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INTRODUZIONE ALLANTROPOLOGIA CULTURALE: STRUMENTI, METODI, CAMPI

DI RICERCA
Indice:
1. Introduzione alle discipline demoetnoantropologiche
1. Lorigine dellantropologia culturale
2. Vocazione per la diversit
3. La ricerca sul campo
4. Le partizioni disciplinari
5. A cosa serve lantropologia
6. I grandi indirizzi teorici
2. Razza cultura etnia
1. Razza
2. Cultura
3. Etnia
4. Razzismo differenzialista
5. Caratteri distintivi dei neorazzismi
6. Antirazzismo
7. Abbandonare lidentit culturale?
3. La comparazione fra le culture
1. PARTE PRIMA
1. Le basi del metodo comparativo
2. Il metodo comparativo in antropologia
3. La comparazione modellizzante di Marcel Mauss
4. la critica al metodo comparativo nellantropologia novecentesca
5. La comparazione di insiemi culturali
6. La comparazione quantitativa
7. Storicismo e strutturalismo
2. PARTE SECONDA
1. La comparazione nellantropologia interpretativa
2. Comparazione e descrizione
3. I case-studies
4. Analisi quantitativa e qualitativa nella ricerca tranculturale
5. Il ritorno del metodo mitico
6. Comparazione e globalizzazione
4. Camminare sul marae e le sue conseguenze. La ricerca sul campo e le
esperienze straordinarie (di Matteo Aria)
1. Lantropologo e le esperienze straordinarie
2. Lermeneutica del comportamento vs lantropologia dellesperienza
3. Antropologia dellesperienza straordinaria: dallo straordinario allestasi
4. Camminare sul marae
5. Orientamenti antropologici nello studio della memoria
1. Sistemi di memoria
2. Memoria come processo interpretativo
3. Memoria collettiva
4. La costruzione linguistica del ricordo
5. Oggetti e riti commemorativi

6. Memoria ufficiale e vernacolare


7. I luoghi della memoria oltre il nazionalismo
8. Luso pubblico di memoria e identit
6. Fortuna e declino della categoria di cultura popolare negli studi antropologici
italiani
1. Introduzione e piano espositivo
2. Folklore, etnografia, popolaresca: gli studi sulle tradizioni culturali
dallOttocento al fascismo
3. Il paradigma gramsciano
4. Ernesto De Martino e le plebi rustiche del Mezzogiorno
5. Elogio del magnetofono: Gianni Bosio e la storia dal basso
6. Alberto M. Cirese e il consolidamento della nuova demologia
7. La questione della cultura operaia
8. Cultura popolare e cultura di massa
9. Lantropologia culturale italiana oggi: quale spazio per la cultura popolare?
10.
7. Dono (di Matteo Aria)
8. Descrivere, teorizzare, testimoniare la violenza
1. Perch la violenza?
2. Scrivere la violenza
3. Identit e violenza
4. Violenza, stato e il continuum genocida
5. La sintassi della violenza
6. Lantropologia della violenza tra epistemologia ed etica

Introduzione alle discipline demoetnoantropologiche


1.1 Lorigine dellantropologia culturale
E nella seconda met dellOttocento che lantropologia culturale si organizza come autonoma
disciplina scientifica, con specifici insegnamenti universitari e un proprio peculiare statuto
epistemologico. Di solito si fa corrispondere la sua nascita con il 1871, anno di pubblicazione di un
libro di E.B. Tylor, dal titolo Primitive Culture, che definisce e mette a fuoco il campo di studi della
nuova scienza la cultura, appunto.
E il periodo del positivismo, della grande fiducia nella scienza e nel progresso, e di uno sviluppo
capitalistico visto come inarrestabile. E il periodo del trionfo dei nazionalismi e del colonialismo. I
ceti dominanti europei si considerano punta di diamante di una civilizzazione irresistibilmente
proiettata verso il futuro, separata dal resto del mondo dallirreversibile spartiacque della
modernizzazione.
Il titolo del libro di Tylor ne definisce puntualmente il campo: al concetto di cultura si aggiunge,
appunto, laggettivo primitiva. Rispetto ad altre scienze umane, come la sociologia, lantropologia
si caratterizza per lo studio dei primitivi cio proprio di quei gruppi, non toccati dalla modernit,
che sono al tempo stesso oggetto del dominio e della violenza coloniale. Ad essi sono in qualche
modo assimilati i ceti subalterni delle stesse societ occidentali, in particolare il mondo
contadino, illetterato e calato in forme di vita tradizionali, spesso viste come vere e proprie
sopravvivenze della cultura primitiva. Gli studi di folklore si presentano dunque come paralleli e
complementari a quelli etnologici, impegnati sul fronte dei dislivelli interni di cultura piuttosto che su
quelli esterni.
Da un lato, parlare di cultura dei primitivi significa contrapporsi a un senso comune che li considera
semplicemente come bestiali e privi di ogni cultura; significa rivendicarne la comune umanit,
mostrare anzi come siano pi vicini a noi (allInghilterra vittoriana, ad esempio) di quanto ci piace
pensare. In questo senso, lantropologia sta fin dallinizio dalla parte dei primitivi, contro il razzismo
biologico che ne afferma linferiorit congenita e contro il dominio coloniale che ne fa un puro
oggetto damministrazione. Fin dallinizio, almeno in un certo senso, lantropologia si schiera contro i
pregiudizi etnocentrici che assolutizzano la nostra versione dellumanit e distorcono in caricatura
quella degli altri.
Dallaltro lato, tuttavia, questo dominio - e la violenza con cui si esercita - non possono non influenzare
a fondo le stesse categorie epistemologiche della disciplina. Questultima pu pensare i primitivi solo a
partire da una fondamentale assunzione di disuguaglianza, tanto pi profonda quanto pi implicita,
che ne plasma le categorie intepretative. Si persino parlato, in proposito, di una violenza
epistemologica insita nelle forme di rappresentazione, oggettivazione e classificazione degli altri che
lantropologia sviluppa fino alla fine del ventesimo secolo. Ci non significa per che la storia
dellantropologia culturale possa esser letta come una sorta di riflesso o copertura ideologica
dellimperialismo.

1.2 Vocazione per la diversit


Nel contesto della globalizzazione, non esistono pi primitivi, cio popoli che vivrebbero letteralmente
nel passato evolutivo. E difficile pensare oggi allantropologia come a una scienza in cui Noi studiamo
gli Altri. Ci troviamo di fronte a situazioni sociali in cui chi siamo Noi e chi sono gli Altri non mai
chiaro. Non possibile parlare di culture come di entit compatte e dai confini ben definiti, e per di pi
coincidenti con un popolo e un territorio.
Ci non significa tuttavia che le differenze culturali non esistano pi. Al contrario: la globalizzazione
per certi versi le moltiplica, pur frammentandone e mischiandone i contesti. Qualunque sia
loggetto di ricerca la comprensione antropologica non pu fare a meno di passare attraverso il prisma
della diversit culturale. Gli antropologi hanno coniato vari concetti per esprimere questa loro
caratteristica:

Claude Lvi-Strauss: regard loign, lo sguardo da lontano proprio di chi si pone


professionalmente nel ruolo di estraneo;
Clyde Kluckhohn: giro lungo, contrapposto al giro breve, delle forme di conoscenza
puramente speculative e che comunque non si pongono il problema del confronto con la
diversit;
Francesco Remotti ha ripreso questa espressione mostrando una fondamentale
contrapposizione nella storia del pensiero occidentale: da una parte quegli approcci, da
Platone a Cartesio a Kant, che attraverso lanalisi del nostro modo di pensare cercano di
distallare un concetto assoluto di razionalit; dallaltra parte gli approcci che, da Erodoto
a Montaigne al secondo Wittgenstein, pensano di poter definire la razionalit solo
passando attraverso la molteplicit empirica delle consuetudini locali, dunque non
assolutizzando il nostro punto di vista, ma mettendolo costantemente alla prova della
diversit. Pur non senza ambiguit (insite nella propria origine positivistica), lantropologia si
schiera dalla parte di questo giro lungo, tentando anzi di sistematizzare e di trattare
scientificamente quei raffronti comparativi che la filosofia o la letteratura usavano in modo
pi occasionale e impressionistico.

Comparazione non significa necessariamente metodo comparativo, nellaccezione


ingenuamente naturalistica che al termine attribuivano gli studiosi ottocenteschi. Molti indirizzi
novecenteschi hanno esplicitamente polemizzato con un simile uso incontrollato del metodo
comparativo. Tuttavia, latteggiamento comparativo non scompare mai dalla conoscenza antropologica,
manifestandosi magari in forma implicita nelle stesse pi elementari forme della descrizione
etnografica, oppure in grandi sistemi formalizzati come gli Human Relations Area Files creati da George
Murdock negli anni 40 (un gigantesco archivio di dati etnografici ricondotti a formati standard, con la
pretesa di registrare e di rendere comparativamente analizzabili tendenzialmente tutte le culture del
mondo).
Il confronto con laltro costringe a una continua revisione e ampliamento delle nostre categorie, di
ci che nel nostro senso comune si d normalmente per scontato. Il confronto con il diverso ci fa
vedere le cose che ci sono familiari sotto una luce diversa, che le rende in qualche modo strane; ci fa
vedere quello che di solito non vediamo proprio perch lo abbiamo costantemente sotto gli occhi (ecco
il senso dello sguardo da lontano). Soprattutto, questo estraniamento ci suggerisce che le nostre
istituzioni e i nostri modi di vivere non sono gli unici possibili, e non necessariamente i
migliori. Ernesto de Martino, uno dei fondatori della moderna antropologia italiana, chiamava
scandalo etnografico questo incontro-scontro con una diversit che manda in corto circuito i nostri
sistemi categoriali, e ci costringe a rivederli in un processo di costante ampliamento della nostra
consapevolezza storiografica.

1.3 La ricerca sul campo


Gli antropologi vittoriani non erano ricercatori sul campo. Ritenevano che la raccolta dei dati
empirici e il lavoro teorico di analisi e comparazione dovessero restare separati, affidati a persone con
diversi ruoli e competenze. Svolgevano dunque il loro lavoro in biblioteca, utilizzando come fonti i
resoconti di viaggiatori, naturalisti, missionari, funzionari coloniali persone quasi sempre senza una
preparazione specifica, ma che erano stati in contatto con lontane culture e ne avevano scritto. Dal loro
punto di vista, il diretto impegno dello studioso su un terreno specifico di ricerca avrebbe contrastato
con il respiro e lampiezza del lavoro comparativo. Ma ovviamente la loro antropologia da tavolino,
come i loro successori spregiativamente la chiameranno, aveva linconveniente di poggiare su dati
incerti, raccolti in modo spesso dilettantesco e privi di ogni seria attendibilit scientifica.
Quali che siano i problemi teorici che si pone, lantropologia tenta di rispondervi attraverso indagini
empiriche che passano attraverso, appunto, lesperienza del fieldwork o lavoro di campo. Il modello
classico di fieldwork antropologico si viene definendo con le prime scuole novecentesche, in
particolare quelle anglosassoni, ed legato ai nomi di padri fondatori della disciplina come Franz
Boas negli Stati Uniti e Bronislaw Malinowski in Inghilterra.
Nelle scuole novecentesche la figura del teorico e quella del ricercatore sul campo si fondono in
modo inestricabile, dando vita alla peculiare figura dellantropologo. Il manifesto programmatico di

questa nuova figura si trova in un libro che Malinowski pubblica nel 1922, con levocativo titolo
Argonauts of Western Pacific (Argonauti del Pacifico occidentale).
Malinowski aveva condotto negli anni della prima guerra mondiale una approfondita ricerca presso
larcipelago melanesiano delle Trobriand, di cui il libro costituisce un primo resoconto monografico
(lo ritroveremo presto perch si tratta di un testo incentrato sulla descrizione del kula ring, un
complesso sistema di scambio cerimoniale di oggetti preziosi ampiamente discusso da Mauss nel
Saggio sul dono).
Nellintrodurre la sua ricerca, Malinowski rivendica la necessaria compresenza della preparazione
teorica e metodologica, da un lato, e, dallaltro, la diretta esperienza vissuta della cultura che si
intende studiare.
Senza la preparazione tecnica e metodologica, losservatore non saprebbe osservare: non
disporrebbe cio della capacit di individuare i tratti rilevanti di un contesto culturale, non
saprebbe trasformare in documenti o dati la semplice esperienza vissuta. Daltra parte, senza
lesperienza di partecipazione diretta il teorico non comprenderebbe mai veramente unaltra
cultura, non ne coglierebbe gli elementi imponderabili, non potrebbe entrare in rapporto empatico con
essa.
Malinowski conia lespressione osservazione partecipante per indicare questo stile di ricerca.
Questo stile di osservazione partecipante implica una permanenza prolungata e intensiva sul
territorio, non inferiore a un anno e condotta a stretto contatto con gli indigeni: ci significa
tagliare i rapporti con altri occidentali e vivere unesperienza di radicale estraniamento dalla
propria cultura di provenienza (esperienza che pu provocare nei ricercatori vere e proprie crisi
esistenziali). In questo tipo di ricerca, occorre imparare il linguaggio locale e studiare non solo un
aspetto della cultura, ma la vita sociale nel suo complesso: dagli aspetti economici, a quelli
politici, alle strutture della parentela, alle pratiche religiose e cos via. Nessun aspetto potr infatti
esser compreso se non collocato nel contesto complessivo (approccio olistico).
Di fondamentale importanza limpiego di particolari strumenti metodologici: ad esempio gli schemi
genealogici, le interviste strutturate (con laccurata scelta di informatori privilegiati) e la loro
trascrizione, alla schedatura dei manufatti, la documentazione fotografica, per finire con la
redazione delle note e del diario di campo.
Il modello di fieldwork tracciato da Malinowski non sopravvissuto alle trasformazioni degli ultimi
decenni. Qualunque sia il campo che sceglie, lantropologo lo trova oggi gi pieno di altri saperi
specialistici, di mass-media globali, di turisti, quasi sempre anche di antropologi nativi. Lo stesso
concetto di campo, pensato nella fase classica sul modello di luoghi circoscritti e compatti (lisola, la
riserva indiana, il villaggio), rischia di venir meno. La singola localit non pu pi essere lunit
privilegiata danalisi, quando la cultura e le persone circolano con lampiezza e la rapidit delle
comunicazioni globalizzate: lequazione un territorio un popolo una cultura non funziona pi.
I recenti dibattiti epistemologici hanno contribuito a scuotere la fiducia nelloggettivit della
rappresentazione etnografica, rendendo meno rigidi i requisiti della ricerca e aprendo la strada a
nuove configurazioni dei rapporti tra lesperienza soggettiva di campo e la sua restituzione nella
scrittura antropologica.
Anche se in forme nuove e pi variabili, la ricerca sul campo continua ad essere il nucleo centrale della
disciplina. I problemi che essa si pone non sono talvolta diversi da quelli messi a fuoco dalla filosofia, e
forse dalla letteratura e dallarte. Ci che caratterizza la risposta antropologica per il fatto di passare
attraverso limmersione e la condivisione di pratiche sociali, nonch attraverso il rapporto diretto e il
dialogo con le persone che ne sono protagoniste.

1.4 Le partizioni disciplinari


Distinzione fra diversi specialismi antropologici in relazione a:
aree geografico-culturali. (Il modello classico di fieldwork, con i requisiti della lunga
permanenza, la necessit di imparare la lingua etc., implica che uno studioso, nella sua
carriera, non pu divenire esperto di pi di una o due aree culturali, tre in casi
eccezionali). Africanisti, oceanisti, americanisti, europeisti, studiosi dellIndia, del Medio
Oriente, del Mediterraneo etc., condividono magari basi e problemi teorici, ma si costituiscono
come specialismi diversi, con i loro specifici strumenti di comunicazione scientifica (riviste,
convegni, associazioni etc.). Rari sono i casi di studiosi che si siano cimentati in pi di una

di queste grandi partizioni geoculturali;

aspetti della cultura. Per quanto lantropologia persegua come detto un approccio olistico, nel
quale i diversi aspetti di una cultura si illuminano a vicenda, assai frequente che gli studiosi si
specializzino in ambiti specifici della vita socioculturale. Nella fase classica della disciplina, tali
ambiti sono rappresentati principalmente da:
parentela, matrimonio, vita familiare;
economia (incluse le forme del lavoro e gli aspetti della cultura materiale);
stratificazione sociale, forme della politica e del potere;
linguaggio;
religione e magia (rituali, miti, pratiche simboliche);
lambito estetico.

Oltre a queste grandi partizioni, si sono costituiti specialismi antropologici ancora pi specifici, come:
lantropologia medica, che studia le variazioni culturali delle concezioni e delle pratiche
relative a corpo, salute, malattia, guarigione
letnoscienza, che studia le forme di saperi naturalistici e i processi cognitivi che ad essi si
accompagnano
lantropologia psicologica, che studia le variazioni interculturali nella definizione del concetto
di persona, nella costituzione dei ruoli sociali e di genere, nella manifestazione delle emozioni
letnografia della conversazione, che si concentra sulle analisi delle microinterazioni
linguistiche e comunicative;
Deve essere anche menzionata una suddivisione in specialismi riguardo alle fonti o ai tipi di
rappresentazione culturale che gli studiosi scelgono di privilegiare. Ad esempio:
lantropologia museale oggi una delle branche pi importanti e pi compatte della disciplina;
lantropologia visuale, che privilegia lanalisi delle fonti iconiche e modalit fotografiche o
filmiche di documentazione e rappresentazione etnografica;
antropologia letteraria (uso di opere di letteratura come fonti per la conoscenza di una
cultura, ma anche impiego di risorse antropologiche nella critica letteraria);
antropologia storica (impiego di strumenti antropologici nellanalisi di fonti
storiografiche).
Antropologia applicata: con questa denominazione ci si riferisce a studi che non hanno una finalit
puramente conoscitiva, ma sono fin dallinizio pensati in relazione a interventi di tipo
economico e sociale, in particolare come supporto alla elaborazione di progetti di cooperazione
internazionale.

1.5 A cosa serve l'antropologia


Sbocchi professionali specifici:
mediazione culturale (nella scuola, nella sanit, nei servizi sociali);
cooperazione internazionale, gestione dei conflitti;
conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale etnografico (musei).

1.6 I grandi indirizzi teorici


Principali indirizzi terici:
1. scuola evoluzionista britannica: Tylor e Frazer; unit intellettuale del genere umano,
concezione al singolare della cultura umana, metodo comparativo, ricerca dellorigine dei
fenomeni culturali (es. animismo come origine della religione), sopravvivenze, stadi dello
sviluppo culturale (es. magia-religione-scienza), poligenesi dei fatti culturali simili,
intellettualismo e individualismo metodologico;

2. scuole diffusioniste: monogenesi, interesse per i percorsi di diffusione dei tratti culturali da
ununica area dorigine;
3. scuola sociologica francese (Durkheim e Mauss): rappresentazioni collettive, radicamento
sociale dei fatti culturali, apertura di una prospettiva funzionalista;
4. particolarismo storico: Boas e la fondazione della moderna scuola antropologica
nordamericana. Anti-evoluzionismo, scetticismo verso la comparazione culturale a vasto
raggio, ricerca sul campo e centralit degli aspetti linguistici. Determinismo culturale vs.
determinismo psico-biologico;
5. funzionalismo inglese. Malinowski e la ricerca alle Trobriand. Approccio sincronico (vs.
diacronico) e olistico. Alfred Radcliffe-Brown e lo struttural-funzionalismo: cultura come
entit organica. Spiegare un tratto culturale equivale a capire in che modo sostiene e preserva
la struttura sociale. Edward Evans-Pritchard: gli studi della stregoneria fra gli Azande e del
sistema segmentario tra i Nuer. Assenza della dimensione storica nelle rappresentazioni
funzionaliste, che si trovano in difficolt a dar conto dei fenomeni di mutamento culturale (ma
reintroduzione della comprensione storica a partire proprio dallultimo Evans-Pritchard);
6. strutturalismo. Lvi-Strauss e lanalisi delle strutture elementari della parentela e dei miti
amerindiani. Influenza della linguistica strutturale. I diversi aspetti della cultura come costruzioni
generate a partire da profonde (e inconsce) matrici cognitive, governate dai principi elementari
dei sistemi cibernetici (logica binaria), che lanalisi strutturale pu scoprire penetrando
lapparente eterogeneit e caotica variet delle loro manifestazioni empiriche;
7. Antropologia interpretativa. Clifford Geertz. Lessere umano come animale che produce
significati. Lesempio dello strizzare locchio: limpossibilit di una descrizione oggettiva che
non passi attraverso i significati che gli attori sociali stessi attribuiscono alle loro pratiche.
Etnografia come interpretazione di interpretazioni.

Razza, cultura, etnia


La diversit di volta in volta denominata razziale, culturale o etnica (le tre nozioni si sovrappongono in
parte ma non coincidono) marcata dall'appartenenza, quasi sempre data per nascita, a gruppi umani
caratterizzati dalla collocazione geografica, da peculiarit somatiche, linguistiche e religiose, dalla
condivisione di tradizioni o percorsi storici in grado di produrre (ma anche questo termine
controverso) identit collettive.
Razza, cultura, etnia sono stati i perni concettuali di altrettanti modi di concepire questa diversit; e le
tradizioni di pensiero che tali nozioni fondano sono ancora oggi un riferimento essenziale (non importa
se in positivo o in negativo) per comprendere i nuovi problemi che la diversit ci pone.

2.1 Razza
Il termine razza lo si trova usato a partire dal Cinquecento per indicare una discendenza, una
schiatta, quello che in antropologia si chiamerebbe un lignaggio. L'etimologia abbastanza incerta:
probabilmente dal latino (gene)ratio. Solo nel secolo scorso il termine ha assunto l'attuale significato:
un gruppo umano caratterizzato da specificit sia somatiche sia intellettuali e comportamentali
che si suppongono fondate biologicamente e trasmesse per via ereditaria. La nozione di razza si
afferma nell'Ottocento come strumento concettuale di una riflessione sull'origine del genere umano in
cui il linguaggio scientifico si sostituisce progressivamente a quello religioso; e, dall'altra parte, come
fulcro di una concezione etico-politica dei rapporti tra Occidente e resto del mondo che ha nel
colonialismo il suo correlato pratico. La diffusione del termine razza fa dunque tutt'uno con quella delle
dottrine razziste. La pi celebre di esse probabilmente quella del francese conte de Gobineau, che
nel 1856 pubblica il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane. I punti cardine di questo testo, che
godr di grande diffusione, possono esser cos schematizzati:
la biologizzazione o naturalizzazione di ogni tipo di differenza tra culture o civilt umane;
l'affermazione di una gerarchia rigida fra le razze, che vede naturalmente ai vertici la razza
bianca;
l'orrore per la mescolanza tra le razze.
La superiorit della razza bianca sarebbe dimostrata non solo dai risultati della civilt occidentale, ma
anche e soprattutto da fattori estetici, come la bellezza, la giusta proporzione delle membra, la

regolarit dei tratti del volto. Linneo un secolo prima (1758) aveva proposto una tipologia di sub-specie
umane, basata essenzialmente sul colore della pelle, ma in cui si confondevano tratti fisici, mentali,
sociali e culturali, pensata come una scala che conduceva dalle scimmie al "gradino pi alto" dell'uomo
europeo. Non sfiora neppure questi pensatori l'idea della relativit dei giudizi estetici e dei criteri di
bellezza fisica.
Gobineau ritiene che la razza bianca, che ha creato una civilt e una morale superiore, in virt
del suo stesso successo sia minacciata dagli incroci con le altre razze, che ne contaminano e
impoveriscono il patrimonio genetico. Il destino di ciascun gruppo umano segnato dalla razza di
appartenenza: nulla pu esser modificato. Non solo egli non crede nel progresso, ma la sua visione
tendenzialmente degenerativa: la storia implica mescolamenti fra le razze che ne minano
l'autenticit. La civilt greca e quella romana erano ad esempio superiori alla civilt attuale
dell'Europa, per Gobineau, perch le rispettive popolazioni erano razzialmente pi pure. La decadenza
della razza bianca non pu esser fermata.
Ma nel razzismo ottocentesco c' un altro filone che si distanzia dal pessimismo reazionario e dalla
visione degenerativa di Gobineau, e che per certi versi affonda le radici nel retaggio illuminista e nel
positivismo ottocentesco, con tutta la sua fiducia nel progresso, nella perfettibilit degli esseri umani e
in politiche di ingegneria biologico-sociale. E' un filone di pensiero che trover piena espressione
nelle teorie evoluzioniste, traendo in particolare alimento dall'opera di Darwin e di Herbert Spencer.
Darwin e l'evoluzionismo mettono fine alla lunga disputa tra teorie monogenetiche e
poligenetiche delle razze, che tanto spazio aveva avuto nella prima met dell'Ottocento e che
ereditava le discussioni cinquecentesche sulla natura - umana o meno - degli indios americani.
L'evoluzionismo da un lato accredita la teoria monogenetica; dall'altro, tuttavia, sembra
legittimare le convinzioni poligenetiche nel carattere naturale e irriducibile della diversit.
L'origine unica, e le differenze si forgiano nel percorso evolutivo, nelle modalit di adattamento
all'ambiente dei diversi gruppi umani. Ma ci non abbatte la classificazione gerarchica delle razze:
anzi, paradossalmente, la rafforza. Se tutte hanno la stessa origine, i diversi risultati storici che
esse ottengono dipendono da un miglior adattamento, da una supremazia sul piano della
naturale legge per la sopravvivenza. Si conferma dunque una gerarchia, per di pi legittimata da una
legge naturale, che in quanto tale da un lato "oggettiva" e dall'altro "buona" o "giusta".
Contrariamente a Gobineau, i razzisti progressisti ritengono di poter influire sull'evoluzione delle
razze umane attraverso una programmazione scientifica. Le politiche biologiche appaiono ad alcuni
una delle vie possibili verso l'utopia.
Nell'Ottocento la conoscenza scientifica soppianta progressivamente altre forme di autorit (come la
tradizione o l'autorit religiosa nelle societ di antico regime) nella determinazione di gerarchie e di
principi di ineguaglianza tra gruppi umani. Ma la fondazione cos fornita a tali gerarchie pi assoluta e
rigida che in passato, dal momento che le differenze naturali non sono modificabili come quelle morali o
religiose. Per l'antisemitismo, ad esempio, questo fa una grande differenza. L'antisemitismo tipico del
Novecento, che porter all'ideologia e alla pratica nazista e alla Shoah, si innesta appunto su
una definizione "scientifica" della razza di taglio ottocentesco, reinterpretando in termini nuovi
una lunga tradizione di pregiudizio religioso. Per quest'ultimo, la differenza dell'ebreo bens
radicale, ma trova un limite almeno teorico nella conversione. Per quanto colpevole di gravissime
persecuzioni, l'antisemitismo cristiano avrebbe potuto difficilmente concepire l'idea dello
sterminio totale, inteso come eliminazione dalla faccia della terra di un determinato patrimonio
genetico.
Nel nazismo, il razzismo scientifico si salda con un'ideologia profondamente reazionaria e
antimodernista. Ma anche il razzismo progressista diffuso nei paesi democratici fonda pratiche di
ingegneria biologica, come l'eugenetica, che stanno probabilmente alla base delle pi disastrose
manifestazioni contemporanee del razzismo. Com' noto, legata al nome di Francis Galton la
formulazione dei principi dell'eugenetica: perch non aiutare l'evoluzione naturale, favorendo la
riproduzione degli organismi migliori e impedendo di riprodursi a quelli pi deboli o difettosi? Sono
finalit progressiste e di miglioramento sociale, anche se spesso mischiate a venature di
razzismo conservatore, quelle che promuovono le varie esperienze eugenetiche o di biologia razziale
che, nel ventesimo secolo, coinvolgono molte democrazie liberali come gli Stati Uniti o - fin nel secondo
dopoguerra - la Svezia. Si tratta in molti casi di esperienze di sterilizzazione forzata di individui
considerati svantaggiati o disadattati, supposti portatori di geni deboli o difettosi.
Considerato in questa prospettiva, l'hitleriano progetto eutanasia, che port alla fine degli anni '30

all'eliminazione fisica di centinaia di migliaia di devianti e di "inadatti", solo la manifestazione estrema


di una tendenza assai pi largamente diffusa. Nel dopoguerra prevarr un'immagine del nazismo
come mostruosit unica e irripetibile della storia. In realt, le politiche biologiche che esso
persegue (e alle quali assegna importanza decisiva) non sono affatto uniche nel contesto culturale
di quegli anni: il nazismo ne rappresenta una peculiare declinazione totalitaria, che si distingue
per il carattere estremo, per l'"eroico" rifiuto di accettare compromessi con quei sentimenti umanitari
che l'"uomo nuovo" deve imparare a lasciarsi alle spalle.
Secondo una interpretazione storiografica, la natura profonda dei regimi totalitari del XX secolo e dei
principali orrori che ne accompagnano la storia rimanda proprio a una matrice progressista e illuminista.
"Gli orrori del XX secolo derivano dai tentativi pratici di creare la felicit, l'ordine di cui la felicit aveva
bisogno, e il potere totale necessario a instaurare quell'ordine", scrive ad esempio Zygmunt Bauman,
uno degli autori pi rappresentativi di questo punto di vista. La Shoah, i genocidi e le politiche
razziali del XX secolo non contraddicono dunque la modernit, non sono buchi neri in un
processo di civilizzazione che va in direzione opposta: ne sono anzi la conseguenza, il prodotto,
in molti sensi. Intanto, in un ovvio senso tecnologico, poich la modernit produce armi dal potenziale
distruttivo senza precedenti; quindi, in un senso amministrativo-burocratico, poich solo una forte
burocrazia di tipo moderno in grado di attuare pratiche di ingegneria sociale, nonch di produrre
quella deresponsabilizzazione morale degli individui che condizione dello sterminio di massa; infine,
in senso politico e culturale, poich le ideologie che producono genocidi, quelle totalitarie, germinano
storicamente dall'illuminismo, dalle aspirazioni utopiche a una societ ideale e totalmente controllata
dalla ragione e dalla scienza.

2.2 Cultura
Gli antropologi intendono per cultura non solo gli "alti" prodotti dell'intelletto, come arte, letteratura o
scienza, ma l'insieme di tutte quelle pratiche, usi, consuetudini e conoscenze, per quanto banali
e quotidiane, che una comunit umana possiede e attraverso le quali si adatta all'ambiente e
regola le proprie relazioni sociali. In termini evoluzionistici, la cultura l'insieme degli elementi
non biologici o somatici di adattamento all'ambiente. L'evoluzione culturale il prolungamento
di quella biologica, e si sostituisce progressivamente (anche se mai del tutto) ad essa nel
determinare le caratteristiche dei gruppi umani, le loro modalit di sviluppo e differenziazione.
Pur non facendo strettamente dipendere le differenze culturali da differenze naturali (biologiche,
razziali) l'antropologia culturale ottocentesca non rinuncia all'idea di gerarchizzazione delle
culture. Come si spiega la diversit culturale a fronte della originaria unit intellettuale del genere
umano? La risposta sta nell'ipotizzare un unico processo di evoluzione culturale, che si muove
per a velocit diverse in diverse parti del mondo e per diversi gruppi umani. I popoli "primitivi"
stanno attraversando uno stadio evolutivo precedente; dunque, per quanto cronologicamente
contemporanei delle civilt pi avanzate, sono situati letteralmente in un tempo passato rispetto ad
esse.
Tale concezione contrasta con le forme pi crude del razzismo, ma resta compatibile con alcune delle
sue funzioni ideologiche, in particolare con la legittimazione del dominio coloniale e con la
giustificazione dell'ordine imperialista del mondo. I rappresentanti della civilt occidentale antropologi, imprenditori, ufficiali coloniali - stanno per cos dire sul punto pi alto di una piramide
da cui possono guardare tutto il resto del mondo, certi di una superiorit che li pone per definizione
dalla parte della verit e della giustizia. Gli altri sono come noi, certo, ma solo nel senso in cui lo
sono dei bambini che vanno educati e aiutati a crescere - anche con severit, quando ce n'
bisogno.
Lo sviluppo della ricerca sul campo e di una nuova sensibilit etnografica, insieme al crollo di molte
delle certezze positivistiche dell'Ottocento, fa dell'antropologia un potentissimo strumento di critica
all'etnocentrismo, alle pretese cio della cultura europea di valere da metro di giudizio assoluto
per tutte le altre. All'immagine di una gerarchia piramidale di gruppi umani, che procedono a velocit
diverse su un unico percorso di sviluppo culturale, si sostituisce quella di un mondo suddiviso in una
irriducibile pluralit di culture, intese come entit autonome, ben distinte e di uguale dignit,
classificabili in modo non gerarchico e per certi aspetti non commensurabili.

Per il modernismo antropologico del nuovo secolo, le valutazioni negative delle altre culture sono per lo
pi conseguenza della incapacit di comprendere il funzionamento di codici linguistici, estetici, morali
semplicemente diversi da quelli che ci sono pi familiari. Da qui il principio del relativismo culturale:
non si possono formulare giudizi etici, estetici e (in una variante) anche cognitivi al di fuori di un
contesto culturale, poich il contesto culturale a stabilire i criteri di riferimento.
Lo stesso concetto di etnocentrismo diviene un fondamentale strumento interpretativo. Se ne ha una
prima celebre definizione da parte del sociologo americano William Graham Sumner, ai primi del
secolo:
"Il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene il centro del mondo e il campione di
misura cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri, nel linguaggio tecnico va sotto il nome di
etnocentrismo [...] Ogni gruppo esercita la propria fierezza e vanit, d sfoggio della sua superiorit,
esalta le proprie divinit e considera con disprezzo gli stranieri. Ogni gruppo pensa che i propri costumi
(folkways) siano gli unici ad essere giusti, e prova soltanto disprezzo per quelli degli altri gruppi,
quando vi presta attenzione"
Questo atteggiamento per cos dire naturale e universale, e anche utile alla coesione di un gruppo
sociale, ma porta facilmente, dice Sumner, a "esagerare, ad accentuare i tratti particolari che
appartengono ai propri costumi e che distinguono un popolo dagli altri".
L'etnocentrismo sar teorizzato in termini assai simili da altri importanti antropologi, quali fra gli altri
l'americano Melville Herskowitz e il francese Claude Lvi-Strauss. Anch'essi riconoscono l'universalit
dell'atteggiamento etnocentrico, ma vedono un segno distintivo del progresso culturale nella
capacit di tenerlo sotto controllo, di combatterlo nelle sue forme esasperate, promuovendo
non la contrapposizione ma la tolleranza e il dialogo tra le diverse culture.
Parallelamente, anche gli sviluppi della biologia e della genetica contribuiscono all'abbandono della
nozione classica di razza, nonch delle teorie sulla determinazione razziale dell'intelligenza e dei tratti
comportamentali.

2.3 Etnia
Il termine ha origine nel greco "ethnos", che indica un aggregato di individui distinto da proprie
caratteristiche. In greco, ethnos usato prevalentemente per indicare gruppi altri e diversi, in modo
cio sostanzialmente discriminatorio, nello stesso senso in cui gli stessi greci e i romani parlavano di
barbari. Con questo senso discriminatorio il termine passa nelle traduzioni greche della Bibbia e nel
linguaggio del Nuovo Testamento, e da qui nelle lingue europee moderne. Nel linguaggio biblico e
neotestamentario, ethne designa i non ebrei e i non cristiani, gli altri, dunque. Nelle lingue europee
moderne, come italiano, inglese o tedesco, il derivativo ethnici si afferma con l'accezione spregiativa di
pagani; quando il cristianesimo si identificher con l'intera societ occidentale, l'accezione negativa si
estender a tutti i non occidentali. Un uso neutrale dei termini etnici, nel senso dell'etnologia (cio
descrizione e studio delle caratteristiche sociali e culturali di qualsiasi raggruppamento umano),
si afferma progressivamente solo a partire dall'Ottocento, con lo sviluppo appunto dell'antropologia e
delle scienze umane. L'uso attuale del termine tende a prevalere l'accezione antropologica, che in
sostanza definisce come etnia un gruppo che condivide un insieme di elementi culturali, quali la
lingua, la religione, certi usi e costumi eccetera.
Tuttavia, questo uso neutrale e descrittivo si carica spesso di connotazioni valutative e discriminatorie:
noi usiamo sempre l'aggettivo etnico (conflitti, identit) per gli altri, e in specie in riferimento a realt
minoritarie all'interno di un singolo Statonazione, o a realt che storicamente si collocano al di fuori di
chiare identit nazionali e statali. Noi non siamo mai "etnici", e non lo mai la grande cultura, quella
dominante. Etnici sono gli altri, i pi arretrati o i pi poveri, le minoranze.
L'aggettivo etnico, e ancor pi il sostantivo etnia, tendono a esser letti secondo il modello delle cartine
politiche degli atlanti: colori diversi punteggiano un mondo suddiviso in entit compatte e autonome,
dalla consistenza quasi naturale, esclusive e distintive. Come si pu appartenere a uno e ad un solo
Stato, cos si appartiene a una sola etnia-cultura. Pi che come un processo costantemente in divenire,
l'appartenenza culturale ed etnica intesa come propriet immutabile di un gruppo umano e di tutti gli

individui che ne fanno parte.

2.4 Razzismo differenzialista


La tendenza alla reificazione dei termini etnici e culturali rischia di produrre una nuova assolutizzazione
delle differenze, e finisce per avvicinarne l'uso a quello del vecchio concetto di razza. In particolare, il
rischio che il discorso etnico-culturale sia usato strumentalmente come supporto o giustificazione
"scientifica" di pratiche di discriminazione che potremmo a pieno titolo chiamare razziste.
Al posto del vecchio razzismo biologico si affermata una forma di neo-razzismo, o, come alcuni
studiosi lo chiamano, razzismo differenzialista. Questa concezione, paradossalmente, riesce a volgere
a sostegno di pratiche razziste proprio le tradizioni culturali che nel Novecento pi si sono opposte al
razzismo. La nuova destra xenofoba non parla pi di razze e di differenze naturali, ma di culture
o etnie, per indicare le radici storiche e culturali che tengono insieme un popolo e lo
distinguono da altri. Non si rivendica pi la superiorit di alcuni popoli e culture su altre. Si accetta il
principio del relativismo culturale, che come abbiamo visto l'esatto opposto dell'etnocentrismo e
per certi versi del razzismo: ogni cultura ha valore in s, non pu esser giudicata sulla base di
criteri appartenenti a un'altra cultura: e tutte le culture del mondo hanno uguale dignit e in
linea di principio uguale importanza.
Ma, proprio sulla base di questi principi di apertura e tolleranza, si giunge a riaffermare l'antica
esigenza xenofoba. Proprio per il valore intrinseco di ciascuna cultura; proprio perch la vita di ognuno
di noi, i nostri valori, le nostre convinzioni morali sono radicate in una ben precisa identit culturale - per
tutti questi motivi, le culture e le identit non devono essere confuse e mescolate. Occorre preservarne
l'integrit e l'autenticit di fronte alla confusione, al mescolamento, e anche di fronte al rischio
dellomologazione che investe il mondo contemporaneo. Questo punto affonda le radici in alcune
formulazioni antropologiche anche di grande prestigio, come quelle di Lvi-Strauss, che ha sostenuto
la necessit di un certo grado di "sordit" reciproca fra le culture; se la diversit culturale il
bene massimo da preservare per l'umanit, poich il progresso stesso consentito non dalla
prevalenza di una cultura su tutte le altre, ma dalla compresenza di molte culture diverse, allora
occorre certo favorire il dialogo e lo scambio, ma anche difendere le rispettive identit e confini,
evitare contaminazioni troppo profonde che facciamo perdere appunto il senso della diversit.
L'omologazione culturale, il caotico mescolamento, sembrano per Lvi-Strauss i massimi pericoli della
contemporaneit. La sua posizione, opportunamente forzata, stata utilizzata dai movimenti
contrari all'immigrazione in molti paesi europei.
Un ruolo di avanguardia in questa direzione stato svolto dalla cosiddetta nuova destra francese, con il
contributo di teorici piuttosto sofisticati come Alain de Benoist, secondo il quale "tutti i popoli devono
preservare e coltivare le proprie differenze", e "l'immigrazione condannabile perch attenta all'identit
della cultura di accoglienza cos come all'identit degli immigrati". Il motto di questi movimenti, tradotto
in linguaggio comune, potrebbe essere : "noi non siamo razzisti, ma pensiamo che, per il bene
comune, ognuno se ne dovrebbe restare a casa propria". I movimenti migratori di massa, come quelli
dall'Africa verso l'Europa, producono sradicamento e perdita delle identit culturali, sia per gli
ospitanti che per gli ospiti. La chiusura delle frontiere, dunque, necessaria per proteggere
entrambi. Accade cos che la separazione e la xenofobia possono esser sostenute in nome di valori
come la tolleranza, il rispetto dell'altro e della sua dignit, il diritto alla differenza, senza bisogno di
parlare n di razze n di superiorit-inferiorit.

2.5 Caratteri distintivi dei neorazzismi


Dunque, il neorazzismo si fonda oggi su nuove basi ideologiche, che si confondono con argomenti a
favore della tolleranza, del relativismo, nonch con i richiami, di per s giusti, alla valorizzazione delle
identit culturali delle comunit umane. Come riconoscere un razzismo che non si dichiara come tale?
Oggi nessuno (con eccezioni irrilevanti) si proclama francamente tale, n gruppi politici e culturali n
individui; ci non significa che non circolino largamente atteggiamenti ideologici e comportamenti pratici
che presentano forti continuit con il razzismo classico, autorizzandoci a usare ancora questo termine
(piuttosto che sostituirlo semplicemente con "pregiudizio", xenofobia" e simili).
[Peraltro, a fronte della pi comune rilettura in chiave etnica delle antiche differenze razziali,

importante rilevare la persistenza di una dinamica opposta: vale a dire, la tendenza a razializzare le
differenze etniche e culturali. Questo fenomeno stato rilevato spesso negli Stati Uniti, dove le
categorie razziali prevalenti, quelle di bianco e nero, sono spesso proiettate su un mosaico etnico
molto pi vario e complesso. Questo uno dei motivi che ha spinto lattuale antropologia americana a
restituire centralit alla nozione di razza. Un motivo parallelo ha a che fare col sostegno di molti
antropologi alle strategie politiche delle minoranze di colore o afro-americane le quali, nel denunciare il
persistente razzismo della societ statunitense, rivendicano in positivo lappartenenza razziale,
sottolineandone i demarcatori somatici. A parere di molti, lantirazzismo americano della seconda met
del secolo ha percorso una strada sbagliata, trasformando gli USA in un societ cieca ai colori (color
blind): questa indifferenza alle caratteristiche somatiche, il fare come se non ci fossero, in realt un
modo di nascondere le profonde sperequazioni che ancora dividono gli afro-americani dai bianchi;
dunque, una pi effettiva pratica antirazzista ha oggi bisogno di recuperare e affinare la percezione del
colore. In alcuni movimenti culturali, come il cosiddetto afrocentrismo, questa riscoperta della razza
rischia di assumere la forma paradossale di un modello invertito di determinismo biologico: lorigine
africana, visibile nel colore della pelle anche se non percepita storicamente, sarebbe il nucleo portante
dellidentit culturale, fondando particolari propensioni e capacit.]
Dobbiamo riconoscere questi atteggiamenti e comportamenti al di sotto della veste culturalista sotto cui
si presentano; d'altra parte, non possiamo prendere troppo alla leggera l'imputazione di razzismo,
attribuendola ciecamente a ogni discorso o atto politico che affronti criticamente il problema della
diversit e del rapporto con gli "altri". Non ha molto senso considerare ipso facto razzista, ad esempio,
ogni politica di controllo sull'immigrazione, o di limitazione allo sviluppo demografico per i paesi in via di
sviluppo - un errore nel quale i movimenti antirazzisti si lasciano talvolta trascinare.
Dunque, quali sono i punti in comune tra vecchio e nuovo razzismo, tra il razzismo biologico,
gerarchizzante e "universalista" della prima met del secolo e quello culturale, differenzialista e
relativista della seconda met? Una delle teorie pi sistematiche avanzate in risposta a questa
domanda quella dello studioso francese Pierre-Andr Taguieff, che individua tre atteggiamenti
intellettuali e tre tipi di pratiche come denominatori comuni, rispettivamente, dell'ideologia e del
comportamento razzista. La prima di esse per Taguieff la
categorizzazione essenzialista degli individui o dei gruppi, che implica la riduzione
dell'individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentante del suo gruppo di appartenenza o della
sua comunit d'origine elevata a comunit di natura o d'essenza, fissa e insormontabile.
Nascere tali, significa essere e dover rimanere tali.
In altre parole, l'appartenenza a una categoria produce un giudizio aprioristico e totalizzante su un
individuo, a cui sono associati immediatamente tutti gli attributi stereotipi della categoria. Cos
funzionava il termine "ebreo" nella cultura tedesca degli anni '30 e '40, o il termine "negro" in societ
(formalmente o di fatto) di apartheid; cos, anche se con conseguenze meno drammatiche, tendono a
funzionare oggi da noi i termini "immigrato", extracomunitario", "albanese", e cos via. Non ad
esempio razzista constatare gli alti tassi di criminalit fra certe categorie di immigrati; lo
considerare qualcuno criminale per il fatto di appartenere a quelle categorie.
Taguieff coglie qui un punto importante: la sua definizione ha tuttavia bisogno di una integrazione. La
riduzione degli individui a "essenze" infatti un meccanismo assai diffuso nella vita sociale, in
riferimento a ogni tipo di alterit e diversit, e su ordini di grandezza molto diversi: "i milanesi", "i
romani", "gli americani", oppure "i politici", o "gli juventini" e cos via. Perch tale meccanismo
assuma carattere razzista occorre sia in gioco qualcos'altro, e cio un'asimmetria di potere . In
altre parole, razzista l'essenzializzazione di una categoria debole o subalterna da parte di gruppi o
individui relativamente privilegiati, che vedono in essa, a torto o a ragione, una minaccia per la propria
posizione. Questo punto colto efficacemente in un'altra celebre definizione di razzismo, proposta dal
sociologo Albert Memmi. Il razzismo a suo parere
l'enfatizzazione, generalizzata e definitiva, di differenze, reali o immaginarie, che l'accusatore
compie a proprio vantaggio e a detrimento della sua vittima, al fine di giustificare i propri privilegi o
la propria aggressione.
[Il senso comune pieno di enfatizzazioni ed essenzializzazioni, etniche e non: questi sono anzi i

meccanismi retorici fondamentali per alcuni generi di discorso, come l'umorismo.]


Tornando a Taguieff, il secondo ingrediente ideologico del razzismo (che presuppone il primo) a
suo parere la stigmatizzazione. Una volta categorizzati secondo una presunta immutabile essenza, gli
"altri" possono esser stigmatizzati, cio subire un processo di esclusione simbolica, imperniato
sulla "creazione di un certo numero di stereotipi negativi". Ad essi si attribuiscono difetti congeniti,
"tare", impurit di vario tipo, qualit pericolose che li rendono minacciosi. Il "nemico" viene
disumanizzato, demonizzato, bestializzato, e ci crea una distanza psicologica e morale che
spiega anche le manifestazioni di violenza, nonch il peculiare rapporto vittime-carnefici che
caratterizza gli eccidi nazisti come i pestaggi degli immigrati di colore. Una conseguenza della
stigmatizzazione la mixofobia, cio la paura della mescolanza e dell'ibridazione, che spesso si
manifesta attraverso un linguaggio patologizzante, con l'ossessione di un "contagio" metaforico
o reale.
Il terzo elemento caratterizzante del razzismo viene chiamato da Taguieff "barbarizzazione", e
consiste nella "convinzione che certe categorie di esseri umani non siano civilizzabili (e dunque,
come presupposto, che non siano civilizzate), che non siano perfettibili, non siano educabili,
convertibili, assimilabili". Taguieff sostiene che la teoria della inuguaglianza biologica tra le razze
solo una incarnazione storica di questa tendenza, che pu manifestarsi attraverso altri linguaggi e
teorie. Si tratta del pi altro grado di distanziamento e esclusione dell'altro: in quanto "barbaro", esso
non solo diverso, inferiore, pericoloso, ma rappresenta l'antitesi stessa della civilt: colui
che non riconosce i valori fondamentali, che non rispetta le distinzioni centrali all'esistenza
stessa della civilt.
La barbarizzazione implica l'impossibilit di ogni assimilazione, e dunque apre la strada a
politiche eliminazioniste, di radicale separazione xenofoba e persino di genocidio.
Dal punto di vista degli atteggiamenti pratici, Taguieff distingue tre tipi o livelli di azioni logicamente
giustificabili dalla precedenti condizioni, anche se non ne sono la necessaria conseguenza. Si tratta
in primo luogo delle pratiche di segragazione, discriminazione, espulsione; in secondo luogo, di
forme dirette di persecuzione e di violenza essenzialista (diretta cio contro una categoria in
quanto tale), e infine del genocidio, cio dello sterminio di tutti i rappresentanti di una categoria
di popolazione.
Come si vede, sembra quasi che Taguieff abbia costruito il suo schema teorico ricalcando i livelli
successivi della persecuzione nazista contro gli ebrei. Rispetto alle interpretazioni che considerano la
Shoah come un unicum storico, egli sembra per pensare che i nazisti non abbiano che condotto
alle estreme - e per certi versi logiche - conseguenze un atteggiamento ideologico e pratico
assai pi diffuso; che, dunque, il genocidio sia sempre inscritto, come possibilit, nei livelli di
base della discriminazione razzista.
Naturalmente, Taguieff non sostiene che le pratiche di persecuzione violenta siano semplici
conseguenze di convinzioni teoriche o ideologiche. Le cose sono pi complesse. Da un lato, infatti, le
idee e i comportamenti razzisti non insorgono da soli nella testa della gente, e possono esser
ricondotti a una serie di cause "strutturali" (economiche, sociali, politiche, etc.). Dall'altro, anche
sul piano soggettivo, lo sviluppo di atteggiamenti razzisti non discende semplicemente da
"credenze" o convinzioni politiche, e neppure da dinamiche psicologiche pi o meno universali.

2.6 Antirazzismo
L'antirazzismo corre oggi due tipi di rischi:
il primo quello di usare gli stessi strumenti ideologici e culturali del neorazzismo
differenzialista;
il secondo il rischio di riprodurre gli stessi meccanismi di essenzializzazione,
stigmatizzazione e barbarizzazione che caratterizzano il razzismo stesso.
Partiamo anche qui da Taguief:
L'antirazzzismo classico, impregnato di culturalismo e di differenzialismo, non pu pi funzionare da
dispositivo critico efficace, dal momento che le sue tesi e argomentazioni tendono a confondersi
con quelle del neorazzismo, differenzialista e culturale. Di qui, la presa di coscienza della necessit
di ripensare l'antirazzismo e di abbandonare la funzione rituale e il significato strettamente
commemorativo di quest'ultimo.

Il problema che Taguieff pone reale: i vecchi argomenti non bastano pi, e risultano anzi fortemente
ambigui.
L'antirazzismo non pu limitarsi all'indignazione morale retrospettiva e all'anatema commemorativo se
non per squalificarsi, collaborando alla propria scomparsa per la mancanza di "razzisti" conformi
all'identikit consueto. N i Gobineau n gli Hitler possono oggi esser trovati l dove li si cerca, e i nuovi
razzisti non somigliano pi a queste figure del passato. L'antirazzismo militante deve finalmente
cessare di commettere degli errori tattico-strategici, il principale dei quali quello di sbagliare
nemico, di non identificare il nuovo vero nemico, e di continuare a prendere come propri
obiettivi i luoghi ripugnanti della memoria.

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