarla erano non soltanto inefficaci,

ma che il loro risultato era il caos. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale,

Hindemith si volse sempre di più all’interiorizzazione e alla speculazione su problemi

cosmico-filosofici. Divenne sempre più convinto che l’ordine all’interno di una

55
composizione musicale rappresentasse un simbolo di ordine più elevato, appartenente

al mondo morale e spirituale. Testimonianze di questa nuova poetica spiritualistica

furono opere come Harmonie der Welt (Armonia del mondo) del 1957 in cui viene

messa in scena la figura di Keplero alle prese con il problema di conciliare la Bibbia

con le scienze esatte, nel tentativo di trovare attraverso la vita contemplativa

l’armonia del mondo. Nella nuova versione del ciclo Das Marienleben vi è una

relazione simbolica di tonalità: la tonalità principale di Mi è associata a Cristo, la

dominante Si alla sua natura terrestre, la sottodominante La alla sua natura divina e

altre tonalità ad altre idee secondo il loro grado di vicinanza alla tonalità centrale di

Mi2.

Per completare la nostra panoramica dell’orizzonte musicale nell’Europa della prima

metà del Novecento, andremo ora ad esaminare le notizie a nostra disposizione

riguardo all’Espressionismo musicale, la Scuola di Schoenberg, l’opera dei suoi

successori, tra cui Webern, lo stile dodecafonico e il suo naturale confluire nella

Scuola di Darmstadt, fino ad arrivare alle tendenze successive, rivolte alla musica

aleatoria, al puntillismo, al serialismo, alla ricerca di nuovi timbri e alla musica

elettronica. Tutto ciò meriterebbe una trattazione ben più ampia di quella che, per

ovvie ragioni pratiche, riusciremo a dare in questa sede.

<<L’espressionismo musicale è l’insieme delle esperienze più o meno omogenee

maturate tra il 1906 e il 1925 in alcuni musicisti, soprattutto tedeschi, i quali le

2
DONALD JAY GROUT , Storia della musica in Occidente, Feltrinelli, Milano 1984.

56
avallarono dal punto di vista teorico con le idee sostenute nella Harmonielehre di

Schoenberg del 1911 e negli scritti apparsi in “Der blaue Reiter”, almanacco curato

da V. Kandinskij e Fr. Marc, edito a Monaco nel 19123 >>. Spesso si identifica

l’Espressionismo con la seconda Scuola di Vienna e quindi le opere di Schoenberg,

Berg e Webern, e, in definitiva con la fase di gestazione della dodecafonia. Il

momento conclusivo dell’espressionismo viene fatto coincidere con la morte di

Schoenberg e l’affermarsi del Circolo di Darmstadt, i cui esponenti indicarono

nell’ultimo Webern il punto di congiunzione tra la Scuola di Vienna e la loro,

consacrando queste posizioni nel celebre saggio di Pierre Boulez “Schoenberg è

morto”.

Base poetica dell’Espressionismo musicale è la negazione del carattere mimetico

della musica e la dichiarazione dell’impossibilità di esprimere con essa qualsiasi cosa

comprensibile in termini scientifici e logici. La musica è l’interiorità fatta arte, non la

sua rappresentazione o imitazione di tipo naturalistico. I fini tracciati da Schoenberg

sono il superamento della forma, l’emancipazione della dissonanza e l’abbandono

della tonalità, il rinnovamento della melodia, la liberazione del ritmo dalla costrizione

formale, il rifiuto dell’ordine a favore dell’intuizione. Tutto ciò era già stato

pienamente raggiunto nel 1912, l’anno del Cavaliere Azzurro e del Pierrot Lunaire.

Ben presto ci si rese però conto che il rifiuto della forma come veicolo di

comunicazione minacciava gli espressionisti di “naufragare in un mare di acqua

bollente” – come sosteneva lo stesso Schoenberg.

3
DUSE UGO, Per una storia della musica del Novecento e altri saggi, Torino, 1981.

57
Secondo Webern “si ritorna alla forma perché altrimenti non si comunica l’idea

musicale, anzi, al limite, senza forma non c’è nemmeno idea musicale”.

La dodecafonia rappresenta la soluzione ad ogni problema. Fu presentata come un

metodo di comporre con dodici suoni che non stanno in relazione tra loro; in realtà

questo fu il principio compositivo dodecafonico del periodo espressionista. La

dodecafonia, così come si presenta nella sua forma più matura, ossia con Webern, è

un metodo che mette in relazione tra loro i dodici suoni del totale cromatico, non per

un loro interno organizzarsi dettato dalle esigenze espressive mutanti di volta in volta,

ma obbedendo a leggi predeterminate e rigorose. In tal modo, l’ordine – oggetto del

rifiuto della poetica espressionista – torna ad essere considerato da Webern, non più

in quanto fine a se stesso, ma come una soluzione di necessità e punto di approdo

verso nuovi principi formali.

Nel segno di Webern nacque una nuova avanguardia che assunse l’appellativo

adorniano di <<Nuova Musica>> e stabilì epicentro a Darmstadt, nei pressi di

Francoforte. Nel 1946 era stato qui fondato l’Istituto Kranischstein con lo scopo di

ricostruire la vita musicale in Germania, bruscamente interrotta con l’avvento del

nazismo. Le intenzione del suo primo direttore Wolfgang Fortner, seguito da

Hindemith, che diresse i corsi estivi del 1947, l’Istituto doveva diventare un centro

per lo studio di quella musica messa al bando per oltre dieci anni e che si identificava

prevalentemente con il neoclassicismo di Stravinskij, quello dello stesso Hindemith,

con l’atonalismo degli anni Venti e Trenta, e solo in misura modesta con la

dodecafonia, nei confronti della quale i musicisti più anziani manifestavano ancora

58
un certo disorientamento. Le cose cambiarono sensibilmente, a partire dal 1948, con

l’ammissione di studenti stranieri, come Leibowitz o Messian, e una schiera di

giovani compositori ben più agguerriti nella tecnica dodecafonica rispetto ai loro

colleghi o maestri più anziani.

Il serialismo weberniano rappresentava negli anni Cinquanta la discriminante tra

vecchia e nuova musica. All’interno di una concezione estensiva del serialismo è

possibile notare lo sviluppo di tecniche compositive come il puntillismo, di cui fu

illustre esponente l’italiano Luigi Nono, e il serialismo integrale, arricchito da un

raffinato quanto radicale strutturalismo, di Boulez. Fu proprio quest’ultimo, il più

rigoroso tra gli strutturalisti darmstadtiani, a segnare nel 1956-57 una svolta storica

all’interno della corrente post-weberniana. Nella Terza sonata per pianoforte del

1957 si incontra l’applicazione rigorosa e coerente del principio aleatorio che segnerà

la fine della fase iperstrutturalistica della musica postweberniana. L’alea è un

fenomeno in cui il compositore ricorre alla collaborazione creativa dell’interprete,cui

affida alcune scelte di carattere propriamente compositivo. Una pratica analoga era

già stata sperimentata negli Stati Uniti sin dal 1950-51 con alcuni lavori di Morton

Feldman e John Cage. Quella statunitense è però una pratica aleatoria che si

manifesta con la sospensione, totale o parziale, dell’intenzionalità creativa

dell’autore, al punto di affidare ad una logica misteriosa e incontrollata di fattori

accidentali gli esiti combinatori della materia sonora. L’alea europea, invece,

teorizzata e chiarita magistralmente da Boulez nella sua conferenza ai corsi estivi di

Darmstadt nel 1957, contrappone alla struttura chiusa della musica precedente, una

59
struttura virtuale resa aperta dalla presenza di un labirinto di circuiti possibili. Al

“puro fortuito” teorizzato da Cage, Boulez oppone il concetto di “alea controllata”,

che non implica la rinuncia da parte del compositore alla responsabilità degli esiti

della composizione, ma ne estende preventivamente l’intenzione e il controllo anche

a quelle possibilità che appartengono al piano dell’interpretazione e della percezione.

In tutte le tendenze compositive manifestatesi nel XX secolo è possibile individuare

una costante che le unisce tutte in maniera trasversale: la ricerca timbrica.

Dall’introduzione di nuovi strumenti e sonorità nella tradizione musicale occidentale

ad opera di Debussy, alla possibilità - sostenuta dallo stesso Schoenberg - di creare

una serialità timbrica nell’ambito della pratica dodecafonica4, fino ad approdare alla

creazione di nuovi suoni attraverso apparecchiature elettroniche propria della

musique concrète, o di nuovi strumenti (tipo le onde Martenot) è evidente che si

introduce nel pensiero musicale del Novecento un nuovo parametro, il timbro, su cui

riflettere al fine di comprendere pienamente la rivoluzione musicale del secolo. Essa

deve essere dunque considerata come un insieme di grandiosi mutamenti intervenuti

nella sensibilità musicale occidentale che hanno agito su tutti i parametri musicali

contemporaneamente. Resta comunque difficile stabilire se l’emancipazione della

dissonanza abbia condotto ad una nuova sensibilità timbrica, oppure se i nuovi

impasti timbrici, già presenti nelle opere di Debussy, Ravel, Bartòk e altri musicisti

dei primi decenni del XX secolo non abbiano favorito l’avvento di una nuova

4
ENRICO FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento e le avanguardie, in « MusicaIncerta » a cura di Arturo Tallini, Ut
Orpheus Edizioni , Bologna 2000.

60
sensibilità intervallare. Certamente sterile sarebbe una disputa finalizzata a chiarire

cosa si sia avuto prima, ma resta fermo il fatto che nelle molteplici correnti musicali

del secolo si è andati alla ricerca di nuovi effetti timbrici anche attraverso un uso

innovativo degli strumenti tradizionali.

È il caso della chitarra e dell’importanza che tale strumento riveste oggi nella musica

contemporanea, frutto della rinnovata sensibilità di molti compositori, venuti a

conoscenza delle immense potenzialità timbriche dello strumento grazie alla presenza

di grandi interpreti come Segovia. E’ uno strumento ancora tutto da scoprire, al quale

i grandi compositori dei canali ufficiali della “musica che conta” hanno iniziato a

guardare solo nel Novecento, a partire da De Falla, Poulenc, Auric, Ghedini,

Malipiero, Petrassi, passando per la schiera degli autori propriamente detti

“segoviani”, fino ad arrivare ai contemporanei Razzi, Vescovo, Bussotti e tanti altri.

Concludiamo questa breve digressione sulla chitarra, frutto di una evidente ed

incontenibile deformazione professionale, compiacendoci dei passi da gigante fatti da

tale strumento, progressi resi ancor più evidenti dal confronto con la considerazione

di cui lo strumento godeva, nell’ambito della grande musica, nel corso del XIX

secolo. Berlioz fu uno dei pochi a citare la chitarra nel suo Grande Trattato di

Istrumentazione e d’Orchestrazione moderne: << La chitarra è propria ad

accompagnare la voce ed a figurare in qualche componimento strumentale non

rumoroso, come ancora ad eseguire da sola pezzi più o meno complicati ed a più

61
parti, donde ne risulta un delizioso e reale effetto se l’esecuzione è affidata a veri

artisti >>.

Ci venga consentito di sostenere che l’iperbole evolutiva dello strumento e della sua

letteratura musicale si completa col superamento da parte del chitarrista di quello che

Franco Donatoni definisce << un narcisismo sconfinato e un contatto con lo

strumento paragonabile a quello di certi oboisti musulmani che non possono vivere

senza portare l’oboe nella tasca interna e gli fanno dei regali, come gli orecchini,

trattandolo nello stesso modo di una donna >>5.

III.2. In Svizzera.

La Svizzera è una federazione di cantoni dotati di ampia autonomia e indipendenza;

da ciò deriva una situazione culturale fortemente eterogenea testimoniata dalla

presenza di quattro aree linguistiche: tre per le lingue romanze (francese, italiano e

romancio) e una per la lingua tedesca, suddivisa essa stessa in numerosi dialetti

talvolta molto differenti tra loro.

Tuttavia, una situazione geografica e politica comune ha creato un forte legame

interno tra i vari cantoni ed uno spirito di appartenenza, o, se si preferisce,

nazionalismo, motivo di orgoglio per i cittadini svizzeri. Quella della Svizzera è

dunque una situazione di “unità nella diversità”, particolarmente evidente in campo

5
Intervista pubblicata sul n.31, aprile 1980, de Il Fronimo.

62
culturale, affatto alterata dalle innegabili e costanti influenze culturali provenienti

dalle capitali straniere.

Se i libri di storia delle grandi nazioni vicine riportano frequentemente notizie circa

l’importanza del ruolo politico ed economico della Svizzera, si cercheranno invano

menzioni riguardo ad un ruolo centrale della Svizzera nei capitoli dedicati alla

musica. Fanno eccezione nomi come quello di Notker Balbulus, legato alle vivaci

attività musicali dell’Abbazia di Saint-Gall tra il IX e X secolo, o di Glareanus (1488-

1563), musicista e umanista che ha lasciato alla storia della musica trattati di

indiscutibile valore. Dovremo attendere fino al XIX secolo per ritrovare il nome di un

musicista svizzero degno di rilievo come quello di Hans Georg Nägeli (1773-1836),

compositore e pedagogo ricordato per il suo importante ruolo nello sviluppo della

pedagogia musicale e della musica corale.

La fine del XIX secolo vide apparire i primi compositori svizzeri di importanza extra-

regionale. Citiamo i nomi di Joachim Raff (1822-1882), Friedrich Hegar (1841-

1927), Hans Huber (1852-1921), Hermann Suter (1870-1926), Fritz Brun (1878-

1959), Volkmar Andreae (1879-1962), Walter Courvoisier (1875-1931) che divenne

capofila della scuola detta di Monaco, Ernest Bloch (1880-1959) conosciuto persino

negli Stati Uniti, Othmar Schoeck (1886-1957), primo compositore ad aver raggiunto

una fama internazionale senza aver lasciato il suo Paese, per terminare con Frank

Martin (1890-1974), la cui figura occupò nel corso del Novecento un ruolo di

indiscusso prestigio internazionale.

63
Il XX secolo si apre con una situazione musicale in Svizzera sicuramente

promettente, ma fondata su delle basi storiche piuttosto esili, paragonabili ad atolli

nel vasto oceano in tempesta della musica occidentale. Era evidente che bisognava

fare qualcosa di realmente significativo affinché l’orgoglio dei musicisti svizzeri

trovasse riscatto dalla situazione avutasi in passato e la Svizzera cominciasse a

coprire un ruolo importante nella vita musicale Europea.

Il 2 novembre 1898, Edouard Combe (1866-1942) pubblica il suo storico appello

sulla <<Gazzetta di Losanna>>, facendosi portavoce di una visione già largamente

diffusa tra i maggiori musicisti dell’epoca: …<< Nos musiciens ont, à côté de leurs

intérêts immédiats et locaux, des intérêts communs, tant matériels que moraux, et ces

intérêts ils ne pourront les défendre efficacement que par l’union. Les questions

d’école doivent être laissées de côté : que chacun de nous conserve son originalité, sa

note personnelle. C’est précisément en ce bariolage que réside la saveur de notre

école nationale ! N’est-il pas l’image fidèle de notre groupement de vingt-deux petits

Etats souverains ?>>…

Quasi simultaneamente, il 26 novembre 1898, venne costituita a Basilea

un’Associazione di Musicisti Svizzeri sotto la presidenza del violoncellista Emil

Braun (1870-1954). Questa prima A.M.S. era riservata ai musicisti della regione di

Basilea, ma i suoi fondatori intendevano invitare i musicisti delle altre città svizzere a

seguire l’esempio fino a giungere, finalmente, alla creazione di una vera e propria

Associazione dei Musicisti Svizzeri a carattere nazionale.

64
Il 30 giugno 1900 erano presenti quarantacinque musicisti alla prima Assemblea

generale dell’AMS, tenutasi alla Tonhalle di Zurigo, e presieduta energicamente da

Gustav Arnold, deceduto pochi mesi più tardi. Gli statuti dell’Associazione adottati

nel corso delle prime due Assemblee generali, non hanno subìto modifiche sostanziali

nel corso degli anni, nonostante le numerose revisioni.

Lo scopo principale dell’AMS è quello di stimolare lo spirito di cooperazione tra i

musicisti svizzeri professionisti e fornire loro l’occasione di riunirsi periodicamente

per lo studio, la discussione e la difesa dei loro interessi comuni, sia materiali che

morali. L’Associazione si propose ugualmente di contribuire allo sviluppo della

musica nazionale. A questo scopo essa fornisce ogni anno ai compositori svizzeri

l’occasione di far conoscere le loro opere durante la Fête des Musiciens Suisses e

facilitarne la pubblicazione. Inoltre, l’Associazione incoraggia i giovani musicisti a

perfezionare i loro studi. Vengono istituite delle borse di studio per solisti e

compositori. Dal 1940 l’AMS versa un contributo annuale al Concorso Internazionale

d’Esecuzione Musicale di Ginevra affinché si possano commissionare ai musicisti

svizzeri dei pezzi imposti in vista delle prove eliminatorie del concorso.

Lo spirito di fratellanza che deve regnare tra i membri dell’AMS implica che si vada

in soccorso di un musicista o della sua famiglia qualora ve ne sia bisogno. A tale

scopo fu istituita nel 1916 una Cassa di Soccorso che ha l’obbligo di fornire sussidi ai

membri attivi ed onorari dell’AMS, o ai loro eredi, in caso di malattia o altre

situazioni di incapacità al lavoro, nonché in caso di decesso.

65
Dal nostro punto di vista l’attività dell’AMS copre un ruolo di vitale importanza: il

sostegno alla creatività dei compositori attraverso l’organizzazione di concerti che

diano loro la possibilità di far conoscere i propri lavori e la tutela, anche giuridica, dei

diritti derivanti dalle esecuzioni pubbliche. Essa contribuisce,quindi, allo sviluppo

della vita musicale in Svizzera e alla creazione di quel contesto culturale ed artistico

in cui Haug operò.

Nel corso della prima metà del Novecento cresce in maniera esponenziale il numero

di città svizzere dotate di una propria orchestra. Tra le più importanti citiamo

l’Orchestre de la Suisse Romande (OSR), fondata e diretta per molti anni da Ernest

Ansermet, l’Orchestre de la Tonhalle di Zurigo, l’Orchestre de Chambre di Zurigo,

L’orchestre symphonique di Basilea (BOG), l’Orchestre de chambre di Basilea,

l’Orchestre Suisse du Festival de Lucerne. Lugano e Basilea avranno anche una

propria orchestra radiofonica.

Per quanto riguarda i cori, la situazione è a dir poco prodigiosa. Oltre ai cori ritenuti

professionali in quanto garantiscono un salario ben determinato e stabile ai loro

componenti, che sono quelli legati ai grandi teatri o alle emittenti radio-televisive, si

formano in Svizzera una miriade di cori più o meno amatoriali, frutto di una

tradizione consolidatasi a partire dalla titanica opera del già citato Nägeli.

Cresce anche il numero di Festivals organizzati nelle diverse città svizzere. Il più

antico è il Juni-Festwochen (Festival di giugno), organizzato a Zurigo a partire dal

66
1909. Il Festival Internazionale di Lucerna e la sua orchestra composta dai migliori

solisti svizzeri sorgono per la prima volta nel 1938. Seguiranno il Festival de

l’Engadine (1941), il Festival musicale di Montreux, all’interno del quale vedrà la

luce il Premio mondiale del disco di Montreux. E poi ancora Les Semaines musicales

d’Ascona (1946), il Festival di Losanna (1956), il Festival Menuhin di Gstaad (1961),

il Festival di Interlaken, il Festival d’Uster di Zurigo e tantissimi altri.

Il resoconto di quanto avviene nei circoli musicali svizzeri è affidato a riviste

specializzate come la <<Revue Musicale Suisse>> che per 123 anni, dal 1861 al

1983, rifletterà fedelmente l’insieme delle attività musicali in Svizzera. La Svizzera

francese possiede ancora oggi una propria rivista musicale, la <<Revue musicale de

Suisse Romande>> che prosegue l’iniziativa dei <<Feuilles musicales>>, fondati nel

1948 da Pierre Meylan.

All’interno di tale contesto culturale sicuramente più vivace che in passato, si

andarono via via affermando nella Svizzera di inizio secolo nuove generazioni di

compositori, che raggiunsero la notorietà anche all’estero, i cui nomi possono essere

inseriti all’interno di correnti musicali formatesi sulla scia di quanto avveniva, nello

stesso periodo, nel resto d’Europa. Nel XIX secolo la vita musicale in Svizzera era

fortemente influenzata da musicisti tedeschi, che furono rimpiazzati, con l’avvento

del secolo successivo, da generazioni di musicisti svizzeri, formatisi per lo più

all’estero, principalmente nei conservatori francesi e tedeschi.

67
I compositori svizzeri del XIX secolo si era dedicati principalmente alla musica

corale. Sarà con Hans Huber (1852-1921), studente a Lipsia e successivamente

docente, pianista e direttore d’orchestra a Basilea, che la composizione svizzera

comincerà a rivolgersi al ventaglio completo dei generi musicali come la musica da

camera, sinfonica, l’oratorio e l’opera. Il suo stile sarà caratterizzato dalle influenze

romantiche di Schumann, Brahms e Richard Strass. Tra gli altri compositori che,

come Huber, possono essere raggruppati nella corrente del tardo romanticismo,

citiamo Hermann Suter, allievo di Huber, la cui carriera segue, quasi identicamente

l’evoluzione di quella del suo maestro, così come il suo stile compositivo.

Ernest Bloch seguì una via originale studiando a Ginevra, nella sua patria dunque,

con Jacques-Dalcroze, e poi con Ysaye e Ludwig Thuille. Si stabilì successivamente

negli Stati Uniti e creò uno stile nel quale si fondono tardo romanticismo con impulsi

rapsodici e stilemi di tradizione ebraica6.

Othmar Schoeck, formatosi a Zurigo, fu il primo compositore svizzero a godere di

fama e considerazione mondiali. Come lui lo sarà Frank Martin (1890-1974), la cui

produzione artistica è caratterizzata da un’evoluzione lenta e costante che abbraccerà

gran parte degli stili musicali che interessarono la musica del XX secolo. Alcune sue

opere furono legate alle tendenze tardo romantiche proprie dei compositori fin qui

citati, ma la sua produzione andrà ben oltre ed avremo modo di esaminarla meglio nei

successivi paragrafi, visto che Martin compose alcuni brani per chitarra e la sua

6
FRITZ MUGGLER, Musique et vie musicale en Suisse, Imprimerie Moderne de Sion, 1984, pag.12.

68
figura, seppur in via marginale, sarà introdotta tra la schiera dei compositori

segoviani di cui parleremo avanti.

Avremo modo di esaminare meglio anche la figura di Walter Courvoisier, facente

parte, anch’egli, della schiera dei compositori tardo romantici. Nacque a Basilea nel

1875, nel 1902 si recò a Monaco per divenire discepolo di Ludwig Thuille. Alla

morte di questi divenne la figura di spicco della scuola di Monaco. Fu maestro di

Haug e torneremo dunque a parlare di lui nel paragrafo successivo.

I compositori finora citati non si mostrarono molto aperti alle novità musicali, così

come, alla nascita della “nuova musica” negli Anni Venti e Trenta del XX secolo,

non ci furono molti compositori svizzeri pronti a seguire la via aperta da Hindemith o

ad abbracciare l’estetica totalmente nuova della dodecafonia. Al contrario, la messa

in opera di uno stile neo-barocco è propria dei compositori svizzeri, da Willy

Burkhard a Robert Blum, da Paul Müller-Zürich ad Adolf Brunner e Conrad Beck.

Il neo-classicismo con la sua adesione all’equilibrio e alle proporzioni classiche non

fu una vera e propria scuola in Svizzera. Frank Martin ha dedicato una parte

importante della sua produzione artistica a questo stile ed influenzò la produzione del

suo allievo Peter Mieg, in cui la semplicità dello stile classico è ancora più evidente e

più rigorosa che nel suo maestro.

Con Ernst Levy, nato a Basilea, si ha a che fare con un altro tipo di neo-classicismo

che si serve di elementi stilistici tanto medievali che moderni, rielaborati in maniera

69
molto personale. Fu anch’egli uno dei maestri di Haug. Rinviamo una trattazione più

approfondita sul suo conto al prossimo paragrafo.

Molti dei compositori che scrissero secondo lo stile neo-barocco adottarono anche, in

alcune loro opere, lo stile neo-romantico, vale a dire che essi composero nel quadro

dell’estetica romantica e delle sue forme, facendo ricorso all’armonia moderna

propria del sistema tonale. Tra questi compositori ricordiamo Heinrich Sutermeister,

Armin Schibler, Julien-François Zbinden, Robert Blum e Hugo Pfister.

La nuova scuola di Vienna e la dodecafonia non ebbero ripercussioni in Svizzera se

non relativamente tardi. L’allievo di Schöenberg, Alfred Keller, cominciò a comporre

intensamente secondo i canoni dodecafonici solo negli anni cinquanta. Edward

Staemplfi, allievo di Jarnach e Paul Dukas, ricorse sistematicamente al sistema

dodecafonico a partire dal 1949. Egli fu seguito nel 1954 da Albert Moeschinger e nel

1956 da André-François Marescotti. Parallelamente, Vladimir Vogel, nato a Mosca

nel 1896 e stabilitosi in Svizzera nel 1933, si dedicò alla dodecafonia solo a partire

dal 1937, dopo un lungo dibattito interiore. Uno dei suoi allievi, Rolf Liebermann, si

interessò alla dodecafonia solo verso la fine degli Anni Quaranta e, per finire, lo

stesso Willy Burkhard cominciò a prenderci gusto solo poco prima della sua morte.

Se l’adozione dell’idioma dodecafonico in Svizzera fu piuttosto timida, la

composizione d’avanguardia del dopoguerra conobbe un successo ben più rapido

sotto il nome di Stil der neuen Zeit. Forza motrice di questa nuova tendenza furono i

70
corsi di Darmstadt. Tra i compositori che per primi seguirono la strada di tale

avanguardia ci furono Paul Gredinger, pioniere della musica elettronica e seriale;

Jacques Wildberger e Philippe Eichenwald, i quali cominciarono a scrivere musica

seriale all’inizio degli anni cinquanta. Da ricordare ancora i lavori di Costantin

Regamey ed Edward Staempfli.

L’accademia musicale di Basilea ospitò dal 1961 al 1963 tra i suoi insegnanti i nomi

prestigiosi di Boulez, Stockhausen e Pousseur. Visto che la presenza di Paul

Hindemith all’Università di Zurigo tra il 1951 e il 1957 non aveva prodotto gli effetti

attesi, sarà proprio Basilea la città in cui si formeranno la maggior parte dei musicisti

dell’avanguardia degli Anni Sessanta. Tra essi Klaus Huber, Hans Ulrich Lehmann,

Jürg Wittenbach, Heinz Holliger, Rudolf Kelterborn.

Subito dopo Basilea, anche Berna coprì un ruolo importante e stimolante per lo

sviluppo delle nuove tendenze musicali grazie ad una serie di concerti “Neue

Horizonte Bern” organizzati dalla Société Internazionale de Musique Contemporaine

(SIMC) e da Urs Peter Schneider che nel 1968 fondò l’ensemble “Neue Horizonte

Bern” che si dedicò interamente alla musica contemporanea.

Ricapitolando, è possibile osservare che diverse tendenze musicali, ben presenti e

diffuse nel resto d’Europa, non ebbero fortuna in Svizzera. È il caso

dell’impressionismo o delle influenze della musica popolare, in particolare di quella

dell’Est (Bartòk o Stravinsky). Ciò proverebbe una certa indipendenza dello spirito

dei musicisti svizzeri, ma è comunque clamoroso che nemmeno l’opera di Hindemith,

71
che fece letteralmente scuola in Germania, ebbe alcun seguito in Svizzera: tutto a

beneficio, o forse a causa, di tendenze ben più forti, ancorate alla tonalità e ai principi

formali barocchi. Tanto meno l’espressionismo, la nuova scuola di Vienna e la

dodecafonia ebbero riscontro immediato nelle opere dei musicisti svizzeri.

Soltanto a partire dagli Anni Cinquanta e Sessanta, la musica seriale troverà in

Svizzera un terreno abbastanza fertile per svilupparsi e diffondersi, grazie all’opera

delle nuove generazioni dei musicisti d’avanguardia.

Fino ad allora, l’interesse verso le teorie di Schoenberg fu un qualcosa di

assolutamente sporadico. Nel 1934, Frank Martin fece ascoltare il suo primo

Concerto per pianoforte e orchestra, tributo di indiscutibile valore alla tecnica

seriale, ma pur sempre un caso isolato, anche se considerato all’interno della stessa

produzione artistica del suo autore, che all’epoca non aveva ancora raggiunto la

notorietà di cui godrà in seguito. Anche, e forse soprattutto, gli interpreti e gli

organizzatori di concerti, si rivelarono poco attenti, se non completamente diffidenti,

nei confronti della dodecafonia. Bisognerà guardare all’operato di due grandi figure

come Edmond Appia e Costantin Regamey per osservare un concreto contributo per

la diffusione della musica contemporanea nella sale da concerto, in particolare della

Svizzera francese. Il rifiuto da parte delle generazioni dei giovani compositori

svizzeri dei primi decenni del XX secolo nei confronti della dodecafonia non è

comunque da considerarsi casuale o semplicemente frutto di disattenzione, ma è da

considerarsi come un qualcosa di programmatico, che trova radice nell’operato di

72
quei compositori del passato che maggiormente imposero la loro influenza nella

Svizzera di inizio secolo.

Mentre a Parigi, Colonia e Milano nascevano centri di ricerca sonora, che

utilizzavano le più sofisticate apparecchiature elettroacustiche, in Svizzera bisognerà

attendere fino al 1959 per veder nascere un centro simile, a Ginevra, per volontà del

compositore André Zumbach.

Alla luce di quanto detto, va tenuto in debita considerazione il fatto che Haug,

normalmente considerato - dai suoi contemporanei come dai posteri - un

tradizionalista, fece uso delle onde Martenot nell’orchestrazione di alcuni suoi lavori.

III.3. Maestri, amici e colleghi.

Nei due paragrafi precedenti abbiamo avuto modo di verificare quanto fosse

articolato e complesso il panorama musicale nell’Europa e nella Svizzera della prima

metà del XX secolo.

Le notizie biografiche su Haug e la rassegna della sua vasta produzione artistica,

riportate nei primi due capitoli, ci hanno consegnato l’immagine di un compositore

legato alla tradizione, ma allo stesso tempo attento alle molteplici innovazioni

apportante nel campo della composizione e alla nascita di nuovi generi musicali di

consumo, come le colonne sonore dei film. Pensiamo di non far torto ad Haug

considerandolo, inoltre, un compositore dallo “sguardo lieto”, usando un’espressione

73
del suo maestro Ferruccio Busoni: <<Solo chi guarda innanzi ha lo sguardo lieto>>,

tratta dal Faust.

Non è dunque un caso se Paul-André Gaillard, in un suo saggio dal titolo La création

musicale en Suisse romande entre 1950 et 1975, inserito nel volume Tendances et

realisations, pubblicato in occasione del settantacinquesimo anniversario

dell’Association des Musiciens Suisses, riferisce su Haug in un paragrafo intitolato:

La force de la tradition.

La figura di Haug viene inserita da Gaillard tra la folta schiera di musicisti svizzeri

che, al di fuori delle correnti ufficiali, << lavorarono all’edificazione di opere spesso

di notevole valore, ma senza alcuna relazione con lo scompiglio generale provocato

da una sintassi alla ricerca costante di rinnovamento >>7.

In questo paragrafo cercheremo di conoscere meglio i profili biografici ed artistici di

personaggi di notevole spessore, che furono maestri di Haug. Si tratta di Egon Petri,

Ernst Levy, Walter Courvoisier e Ferruccio Busoni. Aggiungiamo a questi la figura

di Roberto Lupi8, con il quale Haug condivideva l’adesione ad un’idea spiritualistica

della musica.

Il nostro scopo è quello di definire con maggior chiarezza i contorni culturali ed

artistici della formazione musicale di Haug, partendo dagli insegnamenti ricevuti da

7
P.-A. GAILLARD, La création musicale en Suisse romande entre 1950 et 1975, in Tendances et réalisations, Zurigo,
1975, pag.215.
8
L’accostamento della figura di Lupi a quella di Haug mi fu suggerito dal M°Angelo Gilardino nel corso di una
conversazione telefonica e successivamente confermatami in una corrispondenza via e-mail. Secondo Gilardino, Haug
si interessò al trattato Armonia di gravitazione di Lupi, condividendone sia gli spunti teorici che filosofici. Circa
l’amicizia tra i due non si dispone di alcuna documentazione, ma – sempre secondo Gilardino – è possibile che essa
abbia un'origine nella comune appartenenza ad un ordine iniziatico segreto e di caratura filosofica molto alta
(probabilmente Rosacroce).

74
grandi maestri, fino ad arrivare ad un profilo di carattere misteriosofico che ha

influenzato in parte la sua produzione.

In questa foto del 1940 è ritratto Egon Petri ( al centro) con la sua classe al Mills

College di Oakland in California. Il suo nome viene ricordato in funzione delle

numerose generazioni di pianisti che si formarono grazie ai suoi insegnamenti,

diventando poi concertisti di fama internazionale.

Petri nacque ad Hannover il 23 marzo del 1881 da una famiglia tedesca. Il padre era

un violinista professionista ed indirizzò il figlio, ancora in tenera età, verso lo studio

di questo strumento. Ben presto però gli interessi del giovane Egon si orientarono

verso il pianoforte. Egli fu allievo di Ferruccio Busoni, che esercitò a lungo su di lui

una forte influenza focalizzando i suoi studi principalmente su compositori come

Bach e Liszt, le cui opere, assieme a quelle di Busoni stesso, rimasero per molti anni

al centro del repertorio concertistico di Petri. Durante gli anni della Prima guerra

75
mondiale seguì il suo maestro in Svizzera, dove, in qualità di assistente di Busoni

collaborò alla pubblicazione delle opere di Bach trascritte per pianoforte. Fu proprio

in questi anni, precisamente a partire dal 1917, che Haug studiò il pianoforte sotto la

guida di Petri presso il Conservatorio di Basilea.

Nel 1920 Petri insegnò a Berlino e nel 1923 divenne il primo solista non sovietico a

suonare in Unione Sovietica. Nel 1927 si trasferì in Polonia e a partire dal 1929

realizzò numerose incisioni discografiche.

Durante la Seconda guerra mondiale si trasferì negli Stati Uniti, dove insegnò prima

alla Cornell University e successivamente al Mills College di Oakland. Morì a

Berkeley, California, il 27 maggio del 1962.

La sua tecnica pianistica, magistralmente trasmessa a numerosi allievi divenuti

prestigiosi interpreti in tutto il mondo, pone particolare attenzione al superamento

delle difficoltà tecniche legate al virtuosismo pianistico. Fulcro dei suoi insegnamenti

fu la leggerezza muscolare, unica strada perseguibile per l’esecuzione di brani di

notevole difficoltà tecnica senza dover rinunciare alla freschezza delle dinamiche e

del fraseggio.

76
Ernst Levy, ritratto nella foto in alto, fu anch’egli – come Petri, uno dei maestri di

Haug durante gli anni dei primi studi al Conservatorio di Basilea.

Nato il 18 novembre 1895 a Basilea, quindi più giovane di Haug di soli cinque anni,

ricevette la sua prima formazione pianistica proprio da Egon Petri e dal francese

Raoul Pugno. Sentì molto l’influenza del compositore Hans Huber di cui fu prima

allievo e poi assistente proprio al Conservatorio di Basilea a partire dal 1916.

Quattro anni dopo si trasferì a Parigi dove, nel 1928 fondò “le Choeur Philarmonique

de Paris”, la cui direzione gli portò grosse soddisfazioni professionali.

La situazione politica nell’Europa degli anni trenta spinse Levy, di origine ebraica, a

fuggire negli Stati Uniti, dove insegnò in prestigiosi Istituti come New England

Conservatory, Bennington College, University of Chicago, Massachusetts Institute of

Technology, Brooklyn College. Le attività di insegnamento del pianoforte e della

composizione e le sue abilità come direttore di coro e d’orchestra, lo tennero molto

occupato durante gli anni trascorsi negli Stati Uniti. In questo periodo scrisse anche

quindici sinfonie ed una quantità impressionante di musica corale e da camera.

77
Nel 1966 tornò in Svizzera dove morì nel 1981.

Come compositore, il suo linguaggio musicale non è riconducibile a nessuna scuola o

tradizione ben precisa. Egli fu un fermo sostenitore della capacità di sopravvivenza

della tonalità, ciò in opposizione alle tendenze dominanti in quegli anni orientate

verso l’idioma dodecafonico. Egli cercò costantemente nuove prospettive entro i

parametri della musica tonale. Si interessò molto degli studi pitagorici sulla musica e

la simbologia numerica che in essa risiede. Compì delle ricerche che lo indussero a

pubblicare un saggio sulla simbologia numerica presente nelle proporzioni

architettoniche della cattedrale di Chartres, contenuto nel libro The Gothic Cathedral:

Origins of Gothic Architecture and the Medieval Concept of Order, di Otto Georg

Von Simson del 1956. Le sue conclusioni furono che la cattedrale fosse una

deliberata rappresentazione di un ordine cosmico, <<piena di simboli e musicalità>>.

Sia l’attaccamento al sistema tonale che l’interesse verso la numerologia e la mistica

simbologia, presenti nella musica e nell’architettura, sono elementi che accomunano

la figura di Levy a quella del suo antico allievo Hans Haug. Non sappiamo quando i

loro pensieri a riguardo possano essere giunti ad una piena maturità e quanto abbiano

potuto influenzarsi vicendevolmente, visto anche il breve lasso di tempo in cui i due

furono in stretto contatto e la giovane età di entrambi.

78
Il compositore svizzero Walter Courvoisier fu maestro di Haug

dal 1921 al 1923 presso la Akademie der Tonkunst di Monaco. Con lui Haug studiò

composizione, orchestrazione e direzione d’orchestra. A lui Haug dedicò il suo primo

Concerto per violino e piccola orchestra del 1924. Le notizie a nostra disposizione su

Courvoisier non sono tante. Sappiamo che nacque a Basilea il 7 febbraio 1875 e che

lì completò i suoi studi umanistici prima e medici poi al punto da lavorare come

assistente chirurgo all’ospedale di Basilea tra il 1900 e il 1902. In quest’anno si recò

a Monaco per dedicarsi agli studi musicali sotto la guida di Ludwig Thuille. Alla

morte di questi divenne la figura di spicco della cosiddetta scuola di Monaco. Il suo

modo di comporre è riconducibile allo stile tardo romantico, quindi ancora legato alle

soluzioni tecniche e formali proprie del sistema tonale. Produsse molta musica

vocale, ma anche musica da camera, pezzi per pianoforte ed opere drammatiche.

Durante gli anni di studio al Conservatorio di Basilea, sotto la guida di Petri e Levy,

Haug si recò a Zurigo per seguire i corsi di Ferruccio Busoni, probabilmente dietro

consiglio dei suoi diretti maestri di Conservatorio, i quali sentivano entrambi la forte

influenza di un caposcuola come Busoni.

79
Tra i maestri di Haug, Busoni fu sicuramente il personaggio di maggior prestigio,

colui che lasciò una traccia indelebile nella storia della musica degli inizi del

Novecento. La sua figura va ricordata non solo per l’eccellenza e il virtuosismo delle

sue esecuzioni pianistiche, ma anche per le attività di organizzatore di concerti,

critico musicale, teorico, compositore e filosofo della musica.

Nato il primo aprile 1866 a Empoli da genitori entrambi musicisti, cominciò ad

esibirsi al piano sin dalla tenera età sette anni. A sedici anni, dopo una serie di trionfi

concertistici, la Filarmonica di Bologna lo nominò accademico pianista e gli conferì il

diploma di composizione. Ben presto cominciò un’intensa attività concertistica e

didattica in svariate città europee, seppure la sua dimora stabile era Berlino sin dal

1894. Con lo scoppio della prima guerra mondiale si trovò nella scomoda posizione

di essere troppo legato sia all’Italia che alla Germania, per poter decidere di vivere in

80
uno di questi due Paesi. Per questo nel 1915 si stabilì nella neutrale Svizzera, per la

precisione a Zurigo, dove rimase fino al 1920.

La formazione musicale di Busoni si svolse inizialmente sotto il segno di Bach e

Mozart, aprendosi in seguito all’esperienza dei romantici tedeschi, in particolar modo

a quella di Liszt. Il legame più forte rimase però con la figura di Bach a tal punto che

Busoni stesso arrivò a sentirsi come una reincarnazione dello spirito di Bach. Questo

istintivo riconoscersi in Bach è testimonianza della sua tendenza verso quello che egli

stesso definirà in età matura col termine junge Klassizität (“nuova classicità”). Ciò

non ha però nulla a che vedere con il concetto di neoclassicismo così come può essere

accostato alle esperienze musicali di Hindemith o Stravinskij. Busoni definisce il

concetto di “Nuova classicità” in uno scritto del 1920 indirizzato a Paul Bekker: <<

Per Nuova classicità intendo il dominio, il vaglio e lo sfruttamento di tutte le

conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle.>>9 Ancora

tornò sull’argomento in una lettera del 1921 indirizzata al figlio: << La mia idea (o

piuttosto sensazione, necessità personale più che stabile principio) è che la nuova

classicità significhi compiutezza in duplice senso: come perfezione e come

compimento. Conclusione di tentativi precedenti.>> 9

Guardare al passato significava per Busoni avere delle basi solide su cui costruire una

nuova teoria della musica. Egli si manifestò particolarmente attento a tutte le nuove

tendenze musicali che si andavano affermando in quegli anni, ma ostentava una certa

9
F. BUSONI, <<Nuova classicità>> in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il
Saggiatore, Milano, 1977, pag. 113.

81
diffidenza nei confronti di coloro che si dimenticavano completamente di ciò che la

musica era stata i passato.

Questo guardare al futuro in maniera, per così dire, “prudente”, non impedì a Busoni

di teorizzare una nuova teoria della musica che compie un ampio percorso, sia dal

punto di vista cronologico che da quello degli argomenti trattati. Per molti anni

Busoni teorizzò innovazioni in campo musicale che però non trovarono riscontro

immediato nella pratica compositiva. Nella sua Relazione sui terzi di tono, scritta a

Berlino il 27 giugno 1922, affermava: <<Sono passati circa sedici anni da quando

fissai teoricamente il principio di un possibile sistema basato sui terzi di tono e fino

ad oggi non mi sono deciso ad annunciarlo definitivamente. Perché? Perché il

compito di porne le prime basi mi addossa una responsabilità di cu mi rendo ben

conto.>>10 La possibilità di suddividere l’ottava in intervalli diversi dal semitono fu

un principio già ben delineato in Entwurtf einer neuen Ästhetik der Tonkunst

(Abbozzo di una nuova estetica della musica) del 1906: << Ho tentato tutte le

possibilità di graduazione della successione delle sette note, e mi è riuscito di fissare

113 scale diverse abbassando e innalzando gli intervalli.>>11

L’utilizzo di queste 113 scale e la possibilità di trasposizione o mescolanza tra di esse

offre un universo immenso e inesplorato per il compositore, dal quale attingere nuovo

materiale musicale sia per la costruzione armonica che per quella melodica. Dal

10
F. BUSONI, Relazione sui terzi di tono in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico,
Il Saggiatore, Milano, 1977, pag. 131.
11
F. BUSONI, Entwurtf einer neuen Ästhetik der Tonkunst in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a
cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, pag.65.

82
punto di vista dell’armonia, l’utilizzo delle 113 scale individuate è, per Busoni, solo

una delle possibili strade perseguibili. Ne La nuova teoria dell’armonia del 1911,

indica come altre strade possibili: l’inversione simmetrica delle successioni

armoniche suggerita da Bernhard Ziehn; la condotta indipendente delle voci nella

composizione polifonica (Busoni riferisce dell’esperimento fatto costruendo un

episodio di fuga a cinque voci, in cui ogni voce è scritta in una tonalità diversa, sì che

l’insieme produca nuove successioni di accordi); altra strada possibile è l’anarchia,

ossia l’accostare e sovrapporre intervalli arbitrariamente, secondo l’umore e il gusto

(in questo caso Busoni polemizza con Schoenberg affermando che egli prova a fare

una cosa simile cominciando però a muoversi in un circolo chiuso).

Esperimenti e riflessioni in ambito armonico non allontanarono però Busoni dal suo

incommensurabile amore per la melodia; amore testimoniato dal suo scritto Alla

melodia l’avvenire nel quale riporta la frase emblematica di Salomon Jadassohn (suo

maestro a Lipsia nel 1886): << Al comporre bisognano tre cose, prima la melodia, poi

ancora la melodia, la terza volta infine, la melodia.>>12

Il pensiero complessivo di Busoni sulla musica è davvero un universo ricco di

riflessioni originali, talvolta geniali, dotato di una lucidità lungimirante ed eclettismo

rari. Fu un serbatoio di idee dal quale molte generazioni di musicisti attinsero nei

decenni successivi.

Ci risulta difficile pensare che Haug, allievo diretto di Busoni a Zurigo, ed

indirettamente ad egli collegato per i suoi studi con Petri a Basilea, possa essere
12
F. BUSONI, Alla melodia l’avvenire in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Il
Saggiatore, Milano, 1977, pag 92.

83
rimasto indifferente a cotanto sapere. Il legame di Haug alla tradizione e,

contemporaneamente, l’attenzione rivolta ad un sistema musicale non temperato

manifestata nell’opera Orphée, sono una testimonianza del legame tra Haug e il

pensiero di Busoni. Altra prova di tale legame è la scelta degli strumenti che Haug fa

nell’orchestrazione delle proprie composizioni teatrali e orchestrali. Haug sembra

obbedire fedelmente alle intuizioni profetiche di Busoni, riportate nel suo scritto

L’insufficienza dei mezzi d’espressione musicale13, nel quale si auspica un uso più

frequente di certi strumenti ancora poco diffusi e l’invenzione di nuovi strumenti che

meglio rispondano alle necessità timbriche ed intervallari di una nuova musica.

Terminata questa nostra rapida carrellata sui musicisti che furono maestri di Haug,

potremmo ora soffermarci nell’esaminare le personalità musicali, conterranee e non,

con le quali Haug entrò in contatto e che esercitarono un certo tipo di influenza sulla

sua concezione della musica e sulla sua prassi compositiva. Ma, così facendo,

rischieremmo di allontanarci davvero troppo dall’oggetto principale del nostro

lavoro, che era e rimane la musica di Haug.

Di tutti i musicisti, amici, o collaboratori di Haug in diverse circostanze, vorremmo

ricordare solo la figura di Roberto Lupi.

13
F. BUSONI, L’insufficienza dei mezzi d’espressione musicale in Lo sguardo lieto: tutti gli scritti sulla musica e le arti,
a cura di F. D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, pag 29.

84
L’importanza di questo personaggio nella vita e carriera di Haug ci è stata segnalata

dal chitarrista e musicologo Angelo Giardino, docente di chitarra, curatore di alcune

collane editoriali di musica per chitarra e responsabile artistico della Fondazione

Segovia di Linares14.

Una componente spirituale di indubbia matrice steineriana traspare dagli scritti di

Lupi, in particolar modo ne Il libro segreto di un musicista: questo testo è da

considerarsi come un vero e proprio testamento spirituale, se si tiene conto che la

prefazione a cura dell’autore porta la data dell’11 marzo 1971, poco più di un mese

prima della scomparsa dell’autore. La concezione della musica da parte di Haug ha

subìto indubbiamente il fascino delle posizioni originali e altisonanti di Lupi.

L’elemento spirituale è percepibile senza alcun dubbio in opere significative della

produzione scenica di Haug, ma occhi particolarmente attenti ed inclini ad approcci

analitici più “fantasiosi” potrebbero cogliere un ampio campionario della simbologia

massonica anche nella produzione strumentale di Haug.


14
Cfr. nota 8 pag.74.

85
Fatta salva la nostra convinzione che il valore di un’opera, che sia essa vocale o

strumentale, resti inalterato alla presenza o meno di un codice simbolico intrinseco, è

a nostro avviso doveroso conoscere, seppur superficialmente, il pensiero che vi sta

dietro. Il Flauto magico di Mozart resta un’opera di indiscusso valore artistico, lo è

per un orecchio educato quanto per uno “profano”. Sapere che quest’opera contiene

dei chiari richiami alla simbologia della ritualità massonica e alla spiritualità da essa

derivante può essere interessante solo dal punto di vista storiografico o musicologico,

non certo dal punto di vista della fruizione artistica.

È dunque per dovere di cronaca storiografica che riportiamo in questa sede alcune

notizie riguardanti la figura di Roberto Lupi, la sua filosofia e le sue teorie più

strettamente tecniche: aspetti che entrano, a più livelli, in contatto con la figura di

Haug.

Nato a Milano il 28 novembre 1908, Lupi conseguì presso il Conservatorio della sua

città natale i diplomi di pianoforte (1927), violoncello (1928) e composizione (1934).

Nel 1937 vinse la Prima Rassegna per Direttori d’Orchestra e nel 1950 il <<Prix de

Rome>> con la cantata Orpheus. Insegnò composizione al Conservatorio

“Cherubini” di Firenze a partire dal 1941 e nel 1944 fu per breve tempo direttore

artistico dell’Academia di S.Cecilia di Roma. Diresse le principali orchestre

sinfoniche italiane, nonché la prima esecuzione in Italia della Quinta Sinfonia di

Anton Bruckner. Lupi racchiude nella sua personalità il duplice aspetto di musicista

impegnato, d’azione, attivo sotto diversi aspetti nel mondo musicale; e di teorico,

pensatore sempre disposto ad attività di carattere speculativo o addirittura

86
contemplativo. Non disdegnò nessuna delle tecniche di composizione emerse nel XX

secolo, pur senza aderire pienamente a nessuna di esse. Cercò di adattarle tutte ad un

sistema unitario, che egli stesso teorizzò nel suo trattato Armonia di Gravitazione

(1946), al quale fornisce delle motivazioni per lo più teoretiche ed extramusicali.

Partendo dall’osservazione degli armonici naturali, Lupi arriva a definire leggi di

attrazione armonica concludendo che: <<gli aloni15 che possono avere relazioni

“per attrazione” col mondo armonico della nota Do (nota attrattiva o nota tonale)

sono quattro e precisamente quelli che contano, fra gli armonici da cui sono formati,

uno o più Do; e che l’attrazione dell’alone di Do è tanto più forte quanto più questo

(o questi) Do è ( o sono) vicino alla sua fondamentale e più ripetuto. Gli aloni attratti

saranno detti di gravitazione e le loro fondamentali, fondamentali di

gravitazione.>>16 La teoria proposta da Lupi ha il pregio di fornire nuovo materiale

armonico e melodico al quale il compositore può attingere. Forse la parte più debole

si riscontra proprio nella fase di giustificazione teorica con la quale Lupi rischia di

cadere in contraddizioni che rischiano di offuscare l’intuizione più genuina, frutto

della vasta esperienza dell’autore e del suo raffinato orecchio.

Procedendo logicamente sulla base del fenomeno naturale degli armonici, Lupi

definisce nel suo breve trattato armonie naturali, di inversione, di riflesso, si

sofferma sulla sensazione di maggiore e minore e termina con la formulazione di una

scala bimodale ( in quanto contiene in sé le sensazioni sia di maggiore che di minore)

e di una scala pentedecafonica, genitrice di un cromatismo tonale.

15
insieme delle prime dieci armoniche costitutive di un suono.
16
R. LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma, 1946, pag. 8.

87
A differenza di quanto avviene con la regola dell’ottava in cui la scala governa

l’armonia, per Lupi la scala ha un valore puramente melodico ed ha la sua ragione

d’essere nelle armonie di gravitazione: << … basterà avvicinare per gradi congiunti

le note fondamentali di gravitazione naturale e di inversione di un’atmosfera o, il che

equivale, i primi dieci armonici di una nota tonale e le note date dal capovolgimento

degli intervalli degli stessi armonici, per ottenere la scala che ci servirà da materiale

di ricamo del melos sulla nostra rete armonica.>>17 Su ogni grado di questa scala sarà

possibile costruire una scala bimodale e tutte saranno in relazione con l’atmosfera

della fondamentale della scala bimodale progenitrice, in quanto conterranno la nota

fondamentale stessa. Dal punto di vista intervallare queste scale bimodali presentano

il semitono tra il terzo e quarto e tra il quinto e sesto grado. Conservano la stessa

struttura sia in senso ascendente che discendente e contengono in se sia la sensazione

del maggiore che del minore. <<Se una scala non è che la rappresentazione melodica

delle armonie di una tonalità, il riavvicinamento per gradi congiunti delle note delle

diverse scale dell’atmosfera di do ci darà un’altra scala (cromatica questa) di quindici

suoni (pentedecafonica) che sarà la rappresentazione melodica di tutta l’atmosfera di

do, e che avrà quindi quale nota tonale il do; dunque una scala cromatica tonale

(cromatismo tonale).>>18

Di notevole interesse è anche l’altro scritto teorico, pubblicato a Firenze nello stesso

anno della morte dell’autore, avvenuta a Basilea il 17 aprile 1971: Il libro segreto di

un musicista. La prefazione, scritta dall’autore il mese precedente la sua morte,

17
R. LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma, 1946, pag. 27.
18
R. LUPI, Armonia di gravitazione, De Santis, Roma, 1946, pag. 28.

88
assume i toni di un testamento spirituale: <<… con questo scritto si vorrebbe

ricordare – soprattutto ai giovani di oggi – quali siano i reali veri scopi della musica

nel mondo. E se nel titolo di questa breve opera si accenna a un “segreto”, ciò è solo

in quanto il contenuto di cui tratta non viene generalmente conosciuto né ricercato

dalla maggior parte degli studiosi e dei musicisti del nostro tempo. Ma è bene che si

sappia che questo modo di conoscere le verità appartenenti all’universo, al mondo,

all’uomo, e quindi alla musica, dovrà sempre più diventare in avvenire chiaro e

palese per la vera cultura del mondo.>>19 L’elemento mistico e spirituale proprio del

pensiero di Rudolf Steiner è alla base delle osservazioni proposte da Lupi in questo

scritto. L’uomo è visto come un luogo di incontro tra energie cosmiche e terrestri,

che, sintetizzandosi nell’anima dell’uomo, si trasformano in musica. Pur senza

allontanarsi mai dalla componente mistica delle sue riflessioni, Lupi trova il modo,

tra le pagine di questo suo testamento spirituale, di fornirci anche gli ultimi

aggiornamenti sul suo rapporto con le sperimentazioni musicali fatte dai suoi

contemporanei e sulla propria estetica della musica. Lupi condanna fortemente la

musica contemporanea, e in particolar modo quella elettronica, in cui la ricerca

timbrica appare fine a sé stessa. <<La musica prodotta da apparecchiature

elettroniche è completamente avulsa dalla realtà musicale. È menzogna che uccide le

possibilità di sguardo verso il futuro, poiché il ritmo, che è proiezione verso il futuro

e attività di amore, viene in tal modo completamente eliminato.>>20

19
R. LUPI, prefazione a Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971.
20
R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pp. 55-56.

89
<<Il suono sinusoidale, il suono bianco e il suono del computer, sono la beffa di forze

occulte per illudere l’uomo sui futuri misteri della musica… si tratta di un suono

senza ottave proprie, cioè privo di un passato e di un futuro, cancellatore di possibili

sviluppi spirituali, cancellatore dell’attiva coscienza dell’Io, annullatore della

coscienza del ripetersi della vita.>>21 In fine Lupi critica aspramente tutti quegli

organizzatori di eventi musicali che, per la ricerca impenitente dell’effetto

sbalorditivo e dell’originale anticonformista, propongono “pagliacciate di ogni

genere”. <<Ciò che oggi viene chiamato “libertà d’azione”, nel campo artistico non è

altro che impulso privo di senso e di linguaggio.>>22

Concludo questa sezione dedicata a Roberto Lupi citando le parole conclusive de Il

libro segreto di un musicista, parole che assumono ancor più peso emotivo se

consideriamo che furono scritte poco prima della scomparsa dell’autore: << Possa

l’uomo cosciente, respirare con il pensiero rivolto a un avvenimento della nostra

interiorità che è: morte e rinascita – come è morte e rinascita il convibrare del nostro

essere fra un suono che muore e un suono che nasce.>>23

21
R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pag. 66.

22
R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pag. 67.
23
R. LUPI, Il libro segreto di un musicista, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1971, pag. 104.

90
III.4. Alcuni autori segoviani.

Il nostro percorso di avvicinamento al nucleo centrale della nostra analisi – ossia la

musica per chitarra di Hans Haug – volge al termine. Partendo dalla situazione

generale della musica nell’Europa, e più nel dettaglio nella Svizzera, della prima

metà del Novecento, siamo giunti a conoscere eminenti musicisti che, in qualità di

maestri o amici di Haug, ne condizionarono in qualche modo la formazione.

Nell’avvicinarci sempre di più alla musica per chitarra di Haug, che affronteremo nel

prossimo capitolo, esamineremo adesso la figura di Andrés Segovia, il più illustre

chitarrista del XX secolo, e di alcuni compositori, che, come Haug, dedicarono la

maggior parte dei loro lavori per chitarra al grande chitarrista spagnolo.

Nato a Linares il 17 marzo 1893, Segovia non ricevette alcun tipo di sostegno

didattico nella sua formazione chitarristica. Nonostante ciò, già nella prima

giovinezza, fu in grado di presentarsi in pubblico come abile concertista. A questo

91
punto cercò qualche contatto con allievi di Tarrega onde perfezionare la propria

formazione, ma dovette scontrarsi contro un muro di indifferenza ed ostilità nei

confronti del suo modo “rivoluzionario” di suonare lo strumento. Infatti, la scuola di

Tarrega basava la sua tecnica chitarristica su un tipo di attacco delle corde con i

polpastrelli delle dita della mano destra; Segovia, invece, attaccava le corde con le

unghie, una vera e propria eresia per i devoti di Tarrega.

Segovia ebbe due brillanti intuizioni, corredate dalle capacità di concretizzazione,

dettate da un comune obiettivo: far entrare la chitarra nei circuiti musicali ufficiali e

più prestigiosi della musica colta. Tali intuizioni furono: quella di esibirsi

principalmente in concerti organizzati da circoli musicali di prestigio, in rassegne

concertistiche non prettamente chitarristiche; e quella di coinvolgere, nell’opera di

ampliamento del repertorio chitarristico, compositori non chitarristi e che avevano già

dato prova del loro valore scrivendo musica per altri strumenti.

L’occasione per divincolare la chitarra dai circuiti concertistici esclusivamente

chitarristici si presentò a Segovia nel 1920, quando, grazie al violoncellista Gaspar

Cassadò, entrò in contatto con l’impresario madrileno Ernesto de Quesada, il quale,

impressionato dal virtuosismo del giovane chitarrista, gli organizzò un’importante

tounée in Spagna e Argentina.

Sempre il 1920 è un anno fondamentale anche per quanto riguarda la possibilità da

parte di Segovia di chiedere a compositori prestigiosi di scrivere per chitarra anche se

non sono a conoscenza della tecnica strumentale. Sarà infatti Segovia stesso ad

apportare alle opere i dovuti aggiustamenti in fase di revisione e diteggiatura.

92
Man mano che la fama del chitarrista spagnolo cresceva, diventavano sempre più

numerosi i compositori che si interessarono alla chitarra a tal punto che il prestigioso

concertista non sempre riuscì ad eseguire tutti i brani che per lui venivano scritti. Tali

brani andarono ad incrementare il mastodontico corpus di spartiti che oggi

costituiscono un Fondo musicale, gestito dalla Fondazione Segovia di Linares, che

rappresenta un vero e proprio universo ancora da esplorare e dal quale emergono

continuamente brani inediti che Segovia aveva gelosamente conservato. È il caso di

due brani recentemente pubblicati dalla Bèrben, a cura di Angelo Giardino, scritti da

Haug e presentati all’attenzione di Segovia, un’attenzione che però fu talmente

scarsa, che solo oggi si viene a conoscenza di questi due pezzi: Ètude (rondo

fantastico) e Passacaglia, di cui riferiremo nel prossimo capitolo.

Accanto alla frenetica attività di concertista e “pungolatore” di compositori, Segovia

svolse un importante ruolo come didatta. Nei suoi corsi tenuti in tutto il mondo (tra

cui ricordiamo i più prestigiosi e duraturi di Santiago de Compostela e della

Accademia Chigiana di Siena) si formò una folta schiera di chitarristi che ancora oggi

rappresenta il fior fiore del concertismo internazionale. Pur non avendo lasciato alcun

metodo per chitarra, Segovia riuscì a dar vita ad una vera e propria scuola

chitarristica. Quando gli si chiedeva sul perché non avesse pensato a scrivere un

metodo didattico da consegnare ai posteri, rispondeva che i suoi allievi avrebbero

potuto ascoltare i suoi dischi al fine di ricostruire la sua estetica dello strumento: un

procedimento sicuramente poco ortodosso dal punto di vista pedagogico, ma che, con

senno di poi, sembra aver prodotto comunque dei risultati significativi. Proprio a

93
Siena e a Santiago de Compostela Haug e Segovia entrarono in diretto contatto: a

Siena Haug partecipò al concorso di composizione, di cui Segovia era commissario e

che Haug vinse col concertino per chitarra e orchestra; a Santiago fu invece Segovia

ad invitare, anni dopo, Haug a tenere dei corsi di composizione nel periodo estivo.

Tornando al rapporto di Segovia con i compositori, va riferito circa le caratteristiche

del nuovo repertorio che si andò formando a seguito di questa attività e che a buon

ragione è oggi definito dagli storici col termine di “repertorio segoviano”.

Tale repertorio si colloca nel periodo tra le due guerre.

Nel vasto panorama delle avanguardie storiche delineatosi agli inizi del XX secolo è

possibile sottolineare due grandi correnti predominanti: quella, basata sulla scala

cromatica, dell’espressionismo viennese, evolutasi nella dodecafonia e nel successivo

serialismo della scuola di Darmstadt; e quella francese, basata sul diatonismo,

sull’esatonalità e formatasi nell’ambito dell’impressionismo, del post-impressionismo

e del simbolismo. Tra queste due correnti la chitarra si collocava in una sorta di

equidistante privilegio, e avrebbe potuto cogliere frutti copiosi nell’uno e nell’altro

campo.

<< Le scelte di Segovia determinarono invece il prevalere di una tendenza secondaria

e periferica della musica moderna, quella che, movendo da presupposti culturali di

tipo nazionalistico ( la “Hispanidad” dei vari Turina, Torroba, Ponce, l’italianità di

Castelnuovo-Tedesco), si aggiornava in un contatto con la musica francese, più o

meno propriamente detta impressionista, cioè le composizioni di Debussy, Ravel, e

altri. Si trattò di un colorito connubio tra elementi ritmico-melodici

94
inconfondibilmente segnati da tratti nazionali o regionali – sia popolareschi che

aristocratici – ed elementi armonici, timbrici e formali per i quali l’attributo

“francese” non deve essere inteso nazionalisticamente, ma piuttosto nel senso di un

“genere” di musica. Tale genere ammirava i propri modelli in alcuni pezzi di

Debussy e toccava i propri vertici nel capolavoro della maturità di Isaac Albéniz (il

ciclo dei 12 pezzi per pianoforte intitolati Iberia), nella produzione di De Falla fino al

1922 e in alcune tra le composizioni orchestrali e pianistiche di Ravel. In quell’orbita,

fu composta una certa quantità di musica da parte di autori secondari, tra i quali gli

artefici del repertorio chitarristico segoviano>>.24

Tali peculiarità di carattere estetico della musica prediletta da Segovia nei suoi

concerti furono difese tenacemente, sia dal chitarrista spagnolo che da i suoi fidati

compositori e allievi, al punto tale da arrivare a sostenere una posizione di aspra

polemica nei confronti dei tentativi di innovazione del repertorio chitarristico che

cominciarono a manifestarsi negli Anni Settanta. Nella nota introduttiva al “Primo

concorso internazionale di composizione chitarristica Mario Castelnuovo-Tedesco”,

scritta da Segovia a Chicago l’11 febbraio 1972 e pubblicata nel bando di concorso,

egli condanna in maniera piuttosto esplicita l’altra musica per chitarra, per intenderci,

quella che obbedisce alle più innovative scuole di composizione che andavano

affacciandosi nel mondo musicale non chitarristico: <<Quando si saranno dissolti i

nuvoloni con cui l’impotenza creatrice di oggi copre le belle forme della Verità

24
ANGELO GILARDINO, Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben,
Ancona 1988, pag. 38.

95
Artistica, il nome di Mario Castelnuovo-Tedesco risplenderà con maggiore fulgore. E

i suoi ricchi riflessi illumineranno per sempre la chitarra. >>25

A tal punto scaturisce quasi spontanea un’imbarazzante osservazione.

L’atteggiamento di Segovia di voler difendere e promuovere a tutti i costi un solo

tipo di musica per chitarra sembra essere un po’ quello del cane che si morde la coda.

Segovia lottò tenacemente per sottrarre la chitarra all’alone settario che la circondava

e consegnarla ai circuiti musicali ufficiali. È grazie a lui se furono aperte cattedre di

chitarra nei Conservatori, se il repertorio ha subito un arricchimento notevole, se

furono organizzati concerti per chitarra nei teatri e sale da concerto precedentemente

riservati a strumenti più “colti” e prestigiosi come il pianoforte o il violino. Il voler

accettare un solo modo di scrivere per chitarra, a tal punto che oggi si è arrivati a

parlare di repertorio segoviano, ha significato però relegare nuovamente la chitarra in

un circuito chiuso, situazione aggravata dall’atteggiamento miope di molti allievi di

Segovia, che – un po’ come facevano a suo tempo i discepoli di Tarrega – hanno

preso alla lettera gli insegnamenti del loro maestro, chiudendo le porte ad altri

possibili sviluppi. È verosimile immaginare che la rigidità di Segovia nello scegliere i

pezzi da inserire nel proprio repertorio abbia in qualche modo influenzato anche le

intenzioni creative dei compositori che scrivevano per lui, i quali si vedevano limitati

nella possibilità di seguire strade nuove, al passo con i tempi, nello scrivere musica

per chitarra. È il caso dello stesso Haug. Avremo modo di notare nel prossimo

25
ANGELO GILARDINO, Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben,
Ancona 1988, pag. 39.

96
capitolo, la sostanziale differenza di stile tra i pezzi che Haug scrisse per Segovia e

quelli che, come il Capriccio per chitarra e flauto, furono scritti per altri chitarristi.

I compositori segoviani furono numerosi e provenienti da diverse nazioni. Tra gli

spagnoli ricordiamo Joaquin Turina, Joan Manén, Federico Moreno-Torroba,

Federico Mompou, Vicente Asencio e l’illustre Joaquin Rodrigo. Di particolare

rilievo, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo è la produzione chitarristica

del messicano Manuel Maria Ponce. Esaminare in rassegna i profili di tutti i

compositori che scrissero per chitarra, ispirati dalla figura di Segovia, sarebbe

un’impresa enciclopedica. Ci soffermeremo pertanto solo su compositori che, per la

vastità e varietà della loro produzione per e con chitarra, meglio si prestano ad un

lavoro di analisi comparativa con l’opera di Haug. Per la precisione ci occuperemo di

due compositori riconosciuti unanimemente tra i maggiori autori segoviani:

Alexandre Tansman e Mario Castelnuovo-Tedesco. Gli altri compositori di cui ci

occuperemo sono colleghi conterranei di Haug. La produzione chitarristica di questi

non è certo paragonabile a quella di Tansman e Castelnuovo-Tedesco, ma attira la

nostra attenzione perché ci induce nella tentazione di parlare, non senza correre

qualche rischio, di una vera e propria “corrente svizzera” di compositori attenti alla

chitarra. Ci occuperemo nello specifico di Frank Martin ed Henri Gagnebin.

97
Alexandre Tansman (Lodz, 1897 – Parigi, 1986), ritratto nella foto sopra, fu un

compositore, pianista e direttore d’orchestra polacco, naturalizzato francese. Ricevuta

la prima formazione musicale nella città natale, si trasferì a Parigi nel 1919, ove

strinse amicizia con Ravel e conobbe Milhaud e Honegger. Dal 1941 al 1946 visse

con la famiglia a Hollywood, componendo musica per film e dando concerti. Alla

fine della seconda guerra mondiale, fece ritorno in Francia e riprese l’attività

concertistica per tutta l’Europa. Musicista dal carattere versatile si formò nello stile

impressionista francese giungendo più tardi, attraverso sofferte esperienze, alle soglie

del neoclassicismo strvinskiano; non mancano nelle sue opere influssi folklorici della

sua terra d’origine e precisi riferimenti a Chopin. Raccolse i maggiori successi come

compositore proprio grazie alla sua musica per chitarra, nella quale emerge in

maniera più evidente che altrove la sua anima polacca, elementi folklorici si fondono

ad un’ispirazione di matrice impressionista di stampo raveliano comune anche a

Turina, Ponce o Castelnuovo-Tedesco: ciò spiega l’interesse di Segovia per la musica

di quest’autore che, per il suo lato stravinskiano, ben poco lo avrebbe attratto. Fu

98
proprio Segovia a premiare la Cavatina per chitarra di Tansman al concorso di

composizione dell’Accademia Chigiana di Siena, relativamente alla sezione delle

opere per chitarra sola, lo stesso anno in cui Haug vinceva col suo Concertino per

chitarra e piccola orchestra nella sezione di musica da camera (1951).

Eccetto alcuni lavori per chitarra e orchestra, l’interesse di Tansman per la chitarra si

concretizzò esclusivamente attraverso lavori solistici. Il primo pezzo per chitarra è

una Mazurka del 1926. A differenza degli altri autori segoviani, Tansman non

comporrà altro durante il periodo tra le due guerre, ad eccezione della Cavatina,

scritta, per il concorso già citato, nel 1950, e composta da quattro movimenti ai quali

farà seguito una Danza Pomposa, che Segovia utilizzerà nei suoi concerti come brano

conclusivo della suite. Così come nella Cavatina emerge lo spirito veneziano del

versatile Tansman, la Suite in modo polonico (1962) evidenzia il legame del

compositore con la sua terra d’origine, cosa che avviene anche in brani successivi,

pubblicati da Max Eschig nel 1972, come Hommage à Chopin, Variations sur un

thème de Scriabine e Hommage à Lech Walesa. Tra glia altri brani meno conosciuti

per chitarra sola, ne ricordiamo tre del 1953: Canzonetta (Rêverie), Alla polacca e

Berceuse d’Orient (Kolysanka).

Come Tansman, anche Mario Castelnuovo-Tedesco si trasferì negli Stati Uniti con

lo scoppio della seconda guerra mondiale e trovò sostentamento nella composizione

di musica per film. L’aver composto musica per la celluloide accomuna anche Haug a

Tansman e Castelnuovo-Tedesco e tutti e tre si distinsero per il carattere versatile

99
della loro arte. Il nostro interesse per Castelnuovo-Tedesco è dettato dal fatto che

produsse una quantità impressionante di musica per chitarra, non solo come

strumento solista. Anzi, sarà proprio la produzione di musica da camera con chitarra

che attirerà maggiormente la nostra attenzione, perché – come Haug, anzi

sicuramente più di lui – Castelnuovo-Tedesco andrà alla scoperta di abbinamenti ben

riusciti tra la chitarra ed altri strumenti.

Nato a Firenze il 3 aprile 1895, Castelnuovo-Tedesco studiò composizione con

Pizzetti e svolse un’intensa attività di compositore, saggista e critico sulle maggiori

riviste musicali italiane nel periodo tra le due guerre. Nel 1939 fu costretto ad

abbandonare l’Italia e rifugiarsi negli Stati Uniti, a Beverly Hills dove morì il 17

marzo del 1968, per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Il suo stile, carico di

“simpatie” debussyane e in aperto contrasto con la dodecafonia di Schönberg,

piaceva tanto a Segovia, come abbiamo già avuto modo di sottolineare. Castelnuovo-

Tedesco tentò una sola volta la strada della dodecafonia col brano Si sabra mas el

discìpulo. I suoi brani per chitarra gli comportarono un successo indiscusso. Pur non

100
suonando la chitarra, egli amerà a tal punto tale strumento da preferirlo spesso al suo

primo amore: il pianoforte. L’incontro con Segovia avvenne a Venezia nel 1932 e

portò alla composizione delle Variations à travers les siècles. Dal 1932 al 1939, la

sua musica per chitarra fu caratterizzata da evidenti e marcati tratti di “italianità”,

ossia una predilezione spiccata per melodie cantabili e riproposizioni di aspetti

stilistici e formali cari ai maestri italiani dal Settecento a Puccini. A questo periodo

risalgono i brani per chitarra sola Sonata (omaggio a Boccherini) del 1934, Capriccio

diabolico (omaggio Paganini) del 1935, Tarantella del 1936 fino ad arrivare al

Concerto in re maggiore op.99 per chitarra e orchestra, composto nel 1939, alla

vigilia della partenza verso l’esilio statunitense. L’unica composizione con chitarra

scritta nel periodo bellico è la Serenade del 1943, brano per chitarra e orchestra in

cui, ridimensionate le proprie ambizioni solistiche, la chitarra dialoga con archi e fiati

in un tono più disinvolto e confidenziale. Il vasto e vario catalogo chitarristico di

Castelnuovo-Tedesco comprende altri brani per chitarra sola, tra cui spiccano i 24

caprichos de Goya del 1961, e numerosi lavori di musica da camera con chitarra. Si

va dal Quintetto per chitarra e archi del 1950 al Romancero gitano per chitarra e coro

del 1951, fino al secondo Concerto per chitarra e orchestra del 1953. Per due chitarre

compose nel 1962 un ciclo di 24 preludi e fughe intitolato Les guitares bien

temperées ed ancora la conosciuta Sonatina canonica. Ancora, tra la musica da

camera, incontriamo una Fantasia per chitarra e pianoforte (1950), l’ Ecloghe per

chitarra, flauto e corno inglese del 1968, la Sonatina per chitarra e flauto del 1965:

tutti brani - e ne mancano certamente tanti all’appello per poter completare

101
l’immenso catalogo chitarristico del compositore – destinati a lasciare il segno nella

storia della musica e, in particolar modo, in quella della chitarra.

La scelta di Castelnuovo-Tedesco di isolarsi dalle nuove tendenze che la musica -

europea in particolare - andava sperimentando, fu causa di un’aspra squalifica da

parte degli esponenti della nuova musica e di una conseguente emarginazione e

diffidenza dalla quale solo negli ultimi anni la musica di Castelnuovo-Tedesco si sta

liberando, tenendo fede alle profezie di Segovia.

Sorti di certo differenti toccarono alla figura di Frank Martin. Egli si cimentò solo

una volta nel comporre musica per chitarra, dando vita ai Quatre pièces brèves

(1933). La sua produzione musicale spaziò in quasi tutti gli stili musicali che il XX

secolo ha consegnato alla storia della musica.

Nato a Ginevra il 15 settembre 1890, Martin non è affatto un compositore segoviano.

Il nostro interesse nei suoi confronti, in questa sede, è giustificato innanzitutto

102
dall’esigenza di completare un discorso di tipo “nazionalistico” che evidenzi il

rapporto tra i compositori svizzeri, tra cui Haug, e la chitarra – quindi Segovia.

In secondo luogo, ma non certo per importanza, ci occupiamo di Frank Martin in

quanto i brani chitarristici da lui scritti rappresentano l’esempio emblematico di come

si sarebbe potuto scrivere per chitarra se i compositori non fossero stati vincolati dai

canoni estetici dettati da Segovia. In tal senso i Quatre pièces brèves ci forniscono un

prezioso termine di paragone e di confronto tra la musica chitarristica “segoviana” di

Haug e quella – come il Capriccio per chitarra e flauto del 1963 – esente

dall’influenza del chitarrista spagnolo. Infatti il Capriccio appare costruito su aspetti

tecnici e formali che molto somigliano a quelli adoperati da Martin nei suoi Quatre

pièces brèves. Legati da un’unica cellula originaria, i Quatre pièces brèves

presentano caratteri individuali spiccatamente differenti. <<Il Prélude, dopo aver

severamente dichiarato l’unità tematica, ne dà due consecutivi sviluppi, accumulando

progressivamente tensione ritmica e dinamica, per ritornare poi, con accorate

scansioni, sugli elementi iniziali; l’Air evoca, con estatico trasporto, il fascino

dell’arte clavicembalistica francese e le sue eleganti, un poco enfatiche “inégalités”;

il terzo brano, Plainte, procede su un ossessivo rintoccare di accordi statici con

singhiozzanti melismi, in una struggente lamentazione, la quale sbocca infine su un

oscuro precipitare di note gravi che rimuginano la cellula originaria; per terminare

irrompe il ritmo ambiguo di una danza (Comme une gigue) che si agita fluttuando in

un’esaltata fantasmagoria, fino a sfiorare, nella sezione centrale, le movenze di un

valzer viennese (ma di un fascino spettrale, simile a quello raveliano de La

103
valse).>>26 Questi brani chitarristici di Martin subirono la completa indifferenza da

parte dei chitarristi fino a quando, negli anni sessanta, entrarono nel repertorio di

alcuni concertisti e da allora non si verificò più alcun affievolimento di interesse nei

loro confronti. Martin incluse la chitarra in alcuni suoi lavori di musica da camera che

non sono mai entrati nel repertorio dei chitarristi e sconosciuti alla maggior parte di

essi: si tratta di un brano per tenore chitarra e piano dal titolo Quant n’ont assez fait

do-do (1947); del Drey Minnelieder per soprano e pianoforte (1960) arrangiato da

Martin stesso per chitarra e flauto; e del Poèmes de la mort (1971) per tre voci

maschili e tre chitarre elettriche.

Nel 1933, sia Martin che Segovia vivevano a Ginevra. Non si sa se i “Quattro pezzi

brevi” furono frutto dell’invito di Segovia a Martin a scrivere qualcosa per lui. Di

certo Segovia fornì dei pezzi per chitarra di Castelnuovo-Tedesco a Martin, al fine di

illustrargli come avrebbe voluto che scrivesse per la chitarra. Ma Martin non si

riconosceva con i principi estetici tanto amati da Segovia e messi in pratica da

Castelnuovo-Tedesco, e compose i “Quattro pezzi brevi” secondo il proprio gusto e

intelletto. Spedì un abbozzo del lavoro a Segovia senza ottenerne però alcuna

risposta. Durante un incontro fortuito tra i due in “via della Corratarie” Segovia emise

semplicemente un timido “arrivederci” nei confronti di Martin, che, perplesso

dall’indifferenza di Segovia, pensò che i suoi pezzi fossero in suonabili. Nello stesso

anno Martin scrisse un arrangiamento per pianoforte dei brani chitarristici

intitolandoli “Guitare – Suite pour le piano (Ritratto di Andrés Segovia)”. inoltre, nel

26
ANGELO GILARDINO Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben,
Ancona 1988, pag.69.

104
1934 fu eseguita la versione per orchestra scritta da Martin dietro il pressante invito

dell’amico direttore d’orchestra Ernest Ansermet. Nonostante ciò Martin continuò ad

avere l’originale versione per chitarre nel profondo dei suoi pensieri, tanto che nel

1938 scrisse una versione revisionata per il chitarrista ginevrino Hermann Leeb, che

la eseguì. Ciò spinse Segovia a chiedere a Martin una nuova copia dei brani avendo

perduto la prima inviatagli cinque anni prima. Martin rifiutò con probabile

disappunto. Non sembra esserci modo attualmente, a meno che non riaffiori tra

l’immenso carteggio di Segovia custodito dalla Fondazione a lui intitolata di Linares,

di visionare l’abbozzo originale che Martin spedì a Segovia e confrontarlo con la

versione eseguita da Leeb e custodita presso la Paul Sacher Foundation di Basilea.

Nel 1951 Martin inviò una copia manoscritta al Direttore musicale di Radio Ginevra

(poi chiamata Radio Suisse Romande), affinché Josè de Azpiazu ne realizzasse una

registrazione avvenuta in giugno dello stesso anno. La copia che Martin inviò alla

Radio andò perduta, ma quella che fu restituita al compositore fu probabilmente la

copia che Azpiazu fece per sé al fine di revisionare il pezzo ed eseguirlo. Un’ulteriore

versione fu curata da Martin nel 1955 per la pubblicazione che avvenne nel 1959 a

cura della Universal Edition. Questa versione appare fortemente diversa da quella

eseguita da Leeb nel 1938. Per questo la casa editrice ricevette numerose critiche: si

credeva che l’editore avesse commesso madornali errori nella pubblicazione. A

discolpare l’editore da tali accuse interviene la versione del 1951 di Azpiazu, identica

a quella del 1955: ciò conferma che Martin aveva già allora modificato le proprie

idee riguardo a quanto scriveva nel 1938. Subito dopo la pubblicazione dei brani fu

105
Julian Bream, famoso concertista inglese, ad eseguirli ad Amsterdam in presenza del

compositore, e ad inciderli poco tempo dopo. Da allora i Quatre pièces brèves sono

un riferimento inamovibile per i concertisti nella scelta del loro repertorio.

Henri Gagnebin è il secondo compositore svizzero di cui ci occuperemo per

sviluppare le nostre conoscenze sul rapporto tra i compositori svizzeri e Segovia.

Nato a Liegi il 13 marzo 1886 da genitori svizzeri, si stabilì ai svizzera con la

famiglia nel 1892. Compì gli studi umanistici al ginnasio di Losanna, ma gli studi

musicali lo portarono a Berlino, Ginevra e Parigi, dove visse dal 1908 al 1916,

seguendo i corsi musicali di grandi maestri tra cui Vincent d’Indy. Nel 1925 fu

chiamato a dirigere il Conservatorio di Ginevra, funzione che ricoprì fino al 1957.

Nel 1938 fondò il Concorso Internazionale d’Esecuzione Musicale di Ginevra di cui

sarà presidente fino al 1959. Sarà anche Presidente della Federazione Internazionale
106
dei Concorsi Musicali. Nel corso della sua carriera si distinguerà come virtuoso

organista, brillante critico musicale e compositore attento, ma è doveroso ricordare

che fu un intraprendente imprenditore musicale, attivo in maniera instancabile

nell’organizzazione di eventi finalizzati alla rivalutazione del ruolo della Svizzera

nello scenario musicale internazionale del XX secolo. Membro dell’AMS dal 1925,

ne sarà successivamente vice-presidente e presidente. Uomo di grande cultura, gli fu

conferita nel 1949 una laurea honoris causa dall’Università di Ginevra. Fu membro

d’onore della Royal Academy of Music di Londra e dell’Accademia di Graz,

cavaliere della Legione d’onore, dell’Ordine della Corona e dell’Ordine di Leopold

del Belgio. Ricevette le massime onorificenze e riconoscimenti nel mondo musicale

svizzero per le sue attività di compositore e di organizzatore della vita musicale del

Paese.

Ci occupiamo della sua figura in quanto scrisse tre pezzi per chitarra dedicati ad

Andrés Segovia, al quale fu legato da una stretta amicizia: un simpatico aneddoto ci

racconta che, dopo aver ascoltato per la prima volta la versione per chitarra della

Ciaccona in Re minore di Bach realizzata da Segovia, Gagnebin coniò la simpatica

espressione “Chacun sa Chaconne”, ispirata ad un’espressione tipica francese

“Chacun sa chacune”.

Oltre a questi tre brani per chitarra sola, scrisse un pezzo Egloghe per clarinetto (o

violino) e chitarra (1965).

In qualità di Presidente del Concorso Internazionale di Esecuzione Musicale di

Ginevra, accolse le richieste di Segovia di inserire la chitarra tra gli strumenti

107
ammessi alla competizione nel 1956. Tra i pezzi imposti dal programma del

Concorso figuravano proprio una Chanson, tratta dai lavori chitarristici dello stesso

Gagnebin, e un concerto per chitarra e orchestra, scritto da un altro svizzero, Pièrre

Wissmer.

Oltre all’amicizia con Segovia, Gagnebin strinse stretti rapporti con i più grandi

compositori e interpreti dell’epoca. Amico intimo di Frank Martin (vissero per cinque

anni nello stesso palazzo a Ginevra), vantava tra i suoi amici anche i nomi illustri di

Rostropovich, Rubinstein, Ansermet.

I tre pezzi per chitarra furono scritti da Gagnebin nel marzo 1953. Non suonando la

chitarra, Gagnebin si avvalse della collaborazione di José de Azpiazu. La

pubblicazione avvenne lo stesso anno ad opera della Symphonia-Verlag di Basilea

sotto il titolo Trois pièces pour guitare à Andrés Segovia. Probabilmente Segovia

ricevette una copia dei brani dopo la stampa, come lascia intendere una lettera inviata

dal chitarrista al compositore il 22 febbraio 1954. Segovia informa Gagnebin di

“lenti, ma decisivi progressi” nello studio dei brani che intende inserire nel proprio

programma da concerto della stagione successiva. Il 19 settembre dello stesso anno

Segovia invierà una lettera da Assisi a Gagnebin, per chiedergli parere sulla sua

intenzione di suonare la sola Chanson, e non l’intera suite, nel suo prossimo concerto

a Ginevra, che avverrà il 12 ottobre.

Dopo il concorso di Ginevra del 1956, l’interesse per la Chanson, e quindi l’intera

suite, di Gagnebin andò scemando e lo stesso Segovia venne meno alle sue più volte

manifeste intenzioni di registrare i pezzi dell’amico compositore svizzero. La

108
registrazione completa dell’intero ciclo è avvenuta per la prima volta ad opera del

chitarrista olandese Han Jonkers, in un disco dal titolo “A Swiss Homage to Andrés

Segovia” (1996), contenente, oltre a i tre brani di Gagnebin, anche i Quatre pièces

brèves di Frank Martin, il Prélude, Tiento e Toccata di Haug, e i Fünf Stücke für

Gitarre di Ernst Widmer.

Si stringe così il cerchio intorno alla figura di Hans Haug e al suo rapporto con la

chitarra. La sua produzione chitarristica fu indubbiamente più corposa dei suoi

colleghi svizzeri Martin e Gagnebin, come anche il suo rapporto con Segovia, andò

stringendosi sempre di più fino ad arrivare all’invito di Segovia nei confronti di Haug

a tenere dei corsi di composizione a Santiago de Compostela nel 1961. Abbiamo

avuto modo di vedere come Segovia, divenuto celebre in tutto il mondo, non sempre

era in grado di tener fede alle promesse di inserire brani di compositori che

scrivevano per lui nei propri concerti o incisioni discografiche. Tale sorte spettò tanto

ai tre pezzi di Gagnebin quanto al Concertino di Haug per chitarra e orchestra.

Segovia avrebbe dovuto curare la pubblicazione di tale opera ed effettuarne

l’incisione, in quanto il pezzo risultò vincitore del concorso di composizione alla

figiana di Siena nel 1951.

Più fortunato fu Tansman, la cui Cavatina – vincitrice del medesimo concorso e nello

stesso anno nella sezione dei brani solistici – fu pubblicata ed inserita da Segovia tra i

suoi brani di repertorio. Più turbolento invece fu il rapporto tra Segovia e Martin,

come abbiamo già avuto modo di sottolineare. Probabilmente Haug, tra i compositori

109
svizzeri fu colui che, a lungo andare, arrivò a godere della maggiore considerazione

da parte di Segovia, pur non giungendo mai ai livelli di un Castelnuovo-Tedesco o un

Tansman.

Nonostante la mancata pubblicazione del proprio Concertino, Haug continuò a

scrivere brani per Segovia ed ebbe ragione di questa sua perseveranza perché i pezzi

successivi: Alba e Preludio (ribattezzato Postludio da Segovia) furono registrati e più

volte eseguiti in concerto dal chitarrista spagnolo. Nel prossimo capitolo

esamineremo uno per uno tutti i pezzi per e con chitarra scritti da Haug, compresi i

due brani recentemente dati alle stampe dalla Berbèn nella collana “The Andrés

Segovia Archive”, curata da Angelo Giardino, nel volume Hans Haug – The

complete works for solo guitar (2003).

Direttore artistico della Fondazione Segovia di Linares, Giardino ha ritrovato, tra le

musiche ricevute da Segovia e mai eseguite, due brani di Haug: Étude (Rondo

fantastico) e Passacaglia, di cui si ignorava completamente l’esistenza.

Ma il rapporto tra Haug e la chitarra non fu elusivamente vincolato alla figura di

Segovia. Haug scrisse opere di musica da camera con chitarra, non dedicate a

Segovia, nelle quali cercò di divincolarsi dagli stretti vincoli che il gusto del

chitarrista imponeva ai suoi compositori.

110
Capitolo quarto

La chitarra nell’opera di Haug

Il nostro cammino volge al termine. L’inconnue, di cui abbiamo riferito nella

prefazione (Introduzione… Preludio) a questo lavoro, si è svelata ai nostri sguardi.

Abbiamo conosciuto la figura di Hans Haug, direttore d’orchestra e compositore, la

sua produzione musicale egregiamente catalogata dal Prof. Jean-Louis Matthey, il

contesto storico culturale in cui operò.

Ora vogliamo cogliere i frutti che il talento creativo di Hans Haug ha voluto dedicare

al nostro strumento: la chitarra.

Secondo Angelo Gilardino, nel suo Manuale di storia della chitarra edito dalla

Bèrben, <<Haug rivela nella sua musica chitarristica un’indole perdutamente


111
romantica, nonostante l’adozione di procedimenti armonici che collegano gli accordi

secondo leggi di attrazione diverse da quelle scolastiche>>1.

Che la musica, in prevalenza quella strumentale, di Haug manifesti una matrice e un

gusto spiccatamente romantici è stato evidenziato in precedenza2. Per ciò che

concerne la sua musica per chitarra, l’affermazione di Gilardino è vera, in particolar

modo per le opere per chitarra sola - ovvero per quei lavori che Haug ha scritto e

dedicato ad Andrés Segovia - nonostante i titoli di tali opere richiamino lo stile e

procedimenti tecnici del periodo barocco e di quello “classico”.

Inoltre, le “leggi di attrazione” adoperate da Haug per i propri procedimenti armonici

di concatenazione di accordi, di cui riferisce Gilardino, altro non sono che la messa in

pratica di ideali teorici probabilmente ispirati all’Armonia di gravitazione di Roberto

Lupi.

Il primo lavoro in cui Haug usò la chitarra come strumento facente parte

dell’orchestra fu Don Juan à l’étranger (1930). Di quest’opera comica in due atti su

testi di Dominik Müller abbiamo già avuto modo di parlare approfonditamente nel

secondo capitolo. La chitarra è prevista come componente sia dell’orchestra di scena

che di quella tradizionale.

Nel 1945 la chitarra verrà utilizzata da Haug nella sua Berceuse pour les canons. La

composizione, catalogata da Matthey col numero d’opera MUH122 e inserita nella

1
A. GILARDINO, Manuale di storia della chitarra vol.2° - La chitarra moderna e contemporanea, Bèrben, Ancona,
1988, pag. 59.
2
Cfr. Cap.II, pag. 47.

112
sezione IX del catalogo - sotto la voce “Festivals – Musique de scène divers” – fu

scritta su testi di Paul Budry, per voce di bambino, soprano e strumenti. Nella

fattispecie l’orchestra era composta da un flauto piccolo, un flauto traverso,

percussioni, chitarra e quintetto d’archi. Fin qui dunque solo ruoli marginali per la

chitarra. Bisognerà attendere il 1951 affinché Haug dedichi allo strumento un ruolo

da protagonista con il Concertino per chitarra e piccola orchestra. Dopo di allora

ancora ruoli marginali. Nel 1957 la chitarra sarà parte dell’orchestra dell’opera

comica Les Fous, tratta dal Fanfano re dei matti di Goldoni, di cui già si è riferito nel

secondo capitolo.

Nel 1961, Haug terminerà a Belmont un concerto per orchestra di musica leggera:

Variations sur un thème de Jacques Offenbach. Dedicato e creato per l’orchestra di

musica leggera di Radio Basilea, diretta da Cédric Dumont, il concerto ospita la

chitarra tra gli strumenti componenti l’orchestra.

Datata 1961 è anche la colonna sonora del film Tag ohne Ende la cui partitura

prevede l’utilizzo della chitarra al fianco del flauto, l’arpa, il clarinetto, la tromba e la

batteria.

L’elenco di lavori scritti da Haug che prevedono l’utilizzo, seppur marginale, della

chitarra, termina con Justice du Roi. Scritta a Belmont nel 1963, questa

tragicommedia è suddivisa in tredici frammenti scenici ed è tratta da L’Alcade de

Zalamea di Pedro Calderon. L’adattamento del testo in francese fu curato da Jean

Bovey. La prima rappresentazione fu dello stesso anno, al Teatro “Jorat” di Mézières.

113
Naturalmente il nostro interesse, in questa sede, sarà principalmente rivolto a quelle

composizioni in cui la chitarra riveste un ruolo di primaria importanza.

Il catalogo curato da Matthey e pubblicato nel 1971 riporta notizia del Concertino per

chitarra e piccola orchestra “Quasi una fantasia” del 1951, del Doppelkonzert per

chitarra, flauto e orchestra del 1966, di brani cameristici come la Fantasia per

chitarra e pianoforte del 1957 e il Capriccio per chitarra e flauto del 1963. I brani per

chitarra sola, di cui fa menzione il catalogo, sono cinque: tutti pubblicati dalla Bèrben

nel 1970 in una collana curata da Angelo Gilardino. Questi cinque brani erano il

trittico Prélude, Tiento e toccata e i due pezzi separati Alba e Preludio, entrambi

registrati nel 19613 da Segovia (nella registrazione il Preludio venne rinominato

Postludio).

Il 7 maggio del 2001 Angelo Gilardino, attualmente Direttore Artistico della

Fondazione Segovia di Linares, ritrova nell’archivio di musiche conservate da

Segovia due brani inediti di Haug per chitarra sola, mai registrati o eseguiti in

pubblico dal chitarrista spagnolo. Si tratta dell’ Étude (Rondo fantastico) scritto da

Haug nel 1955 e della Passacaglia del 1956. Entrambi i brani furono probabilmente

inviati da Haug a Segovia, con la speranza che questi potesse eseguirli, registrarli o

semplicemente fornire al compositore osservazioni a riguardo.

Nel 2003 Gilardino pubblica, nuovamente per la Bèrben, quella che al momento

attuale è da ritenersi l’opera completa di Haug per chitarra sola. Ai cinque brani

pubblicati nel 1970 si aggiungono, nella nuova edizione, i due riscoperti nel 2001 e si

3
Cfr. Hans Haug - The complete works for solo guitar, Bérben, Ancona 2003, Prefazione a cura di Angelo Gilardino,
pag.8.

114
esclude volontariamente una trascrizione di Haug per chitarra sola di un Preludio di

Giuseppe Aldrovandini (1665-1707), anch’essa ritrovata nell’archivio di Segovia.

Nella prefazione, già citata, della nuova edizione delle opere per chitarra di Hans

Haug, Gilardino fornisce preziose delucidazioni sulle dinamiche del ritrovamento dei

due nuovi brani, ma anche sulla genesi di quelli già conosciuti in precedenza e –

soprattutto - sulla reale datazione del trittico.

Gilardino riferisce del suo incontro nel 1970 con la vedova di Haug, Madame

Françoise Haug-Budry, recentemente scomparsa. All’epoca nessun lavoro di Haug

per chitarra sola era stato pubblicato, l’incontro era finalizzato proprio alla prima

pubblicazione di quei brani. La signora Haug era a conoscenza dell’esistenza dei soli

cinque brani per chitarra sola che furono pubblicati nel 1970. Si trattava dei due brani

incisi da Segovia, Alba e Postludio, e del trittico, allora ancora privo di titolo. Proprio

in quella occasione Gilardino e la vedova Haug decisero di dare al trittico la

denominazione per la pubblicazione di Prélude, Tiento e Toccata, conservando

quindi le denominazioni dei singoli brani che lo componevano. Attualmente, la

conclusione che questi pezzi fossero un trittico e non tre brani indipendenti è

suggerita dal solo fatto che il frontespizio di ognuno di essi riporta l’indicazione di un

numero d’ordine romano, ma non vi è tra essi alcuna evidente connessione di

carattere musicale. Durante il loro incontro, Madame Haug fornì a Gilardino le

fotocopie dei tre brani del trittico e l’originale manoscritto del Postludio, intitolato

realmente Preludio. Di quest’ultima composizione, come di Alba, non si è in grado di

115
stabilire con certezza la data di composizione. Per giunta, di Alba, non esiste

attualmente nessuna copia del manoscritto. Madame Haug, già nel 1970, era sicura

che esistesse di Alba solo una copia manoscritta, inviata da Haug a Segovia. Quando,

sia la vedova Haug – prima – che Gilardino – poi – fecero richiesta a Segovia di poter

visionare il manoscritto di Alba, entrambi appresero dal Maestro che egli non ne era

più in possesso. Per fortuna Segovia aveva registrato il brano e tale incisione fu

l’unica fonte alla quale Gilardino attinse per la pubblicazione. Gilardino avvisò

Segovia della sua intenzione di trascrivere il brano dalla registrazione del Maestro e,

con sorpresa, non ricevette alcun rimprovero. Ciò era una evidente testimonianza che

Segovia avesse realmente smarrito il manoscritto di Alba. Egli era solito girare il

mondo portando con sé i manoscritti originali delle opere che intendeva includere nei

programmi dei suoi concerti. È possibile che il manoscritto di Alba sia stato

dimenticato in qualche camera d’albergo.

A seguito del ritrovamento dell’ Étude (Rondo fantastico), datato gennaio 1955, e

della Passacaglia (settembre 1956), Gilardino notò un’evidente differenza stilistica

tra questi due brani e quelli per chitarra già conosciuti di Haug. Mentre i brani

precedentemente pubblicati erano a buon diritto classificabili come “pezzi segoviani”

per il loro carattere post-romantico, i due brani di nuova scoperta appaiono

difficilmente compatibili con gli orientamenti del repertorio segoviano e non meno

alieni al gusto del Maestro spagnolo di quanto lo fossero i Quatre pièces brèves di

Frank Martin. Ciò che, secondo Gilardino, rende questi due brani estranei al gusto di

Segovia - causa probabile per cui il chitarrista non li eseguì mai condannandoli al

116
dimenticatoio fino alla loro riscoperta – è il loro linguaggio armonico nonché il

ricorso ad una piattaforma tonale allargata e ad una elaborata tessitura cromatica.

Contestualmente al ritrovamento dell’ Étude e della Passacaglia, Gilardino trovò

nell’archivio di Segovia altre copie manoscritte di due pezzi del trittico: il Prélude e

la Toccata. Questo ritrovamento risulta provvidenziale in merito alla datazione e

all’assemblaggio sotto forma di trittico dei tre brani. La versione del Prélude presente

nell’archivio di Segovia porta la data di Settembre 1956 (dunque contemporaneo

della Passacaglia).

Il terzo brano del trittico, la Toccata, è presente nell’archivio in forma di copia

manoscritta incompleta con il titolo Rondò (“La Gitarra”)/ pour Guitar solo. La

data riportata sul manoscritto è l’ 8 agosto 1952.

Da ciò si evince che il trittico va considerato come l’assemblaggio di separati e

precedenti lavori, rinominati e combinati col Tiento. Il manoscritto di quest’ultimo,

non presente nell’archivio di Segovia, reca la data 26-28 settembre 1961. Il brano fu

scritto da Haug durante il soggiorno a Santiago de Compostella, dove fu invitato da

Segovia a tenere un corso estivo di composizione. Non è possibile stabilire se il pezzo

fu scritto in vista di un assemblaggio con i due brani precedenti o se nacque con

intenti di autonomia formale. È certo però che l’assemblaggio sia avvenuto in una

data successiva al settembre 1961, a seguito della rinominazione dei due brani

precedentemente scritti e con il probabile intento da parte di Haug di ottenere

un’opera per chitarra sola più organica e di maggior spessore e durata per

117
l’inserimento in programmi da concerto. Forse Haug si era reso conto che la stima

che Segovia gli andava dimostrando con l’invito a Santiago, l’incisione di Alba e del

Postludio e il loro inserimento nei suoi programmi da concerto, andava

contraccambiata con un lavoro in grado di sostenere il confronto con le sonate, le

suite e i temi con variazioni che gli altri autori “segoviani” dedicavano al chitarrista

spagnolo con una produzione quasi “industriale”.

Alla luce di quanto detto vogliamo azzardare una sistemazione in ordine cronologico

di tutti i brani per e con chitarra scritti da Haug. Escludendo i lavori teatrali,

cinematografici o orchestrali in cui Haug prevede un utilizzo marginale della chitarra,

l’ordine cronologico dei brani in cui la chitarra assume un ruolo da protagonista è il

seguente:

1) Concertino per chitarra e piccola orchestra (1951);

2) Rondò (“La Gitarra”) (8/8/1952);

3) Alba (1954?);

4) Preludio (1954?);

5) Étude (Rondo fantastico) (Gennaio 1955);

6) Passacaglia (Settembre 1956);

7) Prélude (Étude) (Settembre 1956);

8) Fantasia pour guitare et piano (1957);

9) Tiento (26-28 settembre 1961) ;

10) Capriccio pour Flûte et Guitare (1963);

118
11) Doppelkonzert für Flöte, Guitarre und Kammerorchester (1966).

Leggendo in successione i titoli dei brani sopra elencati e le rispettive date,

scaturiscono spontanee una serie di osservazioni.

Innanzitutto risulta singolare come un compositore, che fino al 1951 conosceva la

chitarra solo per l’utilizzo marginale all’interno dell’orchestra per lavori scenici o

cameristici, decida di cimentarsi improvvisamente nella composizione di un concerto

per chitarra e orchestra da presentare ad un concorso di composizione prestigioso

come quello dell’Accademia Chigiana, che – tra l’altro – riuscirà a vincere.

A nostro avviso è probabile che nuove scoperte, come quella fatta da Gilardino nel

2001, possano portare nuova luce sulla datazione di alcuni brani di cui ora non si ha

certezza, o – cosa ancor più auspicabile – che si possano ritrovare brani per chitarra

sola composti da Haug prima del 1951, da intendersi come un approccio graduale da

parte del compositore ad uno strumento fino ad allora poco praticato. Ciò è tanto più

vero se consideriamo il fatto che Haug prese lezioni di chitarra con Josè de Azpiazu

dal 28 ottobre 1953 al 27 gennaio 1954 per approfondire la sua conoscenza dello

strumento.

Un’ulteriore osservazione riguarda i brani del trittico Prélude, Tiento e Toccata.

Nell’elenco sopra esposto abbiamo voluto indicare i brani col loro titolo originale. La

Toccata, che nel trittico appare come brano conclusivo, è in realtà il primo dei tre

brani ad essere composto, nel 1952, col titolo Rondò (“La Gitarra”). Il Prélude, che

119
occupa la posizione iniziale nel trittico, fu il secondo ad essere composto, nel 1956,

col titolo Prélude (Étude). Il Tiento, secondo brano del trittico, fu invece l’ultimo ad

essere composto, ben nove anni dopo la Toccata e cinque anni dopo il Prélude. È

dunque un assemblaggio singolare, quello fatto da Haug, anche se, come avremo

modo di evidenziare nei paragrafi successivi, lo stile compositivo dei tre brani è

riconducibile ad una comune matrice di stampo romantico, tanto cara al gusto di

Segovia. Evidenzieremo anche come la Toccata, che – grazie alle scoperte di

Gilardino – sappiamo essere il brano più vicino anagraficamente al Concertino,

contenga del materiale tematico di quest’ultimo.

Per quanto riguarda la datazione di Alba e del Preludio (Postludio), abbiamo indicato

con un punto interrogativo l’anno 1954. Abbiamo ricavato tale data a seguito di un

procedimento logico. Infatti, il manoscritto di Alba, come abbiamo già avuto modo di

specificare in precedenza, è stato probabilmente smarrito da Segovia, e sul

manoscritto del Preludio, consegnato da Madame Haug a Gilardino e conservato

unicamente presso gli archivi della Bèrben, non compare alcuna data. La datazione al

1954 (forse 1953) scaturisce, dunque, da una lettera - già citata in precedenza –

indirizzata da Segovia a Gagnebin e datata 19 settembre 1954. In questa lettera

Segovia si scusa con Gagnebin per non essere stato ancora in grado di studiare il

brano inviatogli dal compositore svizzero perché troppo impegnato nello studio di

brani di altri compositori tra i cui nomi figura quello di Haug.

120
Successivamente uscirà, pubblicato dalla DECCA, un disco in cui Segovia esegue, tra

gli altri brani, anche Alba e il Preludio (ribattezzato in questa sede Postludio).

È possibile ancora osservare come, ad eccezione del Tiento (1961), a partire dal 1957

con la Fantasia per chitarra e pianoforte, tutti i lavori dedicati da Haug alla chitarra

vedono quest’ultima affiancata ad altri strumenti e non saranno più dedicati alla

figura di Segovia. Ciò è sicuramente frutto di una sorta di “emancipazione” di Haug

da Segovia. Il compositore svizzero, che – come abbiamo visto nelle notizie

biografiche riportate nel primo capitolo – già dal 1950 aveva anteposto all’attività di

direttore d’orchestra quella di compositore, comincia ad essere conosciuto a livello

internazionale per le sue qualità creative e ad attirare l’attenzione di interpreti di

prestigio come la chitarrista Luise Walker e il duo chitarra-flauto composto da

Werner Tripp (flautista) e Konrad Ragossnig (chitarrista). L’emancipazione di Haug

da Segovia sarà evidente anche dal punto di vista dello stile composito, proprio nei

brani in cui la chitarra sarà affiancata al flauto.

Nei paragrafi a seguire ci dedicheremo ad un’osservazione più dettagliata dei singoli

brani sopra elencati. L’ordine col quale verranno affrontati non sarà puramente

cronologico, ma terremo conto anche di considerazioni di carattere “organico”.

Cominceremo con l’affrontare i lavori per chitarra sola partendo da Alba e dal

Preludio del 1954, sarà poi la volta dell’ Étude (Rondo fantastico) del 1955, della

Passacaglia del 1956, per concludere con i brani del trittico assemblati nel 1961.

Successivamente ci occuperemo dei brani cameristici, partendo dalla Fantasia per

121
chitarra e pianoforte, del 1957, e passando poi al Capriccio per chitarra e flauto del

1963. Concluderemo interessandoci dei brani con orchestra: il Concretino per chitarra

e orchestra del 1951 e il Doppelkonzert per chitarra, flauto e orchestra del 1966,

terminato poco prima della morte del compositore.

IV.1. Alba.

Come abbiamo avuto modo di precisare più volte, di questo brano non si è conservata

alcuna copia del manoscritto. Abbiamo a nostra disposizione le due edizioni della

Bèrben, entrambe curate da Angelo Gilardino. La prima, risalente al 1970, è frutto di

un lavoro di trascrizione, da parte del curatore, della registrazione fatta da Segovia

nel 1961. La seconda, facente parte del volume con l’opera omnia chitarristica di

Hans Haug The complete works for solo guitar, pubblicata nel 2003 da Gilardino,

adotta come punto di partenza la stessa registrazione usata per la prima edizione, ma

è resa maggiormente attendibile da quella che lo stesso curatore definisce

<<l’esperienza acquisita negli ultimi trent’anni>>.

Nella prefazione al volume contenente l’opera completa per chitarra sola di Haug,

Gilardino confessa di aver dovuto compiere molte valutazioni di carattere soggettivo,

ad eccezione di ciò che riguarda le altezze delle note. Infatti, i rubato presenti

nell’esecuzione di Segovia lasciano aperti molti quesiti di carattere ritmico.

122
123
La pluriennale esperienza di Gilardino nel curare la pubblicazione di molte opere

dedicate a Segovia (ricordiamo la sua attuale carica di Direttore artistico della

Fondazione Segovia di Linares) e la sua conoscenza approfondita del gusto del

chitarrista spagnolo, nonché delle sue abitudini ad adattare i testi musicali alla propria

estetica, ci rassicura del fatto che la nuova edizione di Alba sia il frutto di scelte ben

più meditate rispetto a quelle fatte per la pubblicazione del brano nel 1970. La

notazione dei cambi di tempo presenti nello spartito di Alba è il frutto sia di

un’approfondita conoscenza delle diverse prassi esecutive di Segovia, sia

dell’osservazione accurata del modus operandi di Haug negli altri suoi pezzi.

Confrontando le due edizioni appare immediatamente evidente l’eliminazione, da

parte di Gilardino, di quasi tutti i punti coronati presenti nella prima edizione. Questi

derivavano senza alcun dubbio dalla fedele trascrizione delle scelte espressive

apportate da Segovia nella sua esecuzione del brano. L’unico punto coronato

conservato nella seconda edizione è quello sull’accordo di Mi maggiore, che precede

la ripresa (Battuta 52).

Le altre modifiche apportate nella seconda edizione riguardano principalmente i

cambi di metro e i raddoppi di note all’interno degli accordi. Dalla diversa

interpretazione ritmica deriva una differente numerazione delle battute, che sono 67

nella prima edizione e 69 nella seconda. Le due battute in più derivano: 1) dal diverso

raggruppamento delle note alla battuta 32, l’unica battuta di 5/4 della prima edizione

è stata scomposta in due battute di 2/4 e 3/4 (Figura a); 2) la battuta 50 della prima

124
edizione, con metro in 3/4, è stata sostanzialmente modificata con la trasformazione

delle biscrome in semicrome, e divisa in due battute da 2/4 (Figura b).

(Figura a)

(Figura b)

Alla battuta 2, così come nell’equivalente battuta 54 della ripresa nella seconda

edizione, il Si bemolle viene presentato un’ottava sopra rispetto a quello della prima

edizione. Alla battuta 21, come nell’equivalente battuta 47 nella seconda edizione,

l’accordo conclusivo di Sol maggiore dura una minima anziché una semiminima.

Come anticipato, le altre modifiche riguardano i raddoppi all’interno degli accordi. In

sostanza vengono eliminati molti raddoppi che, presenti nella prima edizione e quindi

certamente eseguiti da Segovia nella sua registrazione, hanno un sapore - ed anche

proprietà di diteggiatura – prettamente chitarristico. Gilardino si assume la

125
responsabilità di eliminare queste note all’interno degli accordi ritenendole delle

aggiunte “chitarristiche”, apportate da Segovia ad un’ossatura accordale

presumibilmente più asciutta voluta da Haug. Quanto detto è riscontrabile alle battute

9, 16, 17, 32, 36, 37 e 43 (secondo la numerazione della seconda edizione).

Prima di passare ad un’analisi della forma e dei contenuti del brano, vorrei proporre

una riflessione sulla scelta del titolo apportata da Haug.

Alba è un evidente richiamo al genere di componimento lirico il cui tema è diffuso in

moltissime letterature. Il sopraggiungere delle prime luci dell’alba è annunciato dal

cinguettìo degli uccelli o dal richiamo delle scolte che intonano un canto, segnale per

gli amanti che è giunto il momento della separazione. Il tema della separazione degli

amanti al sopraggiungere dell’alba è già presente nella letteratura classica ( vedi gli

epigrammi di Meleagro di Gadara del 70 ca. a.C. o la poesia latina di Ovidio). Il

primo esempio medievale appartiene al X secolo: la famosa alba bilingue (strofe

latine e ritornello in un enigmatico volgare o semivolgare) del Cod. Vat. Reg.1462,

proveniente da Fleury-sur-Loire, della Biblioteca Apostolica Vaticana. La poesia

trobadorica dei secoli XII-XIII offre poi, nella forma più tipica, diverse albe:

provenzali, francesi antiche, galero-portoghesi, tedesche. L’unico esempio italiano è

conservato in un Memoriale bolognese del 1286. La poesia trobadorica offre anche

albe religiose, in cui il sorgere del giorno viene a simboleggiare la vittoria della

grazia e della fede sulle tenebre dell’ignoranza e del peccato.

126
Il “tema dell’Alba” evocato dal titolo suggerisce due immagini utilizzabili come

possibili chiavi di lettura del brano. La prima immagine è molto poetica e romantica:

il canto d’amore, che narra la separazione degli amanti, è un canto struggente,

malinconico, estremamente denso di carica emotiva. Questa immagine è

egregiamente resa dalla musica di Haug nella sezione centrale del brano, di carattere

spiccatamente melodico.

La seconda immagine ha invece una valenza mistica – oserei dire – iniziatica. La

vittoria della Luce sulle Tenebre è un miracolo che si compie quotidianamente; la

rigenerazione dell’umanità dal peccato, tema proprio dell’alba religiosa, è resa

magistralmente dalla concatenazione di accordi con la quale si apre il brano. Il

percorso armonico, che parte dalla tonalità di La maggiore, evoca all’orecchio

dell’ascoltatore un processo di graduale schiarimento timbrico che si conclude col

solare irrompere del tema melodico, nella tonalità di Sol maggiore, alla battuta 12.

L’accostamento di Alba con i canti trobadorici va al di là del semplice richiamo del

titolo al genere poetico-musicale medievale dell’aube, ma si riflette anche nella

struttura formale del brano. La struttura delle chansons dei trovatori prevedeva

l’alternanza di strofe e ritornelli. La loro derivazione da una forma di dialogo

prevedeva l’esecuzione da parte di almeno due personaggi (nel caso dell’alba, ai due

amanti si affiancava la figura della sentinella che li avvisava del sopraggiungere del

giorno). Dalla struttura in forma di dialogo derivarono probabilmente alcune forme

rudimentali di rappresentazione drammatica per le quali era previsto anche l’utilizzo

127
del coro. Un esempio è dato dal famoso Jeu de Robin et Marion, scritto attorno al

1284 da Adam de la Halle. All’inizio del Jeu, Marion intona una melodia, con

ritornelli corali: “Robin m’aime”, che è un rondò nella forma AbaabAB (dove le

lettere indicano ognuna una frase musicale: le maiuscole le parti corali, le minuscole

le parti a solo).

Alla luce di ciò, la struttura formale di Alba di Haug, seppur priva di testo, è

ipotizzabile segua il seguente schema: AbcbcAb’.

La sezione A è indicata con la lettera maiuscola per sottolineare il suo carattere

“corale” vista la sua struttura “accordale”. Tale sezione termina alla battuta 11 in cui

fa il suo ingresso la voce solista che intona il refrain (b). Alla battuta 20 inizia la

sezione c, alla quale Gilardino aggiunge intelligentemente l’indicazione di

‘Recitativo’ visto il suo carattere spiccatamente monodico e libero dal punto di vista

ritmico. Alla battuta 37 compare nuovamente il refrain (b) con l’indicazione di

Tempo I°. Alla battuta 46 compare nuovamente il Recitativo (c), seppur in forma

incompleta e terminante alla battuta 52 con l’accordo coronato di Mi maggiore. Alla

battuta 53 si ascolta nuovamente la sezione corale A, cui fa seguito – alla battuta 61 -

il refrain (b’), non più nella consueta tonalità di Sol maggiore, ma nella stessa

tonalità di A, ossia La maggiore.

Un’ultima osservazione riguarda la tecnica di concatenazione degli accordi adottata

da Haug nella sezione A. Questa sezione ci sembra un’originale armonizzazione della

melodia affidata alle note acute degli accordi (Figura c).

128
(Figura c)

Disponendo in ordine crescente le note della melodia nell’ambito di un’ottava, si

ricava una scala cromatica di 9 suoni4 (Figura d).

(Figura d)

Per completare la successione cromatica di questa scala mancano le note Sol# (Lab),

La e La# (Sib).

4
Tenendo conto delle voci riguardanti l’iniziazione di Haug ai misteri Rosacrociani, la scelta di utilizzare una scala con
nove suoni - che orbitano attorno al Decimo suono della Tonica, che si manifesta solo alla fine del percorso creativo -
potrebbe essere un richiamo alla corposa valenza simbolica e mistica che il numero Nove ha nella spiritualità Cristiana
e nella Dottrina Rosacrociana.

129
Risulta evidente come – pur essendo costruita sull’armonia più o meno latente di La

maggiore, con accordi che gravitano attorno a quello di tonica con attrazioni che

ricordano quelle descritte da Lupi nel suo trattato dal titolo Armonia di Gravitazione

– la sezione A è priva, nella sua linea melodica, della tonica La e delle note ad essa

più prossime (Sol# e La#).

La tonica fa la sua comparsa nella linea melodica solo nella Ripresa di A (alla battuta

59), poco prima della risoluzione definitiva sull’accordo di La maggiore. A tale

accordo di battuta 61 fa seguito una “solare” riproposizione del Refrain nella tonalità

d’impianto.

La vittoria della Tonalità sull’ambiguità armonica è, a nostro avviso, una simbolica

rappresentazione della vittoria della Luce selle Tenebre: il Miracolo quotidiano è

avvenuto e, con l’Alba, la Luce del giorno illumina di nuovo il cammino dell’Uomo

verso la Verità.

130
IV.2. Preludio.

131
132
Come per Alba, anche del Preludio non si conosce la data esatta di composizione,

non essendo essa indicata sull’unica copia manoscritta, consegnata dalla vedova di

Haug a Gilardino nel 1970, ed oggi custodita presso gli archivi della Bèrben.

Abbiamo indicato l’anno 1954 (o 1953) come probabile data di composizione per le

stesse ragioni già espresse per Alba. Nel 1954 Haug prese lezioni di chitarra da José

de Azpiazu per approfondire le sue conoscenze sullo strumento probabilmente perché

intenzionato a scrivere qualcosa da sottoporre all’attenzione di Segovia. Ciò, quasi

sicuramente, avvenne perché, nella già citata lettera inviata da Assisi il 19 settembre

1954 a Gagnebin, Segovia sostiene di essere impegnato nello studio di brani di

compositori tra cui compare il nome di Haug. Il fatto che successivamente (1961)

Segovia incida, eseguendoli in successione, sia Alba che il “Postludio”, è un primo

segnale che i due brani siano da considerarsi l’uno la naturale continuazione

dell’altro5.

Sul perché Segovia abbia deciso di ribattezzare il Preludio col titolo Postludio

possiamo solo avanzare delle ipotesi. È evidente che egli lo considerasse un brano più

adatto a “succedere” che a “precedere”. Può darsi che la scelta del titolo Postludio sia

stata fatta da Segovia per la sua preferenza a posporre il Preludio ad Alba. Se ciò

fosse vero, andrebbe letto come un tacito invito ad Haug a comporre non più singoli

brani, ma un lavoro organico, dotato di più movimenti. A tale invito Haug

sembrerebbe rispondere solo nel 1961 con la decisione di assemblare tre brani, sorti

in circostanze differenti, in un trittico (Prélude, Tiento e Toccata). Osservando il

5
Nel disco prodotto dalla DECCA (DL 9832) Segovia, con la collaborazione del Quintetto Chigiano, esegue, oltre ai
brani di Haug, anche il Quintetto di Castelnuovo-Tedesco e altre musiche di Scriabin, Villa-Lobos e Llobet.

133
manoscritto del Preludio e confrontandolo con gli altri in fac-simile, pubblicati dalla

Bèrben in calce al volume Hans Haug – The complete works for solo guitar, notiamo

una maggiore imprecisione grafica. Il manoscritto è ricco di correzioni e cancellature

del tutto assenti negli altri brani. Ricordiamo che il manoscritto fu consegnato da

Madame Haug ad Angelo Gilardino nel 1970 e che questi vi aggiunse

successivamente le diteggiature. Vista la precisione grafica degli altri manoscritti, è

possibile che la copia del Preludio in questione fosse una sorta di “brutta copia” che

Haug avesse conservato per sé e che ne esistano altri esemplari più “ordinati”.

Sicuramente Segovia sarà stato in possesso di una copia del Preludio, indispensabile

per la registrazione: ci piace immaginarla, impolverata, accanto ad una copia di Alba,

dimenticata negli studi di registrazione della DECCA o in qualche camera d’albergo,

ma al momento non si ha alcuna notizia al riguardo. Va però sottolineato che

l’imprecisione grafica del manoscritto è anche frutto del lavoro di diteggiatura

realizzato da Gilardino sul manoscritto originale e non su una fotocopia, come

sarebbe stato più saggio fare. Gilardino stesso esprime biasimo nei confronti di sé

stesso per aver commesso una leggerezza: “errore di gioventù”6.

Dall’osservazione del manoscritto scaturisce un’altra interessante considerazione.

Sembra che Haug avesse l’abitudine di indicare con dei numeri la divisione dei brani

in più parti, ognuna delle quali suddivisa in ulteriori sezioni. Ciò è riscontrabile non

solo nel manoscritto del Preludio, ma anche in quello della Toccata e del Prélude

appartenenti al trittico; nel manoscritto della Passacaglia Haug usa i numeri romani.
6
Cfr. Hans Haug - The complete works for solo guitar, Bérben, Ancona 2003, Prefazione a cura di Angelo Gilardino,
pag.8.

134
Tali indicazioni erano apposte da Haug con numeri sotto forma di frazioni: al

denominatore vengono indicate le parti e, al numeratore, le sezioni in cui le parti si

suddividono. Nella Toccata, ad esempio, è indicata, già sul frontespizio, una

divisione in cinque parti (Figura e).

(Figura e)

Nel manoscritto del Preludio (Postludio) è possibile individuare solo l’indicazione

della seconda, terza e quarta parte indicate con i numeri 7/2 (alla battuta 19), 8/3

(battuta 36), 8/4 (battuta 62). Anche nel manoscritto della Toccata notiamo che le

cinque parti annunciate sul frontespizio portano la numerazione da 8 a 12, anziché da

1 a 5, ma questa anomalia è presto spiegata col fatto che Haug abbia inserito questa

numerazione in sede di assemblaggio del trittico, e le cinque parti di cui è composto il

brano sono numerate come la continuazione delle parti di cui sono composti gli altri

brani del trittico.

A questo punto sorge spontanea la domanda su che fine abbia fatto la prima parte del

Preludio: è corretto considerarlo la continuazione di “qualcos’altro”?

135
Ancora una volta possiamo avanzare solo delle ipotesi per rispondere a questo

quesito. A nostro avviso la prassi di Segovia di eseguire il Preludio subito dopo Alba

e la sua decisione di rinominarlo Postludio non sono da considerarsi affatto arbitrarie.

Forse è proprio Alba la prima parte mancante nel manoscritto del Preludio, e i due

brani sono da considerarsi tra essi complementari. Ciò è ancor più vero se si tiene

conto del piacevole effetto che ne deriva eseguendo i due brani l’uno di seguito

all’altro.

Se ciò non fosse vero, se il Preludio non potesse essere considerato come una

naturale prosecuzione di Alba, resterebbe salvo il fatto che – vista la mancanza della

prima parte – il Preludio vada considerato come la continuazione di qualcosa.

Nel 1954, l’unico brano per chitarra sola che ci risulta fosse già stato scritto da Haug

è il Rondò (“La Gitarra”). Scritto nel 1952 e conservato nell’archivio di Segovia fino

a quando, nel 2001, Gilardino lo ha riportato alla luce, fu conosciuto al pubblico con

il titolo Toccata, in seguito all’assemblaggio del trittico da parte di Haug nel 1961. Il

fatto che il Rondò (“La Gitarra”) sia stato inserito in una forma organica (Prélude,

Tiento e Toccata) in cui non figura il “Postludio”, ci lascia supporre che non fosse

nelle intenzioni di Haug accostare questi due brani. Dunque, a meno che non salti

fuori qualche brano di Haug ancora sconosciuto, Alba è l’unico lavoro in grado di

assolvere alla funzione di “prima parte” del Preludio: l’assenza del manoscritto rende

comunque lecito qualche dubbio a riguardo.

136
Alla luce di quanto detto risulta evidente che Segovia avesse ragione a considerare il

Preludio un brano più adatto a succedere che a precedere. Da ciò derivano ulteriori

domande.

Se il Preludio nasce per succedere ad un altro brano (probabilmente Alba), perché

Haug volle intitolarlo Preludio? Fu una semplice distrazione, alla quale Segovia –

magari di comune accordo con Haug stesso – pose rimedio con la sua incisione? O

forse Haug intendeva considerare il Preludio come un brano che succedeva si ad

Alba, ma precedeva comunque altri pezzi in una sorta di suite?

Se ciò fosse vero, potremmo considerare l’Étude (1955) e la Passacaglia (1956) –

rimasti seppelliti nell’archivio di Segovia fino al 2001 – dei tentativi di completare

questa suite? Ricordiamo che l’assemblaggio del trittico ad opera di Haug appare

come un’operazione alquanto artificiosa, frutto di un’esigenza urgente - forse sotto

pressione proprio di Segovia – di produrre un lavoro in più movimenti. Potremmo

considerare il trittico l’epilogo di tentativi di assemblaggio precedentemente falliti?

Lasciamo irrisolti questi quesiti nella speranza che dallo stesso archivio di Segovia o

dal suo enorme epistolario possano un giorno riaffiorare documenti o manoscritti in

grado di fornirci delle risposte.

Per ciò che riguarda il contenuto musicale, il Preludio si presenta come un brano

sostanzialmente monodico, caratterizzato da uno spiccato cromatismo e da una quasi

ostentata varietà ritmica, che ricordano la parte della chitarra nel Concertino (1951).

Tutto ciò viene inserito in un contesto melodico e timbrico molto espressivo,

sottolineato dall’indicazione iniziale - presente solo nel manoscritto - ‘très libre’.

137
IV.3. Étude (Rondo Fantastico).

138
139
140
141
L’Étude (Rondo fantastico), di cui abbiamo riportato sopra il frontespizio e le tre

pagine del manoscritto, fu ritrovato, come abbiamo già avuto modo di sottolineare,

assieme al manoscritto della Passacaglia, il 7 maggio del 2001 da Angelo Gilardino

nell’archivio musicale di Segovia. Fino ad allora né la vedova di Haug, né Gilardino

(che aveva curato le precedenti edizioni delle musiche per chitarra), né Matthey

(curatore del catalogo delle opere di Haug), avevano avuto il minimo sospetto

dell’esistenza di ulteriori brani dedicati dal compositore svizzero alla chitarra. Nella

prefazione al volume contenente l’opera completa di Haug per chitarra sola,

Gilardino così riferisce circa le emozioni provate in occasione del ritrovamento:

<<Mi sentii come se avessi ritrovato due lettere sconosciute di un vecchio amico>>7.

Perché Segovia trascurò a tal punto questi brani da “archiviarli”, sottraendoli al

giudizio del suo pubblico, non spetta a noi stabilirlo. Certamente non sono stati né i

primi né gli ultimi brani destinati da Segovia a tale sorte.

Sul frontespizio del manoscritto, oltre al titolo e alla firma, compaiono la dedica Pour

Andrés Segovia, la data (Losanna, gennaio 1955) e l’indicazione della durata di tre

minuti.

Vista la dedica al chitarrista spagnolo, è possibile che Haug avesse inviato il brano a

Segovia per ottenere un giudizio a riguardo, senza conservare altre copie per sé:

questo giustifica il fatto che la vedova non fosse a conoscenza della sua esistenza.

La dicitura del titolo, Étude (Rondo fantastico), suggerisce tre riflessioni sull’aspetto

formale del brano. La prima riguarda l’indicazione Étude, che sottolinea il possibile
7
Cfr. Hans Haug - The complete works for solo guitar, Bérben, Ancona 2003, Prefazione a cura di Angelo Gilardino,
pag.8.

142
carattere didattico del brano, reso ancor più evidente dall’assenza di difficoltà

tecniche strumentali di particolare rilievo. La seconda riflessione, focalizzata

sull’indicazione Rondo, suggerisce la presenza di materiale tematico ricorrente.

Concludiamo con l’aggettivo fantastico, che qualifica il termine Rondo - nella

dicitura tra parentesi - ed appare come un richiamo alla forma della Fantasia, onde

sottolineare il carattere libero e quasi improvvisato sia della melodia che

dell’arpeggio.

La struttura formale del Rondo si manifesta attraverso la ripetizione di materiale

tematico presentato interamente nel primo periodo di sedici battute, che segue ad una

breve introduzione di quattro battute.

La melodia presenta un carattere cromatico evidente anche nell’arpeggio che funge

da accompagnamento. Tale materiale melodico è riproposto, con opportune e

fantasiose modifiche, in tutte le sezioni del brano, ma a volte è riconoscibile in

maniera più evidente. Ad esempio, il frammento tematico di esordio (battute 5 e 6) è

riproposto in maniera pressoché identica alle battute 50/51 e 82/83, seppur inserito

in contesti armonici differenti (Figura f ).

(batt.5/6) (batt.50/51)

(batt. 82/83) (Figura f)

143
IV.4. Passacaglia.

144
145
146
Le notizie di carattere storico riguardanti questo brano, il ritrovamento del

manoscritto e la recente pubblicazione, sono le stesse già riportate nel paragrafo

precedente, relative all’ Étude (Rondo fantastico).

Il frontespizio del manoscritto riporta la datazione: settembre 1956. Non è presente la

dedica esplicita a Segovia, come per l’ Étude, ma è piuttosto evidente che fosse

proprio il chitarrista spagnolo la fonte d’ispirazione per questa composizione.

Il titolo Passacaglia chiarisce esplicitamente il contenuto formale del brano.

La Passacaglia era originariamente una danza spagnola, affermatasi a partire dal ‘600

nella sua forma consistente in variazioni su un basso ostinato, di ritmo ternario e di

andamento moderato.

Nelle prime otto battute della Passacaglia di Haug assistiamo alla presentazione del

tema, un basso ricco di cromatismi, costruito in un contesto tonale di La minore. Le

prime variazioni sono il frutto di una chiara scrittura contrappuntistica. Il basso è

presentato inalterato nelle prime tre variazioni, accompagnato da una seconda voce

acuta, di volta in volta più articolata dal punto di vista ritmico.

Dalla quarta alla sesta variazione il tema passa nel registro acuto, trasposto nella

tonalità di dominante: la seconda voce, passata al registro grave, perde le sue

caratteristiche spiccatamente melodiche per diventare un arpeggio con caratteristiche

ritmiche differenti in ogni variazione.

Le variazioni VII e VIII abbandonano il carattere contrappuntistico delle precedenti.

Le note del tema – evidenziate con degli accenti - sono inserite all’interno di un

arpeggio con ritmo di terzine (VII) e di quartine (VIII).

147
Con la IX variazione il tema torna nel registro grave trasposto, questa volta, al tono

della sottodominante e sovrastato da accordi a tre voci.

Nella X variazione (con chiare intenzioni contrappuntistiche e virtuosistiche) il tema,

di nuovo alla dominante, subisce modifiche sostanziali, non più solo di carattere

ritmico, ma anche dal punto di vista melodico. La voce superiore è caratterizzata da

una incisiva figurazione ritmica.

La variazione successiva provvede a ricordare immediatamente il tema originale

riproponendolo nella tonalità d’impianto, così come lo si era ascoltato la prima volta.

L’accompagnamento è affidato a bicordi organizzati secondo uno schema ritmico ben

definito.

La variazione numero XII è forse la più interessante dal punto di vista strumentale. Il

tema, ancora alla tonica, è inserito – attraverso note accentate - all’interno di un

arpeggio che funge da accompagnamento ad una melodia proposta all’acuto

attraverso la tecnica del tremolo.

Nella variazione XIII, le due voci, entrambe con un ritmo molto incisivo, sono

organizzate contrappuntisticamente. Il tema, evidenziato ancora una volta mediante

l’utilizzo di accenti, è presente nella voce grave, ancora nella tonalità d’impianto.

La variazione XIV vede al basso un pedale di dominante costruito su un ritmo

martellante mediante l’utilizzo di crome e semicrome. Il tema, questa volta alla

dominante, è presentato nella voce superiore mediante raddoppi sia ritmici che

all’ottava.

148
La variazione conclusiva, di carattere accordale, presenta il tema in La minore nella

voce acuta degli accordi, opportunamente modificato nel finale, onde consentire la

cadenza V-I. Questa volta il basso assume una funzione puramente armonica per

delineare il percorso cadenzale.

149
IV.5. Il trittico: Prélude, Tiento e Toccata.

Il trittico fu assemblato da Haug dopo il 1961, ossia dopo aver terminato il Tiento

durante il suo soggiorno a Santiago de Compostella. Abbiamo già sottolineato più

volte come la decisione di assemblare questi tre brani vada letta come l’esigenza di

offrire a Segovia un lavoro più organico per i suoi programmi da concerto. Lo stesso

Haug indicò le modalità di assemblaggio dei tre brani ponendo un numero romano sul

frontespizio dei tre manoscritti onde indicare l’ordine di esecuzione.

A seguito del loro incontro nel 1970, Angelo Gilardino e Madame Haug decisero di

pubblicare il trittico conservando il titolo dei tre brani nell’ordine predisposto dal

compositore.

Osservando i manoscritti in nostro possesso, ossia quelli pubblicati in fac-simile dalla

Bèrben, nel 2003, in calce al volume contenente l’opera completa di Haug per

chitarra sola, notiamo che solo il Tiento riporta la data e il luogo di composizione

(Santiago di Compostella 26-28/9/1961). Queste copie sono quelle affidate da

Madame Haug a Gilardino in occasione della prima pubblicazione del 1970,

identiche a quelle affidate dalla vedova anche alla Biblioteca Cantonale e

Universitaria di Losanna che gestisce il Fondo delle musiche di Haug. Ciò spiega

anche come mai il frontespizio del manoscritto del Prélude riporti l’indicazione

MUH24, apposta dal Prof. Matthey a seguito del suo lavoro di catalogazione.

150
Inoltre, sul frontespizio del Prélude, come su quello della Toccata, è indicato il

numero delle parti in cui si suddividono i brani: numerazione riportata anche negli

spartiti. Ciò non è valido per il Tiento.

Alla luce di quanto svelato da Gilardino con il suo ritrovamento di musiche di Haug

custodite nell’archivio di Segovia, sappiamo che esiste un’altra copia manoscritta sia

del Prélude che della Toccata. In questi manoscritti i brani sono indicati con titoli

differenti e – cosa di enorme importanza – vengono indicate le date di composizione.

Sappiamo infatti che la Toccata fu il primo dei tre brani del trittico ad essere

terminato, l’8 agosto 1952, e riportava il titolo Rondò (“La Gitarra”). Il manoscritto

conservato nell’archivio di Segovia è purtroppo incompleto.

Il Prélude fu composto successivamente: il manoscritto ritrovato nell’archivio di

Segovia riporta la data di settembre 1956, dunque contemporaneo della Passacaglia,

e il titolo completo di Prélude (Étude).

Esamineremo in questa sede i tre brani non nell’ordine voluto da Haug a seguito

dell’assemblaggio del trittico, ma seguendo un ordine cronologico e conservando i

titoli dei manoscritti ritrovati nell’archivio di Segovia. Opereremo in questo modo

perché riteniamo che ciò possa chiarire meglio eventuali evoluzioni nello stile

compositivo di Haug avvenute nel corso degli anni, ma – soprattutto - perché è ormai

evidente che l’assemblaggio sia stato operato da Haug senza alcuna motivazione

legata ad affinità circa i contenuti musicali dei tre brani, accomunati solo dal carattere

improvvisativo evocato dai titoli.

151
IV.5.1. Rondò (“La Gitarra”).

152
Il frontespizio del manoscritto riportato alla pagina precedente è relativo alla copia

affidata da Madame Haug ad Angelo Gilardino nel 1970. Pur essendo l’ultimo dei tre

brani, secondo l’ordine voluto da Haug all’interno del trittico, affrontiamo per prima

la Toccata, in quanto – alla luce di quanto già sottolineato in precedenza – fu il primo

dei tre brani ad essere terminato da Haug l’8 agosto 1952 con il titolo Rondò (“La

Gitarra”).

Sul frontespizio compare la numerazione relativa alla suddivisione in parti del brano,

già incontrata in precedenza, quando ci siamo occupati del Preludio.

Il brano è diviso in cinque parti, le prime due sono suddivise in sette sezioni, le

ultime tre parti sono composte da otto sezioni ciascuna. Osservando il manoscritto

notiamo come la numerazione di queste parti non inizi da uno, bensì da otto: la prima

parte del brano è l’ottava parte del trittico. Ciò evidenzia il fatto che il manoscritto in

nostro possesso è stato redatto da Haug nella fase di assemblaggio del trittico, quando

era ormai già chiara nella mente dell’autore quella che doveva essere la sua funzione

di chiusura. È interessante notare come a concludere il trittico sia proprio il brano più

vecchio dei tre, composto ben nove anni prima del Tiento. Il fatto che Haug non abbia

provato alcun imbarazzo nell’operare un assemblaggio del genere ci suggerisce che

probabilmente egli non riscontrasse nessun cambiamento nel proprio stile

compositivo, nell’arco di questi nove anni, tale da impedire un accostamento tra i

brani da lui scelti. Non sarebbe certo la prima volta che un compositore decida di

adattare brani composti in precedenza per inglobarli in un lavoro organico che

comprenda musiche composte anche a distanza di diversi anni. Le uniche domande

153
che possiamo dunque porci sono relative alle decisioni di modificare i titoli

precedentemente affidati alle composizioni “riciclate”. Può un brano nato nel 1952

col titolo di Rondò (“La Gitarra”) cambiare nel 1961 il proprio titolo in Toccata? La

nostra è una domanda retorica perché è evidente che un compositore può decidere

liberamente quando e come vuole cambiare il titolo di un proprio brano, a maggior

ragione se consideriamo che spesso i titoli scelti dagli autori non hanno alcun nesso

con il contenuto della composizione. Il discorso è però diverso quando il titolo

contiene in sé dei nessi con la forma stessa del pezzo. Sia il titolo Rondò che Toccata

richiamano forme musicali che provocano nell’ascoltatore delle aspettative

sull’organizzazione strutturale del materiale musicale contenuto nel brano. Dunque,

se Haug ha deciso di dare entrambi questi titoli al proprio brano, è evidente che lo

ritenesse fornito dei contenuti formali sia del rondò che della toccata.

Il termine toccata indica un breve componimento avente carattere d’improvvisazione

e dunque con una struttura formale non ben definita.

La struttura formale del rondò consiste invece nell’alternanza di un episodio fisso ( o

lievemente modificato, seppur sempre riconoscibile) nella tonalità fondamentale, con

episodi di carattere contrastante ambientati in tonalità diverse.

Non è la prima volta che Haug accosta in un proprio titolo richiami alla prassi

dell’improvvisazione con la forma del rondò: abbiamo già visto come nell’Étude

(Rondò fantastico) avvenga qualcosa di analogo.

In questo <<Rondò (“La Gitarra”) – Toccata>> si ha una sezione introduttiva di

otto battute alla quale fa seguito il tema, anch’esso di otto battute (Figura g), ripetuto

154
– secondo i canoni formali del rondò – in maniera pressoché identica alle battute 34-

41 e 113-120.

(Figura g)

Proprio in queste prime sedici battute si respira un’atmosfera simile a quella creata

nelle sezioni cadenzali del Concertino per chitarra e piccola orchestra. Il materiale

utilizzato risulta essere molto simile: scale, accordi e l’utilizzo ritmico che se ne fa

nella Toccata sembrano essere presi in prestito dagli incisi solistici della chitarra

presenti nel primo movimento del Concertino. Questi prestiti di materiale tematico

possono essere giustificati dalla vicinanza cronologica che vi è tra il Concertino e la

Toccata.

L’intero brano presenta quel carattere di improvvisazione suggerito dal titolo Toccata

ed evidenziato dai cromatismi presenti nella linea melodica. Ancora una volta

notiamo quanto Haug amasse creare melodie ricche di cromatismi, con un’intrinseca

tensione espressiva. A nostro avviso il cromatismo era per Haug uno strumento di

ancoraggio al sistema tonale tradizionale, che – pur avendo esaurito gran parte delle

sue capacità espressive – riusciva (proprio grazie all’utilizzo dei cromatismi e alla

loro tensione drammatica) a suscitare ancora interesse. Forse questa è una chiave di

lettura per comprendere la mancata adesione da parte di Haug agli ideali della musica

155
dodecafonica. Con il sistema dodecafonico la base del sistema musicale diviene la

scala cromatica di dodici suoni in cui tutte le note sono equiparate; annullata ogni

distinzione e gerarchia tra note alterate e non alterate, su cui si basava, il cromatismo

perderebbe la sua funzione espressiva e ragion d’essere.

156
IV.5.2. Prélude (Étude).

157
Osservando il frontespizio del manoscritto riportato alla pagina precedente, è

possibile individuare degli elementi degni di nota. Primo fra tutti, il titolo Prélude è

preceduto dal numero romano I, indicazione che chiarisce come Haug abbia

compilato questo manoscritto in fase di assemblaggio del trittico. Su questo

manoscritto non è indicata alcuna data di composizione e ciò ha lasciato intendere per

anni che fosse stato composto contestualmente al Tiento e alla Toccata, nel 1961.

Alla luce dei ritrovamenti fatti da Gilardino nel maggio 2001, sappiamo che, come è

già stato visto per la Toccata, la genesi del Prélude avviene precedentemente al

Tiento. Nell’archivio di Segovia, custodito a Linares ad opera della Fondazione

Segovia, è presente una copia manoscritta del Prélude che porta la data del settembre

1956 e il titolo completo di Prélude (Étude). Il manoscritto da noi esaminato,

pubblicato dalla Bèrben nel volume contenente l’opera completa di Haug per chitarra

sola, è stato redatto da Haug durante il suo lavoro di assemblaggio del trittico. Ciò ci

suggerisce una riflessione: a meno che Haug non ricordasse a memoria l’intero brano

(cosa alquanto improbabile), è presumibile che egli avesse conservato una copia del

manoscritto del brano consegnato a Segovia nel 1956. Di questa copia non si ha però

alcuna notizia. Sappiamo che una copia del manoscritto recante il titolo Prélude

(Étude) e la data del 1956 è conservata a Linares; una copia del manoscritto del brano

riveduto dall’autore in vista dell’assemblaggio del trittico e quindi recante il titolo di

Prélude è stata affidata, assieme a tutti gli altri lavori di Haug, dalla vedova alla

Biblioteca Cantonale e Universitaria di Losanna, che gestisce il Fondo “Haug”; una

fotocopia di quest’ultimo manoscritto fu consegnata dalla vedova a Gilardino in

158
occasione della pubblicazione del 1970 ed è ora conservata presso gli archivi della

Bèrben.

Non ci risulta che vi siano in giro per il mondo altre copie del manoscritto e, per

giunta, la copia conservata dalla Bèrben non offre grossi spunti di interesse: essa è

solo una fotocopia del manoscritto consegnato dalla vedova al Prof. Matthey in vista

della catalogazione avvenuta sempre nel 1970. Ciò è confermato dal fatto che sul

frontespizio del manoscritto, pubblicato dalla Bèrben, compare l’indicazione del

numero d’opera (MUH 24), apposto dal Matthey in fase di catalogazione.

Sul frontespizio, oltre all’indicazione del numero d’opera, è indicata anche la

suddivisione del brano in quattro parti, ribadita all’inizio della prima pagina dello

spartito, ove si evince che ogni parte è suddivisa in sette sezioni.

Un’ultima riflessione riguarda le motivazioni che possono aver indotto Haug a

modificare il titolo originale eliminando la dicitura Étude tra parentesi.

Il termine Étude viene utilizzato per indicare un brano composto con finalità

didattiche o avente un chiaro carattere virtuosistico e, come tale, va eseguito da solo o

inserito in una raccolta di studi. È evidente che, nel momento in cui il Prélude viene

destinato a fungere da brano d’esordio del trittico, l’indicazione Étude risulterebbe

fuori luogo. Altra motivazione potrebbe essere che Haug si fosse accorto che il brano

non mostrava intenti né didattici, né virtuosistici o – cosa ancor più probabile – Haug

potrebbe aver deciso di dare ai tre brani del trittico un titolo unico, che esprimesse

con immediatezza il carattere di improvvisazione che li accomuna. Infatti, il titolo

159
Prélude, come anche Tiento e Toccata, richiama una forma di composizione libera

che non rifugge da elementi imitativi. I tre titoli possono essere considerati sinonimi.

Le osservazioni sui contenuti musicali e la struttura formale del brano evidenziano un

approccio compositivo adoperato da Haug, analogo a quello già evidenziato nella

Toccata. Pur essendo composti a quattro anni di distanza i due brani sono accomunati

dallo stesso stile e dalla medesima struttura formale: quella del rondò.

Il tema d’esordio del brano (Figura h) - riaccennato brevemente nella sezione

centrale alla battuta 31, per essere immediatamente abbandonato - viene riproposto,

in maniera identica all’esposizione, nella sezione della ripresa (battuta 51 ),

precedendo una breve coda con funzione cadenzale.

(Figura h)

Sia la melodia che l’arpeggio, che funge da accompagnamento, sono – ancora una

volta – caratterizzati dal cromatismo tanto caro ad Haug. Lo stesso cromatismo,

l’articolazione del fraseggio, le numerose indicazioni espressive, rendono questo

brano carico di un gusto prettamente romantico: appassionato.

160
IV.5.3. Tiento.

161
Il frontespizio del manoscritto del Tiento riporta unicamente l’indicazione del titolo e

il numero d’ordine all’interno del trittico. Lo spartito contiene alla fine della seconda

pagina l’indicazione della data e il luogo di composizione (Santiago de Compostella

26-28/9/1961).

Ricordiamo che Haug si trovava a Santiago - luogo molto suggestivo, dotato di un

santuario meta di continui pellegrinaggi – dietro invito di Andrés Segovia, per tenere

un corso estivo di composizione.

Non è possibile stabilire se il Tiento nasca con la chiara intenzione di essere

raggruppato assieme al Prélude e alla Toccata, ma è evidente come, dato il suo

carattere lento ed evocativo, svolga magistralmente – all’interno del trittico – la

funzione di movimento lento.

Il termine “Tiento” in spagnolo indica il camminare, tastando con il bastone, del

cieco. In musica fu utilizzato per indicare una composizione per organo, di stile

imitativo, in voga in Spagna nei secoli XVI e XVII. È l’equivalente dell’italiano

“ricercare” e il titolo stesso indica un procedimento compositivo, e di conseguenza

esecutivo, basato sulla ricerca, il tentativo, l’improvvisazione. L’origine della forma

del Tiento va probabilmente ricercata nella raccolta di musiche per vihuela di Luis de

Milàn intitolata El Maestro (1535-36).

Lo spartito di Haug esordisce con la didascalia Improvvisando ed appare ricco di

indicazioni di dinamica, accordi arpeggiati, segni espressivi. Il Tiento ci appare come

un concentrato di ispirazione poetica ottenuto mediante melodie semplici e cantabili,

accorgimenti di carattere timbrico ed armonico che attribuiscono al brano

162
un’atmosfera onirica raggiunta, a nostro avviso, anche in Alba e in alcuni punti del

Concertino.

Il brano trasuda elementi tipici della musica popolare spagnola, quasi come se Haug

traesse ispirazione dal luogo in cui si trovava durante la gestazione dell’opera. Le

armonie, il carattere modale delle melodie, il frequente utilizzo dell’hemiolia dal

punto di vista ritmico, fanno sì che il Tiento contenga tutti i profumi e i sapori della

tradizione musicale spagnola. Haug non avrebbe potuto ringraziare Segovia, per

l’invito a Santiago, in maniera migliore che scrivendo un brano per chitarra di alto

valore artistico come il Tiento.

163
IV.6. Fantasia.

164
Il primo brano di musica da camera comprendente la chitarra fu la Fantasia per

chitarra e pianoforte, scritto da Haug nel 1957. Il pezzo, indicato nel catalogo curato

da Matthey all’interno della sezione I (Musica da camera) con il numero d’opera

MUH 26, fu dedicato alla chitarrista Luise Walker, conosciuta probabilmente nel

1956, quando entrambi furono membri della giuria del Concorso Internazionale di

Ginevra.

Il catalogo ci informa che la Biblioteca Cantonale e Universitaria di Losanna

conserva all’interno del “Fondo Haug” una fotocopia del manoscritto autografo sul

quale è indicata la durata del brano, pari a dieci minuti e trenta secondi.

Le edizioni Bèrben pubblicarono la Fantasia nel 1973, all’interno della “Collezione

di musiche per chitarra diretta da Angelo Gilardino”.

Il brano è composto con cura per favorire l’uguaglianza tra i due strumenti, mettendo

da parte i problemi relativi all’equilibrio sonoro. Il materiale tematico espone le

principali caratteristiche dello stile di Haug: modelli ritmici semplici, sezioni

accordali dai colori scuri e di grande ricchezza timbrica, un contrappunto ingegnoso

così come temi modali lirici e di ampio respiro.

L’opera è strutturata secondo la forma del rondò.

La sezione iniziale Allegro moderato, più volte ripresa all’interno del brano (battute

61 e 252) è caratterizzata da un dialogo tra i due strumenti costruito con accordi

energici, interrotti da brevi e virtuosistiche volatine della chitarra, l’ultima delle quali

(a battuta 19) realizza un intelligente rallentando ritmico che introduce alla sezione

successiva (Figura i).

165
(Figura i)

Da battuta 20 a battuta 60 Haug realizza una sezione molto espressiva caratterizzata

da una melodia, affidata alla chitarra, estremamente cantabile e di ampio respiro. Il

pianoforte accompagna con arpeggi molto coinvolgenti, la cui ricchezza timbrica è

rinforzata dall’utilizzo del pedale.

Alla battuta 61 si riprende il Tempo I con gli stessi accordi iniziali, presto

abbandonati per dare spazio ai virtuosismi della chitarra. Questa sezione termina (alla

battuta 85) con un frammento, che ricorda tanto la parte della chitarra in un episodio

del primo movimento del Concertino (Figura l).

(Fantasia)

(Concertino: chitarra – battute da 98 a 102)

(Figura l)

Alla battuta 86 ha inizio una sezione in quattro mezzi, molto vivace, che reca

l’indicazione Allegro vivo (quasi scherzo). Questa sezione termina a battuta 158 ed è

seguita da due brevi sezioni Molto meno e Andante (la prima di quattro battute, la
166
seconda di sei), nelle quali il tempo subisce un drastico rallentamento che introduce

alla seguente Ballade (Figura m).

(Figura m)

La Ballade è forse la parte più interessante della Fantasia. Si tratta di un ricercare

costruito su una melodia estremamente cantabile introdotta da una dicitura tra

parentesi: “Chant d’un Troubadour”; ciò la accomuna al brano per chitarra sola

Alba, esaminato in precedenza. Tutta la sezione è molto libera (come richiesto

esplicitamente con l’indicazione in tedesco Sehr frei) sia nella parte melodica della

chitarra, sia negli accordi arpeggiati (quasi arpa) affidati al pianoforte. Alla battuta

216 inizia un intervento cadenzale della chitarra (ad lib. quasi Cadenza) che conduce

alla conclusione della Ballade. Ciò avviene alla battuta 251, a seguito di sei battute in

cui la chitarra ripropone una successione accordale presa in prestito, ancora una volta,

dal Concertino del 1951.

Segue la ripetizione delle prime sessanta battute e la ripresa finale del Tempo primo,

che conduce ad una breve coda (battuta 272), in cui gli accordi iniziali vengono

opportunamente modificati (ad esempio il Mi minore diviene Mi maggiore) per dare

ulteriore solarità all’intero finale.

La Fantasia per chitarra e pianoforte ci appare come un brano scritto davvero bene,

sia dal punto di vista dell’equilibrio sonoro tra i due strumenti, sia per ciò che

167
riguarda la coerenza strutturale, la qualità dei contenuti tematici e la ricchezza

timbrica dell’insieme. Un brano, dunque, che non ha nulla da invidiare alle

composizioni analoghe, scritte da autori di maggior prestigio come ad esempio

Castelnuovo-Tedesco. Anche quest’ultimo scrisse nel 1950 una Fantasia per chitarra

e pianoforte, dedicata ad Andrés Segovia e a sua moglie Paquita Madriguera, che ha

riscosso sicuramente maggior successo della Fantasia di Haug, sia per quanto

riguarda l’inserimento in programmi da concerto, che le incisioni discografiche.

Andrés Segovia era sicuramente il chitarrista di maggior prestigio sullo scenario

concertistico internazionale. Il fatto che Haug avesse dedicato la Fantasia a Luise

Walker, che sicuramente teneva meno concerti di Segovia, ha sicuramente contribuito

ad una diffusione della Fantasia minore rispetto a quella realmente meritata dal

brano. Luise Walker era una chitarrista che esercitò la sua carriera di concertista e

didatta principalmente in Austria: ciò spiega perché alcune indicazioni apportate da

Haug alla parte della chitarra nella Fantasia fossero in tedesco.

168
IV.7. Capriccio.

169
Nel 1963 Haug compose il Capriccio per chitarra e flauto. Nel catalogo di Matthey il

brano è indicato col numero d’opera MUH25 ed è conservato presso la Biblioteca

Cantonale e Universitaria di Losanna sia in esemplare di stampa che in copia

manoscritta. Il brano fu pubblicato dalle edizioni Max Eschig di Parigi nel 1967. La

durata indicata sullo spartito è di undici minuti e cinquantacinque secondi.

Il Capriccio fu dedicato da Haug al duo Tripp-Ragossnig; quest’ultimo ha curato le

diteggiature per la pubblicazione. Ancora una volta notiamo come le musiche per

chitarra di Haug non siano più una prerogativa di Segovia. Il chitarrista austriaco

Konrad Ragossnig, nel 1963, aveva appena trentuno anni e si era da poco distinto

nello scenario concertistico internazionale vincendo, nel 1961, il Concorso

Internazionale di Chitarra di Parigi. Il duo chitarra e flauto Tripp-Ragossnig ebbe

notevole successo in tutta Europa e questa volta la scelta di Haug di dedicare a loro il

suo Capriccio appare una mossa azzeccata per le sorti favorevoli del brano. La

pubblicazione da parte di una casa editrice prestigiosa come la Max Eschig e

l’immediata incisione da parte del duo ne sono una conferma.

Il termine Capriccio è stato utilizzato nella storia della musica per indicare una

varietà innumerevole di composizioni. Nel XVII secolo con Capriccio si indicava una

composizione strumentale di carattere estemporaneo ed estroso, in parte simile al

ricercare e alla fantasia. In seguito il termine indicò composizioni di carattere

programmatico o virtuosistico, comunque libero da prescrizioni formali.

Il Capriccio di Haug mostra di essere pervaso da motivi folclorici di chiara

provenienza iberica. L’inclinazione tipicamente romantica del compositore, come nel

170
Tiento per chitarra sola o in alcuni momenti del Concertino per chitarra e orchestra, è

qui tutta volta ad evocare un’atmosfera esotica vaga e indefinita. Tutto ciò che

presenta chiare connotazioni popolari, infatti, viene intellettualmente filtrato con

grande perizia; ne risulta un’interpretazione finale elegante e sapiente in cui il

materiale musicale di riferimento, attraverso anche una scrupolosa definizione

timbrica, viene ad assumere un carattere spiccatamente concettuale.

Il brano è costituito da tre movimenti: 1) Prélude; 2) Sérénade à l’inconnue; 3)

Gigue.

Il Prélude comincia con due battute di 6/4 affidate alla sola chitarra, ripetute per ben

quattro volte, con un effetto quasi ipnotico. Su di esse si inserisce la melodia del

flauto molto legata ed espressiva, di carattere cromatico. Alla battuta 9 la parte della

chitarra, che finora fungeva solo da accompagnamento, comincia a dialogare con il

flauto dando origine ad una sezione di carattere imitativo. Alla battuta 19 la chitarra

viene lasciata da sola in una breve sezione cadenzale contrassegnata dall’ annotazione

Quasi Recitativo alla quale segue di nuovo un vivace dialogo tra i due strumenti, che

sfocia (battuta 39) nella ripresa del Tempo I con la riproposizione del materiale

tematico ascoltato nella sezione iniziale. Quest’ultima viene opportunamente

modificata per condurre alla sezione conclusiva (da battuta 55 a 59) caratterizzata,

prima dall’incalzare del flauto su accordi arpeggiati della chitarra, e poi da una finale

distensione di entrambi gli strumenti verso l’accordo conclusivo di La maggiore.

171
172
Il titolo del secondo movimento, Sérénade à l’inconnue, è un richiamo alla forma

della serenata. Tale forma ha origini e caratteri popolari e una struttura semplice e

libera; nasce in contrapposizione al canto del mattino (Alba) intonato dai Trovatori

nel Medioevo: ancora una volta la lirica trobadorica funge da musa ispiratrice per la

musica di Haug, come già era avvenuto in Alba e nella Fantasia. La serenata apparve

nelle raccolte umanistico-rinascimentali accanto ad altre forme di canto popolare

(villanelle, giustiniane). Nella seconda metà del XVIII sec. indicò una composizione

vocale-strumentale destinata all’esecuzione serale << en plein air >>. Predilesse

organici con strumenti a fiato, e fu strutturata come un seguito di danze, con preludio

e marcia.

L’Allegretto con cui inizia la Sérénade è ricco dei richiami folclorici della musica

spagnola di cui si accennava in precedenza. Le armonie e il loro adattamento ritmico,

sono un richiamo elegantemente filtrato del canto popolare spagnolo.

Alla battuta 21 inizia, invece, il canto notturno della serenata, intonato sotto voce con

estrema eleganza e a turno, prima dal flauto, poi anche dalla chitarra. Alla battuta 56

ricompare il ritornello iniziale con l’indicazione di Tempo I e poi (battuta 73)

nuovamente il tema dell’Andante, questa volta in tempo ternario e in forma più breve

per lasciare spazio ad una nuova e conclusiva ripresa del ritornello. Infatti da battuta

80 a 87 il ritornello ricompare col suo ritmo flamenco, non più in un contesto

armonico di La maggiore, bensì nella tonalità di Mi maggiore, per terminare con un

punto coronato sull’accordo di Sib maggiore. La struttura del brano è dunque quella

tipica della canzone, con l’alternanza tra strofa e ritornello: a b a’ b’ a’’.

173
174
La Gigue è il terzo movimento del Capriccio. Lo stesso titolo riconduce chiaramente

alla musica barocca; infatti, la gigue era una danza in tempo ternario e di andamento

veloce, in uso nel XVII e XVIII secolo. Di origine forse irlandese, ebbe larga

diffusione in tutta Europa, entrando a far parte della suite strumentale di cui

costituiva di norma il tempo mosso finale.

Anche all’interno del Capriccio la Gigue assolve alla sua funzione di danza veloce

conclusiva. Il suo inizio energico e brillante in 6/8 mette immediatamente in evidenza

la valenza virtuosistica di entrambe le parti strumentali. Il tempo iniziale Presto

possibile subisce una lieve flessione a battuta 27 (Poco meno) per tornare al tempo

primo, con relativa ripresa tematica, alla battuta 46. Alla battuta 57 comincia la

sezione lirica del brano con un tema molto espressivo affidato prima al flauto e poi

scambiato a più riprese tra i due strumenti. La melodia di questa sezione presenta -

così come anche gli accompagnamenti sotto il loro aspetto armonico, ritmico e

timbrico – nuovi richiami alla tradizione della musica popolare spagnola. A battuta

118 si riprende il Tempo I, ma questa volta, dal punto di vista tematico, comincia

un’ampia sezione di sviluppo di tutti gli spunti tematici ascoltati finora. I due

strumenti procedono parallelamente con eguale piglio energetico, ritmico e

virtuosistico, equilibrati da una sapiente scrittura contrappuntistica. Poco prima del

finale (battuta 184) si ascolta per l’ultima volta il tema cantabile presentato in

precedenza alla battuta 57, segue un cambio di tempo repentino che conduce alla

cadenza sull’accordo finale, sforzatissimo, di La minore.

175
IV.8. Concertino per chitarra e piccola orchestra.

176
Il Concertino per chitarra e piccola orchestra ci risulta essere il primo brano in cui

Haug utilizza la chitarra affidandole un ruolo da protagonista. Scritto in occasione del

concorso di composizione, indetto dall’Accademia Chigiana di Siena, il Concertino

ricevette il primo premio, nell’estate del 1951, relativamente alla sezione “Concerto

per chitarra e orchestra da camera”. Promotore di tale concorso fu Andrés Segovia, il

cui giudizio fu sicuramente il più influente all’interno della commissione

esaminatrice dei lavori. Tra i riconoscimenti annunciati per i vincitori della

competizione erano previste la pubblicazione dei brani da parte delle edizioni Schott

e la pubblica esecuzione, affidata alla chitarra dello stesso Segovia, programmata per

l’estate del 1952. Abbiamo già sottolineato nel primo capitolo come queste promesse

- mantenute per la Cavatina di Tansman, vincitrice nella sezione “opere per chitarra

sola” - non furono osservate nei confronti del Concertino di Haug.

La pubblicazione del Concertino fu realizzata dalla Bèrben solo nel 1970, quindi

dopo la morte del compositore, ed inserita nella “Collezione di musiche per chitarra

diretta da Angelo Gilardino”. La prima esecuzione mondiale fu invece realizzata, non

da Segovia, ma da Alexandre Lagoya con l’Orchestra da camera di Losanna.

Ho eseguito personalmente il Concertino nel giugno del 2000, in occasione del

Centenario della nascita dell’autore, con la collaborazione dell’Orchestra del

Conservatorio Gesualdo da Venosa di Potenza diretta dal M° Raffaele Napoli.

Esprimo ancora oggi il mio stupore su come tale Concerto sia stato completamente

ignorato per tutti questi anni dai miei colleghi chitarristi e dagli Enti concertistici.

177
Nonostante fosse il primo lavoro dedicato da Haug alla chitarra, il Concertino appare

sapientemente scritto: in esso il compositore si divincola facilmente da ogni problema

relativo all’equilibrio tra strumento solista e orchestra, problemi che sappiamo essere

di non poco conto, vista la sonorità ridotta della chitarra.

La maggior parte dei chitarristi sembra ostinarsi a voler mostrare capacità

funamboliche sullo strumento eseguendo sempre gli stessi concerti per chitarra e

orchestra di autori come Rodrigo, Villa-Lobos o Castelnuovo-Tedesco. Si tratta di

Concerti dall’indiscusso valore artistico e di alto valore tecnico strumentale, ma la

situazione attuale è tale che chiunque - privo di conoscenze sulla letteratura

chitarristica – si recasse nei maggiori negozi di dischi italiani o frequentasse le sale

da concerto dei circuiti “grossi”, si convincerebbe che gli autori sopra elencati siano

gli unici ad aver composto concerti per chitarra e orchestra. Eppure esistono Concerti

per chitarra, come quello di Ohana, Ruiz-Pipò e lo stesso Haug, di alta ispirazione

artistica e scritti talmente bene, per ciò che riguarda l’equilibrio sonoro, che

l’amplificazione della chitarra potrebbe (l’uso del condizionale non è casuale)

risultare superflua. Un purista del suono come Segovia, che non amava amplificare la

chitarra (ricordiamo una sua disputa con Villa-Lobos, il quale prescriveva

l’amplificazione dello strumento per il suo Concerto per chitarra e orchestra,

composto nello stesso anno del Concertino di Haug ) avrebbe dovuto cogliere al volo

l’occasione presentatagli, eseguendo il Concertino di Haug come previsto dal

regolamento del concorso chigiano, ma è anche vero che Segovia era pur sempre un

178
essere umano ed eseguire tutti i brani scritti per lui sarebbe stata un’impresa che di

umano avrebbe avuto ben poco.

Fino al 1951 Haug aveva scritto solo Concerti e Concertini (la differenza

terminologica sta oggi ad indicare una composizione ridotta dell’orchestra nel

Concertino) per violino (primo concerto in assoluto scritto da Haug nel 1924 e

dedicato al suo maestro Walter Courvoisier), violoncello, pianoforte e flauto.

I concerti per chitarra e orchestra maggiormente conosciuti all’epoca in cui Haug

scriveva il suo Concertino - ad eccezione di quelli del periodo classico come il

Concerto in La maggiore op.30 di Mauro Giuliani – erano: il Concerto in Re

maggiore op.99 scritto da Castelnuovo-Tedesco nel 1939 ed eseguito per la prima

volta da Segovia a Los Angeles nel 1947; il Concerto de Aranjuez, scritto da Joaquìn

Rodrigo sempre nel 1939, dedicato a Regino Saiz de la Maza, che ne fu il primo

esecutore; risale invece al 1941 il Concerto del sur di Manuel Maria Ponce. Altri

Concerti, entrati nel repertorio dei maggiori chitarristi del Novecento, portano date

successive a quella di creazione del Concertino di Haug : il Concerto di Villa-Lobos

fu scritto anch’esso nel 1951; la Fantasia para un gentilhombre di Rodrigo risale

invece al 1954. Notiamo dunque come non vi fosse una gran possibilità di scelta per i

chitarristi che intendevano eseguire concerti per chitarra e orchestra: questa fu

probabilmente una delle motivazioni che spinsero Segovia a sollecitare la creazione

di un concorso di composizione come quello indetto dall’Accademia Chigiana nel

1951.

179
Il Concertino per chitarra e piccola orchestra è indicato nel Catalogo dell’opera di

Haug, curato da Jean-Louis Matthey, con il numero d’opera MUH 48. Accanto

all’indicazione del titolo compare la dicitura tra parentesi: Quasi una fantasia, non

presente sulla partitura pubblicata dalla Bèrben, ma probabilmente apposta

dall’autore sulla copia manoscritta custodita presso la Biblioteca Cantonale e

Universitaria di Losanna. È presente anche l’indicazione della durata di 24’.

L’orchestra è composta da un flauto, un oboe, due clarinetti in Sib, un fagotto, un

corno in Fa, una tromba in Do e dal quintetto d’archi; le percussioni prevedono

l’utilizzo di timpani, glockenspiel e triangolo.

Il Concertino è composto da tre movimenti. Il primo movimento inizia con un

Moderato, quasi improvvisando in cui il primo tema è affidato ai clarinetti e al

fagotto, ripreso dagli archi, e poi dalla chitarra (battuta 14), per essere affidato

all’intera orchestra a partire dalla battuta 20.

Alla battuta 36 entra il secondo tema affidato agli archi che dialogano con i fiati fino

alla battuta 44, dove inizia una sezione quasi cadenzale della chitarra, che termina

con un breve duetto col flauto prima di condurre all’Andante di battuta 60.

Con l’Allegro moderato di battuta 71 continua l’elaborazione dei materiali tematici

esposti precedentemente, caratterizzata da un continuo scambio tra chitarra e

orchestra fino alla battuta 135, dove inizia la Cadenza della chitarra. Nella Cadenza la

chitarra riprende il materiale già ascoltato precedentemente, riproposto con una

scrittura sapiente, densa di cromatismi e molto ricca dal punto di vista timbrico, come

se la chitarra fosse un’orchestra in miniatura.

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Segue una breve ripresa del primo tema affidato agli archi con progressivo incalzare

dell’intera orchestra verso l’energico accordo conclusivo di La minore.

Nel secondo movimento, Andante, il tema – una melodia molto lirica recante

l’indicazione: semplice ma espressivo – è affidato inizialmente alla chitarra con

l’accompagnamento dei clarinetti. In chiave compare il Sib nella parte della chitarra e

il Fa# in quella dei clarinetti: alterazioni che scompaiono alla battuta 16, dove inizia

per la chitarra una successione di accordi ai quali si sovrappongono degli incisi

melodici affidati ai clarinetti. Alla battuta 24 la chitarra prende il posto dei clarinetti e

realizza degli interventi melodici sugli accordi, affidati questa volta agli archi.

L’intero movimento - molto poetico ed espressivo, interessante dal punto di vista

timbrico pur se non si raggiunge mai il pieno dell’orchestra – non presenta una grossa

varietà di materiale tematico e confluisce rapidamente, e senza interruzione,

nell’atmosfera scherzosa del terzo movimento, Allegro moderato. Questo movimento

inizia con un cambio improvviso di tempo rispetto al secondo. In realtà la divisione

tra i due movimenti è puramente teorica, frutto del numero romano III, apposto da

Haug all’inizio del terzo movimento. In pratica, però, l’ Allegro moderato è un

naturale proseguimento dell’Andante, come è dimostrato dalla numerazione delle

battute che non ricomincia da zero, come era avvenuto alla fine del primo

movimento.

Il terzo movimento presenta una struttura tripartita con successiva cadenza della

chitarra e una coda in cui viene brevemente ripreso il tema della prima parte. L’

Allegro moderato inizia con incisi del nuovo tema affidati prima alle viole, poi al

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fagotto, per essere finalmente eseguito per intero dalla chitarra (da battuta 70 a 77)

nella tonalità di La maggiore. Lo si ascolta poi eseguito dai violini e continuamente

scambiato tra i vari strumenti dell’orchestra, frammentato, trasposto, modificato, ma

senza mai perdere l’incisività ritmica che lo caratterizza. In questa parte è prevista

anche una breve sezione cadenzale della chitarra (da battuta 129 a 146).

La seconda parte, Lentamente, con fantasia, inizia a battuta 163. È caratterizzata da

un nuovo tema, molto lirico e affidato alla chitarra, che si snoda su note tenute degli

archi e il contemporaneo tremolo su note lunghe dei clarinetti. Ne deriva una

coinvolgente atmosfera, onirica e fantastica, molto valida dal punto di vista timbrico.

Alla battuta 205, segnata dall’indicazione Tempo I, si ha una ripresa della prima

parte, con lo stesso tema ritmico e giocoso, scambiato tra la chitarra e gli altri

strumenti dell’orchestra. Segue, da battuta 281, la cadenza della chitarra, molto

libera, che ripropone il tema lirico della seconda parte. La cadenza termina a battuta

311 con una breve ripresentazione del primo tema, affidata al fagotto. Segue una

coda, Molto allegro, caratterizzata da vorticose scale discendenti degli archi e

ascendenti dei fiati che accumulano energia e conducono alla cadenza, che risolve

sull’accordo finale di La maggiore.

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IV.9. Doppelkonzert.

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Il Doppelkonzert per flauto, chitarra e orchestra da camera fu uno degli ultimi lavori

scritto da Haug prima di morire. Gli unici lavori che ci risultano ad esso successivi

sono un Concerto per tromba e orchestra (scritto anch’esso a Belmont) del 1967,

dedicato a Helmut Hunger, e un Concerto per violino e orchestra, rimasto

incompiuto: il primo movimento fu eseguito dall’ Orchestra da Camera di Losanna

nel 1968, a un anno dalla morte dell’autore.

Nel 1968 il manoscritto del Doppelkonzert fu affidato dalla vedova di Haug, assieme

al resto degli spartiti del marito in suo possesso, alla Biblioteca Cantonale e

Universitaria di Losanna, che istituì il “Fondo Haug”. Successivamente i diritti

furono acquisiti dalle edizioni Henn di Ginevra. Per visionare la partitura è necessario

corrispondere alla casa editrice un sostanzioso compenso a titolo di noleggio, cosa

che molto probabilmente ha scoraggiato molti musicisti interessati ad eseguire il

brano, che, a tutt’oggi, risulta non essere mai stato eseguito. Fortunatamente il Prof.

Matthey mi ha gentilmente inviato, per esclusivi scopi di studio, una copia del

manoscritto della riduzione per pianoforte, di cui la Biblioteca dell’Università di

Losanna è in possesso. Non trattandosi della partitura, non siamo in grado di riflettere

sulle scelte di orchestrazione fatte da Haug, anche se – per fortuna – spesso

compaiono sulla riduzione delle indicazioni a riguardo. Ricaviamo le informazioni

relative alla composizione dell’orchestra dal Catalogo dell’opera redatto dallo stesso

Matthey.

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L’orchestra è composta da un flauto piccolo, un flauto traverso, un oboe, un corno

inglese, due clarinetti, un clarinetto basso, un fagotto, due corni in Fa, due trombe,

timpani, tamburi, triangolo, tam-tam, xilofono, piatti, campane e quintetto d’archi.

Il Doppelkonzert è composto da tre movimenti: 1) Andante; 2) Quasi una fantasia; 3)

Rondò giocoso.

Le diverse sezioni in cui è suddiviso il Concerto sono indicate da lettere maiuscole. Il

primo movimento esordisce con un tema melodico esposto, con scrittura

contrappuntistica dal flauto e dalla chitarra, su di un accompagnamento discreto e

ritmico realizzato dai timpani e dal pizzicato dei contrabbassi. La sezione successiva

è affidata ai soli archi: si passa ad un Allegro vivace di appena sette battute, prima di

tornare al Tempo I (Battuta 32) in cui la chitarra dialoga con le viole in una sezione

molto libera (quasi improvvisando). Segue un nuovo inciso, Allegro, dei soli archi,

che lascia subito spazio ad una nuova sezione molto espressiva dedicata al flauto con

accompagnamento degli archi. Alla battuta 73 si assiste ad una breve sezione

cadenzale degli strumenti solisti. A questa si contrappone la sezione successiva in cui

è invece l’orchestra da sola a fare da protagonista. Il movimento prosegue in questo

modo, con una sapiente alternanza di momenti di tensione a momenti di distensione,

realizzata anche grazie ad una coscienziosa orchestrazione, in cui gli strumenti solisti

non vengono mai sopraffatti dall’orchestra. Come era avvenuto nel Concertino per

chitarra e piccola orchestra, Haug mostra di conoscere bene i limiti sonori della

chitarra. Forte anche della prova ben riuscita con il Capriccio per chitarra e flauto, il

compositore realizza nel Doppelkonzert, un amalgama sonoro ben equilibrato e ricco

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dal punto di vista timbrico, cosa alla quale Haug ci ha ormai abituati. Altra costante

della scrittura di Haug presente nel Doppelkonzert è il cromatismo intrinseco nei

materiali tematici, sia melodici che accordali, e le figurazioni ritmiche semplici ma

incisive, che si alternano a melodie legate ed espressive. Il primo movimento, la cui

durata indicata sul manoscritto è di quattordici minuti, termina con una sezione,

Sostenuto, di cinque battute, tutte in “Fortissimo”, con note acute del flauto, abbellite

da acciaccature, sostenute da accordi marcati della chitarra. L’ultima battuta, che

segue ad una pausa di croma con punto coronato, presenta l’indicazione “Presto” e

vede tutta l’orchestra impegnata nella realizzazione della cadenza (Mi maggiore/La

minore) sempre in “Fortissimo”.

Il 3/4, con cui termina il primo movimento, viene sostituito dal 6/8 del secondo, che

inizia con un Andante con moto, il cui tema, “espressivo (quasi legato)”, è affidato al

flauto e alla chitarra (all’unisono), che dialogano con il corno inglese, i clarinetti e il

fagotto. Il tema viene riproposto più volte durante tutto il secondo movimento,

costruito, come annotato dallo stesso Haug sul manoscritto, in maniera molto libera,

“Quasi una fantasia”.

Davvero interessante ci sembra la cadenza a tre, che inizia a battuta 99 ed è affidata

alla chitarra, al flauto e al corno inglese. Le linee melodiche, intrecciate con un

sapiente contrappunto, producono un impasto timbrico davvero interessante. Il finale,

da battuta 164, vede una ripresa del tema iniziale affidato al flauto e opportunamente

modificato per concludersi con un “pianissimo” (si ha una sorta di effetto in

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“sfumando”) sostenuto dall’accordo di Do maggiore. La durata complessiva del

secondo movimento, indicata sul manoscritto, è di nove minuti e dieci secondi.

Il terzo movimento, della durata di otto minuti e trenta secondi, è un Rondò giocoso il

cui tema iniziale, un Allegro in quattro mezzi, è affidato prima ai soli violini, ai quali

si aggiunge poi il resto dell’orchestra. La chitarra entra da sola alla battuta 28, seguita

dal flauto, che intona una melodia molto simile, per quanto riguarda la sua incisività

ritmica, al tema iniziale del terzo movimento del Concertino. Il brano prosegue con la

sua struttura di Rondò con la costante attenzione all’equilibrio sonoro e

l’introduzione di nuovi spunti tematici. Alla battuta 115 si ascolta la prima cadenza,

molto espressiva, iniziata dalla chitarra, cui si sovrappone il flauto dopo due battute. I

due strumenti instaurano un dialogo, su un tessuto musicale denso di cromatismi,

interrotto a battuta 141 dall’irruzione dell’orchestra. La seconda cadenza compare a

battuta 217, un “Più vivo” che ha inizio con degli accordi fortissimi della chitarra sui

quali si inserisce una lunga scala ascendente del flauto. La cadenza si interrompe con

un intervento intenso e vivace dell’orchestra in cui vengono riproposti a più riprese, e

da diversi strumenti, frammenti del primo tema. Ciò introduce al “Quasi presto”

finale, che ha inizio con degli accordi in rasgueado della chitarra e termina con una

lunga scala (ascendente per il flauto, discendente per la chitarra) che conduce

all’accordo conclusivo di La maggiore, affidato al “tutti” dell’orchestra.

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IV.10. Conclusioni.

In questo lavoro, dedicato alla figura di Hans Haug e alla sua musica per chitarra,

abbiamo avuto modo di conoscere e fornire diverse notizie su un compositore molto

conosciuto in Svizzera, soprattutto per la sua attività di Direttore d’orchestra, ma – a

nostro avviso – alquanto trascurato, finora, per la sua sapiente e raffinata produzione

artistica.

Le notizie biografiche, pubblicate sui maggiori Dizionari enciclopedici dedicati alla

musica e ai musicisti, relative ad Haug, si manifestano come la punta di un iceberg,

alla luce delle notizie da noi raccolte in questo lavoro. Il nostro intento era e rimane

quello di attribuire il giusto valore all’arte di un compositore per troppo tempo

relegato nella folta schiera dei “compositori minori”.

Ci piace immaginare che questo lavoro possa fornire il giusto stimolo per coloro che,

musicisti e non, vogliano continuare ad indagare sul valore delle musiche, non solo

per chitarra, che Haug ci ha regalato. La sua produzione musicale si è svelata ai nostri

occhi nella sua forma eclettica, frutto della genuina ispirazione e della profonda

conoscenza degli strumenti di cui un compositore dispone.

Relativamente alla musica per chitarra di Haug, abbiamo cercato di gettare nuova

luce, fornendo notizie sulla datazione di alcuni lavori e sull’esistenza di brani di cui

non si era precedentemente a conoscenza.

Il catalogo delle opere di Haug andrebbe dunque aggiornato.

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Ci eravamo proposti di introdurre Haug tra i compositori di primo piano che

orbitarono attorno alla figura di Segovia. Non spetta a noi fare una classifica, non

sarebbe possibile farla, e non è nostra intenzione lanciare provocazioni a riguardo, ma

il lavoro qui proposto ha voluto essere una testimonianza del valore e del significato

delle musiche per chitarra di Haug. Non pensiamo di far torto a nessuno se

esprimiamo il favore con cui vedremmo il nome di Haug comparire più

frequentemente, accanto a quello di Castelnuovo-Tedesco, Tansman, Villa-Lobos,

Rodrigo, Ponce, Turina, Torroba ecc, nei programmi da concerto dei chitarristi, o in

articoli di contenuto storico interessati agli autori “segoviani”.

Abbiamo osservato da vicino la produzione chitarristica di Haug con l’intento di

stimolare la curiosità dei chitarristi e invitarli a rinnovare il repertorio chitarristico

non solo guardando al presente - che per fortuna appare piuttosto roseo grazie alla

generosa produzione di musiche per chitarra da parte di valenti compositori

contemporanei – ma anche al passato.

Nonostante il titanico lavoro che Angelo Gilardino sta svolgendo da anni per

riscoprire brani per chitarra del passato, dimenticati o ignorati per anni, il mondo

della chitarra ha ancora bisogno di lavori di ricerca storiografica seri e condotti con

criterio scientifico. La letteratura chitarristica, nonostante stia subendo una crescita

esponenziale negli ultimi anni, deve ancora coprire un gap abissale nei confronti di

quella di altri strumenti come il pianoforte, gli archi o i fiati. Spetta ora ai chitarristi

ed agli studiosi di questo strumento far sì che ciò avvenga.

189
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