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Nicola Spinosi

La nostaglia del Portogallo


Storielle
Oro

Mentre percorrevo, su uno stretto marciapiede, la viuzza che


mi avevano consigliato per raggiungere il tribunale, dove
avevo appuntamento con il mio avvocato, un varco a destra mi
offrì per un momento la visione di un cortile. Da una parte, su
una sedia, una bellissima ragazza in esiguo costume a due
pezzi, scalza, veniva verniciata da un giovanotto, che le stava
vicino in piedi con in mano un pennello. Naturalmente mi
fermai a guardare. Il giovanotto si accorse della mia presenza
e, pur continuando il suo lavoro, m'indicò di avvicinarmi.
Accolsi l'invito. Da un barattolo di vernice colore oro
sgocciolavano sul pavimento del cortile, deserto, alcuni resti di
quel grasso fluido; il giovanotto del resto aveva sistemato
sopra e sotto la sedia della ragazza in costume, e sotto il
barattolo, alcuni fogli del quotidiano locale, come notai.
Lavorava con attenzione e cura, indossando guanti protettivi.
Era chiaro ciò che stava facendo, ma non capivo perché,
ancora infatti il giovanotto non mi aveva rivelato che lui era
un artista. La modella taceva. E avrebbe continuato, per i
pochi minuti che trascorsi in quel cortile, a tacere. Faceva,
come pensai, la parte della tela. Domandai all'artista se
avrebbe usato soltanto il colore oro, e se avrebbe verniciato
anche la chioma della modella. Mi rispose affermativamente.
Allora gli feci notare che, a causa del costume in due pezzi, la
pelle sottostante della modella sarebbe restata senza colore.
Certo, rispose, proprio come succede quando si prende il sole
in costume, tutto cambia salvo sotto. La mia arte imita la
realtà, aggiunse. Sì, ma i capelli al massimo schiariscono,
obbiettai. La imita, rispose l'artista, correggendone i limiti.
Io sono anziano e piuttosto timoroso delle malattie, lo dichiaro
qui per giustificare l'ultima domanda che posi all'artista, che
non aveva smesso di verniciare la modella.
Ma non le fa male, questa vernice?
A me no, rispose l'artista.
Cinquantacinque talleri di dolciumi

Mi trovo in una pasticceria e noto dietro il cristallo del


bancone dei bellissimi biscotti e dei pasticcini che hanno un
aspetto ancora migliore. Il negozio è colmo di persone, riesco a
vedere la merce, ma me ne sfugge il prezzo. Eppure devo fare
un regalo, e il prezzo non dovrebbe contare più di tanto. Un
uomo anziano molto grosso mi sta attaccato e mi soffoca,
intanto parla a voce alta con una signora pigiata più in là,
come se niente fosse. Il brusio degli altri clienti non
m'impedisce di sentire quello che si dicono i due. Lui parla
come un medico, dice che la paura è pericolosa per la salute,
grida che alla sua età - non riesco a capire come termina la
frase.
"Senta dottore", gli faccio girandomi faticosamente verso di
lui, ma lui mi guarda e ride: "non sono un dottore".
Mi trovo in imbarazzo, ma non posso muovermi, perché non
voglio perdere la mia posizione nella calca dei clienti davanti
al cristallo del bancone che protegge i dolciumi. Quando
finalmente tocca a me ordino in fretta, gridando - non ne posso
più: quei biscotti, mezzo chilo, e quei pasticcini, quindici, dico
alla ragazza che finalmente ha iniziato a interessarsi alla mia
presenza. Prende la merce, esegue la pesata, poi confeziona
due pacchetti, una vera bellezza; "sono cinquantacinque
talleri", grida sorridendo, e m'invita a recarmi alla cassa, dove
trovo due ragazze uguali tra loro e simili alla commessa che mi
servito. Molto tranquille, nonostante il brusio e la calca, anzi
la bolgia.
"Sono cinquantacinque talleri", mi sorridono all'unisono le
due cassiere.
Per un po' di dolci devo pagare tutti questi soldi, mi dico; il
mondo è alla fine, penso; ai miei tempi ci avrei fatto una
settimana di vacanza; è l'inflazione, obbietto a me stesso,
eccetera.
A voce chiedo una spiegazione del totale, che "mi pare un po'
alto", aggiungo con moderazione. Le due avvenenti cassiere -
una rappresenta i biscotti, l'altra i pasticcini, penso - mi
spiegano all'unisono che la lavorazione artigianale costa e che,
una volta assaggiati i dolci che ho scelto - sottolineano con la
voce questo verbo scegliere - ebbene: non penserò più al
prezzo.
Ne consegue che, estratti dal portafogli un pezzo da cinquanta
e uno da cinque, pago gridando alle due cassiere: "tanta è la
grazia e la gentilezza che emanate, mie care, che sono perfino
contento di lasciare questi cinquantacinque talleri nella vostra
cassa!".
Sorridono astute, incamerano, e io faticosamente esco dalla
bolgia.
Provocatore!

Sono in un commissariato di polizia per denunciare la


scomparsa di una persona. Il funzionario mi chiede di esibire
il mio documento d'identità, ciò che faccio. Procedo nella
denuncia: via via che si delineano le caratteristiche dello
scomparso, che ha, certamente si tratta di una coincidenza
strana, le stesse mie generalità, il funzionario si fa perplesso,
infine, dopo che ho terminato la descrizione fisica e
fisiognomica dello scomparso, mi domanda se sto tentando,
sottolinea questo verbo, di prenderlo in giro e di fargli perdere
tempo.
"No certo, dottore", rispondo, "perché?"
Il funzionario applica due dita della mano sinistra sulla mia
carta d'identità e la fa scivolare verso di me sul piano del
tavolo che ci separa. "La persona la cui scomparsa lei è venuto
a denunciare è lei stesso, egregio signore, e ora la invito a
lasciare quest'ufficio e a ringraziare la fortuna perché ho
deciso di non prendere provvedimenti a suo carico."
"Non capisco, dottore", replico senza alzarmi dalla sedia,
"pensavo di aver fatto il mio dovere di cittadino, invece sto
passando per un provocatore."
"Ecco, bravo, ha detto la parola. E con ciò la congedo", chiude
il funzionario, che chiama un agente dentro la stanza.
Devo andarmene. Mentre cammino per le strade tranquille
della domenica pomeriggio, rifletto su quello che mi è appena
successo.
"Io sarei lo scomparso, dunque, e insieme la persona che ne
denuncia la scomparsa? Possibile? E, se non sono scomparso,
perché denuncio la, diciamo così, mia scomparsa? Sono forse
impazzito?"- domando a me stesso.
Mi sto avvicinando a casa. Decido di non rispondere all'ultima
domanda, preferisco invece elogiarmi perché ho avuto il
coraggio di ammettere la mia scomparsa, insieme coprendomi
pubblicamente di ridicolo. Ed entro in casa.
La moschea

Il restauro della casa appartenuta alla nonna fu ultimato


velocemente da due specialisti le cui facce assomigliavano a
quelle di conoscenti ai tempi frequentati dal nipote della
proprietaria, defunta da un pezzo. Infatti erano proprio quei
fratelli Coretti, logicamente invecchiati, ora restauratori di
immobili cosiddetti di prestigio.
"Ci si rivede!"
Sul posto, il nipote della defunta si accorse che i lavori erano
stati eseguiti a dispetto delle sue indicazioni, messe per iscritto
e inviate ai Coretti mesi prima. A giustificazione della
tinteggiatura color zabaglione della corte, stupefatto il nipote
anche dalle spruzzate color cacao sui quattro fregi gentilizi
posti agli angoli, in alto; a giustificazione inoltre della
discrepanza tra l'esecuzione e le istruzioni ricevute per iscritto
("tutto avorio, chiaro, mi raccomando"), i Coretti addussero
l'argomento dell'impenetrabilità della grafia del cliente.
La casa della nonna, vuota e grandissima proprio perché priva
delle centinaia di oggetti accumulati dalla defunta e prima di
lei dai suoi genitori, aveva un aspetto d'integrale novità, e il
nipote, amareggiato dal colore delle stanze, azzurrognolo
oppure rosaceo, decise interiormente di liberarsi alla svelta dei
Coretti, di richiudere la casa così com'era, e di tornarsene in
città.
Chiesto il conto dei lavori, il cliente constatò che il totale era il
doppio della cifra preventivata. Le cucine e i bagni avevano
dato del "filo da torcere", spiegarono i Coretti. E la cantina,
"interamente da bonificare"! Rifiutarono ogni tentativo del
cliente di una transazione e ribadirono che il conto era
corretto. I Coretti, ignari del calembour, finsero di non sentire
le divaganti considerazioni del cliente, interessato all'inopinata
moschea visibile in prossimità della casa della defunta nonna,
costruita là dove il nipote aveva giocato a pallone da bambino,
cinque o sei decenni prima.
"Alla moschea noi non vogliamo neppure pensare", disse il
minore dei Coretti scuotendo la testa, mentre accompagnava il
cliente all'auto. "Eppure l'avete presa a modello per rifare
casa mia!"- rimarcò il cliente girandosi verso ciò che pareva
una torta nuziale.
"Farò cambiare le serrature", pensò il nipote firmando
l'assegno e intascando il conto composto gallinaceamente dai
Coretti. Su carta quadrettata rosa. "Cercherò di venderla -
all'Iman".
Flash

Mio padre armato di una nuova macchina fotografica si


affaccia a una finestra e mi fa un cenno: Linda non si deve
accorgere che lui sta per scattare una foto di noi; ma io sono
troppo interessato a questa sua intenzione e all'apparecchio;
quindi Linda se ne accorge, e la foto a sorpresa va a farsi
benedire.
Eravamo seduti su una panchina nel giardino sotto la casa dei
miei, in campagna.
Mi sto pentendo di aver fatto conoscere Linda, mia fidanzata,
ai miei, che sono in effetti troppo invadenti e pretendono
perfino di rimboccarci le coperte quando siamo nel nostro
letto. Decido di fuggire, Linda è d'accordo con me, quando
tutti dormono pian piano ci avviamo alla porta d'ingresso, ma
Zac! Un flash ci acceca: è mio padre che ci ha sorpreso con il
suo apparecchio nuovo di zecca, accanto a lui mia nonna, mia
madre, mio fratello, sua moglie. E' una festa.
Non è primavera

Un garzone di bottega cavalca una grossa moto verde che ha,


uno davanti e uno dietro, due canestri metallici per le merci
destinate ai clienti del suo padrone. Guida come un pazzo, lo
seguo con lo sguardo da lontano, chissà quale primato vuol
conseguire, intanto indirizza agli altri utenti della strada
dileggi e insulti.
Mi ricorderebbe un film di Renato Castellani intitolato "E'
primavera", che inizia con la sequenza di un garzone di
panettiere che corre in bicicletta schivando i passanti, tutto
allegro. Senonché questo non è allegro, ma feroce.
Da ultimo, vittorioso, il garzone parcheggia la sua grossa moto
verde sul marciapiede davanti al negozio del suo padrone, ma
sullo sfondo io vedo avvicinarsi un vigile urbano.
La legge!
Il vigile richiama all'ordine il garzone, che si difende con
l'argomento, come posso sentire, dell'essere lui l'incarnazione
moderna del protagonista di un film di Renato Castellani, "E'
primavera".
Mai sentito, risponde il vigile.
Neanch'io, concede il garzone.
L'Adolf

La nostra facoltà dispone di numerosi corridoi, in ogni


corridoio c'è un bagno, in ogni bagno una doccia che funziona
a seconda di quante monete da 50 centesimi di tallero
s'inseriscono nella fessura di fianco alla cabina; se ne metti
una puoi a mala pena bagnarti, dato tuttavia che io sono un
docente universitario avaro, prima di spendere i miei 50
centesimi verifico che non resti magari dello sgocciolamento
residuo dall'ultima doccia fatta prima del mio arrivo; sì,
sgocciola ancora: m'infilo e mi bagno un po', esco mezzo nudo
con un lenzuolo sulle spalle, una studentessa mi guarda e mi
domanda se i miei capelli sono tinti o hanno il colore naturale;
non contenta della mia risposta mi domanda perché non li
pettino sempre così, lisci, alla Hitler, dice. Mi guardo nello
specchio del bagno e noto che effettivamente un paio di
baffetti corti mi farebbero somigliare all'Adolf.
Il test

Il mio padrone è indagato perché si sospetta che abbia


commesso delitti gravissimi, tra i quali un omicidio. Il
magistrato m'interroga come testimone, ma io sento che potrei
presto essere accusato di complicità con il mio padrone. Mi si
mostrano appunti scritti, sui margini delle pagine di un
romanzo, dal sospettato, dovrebbero significare qualcosa, ma
io non sono all'altezza di dire nulla, infatti faccio il giardiniere
e non so niente di romanzi e di note scritte dal mio padrone.
L'interrogatorio, mi informa il magistrato, dovrà a questo
punto trasformarsi in un test. Ne sono intimorito, non so che
cosa sia un test, ma ho paura di fornire prove contro il mio
padrone, che so colpevole. Il magistrato mi spiega con
pazienza, anche troppo esibita, che io dovrò soltanto dire tutto
quello che mi verrà in mente dopo che lui avrà posto ogni
domanda - salvo il No/Non.
Alla prima domanda ("Perché l'Avvocato lo ha fatto?") mi
verrebbe da rispondere "non lo so", ma non posso, perché la
frase conterrebbe la negazione. E' abile, questo magistrato. Mi
potrei accontentare di rispondere "per amore", ma taccio,
perché temo che questa risposta farebbe uscire, dopo, tutto
quello che so. Ritengo di essere anch'io colpevole, oppure è
tanto forte il timore che il mio padrone sia smascherato, che
finisco con il crederlo.
Il ritrattista

Dopo che, per cause ignote, una seconda – mezza - calotta


cranica mi era cresciuta dietro la prima, sul mio collo si
ergevano una testa e mezzo. Com'è naturale iniziai a
preoccuparmi di farmi acconciare le due capigliature in modo
che quella deformità non fosse troppo visibile e non nuocesse
alla mia vita normale, infatti non potevo certo restare sempre
chiuso in casa.
La parrucchiera a cui mi rivolsi suggerì la soluzione. Avrei
dovuto, disse, lasciarmi crescere i capelli molto lunghi sulla
testa originaria, in modo che raggiungessero con la loro massa
i capelli dell'altra mezza testa, così da garantire una sorta di
continuità e da costituire la finzione di un'unica capigliatura -
certo, ammise la parrucchiera, con risultati esteticamente
discutibili, ma credibili.
Pensai che la parrucchiera, una ragazza tranquilla, avesse
ragione. Certi disegni che mi mostrò, dopo averli schizzati su
un grande foglio, davano luogo all'immagine di un testone
bombato posteriormente, senza che la deformità, o meglio
mostruosità sottostante, fosse visibile.
Dopo diversi mesi di crescita dei capelli iniziai dunque a
tentare le mie uscite da casa pettinato in quel nuovo modo, con
due riporti connessi, quello della mia testa spinto all'indietro,
quello dell'altra testa spinto in avanti. Nel frattempo mi ero
mosso indossando una sorta di cuffia di lana, fatta
appositamente per me da mia nonna, così larga da contenere
la mia testa e mezzo.
Fin qui ho descritto gli svantaggi della mia deformità. Quanto
ai vantaggi, corrispondentemente ai risultati radiografici
indicanti che al mio cervello si era aggiunto in tandem un altro
cervello quasi intero, iniziai a trovarmi in grado di pensare di
più e meglio, di affrontare e risolvere i miei problemi
professionali (faccio il ritrattista) con sorprendente efficacia.
Per così dire vedevo le cose da due punti di vista
contemporaneamente, vedevo il davanti e il dietro insieme,
eppure avevo sempre soltanto due occhi, i miei soliti. Per così
dire vedevo anche il lato nascosto delle cose (e delle persone),
ciò che qualche volta, lo confesso, mi dava dolorosi
turbamenti.
A proposito di dolori, la mia seconda testa me ne dava
crescentemente, e uno dei medici da me consultati mi convinse
infine a farmela operare chirurgicamente. Mi avrebbero,
disse, segato via l'escrescenza (così la denominò) e in pochi
mesi tutto sarebbe tornato a posto, cicatrizzato.
"E i capelli?", domandai al medico, "mi ricresceranno i
capelli?"
L'apprendista

Noi continuiamo a credere che il borgo vicino conservi le


dimensioni che aveva quando eravamo giovani messi comunali
e ci recavamo in bicicletta all'indirizzo richiesto, invece il
borgo vicino nei decenni si è allargato così tanto che quasi non
è rimasto spazio libero tra la sua periferia est e la periferia
ovest della nostra antica città. Siamo anziani, dopo molti anni
di servizio nelle note strade, che sono in certo modo il fondale
delle nostre vicende personali, ci mandano a consegnare un
plico a un indirizzo logicamente a noi ignoto del borgo vicino.
Partiamo guidando l'automobile di servizio, insieme a noi il
giovane che tra pochi mesi prenderà il nostro posto, e che
lamenta l'assenza del navigatore satellitare. "L'auto è molto
vecchia", noi replichiamo, "non è previsto il navigatore
satellitare".
"Ma che cosa dici", reagisce il giovane apprendista, che ci da
del tu nonostante che almeno cinque volte gli abbiamo fatto
notare che potremmo essergli non padre, ma addirittura
nonno, "ma che cosa dici, il navigatore satellitare può essere
usato anche su un'auto scassata come questa!"
"Davvero?"- noi fingiamo di domandare, "avrai ragione, ma
adesso bisogna stare attenti a dove girare, e soltanto con i
nostri mezzi!"
Ogni volta che siamo andati in missione nel borgo vicino,
s'intende negli ultimi anni, quelli della sua crescita colossale,
sempre ci siamo perduti e quindi non abbiamo consegnato il
plico dovuto, con la conseguenza di dovere poi pagare una
grossa multa in termini di decurtazione del nostro già esiguo
stipendio. Anche oggi ci perdiamo e ora constatiamo, sì, che è
la seconda volta che stiamo percorrendo la stessa strada di
scorrimento veloce, chiusa da lunghi guardrail colorati di
azzurro che impediscono ogni via di fuga, quel che rischia ogni
volta di fare impazzire noi vecchi messi comunali; infine, per
fortuna, sbuchiamo in una piazza antistante a un istituto di
studi superiori e scorgiamo una giovane che sta fumando una
sigaretta. Fermiamo l'auto e le domandiamo qualche
indicazione circa l'indirizzo a noi utile; sfortunatamente la
ragazza, gentile però, non ne sa niente, comunque ci
suggerisce di seguire un piccolo scuolabus bianco e azzurro in
partenza nel piazzale - curiosamente assomiglia a un pullman
che noi vedevamo salire fino al nostro paese, quando eravamo
bambini, e sentivamo fin da lontano strombettare. Dovremmo
seguire lo scuolabus, come dice la ragazza gentile, perché è
diretto nel centro della città - che ormai non è più per niente
un borgo - dove di sicuro sapranno darci l'indicazione che ci
serve.
L'apprendista è ingrugnito, inutilmente tentiamo di
rasserenarlo elogiando l'avvenenza della ragazza or ora
incontrata, inutilmente proviamo la battuta di spirito di
domandargli se non è meglio, la ragazza, del navigatore
satellitare: "segui lo scuolabus, piuttosto", ringhia
l'apprendista. Mentre con gran fatica eseguiamo, del resto
incerti quanto al buon esito della nostra missione - non
sappiamo perché, ma ci sorge il desiderio di affibbiare un
manrovescio all'apprendista.
Pietro Ridera detto Pedro

Assisto a una riunione politica che si svolge dentro un cinema.


Indosso un piumino, ma mi sono dimenticato di infilarmi le
calze, quindi per metà ho caldo, per metà freddo. Seduto
nell'atrio in attesa dell'inizio davanti a una signora,
m'immagino come sarebbe nel caso che eccetera. Finalmente
entro nella sala, è scuro, sullo schermo sono proiettati gli
organigrammi del nuovo partito che si sta fondando. Controllo
la posizione del mio portafogli, che sia ben custodito in una
tasca interna del piumino. Mi siedo all'inizio di una fila tutta
occupata da giovani, piuttosto indietro rispetto allo schermo
dove ora continuano a scorrere i nomi dei simpatizzanti del
nuovo partito. A un tratto, dopo che mi sono alzato e mi sono
avvicinato allo schermo per leggere meglio i nomi, mi sento
afferrare, ma affettuosamente, per un braccio e in certo modo
sequestrare. E' un mio conoscente dei tempi andati, un certo
Pietro Ridera detto dai compagni Pedro, ne ricordo ora il
nome di battaglia - e quello anagrafico. Mi fa festa, è contento
di vedermi e mi spinge verso il tavolo della presidenza
dell'assemblea, perché io prenda parte attiva a questa
cerimonia di fondazione.
Sono riscaldato fino alle caviglie da quest'affettuoso
riconoscimento da parte di Pedro, ma non dico altro che "ciao,
Pedro, come stai?"- intimamente piuttosto orgoglioso della
premura di colui che ai tempi, durante un'altra cerimonia di
fondazione di un nuovo partito, seppe attirare l'attenzione non
solo degli infiltrati della polizia politica presenti in sala, ma
anche quella del pubblico, che iniziò a ritmare lo slogan
"Tupa, Tupa, Tupamaros".
Pedro adesso si è munito di una scala pieghevole e ci è salito
sopra, non si rende conto di oscurare con la sua ombra parte
della lista dei simpatizzanti proiettata sullo schermo, si agita e
si spenzola un po' troppo nell'indicare certi nomi, in effetti
piuttosto famosi; da ultimo perde l'equilibrio e cade giù in
terra.
Ne approfitto per avviarmi all'uscita della sala. E' come se mi
fossi svegliato dopo un colpo di sonno. Nell'atrio si vendono
opuscoli.
La repubblicana

Disastroso lo stato della mia mansarda, trasformata in


deposito di materiali e attrezzi che, come scopro, servono alla
riparazione del tetto. E' un'infamia del mio subdolo padrone
di casa che così spera di farmi andar via. Tutti i mobili sono
spostati, la polvere regna sui libri. Qui non posso certo
dormire, stanotte. Esco e cerco una locanda. Sono appena
rientrato in città, la mia valigia è pesante, mi avvio verso la
stazione, in giro non vedo nessuno. A metà strada mi viene in
mente che il deposito bagagli a quest'ora sarà chiuso. In effetti
sembra che l'intera città sia deserta. Incollato su un muro
vedo un manifesto che annuncia il passaggio del Sovrano a
bordo del suo yacht sul fiume, e capisco che tutti sono andati
ad assistere all'evento. Ogni attività, ogni esercizio, ogni buco,
tutto è chiuso.
"Mia zia, c'è mia zia", mi dico, "lei non è mica monarchica,
sarà rimasta a casa", e mi affretto verso la piazza dove si trova
il villino della zia. Mi affretto per modo di dire, infatti la
valigia mi frena, non ne posso più, la nasconderei da qualche
parte, ma si sa che i ladri, in queste occasioni, stanno ben
attenti a ogni dettaglio per avvantaggiarsene. Arrivato davanti
al villino vedo che le luci sono spente, "sarà andata a dormire,
la vecchia repubblicana", mi consolo, e vedo che una finestra
al primo piano è aperta. Tiro la corda del campanello. Niente.
"Sta' a vedere che anche la zia...".
Supero il muro di cinta del giardino dopo aver spinto la
valigia, sforzo terribile, fino alla sua cima, e averla fatta
ricadere dall'altra parte. "Riposi in pace", dico. Quindi mi
arrampico lungo il tubo di scarico della grondaia fino alla
finestra aperta, entro e si conferma che la zia non è in casa.
"Questo non significa certo che sia andata a vedere il
Sovrano", obbietto a me stesso. Sono un loico. Mi accomodo
nella stanza degli ospiti, dopo aver mangiato un avanzo di
zuppa preparato dalla zia non so quanti giorni fa, e provo a
dormire. "Domattina andrò dal padrone di casa e gliene dirò
quattro", sospiro. "Ma perché poi quattro?" - mi domando,
ma non riesco a rispondere a questa domanda. Mi
addormento.
Carta da parati

Ci hanno destinato una nuova stanza, in ufficio. Occupandola,


noi tre colleghi commentiamo questo trasferimento; non ci
dispiace, dopotutto cambiare di stanza anche senza saperne la
ragione è come un gioco, e il nostro lavoro invece è tanto
grigio. Uno dei miei due colleghi fa apprezzamenti sulle forme
e sui colori che secondo lui sono stati dipinti sulle pareti, ma io
replico: "No, non è pittura, intanto sarebbe costosissimo far
dipingere queste rificolone alla Klee; no, si tratta di carta da
parati, è evidente!"
I miei colleghi tacciono, poi iniziano a passare le loro mani
sulle pareti e sì, convengono che la nostra nuova stanza è stata
ricoperta di carta da parati. L'altro mio collega, malizioso -
chissà poi perché - mi domanda: "E tu come facevi a saperlo?
Non è che hai degli informatori ai piani alti?"
"No", replico, "ho passato l'infanzia e l'adolescenza con una
madre che aveva la passione per la carta da parati, ogni po'
chiamava un certo artigiano e gli faceva incollare nuove
strisce, davvero, in ogni stanza della nostra casa. E' così che
sono diventato un esperto!"
Silenzio.
"Una volta", proseguo, "tornando da scuola io e mio fratello
trovammo la nostra stanza guarnita di una carta da parati che
ci fece - e continuò a farci per semestri - l'impressione di
trovarci dentro un minestrone di verdura, soprattutto di
fagioli, direi. Dopotutto a noi qui è andata benone!"
"Senza chiedervi un parere?"- domanda il primo collega.
"No, mia madre era simile ai nostri superiori, che un parere
sul trasferimento in questa nuova stanza non ce l'hanno
chiesto, e nemmeno sul fatto che adesso ci troviamo a dover
lavorare dentro un quadro di Klee."
"Ma chi sarebbe questo Klee, un pittore?", domandano
insieme i miei due colleghi, "per caso sei esperto anche di
pittura?"
Dodici libri antichi

Lavori al di là di una parete della stanza dove sto dormendo


fanno tremare il muro e lo scuotono fino alla caduta in terra
dei volumetti che si trovavano in uno scaffale basso della
libreria. Guardo la parete, è una rete di macchie, e anche
bagnata. Non sono ancora sveglio, il martello pneumatico che
ha fatto cadere giù i miei dodici libri antichi non è riuscito a
strapparmi del tutto dal sonno. Faccio fatica a tenere gli occhi
aperti, ma esco dal mio appartamento e vado in cerca dei
responsabili del fracasso e dei danni. Si trovano ora al piano
superiore, i muratori, appoggiato da una parte vicino alla mia
porta vedo il martello pneumatico che mi ha causato il peggior
risveglio da due mesi a oggi; senza indugio lo afferro e lo porto
giù in cantina, dove lo nascondo con cura in un baule,
seppellendolo sotto alcune vecchie coperte che aspettavano
aria da anni. Il martello pneumatico è ora in mio possesso,
almeno per oggi posso ritornare a dormire.
Ho commesso un furto, ma se avessi affrontato i muratori e
avessi loro detto faticosamente, tra uno sbadiglio e l'altro, a
occhi quasi chiusi, dei miei dodici libri antichi e delle macchie
sulla parete, e di quanti secoli ha questo edificio che rischia di
essere demolito, sono certo che non mi avrebbero neppure
compreso, infatti non parlano quasi la mia lingua - e di fatto
richiedono di essere presi per dei Tu, cosa di cui io non sono
capace con gli estranei.
E tutti quanti mi sono estranei!
Conversione a tavola

Mi domanda se sono ebreo, si tratta di un gioco; no, non sono


ebreo, ma lui va avanti e mi domanda se frequento una certa
scuola di dottrina teologica ebraica; no, non la frequento, non
sono ebreo, insisto; male, fa l'interrogante, non sai che cosa ti
perdi; ma se non sono ebreo! - replico ancora io.
Siamo a tavola, l'interrogante è un ospite, anch'io lo sono.
E' un gioco, ribadisce lui, non devi rispondere la verità, ma
quel che ti piace;
ah, sì, hai ragione, mi era sembrato un gioco della verità.
No è un gioco e basta, assicura. E riprende: sei ebreo?
No, non lo sono;
e frequenti la scuola di dottrina teologica?
No, mica sarei ammesso, non sono ebreo.
Qui sbagli, mi becca l'interrogante, saresti ammesso se ti
volessi convertire.
A cosa? - domando.
Alla religione ebraica, risponde lui.
Ma io sono ateo, replico, e mi verso un poco di acqua minerale
non gassata.
Molti ebrei sono atei, insiste, eppure s'interessano di teologia, e
riprende: sei ebreo?
No, rispondo.
E perché no? - domanda lui.
Get off my cloud!

Dà notizia il quotidiano della nostra cittadina di uno strano


fatto accaduto ieri nelle adiacenze del Ponte di Ferro. Alcuni
giovani che procedevano in direzione del ponte a bordo di una
giardinetta sarebbero stati sorvolati a quota molto bassa da
una nuvola di dimensioni, hanno riferito i giovani alle
Autorità, analoghe a quelle di una balena. Eccitati dal sorvolo,
i giovani sarebbero con prontezza usciti dall'auto e avrebbero
approfittato della modestissima altezza a cui si trovava ormai
la nuvola per acciuffarne un lembo. Presa per la coda, la
nuvola li avrebbe lasciati fare, riferiscono i giovani, senza
ribellarsi. Entusiasti dell'avvenuta cattura, i giovani avrebbero
iniziato a cantare in inglese una loro canzone, leggiamo nel
suddetto quotidiano, qualcosa come "Get off my cloud",
avrebbero poi percorso il Ponte di Ferro con la preda tra le
loro braccia e l'avrebbero infine rovesciata nel fiume.
Interrogati dalla Polizia Municipale sul motivo del lancio,
deprecato dalle Autorità Scientifiche della locale Università, i
giovani si sono giustificati facendo ricorso a due argomenti,
dei quali soltanto il secondo pare a noi decisivo: la consistenza
della nuvola avrebbe loro troppo da vicino ricordato quella del
cotone idrofilo, ciò che li avrebbe delusi; una volta rovesciata
nel fiume, hanno poi riferito, la nuvola si sarebbe rapidamente
disfatta senza lasciare traccia.
La magistratura ha aperto un fascicolo sui fatti riferiti.
Occasionali accompagnatori balneari

Ha ferito profondamente la nostra comunità l'assassinio di due


bambini commesso dalla loro madre. Costei, ritornata da un
viaggio in luoghi ameni e lontani dove, a quanto si dice,
avrebbe avuto come occasionali accompagnatori balneari due
adolescenti indigeni, da lei definiti maleodoranti eppure
ripagati per l'assistenza tra le onde con una mancia di
cinquanta talleri cadauno, non ha saputo sopportare le
malignità dei suoi compagni di vacanza e poi, al ritorno in
patria, quelle della nostra comunità, e le accuse prima di
pedofilia, poi di razzismo cadutele addosso, se non mediante
l'esecuzione di un sacrificio riparatorio ai danni dei suoi due
bambini.
Un bambino di circa sei anni

Un bambino di circa sei anni, oggetto di una trasmissione tv


sul maltrattamento, mi chiede di tenergli una mano stretta
mentre deve ascoltare le cattiverie che si dicono contro sua
madre. Io gli tengo la destra nella mia e lo guardo da vicino,
ha un golfino azzurro, i capelli quasi biondi, segue con
attenzione e rimarca gli errori che la conduttrice della
trasmissione tv commette in vari campi. Mi stupisco che il
bambino sappia il significato della parola latina fellatio.
Successivamente convoco una riunione di colleghi universitari
e li informo dell'esperienza piuttosto portentosa che ho fatto
con questo bambino sapiente, e discuto lo stile della
trasmissione tv sul maltrattamento: affermo che questo
programma è maltrattante e così via.
I miei colleghi mi ascoltano, ma non condividono il mio
entusiasmo, né la mia indignazione. Il peggio viene però
quando mi domandano quando e su quale canale tv è andata
in onda la trasmissione, e su quali media se ne è parlato.
Infatti non so rispondere, e in breve scopro di aver sognato
tutto quanto.
Una mela renetta

Mi avvicino al tavolo dell'usciere che finge di non


riconoscermi, gli mostro la mia tessera, ma lui ridacchia
guardando da un'altra parte. "La sezione parassitaria dove
Lei lavorava, caro Signore" - "come sarebbe 'dove lavoravo'?
Io ci lavoro da anni!" - "mi faccia finire, caro Signore, la
sezione parassitaria dove Lei lavorava è stata chiusa per
decisione della Direzione" - le maiuscole si notano da un
tremito aggiuntivo del gozzo dell'usciere, che continua a
guardare da un'altra parte, esattamente verso una finestra
aperta sulla via, da cui entra un baccano infernale - "è stata
chiusa per decisione della Direzione durante l'assemblea dei
Signori Capi di sabato scorso". "L'altro ieri?", domando io
rimettendomi in tasca la tessera. "Esatto, l'altro ieri: quindi
Lei, caro Signore, non ha più il diritto di pranzare in questa
mensa, anzi, La prego di consegnarmi la tessera che Lei ha or
ora infilato in tasca."
Allora mi volto con una piroetta, e scappo dall'atrio, apro il
portone e mi getto nella via. La tessera mi servirà per
sostenere le mie ragioni. Sezione parassitaria? E' vero che
stamani non mi sono recato sul lavoro, ferie arretrate, forse lì
avrei visto la lettera del mio licenziamento, ma non importa. E
poi la tessera mi è cara, tutta grinzosa com'è mi ricorda i miei
anni passati nell'Azienda. Sezione parassitaria? Ma come si
permette, questo usciere gozzuto?
Che fare? Imparo a cucinare? Vado dai cinesi in piazza dei
Campi? Dagli indiani in via degli Autisti, o mangio una mela
renetta e via?
In autobus

Mentre sto valutando in modo silenziosamente critico la


presenza di un cane senza guinzaglio nell'autobus che ci porta
alla spiaggia, mi trovo costretto d'improvviso a considerare la
totale nudità che la mia amica esibisce davanti agli altri
passeggeri. Lei sembra trovarsi a suo agio, forse crede che la
spiaggia dove siamo diretti sia uno di quei luoghi riservati ai
nudisti, ma qui sull'autobus nessuno è nudo; certo gli abiti
sono ridotti, l'umore è sereno, e il cane gironzola tutto
contento intrufolandosi tra i corpi.
Soltanto io, parrebbe, faccio caso alla nudità della mia amica,
e alla presenza incongrua del cane: non è che mi rallegri tanto
la disinvoltura regnante in quest'autobus!
Mi volto verso l'esterno e guardo il paesaggio. Vedo tuttavia
che il fastidio che mi dà il cane senza guinzaglio e l'imbarazzo
che mi provoca la mia snella amica nuda appartengono allo
stesso mio ceppo interiore. E piango, senza farmi vedere.
Collezioni

Ho sette armadi, nel primo tengo la collezione di pipe in


terracotta, nel secondo la collezione di astucci di latta per
sigarette, nel terzo la collezione di portacenere reclamizzanti
aperitivi, nel quarto la collezione di termometri degli anni
Cinquanta, nel quinto la collezione di telecomandi tv anni
Ottanta, nel sesto la collezione di penne stilografiche
statunitensi d'epoca, nel settimo la collezione di agende usate
dai miei parenti scomparsi. Ogni stanza della mia casa ospita
un armadio di questa collezione di collezioni - sempre visibili,
infatti gli sportelli di ogni armadio sono realizzati in vetro
incorniciato di legno.
Abnegazione

Da una finestra del nostro eremo noi due monaci, gli ultimi
lasciati dal nostro Ordine in questa terra inospitale,
osserviamo lo svolgimento di uno scontro armato tra due
fazioni che si odiano da molti decenni. Da una parte arabi del
posto, dall'altra gli usurpatori. Questi ultimi, che usano
narrare al mondo e ai loro figli di aver trasformato un deserto
in giardino, anche stavolta prevalgono.
Uno dei combattenti in rotta ci chiede ospitalità. E' agitato,
trema e sembra pregare: noi non conosciamo che poche parole
della sua lingua, ma crediamo che lui stia pregando. A un
tratto costui ci vomita addosso.
Mi occupo quindi di sfilare il saio sporco - di vomito ma anche
di una sorta di muco gelatinoso - dal corpo offeso del mio
confratello, che è rimasto completamente immobile; poi tolgo
da solo questa porcheria dal mio saio.
Per la verità il getto di vomito e muco emesso dalla bocca del
combattente in rotta ha colpito più il mio confratello che non
me. Non ne sono contento, infatti il nostro Ordine da sempre
proibisce la contentezza, al posto della quale impone
l'abnegazione. Quando da ultimo alzo gli occhi in direzione
dell'arabo, mi accorgo che è sparito.
Un'attività poco nota di Jung

Il famoso psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, creatore di


una variante della psicanalisi freudiana, avrebbe, come
apprendo durante un ricevimento da una persona mai vista,
escogitato, s'intende negli ultimi anni della sua vita, una
campagna pubblicitaria per le automobili Opel. Strano,
rifletto, mentre questo occasionale conoscente seguita a parlar
male sia di Jung, sia delle auto Opel: sapevo sì che Jung aveva
lavorato nella pubblicità, ma per la Mercedes. Ed esprimo
questa mia perplessità al mio interlocutore, che subito replica:
magari, lo avesse fatto!
Unghie di contadine

Ho visitato una mostra fotografica, è strano perché non visito


alcuna mostra, di solito. Stavolta mi sono lasciato convincere
perché l'ingresso era gratuito e non avevo niente da fare nella
città estranea dove mi trovavo, ansioso che arrivasse l'ora di
salire in treno per tornare a casa. Era una mostra di foto in
bianco e nero scattate negli anni cinquanta. Oggetto: la vita
quotidiana dei contadini della pianura. Ha attratto la mia
attenzione una foto sola. Si trattava di una fuga di piedi nudi
di donne sedute, con le gambe scoperte e accavallate, al sole.
Visibile in primo piano un piede, dietro un altro, poi un altro
ancora, in prospettiva trasversale. Ottima foto, nitida. Questi
piedi erano un poco rovinati e non più giovanissimi,
leggermente callosi e impreziositi, quindi non poco
ammalianti, perché tutte le dita visibili, in definitiva alcune
decine, avevano le unghie smaltate. Di rosso, è da credere.
Queste unghie, scurissime, riflettevano la luce del sole.
Gino Bianchi

Il collega, oramai entrato nel giro che conta, mi informa di un


suo progetto di largo respiro. Vuole scrivere un saggio sul
Gino Bianchi di Piero Jahier. Mostra una recente edizione del
Gino Bianchi, un libro piuttosto divertente che io ho tra i miei
da alcune decine di anni. Il collega indossa un curioso paio di
occhiali da sole che gli danno un'aria da mariolo: al centro
delle lenti scure si vedono due sporgenze, un poco simili alle
lenti d'ingrandimento che adoperano i dentisti.
Vuole vederci chiaro, il collega che conta. Il suo saggio sul
Gino Bianchi consisterà, m'informa, in una lettura cattolica
assolutamente nuova di un testo fin qui ritenuto dai più
soltanto una satira contro la piccola borghesia impiegatizia. In
effetti deridere un piccolo borghese burocrate è come sparare
sulla Croce Rossa, osservo io, che silenziosamente tuttavia mi
domando che cavolo c'entra il cattolicesimo con il Gino
Bianchi. Guarda che Piero Jahier era un credente, mi replica il
collega, come se mi avesse letto nel pensiero.
Ecco a che cosa gli servono quegli strani occhiali!
Pizze

In visita nella capitale, ci stupiamo del disagio in apparenza


enorme che tuttavia sembra non creare difficoltà pratiche agli
abitanti della megalopoli, furiosa e incrudelita oltre ogni
nostra aspettativa. Dal momento che non veniamo in
quest'inferno da almeno venti anni, e siamo avvezzi alla quiete
della nostra cittadina, ne parliamo con i nostri ospiti, i quali
sono nati e vissuti qui e dunque non mancano delle forze
necessarie a sopravvivere nella megalopoli da oltre un secolo
diventata capitale del regno. Con la tipica bonomia
condiscendente di chi vive nella capitale, una città famosa in
tutto il pianeta a causa del suo remotissimo passato imperiale,
essi c'intrattengono usando due argomenti evidentemente
ricevuti dai loro genitori, i quali li hanno ricevuti dai loro
genitori, e così via: il motivo del buonumore degli abitanti
della megalopoli, secondo noi infernale, starebbe nel venticello
che spira da ovest e porta l'aria del mare, in effetti non
lontano dalla capitale; e nell'eredità dei tempi abbastanza
lontani, ma in termini storici non lontanissimi, quando la
megalopoli di oggi era la capitale non del nostro regno, ma di
uno Stato abbastanza esteso e del tutto particolare, in quanto
costituito attorno all'autorità dei preti. In effetti, noi
riflettiamo, la capitale del nostro regno è anche, tuttora, uno
dei centri religiosi più importanti del pianeta.
Sì, il venticello che spira da ovest e lo spirito religioso insieme
sono le forze che danno agli abitanti della capitale quel
distacco capace di conservar loro il buonumore, concludono i
nostri ospiti. Il venticello quotidiano e la prospettiva della vita
eterna, quella che, come le autorità religiose assicurano, ci
attende dopo la morte, danno agio di sopravvivere all'inferno
della megalopoli, che tuttavia i suoi abitanti, e tra loro i nostri
ospiti, non considerano per niente un inferno, ma invece un
continuo Carnevale.
Nel parlare di ciò, siamo finalmente arrivati in prossimità
dell'abitazione dei nostri ospiti; uno di loro estrae da un
curioso frigorifero sito nel bagagliaio dell'auto, il mezzo che
nella capitale serve agli abitanti per trascorrere in posizione
comoda diverse ore ogni giorno nell'attesa di pervenire nei
luoghi dove essi intrattengono le loro relazioni umane,
lavorative e così via, alcune buste di plastica grigia che
contengono in apparenza qualcosa di rotondo, piatto e gelato.
Sono pizze, risponde il nostro ospite alla nostra domanda,
espressa senza parole.
Ah, pizze.
Sì, questa è la razione settimanale di pizze a prezzo politico, un
tallero l'una, che il Sovrano eroga agli abitanti della capitale,
non lo sapevate?
No, rispondiamo noi, che siamo abituati a gustare la pizza
pagandola a prezzo di mercato, non lo sapevamo.
Lo scambio verbale in merito alle pizze finisce lì, e la nostra
visita nella capitale continua fino al suo termine, quando noi
prendiamo il treno per far ritorno alla nostra cittadina.
Valutando che il buonumore e la bonomia condiscendente
degli abitanti della capitale forse non dipendono soltanto dal
venticello che spira da ovest e dalla prospettiva della vita
eterna che ci attenderebbe dopo la morte.
L'Arsenale

Ha destato un notevole allarme e stupore, lungo l'intera


Riviera, il lancio di alcuni siluri che un giovane, assai noto a
causa della sua appartenenza a una famiglia autorevole e
facoltosa del capoluogo, ha effettuato l'altra mattina, mentre
una quantità di battelli e di pedalò si trovavano in mare a
poche decine di metri dalla riva. Non è ancora stato chiarito
dagli inquirenti se il giovane avesse intenzione di colpire i
battelli e i pedalò, come sfortunatamente è avvenuto, oppure li
abbia colpiti senza volere, intendendo invece, come sostengono
gli avvocati subito ingaggiati dalla famiglia del giovane,
lanciare i siluri tra i natanti - prova di abilità oggetto di una
scommessa che sarebbe intercorsa tra il giovane e certi suoi
conoscenti. Nell'attesa di saperne di più, e nella speranza che i
feriti anche gravi riacquistino la salute, ci si chiede come il
giovane abbia realizzato una strumentazione utile al lancio di
siluri, lui, soltanto un adolescente. Testimoni che desiderano
rimanere nell'anonimato sostengono che il giovane,
indubbiamente molto versato nella meccanica, abbia sottratto
progressivamente le parti necessarie nei magazzini
dell'Arsenale, come è noto sito nel Capoluogo e scarsamente
sorvegliato. Quest'ultima voce, certo preoccupante, ha
suscitato perfino nella Capitale interrogazioni rivolte al
Governo da parte della Opposizione.
La terrazza sul tetto

Prestai a un collega la terrazza sul tetto della casa dei miei


genitori, s'intende con il loro consenso, perché lui realizzasse il
suo strano progetto di farsi filmare da un assistente mentre
teneva non so più quale lezione a cielo aperto, con lo sfondo
lontano della città e delle colline, e me ne ero dimenticato. Con
mia grande sorpresa ed emozione, quindi, ieri in tv mi è
capitato di imbattermi in quel filmato, oramai vecchio di
trenta anni, celebrante quel collega, divenuto poi famoso e
sfortunatamente defunto mesi or sono. Non so di che cosa
tratti la lezione a cielo aperto, neppure oggi, infatti l'audio del
filmato è alquanto scadente - non importa: ho rivisto la
graziosa terrazza sul tetto della casa dei miei genitori, che io
ho venduto dieci anni fa dopo la morte di mia madre, e le
piantine grasse, dette succulente, che allora erano piccoline,
mentre oggi, ospitate nella terrazza sul tetto della mia casa,
sono diventate molto grandi e si sono moltiplicate grazie alla
mia abitudine di ripiantarne le propaggini in nuovi vasi. Devo
dire che la testa parlante del mio collega, lì in terrazza, ci sta
come il cavolo a merenda, e che, sì, me la ricordavo più
grande: non la testa, la terrazza.
Il reduce

Molti anni sono trascorsi da quando, una notte, fui visitato da


un ladro. Stavo dormendo con la finestra aperta, mi svegliai,
guardai i vetri, e subito dopo entrò nella stanza, dal balcone,
un uomo. Spaventato da questa novità, mi alzai dal letto e mi
accinsi ad affrontarlo. Nell'oscurità non capivo bene chi avessi
davanti, ma riconobbi la voce di quest'uomo - apparteneva a
qualcuno che io conoscevo. "Sì", disse, "sono un ladro; sapete,
signore, con la fine della guerra civile molti come me si sono
trovati senza occupazione, ma hanno conservato le loro armi;
chi si dedica al contrabbando, chi organizza e realizza rapine;
io faccio il ladro a domicilio", concluse. "Già", replicai,
mentre stavo tentando di capire di chi precisamente fosse
quella voce; "ho letto anche un bel racconto pubblicato da uno
di voi signori reduci della guerra civile, credevo che fosse
inventato, ma ora vedo che invece era fedele".
Nel frattempo il ladro e io stavamo dirigendoci verso la cucina,
che si trovava nella parte opposta del mio appartamento.
Entrando in cucina sfiorai la gatta, realizzando che lei non era
affatto spaventata dall'estraneo, anzi, si strofinava a coda ritta
contro uno stipite della porta. Avevo intenzione di offrire un
caffè al mio strano ospite, ma lui osservò che non c'era il
tempo, che l'alba si approssimava, e che lui avrebbe dovuto già
essere in strada, pronto a ritornare alla base. "Bene", dissi, "e
il furto?" "Il furto", rispose il ladro, "era già terminato prima
che voi, signore, vi accorgeste della mia presenza".
„Ma lei stava rientrando“, osservo dubbioso.
„Oh, ma quante ne volete sapere!“
Il simbolo privato

Conservavo con cura una foto, una vista marina presa da un


promontorio roccioso ritto ai margini di una grandissima
città; sfortunatamente il nome di questa città ormai mi
sfuggiva. Guardavo la foto con amore: mostrava una
costruzione miserabile appoggiata a uno scoglio, che, anzi,
faceva corpo unico con lo scoglio, non si capiva dove finiva la
roccia e dove la fabbrica, voglio dire, l'edificio. E il mare.
Miserabile perché abbandonata, credo: ne risultava tuttavia
un oggetto estetico, mi riferisco alla foto, che non sapevo come
mai mi piacesse tanto, né ora so dirlo, a maggior ragione, dato
che non la ho più.
Una volta ebbi in visita una mia conoscente. Ero contento di
rivedere questa persona, ci trattenemmo a parlare a lungo dei
tempi passati, in definitiva dei bei tempi passati, e a un tratto
lei mi accennò ai lavori che il governo aveva realizzato allo
scopo di rinnovare il porto mercantile e turistico di quella
grandissima città che io non sono più in grado di nominare,
chiedo scusa. Poi mi domandò se mi ricordavo, "almeno",
aggiunse con un sorriso, "di quella casina costruita su uno
scoglio, proprio vicino al vecchio porto, grigia, ma che era
stata bianca": che era diventata, ai tempi, "il nostro privato
simbolo", aggiunse la mia conoscente, o amica.
"Sì, ma di che cosa era simbolo?" - le domandai, mentre
m'infervorava la prospettiva di regalarle la foto meravigliosa.
"Questo non saprei dirlo", mi rispose sorridendo, "e se lo
sapessi non lo direi". Teatrale, mi mossi verso la mia scrivania,
aprii un cassettino e presi un pacchetto di fotografie;
individuai quella giusta e la diedi alla mia conoscente. Poi,
dopo poco tempo, ci salutammo affettuosi. Ecco perché non ho
più la foto.
Arte dei Giardini Mentali

Il giovane assistente S.C. - fin qui di sicuro avvenire - riceve un


invito dal suo capo, ci scusiamo di usare un termine tanto
brutale, sì, ma corrispondente al linguaggio degli assistenti
universitari; un invito a trascorrere la fine settimana nella
grande casa di campagna che il capo possiede in una delle più
rinomate contee del Regno. Il giovanotto, che per la verità
ormai ha i suoi bravi trentacinque anni, accetta l'invito - e
come potrebbe non farlo?
La casa consta di due ali, all'estremità della più estesa si trova
la magnifica stanza-studio del capo, un uomo che potrebbe
avere circa sessant'anni, noi non sappiamo: l'intera storiella ci
è stata raccontata in fretta da uno dei numerosi invitati e
concorrenti accademici del giovane S.C. Il nostro informatore
ci ha descritto con poche parole la stanza-studio del capo del
Dipartimento di Arte dei Giardini Mentali (DAGM): si tratta,
se abbiamo capito, di due ambienti separati da un largo
passaggio ad arco; nel primo si trova una romantica scrivania,
così il nostro informatore, un paio di comode sedie a braccioli
e una non piccolissima libreria ricca di volumi inaspettati, dice
l'informatore, come l'elenco telefonico in due volumi della
capitale del Regno e una collezione della rivista mensile House
& Garden; nel secondo, oltre a ogni conforto anche d'epoca,
riportiamo le parole dell'informatore, un grande letto a due
piazze, dove il capo del DAGM induce numerosamente e
conclamatamente ad amori accademico-adulterini le sue
allieve predilette, alcune delle quali oggi sono divenute a tutti
note per aver percorso talune le scienze, altre le arti - è l'esito
degli studi d'Arte dei Giardini Mentali, del resto.
Stavolta il capo del DAGM ha invitato nella sua casa, insieme
agli altri, una nuova fanciulla di cui, come il nostro
informatore si limita a dire, si sarebbe fortemente
incapricciato. Durante una pausa, mentre la dozzina di ospiti
del capo si riposa nelle varie camere, o nel salone sito nell'ala
piccola della casa, delle fatiche accumulate durante il
seminario del mattino - fine settimana sì, ma di lavoro - il
nostro eroe, ci riferiamo al giovane S.C., armato come suo
solito di quaderni, penna, fogli e foglietti vari, si spinge
impavido fin dove si trova la stanza del capo allo scopo di
intrattenere la suddetta intelligentissima fanciulla su un punto
controverso saltato fuori durante il seminario del mattino.
Ritiene il nostro che la bella si trovi lì, e lì la trova seduta
comoda su un divanetto prossimo al letto a due piazze di cui
sopra; senza indugio, così è fatto il nostro, dice l'informatore,
la interroga su qualcosa che noi, semplici raccoglitori di
storielle, davvero non possiamo neppure immaginarci, tanto
grande è lo specialismo che circola nel DAGM.
La bella giovane intellettuale non manca di rispondere con
gentilezza al nostro eroe, peccato che ora giunga sul posto, da
una stanzetta, il capo, che intende sbrigare la pratica, a quanto
pare lui usa dire così, inerente l'accesso completo alle
indubitabili grazie della fanciulla. Nei limiti delle buone
maniere, che il capo del DAGM non varca mai, il nostro eroe,
S.C., viene buttato fuori dalla stanza del capo, e senz'altro
invitato a lasciare la casa medesima, eppure siamo soltanto al
sabato pomeriggio. Il nostro informatore aggiunge - è pur
sempre un concorrente del nostro eroe - che il futuro di costui
è segnato.
Nostalgia del Portogallo

La professione d'infermiere sociopsichiatrico domiciliare è tra


le più gravose, specie quando, come a me è capitato giorni or
sono, le persone da assistere sono due e l'operatore è uno
soltanto. Orbene, le mie assistite, Ada e Rosa, hanno ottanta
anni la seconda, cinquanta la prima. Ada soffre di depressione,
mentre Rosa è afflitta da una crescente demenza. Strana
coppia! Mentre m'intrattenevo in salotto con Ada tentando di
mostrarle l'animazione in atto nella piazza sottostante
l'appartamento (quarto piano), con la prospettiva di condurla
giù tra le bancarelle di una sorta di fiera cosiddetta portoghese
organizzata dal comune della nostra cittadina, ebbene sì, lo
confesso, per distrarla dalle sue paturnie; mentre insieme, dal
davanzale della finestra osservavamo incuriositi un
camioncino che transitava sul marciapiede, non sulla strada,
forse perché, ora che ci penso, la strada che gira intorno alla
piazza era occupata da saltimbanchi, venditori di libri usati e
di leccornie tutte „portoghesi“, merci ambitissime dalle
centinaia di persone convenute alla fiera, e parlavamo
tranquillamente del Portogallo, di cui Ada pareva sapere
molto più di me, che invece non ne so niente, sono stato colpito
dal pensiero che di Rosa nel frattempo mi ero dimenticato.
Sono allora uscito dal salotto e sono andato nella stanza di
Rosa, dove non ho trovato la mia demente. Sarà in cucina, mi
sono detto, ma in cucina Rosa non c'era; sarà in bagno, allora!
Infatti Rosa si trovava nella vasca piena d'acqua,
completamente distesa dentro, dimodoché, ho realizzato, non
potendo lei respirare, o era affogata o stava per affogare. L'ho
sollevata dall'acqua e ho tentato di rianimarla, logicamente
avevo molta paura che fosse morta; invece non era morta, ha
aperto un occhio, Rosa, poi l'altro, e mi ha fatto un sorrisetto
dei suoi, maliziosi. Rincuorato, rimproverandola senza
esagerare, l'ho messa in piedi e ho iniziato ad asciugarla; è
stato allora che ho fatto la seguente riflessione, molto veloce
devo dire: e Ada? Ho lasciato Rosa seduta su una poltrona
della sua stanza, dove l'avevo portata tenendola in braccio,
l'ho minacciata scherzosamente di non piantare più grane e di
aspettare buona lì, perché tra poco saremmo usciti per andare
alla fiera, e sono ritornato in salotto. Ritta sul davanzale della
finestra che dà sulla piazza, Ada stava volgendo la schiena
all'esterno, dimodoché non ho subito capito se aveva
intenzione di saltare giù in piazza, con le conseguenze
immaginabili per lei e per il mio futuro d'infermiere
psichiatrico a domicilio, o di balzare sul pavimento del salotto,
ipotesi più rassicurante.
"Che fai, Ada?", le ho domandato senza muovermi dalla
soglia della porta del salotto. "Che ci fai lì sopra?" "La
nostalgia del Portogallo mi uccide", ha risposto Ada, piccola,
agile, assai decorativa nella posizione che aveva assunto sul
davanzale, oltretutto si trovava controluce, e i segni della sua
afflizione risultavano dissimulati.
"Come sei bella, Ada!"- le ho detto.
"Lo so", ha risposto lei.
La cintura metamorfica

Le due signore, una dev'essere la moglie, l'altra la madre,


appaiono nel corridoio non appena noi siamo usciti dalla
stanza delle invenzioni, dove il nostro occasionale conoscente
ci ha sequestrato allo scopo di mostrarcene alcune.
Sono entrambe abbigliate in modo inappuntabile e sfogano
parte della loro ansia nella permanente, io credo, tanto hanno
la chioma intirizzita. Parte, insisto, e non mi sbaglio, infatti le
due signore sono sgomente, ci guardano con sospetto e
timidezza, timore d'una qualche catastrofe.
Mentre con una mano, la sinistra, cerco la mano della mia
compagna sbagliando completamente la mira - è in tutt'altro
angolo del suo corpo che trovo adagiate le mie dita - cerco
d'intrattenere le due diffidenti, di rassicurarle, primo che non
siamo malfattori, noi, secondo che abbiamo voglia di
andarcene; loro si premurano di girarci attorno, borbottano
qualcosa che infine intendo: la porta a vetri che indico
speranzoso non è quella che conduce all'uscita dalla villetta del
nostro occasionale conoscente, ma immette in un altro
corridoio che non termina se non in un successivo corridoio.
Tutti in fila come se fossero vagoni d'un convoglio ferroviario,
penso, ma non lo dico. E' come se tre villette una dietro l'altra
formassero un'unica abitazione. Forse le due signore e il
nostro occasionale conoscente, il signor Mori, occupano
ciascuno la sua fetta di treno, penso. Infine grido: "vogliamo
semplicemente uscire di qui, signora, niente paura!" - rivolto
alla meno anziana.
E' andata così, stavamo passeggiando in centro quando
abbiamo urtato in un tipo, poi presentatosi come signor Mori,
che mostrava senza pudore la sua rotonda pancia circondata
da una stretta cintura bianca. Subito ha infilato i pollici dentro
la cintura, al fianco destro e al sinistro, li ha ruotati e ha tirato
su l'esterno della cintura, fatta di due strisce sovrapposte, su
su fino a infilarci le braccia dentro, così che adesso i suoi
pantaloni erano sostenuti da cintura e bretelle. Formidabile.
Vincendo la mia timidezza e insieme le regole della buona
educazione, che dettano di non far domande in merito agli
accessori degli estranei, specie in strada, ho chiesto al tipo
dove avesse acquistato quella cintura, ho detto, metamorfica.
"Io sono il signor Mori", ha risposto lui, "e faccio l'inventore,
questa cintura che Lei, mio caro, si pregia di definire
metamorfica, è solo una delle creazioni che, se loro aggrada, io
potrò mostrar loro presso il mio laboratorio".
Senza chiedere il parere della mia compagna, si capisce, ho
avuto la debolezza di accettare, ed eccoci qui, adesso, reduci
dall'oscurità d'una stanza piena non d'invenzioni, ma di
oggetti indescrivibili che quindi non descriverò, e in balìa di
due signore della prima metà del secolo scorso, una la moglie,
forse, del signor Mori, l'altra forse la madre.
La vera invenzione del signor Mori, sembra essere il corridoio
che non finisce mai, penso - oltre, è ovvio, alla cintura
metamorfica.
Isteria piccolo-borghese

Il periodico trotzkista cui collaboro mi nega la pubblicazione


di un articolo. "Ma come?" - domando a un redattore che mi
riceve, per così dire, sulle scale che portano al giornale. "Ma
come? Avete cestinato il mio contributo alla discussione sulla
lotta degli insegnanti di sostegno? Che razza di compagni siete
?"
"Siamo comunisti", risponde il redattore, che, ora noto, regge
con la sinistra il manico di un grosso secchio d'acqua, "e non
pubblichiamo articoli che manchino, come il tuo, dei
parametri minimi di una concezione di classe della lotta nella
scuola."
"Ma io", replico, anzi, sto per replicare, infatti il redattore
solleva con entrambe le mani il secchio pieno d'acqua e me ne
versa una parte in testa, ciò che gli risulta agevole per il fatto
che mi trovo su uno scalino inferiore rispetto a lui. "Ma cosa
fai?"- grido. Al che lui mi versa in testa con precisione un altro
po' d'acqua. Dopo di che dice: "Vedi compagno, tu devi
moderare il tuo linguaggio, che appartiene all'isteria piccolo-
borghese. Noi dell'isteria piccolo-borghese non sappiamo che
farcene.
Estate o non estate

Mentre sto leggendo "Cuore di tenebra" entra mia zia, che in


effetti abita vicino a noi e spesso transita nelle nostre stanze
così come io transito nelle sue. Dopo pochi convenevoli
decidiamo di uscire, e io vedo che lei ha con sé il mio "Cuore di
tenebra", ma non faccio osservazioni, dal momento che mia
zia è fatta così e così bisogna prenderla. Camminiamo fino a
una piccola fonte e ci sediamo, mentre parliamo senza alcun
impegno io tento di far uscire l'acqua dal rubinetto della
fontanella premendo ripetutamente sul pomello di ottone. Di
acqua non ce n'è, in compenso una guardia comunale di
passaggio rimprovera me e mia zia a causa del nostro
abbigliamento piuttosto sommario. "Ma siamo in estate", io
protesto. "Estate o non estate, tornate a casa e vestitevi come
si deve", replica la guardia, e se ne va. Rimasti soli, mia zia è
presa da un attacco di riso convulso e rimane seduta in terra
con le gambe larghe, come una bambina, proprio non ne può
più dal ridere. Ne approfitto per esaminare il libro che si è
presa da me, "Cuore di tenebra", ma noto che non si tratta
della mia copia, infatti "Cuore di tenebra" occupa un verso
del volume, mentre l'altro verso contiene "Un briciolo di
fortuna". Non è la mia copia. Mentre lei seguita a singhiozzare
ripetendo con voce rotta dal riso "estate o non estate - estate o
non estate - estate o non estate", giunge sul posto mia madre
con la brocca in mano, infatti vorrebbe far scorta di acqua per
stasera. Ci guarda non senza disapprovazione, preme il
pomello d'ottone del rubinetto e inizia a riempire la sua
brocca.
San Cane

Ha attirato la nostra attenzione un trafiletto perso nelle pagine


della locale gazzetta:
"Durante le celebrazioni della Nona Giornata Cinofila un
pensionato in evidente stato di alterazione ha ripetutamente
disturbato i cittadini presenti nel parco cittadino con i loro
compagni a quattro zampe insultandoli e spintonandoli.
Segnalato ai gendarmi e invitato da questi ultimi ad
allontanarsi dal parco, il disturbatore si è messo a
sghignazzare sulla Nona Giornata Cinofila, da lui ridefinita
come 'festa di San Cane'. Ravvisati gli estremi della blasfemia
in tali parole del disturbatore, i gendarmi lo hanno rinchiuso
nel loro cellulare e poi condotto al locale ospedale
psichiatrico".
Bella copia

La signorina Elda, al ritorno da un suo soggiorno nella nostra


provincia, riferì ai suoi genitori di aver preso una stanza in
affitto da una famiglia residente sulle colline che circondano il
capoluogo - ciò allo scopo di approfondire la sua conoscenza
della città e insieme godere della tranquillità agreste. A causa
dell' inefficienza dei trasporti pubblici, la signorina Elda fu
costretta una sera a ricorrere non a un taxi, ma all'autostop,
per far ritorno a casa. Un uomo anziano le dette da ultimo il
passaggio. Costui, raccontò la signorina ai genitori, ma in
seguito anche ai suoi conoscenti, la intrattenne durante il non
brevissimo tragitto con varie considerazioni dimenticabili,
tuttavia tra queste le restò in mente la seguente rivelazione: il
capoluogo, aveva affermato l'anziano, non esiste più da molti
anni; al suo posto è stata installata una copia fatta apposta per
i turisti. Ma sembra una città vera, aveva replicato la
signorina Elda. Infatti, è una bella copia, aveva concluso
l'anziano.
La custodia

Un collega mi raccomandò suo figlio come artista, mi riferì che


il ragazzo dipingeva. Ebbene, risposi, mandamelo e vediamo
che cosa posso fare per lui. Intendevo alludere alla possibilità
di acquistare uno o due quadri, tutto qui. Il ragazzo capitò da
me; con una certa disinvoltura lasciò da una parte la sua
opera racchiusa in una sorta di custodia fatta di legno, e subito
se ne andò via senza quasi rispondere alle mie domande, del
resto generiche e forse paternalistiche. Rimasto solo
nell'androne di casa mia, che assomiglia a un fienile, non la
casa, l'androne, qua e là dotato perfino di vero fieno, iniziai a
schiodare le assi della custodia delle opere del figlio pittore del
mio collega. Era una bella custodia, si apriva come un libro, le
due diciamo facce erano unite da un'ottima cerniera ben
fissata da quattro viti. Per fortuna l'avevo schiodata senza
danneggiarla. Dentro la custodia non c'era alcun quadro, ne
dedussi che l'opera del ragazzo era la custodia stessa, che
sistemai in alto, le facce accostate, in una scansia del mio
androne, dov'è tuttora.
Eutanasia

Oggi morirò, lo so con certezza dal momento che faccio parte


di un progetto di eutanasia riservato a volontari, logicamente
siamo assai malati, tuttavia i malati gravi non possono sapere
che moriranno oggi o domani o tra un mese. Invece io e i miei
compagni lo sappiamo: moriremo oggi. Nella mia stanza
accanto a me c'è una malata cinese che si lamenta, è molto
preoccupata, mi trovo in piedi vicino al suo letto e la guardo: è
piccolina e si agita muovendo il busto e le braccia, non capisco
troppo bene quel che dice dal momento che parla male la mia
lingua e io ignoro la sua. Infine mi s'illumina il comprendonio:
la cinese sta tremando di paura perché si è messa in testa che
manca la sua bara. No ce bala, piagnucola. Ma no, sta'
tranquilla, le dico, sono mesi che stiamo qui e tutti sanno che
oggi moriremo, come vuoi che abbiano sbagliato il conto delle
bare?
Esco dalla mia stanza e mi muovo per i corridoi di questo
prestigioso centro di ricerca sull'eutanasia, poi cammino nel
parco antistante l'edificio, nessuno mi disturba, noi volontari
dell'eutanasia siamo sacri e anche intoccabili, per dirla tutta.
Oltrepasso il cancello e mi trovo in strada, è il viale Amadeo
Bordiga della mia adolescenza, mi godo questo preludio alla
morte: i passanti ora non sanno chi sono io, per fortuna
sprofondo nell'incognito mentre cammino tra gli alberi del
viale e la strada. Un'auto si ferma accanto a me, ne scende uno
dei nostri medici, mi abbraccia e mi mette in mano un piccolo
ciondolo di osso: buona fortuna, mi dice. Quante storie! Oggi
si muore, serve essere seri.
Visita al nuovo parco

Rotto ogni indugio, mi reco a visitare il nuovo grande parco


che l'amministrazione della provincia ha realizzato non
lontano da A. Arrivo molto presto in treno, poi prendo un
tram e finalmente posso vedere con i miei occhi il parco.
Consiste in due grandi, larghi e lunghi prati paralleli, l'uno si
trova assai più in basso dell'altro; sono collegati tra loro da
diverse scalette assai ripide, noto, mentre mi dico che mai e poi
mai alla mia età avrò il coraggio di scenderne una: oltretutto
sono prive di ringhiera! Nella parte alta del parco, quella dove
si accede dall'ingresso, ancora non c'è nessuno, se non un cane,
il cui padrone si trova nella parte bassa, e chiama la bestia,
che, non diversamente da me, non ha nessuna intenzione di
scendere. Blecchino! Blecchino! Tento di comunicare con
questo altro visitatore in merito al suo cane, ma la distanza
non consente di capirsi. Il cane del resto mi ignora, quindi
continuo a camminare sul prato guardando l'altro prato, fino
a quando non trovo un ascensore che permette ai pigri, ai vili e
ai disabili di passare senza fatica da un prato all'altro. Si
tratta di una costruzione che la provincia ha voluto realizzare
secondo le indicazioni di un famoso architetto, ispirata ai luna
park di una volta, questo il motivo per cui io ho tardato a
comprendere che invece essa è solo l'ascensore. Nel frattempo,
il giorno è festivo, diverse persone sono arrivate e com'è ovvio
sono in attesa del loro turno per salire o per scendere.
M'intrattengo con l'addetta interna all'ascensore, che
m'informa del prezzo della discesa: fanno otto talleri. Ecco
perché l'ingresso è gratuito, replico. Certo, precisa la giovane,
quasi nessuno sale o scende le scalette, che invece sono la vera
attrazione del parco. Ma anche questo ascensore è molto
attraente, dico io strizzandole l'occhio. Che fare? Infilarmi
nella cabina per passare di sotto? Otto talleri.
Ne valeva la pena.
Tornato in città mi colpisce il vuoto dei viali, li attraverso
liberamente con in mano la padella che ho acquistato nella
rivendita situata in corrispondenza con l'uscita del parco. Mi
ero dimenticato: si entra da un ingresso, si esce da un'altra
parte, obbligatoriamente.
Una iena

Quando mio nonno era giovane, andava di moda l'analisi,


voglio dire che alcuni intellettuali di varia qualità
perfezionavano la loro complessità mentale per mezzo di
incontri con altri intellettuali di livello vario, dottori in
qualche disciplina, spesso non medici, non psichiatri, che
tuttavia si facevano pagare molto denaro per alcune decine di
minuti di loro testimonianza passati in una stanza - la rima è
voluta. Orbene, mio nonno mi ha di recente raccontato che
una volta si era perso l'appuntamento con l'analista, una
signorina assai vivace, e che tentò di recuperare il tempo
mettendosi a pedalare come un forsennato verso il centro della
città, dove la signorina aveva il suo studio al piano nobile
d'uno splendido palazzo sul fiume. Per far prima prese
contromano una via a senso unico, ragion per cui si trovò a
dover schivare le auto, le moto e le bici che incontrava in
quantità, uscenti dal centro. A un tratto al nonno si parò
davanti un autobus da destra e il nonno ci urtò con violenza
sopra, fracassando la forcella della sua bicicletta. Dovette
fermarsi e render conto ai convenuti rappresentanti della
legge della sua condotta colpevole. Giovane e stolto (parole
sue) tentò di giustificarsi con l'argomento che aveva un
incontro immancabile con l'analista, ma i rappresentanti della
legge non gli dettero alcuno spago. L'incontro comunque era
perduto, i quarantacinque minuti in cui esso sarebbe
consistito, tuttavia, restavano da pagare, infatti: "seduta
fissata, seduta pagata". Poche erano le regole che mio nonno e
i suoi coetanei ai tempi rispettavano, tra queste la suddetta.
Del resto la signorina analista era una iena, conclude il nonno.
Divide et impera

Durante una camminata fuori città, dove certe stradine strette


e chiuse da muri vecchi portano lontano, dopo un abitato di
lusso trovo una bottega di generi alimentari, entro e chiedo
due fette di pane rustico e del prosciutto crudo salato. Il
gestore è un uomo non anziano, molto grasso, anche se
dev'essere dimagrito un poco, infatti i suoi pantaloni,
nonostante il ventre smisurato, gli vanno larghi. Inoltre ha un
fare molto dimesso, il gestore, non il ventre, e noto che il suo
abbigliamento potrebbe essere stato identico quaranta o
cinquanta anni or sono. Ha i capelli neri. Nel prepararmi quel
che ho chiesto lui parla, mi intrattiene con domande che non
aspettano una risposta, fa considerazioni varie sul tempo,
infine taglia in due metà le fette di pane con dentro il
prosciutto, rinvolta il tutto in carta oleata, poi lo ficca in un
sacchetto di carta e me lo porge. Perché, gli chiedo, ne ha fatte
due parti, io sono solo. Perché è più facile mangiarle, risponde,
e ride: Divide et impera! Ah, faccio io, e quanto pago? Sono
ventitré talleri, dice lui. Non male, replico, non male davvero.
E' il latino che alza il prezzo?
Non sarà facile

Vicina al corso del torrente, un uomo imbocca la vecchia salita


sterrata che sapeva praticabile come scorciatoia per la strada
provinciale; l'auto procede sotto il valido manovrare
dell'uomo, che accanto a sé ha una donna; i due parlano
tranquilli; la salita sterrata tuttavia si trasforma a un tratto in
una superficie di rocce, anzi, di scogli piatti, sì, ma ripidi;
l'auto stenta; dietro una curva i due vedono che la salita è
oramai stata occupata dall'acqua del torrente che scende
incontro a loro, limpidissima. "Forse, dico forse", è l'uomo a
parlare a voce piuttosto alta, "potremmo superare l'ostacolo di
questi scogli, e procedere, ma io preferisco far marcia
indietro". "Non sarà facile", replica la donna. "No", ammette
l'uomo.
Trasformazione

Un uomo si bagnava nell'acqua tranquilla di un fiume; stava a


galla, soltanto la sua testa era visibile; dalla riva del fiume
l'attenzione di un coccodrillo fu attirata da quella testa,
ragione per cui l'uomo che stava bagnandosi iniziò a vedere, a
sua volta, la testa del coccodrillo che gli si avvicinava. Quando
le due teste furono vicine circa un metro l'uomo iniziò a fissare
arditamente negli occhi il coccodrillo, in certo modo
drizzandosi, il mento in alto, lo sguardo dardeggiante; e la
testa del coccodrillo si trasformò nella testa di una fanciulla
bruna, tesa indietro tanto da farne immergere i capelli corti
nell'acqua. Noi, che stavamo in osservazione muta, ci
augurammo che anche il corpo del coccodrillo si fosse
trasformato in quello d'una fanciulla.
La maestra di canto

Sul balcone vicino vedo una signorina non giovane issata su


una sedia che dirige il canto di una bambina in piedi davanti a
lei. Quando il canto è terminato la maestra si china, afferra la
bambina per abbracciarla, poi si solleva di nuovo, perde
l'equilibrio e le due cadono nel sottostante cortile. Temo guai,
ma nessuna si fa male. Quando in strada capita che io incontri
la maestra di canto definita signorina, attiro la sua attenzione
sulla caduta nel cortile e minaccio di denunciarla a causa del
rischio che lei ha fatto correre alla bambina. Lei mi risponde:
"faccia pure", e mi porge il suo biglietto da visita
aggiungendo: "questi sono il mio nome cognome e indirizzo".
Sapidi pezzi satirici

Seduti a un tavolo di uno dei bar del campus universitario


dove esercitano la loro professione di studiosi e insegnanti, tre
uomini stanno ragionando dei loro eventuali trasferimenti in
altra sede universitaria, più prestigiosa. Essi sono: un anziano
che ha l'abitudine di portare una strana striscia orizzontale di
barba argentea - proprio ora al giovane che gli siede accanto
sembra (illusione ottica) un pezzo di fil di ferro che gli sutura
il mento; un altro, meno anziano, simpatico e disinvolto, che
indossa un gran cappotto sbottonato e sorride di tutto un po'.
Del giovane intento a infierire sull'anziano per mezzo di
fantasie tipo quella qui appena descritta, abbiamo già
accennato. Egli non sa se restare nel campus dove si trova o
passare, magari al seguito del collega simpatico di cui sopra,
nell'altra sede più prestigiosa. Pensa alla carriera, mentre gli
altri due all'incirca la hanno già realizzata. Non importa, il
simpaticone comunica agli altri due che ha intenzione di far
domanda per trasferirsi nel dipartimento di studi storici
dell'università di C. "Studi storici?" - domanda il giovane che
pensa alla sua carriera e ritiene non a torto di non possedere i
titoli per seguire il collega in questo dipartimento di studi
storici del cavolo, così lui lo definisce tra sé e sé. "Eh, sì!" -
risponde il simpaticone sorridendo allegro, "posso tentare e
non credo di fallire, io!"
Tra i tre cade il silenzio, così che ognuno di loro può udire il
baccano che regna nel bar. Al giovane è sembrato che il suo
collega simpatico si prendesse un po' gioco di lui, e forse non
sbaglia. Ma la stoccata gli viene da parte del collega anziano
con il mento ferrato: costui infatti rompe il silenzio e si rivolge
per nome al giovane come segue: "caro Anselmo, tu non sei
uno studioso in grado di esercitare la professione di
ricercatore, neppure nella nostra facoltà, che ti ha per così dire
visto nascere. Tu sei come un giornalista, sai scrivere dei sapidi
pezzi satirici o polemici, ma manchi di profondità, tu resti in
superficie! Tu sei un dilettante, in storia delle discipline
politiche, solo un dilettante".
Slabbrato pertugio

S.N., un quarantenne robusto, è stato sorpreso ieri sera


mentre, in compagnia del suo cane, tentava di penetrare
nell'area del cinema Chiardiluna attraverso un piccolo varco
nella rete di recinzione. Interrogato dalle autorità in merito
alla sua condotta N. ha risposto: "sono rimasto incastrato
nella rete e non riuscivo né a entrare né a uscire, in più dovevo
tenere il cane al guinzaglio perché logicamente si era
spaventato."
Richiesto di ulteriori spiegazioni N. ha aggiunto: "vista la
bella serata estiva avevo deciso di andare al cinema
Chiardiluna con il cane, una bestia buona e mansueta. Sono
arrivato al cinema in bicicletta con il cane che mi ha seguito al
trotto."
Al trotto.
"All' ingresso mi hanno vietato di entrare con il cane, eppure
ero disposto a pagare anche per lui; così ho ripensato a un
pertugio che mi ricordavo di aver usato fin da ragazzo per
vedere i film senza pagare il biglietto. Solo che allora ero
smilzo, e ora invece mi vedete."
Il suddetto S.N. ha dovuto pagare una multa di cento talleri
per i maltrattamenti inflitti, secondo le autorità, al cane, e i
danni alla proprietaria del cinema, signora V.G., giustamente
intervenuta a segnalare che il robusto N. aveva trasformato il
pertugio in una slabbrata voragine.
Espressionismo

L'interesse dell'artista H.S. per un suo modello, ritratto nel


suo recente dipinto espressionistico insieme ad altre figure
umane seminude, era probabilmente ricambiato dal modello
stesso, che H.S. ha voluto rappresentare in stato di erezione,
appena dissimulata dal panneggio.
Vige l'odio

Superate le consuete incertezze alla partenza da casa,


indossato lo zaino, controllata la presenza delle chiavi, non si
sa mai, m'incammino verso il non lontano edificio scolastico
dove da mesi dovrei aver iniziato il mio lavoro d'insegnante di
lettere, e dove invece ho evitato con la massima cura d'entrare.
Il mio scopo è chiedere finalmente scusa al preside e ai
colleghi, che mi avevano invitato con fiducia e che io ho
mancato di accontentare.
Mai entrato in questa scuola, prima d'oggi. Presto incontro
due uomini di mezza età, uno molto basso, l'altro molto alto,
vestiti entrambi con giacca camicia e cravatta, insomma: assai
come si deve. Non so quale dei due sia il preside, ma subito
inizio a parlare della mia assenza ingiustificata direi senza veli,
per quanto sia possibile farlo scansando l'indelicatezza. I due
mi ascoltano con indulgenza e addirittura con cordialità
mentre racconto del mio pensionamento anticipato che avrei
dovuto curarmi di comunicare alla scuola, posto che
dell'amministrazione dell'educazione nazionale non c'è molto
da fidarsi in fatto di efficienza e tempestività. Il basso mi
informa tuttavia della circostanza che la scuola invitante, così
dice, è privata, e che a loro non interessa se un insegnante è in
pensione o no. Avrei potuto informarmi meglio, aggiunge, ma
subito precisa: non importa, guardi, se vuole lei può iniziare
anche oggi, o domani, se non all'inizio del prossimo anno
scolastico. Nel dir così lui e l'alto mi fanno strada fino a una
grande stanza dove si trovano almeno una dozzina di persone,
uomini e donne, come credo si tratta dei miei mancati colleghi.
Al centro della sala un tavolo imbandito per un rinfresco. Mi
aspettavate? - domando mentre seguito dentro di me il mio
discorso di giustificazione, apertamente riconoscendo che a me
non piace più insegnare, anzi: che mi spaventa. No, non ti
aspettavamo, dice l'alto passando al tu da colleghi, è nostra
abitudine ritrovarci una volta al mese per una festicciola tra
noi.
Ci sediamo e tutti sembrano assai interessati al mio caso e alle
cose che dico. Sto semplicemente ripetendo la storia del
pensionamento, tutto qui. Il clima è cordiale e per la verità
non manco di scorgere due o tre colleghe alquanto piacenti.
Parla che ti parla finisco quasi per confessare il mio rifiuto
dell'insegnamento, la mia paura degli allievi, che pure qui
sono piccini dai dieci ai tredici anni, eppure.
Ma che vuoi che sia, dice una delle colleghe avvenenti, che si
trova seduta accanto a me. Anche noi odiamo insegnare. Sì sì,
dicono i due uomini che ho incontrato nell'atrio, i due presidi
della scuola, se ciò non fosse assurdo. Due presidi!
Sì sì, anche noi odiamo insegnare, e anche i ragazzi odiano
imparare, qui vige l'odio, ah ah ah!
Campanilismo

Invitato a tenere una conversazione presso il circolo borghese


della nostra cittadina sull'interessante fenomeno
dell'indifferenza della maggioranza degli abitanti delle città
cosiddette d'arte - come la nostra - nei confronti dei tesori in
esse presenti, il relatore si concede di allargare il suo discorso,
com'è giusto, ad alcuni altri centri vicini. Sostiene che
l'abitante della città d'arte darebbe per scontata la presenza
dei suddetti tesori, finendo per dimenticarsene; non solo,
l'abitante di una regione come la nostra, assai ricca di storia,
arte e architettura, allargherebbe tale atteggiamento anche
alle altre città della sua regione.
Un mormorio sale dall'uditorio; il relatore ne riconosce
l'accento, e gli par di udire le seguenti minacciose parole: "e ti
conviene, a te, di non venirci, a P.!"
Divertito dal disturbo, egli continua a leggere il suo testo,
insieme provando però sentimenti di invidia per
quell'ascoltatore che si è appena prodotto nella sua simpatica
minaccia campanilistica. Vorrebbe trovarsi al suo posto.
Baldoria

Una famiglia proveniente dal vicino regno di Baldoria ha da


qualche mese acquistato la parte fin qui rimasta sfitta
dell'edificio che noi abitiamo. Costoro hanno provveduto ad
aprire un ingresso nuovo, chiudendo quello vecchio, che si
trovava accanto alla nostra porta. Si è trattato di lavori
effettuati in fretta e senza alcun nostro disturbo. Al loro
termine i nostri vicini, che parlano bene la nostra lingua, e sia
pure con l'accento tipico dei baldoriesi, hanno organizzato una
festa con una quantità di loro connazionali. La festa,
logicamente allargata al prato che circonda l'edificio da noi fin
qui abitato in solitudine, si è protratta all'incirca per dodici
ore, terminando attorno alle sette del mattino, tra bevute,
mangiate, balli e canti suonati da un'orchestrina baldoriese. Ai
gendarmi da noi chiamati sul posto verso le due del mattino
affinché ponessero termine al chiasso, i nostri nuovi vicini
hanno offerto dolci di Baldoria; hanno quindi senza indugio
invitato i militi a unirsi alla festa, presente devo dire un
considerevole numero di avvenenti fanciulle vestire con abiti
dell'antica Baldoria. Alle otto del mattino, insonne, ho
intravisto l'indefesso capo famiglia dei vicini uscire per recarsi
suppongo al suo lavoro. L'uomo, mio coetaneo, mi ha salutato
con il tipico gesto dei baldoriesi.
I segreti del borgomastro

Il lago aveva forma pressoché quadrata. Se non ci avessero


ripetuto che si trattava di un lago naturale, avremmo creduto
che fosse un bacino artificiale creato per attirare turisti e
bagnanti, come eravamo noi.
Oramai sono passati molti anni da quella vacanza sul lago di
M., e molti dettagli mi sfuggono. Ricordo però che
un'escursione in collina si fermò di colpo: un baratro invisibile
da lontano ci ferì la vista, o meglio ci obbligò a spenzolarci sul
lago, all'incirca. Da restare senza respiro. La mamma non
volle saperne, si volse e s'incamminò sul sentiero del ritorno,
noialtri ci trattenemmo e iniziammo a indicarci questo o quel
particolare del lago che adesso ci appariva come su una carta
geografica.
Il castello prossimo alla riva confinante con la contea di M.
dall'alto ci sembrò ancora più consumato dal tempo, quasi
fosse un colossale scoglio di arenaria, eppure il giorno prima,
credo, ci eravamo stati a far tuffi nell'acqua gelida. I segreti
che ci avevano resi perplessi si aprirono, da quella terrazza
naturale, se lo era. Notammo per esempio che il nostro albergo
e il palazzo del municipio erano contigui, cosa che fin lì, a
causa dell'intrigo dei vicoli, ci era sfuggita. Ecco perché il
borgomastro si fermava tanto spesso a bere un bicchiere nella
taverna dell'albergo.
Ci domandammo se tra il nostro albergo e il municipio ci fosse
magari un passaggio, ma mio fratello minore gridò che a lui
dei segreti del borgomastro non gl'importava nulla.
Peccato, perché poi avremmo saputo che il tipo era anche
proprietario dell'albergo, e che i suoi segreti ce li avrebbe fatti
pagare in bei talleri, al momento della partenza.
Le magie del lago di M. sono oramai materia irrecuperabile, è
curioso che mi ricordi soprattutto di queste piccolezze
riguardanti una persona, il borgomastro, che com'è naturale
non ho più rivisto.
Foca monaca

Scritta una lettera al quotidiano locale in merito alle attività


pubbliche di un personaggio che non mi piace, e senza usare la
cautela necessaria, senza in altri termini procedere alla
cattolica - si dice il peccato, non il peccatore - trovo in bacheca,
nel corridoio dell'ufficio dove mi guadagno da vivere, un
ritaglio del quotidiano locale con su la mia lettera, posto in
bella evidenza e corredato da un frego nero e da una scritta.
Non lusinghiera, di questi tempi. Mi si segnala come
"antisemita" perché il malversatore oggetto della mia lettera
al quotidiano locale, guarda un po', sarebbe un ebreo. Non lo
sapevo. Ho pestato un callo, forse due, non soltanto a un uomo
politico abbastanza noto, ma insieme a un membro della
comunità ebraica, che è divenuta intoccabile, neanche con un
fiore si può urtarne l'enorme suscettibilità. Oramai sono fritto,
mi dico mentre mi avvio verso la mia stanza per iniziare la
giornata di lavoro. Sarò ostracizzato, dovrò attendere che
l'onda passi e si ristabilisca l'indifferenza del mondo nei miei
confronti. Tornato a casa, mi s'informa che dal quotidiano
locale ha telefonato la segretaria del giornalista Mesto
Filucchi, per prendere un appuntamento con me. Il Filucchi
vuole intervistarmi, infatti pare che di "antisemiti" nella
nostra cittadina non se ne siano più segnalati da decenni. Ma
pensa, osservo io, riflettendo però ai tempi lontani di cui il
nonno sempre tornava a parlare, tempi durante i quali andava
benone essere "antisemiti", e anzi anche il nostro quotidiano
sparava titoli "antisemiti" ogni due per tre, specie dopo che il
Sovrano ebbe a bandire gli ebrei dal Regno. Mi rendo conto
dunque di essere divenuto, senza volere, un caso raro, un
animale raro, una foca monaca. E, non lo nascondo, un poco
me ne compiaccio.
La madre del poeta

Sapendomi letterato, la madre del poeta emergente della


nostra città mi ha chiesto di partecipare alla presentazione
dell'ultima raccolta di poesie di suo figlio, o meglio, lo ha
chiesto a mia madre, sua amica. Mia madre mi ha brevemente
accennato all'evento e ha lasciato il libretto del poeta sul mio
tavolo, dove in breve tempo è però rimasto celato sotto fogli,
fascicoli e altri libri. Da ultimo mi ha ricordato che domani ci
sarà la presentazione, ma com'è naturale io non ho neppure
aperto il libretto del poeta, figlio dell' amica di mia madre,
Lella. Mentre cerco di orientarmi nella poesia di questa
giovane promessa saltando da un verso all'altro, da una
pagina all'altra, giusto per avere, domani, qualcosa da dire
quando sarà il mio turno di prendere la parola, sbuffando, mi
accorgo all'improvviso che la Lella sta arrampicandosi sul
glicine che prospera lungo una parete di casa nostra, sta
afferrandosi alla balaustra del balcone della mia stanza, e
infine sta entrando nella mia stanza, per la verità aiutata da
mia madre, accorsa a causa del forte frusciare del corpo della
Lella sul povero glicine. La Lella è una piacente signora dai
capelli corti e ricci, forte di zigomi e dotata di labbra
pronunciate, alta, com'è ovvio atletica; entra senz'altro nella
stanza dove io ero intento a rendermi pratico della poesia di
suo figlio, insieme a mia madre, e subito mi abbraccia
sussurrandomi parole che indicano il suo piacere di avermi
incontrato dopo tanto tempo. Incontrato?
Delicatezza

Il signor C. un giorno cambia il suo orario solito e apre la


porta dell'appartamento dove vive con la moglie e i figli. Sono
circa le ore quattordici, nella stanza da pranzo il signor C.
trova un giovanotto sconosciuto intento a trasferire, per mezzo
di un cucchiaio, una certa quantità di materia giallastra dal
piatto, che tiene nella mano sinistra, dentro un recipiente, in
famiglia denominato Vaso Capodimonte. Dimenticandosi di
domandare al giovanotto chi sia, il signor C. chiede invece:
"Che cosa fa?". Il giovanotto risponde avvicinandosi al naso
l'indice teso della mano destra, per altro impegnata con il
cucchiaio, e ammicca in direzione della stanza accanto. "Non
le piace lo sformato di mia moglie?"- domanda il signor C..
"Sa com'è", risponde a voce bassa il giovanotto, e finalmente il
signor C. gli domanda: "Ma lei che cosa ci fa, qui?". Il
giovanotto, concluso il trasferimento dello sformato nel Vaso
Capodimonte, si rimette seduto e racconta: "Io sono un
impiegato della vicina agenzia della cassa di risparmio, sa
dove? E da qualche tempo trascorro la pausa come ospite di
Sua moglie, signor C., naturalmente a pagamento." "Tipo
trattoria?" - domanda il padrone di casa. "All'incirca",
risponde il giovanotto, che tenta, tra una parola e l'altra, di
finire le zucchine trifolate che restano nel piatto. "Non ne
sapevo niente", pensa a voce alta il signor C., "ma mi dica: se
non le piace lo sformato, perché lo infila nel Vaso
Capodimonte, invece di lasciarlo nel piatto?" "E' una
questione di delicatezza", risponde il giovanotto.
Pro Loco

Durante una passeggiata in prossimità del celebre borgo che ci


aveva attirati per le sue rinomate focaccine allo zenzero,
abbiamo notato al margine d'un camminamento lastricato di
pietre che una di esse aveva murato al centro un grosso anello
di ferro, ragione per cui ci siamo interrogati sulla funzione,
certo risalente al passato, di tale oggetto. Abbiamo concluso
che doveva servire ai nostri padri, nonni e così via per legarci
l'asino, o il mulo, o magari il cavallo. Ritornati nel borgo
abbiamo interrogato un addetto della Pro Loco, il quale ci ha
fatto i suoi complimenti, forse ironici, per quella che ha
definito la nostra perspicacia, ma ha aggiunto che i nostri
padri e i nostri nonni usavano gli anelli fissati al suolo, se non
a qualche pietra muraria, come quello visto da noi, anche per
legarci le loro donne quando essi avevano da fare qualcosa di
urgente e comunque non adatto alla presenza femminile. Ma
non potevano slegarsi, le donne? - abbiamo domandato.
Potevano, ma non dovevano, ha risposto l'addetto della Pro
Loco.
Linimento

Dei giovani improvvisatori di calcio stradale trascurano il


transito dei mezzi a motore (e a pedali) che durante il giorno è
assai fitto in questa parte della città. Passando da dove si gioca
io sono colpito da una pallonata non pesante, ma lo stesso non
credo che sia giusto che pochi fresconi impegnino
abusivamente tutta la strada e il marciapiede. In effetti sono
assai spericolati e abili, riescono a giocare nonostante che il
gioco sia di continuo messo a repentaglio da tutto il resto, che
gioco non è - forse! Non importa, per filosofare avrò tempo più
tardi, ora protesto e mi trovo a dover disputare il pallone con
alcuni dei fresconi attirando così l'attenzione dei vigili urbani
che, guarda un po', hanno lì vicino una loro sede.
Un vigile si avvicina, s'informa di quel che sta accadendo,
pacifica gli animi, restituisce ai fresconi il pallone che io
continuavo a tenere tra le mani e m'invita nel suo ufficio.
Scopro che lui e i suoi camerati non solo sanno bene che ogni
giorno i fresconi del gioco del calcio creano disagi al traffico,
ma che ci convivono benissimo, con tale disagio. Il sapiente
vigile mi suggerisce l'idea che sia io in realtà il disturbatore
dell'equilibrio tra il traffico e il gioco che lo rompe senza
tregua a mo' di linimento socioambientale.
Manca poco che non mi applichi una sanzione.
Emergenza

La nostra abitazione si trova in collina proprio lungo un viale


alberato molto gradevole. Oggi però strani animali dotati di
artigli e denti affilatissimi vi si aggirano, pare che si tratti di
un pericolo che riguarda tutta la città. Parecchi feriti
sanguinanti hanno trovato rifugio in casa nostra, che non è un
pronto soccorso, però; ragione per cui io cerco di telefonare a
chi di dovere per sostegno medico, informazioni su queste
bestiacce feroci e su ciò che ci dobbiamo aspettare in termini
di intervento armato. Mi pare che sia il caso di schiodare
l'esercito dalle sue caserme. Non risponde nessuno, o meglio le
linee sono occupate, c'è da credere, dai molti disgraziati che
cercano aiuto. Non che sia restato chiuso in casa, finora, infatti
dopo aver visto il primo e unico mostro, stamani, in verità un
pacifico ippopotamo dotato di singolare lunghezza che
transitava lento e quasi comico sul viale, ho spinto la mia
motocicletta dentro il garage, non si sa mai. Tra i nostri ospiti
quelli che sono in grado di parlare (perché hanno subito graffi
leggeri e non fenditure all'incirca letali) descrivono i mostri
facendo ricorso, a me pare, a immagini da loro immagazzinate
mentalmente nel corso di visioni più o meno remote di film di
fantascienza, procedimento che trovo poco serio.
Promozione

Ignorare i dettagli aiuta a vedere, al contrario la competenza


dettagliata acceca: mi lascio andare a questa riflessione
intanto che cerco la strada nel quartiere dove siamo venuti ad
abitare a causa del trasferimento di mia moglie nella capitale.
Vicino, si fa per dire, al luogo di lavoro di mia moglie non c'era
di meglio da trovare, tuttavia io oggi mi sono perduto e non
sono capace di raggiungere lo spaccio di generi alimentari
indicatomi con sicurezza dai vicini, né di far ritorno a casa, se
casa si può definire il posto dove ci siamo trasferiti. Non c'è
una ragnatela, non una crepa nel muro, l'illuminazione
funziona alla perfezione, come il sistema di climatizzazione e
l'acqua calda, sempre abbondante e ben regolabile. Ah, che
nostalgia ho della topaia dove vivevamo nel centro della nostra
vecchia cittadina, sempre a cambiar lampadine, a riparare
tubi, a stuccare crepe, a risalire le scale a piedi causa rottura
dell'ascensore, attività tutte, a parte l'ultima, in cui io eccellevo
e davo il mio contributo alla famiglia. E ora invece.
Questo quartiere dove mi sono perduto mi ricorda in grande
l'edilizia che distrattamente mi è capitato di osservare in certe
cittadine di mare, è come se mi trovassi in vacanza scontento
per un mese, quindici giorni, invece qui ci dovremo restare fin
quando l'architrave della famiglia non avrà completato il suo
incarico presso il ministero dei lavori pubblici, di cui è alta
dirigente, promossa da poco.
Mi avevano detto i vicini stamani che dovevo andare giù per il
viale, poi girare a sinistra, e che avrei trovato lo spaccio di
generi alimentari, ma di viali ce ne sono due, ho scelto il
secondo, uguale al primo, e ora veramente non so se mi trovo
nel secondo o nel primo, se in fondo o in cima, tutti sono al
lavoro, nessuno da interrogare. Mi attengo alla mia riflessione:
ignorare i dettagli umani di questo quartiere, che tra un po' di
tempo non mi sfuggiranno, mi aiuta a vederne la bruttezza,
prima di perdere la vista a causa dell'abitudine.
L'arenile

Una mia giovane conoscente mi ha proposto di partecipare a


una iniziativa, ha detto, politico-culturale a sfondo, ha
precisato, neofemministico, non appena ci eravamo incontrati
dopo che, poche decine di metri lontano, ero riuscito a
oltrepassare un ostacolo alquanto penoso. Diversi giovani
donne avevano fatto, di un lato della via Dufour, un arenile
dove stavano distese a prendere il sole in costume da bagno.
Umido, anche. Alcune dormivano. I passanti dovevano
transitare lungo gli edifici in poco spazio, se non volevano
esporsi al traffico, uno alla volta, dandosi il turno. Ragione per
cui io ero restato davanti a una signora che non intendeva
neppure sfiorare con le sue scarpette l'arenile umido pieno
zeppo di corpi seminudi abbastanza impiastricciati di sabbia,
disseminato di sandali e ciabatte. Ti sposti tu, no, mi sposto io,
dicevano i nostri occhi fissandosi a vicenda. E un uomo dietro
di lei mi mostrava i denti. "Farò posto alla signora", avevo
detto infine a quest'uomo, "ma non a Lei". Dopo poche decine
di metri incontro la mia giovane conoscente, ci fermiamo a
chiacchierare e lei mi propone di scrivere un articolo per la
rivista che il suo circolo politico-culturale ha intenzione di
pubblicare. La seguo in un negozio trasformato in circolo,
vedo che dentro c'è un certo disordine di sedie e tavoli
ammonticchiati, una scrivania e una donna seduta davanti a
molte carte sparse. Pile di fascicoletti rossi e bianchi stanno
appoggiati al davanzale di una finestra chiusa. E' scuro. La
mia giovane conoscente, una studentessa cui ricordo di aver
consigliato titoli e argomenti ai tempi della sua tesi di laurea
su Sibilla Aleramo, mi mette in mano un fascicoletto e mi
chiede di versare un obolo di sostegno al circolo. Rispondo che
se lei e i suoi vogliono che io scriva qualcosa per la loro rivista,
ma che cosa? - devono pagarmi, non chiedermi denaro, per
quanto sia poco. "E poi non so niente di neofemminismo, io",
aggiungo. "Piuttosto", continuo, "non hai visto la spiaggetta
che hanno improvvisato quelle tipe in via Dufour?" "Certo
che l'ho vista", replica la mia giovane conoscente, "siamo noi
che abbiamo pensato questa provocazione balneare. Ecco,
conclude, potresti scrivere un articolo su questo evento".
Sequestro

La madre e la sorella della donna con cui m'intrattenevo su un


largo letto chiamano allarmate la loro congiunta da dietro la
porta. E' un trucco per far cessare ciò che a loro pare
sconveniente e per sequestrare la rea, maritata con un omone
al momento assente. Esco dalla casa e vedo la reclusa che
guarda verso di me da dietro il vetro di una finestra. Gesticola.
Grido: "è un sequestro di persona! Vi denuncio!"
Prendo la via, controllo il numero civico della casa, in effetti
verifico anche il nome della strada. Siamo in campagna. Su
una targa leggo lettere consumate: San Simpliciano. Corro alla
ricerca di una gendarmeria dove esporre il caso. Transito
lungamente senza trovare nulla, ciò mi dà il tempo di pensare
che i gendarmi mi domanderanno il quando il come il perché
del sequestro della mia bella. In questa provincia rischio di
venir perseguito come adultero, altro che storie! Mentalmente
vedo il marito della sequestrata, minaccioso.
Movimento

Sotto la porta da cui si accede alla cittadina vedo due strani


tipi di autostoppisti. Già ho dovuto evitare in successione due
gatti acciambellati nel mezzo della strada provinciale, non so
come ho fatto a restare in carreggiata, e loro fermi, niente,
neanche una mossa. Adesso questi due, sono un uomo e una
donna, riesco a capire, nonostante che siano coperti entrambi
da lunghe pellicce e che in testa portino cappelli di pelo.
Hanno perfino una borraccia a tracolla, senza contare i
bagagli. Mi fermo. Chiedono un passaggio; avevo ragione, mi
dico, sono autostoppisti. "Va bene", rispondo, "ma io arrivo
solo a I., sono pochi chilometri. Se volete". "D'accordo",
risponde la donna, e iniziano a caricare i loro bagagli. Da
ultimo si riparte, e tanto per dire qualcosa domando dove sono
diretti. "Andiamo nella capitale", risponde lei.
"Perdincibacco!" - faccio io, "la capitale è a sud, e invece I. si
trova a nord". "Non importa", replica lei, "quel che conta è
muoversi, piuttosto: cosa significa perdincibacco?"
L'artista della penetrazione

Quando nelle province lontane del regno potevano ancora


esibirsi artisti vari (durante le fiere, ma più spesso la domenica
in certi piccoli teatri), l'atleta Enzo Greci era piuttosto noto a
causa della sua specialità. Prodigiosamente dotato in fatto di
attributi virili, ripeteva i suoi amplessi a pagamento con pochi
intervalli tra l'uno e l'altro cliente, femminile o maschile che
fosse, al riparo dai curiosi. Ragione per cui le sue erano
esibizioni per modo di dire. Nelle cittadine visitate da Greci si
discuteva, com'è naturale, su chi e quando avesse fruito delle
penetrazioni erogate dall'artista, e si spettegolava. Era ciò, in
definitiva, a consolidarne la fama. Il nonno aveva assistito
all'atto - "ma no, cosa hai capito?"- sorrideva - all'atto finale
della decadenza di Greci. Divenuto quasi anziano e un poco
meno prestante non solo di aspetto, ma anche in fatto di
penetrazioni, impoverito e comunque ridotto a prestarsi in
certe losche taverne, appena dietro un sipario improvvisato,
una sera d'autunno l'artista, dopo l'ultimo amplesso della
giornata, si era buttato su una coperta stesa sul pavimento, per
riposarsi. Qualcuno, impietosito dallo stato miserando di quel
corpo oramai così poco atletico, gli aveva messo sopra una
tovaglia rimediata lì per lì. Greci si addormentò, raccontava il
nonno; a notte la taverna fu chiusa, nessuno fece caso
all'artista sdraiato sul pavimento. Fu il freddo stavolta,
l'ultima, a penetrare lui.
Il tipo della poltrona

Il nonno si era deciso ad affittare, meublé, una sua casetta che


aveva il pregio di trovarsi appena fuori città, dove iniziano i
prati. Logicamente si disinteressava della correttezza del
locatario: omnia munda mundis, diceva il nonno, credendo che
noi capissimo il significato di quella formula. Un giorno pensai
di andare in visita dal locatario della casetta. L'affitto mensile
lo pagava, questo sì, o almeno il nonno affermava che lo
pagasse. Trovai il portone aperto, salii al piano e bussai. Era
socchiusa, la porta. Conoscevo la casa, quindi rimasi sorpreso
dai cambiamenti dell'arredamento. Un tipo, doveva essere il
locatario, mi fece accomodare su un divanetto, si piazzò
davanti a me su una poltrona, cioè, non proprio davanti, ma
un po' di lato, e tacque. Non sapevo da dove cominciare,
oltretutto l'idea di venire ai Prati, per dirla con il nonno, era
stata mia, non ero insomma autorizzato. "Non so da dove
cominciare", dissi, guardando il tipo seduto davanti a me.
"Non importa", replicò, "inizi da dove vuole, di mete ne
abbiamo". "Sono qui per conto di mio nonno", dissi allora, e
lui annuì tacendo. "Mio nonno si disinteressa delle sue
proprietà", continuai. Silenzio. "Non che il nonno sia una
persona trascurata, no no, è anzi un uomo che ha delle
qualità". "Proprietà, qualità", mi parve che cantilenasse,
quasi, il tipo. "Certo", feci io, "proprietà, sì, anche nel senso
immateriale". "Immateriale", sottolineò lui, il tipo, forse il
locatario, forse no. "Lei è il locatario?" - domandai. Non
rispose. "Lei conosce il proprietario di questo appartamento?"
- domandai ancora. "Lei lo conosce?" - rispose. "Certo che lo
conosco, è mio nonno!'"
Avevo l'impressione che questo tizio mi prendesse per il
bavero, intanto i minuti, anzi le decine di minuti passavano,
ero seduto lì davanti al tipo da un pezzo.
"Bene, per oggi ci fermiamo qui", disse, "abbiamo iniziato a
mettere in forma la scansione proprietà-qualità-conoscenza
nel segno del padre", disse, al che io replicai che veramente io
avevo parlato del nonno, mio nonno, e non del padre; ma lui, il
tipo, già si era alzato dalla sua poltrona e stava
accompagnandomi alla porta.
Scendendo le scale com'è naturale provai una certa
perplessità, soprattutto perché il tipo della poltrona mi aveva
fissato un appuntamento a due giorni dopo.
Casa Barbuta

Appena sbarcato sull'isola cercai l'ufficio postale allo scopo di


aprire una casella di fermo posta. Di uffici postali nell'isola ce
ne erano due, questo e l'altro sulla costa nord, ai tempi. In
corso d'opera attaccò discorso con me una cinquantenne che
non richiesta m'informò del fatto che lei non era un'isolana,
ma proveniva dal continente, "sono originaria di T.", disse
sorridendo. Si trovava nell'ufficio per ritirare la sua posta,
infatti abitava in collina, "lassù", aggiunse facendo un segno
con la mano destra aperta verso il nulla, sito tuttavia in alto.
Usciti che fummo dall'ufficio la donna m'invitò a sedere
insieme a lei a un tavolino del bar più prossimo,
indubbiamente esposto al porto e alle relative grazie.
Nonostante che avesse un bel po' di anni più di me, nonostante
la mise, rossa, e la tintura dei capelli, corvina, nonostante che
fossi venuto sull'isola per riposarmi, la donna riuscì a
trattenermi diverse decine di minuti al tavolino del bar, certo
perché mentre lei parlava io guardavo da ogni parte fuorché
dalla sua, ma non solo. Era appetitosa.
Sapute le mie ragioni di vacanza, rese vaghe ancora di più a
causa delle poche parole che io mi consentii con la sconosciuta,
Teresa, a un tratto lei mi propose scherzosa di farci compagnia
"tra noi stranieri", disse.
Accettai la sua proposta- "ma anche subito, ora".
Teresa mi diede sorridendo le istruzioni per raggiungerla
"lassù", dopo di che ci separammo, io per depositare il
bagaglio all'albergo, lei perché doveva andare dal
parrucchiere, almeno disse così, né fui in grado di apprezzare
il risultato, infatti non la rividi mai più.
Seguii qualche ora più tardi le sue istruzioni, infatti, ma mi
persi a mezza costa e fui costretto a domandarne ad altri
residenti, i quali credevano tutti di sapere dove abitava "la
Teresa", ma, come scoprii, l'isola mancava di toponomastica.
Voleva dire affidarsi alle parole dei residenti, isolani e non, alle
loro concezioni di "largo", di "stretto", di "ripido", di
"boschetto ceduo", alla loro bambinesca sicumera che uno
straniero non potesse non comprenderli. Mi davano
immancabilmente del tu, certo ero giovane, ma lo stesso
m'irritavo: "Sai dove? Dopo Casa Barbuta!"
Dopo ore di tentativi inutili della Teresa ne ebbi abbastanza, e
feci ritorno "giù". Fu una magnifica vacanza.
Piccola, verde e non pulitissima

Nel nostro Paese d'origine non sei accolto nei grandi alberghi
se non mostri di appartenere alla classe dei Signori. Costoro
sono persone ricche e potenti, dignitari dello Stato, industriali,
grandi commercianti oppure membri della Nobiltà - non dico
che debbano appartenere alla Corte, in questo il nostro
Sovrano è alquanto liberale. I Signori pervengono ai grandi
alberghi e scendono da automobili nere, in genere, di ottima
marca, e subito fanno portare la loro splendida valigeria da
stuoli di inservienti ossequiosi. Io, come conseguenza del fatto
che non faccio parte della classe dei Signori, non ho mai
neppure provato a accostarmi a un grande albergo, che
comunque non potrei permettermi, dal momento che una
stanza, una sola stanza, non una suite, costa fino a duemila
talleri al giorno.
Durante il mio recente viaggio di nozze all'estero, lo confesso,
ho tentato di farmi amare ancor di più dalla mia sposa
esibendo una sfrontata sosta davanti al miglior albergo di F.,
certo interiormente, però, che mi avrebbero respinto a motivo
della modestia della nostra automobile, piccola, verde e non
pulitissima.
Si sa, il viaggio!
Con mia grande sorpresa invece siamo stati accolti in modo
cordiale e rispettoso insieme dal personale dell'albergo, e
gl'inservienti ci hanno portato in camera le nostre borse di tela
cerata, invero alquanto sdrucite, ciò che fa fino in certi
ambienti del nostro Paese, ma che riceve immediata ripulsa
dal personale responsabile dei nostri grandi alberghi.
La mia esibizione di sfrontatezza diretta a conquistare
l'ammirazione totale della mia diletta sposa - non serve
precisare che il cuore femminile è sensibile alla sfrontatezza
maschile - mi è costata ottocento corone, mille dei nostri
talleri, ragione per cui il nostro viaggio di nozze si è dovuto
ridurre di alcuni giorni.
Avrei dovuto studiare in anticipo le abitudini sociali dei Paesi
scelti da me per il mio viaggio di nozze.
La sposa ha tenuto per settimane il muso.
Parenti stretti

Mia cugina è affranta; "Stasera sei a cena dai Pappano!" -


geme. Si aspettava che restassi ancora qui dai suoi, ed è
l'ultimo mio giorno in questa città. Non singhiozzo, io, ma sono
allarmato dalla prospettiva della cena dai Pappano, prevedo
sei o sette portate, brindisi, dolci, indugi infiniti, prima di
potermene tornare, spero con le mie gambe, in albergo.
Domattina all'alba, se sarò ancora vivo dopo la cena dai
Pappano, potrò finalmente partire e tornare nella mia avara
cittadina, dove mi nutro di minuzzoli e gocce.
Ma chi sono i Pappano?
Mario Fara, mio zio, ha una sorella che si chiama Elena,
sposata con Francesco Pappano. Tutti miei zii, sono, Fara o
Pappano.
Zii, cugini, cugine, ospiti prepotenti. Sono riuscito a mala pena
a salvare qualche ora per ciò che avevo da fare in questa
lontana città, dopo aver fatto l'errore di annunciare agli zii
Fara e Pappano il mio arrivo "per lavoro".
Si valuti solo questo, per capire. Domenica, dopo un pranzo
iniziato alle due e ancora non terminato alle cinque, presenti i
Fara e i Pappano, io ospite d'onore, qualcuno, certo
incoraggiato da zio Mario e da zio Francesco, ha sgonfiato le
ruote della mia auto per impedirmi di tornare in albergo.
"No! Stasera sei a cena dai Pappano!", singhiozza mia cugina
Michela.
Spumante

La clinica psichiatrica dove fui ricoverato all'incirca quaranta


anni or sono mi ha visto transitare pian piano dalla condizione
di malato a quella di collaboratore tuttofare, si può dire che ho
realizzato una certa qual carriera. Negli ultimi dieci anni pur
non dimettendomi la Direzione mi ha concesso di muovermi
nei reparti e di rendermi utile, come ho accennato, in modo
vario. Naturalmente ho stretto molte amicizie, anche qualche
inimicizia, ma oggi, giorno della mia dimissione (sono infatti
troppo vecchio per restare nella clinica, semmai sarei buono
per l'ospizio), non voglio ricordare che le cose buone. E' stata
organizzata una festicciola tutta per me, e sono presenti tutte
le persone, quelle che contano e quelle che non contano. Le
prime fanno gruppo a sé. Salutati i poveretti come me,
gl'infermieri, gl'impiegati, promesso che ci rivedremo
(naturalmente ciò non avverrà), mi dirigo sorridendo verso le
persone che contano. Questi signori a loro volta mi sorridono,
non senza la tipica ironia che li contraddistingue quasi fosse
un tratto professionale, mi si rivolgono dandomi del tu, non
più del lei, sollevano il bicchiere di plastica bianco colmo di
spumante verso di me, mi augurano buona fortuna. Io non
bevo spumante, però.
Danni biologici

Un apprendista molto brillante - di cui sono il supervisore - fa


ritorno anticipato in sede e dà le dimissioni chiedendomi nel
contempo scusa per il guaio che ha fatto: ha danneggiato le
attrezzature del laboratorio presso cui lo avevo messo al
lavoro? "No, ho sedotto la mia tutor", confessa il giovane.
Mi perviene infatti da parte della tutor sedotta una richiesta di
pagamento di danni biologici per trecentomila quattrocento
talleri, una cifra capogirica. La richiesta è indirizzata a me, in
quanto supervisore dell'apprendista danneggiante, e non
all'azienda per cui lavoro, ciò mi provoca un attacco di furia
che non si placa neppure davanti ai colleghi, tra i quali,
intanto che inveisco contro i tutor e in particolare contro le
tutor che si lasciano sedurre dai tirocinanti dotati di
brillantezza, noto una funzionaria che tiene bassi gli occhi. Mi
avvicino e le grido se è a conoscenza di qualcosa, di qualche
risvolto strano di questa storia di apprendistato e seduzione
che rischia di rovinarci. "Conosco la tutor", risponde la
collega in un sussurro, "sta' buono, ci penso io, fammi vedere
la richiesta di pagamento dei danni biologici, intanto".
Avendola appallottolata e gettata in un cestino vicino alla
porta, io la indico senza parole alla collega, che va, la estrae, la
spiega, la legge e poi dice, mentre nella stanza è calato un
notevole silenzio che a sua volta consente a tutti di udire il mio
affannato respiro: "la missiva non spiega che tipo di danni
biologici avrebbe provocato il tuo apprendista!"
"Lo interrogheremo!" , replica il direttore, fin qui tacito.
Dal cartolaio

Un cartolaio che insieme alle merci sue proprie vendeva


giocattoli mostrò a un bambino convenuto nel negozio una
fotografia del banco dietro cui lui serviva la clientela e di tutto
quanto si trovava alle sue spalle - quaderni, penne, matite
colorate, gomme per cancellare, zaini, libri illustrati, fischietti,
sciarpe della locale squadra di calcio, bambolotti alla moda e
così via. Il bambino, accompagnato nel negozio dal padre,
guardò la fotografia riproducente la maggior parte di quanto
si trovava davanti a lui, poi alzò gli occhi verso il cartolaio e
disse: "e tu dove sei?"
"Io ho scattato la foto!", rispose il cartolaio.
"E perché io non ci sono?", replicò il bambino.
Suo padre iniziava a sentirsi nervoso, tuttavia seppe rimanere
in silenzio.
Prodromi di un linciaggio

Invitato a trascorrere una vacanza al mare in casa dell'amico


Bettoni, scopro che lui abita un piano alto assai di una
costruzione che dista pochi metri dall'acqua - ben profonda,
dal momento che diverse imbarcazioni sono attraccate alla
stretta banchina. L'amico Bettoni, noto, dispone di una riserva
di saponette che ha l'abitudine di scagliare, una alla volta,
quando gli gira, nell'acqua sottostante. Saponette, si fa per
dire: sembrano saponette, invece sono ordigni disinquinanti e
profumogeni, mi spiega l'amico scagliandone una nell'acqua a
una certa distanza dalla banchina, tra un'imbarcazione e
l'altra. In effetti dal mare sale in breve un profumo non
spiacevole, ancorché artificiale. Taccio. Dopo poco, per
convincermi della bontà del prodotto di cui lui dispone e di cui
però omette di rivelarmi l'origine, l'amico scaglia una seconda
saponetta di sotto, peccato che il lancio sia fiacco e che il
proiettile vada a colpire in testa una persona intenta a
bagnarsi - tra un'imbarcazione e l'altra. Tutti i gusti son gusti!
Una piccola folla alquanto invelenita si raduna sotto le finestre
dell'amico, in verità, come comprendo, oramai anche mie. E
presto si odono passi che corrono su per le scale, verso
l'appartamento nel quale ci troviamo il Bettoni, che il diavolo
se lo porti, e io. La sua faccia, noto, si è rinsecchita ed ha
acquistato un colore giallastro. Trattasi di paura.
Borseggio

Transitando a piedi in una piazzetta del centro ho sentito che il


mio zaino era soggetto a qualche pressione, così mi sono
voltato e ho visto una donna piccolina e di aspetto giovanile,
abbigliata in modo ordinario, che in una mano aveva il mio
portafogli, mentre nell'altra aveva alcune banconote. L'ho
bloccata, nonostante che io non sia molto favorevole ad
attirare l'attenzione del pubblico su di me, e trascinata dai
gendarmi. Costoro hanno preso in consegna la ladra, il mio
portafogli e le banconote, trentacinque talleri. "E i
documenti?"- ho domandato al gendarme che stava
occupandosi del mio caso, "come faccio senza i miei
documenti?". "Avete ragione", ha risposto lui, "ora vi rilascio
una ricevuta che vi consentirà di riaverli una volta che avremo
completato l'accertamento."
Da giovane non avrei mai trascinato la ladra dai gendarmi, mi
dico, intanto che mi dirigo verso la stazione ferroviaria
valutando quanti talleri mi restano nelle tasche. Mai.
Boy Scout

Il figlio di certi nostri amici, un giovane sui trent'anni, si è


aggregato a noi per un'escursione in montagna stupendoci a
causa della sua tenuta, ispirata a una sorta di scoutismo
reinterpretato, per altro elegante. Ancor di più, durante il
percorso di ritorno, il giovane ci ha stupito con il suo deciso
negare di esser lui vestito un poco alla boy scout, anzi, con il
suo minacciarci di conseguenze gravi qualora avessimo
continuato a denigrare, così ha detto, il suo abbigliamento.
Abbiamo lasciato cadere la conversazione, anche perché il
nostro giovane compagno di escursione sottolineava il suo
agitato dire muovendo in aria con la mano destra una sorta di
falcetto. In effetti, ci siamo confidati dopo aver salutato, giù a
valle, il giovane, il nostro accenno al cosiddetto scoutismo
reinterpretato poteva essere stato scambiato per una
provocazione da noi perpetrata allo scopo di sottolineare
quanto il nostro compagno di escursione, già ribelle e
anarchico, avesse mutato il suo orientamento.
Paria

Nella rubrica delle curiosità della nostra gazzetta cittadina, là


dove i nostri occhi si posano sempre prima di leggere o
scorrere il resto del giornale, abbiamo trovato il seguente
racconto:
"Un viaggiatore del secolo scorso, tale Molnar, riferì di una
minoranza che lui aveva incontrato in Borminia. Durante le
soste rituali estive lungo il fiume Gono la pelle, bianca, dei
membri di tale minoranza, al sole diventava verde. La
maggioranza dei nativi della Borminia, di pelle dal colore
bruno abbastanza scuro, considerava questi bianchi, per altro
di fattezze in tutto simili a quelle del resto della popolazione,
più che sacri intoccabili a causa della particolare reazione
della loro pelle esposta al sole, e mai e poi mai avrebbe
acconsentito a mescolarsi carnalmente con loro. Certo questo è
il motivo della attuale introvabilità di rappresentanti di tale
minoranza borminica."
Naturalmente dopo aver letto quanto precede abbiamo
consultato il nostro atlante e la nostra enciclopedia, infatti non
sapevamo niente della Borminia, ma abbiamo constatato che
tale regione non è menzionata. Neppure il fiume Gono.
Cercheremo ancora.
Il sole riflesso sui binari

Tempo fa camminavo nei pressi della stazione, cautamente


attraversavo i binari alla ricerca di un punto dove il sole fosse
riflesso dai medesimi, solo che diverse nuvole la ostacolavano.
Mi sono spinto molto in là e a un tratto ho notato un vagone
merci aperto da un lato, con dentro due uomini intenti a
colpire ciascuno armato di bastone certi mucchi di tessuto o
sacchi che si trovavano sull'impiantito del vagone.
Avvicinandomi senza farmi vedere ho notato che i mucchi di
tessuto si muovevano, poi ho visto che non erano mucchi di
tessuto o sacchi, ma piccoli animali pelosi, non saprei,
giaguarini, panterine, e che i due li colpivano sul capo con una
specie di piccola vanga appuntita fissata in cima ai loro
bastoni. Sono rimasto circa mezzo minuto a contemplare la
scena, e ho notato che gli animaletti quasi non emettevano
lamenti. Poi sono tornato indietro fino alla stazione e sono
entrato nell'ufficio della guardia ferroviaria per denunciare la
strage. Mal me ne è incolto, infatti i due agenti mi hanno
domandato come e perché mi ero spinto in quella zona
proibita. Quando ho dato loro la spiegazione che qui all'inizio
è delineata mi hanno cacciato dall'ufficio diffidandomi dal far
loro perdere tempo.
Insalutato ospite

S'improvvisa, da parte dei responsabili della mattinata di


riflessione sul fenomeno della perdita della perdita della fede,
un pranzo cui possono prender parte tutti i convenuti, che
sono alcune decine. Mi aggiro intorno al grande tavolo,
ottenuto dalle solerti operatrici dell'istituto unendo quattro
tavoli, alla ricerca di qualche persona che non conosco, infatti
molti dei convenuti alla mattinata di riflessione sul fenomeno
della perdita della perdita della fede sono miei ex colleghi;
vorrei evitare proprio i due ai quali avevo affidato una
registrazione da me effettuata tempo fa in tema di perdita
della perdita della fede e che hanno avuto la sfacciataggine di
farla ascoltare a tutti i convenuti senza chiedermi
l'autorizzazione, ciò che ha meritato un incongruo e
indesiderato successo alla mia voce registrata. Per fortuna
trovo un posto tra due signorine che non conosco e che non mi
conoscono, e noto che iniziano a essere distribuiti piatti di
pasta - ha la forma di piccole orecchie umane, sembra
eccessivamente cotta, ma forse è condita, mi dice il naso, con
qualche eleganza. Attendo che un piatto si fermi davanti a me
e mi volgo sorridendo alla signorina che mi siede a sinistra
accennando alla mia condizione di affamato. "Non crederà
mica che ci si possa occupare di lei?" - dice la mia vicina di
destra, "qui ciascuno fa per sé!" "E Dio per tutti", concludo
mentre mi alzo allo scopo di dirigermi verso l'uscita, insalutato
ospite.
Il giudice

La politica del nostro Sovrano potrebbe aver dato anche


notevoli risultati in ambito sociale, non saprei, fatto sta che gli
amministratori della giustizia sono oramai in soprannumero
rispetto alle necessità, perché si delinque assai poco nel Regno.
Per cui molti magistrati sono stati incaricati di fare
osservazione partecipante nelle scuole, acciocché anche in
questo settore tutto vada per il meglio. Ecco dunque che nella
scuola dove trascorre le sue mattinate il mio piccolo figlio
stamani ho trovato un ometto calvo che, mi hanno detto altri
genitori convenuti, è "il giudice": me lo sono trovato vicino,
muto, osservante, mentre toglievo dalla bocca di mio figlio il
ciuccio che lui si ostina a usare nonostante che abbia i suoi
bravi sei anni. Di certo il giudice trascriverà questo dato
d'osservazione, mi sono detto, intanto che contemplavo i vivaci
colori che ha lo zainetto di mio figlio, così intonati ai suoi abiti,
quasi che lui sia una figuretta dei cartoni animati.
Nient'affatto contrariato dall'ablazione del ciuccio, mi ha
guardato e poi mi ha detto: "come sei bello, babbo!" - se non
ricordo male.
San Nulla

Il Regno concede ai sudditi una volta all'anno di festeggiare


San Nulla; è vano ricordare a chi legge che questa modalità di
esercitare il potere è antica, nuova a noi appare la
santificazione del Nulla - forse, forse!
Si consideri piuttosto l'astuzia del Regno, che provoca le masse
di sudditi alla contraddizione: San Nulla, santità e nullità si
elidono, s'annullano. Buona questa!
Nel pieno dell'estate i sudditi, liberatisi della maggior parte
degli abiti, si sbatacchiano l'un con l'altro per le strade, nei
vicoli, come in quel racconto di Boris Vian, dove la perdita
della vista favorisce gli altri sensi.
Nel pieno dell'estate, come altrove si chiama il ferragosto, da
noi è San Nulla.
La nuorina

Presa una casa troppo grande al mare, e difficile da tenere,


però mia madre è contenta di aver tanto lavoro, peccato che
oggi abbia dimenticato aperto un rubinetto, per cui mentre
vado dicendo che ancora non ho fatto un solo bagno di acqua
salata (mica vero, ne ho fatti almeno due) trovo la stanza
d'ingresso allagata. L'evento ha fatto scivolare certi grandi
cuscini, che stavano appoggiati a una parete, e li ha impregnati
come spugne. Ora per farli asciugare servirà sole e pazienza.
Esco in terrazza e vedo un giovane seduto che dorme con il
capo appoggiato sul tavolino, il suo naso potrei dire che pesca
tra le pagine di un libro che sto leggendo in questi giorni, però
potrebbe trattarsi di un'altra copia, penso, mentre volgo lo
sguardo verso la mia giovanissima fidanzata. Siede su una
poltroncina lì accanto al dormiente, e mi guarda sfrontata.
Chi è questo qui? - le domando polemico.
Ma non vedi che è il Respiglio? - risponde lei.
Il Respiglio? Chi è? - penso.
Senti - le faccio - tu ora prendi le tue cosine e quando torno dal
mare non ti voglio trovare qui, né te né questo Respiglio.
Mia madre, di là dalla vetrata, canticchia.
Fidanzati

Il cerimoniale impone l'arresto delle giovani coppie appena


formatesi secondo il caso o le necessità famigliari; esse devono
trattenersi all'interno di un'area coperta fornita di tutti i
comfort, eppure irrimediabilmente simile a un tendone da
circo. La folla dei famigliari e insieme dei curiosi aspetta
intorno al tendone che da un altoparlante si nominino i
prescelti per i futuri matrimoni. Le coppie formate dagli
elementi migliori in amore, secondo il giudizio di una
commissione di anziani (ambosessi), vengono chiamate per
ultime, in modo che abbiano tutto il tempo per decidere se
sposarsi o no; le coppie formate dagli elementi meno buoni in
amore sono chiamate per prime. Il cerimoniale, secondo alcuni
osservatori, sembra implicare svalutazione dell'istituzione
matrimoniale, se non la sua equiparazione a una pena;
secondo altri non è così che si deve interpretare il cerimoniale.
La questione è aperta.
Storia da cartolina

A bella posta la sua ragazza lo chiamò, nel corso di un


incontro, con un nome che non era quello giusto, per di più
due volte. Fece per cacciarla via, ma lei, nel rivestirsi, gli
ricordò quante volte lui le aveva spiegato che non conta chi si
è.
Intrusione

"I professori hanno a cuore soltanto la loro carriera, non


mescolatevi a loro!"- pensò di gridare nella calca di studenti
agitati, qualcuno nuovo, qualche altro fuori corso; immaginò
di salire su una sedia per poter comunicare meglio questa
banale idea, poi domandò a se stesso che cosa avrebbe detto di
sé, nel caso che qualche studente gli avesse chiesto ragione
delle sue parole, a lui, un vecchio con i capelli bianchi; e decise
di tacere, avviandosi all'uscita, nel contempo valutando che
avrebbe potuto altresì dichiarare ai suoi ex colleghi: "gli
studenti hanno a cuore soltanto la loro gioventù, non
mescolatevi a loro".
Setting

Il nonno da giovane, sappiamo, seguiva la moda di andare in


analisi, parole sue. Una volta, entrato nello studio dell'analista,
la trovò seduta in terra accanto a un divanetto, sembrava
stordita, certo era estate, faceva caldo: scalza, addosso aveva
un camicione bianco e sotto gli occhiali da sole si vedeva che la
dottoressa aveva un occhio nero, mi raccontò il nonno. Che
aiutò la dottoressa ad alzarsi e l'aggiustò sul divanetto, ma lei
non aveva intenzione di starsene buona al suo posto, precisò il
nonno.
"Iniziò ad abbracciarmi e a domandarmi che cosa avevo visto
quel giorno in città, ma, senza aspettare che rispondessi, iniziò
lei a raccontarmi che aveva visto questa o quest'altra bellezza
architettonica. Io non posso dire che non stavo credendo alle
mie orecchie, infatti la dottoressa era un tipo estroso e, come si
dice, capace di tutto. Nel frattempo l'abbraccio si era
consolidato e io potei conoscere questa o quest'altra
piacevolezza corporea della mia analista, ma quel suo occhio
nero, in realtà rossoviolaceo, mi inquietava più di tutto."
Qui il nonno si perse in una serie di considerazioni sulla
tecnica della psicanalisi e sul setting, ragione per cui non
riuscii a capire come fosse andata a finire quella seduta.
Il diario del tè verde

Il nonno da giovane, quindi agli inizi della sua carriera


universitaria, dopo le vacanze estive fu una volta convocato
dal direttore del suo dipartimento. Costui aveva intenzione di
sottoporre il nonno, che logicamente ai tempi non era affatto
un nonno, ma a sua volta un nipote, a un riesame dei suoi
"lavori" degli ultimi mesi, di cui l'interessato aveva esibito un
agile elenco, parole sue di oggi. Il punto debole dell'elenco
consisteva nel titolo di uno scritto, "Il diario del tè verde", che
il direttore intendeva vedere prima della prossima riunione del
dipartimento, allo scopo di evitare discussioni e polemiche tra i
colleghi, disse. Il nonno, fingendo ingenuità, domandò perché
sarebbero dovute sorgere polemiche e discussioni attorno al
suo diario del tè verde, e senz'altro porse tale scritto al
direttore, che, dubbioso e seccato, lo prese tra le mani. Iniziò a
sfogliarlo e subito corrugò le sopracciglia. "Che c'è, capo?",
domandò ironico il nonno. "E' scritto a mano!"- rispose il
direttore, "non solo tu, caro Tatti, mi presenti un diario del tè
verde senza considerare che il nostro dipartimento non si
occupa di medicina orientale, ma di scienze sociali; addirittura
lo fai senza averlo ricopiato a macchina!"
Ai tempi, è ovvio, non esistevano computer, o almeno non
erano ancora diffusi, questo per la storia.
Il nonno riprese l'incartamento, invero esiguo, che il direttore
gli tendeva facendone leggermente tremare le pagine, e iniziò a
sfogliarlo. "Ma si legge benissimo, capo. L'ho fatto ricopiare
con una penna stilografica da mia moglie, guarda che bella
grafia!"
Il nonno fingeva di ignorare che né il direttore né alcun altro
collega avrebbe mai letto il suo lavoro sul tè verde, comunque
fosse stato scritto, e si era divertito a mettere in difficoltà il
direttore, tutto qui. Accolse quindi l'invito a farlo ricopiare a
macchina e lo inserì nel fascicolo dei suoi "lavori" recenti,
usando inoltre l'accorgimento di cambiare il titolo. In elenco si
sarebbe letto quanto segue: "Comportamenti alimentari
inerenti la ricerca della longevità". Nessuno ebbe da ridire.
Vacchetta

Mi rivolgo a un calzolaio allo scopo di farmi fabbricare un


paio di scarpe da bosco che siano insieme morbide e resistenti,
e lo intrattengo in merito agli scarponi di vacchetta che ho
avuto nella vita, un paio comprato quando avevo sui
venticinque anni, un altro quando ne avevo circa quaranta.
Erano molto duri e necessitavano l'uso di grasso, che però,
come è noto, va non solo applicato, ma addirittura
massaggiato con i pollici, un lavoro noiosissimo. Va bene, dice
il calzolaio, le farò un paio di scarpe che le dureranno una vita.
No, rispondo, vorrei una durata maggiore.
Cioè?
Ho settant'anni.
Il datore di ordini

Un'auto si ferma e il tipo seduto dietro fa segno a chi guida di


aprirmi; cerco un passaggio, è notte, mi trovo lontano da casa.
Mi si fa sedere accanto all'autista, il tipo dietro dà ordini, pare
che guidi lui servendosi di comandi invisibili, addirittura a
tratti a me sembra che l'autista non sia alla guida. Prevale il
nero, grande automobile nera, abiti neri, occhiali neri, l'autista
ha la visiera dello stesso colore, il padrone o comunque il
datore di ordini indossa una bombetta. Nera.
Forse ho fatto un errore a salire su quest'auto, sarebbe stato
meglio camminare e aspettarne una meno datata. In men che
non si dica si entra in un cortile, si scende e mi s'invita dentro
casa, mi si indica una stanza, mi si spinge dentro. In effetti non
è che stasera io sia molto combattivo. Dev'essere la medicina
che ho preso.
I due hanno la meglio su di me, ma cosa vogliono?
Dopo ore di sonno interrotto dalla sete, che io calmo bevendo
acqua da una bottiglia gialla che si trova sul tavolino accanto
al mio letto, è l'alba; il padrone dell'auto o datore di ordini
entra nella stanza o meglio cella (alla finestra ci sono sbarre
murate) e senza parlare mi fa cenno di farlo felice. Non se ne
parla neppure, Lei celia, rispondo, al che lui estrae una
rivoltella nera e me la mostra. Non basta, me la cede, è assai
piccola. Esce dalla stanza e chiude la porta dietro di sé. Sono
prigioniero. La rivoltella è carica.
Primo giorno di scuola

Molti anni fa smisi gli studi universitari perché un docente mi


era antipatico e costituiva un ostacolo inaggirabile. Oggi,
anziano, tento di ricominciare quegli studi. Mi sono iscritto e
oggi vado in facoltà per conoscere l'orario delle lezioni cui ho
intenzione di assistere. Trovo un'impiegata che mi indica un
tavolo dove vedo una pila di fogli, si tratta delle fotocopie
dell'orario. Ne prendo non una, ma due - per sicurezza - e
vedo che alcuni corsi sono già iniziati. Mentre studio l'orario,
mi accorgo che due studentesse, entrambe alte, manifestano
interesse per la mia presenza - certo dev'essere strano vedere
tra tanti giovani un vecchio. Mi si avvicinano e iniziamo a
parlare della facoltà che, apprendo dalle ragazze, oggi si
chiama scuola, dei docenti, oggi si chiamano prof, e della mia
modesta persona - insomma dovrei spiegar loro in poche
parole perché mi sono iscritto all'università. Anche l'impiegata
si avvicina, noto che mi si rivolge con una certa indulgenza,
non antipatica, in effetti assomiglia a un'altra impiegata, che
ora ricordo, dei tempi andati: sarà la figlia, se non la nipote.
Mentre perdo il mio tempo con queste tre ragazze mi accorgo
di non avere più con me gli occhiali da sole, né una piccola
chiave che mi serve per mettere in moto il mio triciclo
elettrico. Ora mi torna in mente: ho appoggiato questi due
oggetti sul muricciolo che circonda il giardino della facoltà,
pardon, scuola, mentre toglievo dal portapacchi la mia
cartella. Mi congedo dalle tre ragazze, attraverso il giardino
ed esco sulla strada, mi avvicino al mio triciclo, bene! Ma sul
muricciolo non ci sono più i miei occhiali da sole né la chiave.
Liberty

All'inizio della sua carriera nell'esercito il tenente S fu invitato


a un banchetto offerto dal conte De L, un giovane capitano la
cui casata non era estranea a frequentazioni dell' esclusiva
cerchia che ornava e insieme proteggeva il nostro Sovrano. Il
banchetto aveva luogo sotto un vasto portico prossimo al parco
della villa appartenente alla signora madre del capitano,
marchesa G, la quale doveva essere assente, date le
circostanze. Ci spieghiamo: nel corso del banchetto, cui
partecipavano non poche signore nubili elegantissime, il
padrone di casa aveva disposto l'apparizione di alcune
danzatrici alquanto svestite che offrirono ai banchettanti le
loro raffigurazioni di gusto liberty, all'epoca molto in voga.
Tra le libagioni, allora si chiamavano così, i cibi squisiti, l'aria
deliziosa che spirava dal parco, i quadri viventi offerti dalle
danzatrici, la festa prese una lena alquanto licenziosa, tant'è
che il tenente S e la sua vicina, ora non ci ricordiamo bene se
fosse costei la marchesa J, non importa, dopo lo scambio di
alcune verbali insensatezze si trovarono in stretta
combinazione, intente le loro lingue a conoscersi
reciprocamente, e le mani - turbinando la musica d'un
violinista intorno. Fu l'ultima festa prima della guerra.
Prestito bibliotecario.

Il nonno da studente universitario aveva preso un libro in


prestito dalla biblioteca di facoltà, allora si chiamavano così,
non scuole; il libro, un grosso volume rilegato in pelle marrone
scura, vecchio, durante il periodo del prestito a mio nonno -
allora non era nonno, ma nipote - un mese, divenne oggetto
d'interesse da parte di un professore della facoltà. Costui, fatte
pressioni sugli addetti alla biblioteca, venne a sapere il nome
dello studente che aveva in prestito il libro, una Storia dell'arte
barocca scritta nell'Ottocento e tradotta dal tedesco, e iniziò a
tormentarlo, non il libro: lo studente, cioè quello che parecchi
anni più tardi sarebbe diventato mio nonno. Da ultimo il
poveretto non riusciva neppure più a frequentare la facoltà
senza trovarsi davanti il professore che lo incalzava affinché
restituisse il libro alla biblioteca, infatti, diceva il docente, "io
ne ho bisogno davvero, tu no, tu puoi sempre rifarti al
manuale in programma, cos'è che vuoi sembrare, il primo
della classe?"- domandava stralunato. Mio nonno un bel
giorno prese il libro, entrò nell'aula dove quel professore
teneva la sua lezione, si avvicinò alla cattedra e ci piazzò sopra
il volumone, che fece un bel tonfo lasciando tutti quanti di
stucco.
Non fece carriera in quella facoltà, il nonno.
Terremoto

"No, signore, non si tratta di terremoto, ma di un movimento


superficiale, non vede che il bosco scivola sopra il monte come
se"
"Come se?"
"Come se fosse una pelliccia che cade via dal corpo che
copriva, lentamente"
"Neanche tanto"
"Che spettacolo, signore, lei è fortunato, di queste visioni ce
n'è una ogni cento anni, e ora guardi in basso, a destra, su quel
costone di roccia sporgente"
"Oddìo, e che cosa sono?"
"Belve umane, forse sarebbe meglio dire umanoidi, che stanno
in attesa che termini lo scivolamento del bosco."
"Per fare?"
"Per poter liberamente degustare le creature che il bosco
proteggeva"
"E lei come lo sa?"
"Sono la guida, signore."
Le manette

Mi hanno parlato tanto bene di questo tratto di costa che ora


sto percorrendo a piedi vicino al mare - forse la lingua
straniera, che capisco poco, mi ha illuso - ma in verità il mio
transito non mi pare così indimenticabile: per quanto sia
scorretto dire di un paesaggio che è banale, ebbene, questo è
banale, lezioso e banale, come se fosse stato preparato per
girarvi dei film pubblicitari. Eppure cammino, osservo e non
mi accorgo delle enormi ondate che, a tratti, si gonfiano in
prossimità della riva: improvvisamente mi sento come un
animale minacciato dalle irruzioni di un'orca marina, cioè:
dell'enorme ondata che si è appena schiacciata sulla riva
dietro di me. Mi decido quindi a lasciare questo celebrato
tratto di costa e mi dirigo verso la stazione ferroviaria, dove
prenderò un trenino per tornare all'albergo. Munito del
biglietto salgo in treno, il viaggio sarà breve, e mi guardo
intorno in attesa che passi il controllore. Qui si ha l'uso,
capisco tardi, di chiamare i passeggeri affinché mostrino di
avere il biglietto, non di passare tra loro chiedendoglielo.
Ragione per cui entro in una ridicola discussione con il
controllore, che, ricordo a chi legge, parla una lingua che io so
poco. Finisce che gli mostro i polsi uniti come se mi trovassi
ammanettato, e lui non la prende bene, si scalda. Le manette
sono universali.
Il centrocampista

M'imbatto in un quarantenne, faccia piuttosto grassa,


cappotto austriaco verde, che mi domanda dove si trova la
sede della squadra di calcio locale. Io in effetti ignoro
l'indirizzo della sede della squadra di calcio locale, ma so che è
situata in una grande piazza e che per trovarla basta andare
fin lì e chiedere indicazioni a chiunque sosti nel giardino che
allieta il centro della piazza: be', forse non a quella vecchia
signora che di continuo fa il giro delle panchine domandando
l'ora a chi vi siede magari per leggere il giornale, ma questo
dettaglio lo tengo per me. Informo il tipo con il cappotto
austriaco verde di quanto so e mi permetto di domandargli
perché cerca la sede della squadra locale. Invece di suggerirmi
di farmi i fatti miei, quest'uomo mi informa del fatto che
intende proporsi alla dirigenza della società proprietaria della
squadra come centrocampista, progetto che a me sembra
indicare uno stato mentale alterato. "Ho solo bisogno di
riprendere gli allenamenti interrotti", mi dice come se avesse
letto nella mia mente, "e di perdere qualche chiletto, in effetti
una decina di chiletti", aggiunge sorridendo.
Due paia di occhiali da sole.

Un'affezionata allieva di due decenni or sono viene a trovarmi


nella mia stanza, ci abbracciamo teneramente e iniziamo a
conversare, nel dettaglio diciamo qualcosa sull'istituzione che
circonda questa mia stanza e delle attività che l'allieva, oggi
una donna maritata con figli, svolge nei ritagli di tempo che la
famiglia le concede. Tutto sembra che oggi vada male, anche se
in verità tutto è sempre andato male. A un tratto l'allieva
estrae dalla borsa un pacchetto e me lo porge: contiene una
quantità di fotografie di una terra esotica dove evidentemente
lei ha soggiornato, e due paia di occhiali da sole cosiddetti
tropicali che non indosserò mai - questo lo tengo per me.
Mentre do un'occhiata alle fotografie e studio le decorazioni
giaguariche delle montature degli occhiali, noto che il tutto è
parecchio impolverato.
"Anche la polvere è esotica?"- domando sorridendo all'allieva,
che mi risponde con un sorriso: "no, professore, la polvere è
quella del mio solaio, dove questi oggetti, le foto e gli occhiali
da sole, sono rimasti per dieci anni."
Poiché non commento in alcun modo questa informazione,
l'allieva aggiunge: "Li ho tenuti nascosti mentre aspettavo di
trovare il modo di venirLa a trovare; sa, professore, mio
marito è gelosissimo di Lei."
Incuriosito, riprendo a guardare le foto: sono di forma
quadrata, sono molto scure, verdastre, palustri. "Sembrano le
tessere di un mosaico", dico all'allieva, che replica: "Infatti,
sono le tessere di un puzzle facile facile, questo è il regalo! " E
aggiunge: "Ma Lei non mi domanda perché gli occhiali sono
due paia."
"Già, perché?"
Ah no!

Lavori stradali in un viale del parco stringono con transenne il


nostro percorso in bicicletta che è or ora divenuto una gara a
chi arriva primo là dove si trova l'equivoco locale dedicato a
un principe hindu che molti molti anni or sono finì la sua vita
nella nostra città a causa dell'aggravarsi di quella malattia che
lo aveva indotto a lasciare l'Inghilterra per andare a morire in
patria. "Chi arriva ultimo all'Indiano", ho gridato alla mia
compagna, una velocista, "chi arriva ultimo", ho gridato, ma
già più non mi sentiva, tanto ero corso avanti. Sennonché lei
mi ha raggiunto e siamo passati insieme tra le transenne. Lei
non molla, io nemmeno, passiamo e sento un "ahi!". Si è ferita
la mano destra sfiorando l'estremità di una delle transenne.
Intanto arriviamo all'Indiano. Scende dalla bici, lei, e sfodera
vieppiù le sue snelle rotondità. "Andiamo dentro", dice, "forse
avranno del disinfettante, e un cerotto", aggiunge dirigendosi
verso la porta dell'Indiano. "Ah no!"- le grido dietro, "ci vado
io, tu resti qui a far la guardia alle bici!"
Il gigante

Abitando in un pianterreno rialzato di un paio di metri


rispetto al livello del marciapiede, rimasi sorpreso di vedere
all'improvviso un uomo apparire nel vano della finestra.
Costui, che indossava, per quanto era visibile, una camicia
bianca aperta sul collo sotto un pullover grigio, aveva capelli
neri tagliati corti e una faccia ossuta, zigomi sporgenti, un filo
di barba, occhi scuri. Molto serio, guardava dentro la mia
stanza. Prima di chiudere la finestra, gli domandai quant'era
alto. Non rispose. Ripensandoci, considerai però che doveva
essersi issato su una scaletta, uno sgabello: altrimenti la sua
altezza sarebbe stata quella di un gigante.
Dermatologia

Ero medico, lavoravo in una clinica dermatologica, ora non ne


faccio più parte. Qualche giorno fa sono andato a visitare i
miei ex colleghi, per primo il professor N., che era il mio capo.
Busso alla porta del suo studio, all'ultimo piano della clinica,
sento qualcuno che parla, è lui, apro e trovo che al posto della
scrivania c'è un letto su cui giace semi disteso N.. Mi saluta e
mi mostra l'indice della mano sinistra. E' piuttosto spellato.
"Stavo registrando qualche considerazione sulla mia
malattia", dice. "Si tratta di?" - domando. "Non so, non
sappiamo, ma non è grave", risponde. Dopo poche parole
scambiate, me ne vado e proseguo la mia visita. Subito sento la
voce di N. che riprende la sua registrazione. Il corridoio è
lungo, sposto una tenda che ai miei tempi non c'era, dietro
vedo alcune persone che non conosco; saranno, mi dico,
pazienti in attesa. Tutto è cambiato. "Guardi che serve
prendere il numero, laggiù c'è il distributore", mi dice un
uomo che ha la mano sinistra fasciata. "Grazie", rispondo,
"sto solo cercando la dottoressa S." Scendo una rampa di
scale, entro in un altro corridoio, il „mio“, arrivo alla porta del
“mio“ studio, leggo la targhetta: c'è ancora il mio nome.
Busso, nessuno risponde, apro la porta, trovo che tutto è al suo
posto, beninteso dopo aver acceso la luce. Non ho più niente di
mio qui, spengo la luce, mi chiudo la porta alle spalle e scendo
un'altra rampa di scale. Intanto che scendo, sento che la voglia
di far visita ai miei ex colleghi mi è passata, ammesso che si
trattasse di una voglia. Rido interiormente alla mia
involontaria freddura. Una voglia! Sì, sono ancora un
dermatologo.
Scendi che ti scendi, mi trovo a pian terreno, esco sul
marciapiede. La luce del giorno mi ferisce un poco. Do
un'occhiata all'indice della mia mano sinistra e mi avvio verso
casa.
Volontariato

La casa al mare che i miei genitori mi hanno lasciato in eredità


è molto grande, consiste in un pianterreno e in un primo piano
che è l'unico che noi abitiamo, dal momento che di sotto
l'umidità è eccessiva. Negli ultimi anni ho mancato perfino di
passarci, lasciandone l'uso ai miei congiunti e ai loro amici - e
amici di tali amici, sospetto, ragione per cui quest'estate mi
sono deciso a fare una visita, un cosiddetto sopralluogo
improvvisato. Non sono rimasto contento, infatti la casa era
sfruttata al suo massimo, in barba all'umidità, e piena delle
cianfrusaglie che negli anni i miei congiunti, i loro amici e gli
amici di tali amici dei miei congiunti vi hanno abbandonato.
Era piena di individui da me mai visti che, non avendomi mai
visto, mi hanno trattato come un intruso, a dispetto del fatto
che gli intrusi erano loro. Ho chiesto ragione a mia figlia e a
mio figlio di questa situazione, ma loro mi hanno dato, come si
dice, poco spago. Ciò mi ha indotto a recarmi nell'emporio del
simpatico paese dove si trova la mia casa al mare per fare un
acquisto di svariati rotoli di spago. Quindi ho fatto ritorno a
casa per cacciare i mercanti dal tempio, all'incirca, solo che
costoro, inclusi i miei figli, se n'erano tutti andati lasciando il
tempio con la porta aperta in un disordine che non posso dire
indescrivibile, infatti prima ho tentato di descriverlo. Mi ha
colpito in particolare uno scatolone bianco di plastica che,
colmo di contenitori di gomma piuma non so di che cosa, era
rovesciato su un lato, mostrando così tutti questi cilindretti dai
colori vari, alcuni in piedi, altri coricati. Chi è tanto malato,
mi sono chiesto, da aver consumato tanti flaconi dello stesso
misterioso farmaco? Sono andato di corsa dai vicini, che sono
vecchi come me e che conoscevo un tempo come amici, a
chiedere se ne sapevano qualcosa, di questo ospedale, o casino,
o casa famiglia o che so io.
"E' il volontariato che fanno i tuoi figli, non lo sapevi?"-
hanno risposto i vicini. "Volontariato? Nel senso?" ho
domandato. "Nel senso che nessuno paga nessuno", hanno
risposto.
Salsedine

L'amico B. mi racconta di essere andato al mare a passare un


paio di giorni nella casetta di una sua conoscente; "sai chi?" -
m'informa, "quella ragazza che ti sorride da dietro il banco".
L'amico intende uno sportello dell'agenzia bancaria dove lui
lavora - la bella è sua collega - Norina, ecco, si chiama Norina.
L'amico B. ha accettato l'invito, speranzoso, e ha trascorso la
nottata insonne, incapace di prendere iniziative, impaziente
del resto che le prendesse lei. Di modo che al mattino, ancora
eccitatissimo, è uscito dalla sua camera per capire se lei
dormiva ancora, per svegliarla, dice, come intendendo che da
cosa nasce cosa. "Sapessi in che stato mi trovavo." Non saprei,
rispondo. Ma intuisco.
"Non mi stava più dentro i pantaloni del pigiama!"
Norina era sveglia, affacciata alla finestra di camera sua stava
piacevolmente chiacchierando con una vicina ed il marito di
lei: di salsedine.
L'amico B. è rimasto sulla soglia della camera da letto di
Norina, e ha udito per diversi minuti alcune variazioni sul
tema della salsedine, tipo la fortuna di non aver lasciato auto,
moto o bici ferme tanto vicino al mare, infatti queste care
risorse indispensabili s'arrugginiscono sempre - fai ritorno
dopo qualche tempo le ritrovi arrugginite. E' la salsedine.
Norina e i suoi vicini sono restati a parlare di salsedine,
l'amico B. è passato in cucina e si è fatto il caffè, ha bevuto il
suo, corretto con uno schizzo di Mistral. "E aspetta aspetta, ho
bevuto anche l'altro."
Sandali nuovi

L'estate scorsa mi lasciai convincere dalla collega L ad


accompagnarla fino alla sede dell'azienda per cui lavoriamo,
che si trova nel centro della capitale. Nell'occasione decisiva
per la sua carriera, così lei, la collega aveva indossato un abito
di gran pregio, color albicocca, e aveva messo dei sandali
nuovi nuovi, com'è naturale senza calze. Di ritorno dalla sede
centrale della nostra azienda - esito dell'incontro ignoto -
decidemmo di fare almeno un po' di strada a piedi e di
lasciarci abbindolare dalla bellezza senza pari delle vie del
centro della capitale, sennonché i sandali nuovi nuovi della
collega avevano iniziato a torturarle i piedi. Seduti a un
tavolino davanti a una gelateria, rinomata perfino nella nostra
lontana cittadina, la collega si tolse i sandali nuovi nuovi e mi
mostrò le nascenti piaghe, così lei, che in effetti erano visibili
sul dorso dei suoi piedi e subito al di sopra dei talloni, nel
contempo dichiarando che avremmo dovuto cercare un
negozio dove acquistare un paio di calzini corti di cotone,
logicamente in tinta con l'abito. "Perché non andiamo in una
farmacia e compriamo dei cerotti?"- le chiesi. "Cerotti!" -
esclamò la collega, "neanche per idea! Sono allergica ai
cerotti!" Ragione per cui vagammo per negozi alla ricerca di
quei precisi calzini (nella capitale detti "pedalini",
apprendemmo presto) color albicocca, senza tuttavia trovarli.
Infine la collega, stufa, decise che si sarebbe tolta i sandali e
che avrebbe continuato la camminata a piedi nudi.
Logicamente io mi sentivo imbarazzato: si cerchi di capirmi,
sono un uomo tranquillo - lì, nella capitale a spasso con una
donna scalza con i sandali in mano! Proposi dunque un taxi
allo scopo di arrivare alla stazione, dove avevamo il treno per
il ritorno. La collega si complimentò con il mio spirito
d'iniziativa, forse ironicamente, e così facemmo il nostro
ingresso, poco dopo, in stazione. Lei con i sandali in mano.
Salimmo in treno e facemmo il viaggio di ritorno non senza
preoccuparci dello stato dei piedi di lei, che non soltanto erano
feriti, ma anche piuttosto sporchi. Qualcuno dei nostri
compagni di scompartimento si volle informare, e la mia
collega intrattenne i presenti raccontando la sua avventura.
Scesi nella stazione della nostra cittadina, per prima cosa la
collega si rimise i sandali e, nonostante il fastidio, riuscì a
camminare fino a casa. L'accompagnai al portone. "Sai", mi
spiegò, "non me la sento di camminare scalza nella mia città,
non sta mica bene."
Applausi

Intervenuto a una festa per il centesimo anniversario della


fondazione del Circolo Motociclistico Cittadino, accolto come
un veterano dai centauri giovani in assoluto e da quelli meno
anziani di lui, oramai da anni addirittura privo di moto, S
approfitta di un brindisi per rimproverare i suoi compagni
d'armi: costoro farebbero scorribande sulle strade scavalcanti
la catena montuosa che innerva il Regno, ad altissima velocità
terrorizzando le famigliole in gita domenicale, senza dire che
rischierebbero, a quanto pare, la loro e l'altrui vita. S
approfitta del brindisi per consigliare ai compagni di
organizzare tranquille carovane di moto di ogni tipo e
cilindrata, ordinate e rispettose delle regole, con mete amene,
ai mari, ai monti. E così via.
Dopo S si alza per un altro brindisi C, già compagno d'armi di
S, che si limita a dire: "il diavolo da vecchio si fa monaco!"
Applausi.
Che le prende?

Se da giovane ti arrabbiasti perché un meccanico ti aveva


restituito la macchina riparata sì, ma senza più ruota di
scorta, adesso da adulto gustati questa: finita una vacanza in
albergo, tu e la famiglia scendete in garage e chiedete l'auto
per iniziare il viaggio di ritorno, ma non ti danno la tua, cioè:
credono che sia la tua, ma non lo è. Allora che fai? Ti arrabbi,
t'indigni, ma poi ti fa notare il garagista che la targa è quella, i
documenti si riferiscono a te - "che le prende signore?"
"Che ti prende, caro?" - chiede tua moglie, mentre tuo figlio, il
piccolino, si mette a piangere, impaurito dalla rabbia del
padre, cioè dalla tua rabbia.
Sei costretto a far buon viso al cattivo gioco, a prenderti
quell'auto piccola, sporca, piena di graffi - blu, figurati; e a
partire, mentre tua moglie tace mordendosi le labbra, e tuo
figlio dopo un po' ti dice: "Babbo, ora ci si ferma, così ti
prendi un bel cappuccino e poi stai bene di nuovo."
Alito

Allo scopo di perfezionare il nitore della sua casa, nostra


madre ingaggiò una seconda domestica, ragione per cui io e
mio fratello ci recammo in visita da nostra madre, eravamo
infatti curiosi di vedere quella seconda domestica. Trovammo
che la prima era molto contrariata dalla decisione della sua
signora, così lei chiamava nostra madre, e aveva
ripetutamente colpito a mani nude la balaustra di ferro di un
balcone, ferendosele in modo serio e lasciando tracce di sangue
sull'oggetto colpito. Cercammo di consolare la donna, che
conoscevamo bene da anni e a cui volevamo bene, infatti era
simpatica e brava. In attesa dell'arrivo, quella mattina, della
nuova domestica, interrogammo nostra madre in merito alla
sua decisione, tra l'altro dispendiosa. Lei ci spiegò che la casa
era troppo grande e troppo ammobiliata per una domestica
sola, queste le ragioni che, del resto, si leggono all'inizio del
presente resoconto; non soddisfatti, io e mio fratello,
cercammo di approfondire la faccenda, finalmente appurando
che nostra madre era stufa di una caratteristica della sua
oramai abituale domestica: aveva un alito pestilenziale, così
nostra madre. Lei sperava di poter limitare in futuro le sue
interazioni ravvicinate alla nuova domestica, di cui aveva
appurato, durante il colloquio d'assunzione, la levità dell'alito.
La nuova domestica arrivò in ritardo, era piuttosto giovane,
disse di aver perso la strada e che, però, non sarebbe successo
più.
Finale

Furibonda lite con il collega e amico L Danneggiata una


simpatia lunga anni, scambi di accuse. Convocati dal capo del
dipartimento siamo stati interrogati e sono stati messi a
confronto i nostri torti e le nostre ragioni. Il capo ha ascoltato
ed è passato a dire la sua; infilatosi in un discorso sui vecchi
tempi, ha parlato di politica, di tattica e di strategia, di
leninismo, d'individualismo, meravigliando sia il collega L che
me, la nostra lite infatti aveva preso il via soltanto dal
momento in cui io avevo ironizzato sulla somiglianza di L con
un certo attore comico. Il guaio era nato dalla confusione del
collega, che aveva preso la mia ironia sulla sua somiglianza
fisica con il famoso comico per un'ironia sulla sua
ridicolaggine in genere. Da lì erano partite le offese reciproche.
Eravamo arrivati a spintonarci. Il fatto grave è stato che il
collega, malato, debole, ad una mia spinta è caduto.
Il capo del dipartimento, gran fumatore, nella foga del suo
sproloquio ha rovesciato un grosso portacenere pieno di
mozziconi sui miei calzoni nuovi. Comunque sia, ci ha
ammonito e invitato a fare la pace bollando entrambi come
individualisti incorreggibili.
Non abbiamo fatto la pace, siamo usciti dall'edificio in cui si
trova il nostro dipartimento, io e L, ci siamo ancora
fronteggiati mutamente e infine allontanati in direzioni
opposte. Camminando ho controllato le mie tasche, infatti non
trovavo più il mio portasigarette in bachelite, né le chiavi di
casa. Né l'accendino. Infilata una mano nella borsa, finalmente
ho trovato tutti gli oggetti mancanti. A quel punto mi sono
voltato, e ho visto L che ansimava lontano tenendosi stretto a
un lampione.
"Gigi!" - ho gridato, "cos'hai?"
"Muoio", ha risposto.
Ho fatto una corsa fino a lui, l'ho sorretto, l'ho accompagnato
fino a una panchina, ci siamo seduti e siamo rimasti in silenzio.
Poi ci siamo salutati.
E' stata l'ultima volta.
Il celebre viale M

Il celebre viale M, mia meta in questa grande città prossima ai


confini settentrionali del Regno, sfugge ai miei tentativi di
imboccarlo a piedi, impresa che ho deciso uscendo dalla
stazione ferroviaria centrale in forza di alcune mie remote
visite e dei relativi ricordi. In realtà la metropoli mi è quasi
totalmente ignota. Non importa, ora so di trovarmi in
prossimità del celebre viale M, dove ho appuntamento con la
moglie di un mio amico defunto che, a quanto pare, mi ha
lasciato in eredità alcuni suoi scritti inediti. Tutti sanno
qualcosa del viale M, forse perché porta il nome di un
celeberrimo circuito dove corrono e corsero auto e moto da
corsa - trattasi in definitiva dello sport nazionale più seguito
dopo il calcio. Tuttavia ignorano al contempo dove si trovi.
Capita anche con Einstein, tutti sanno chi fu, ma se gratti un
po' scopri il vuoto. Sto divagando, ciò che corrisponde alla
perfezione con quanto mi accade mentre cammino per le
strade che un anziano edicolante da me interpellato sostiene
portino al viale M. Domando ancora indicazioni, fatico in
verità a trovare persone parlanti la mia lingua, infatti la forza
di attrazione di questa città ha prodotto il risultato di una
ricchissima immigrazione di popoli della Terra intera. Un
giovane sfaccendato, dev'essere un concittadino, mi suggerisce
che il viale M si trova al di là, dice, "di quella fila di edifici".
"E come ci arrivo?"- chiedo io. "Lei deve tornare indietro fino
alla prima traversa, e voltare a sinistra", risponde il giovane.
"E' lontana, questa traversa?", chiedo io. "Mah, saranno un
paio di chilometri, prenda un taxi", risponde il giovane.
Ma taxi non ce ne sono, allora vado a piedi, peccato che sia già
un po' stanco. Entro in un bar e telefono alla vedova del mio
amico per avvisarla che tarderò, ma nessuno risponde.
La vedo nera per le carte inedite del mio defunto amico.
Ritorno

Sono tornato in questi giorni, durante un viaggio in


automobile, nel paesello dove trascorrevo le vacanze da
bambino e da ragazzo e dove tutti mi conoscevano, facendo
parte io del posto, come fossi un ponte o un tabernacolo, e
sono entrato in una mescita, stupito del fatto che ancora esista
un luogo del genere. Come dice la parola erano locali dove si
mesceva vino bianco o rosso, e si passava il tempo giocando a
carte, chiacchierando, c'era qualche tavolino, qualche sedia, e
il banco del vinaio, coperto di stagno, con i bicchieri allineati
all'ingiù.
Entro e mi si riconosce, mi si fa festa, la padrona, vedo, mi
prepara una mescita di vino acqua e uva - io taccio, piuttosto
imbarazzato. Non credevo che mi si sarebbe riconosciuto,
dopo tanti anni. Mi si chiama per nome, si rammentano i
tempi andati: "avevamo te, noi, e il culo", dice qualcuno, "ora
il culo lo diamo!"
La maestra di Pontebba

Ho trovato su una bancarella un piccolo libro intitolato Die


Lehrerin von Pontebba, autore Gustav Waldhaber, che ho letto
non senza difficoltà, tanto è vero che intendo impegnarmi nella
sua traduzione. La maestra di Pontebba, personaggio forse
tratto dalla fantasia dell'autore, forse dalla realtà, operativa a
quanto si ricava dal testo alla fine del secolo scorso nella
cittadina sita in Carnia, è (presente storico) molto esigente con
i suoi piccoli allievi, cui non esita a far imparare a memoria
poesie di Hoelderlin, in italiano dagli allievi di lingua tedesca,
in tedesco dagli allievi di lingua italiana. Logicamente non
pochi degli allievi non capiscono le poesie di Hoelderlin,
ragione per cui ripetono i versi del poeta a pappagallo. Alcuni
genitori apprezzano la maestra, altri la detestano. Questi
ultimi sono la maggioranza. Tra loro non mancano intellettuali
(Pontebba è un centro di grande importanza dal punto di vista
degli incroci culturali), i quali sostengono che la signorina Gisa
Cargnelli è frustrata dalla sua condizione di maestra
elementare, che ambirebbe a insegnare nell'università, e che
scarica la sua frustrazione sugli allievi gravandoli con impegni
impossibili.
E' probabile che il giovane Waldhaber sia stato un allievo della
maestra di Pontebba, ma com'è naturale questo non dovrebbe
interessare al lettore evoluto.
Il direttore della scuola, durante una riunione con i genitori,
presente la Gisa Cargnelli, ascolta le parti e dà ragione ai
genitori favorevoli; uditi i contrari, dà ragione anche a loro;
udita infine la Gisa Cargnelli dà ragione anche a lei. Nel
silenzio dell'assemblea un bambino - dal testo non ho capito a
che titolo presente - dice a voce alta: il direttore dà ragione a
tutti!
Al che il direttore risponde: hai ragione.
I sandali della signora Giulia

Al ritorno da una delle sue trasferte di lavoro, il tecnico


montatore GF trovò la casa vuota, sua moglie mancava, e
mancavano anche molte sue cose, segno che era partita. GF
s'informò presso un'amica della moglie, certo di raccogliere
informazioni utili. L'amica gli raccontò che la Giulia era stata
rapita da un uomo. Il montatore fu costretto a farsi spiegare il
significato di quelle parole. L'amica chiarì che la Giulia,
durante l'assenza di GF, aveva conosciuto per caso un uomo
che l'aveva affascinata al punto di farle decidere di andarsene
con lui.
"Rapita per modo di dire", osservò GF.
"Per modo di dire", ammise l'amica.
GF fece ritorno a casa e notò quasi subito che la Giulia aveva
lasciato dietro di sé e il suo rapimento (parole nostre, GF non
indulgeva in metafore) un paio di sandali di cuoio marrone
con il tacco né alto né basso, certo insieme a molti altri oggetti
di vestiario e non.
Nonostante che GF fosse un uomo pratico e privo di
indulgenza nei confronti delle fantasticherie, iniziò a
considerare certi suoi ricordi visivi dei piedi nudi della Giulia
infilati in quei sandali che, vuoti, mancavano di ogni
attrattiva.
In breve GF risultò seriamente ossessionato dagli accennati
ricordi visivi, tanto da rischiare, sul lavoro, di incorrere in
errori anche seri.
Pensò di buttar via i sandali, immaginando che con quelli se ne
sarebbero andati anche i ricordi visivi dei piedi nudi della
Giulia. Lo fece.
Sfortunatamente la casa era ricca di spunti atti all'esperienza
di memoria passiva - da ogni parte appariva alla mente di GF
uno scorcio della figura della Giulia.
"Come se ne esce?" - chiese GF a un collega.
"Potresti cambiare casa e arredamento", rispose il collega.
"Ma alla Giulia piacevano" - rispose GF.
Prima del pensionamento

L'amministrazione decise di accelerare il pensionamento del


dottor S dopo che l'anziano studioso si era prodotto in una
manifestazione d'impazienza incongrua con la missione
scientifica dell'Ente di cui lui faceva parte da quattro decenni.
Ogni membro dell'èquipe di studiosi di cui l'Ente si fregiava al
cospetto dello Stato - e ancor di più al cospetto della Casa
regnante - disponeva di una sezione di stanza, di una scrivania,
di due sedie e di uno scaffale. Perché due sedie? Ma per
facilitare l'ascolto, da parte di ogni titolare di scrivania e
scaffale, dell'eventuale visitatore, spesso un giovane studioso in
fase di formazione. Perché una sezione di stanza? Ovvio,
perché l'èquipe di studiosi era troppo larga in rapporto al
numero di stanze disponibili. In effetti v'erano stati studiosi
che, pur di avere una stanza tutta loro, si erano accontentati di
bugigattoli e anche di sottoscala. Non il dottor S, che
condivideva la stanza con altri tre studiosi. Tutti giovani di
fresca nomina, all'inizio di quella carriera di cui il dottor S era
alla fine.
Orbene, un giorno, entrando nella sua stanza e avvicinandosi
alla sua scrivania il dottor S si accorse che l'ordine del suo
scaffale, cioè l'ordine dei suoi libri, era stato alterato, non solo:
che diversi volumi mancavano. Ne chiese il motivo alla
dottoressa V, l'unica collega al momento presente, ma costei
non dette a S una risposta soddisfacente, così facendolo
vieppiù irritare.
Uscì dalla stanza e percorse il corridoio quasi di corsa, il
dottor S, si precipitò in direzione e fece una scenata ai
presenti. Qualcuno osò dirgli che forse si trattava di uno
scherzo e che i libri sarebbero tornati al loro posto, nient'altro.
Schiumando di rabbia il dottor S tornò nella sua stanza, aprì
una finestra e iniziò a scagliare uno ad uno tutti i volumi che si
trovavano nel suo scaffale. Dove? In un cortile interno, per
fortuna deserto, ragione per cui i volumi si sparsero
decorativamente nell'erba dell'aiuola sottostante.
Un modo di iniziare il trasloco che incombeva al dottor S in
vista del suo prossimo pensionamento.
Tortura

In viaggio S apprese dai suoi conoscenti che tra le torture


praticate dagli inquisitori di quel lontano Paese ve n'era una
consistente nell'applicazione di una grappetta metallica sulla
punta della lingua dell'interrogato riottoso. Come quelle da
ufficio, solo un poco più grande. All'interrogato, finita la
tortura, dopo che aveva detto ciò che gl'inquisitori
desideravano, restava l'onere, una volta scarcerato, di farsi
togliere la grappetta da chirurghi specializzati in quest'arte.
Per fortuna l'operazione avveniva dopo che l'interrogato
aveva ricevuto una buona dose di anestetico, locale o totale, a
sua scelta.
Rivelazioni

Un conoscente mi ha rivelato, dopo che avevamo avuto una


telefonata molto difficile, che lui soffre di un disturbo, pare
neurologico, consistente nella incapacità di riconoscere la voce
di persone a lui note se tali persone, come accade al telefono,
non sono presenti. Vi sono certo strumenti tecnologici che
potrebbero servire al mio conoscente a ovviare al suo disturbo,
sappiamo, ma non di questo io e lui abbiamo parlato, dopo
quella difficile telefonata. Dal momento che io non sono un
neurologo né un medico, ragion per cui non m'interessa
l'aspetto terapeutico, ho tentato di attirare l'attenzione del mio
conoscente sulle componenti mentali, cognitive, della
percezione, inclusa quella uditiva, ciò che l'ha un poco
consolato e infine lo ha indotto a proporre che molti dei dotati
di memoria uditiva, quella che a lui manca, forse fingono di
riconoscere le voci telefoniche.
Non contento di quest'effetto involontariamente terapeutico,
gli ho confessato uno dei miei disturbi mentali: io, ho detto,
non ricordo mai il colore degli occhi delle persone, anche delle
più care.
Vita esteriore

N si svegliò con la seguente idea non facilissima da realizzare:


Segnare con un punto sulle carte geografiche i luoghi dove si è
stati anche una sola volta, su varie scale, da macro a micro.
Carte globali, continentali, nazionali, regionali, provinciali,
locali. Poi unire i punti segnati con linee che danno come
risultato diverse (a seconda della scala) figure che
topograficamente rappresentano la nostra vita diciamo
esteriore. Quanto più si va verso il micro, tanto più la figura si
fa ricca; quanto più si va verso il macro, tanto più essa si fa
povera. Di solito.
N inflisse tale idea alla sua compagna, ancora mezza
addormentata.
Scioglimento

Sul pendio le coppie erano disposte a buona distanza l'una


dall'altra in una fila che si allungava per qualche centinaio di
metri in lieve salita. La prima coppia si voltava verso la
seconda e, raggiuntala, si scioglieva. Così faceva la seconda
verso la terza, anch'essa sciogliendosi. Gli sciolti membri delle
coppie pian piano formavano un gruppo indistinto di femmine
e maschi. Non si riordinavano, né come prima né in nuove
coppie.
Riferisce questa cerimonia il padre domenicano Francesco da
Compiobbi, viaggiatore in terre incognite del secolo xix.
Screening

Allo scopo di valutare il grado di civismo dei sudditi il governo


ha organizzato, per volontà del Sovrano, un vaglio di massa -
facoltativo e anonimo. Non pochi sudditi si sono recati nelle
sedi approntate per il vaglio di massa; tra loro non potevo
mancare io, anche soltanto per curiosità. Con gran sorpresa ho
scoperto che il vaglio si basava su un'unica domanda cui si
doveva rispondere vergando una x sulla risposta scelta. Le
risposte preparate erano tre: 1) "in casa mia" 2) "nel mio
posto di lavoro" 3) "in chiesa".
Ah già, dimenticavo la domanda: "Dove preferisce non
trovare improvvisamente un ragno?"
Si è in attesa di conoscere il risultato e quanti sudditi abbiano
partecipato/risposto.
Louis Delourdes

Lo scrittore francese Louis Delourdes, perseguitato in patria a


causa di alcuni suoi scritti satirici che non erano piaciuti ai
vincitori della seconda guerra mondiale e ai loro reggicoda,
riparò verso la fine degli anni cinquanta in Italia, apprendo
oggi leggendo una sua biografia, precisamente nella mia città,
dove visse in incognito fino alla morte insieme alla moglie. Mi
è stato facile collegare questa informazione, che mi riempie di
orgoglio (ma pensa, il grande Delourdes presente nella nostra
cittadina!), con i ricordi di vicinato che conservo in merito alla
mia residenza giovanile nel quartiere della Querce.
Orbene, a un tratto di faccia a dove noi abitavamo, al quarto
piano, si trasferì uno strano personaggio in compagnia di una
curiosa, appariscente femmina, che molto scandalo
suscitarono nei miei poveri genitori, e non solo: il grande
balcone che si offriva in basso alla nostra vista in breve fu
trasformato da quei baccani, così mio padre, in una sorta di
soggiorno levantino adorno di divani, cuscini, tappeti, invero
dai colori tenui, dove quello strano personaggio trascorreva le
sue giornate senza far nulla, così mia madre, solo di rado
insieme alla donna che i miei poveri genitori in fretta avevano
etichettato come una megera. Costei appariva di tanto in tanto
agghindata morbidamente dai piedi alla testa, oggi direi
mediorientalmente - ai tempi mi limitavo a guardarla e a
guardare lui. Che era, oggi indovino, il grande Louis
Delourdes. Ascoltava le trasmissioni radiofoniche che, forse a
stento, riusciva a captare dal suo Paese.
Rispetto

M'incontro con il direttore di una rivista di studi sulla


narrativa nazionale, per cui lavoro; parliamo di Giovanni
Comisso, e non manco di affermare che Comisso, a parte la
sua grazia innegabile, a tratti scrive con i piedi; il direttore
inizia a fare le sue osservazioni, ma la finestra è aperta e lascia
entrare nella stanza il gran rumore della strada, per cui non
capisco nulla di quel che dice. Non è per rispetto che evito di
accennargli al fatto che non sento quasi nulla, ma per riserbo.
Nell'andarmene però mi domando che cosa lui abbia udito
delle mie osservazioni su Comisso, suffragate del resto da una
ben conosciuta nota di Guido Piovene.
Mare

Come gli spagnoli e i portoghesi, noi italiani siamo stretti tra


due mari e occlusi da una poderosa catena montuosa. Popoli
chiusi tra mare e montagna, non godiamo che a fatica della
larghezza del territorio che una volta Fosco Maraini, nella sua
prefazione alla Storia segreta dei Mongoli, ci rivelò come un
“mare” percorribile infinitamente, da Est a Ovest, da Nord a
Sud, e viceversa. V'è un'Europa continentale che si confonde
con l'Asia e un'Europa peninsulare che resta separata da
questa viaggiabilità incredibile, cui i confini degli Stati fanno
un baffo.
Pitone

Da ragazzo avevo un amico che teneva in una teca di vetro un


pitone, non grosso ma promettente. Di tanto in tanto gli
permetteva qualche serpeggiamento per la casa; sua madre (la
mamma del mio amico, voglio dire) non aveva da obbiettare.
Una volta chiesi all'amico di prestarmi il pitone per un giorno,
infatti desideravo vedere ben bene l'animale all'opera, non
solo per quei pochi minuti. Dimenticando che a mia madre un
pitone, non grosso, e sia pure, in casa non sarebbe piaciuto, e
neppure a mio padre, né alla nonna, né al mio fratellino, presi
per la sua maniglia la gabbia con dentro il pitone in prestito e
me ne venni via dalla casa del mio amico che, a proposito, si
chiamava Sergio ed è poi divenuto un luminare in un qualche
ambito delle scienze naturali che ignoro. Per arrivare da me
c'era qualche chilometro, che mi accinsi a percorrere in
bicicletta, con la gabbia del pitone fissata sul portapacchi.
Ogni po' mi voltavo a guardare il mio passeggero, e fu con
grande sorpresa e qualche disappunto che notai la sua
testolina spuntare dal cancelletto della gabbia. Mi fermai e
tentai di convincere il passeggero a rientrare nella gabbia, che
non gli doveva piacere; com'è naturale attirai l'attenzione di
passanti e di altri utenti della strada. In effetti non avevo
„voglia“ di prendere la testa del pitone e di spingerla dentro.
Non ne ebbi il coraggio, assolutamente. Avevo preso
un'iniziativa che esorbitava dalle mia capacità.
L'abito fa il monaco

Da ragazzo un'esperienza gli aveva segnalato strani possibili


esiti: in una bottega di barba e capelli, come ai tempi si diceva,
il titolare gli aveva improvvisamente lasciato il posto - torno
fra un'ora, fa' tu - aveva detto. Non so tagliare i capelli, né so
usare il rasoio, si era difeso il ragazzo. Non importa, aveva
detto il titolare, intanto basta che gli lavi la testa, prendi
tempo, poi arrivo.
Da giovane cresciuto pensò d'ingrandire l'esperienza descritta,
prodottasi senza scosse: era bastato il camice bianco a placare
la clientela. E due lavate di capo.
Ricordate "Il marito della parrucchiera", un film di tanti anni
fa con la Galiena e Rochefort? Tipo.
Si finse stavolta otorinolaringoiatra, medico laureato,
documentato, bussò a diversi gabinetti medici.
Otorino, otorino, sibilava nel corridoio, tra i pazienti in attesa,
attirandoli poi in una stanzetta che la direzione, credula e però
avida, gli aveva affidato - per prova.
Di nuovo, magia del camice bianco.
Oro alla patria

Iniziata una guerra immensa cui il Sovrano aveva deciso di


partecipare inviando nostre truppe là dove gli Alleati già si
battevano contro i Nemici, nella nostra quotidianità le
manifestazioni connesse al conflitto consistevano in giochi e
passatempi di gruppo, se non di massa, organizzati sia in
privato che in pubblico. Obbligatori.
Fu una guerra simile a quella che la nostra Patria aveva
sostenuto dal 1915 al 1918, la quale, Nord Est a parte, lasciò il
Regno relativamente tranquillo.
Si raccoglievano fondi, si donavano ori e preziosi, si
prelevavano le cancellate per poi fonderle nelle Fonderie Reali
in vista della lor trasformazione in cannoni, eccetera, sì, ma
tutto era filtrato per noi dai suddetti giochi e passatempi. Che
dunque furono il nostro partecipare a quella guerra.
Germania orientale

Invitato in una piccola città della Germania orientale da un ex


studente a suo tempo seguito in Italia negli studi preparatori
alla dissertazione finale o tesi di laurea che dir si voglia, N si
trovò a far comunella con diversi giovani che ovviamente
parlavano nella loro lingua, a N nota soltanto sulla carta e con
l'aiuto di svariati dizionari. Il cuore del viaggio, una
conversazione organizzata dall'ex studente, ora bibliotecario
nella cittadina, con alcuni intellettuali del luogo, preoccupava
non poco N, il quale fu ben lieto di apprendere da Wilibald
Treibel, l'ex allievo, che questi gli avrebbe fatto da interprete.
Sistemata la faccenda, noiosa non poco e che qui sarebbe
inutile descrivere (basti dire che gli intellettuali di cui sopra
non nascondevano la loro voglia di farsi riconoscere come
„sinceri democratici“ mai stati compromessi con la cosiddetta
dittatura comunista del recente passato), N si trovò a vagare
insieme a un manipolo di giovanotti e giovanotte del posto
nelle campagne circostanti la cittadina - fino a sera, quindi con
scarsa luce, ragion per cui ritenne di spropositare che al suo
paese (Land) la luce (Licht) era più forte (starker) che non lì,
dov'era invece un pochino fosca (ein bisschen dunkel) e simili
amenità. Ciò contribuì all'assottigliamento della compagnia
(Gesellschaft), insomma N rimase solo con una ragazza che a
un tratto (ploetzlich) gli disse che lei era arrivata a casa e che
lui avrebbe dovuto fare un certo percorso (Weg) così e così per
tornare in città.
Le istruzioni date dalla ragazza (Maedchen) in lingua tedesca
precipitarono N in una sorta di smarrimento: solo in terra
straniera, di notte e in piena campagna (Land, ma in altro
senso). Per di più dopo pochi passi fu affrontato da un cane
(Hund).
Armato di bastone (Stock) N cacciò via la bestia (Tier) e si
accinse alla camminata (Spaziergang) che lo aspettava.
Sequestro

In una villa aristocratica il cui proprietario riceveva rare visite


si presentò all'improvviso una cosiddetta vecchia fiamma del
padrone di casa accompagnata da "suo marito" e da altre
persone, cinque in tutto, parenti e amici della vecchia fiamma.
Il padrone di casa fece aprire da un domestico lo stanzone a
pianterreno, a sinistra subito dopo l'ingresso, e v'introdusse i
visitatori, inclusa la donna. Dopo aver fatto accomodare la
compagnia su sedie e poltroncine varie e polverose con una
scusa uscì dallo stanzone e richiuse la porta dietro di sé, a
chiave. Logicamente i convenuti si chiesero il perché di un
simile atto, prima tra loro, poi, addossati alla porta chiusa, lo
chiesero ad alta voce, affinché al di là del legno si udisse la loro
protesta. Il domestico di cui sopra, appoggiato un orecchio
sull'altra faccia della porta e udite le rimostranze, fece a sua
volta delle dichiarazioni che i convenuti udirono a fatica e che
comunque erano del seguente tenore: il signor padrone non
godeva di una salute perfetta, in altri termini soffriva di una
malattia che influiva sul funzionamento della sua mente, già
provata dai molti decenni di letture e di studio. In particolare
il signor padrone non era in grado di sostenere la presenza di
sette persone tutte insieme, ecco spiegato l'atto di clausura. Se
i signori avevano la compiacenza di stabilire con lui, il
domestico, un calendario di incontri nei successivi sette mesi, il
signor padrone avrebbe cercato di ascoltarli uno alla volta.
Quanto alla signora, aggiunse il domestico, avrebbe dovuto
avere la pazienza di presentarsi all'incontro con il signor
padrone per ultima, cioè a dire di lì a sette mesi.
I prigionieri non accolsero la proposta del padrone di casa
comunicata loro dal domestico, anzi chiamarono con uno dei
loro telefoni la gendarmeria, denunciando di essere stati
sequestrati. Il gendarme telefonista domandò al denunciante
se era sicuro che si trattasse di un sequestro, cosa che produsse
una certa alterazione nella risposta del denunciante.
I gendarmi pervennero con comodo alla villa, si fecero aprire
prima il portone d'ingresso e poi la porta dello stanzone dando
quindi luogo alla liberazione dei visitatori imprigionati. Non
mancarono di redarguire il padrone di casa e il domestico. Più
tardi presso gli uffici della gendarmeria raccolsero una
formale denuncia da parte dei liberati. La ex fiamma si
dissociò dalla denuncia, facendo quindi mancare la sua firma
all'atto.
Riparatori di giocattoli

Negli anni peggiori della guerra che il Regno e quindi la


Nazione sostennero contro nemici implacabili furono istituiti
campi di raccolta al cui interno si custodirono per lunghi
periodi cittadini del Regno, o stranieri residenti, ritenuti
inaffidabili ai fini dell'impegno bellico collettivo. Tra costoro
molti giovanissimi e bambini i quali logicamente
trascorrevano parte del tempo libero, diciamo, giocando.
Orbene, i giocattoli di questi piccoli internati spesso si
guastavano e però non mancavano adulti, o ragazzi meno
giovani di coloro che avevano rotto i giocattoli, abili a riparare
i medesimi, per la riconoscenza dei piccoli - e dei loro genitori.
Dopo la fine della guerra e la chiusura dei campi di raccolta in
molti si ricordarono dei "riparatori di giocattoli", che vennero
perciò invitati dal Sovrano, riconosciuti pubblicamente e
avviati alle pratiche per il ricevimento di titoli onorifici. Quasi
tutti i riparatori però si sottrassero a tale invito e di
conseguenza in pochi furono insigniti dei suddetti titoli
onorifici.
Primavera

Un docente di origine scozzese, Robert Mc Hatchey, della


Scuola di Scienze Naturali attiva nell'università della nostra
cittadina, dette all'improvviso incarico ad un assistente, tale
Sposini, di andare a comprargli una rivista (in effetti non
scientifica) appena uscita, raccomandando all'assistente una
certa edicola di giornali sita in prossimità dello Stadio
Comunale. Sposini, che stava lavorando insieme ad alcuni
studenti nella consueta forma cosiddetta seminariale, accolse
la richiesta di Mc Hatchey con qualche sottomessa perplessità
anche in considerazione dell'indicazione dell'edicola, piuttosto
lontana dalla Scuola di Scienze naturali. Comunque congedò i
suoi perplessi allievi e scese in strada, dove mise in moto la sua
piccola monocilindrica e si diresse verso lo Stadio Comunale
alla ricerca dell'edicola, evidentemente fornitrice di primizie.
Poco dopo vide transitare sul marciapiede una sua vecchia
amica, Guendalina, ragione per cui si fermò e, dopo brevi
convenevoli, la invitò ad accomodarsi sulla moto e ad
accompagnarlo. Mentre i due percorrevano la via verso lo
Stadio Comunale iniziarono a chiacchierare, non senza
difficoltà a causa dell'obbligo di proteggere le loro teste con il
casco, che non facilita l'udito e così via. Urlavano domande e
risposte rendendosi abbastanza ridicoli. In effetti Sposini,
distratto dalla difficile conversazione, oltrepassò l'area dello
Stadio Comunale, beninteso accorgendosi presto dell'errore,
ma prese senza indugio per le colline che abbondano attorno
alla nostra cittadina. I due amici si fermarono in località
Vincigliata e iniziarono a percorrere un sentiero allietato dal
canto degli uccelli e da un fresco alito di vento. Primavera
nell'aria brilla d'intorno e per li campi esulta, citò Sposini, sì
ch'a mirarla intenerisce il core. D'in sulla vetta della torre
antica, rispose Guendalina, passero solitario alla campagna
cantando vai finché non muore il giorno. Ed erra l'armonia
per questa valle, concluse Sposini, non senza prendere
Guendalina per mano.
Nel pomeriggio i due amici tornarono in città e cercarono
l'edicola fornitrice di primizie. Era orario di chiusura.
Pane

E' infuriato, il Sovrano.


Un addetto alla Real Casa gli ha tra molte esitazioni riferito
che in una lontana propaggine della Capitale alcuni popolani
protestano con estrema vivacità contro l'Amministrazione
cittadina.
Perché? ha chiesto il Sovrano.
Perché, Maestà, i popolani non vogliono che nelle vicinanze
delle loro case abitino alcune decine di Nomadi.
Perché? ha chiesto il Sovrano.
Perché, Maestà, i popolani sono convinti che i Nomadi siano
ladri.
E in che cosa consiste questa protesta dei miei sudditi?
Ieri per esempio hanno rovesciato un carro che trasportava
dei pani dai Reali Forni all'edificio dove sono stati insediati i
Nomadi, e subito dopo hanno calpestato quei pani riducendoli
in poltiglia.
Infuriato, il Sovrano, decreta un aumento gigantesco del
prezzo del pane dedicato con la massima precisione al lontano
quartiere della Capitale nel quale i popolani si sono prodotti
nel calpestamento del pane Reale destinato ai Nomadi.
E dei Nomadi, Maestà, che ne facciamo? - chiede l'addetto.
Date loro una divisa, e che si occupino dell'ordine pubblico.
E i minori?
Conduceteli al Circo Reale!
Ogni domenica?
Una sì e una no.
E quella no?
Allo Stadio dei Centomila.
Pen/ombra

La signora P detestava la luce del giorno e tollerava appena


quella elettrica, forse per colpa di una malattia della vista, non
sappiamo, per cui nella sua grande casa vigeva la penombra.
Il figlio della signora, rentier, s'interessava, nei ritagli di tempo
tra il poco e il nulla, alla nuova domestica, Anita, una bruna
originaria di terre lontane.
Da dove lontane? Da qui, scusate tanto.
Insistendo con energia altrimenti inimmaginabile il giovane P
ottenne infine un tornaconto erotico da Anita, la quale non
dissimulava però una cert'aria di sufficienza nel prodigare la
mano destra (derecha) al padroncino. Nella stanzuccia che le
serviva da camera.

Una volta, ai tempi dei nostri bisnonni, che non sono i vostri,
storie del genere si chiamavano "amori ancillari".

Il giovane P tentò in seguito con qualche successo di dar luogo


a "rapporti" con Anita almeno due tre volte alla settimana.
Anita comunque non dava molta importanza a ciò che
avveniva tra lei e il padroncino nella sua stanzuccia, se la
sbrigava in cinque minuti, e poi si lavava le mani.

Un giorno chiese al suo diciamo assistito erotico di farle un


favore.
Si tratta di? - chiese P, sospettoso.
Si trattava di accompagnare Anita in una città vicina ma non
troppo, dove viveva e lavorava Carmen, cugina di Anita.
In treno no? - chiese l'avaro P.
In treno certo, ma in auto è meglio, rispose Anita, e aggiunse
qualcosa che P interpretò, illuso, come bisogno di lei di
mostrare alla cugina la propria conquista di un signore, d'un
bianco, anzi del padroncino.
P finì, pusillo, per accettare la richiesta di Anita, temeva
infatti di perdere il tornaconto erotico della di lei mano; tolse
dal garage di casa un'auto minore e si mise in attesa di Anita
sulla strada provinciale.
Era una bella giornata, grande la luce, contrariamente a
quanto era dato patire all'interno del villone di famiglia,
sempre crepuscolare a causa della idiosincrasia della signora
madre di P - ragion per cui P vide per la prima volta davvero
distintamente la figura e il volto di Anita, fin lì all'incirca
indovinati.
Non poco baffuta, alta, vigorosa.
Santo cielo, pare un uomo! - esclamò P ingranando la prima
con singolare decisione.
Un foglio dattiloscritto

Sulla parete di una muraglia prossima alla Stazione


Ferroviaria Est il dottor N vide incollato un foglio
dattiloscritto. Lesse:

"Le invenzioni e le scoperte sono fatte da individui che


vengono dal futuro, ma vivono nel nostro presente e
propongono quello che conoscono del loro tempo, della loro
epoca. Sono infelici, costoro, perché estromessi, forse per caso
o per una condanna, dal loro tempo, dal loro mondo.
Facciamo una congettura: noi, condannati a vivere cento,
duecento o cinquecento anni indietro, a seconda della
condanna ricevuta, senza ritorno al presente.
Questo sarebbe il motivo segreto del progresso: secondo la
formazione da noi ricevuta propineremmo agli "antichi"
qualcosa di “nuovo”, anche nell'ambito dei costumi.
Nella loro propria epoca gli innovatori sarebbero persone
normali, o anche meno che normali.
Allargando il discorso sull'infelicità dei condannati a vivere
nel passato, potremmo immaginare che la nostra infelicità
comune dipenda dall'essere noi - tutti - dei condannati al
passato."
La colonia penale

A bordo di un piccolo elicottero pieno di spifferi che contiene a


stento il pilota, il grasso educatore e me, atterriamo sull'isola.
Fa molto caldo, la luce è vivissima, a distanza si vede un alto
edificio probabilmente costruito negli anni trenta dello scorso
secolo - disabitato?
No, mi spiega il grasso educatore, che intanto si è messo in
calzoni corti e non pare vergognarsi delle sue rotondità
strabordanti: malabitato! E giù una gran risata.
Attorno all'alto edificio, privo di vetri alle finestre, sparse
nella pianura vedo diverse casette che potrebbero essere state
bunker, ai tempi. Molti ragazzi e ragazze bighellonano nella
pianura che dà sul mare. Sono i giovani delinquenti che
formano, mi dice il grassone, la colonia penale. Sono liberi di
fare quel che vogliono, solo che andarsene dall'isola è
impossibile, per quanto il desiderio di farlo a loro venga
presto, anche perché è piccola e non c'è nulla da vedere, da
esplorare!
Altra risata.
Voi che compito avete?
Mi occupo dei ragazzi e delle ragazze ...
E ride ancora.
Volete dire che ...
Certo, ho le mie favorite, che mi guadagno, ogni volta che
torno, con qualche regalo...
E i maschi?
I maschi se lo finiscono alla svelta, con le ragazze e tra loro...
E ride, il grassone che non si vergogna delle sue rotondità
strabordanti.
In questo periodo la sua favorita è?
Quella magrolina laggiù che fa finta di nulla...
Ah! Ma è giovanissima!
Sembra giovanissima, ma sta sui trent'anni, è navigata, E ride.
Sentite, il vostro metodo di rieducazione qual è?
Io, signor sociologo, lavoro per il Ministero della Giustizia e
seguo le norme diramate ormai da anni: consolo.
Consolate?
Consolo, durante un paio di giornate al mese, i giovani
delinquenti ...
Di che cosa li consolate?
Del fatto che sono esiliati su quest'isola!
E ride ancora.
Scoop

Ai piedi della collina c'è un piazzale dove si riuniscono i


domestici e i badanti che lavorano presso le molte ville
costruite nei secoli per offrire ai membri delle famiglie ricche
una vista dall'alto della città e dei suoi monumenti
architettonici più eminenti. I domestici e i badanti si ritrovano
ogni domenica nel primo pomeriggio e chiacchierano, per lo
più usando la nostra lingua, meno la loro, o meglio le loro, che
sono le più disparate. Beninteso, prima di spargersi per la città
a piedi, in tram, in bicicletta, perfino in automobile, ognuno
per i fatti suoi, ogni gruppo o gruppetto qua o là, dipende. La
nostra lingua riceve dai domestici e dai badanti, provenienti
da Asia, Africa, America, Europa, un omaggio forse
impensabile anche solo pochi decenni or sono, allorché non
pochi la ritenevano in via di estinzione.
Il mio giornale mi ha incaricato di scavare (nella lingua
dominante: scoop) in questo fenomeno linguistico e di
distinguere i vari modi in cui la nostra lingua viene parlata da
questi lavoratori nati lontano da qui e lontano tra loro. V'è un
italiano-filippino, per esempio, un italiano- arabo, un italiano-
peruviano, un italiano-ucraìno, ognuno con le sue storpiature
che sono peculiarità. L'italiano insomma, a opera di questi
lavoratori stranieri rispetto a noi ma anche stranieri tra loro,
si trasforma, mi ha detto il capo della "redazione cultura" del
mio giornale.
Che non è mio, infatti sono un dipendente: "mio" si fa per
dire.
Da qualche domenica vengo nel primo pomeriggio ai piedi
della collina e mi aggiro tra i numerosissimi capannelli munito
delle mie orecchie e di strumenti di registrazioni moderni -
invisibili; ma sfortunatamente il mio aspetto, come dire,
indigeno, mi impedisce di infilarmi nei capannelli. Sono e resto
un corpo estraneo, e mi devo accontentare di quel che odo o di
quel che registrano i miei strumenti moderni.
Di cosa parlano i domestici e i badanti stranieri?
Dei loro "datori di lavoro", dei loro Paesi lontani, delle loro
famiglie, chi del marito, chi della moglie (cosa assai rara), dei
figli, dei genitori, e del Paese che "li ospita".
E che cosa dicono del Paese che li ospita? Ridono.
Meglio non scavare.
Il vedovo d'oro

Sposato cinque volte e restato vedovo altrettante il signor B


costituiva ormai un caso interessante per le società
assicuratrici (ramo vita) e per l'autorità giudiziaria, non solo
per i suoi compaesani, che lo ritenevano fortunatissimo o
sfortunatissimo a seconda dei parametri che usavano per
esprimere la loro opinione in merito.
Le donne che nel corso dei decenni egli aveva sposato, tutte
benestanti, lo avevano lasciato via via sempre meno povero,
via via sempre più solo con i suoi beni mobili e immobili.
Aveva accumulato una quantità notevole di parenti nuovi.
Ora, una delle società assicuratrici meno disposte ad accettare
il caso B come naturale incaricò un giovane di indagare da
vicino sul vedovo d'oro spacciandosi per uno dei suoi
numerosissimi nipoti.
Il giovanotto si presentò al signor B e cercò non senza successo
di frequentarlo. Allo scopo di scoprire se eventualmente la sua
vedovanza fosse legata a omicidio, ossia a femminicidio.
Mostrò di parlare un dialetto se non uguale assai simile a
quello del vedovo, supposto assassino a scopo di lucro.
Il vedovo sospettava che il giovane fosse una spia, per cui lo
sottopose a vari test per smascherarlo: conoscenze in comune,
ricordi, usi dialettali, e anche al test della caccia.
Andati a cinghiali insieme, "zio" e "nipote" pervennero in una
fitta boscaglia. Lo "zio" aveva deciso di simulare un incidente
di caccia per liberarsi della spia? Era un criminale? Un
femminicida seriale? Aveva ucciso cinque donne per
assicurarsi il possesso dei loro beni?
Il giovanotto spacciatosi per nipote ebbe comunque la certezza
di essere sul punto di lasciarci le penne a colpi di pallettoni,
ragion per cui fece perdere le tracce e lasciò lo "zio" solo con il
suo fucile.
Il signor B aveva perso per ragioni patologiche misteriose due
mogli; una gli era caduta in un precipizio; una quarta era
affogata durante una gita in barca nel lago P; la quinta non
era sopravvissuta a un incidente stradale.
Rivoluzione

Il nuovo Piano regolatore del Comune di nostra residenza


esige che l'edifico che abitiamo, una costruzione sperimentale,
venga ruotato sulle sue fondamenta di 180 gradi.
L'operazione, un tempo possibile solo demolendo e poi
ricostruendo l'edificio, oggi avviene in breve. Sono sorpreso.
Naturalmente (ironia) non avevo letto certi dettagli del
contratto d'acquisto. Pare che sottostante alle fondamenta
(ecco l'aspetto sperimentale) vi sia un grosso corpo cilindrico
che è in grado di ruotare internamente a una sorta di suo
contenitore opportunamente lubrificato. Le fondamenta
(chiamiamole così per semplificare) stanno, come il vassoio
sulle dita allargate di un solerte cameriere, sopra il suddetto
corpo cilindrico, e sono assicurate al terreno tramite quattro
sistemi di ancoraggio, camuffati da altrettante statuette lignee
rappresentanti ignote figure tra l'umano e l'animale. Kitsch a
suo tempo da me denunciato invano!
In breve: alcuni tecnici del Comune tolgono le statuette,
disancorano le fondamenta e iniziano a eseguire l'operazione
rotatoria dell'edificio: un grosso trattore tende due robusti
cavi fissati a due angoli consecutivi dell'edificio e voilà! In
meno di un'ora il gioco è fatto.
Quanto precede è avvenuto da qualche settimana. Adesso ci
troviamo disorientati non poco, infatti il davanti della nostra
casa è dietro, il dietro è davanti; avevamo l'ingresso di casa
sulla strada, ora lo abbiamo sui campi oltre il nostro giardino;
la luce naturale che entrava è diciamo capovolta, infatti le
stanze a est ora sono ad ovest e viceversa.
Ah, i tramonti di prima! Ahi, le crude albe di oggi!
Quasi in armonia con la rotazione subita anche i nostri
rapporti reciproci sono capovolti; regna un disordine totale.
La donna, un tempo solerte e sottomessa, oggi è ignava e
arrogante; i figli, un tempo bravi bambini, oggi si fanno arditi
assai e perfino „rispondono“ al padre. Male, voglio dire. La
domestica è diventata brutale, fuma mentre lavora, sbuffa, fa
spallucce. Il cane piscia sulle statuette lignee.
Mi reco negli uffici del Comune dove mi si indicano i
responsabili del Piano regolatore. Costoro, una squadra di
buontemponi, mi ascoltano dandosi a vicenda colpetti sulle
spalle, gomitate, facendosi l'occhiolino, infine mi comunicano
che il vecchio posizionamento della nostra casa era
antiestetico, superato. Inaccettabile. Rifletto un momento e
dico: ma sembra una punizione!
Certo, rispondono. Tuttavia Lei ha sempre la possibilità di
rimediare, e magari rimediando gli errori del passato Le potrà
tornare utile il sistema sperimentale di fondazione della Sua
casa.
La moglie

M telefonò all'elettricista perché non riusciva da sé ad


aggiustare un lume - e bruciava una lampadina dopo l'altra.
Rispose la moglie dell'elettricista: è fuori a fare riparazioni.
Appunto, disse M, a me serve una riparazione. Quando torna
glielo faccio presente, lei è?
M diede le sue coordinate e riattaccò.
Logicamente questa storia è vecchia di parecchi decenni,
amica lettrice, caro lettore.
Dopo una mezz'ora suonò il campanello, ovvero ciò che in
certe parti del Regno chiamano "citofono", e M andò ad
aprire. Una bella signora, che indossava un mantello ampio di
colore scuro e all'apparenza soffice, stava sulla porta. M chiese
alla signora che cosa "desiderasse". Sono la moglie, rispose lei.
Nel senso? - chiese M. La moglie dell'elettricista, sono qui per
la riparazione. Stupefatto M lasciò entrare la donna, che si
tolse il mantello, lo appoggiò su una poltrona e subito,
indicatole M il lume capriccioso e mangialampadine, si accinse
alla riparazione. Dopo qualche minuto e due altre lampadine,
una bruciata e l'altra spanata dentro l'avvitatura del lume, la
donna dichiarò che serviva suo marito. M, muto, le offrì il
mantello e la accompagnò all'uscita. La donna tuttavia iniziò a
piangere ben prima di arrivare alla porta, poi vi si appoggiò
senza smettere di singhiozzare. Sembrava disperata, per cui M
corse in cucina e tornò con il classico bicchier d'acqua. Lei
bevve avida, come si dice, quindi si rincantucciò tra la parete e
il legno della porta. M la rincuorava, le dava colpetti su una
spalla, su un braccio. Perché solo su un braccio e su una
spalla? Perché l'altra spalla e l'altro braccio stavano
nell'angolo. Non se la prenda, signora, vedrà che lo risolviamo
il guasto.
Povera me, povera me! - si lamentava lei, quando torna mio
marito sono fritta, ho lasciato la bottega sola ed eccomi qui a
far danni. Ma ci sono io, replicò M, stia tranquilla!
Come farò a giustificarmi? - chiese la donna.
Be', in effetti questo non saprei dirlo, rispose M.
Lo studio trascurato

S aveva spesso sogni che lo vedevano alle prese con


appartamenti-studio da cui era stato sfrattato, oppure che
stava trascurando da mesi, se non da anni. Stavolta in
prossimità del vecchio ponte apriva una porta mimetizzata
nella parete dell'edificio, quindi apriva, con una seconda
chiave, la porta vera e propria. Entrava nello studio
trascurato e si stupiva di trovare un arredamento analogo a
quello del suo studio attuale, dopo aver acceso la luce, per la
verità non del tutto necessaria grazie ad un finestrino sul
lungofiume.
Svegliatosi in preda a una sonnolenza degna della letargia o
giù di lì, disteso sul divano-letto, si rese conto che la torre di
libri che lo aveva stupito nel sogno era quella davanti ai suoi
occhi. La solita. Liberato infine dalla sonnolenza causatagli
dall'aver mangiato lepre alla porcona e bevuto Rossese ebbe la
seguente pensata: forse i sogni sullo "studio trascurato"
alludevano ingenui al fatto che lui trascurava un certo genere
di impegni intellettuali a favore di altri.
Sì, ma quale?
Maiali scendono le scale

N stava rassettando il suo studio da tempo trascurato e quindi


trasandato non poco e aveva però l'impressione che gli oggetti
da lui spostati, puliti e messi da parte in attesa di sistemazione
facessero resistenza.
Certo devo essere un po' esaurito, si disse mentre osservava un
sacchetto di carta colmo di rifiuti che si muoveva sul
pavimento quasi che all'interno vi fosse un topolino
prigioniero. Lo distrassero però un rumore sordo proveniente
dalle scale condominiali e dei grugniti; aprì la porta e vide
scorrere dall'alto in basso una quantità di maiali.
Devo star male sul serio, imprecò N.
Dietro il branco di maiali scendeva però il porcaro, un giovane
in carne dai capelli biondi e ricci, che N pregò di sostare un
momento sul pianerottolo.
Non crede che sia un problema far uscire questi maiali giù in
piazza? - gli chiese tanto per attaccare discorso.
Il giovane non ritenne di rispondere, in compenso chiarì che il
suo porcile si trovava nell'attico.
Incuriosito da quelle stranezze difficili da situare nella banale
realtà condominiale N scese dietro il porcaro e vide che a
pianterreno un appartamento aveva la porta aperta. Dentro
alcuni condomini stavano piacevolmente riuniti - non si
trattava di qualcosa di formale. N salutò i condomini ed entrò.
Non era in discussione il porcile installato dal giovane, forse
un "alternativo", un cultore delle pratiche connesse al mondo
della natura - questo pensò N - ma un'altra faccenda meno
interessante. La caldaia.
Dopo mesi e mesi che lui non aveva frequentato lo studio
com'è naturale erano successe diverse cose, per cui il porcile
era oramai un'ovvietà.
Tra i presenti N notò tuttavia una bella bruna mai vista prima,
e le si avvicinò. La ragazza era nuova nel condominio, scoprì
N, e non aveva ancora digerito la faccenda dei maiali. Per cui
da lei N riuscì a farsi dare un po' di spago. Quella nell'attico
era un' usurpazione paragonabile a quella in corso in
Palestina, spropositò la ragazza, quei maiali ...
Calma, calma, le mormorò N impaurito, e dopo poco uscì
dall'appartamento a pianterreno, insalutato ospite.
Il bravo dottore

C'era un medico che non si limitava a visitare i pazienti e a


prescrivere farmaci, esami diagnostici e simili, ma forniva
anche il suo parere sulla condotta dei pazienti. In realtà il
medico era una brava persona e forse onorava a differenza di
altri suoi colleghi la nobile professione. A uno poteva dire
però: "lei è un nevrotico, si crea i problemi da solo". A un
altro: "lei signora in certe cose è saggia", ciò implicando che la
signora in altre cose non era "saggia". Secondo il medico. A un
altro paziente in effetti non disposto a sottomettersi a esami
diagnostici "preventivi" il bravo dottore diceva: "non abbia
paura". "Non si dice a un uomo 'non abbia paura' ", replicò il
paziente, "pensa forse di essere mio padre?"
Un giorno il bravo dottore fu chiamato a casa di un malato e ci
andò, cosa che come tutti sanno non è affatto scontata. Visitò il
paziente e poi si mise a scrivere le prescrizioni - la "ricetta". Il
paziente vide che il medico continuava a scrivere e s'incuriosì.
La prescrizione di un "antibiotico" occupava, vide il paziente,
solo un piccolo spazio in fondo al foglio, mentre il resto era
pieno di righe - fitte fitte. Si trattava, spiegò il medico, di
considerazioni sullo "stile di vita" del paziente, secondo lui
sbagliato e anzi immorale. "Ma dottore, a quale farmacista
vuole che importi quel che lei pensa di me, ammesso e non
concesso che riesca a leggere queste zampe di gallina!" -
esclamò il paziente, che beninteso non era riuscito a decrittare
il testo improvvisato dal medico. "Suvvìa", rispose il medico,
"lei sa benissimo che cosa penso della sua condotta scriteriata,
ecco: stavolta ho voluto mettere per scritto il mio giudizio!"
"Parere, prego, parere!", precisò il paziente. Accompagnò
quindi il dottore alla porta, fece ritorno in camera sua e
stracciò la "ricetta". Si era ricordato di avere già in casa l'
"antibiotico" prescritto.
Il lago

Faccio a piedi il giro del lago. E' immenso. A tratti non riesco a
mantenere il contatto con la riva, bisogna che me ne allontani.
Mi trovo oltre un'altura. Percorsi alcuni chilometri mi accorgo
di essermi smarrito.
Dopo qualche imprecazione, che sbiadisce però nella coscienza
che ho di guadagnarmi la mia vera meta, sbuco dal bosco e
rivedo l'acqua del mio lago. Scendo verso la riva e riprendo il
giro mentre la notte si avvicina. Monto la tenda e provo a
dormire nel sacco a pelo.
Peccato che si levi un vento fortissimo. Passo ore impugnando
per sicurezza uno dei ferri che sostengono la tenda, e non
dormo.
Infine mi addormento - sogno una fanciulla che vidi cinquanta
anni fa, sparita non so come. Mentre sogno mi duole la perdita
al punto di svegliarmi. Ho gli occhi bagnati. "E' pioggia o
pianto?"
Sta piovendo forte, tutto qui. La tenda non bene tesa tiene
poco l'acqua.
Arriva il giorno. Smonto la tenda e riprendo la marcia in vista
del castello - nel secolo scorso servì da rifugio al Re durante la
guerra. E' la meta del mio faticoso cammino. Espiatorio.
Salirò al castello, lo visiterò.
"Che giorno è? Che anno è?"
Basta cantare! Il portone è chiuso; busso, mi apre uno che
assomiglia a mio nonno Vanni, ma è solo il custode.
- Non è giorno di visite, dice.
- Suvvia, signor custode, vengo da lontano, a piedi, sono un
cultore di storia del novecento, scrivo sul Re, abbia la cortesia
di farmi passare, gliene sarò grato.
- Non vale qui la gratitudine, risponde il custode, ed indica il
lago sottostante.
- Vale cosa?
- Niente, risponde il custode, non importa; e mi ammette.
Il salone è al piano nobile: qui il Re riceveva i ministri, i
cortigiani e le cortigiane, i diplomatici e le diplomatiche, i
consiglieri e le consigliere. E i suoi carcerieri. Mi agghiaccia,
con la sua severità tenebrosa. Dal lago filtra una luce
„opalescente“.
- Ma che cosa dice? - chiede il custode. Con chi parla?
- Registravo le mie impressioni sul salone, non le pare che la
luce tenue sia opalescente?
- E cosa vorrebbe dire?
- Non conosce questa parola?
Fa freddo - qui non viene mai nessuno, spiega il custode, io
abito a pianterreno in due stanze riscaldate. Quando scende le
offro un punch.
- Vorrei fotografare l'appartamento del Re.
- Non si deve! Le darò qualche cartolina ricordo.
"Non si deve". Che tipo il custode! Non appena mi lascia da
solo scatto qualche decina di foto. Arredamento anni trenta!
Che goduria! Mi fermo nello studio del Re, entro nella sua
stanza da letto, nella biblioteca, in realtà piena di fascicoli
periodici, le "riviste" che Lui tanto amava leggere per capire
che cosa gli intellettuali pensassero del suo governare. Che gli
intellettuali pubblicavano perché Lui non sapesse quel che
davvero pensavano. Fa dappertutto un freddo micidiale, un
freddo storico. Non c'è un filo di polvere.
Mi ricordo che da bambino venni su questo lago con i genitori
e ci fermammo a dormire in un albergo dove il mio letto però
era gelido. Chissà quanto erano emozionati i miei genitori
dalla prossimità del castello del Re! Eppure non me ne
parlarono affatto.
Sciopero dei giornali

Abitai per anni in un borgo situato a ovest della città. Era


perciò facile fermarsi a chiacchierare con il giornalaio, con il
pizzicagnolo, negozianti che visitavo ogni mattina - il secondo
per la merenda di mio figlio a scuola. Durante uno sciopero
indetto da tutte redazioni il giornalaio mi dette l'unico
quotidiano che invece era uscito.
"E' il giornale dei sordomuti", mi disse.
Quelle pagine riproducevano graficamente il linguaggio dei
segni, per cui erano assolutamente impenetrabili per chi non
facesse parte della minoranza analfabeta dei sordomuti, i quali
in maggioranza sanno leggere e scrivere.
E' noto che tra noi vi sono diverse persone che non sanno (più)
leggere, o comunque non sanno passare dal riconoscimento
delle lettere e delle parole alla comprensione del testo. Ciò
avviene anche tra i sordomuti, pensai mentre tornavo a casa
sfogliando quello stranissimo giornale di cui non avevo mai
sentito parlare.
Gli scioperi dei giornali danno sempre o quasi sempre la
possibilità di scoprire nuovi mondi di carta, questo lo sapevo
dai tempi di mio padre, che, abituato al giornale quotidiano, in
caso di sciopero comprava qualsiasi foglio disponibile.
Qualsiasi.
Mai gli vidi però in mano il giornale dei sordomuti analfabeti,
che ovviamente non so come s'intitoli.

Comunque l'ho conservato, infatti è molto decorativo.


Procomberò?

Già ai tempi di mio padre nei licei si poteva programmare una


interrogazione, naturalmente con quei professori disposti a
rinunciare al privilegio di chiamarti due volte di seguito alla
cattedra per magari beccarti impreparato e dimostrare così
che non eri uno studente serio.
Orbene, mio padre fissò con il professore di italiano
un'interrogazione „su Giacomo Leopardi“: aveva sette giorni
per prepararsi.
Non si preparò, convinto com'era di essere leopardiano
nell'anima e di poter quindi improvvisare al momento
dell'interrogazione. Arrivato però alla vigilia della medesima
fu preso da un certo malessere, ritenne che forse il suo
leopardismo nativo non sarebbe bastato a fargli prendere
almeno la sufficienza. Sarebbe come dire un "6". D'altra parte
mio padre non era tipo da mettersi a studiare come un matto
all'ultimo momento, infatti trovava tale abitudine lesiva della
sua propria dignità. Non a caso certi amici lo chiamavano
affettuosamente "il dignitoso". Mai lo avreste colto al mattino
in strada con un libro aperto in mano, mentre era diretto a
scuola, per appiccicarsi nella memoria qualche nozioncella da
rivomitare in caso di interrogazione.
Pensò dunque di distrarre l'attenzione interrogante del
professore presentandosi alla cattedra con i Canti di Leopardi
in una edizione diciamo da bibliofilo, non solo con il libro di
testo scolastico. Ragione per cui tolse dalla libreria di famiglia
il prezioso ed elegante volumetto, lo spolverò e lo aprì a caso.
Gli cadde l'occhio sul poema "All'Italia", là dove si legge:
"procomberò sol io".
Per la patria, qualora latitino i coraggiosi - sembra che dica il
poeta - cadrò io, io solo, e in avanti (pro), non in fuga di fronte
al nemico.
Comunque fosse, a mio padre, che com'è naturale ai tempi non
era ancora mio padre, ma un ragazzo di sedici anni, quel verso
non parve di buon auspicio in vista della interrogazione. Si
sentì pungere come da un pronostico infausto: lui sarebbe
caduto di fronte al professore, e sia pure a testa alta, per chi?
Per che cosa? Per l'Italia? Per la dignità?
La mattina dell'interrogazione mio padre si presentò alla
cattedra con il prezioso volumetto rilegato, e il professore fu
contento di prenderlo tra le mani, di sfogliarlo, di osservarne
le caratteristiche "bibliologiche", di saggiare la qualità
dell'anziano commento ai versi del poeta in esso contenuto, e
così via.
"Senza studiar la sfangherò,
la sfangherò pur io", recitò interiormente mio padre, finita
l'interrogazione.
Alabastro

Una studentessa di Volterra dopo laureata andò a salutare il


docente, un fiorentino che l'aveva sostenuta durante il lavoro
di tesi. La volterrana si presentò precisa nell'orario di
ricevimento, si mise seduta davanti al professore e i due
andarono avanti per qualche minuto con le chiacchiere che si
fanno in casi del genere. A un tratto la volterrana estrasse
dalla sua grande borsa un involto e lo porse al professore.
Questi, sorpreso, mise l'involto - fatto con carta velina bianca e
carta velina rosa - sul piano del tavolo. Nel maneggiarlo com'è
naturale si accorse, mentre la volterrana gli spiegava il perché
dell'iniziativa da lei presa, che il contenuto aveva una
consistenza gelida e dura. Aprì il pacchetto misterioso e vide.
La volterrana gli aveva portato in riconoscente dono un
oggetto in alabastro, materiale che, tutti sanno, a Volterra
lavorano con maestria. Si trattava di un insieme di pezzi che,
se non fossero stati alabastrini, avrebbero ricordato al
professore un gioco che lui aveva comprato parecchi anni
prima a suo figlio, consistente in cilindri, lunghi e corti, cubi,
archetti, parallelepipedi di legno, blu, gialli, rossi, verdi, da
combinare in libertà. I pezzi alabastrini erano però fissati
insieme e costituivano un qualcosa che al professore
velocemente ricordò un sepolcro marmoreo in miniatura. Non
espresse tale impressione, com'è naturale. La volterrana andò
avanti per un poco illustrando l'oggetto che secondo lei era
una composizione di natura artisticamente priva di riferimenti
ad alcunché. Astrattismo plastico alabastrino, avrebbe potuto
dire il professore, che però non disse nulla del genere, infatti
era troppo occupato a dissimulare l'inquietudine che l'oggetto
gli aveva suscitato e seguitava a suscitargli.
Salutata la volterrana il docente maneggiò per qualche decina
di secondi l'oggetto, rapido decise di non portarselo a casa, e lo
appoggiò sopra la bassa libreria che occupava una parete dello
studio. Non era una presenza massiccia, avrà avuto le
dimensioni di un sepolcro per topi, se ai topi fossero necessari
sepolcri o tombe di famiglia; ma era pur sempre una presenza
brutta, gelida e dura. Nel giro di poche settimane però il
docente, fattosi ardito, scoprì che la connessione tra i vari
pezzi di alabastro era tutt'altro che irreversibile, per cui senza
troppo sforzo smontò quella composizione artistica. Per un
attimo si chiese se non avrebbe potuto ricomporre i pezzi in
altro modo, ma la dura freddezza del materiale, che del resto
lui aveva detestato da sempre, lo convinse a infilarli in un
sacchetto di plastica che poi finì nel cestino della carta
straccia.
Topi

Il Re, figura influente su tutto il pianeta a dispetto dell'esiguità


del Paese da lui tiranneggiato, il nostro, decise di impegnare i
suoi sudditi alla caccia. Dei topi. Orchestrò una campagna di
stampa sulla pericolosità dei topi, ratti, talpe, di campagna e di
città, di fogna e di cantina. I topi sono nocivi per i più, letali
per i meno. E chi sono i meno? Sono gli anziani, che dai topi
vengono attaccati con particolare facilità in quanto non
dispongono di riflessi pronti. Arriva il topo e zac! - morde
l'anziano, che in pochi giorni "ci lascia". I topi sono velenosi!
Il Re, presto imitato da quasi tutti i Sovrani della terra, fece
distribuire alla popolazione dosi cospicue di veleno e di
trappole. Tra i molti analfabeti, in genere poveri che non
sapevano leggere e quindi non compravano giornali, il Re
diffuse la paura dei topi tramite banditori armati di megafoni.
Dall'alba al tramonto le città e i paesi, ma anche i borghi
sperduti, risultarono presto tafanati dai banditori e dai loro
megafoni. Ragion per cui ricchi e poveri, borghesi e artigiani,
contadini e operai, giovani e vecchi, donne e uomini, furono
costretti a pensare solo ai topi, al veleno per topi, alle trappole.
Chiunque andava a caccia di topi, s'infilava in cantine
dimenticate, s'inoltrava in fogne paurose - a scovare topi. Non
pochi tornavano dalla caccia feriti, moltissimi venivano morsi
dai topi, allarmatissimi e messi sulla difensiva. I topi.
Una rivoluzione! Da secoli, da millenni, i topi convivevano con
gli umani, e viceversa. V'erano modi di dire in definitiva
amabili, in merito, come quello che recita: non importa il
colore del gatto, se il gatto uccide il topo. O quello che invita
ironico a mettere i topi a guardia del formaggio. O quello che
menziona il ballo dei topi in assenza della gatta. E invece, per
colpa del Re e della dabbenaggine dei popoli, ora la
convivenza ebbe termine. Infatti i topi, oltraggiati,
perseguitati, cacciati, feriti, uccisi, organizzarono la
controffensiva contro gli umani. Topi giovani e pieni di energie
uscivano dalle cantine, dalle fogne, dagli anfratti - ah, gli
anfratti! - e assalivano gli umani, li mordevano a tradimento;
prima di morire avvelenati i topi avvelenavano gli umani,
infatti come tutti sanno il veleno per topi ammazza anche gli
umani, c'è tutta una aneddotica in merito. In breve sul pianeta
non si parlò altro che della caccia ai topi, soprattutto non si fece
più altro che lavorare per distruggere il popolo dei topi. Come
conseguenza il pianeta andò in rovina. D'altra parte, se gli
umani erano sette miliardi, i topi erano settanta volte sette
miliardi. Non c'era partita, come si dice.
La bara

Ieri pomeriggio tornando a casa ho trovato il portone esterno


spalancato. Davanti all'ascensore si trovavano tre uomini
accaldati e due donne, credo badanti, tutti attorno a una bara
di legno chiaro. Vedendomi interdetto e imbarazzato mi hanno
fatto cenno di entrare. La bara, non ancora chiusa, conteneva
un corpo ben ricoperto da un velo bianco che sembrava una
zanzariera. "E' morta la signora?" - ho chiesto. Una delle
badanti mi ha risposto affermativamente, l'altra mi ha aperto
la porta dell'ascensore. "Condoglianze", ho detto loro.
"Grazie", hanno risposto. Erano scosse e avevano i volti
arrossati umidi di lacrime, se non di sudore, come del resto
uno dei tre uomini addetti al trasporto. Forse era un parente,
infatti mi è sembrato che piangesse. L'altro ieri verso le ore 22
avevano portato la vecchia donna a casa con una ambulanza,
forse dall'ospedale. Ho visto la barella sul marciapiede, distesa
sopra ho riconosciuto colei che in una quantità di casi avevo
udito parlare a voce molto alta per le scale. Aveva l'abitudine,
credo consentita da familiari o badanti come "libera uscita",
di stare per un poco sul suo pianerottolo e di guardare per un
attimo chi salisse o scendesse nell'ascensore. Intenta a una
sorta di controllo. Il fenomeno di chiara demenza potrebbe
però aver avuto il significato di un'attesa di qualcuno che
premeva o era premuto alla vecchia donna, che ora non
sentirò più parlare a voce alta per le scale.
Il morso del serpente

Un giovane brillante, cravatta color turchese, è incaricato


dalla Direzione di illustrare al vecchio ingegnere G una nuova
macchina, l'ultimo grido in fatto di tecnologia. Il vecchio però
trova il giovane arrogante, per cui finge di non capirne le
spiegazioni e in pratica lo esaspera. Si salutano con freddezza
reciproca.
La mattina seguente il giovane torna nella fabbrica con una
medicazione di color celeste applicata alla guancia destra, in
prossimità del naso.
Che cosa le è successo? - chiede il vecchio ingegnere sorpreso.
Un serpente mi ha morso sul viso, risponde il giovane.
Un serpente? E dove? Come? - chiede il vecchio incuriosito.
Abito in campagna, risponde il ferito, e ieri pomeriggio mi
sono avvicinato troppo a un cespuglio per cogliere le more.
Non avevo visto che dentro il cespuglio c'era un serpente. L'ho
spaventato e mi ha morso la guancia.
Il vecchio tace e pensa: forse ieri l'ho trattato un po' troppo
male, il serpente sono io.
La porta girevole

In tempi lontani si governava senza risparmiare crudeltà agli


oppositori del Re. Costoro venivano individuati, processati,
incarcerati e sottoposti per anni alla tortura della noia. Le
stanze di prigionia degli oppositori disponevano di due porte.
Dalla prima entrava di tanto in tanto un carceriere in
compagnia del magistrato competente, che rivolgeva domande
al prigioniero. Questi resisteva anni alla noia, e però anche alla
voglia di sapere che cosa vi fosse dietro l'altra porta, infine
chiedeva, stremato, il motivo della presenza della porta
sempre chiusa. Non c'era risposta se non questa, che il
prigioniero avrebbe potuto soddisfare la sua curiosità
facendola aprire. Non pochi prigionieri, consumati dalla noia,
si facevano infine aprire la porta. Questa era formata da un
cilindro che, su comando del carceriere, veniva fatto ruotare.
Ruotando mostrava un'apertura, il prigioniero sospirava ed
entrava, il cilindro continuava a ruotare e poi si fermava.
Davanti al prigioniero si apriva un grande giardino. Incerto,
trepidante, il prigioniero usciva dalla porta girevole,
camminava nella luce, e dopo poco si pentiva di aver lasciato
la sua noiosa stanza di prigioniero. Né la porta girevole
mostrava più la sua accogliente apertura.
Le mogli

Narrano che uno psicoterapeuta avesse tra i suoi clienti un


uomo che in seduta deprecava senza tregua i tradimenti patiti
a causa della moglie. Non venendo a capo di tale ristagno con
nessuno degli strumenti che la tecnica psicoterapica gli offriva,
né potendone più delle deprecazioni del cliente, lo
psicoterapeuta sarebbe incorso, si narra, in una scorrettezza
grave: “anche mia moglie mi tradisce spesso”, avrebbe
confidato in seduta al cliente, che da parte sua non avrebbe
replicato nulla - comunque smettendo subito di lamentarsi.
Dopo qualche settimana di quiete, si narra, il cliente avrebbe
informato lo psicoterapeuta, in seduta, di averne cercato la
moglie per telefono. Costei gli aveva concesso un
appuntamento, riferì il cliente. I due avevano quindi
intrapreso una relazione con ogni probabilità ricca di futuro.
Stavolta fu lo psicoterapeuta a non replicare nulla. Dopotutto
aveva raggiunto il suo scopo, infatti il cliente aveva smesso di
deprecare i tradimenti patiti a causa della moglie. La terapia
procedeva bene.
Si narra da parte di altri che fu lo psicoterapeuta, lungi dal
parlare delle proprie pene matrimoniali, vere o false che
fossero, a cercare la moglie fedifraga del cliente, a chiederle un
appuntamento e a stabilire con lei una relazione stabile.
Distogliendola dalle sue abitudini improntate fin lì a
leggerezza sentimentale. Ciò che, di conseguenza, avrebbe
agito sul cliente in modo positivo.
Resilienza

Un'impiegata di bontà terremotante sedusse il direttore del


dipartimento universitario di studi e ricerche sulla resilienza,
dove lavorava. Concedendogli le sue grazie oggi sì, domani no,
domani l'altro forse, anzi no, vedremo - lo rese suo schiavo. Gli
effetti accademici di tale stato di schiavitù del direttore del
dipartimento di SRR meritano di essere segnalati, difatti la
maliarda divenne vera signora e padrona del dipartimento - e
delle carriere accademiche degli studiosi della resilienza.
Costoro dovevano strisciare in sua presenza - e ne erano
capaci; ma soprattutto non potevano mai contrariarla in
merito ad alcuno dei di lei capricci, pena l'immediata
comunicazione da parte della maliarda al direttore suo schiavo
di mettere in atto le manovre accademiche utili a insterilire la
pianta o pianticella della carriera del malcapitato, o della
malcapitata. Diversi tentarono di cambiare dipartimento, ma
il direttore, ancorché vulnerabile da Cupido, era molto potente
all'interno dell'agone accademico nazionale e poté
perseguitarli indirettamente - agli ordini della maliarda.
Nel malaffare universitario, è vero, la maliarda introdusse un
che di eroticamente beffardo. Il che non mancò di attirarle
qualche simpatia - da parte di chi non la conosceva di persona.

(2012-2020)
Nota dell'autore:

Come chi legge avrà capito - e se non lo ha capito meglio così -


lo spunto per queste storielle è venuto da miei sogni rielaborati
allo scopo di trasformarli in qualcosa di narrativo. Ciò, oltre che
per un mio divertimento, è stato fatto anche per confermare che
quando si parla di sogni è di racconti che si tratta, un sogno “in
sé” restando inconoscibile per tutti, fuorché per chi lo ha avuto.
Del resto anche chi lo ha avuto spesso stenta a ricordarsene e a
“raccontarselo”.
La mia rielaborazione dei sogni (scelti tra i molto più numerosi
raccolti) è stata quasi sempre piuttosto decisa, tanto da costituire
una loro strumentalizzazione: qualche volta umoristica, qualche
volta moraleggiante - quasi sempre autoironica. Quest'ultimo
risultato, forse, mi salva da una possibile critica: di non aver
“portato rispetto” ai miei sogni.

(Novembre 2020)

Nicola Spinosi

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