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IL DECLINO E LA CADUTA RIGUARDANO IL MONDO INTERO

Postato il Gioved, 29 settembre @ 18:10:00 CDT di supervice


Economia DI PEPE ESCOBAR
Counter Punch
Pi di dieci anni fa, prima dell11 settembre, Goldman Sachs aveva previsto che i paesi
BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) sarebbe entrati nelle prime economie mondiali, ma
non prima del 2040. passato un decennio e leconomia cinese gi il numero due, il
Brasile il numero 7, lIndia il 10 e la Russia si sta avvicinando sempre di pi. A parit di
potere di acquisto le cose vanno anche meglio; la Cina sempre al secondo posto, lIndia
ora quarta, la Russia sesta e il Brasile settimo.
Non c da stupirsi che Jim ONeill, che coni il neologismo BRIC ed ora direttore di
Goldman Sachs Asset Management, abbia evidenziato che il mondo non dipende pi
dalla leadership degli Stati Uniti e dellEuropa. Dopo tutto, dal 2007, leconomia cinese
cresciuta del 45%, quella statunitense meno dell1, dati abbastanza impressionanti da
far arretrare le loro previsioni. Lansiet americana e lo sconcerto hanno raggiunto nuove
vette quando le ultime proiezioni del Fondo Monetario Internazionale hanno indicano
che, almeno in una certa misura, leconomia cinese sorpasser quella degli Stati Uniti nel
2016. (Fino a poco tempo fa, Goldman Sachs aveva suggerito il 2050 per quel
cambiamento al primo posto.)
Entro i prossimi trentanni i primi cinque saranno probabilmente, secondo Goldman
Sachs, Cina, Stati Uniti, India, Brasile e Messico. LEuropa Occidentale? Addio.
Un sistema portato alla sua essenza
Un numero sempre maggiore di esperti concorda che lAsia stia guidando il mondo,
anche se ci sono differenze marcate nella narrazione della sua civilizzazione riportata
dallOccidente. Il parlare del declino dellOccidente tuttora un argomento pericoloso.
Un riferimento storico fondamentale dato dal saggio del 1918 di Oswald Spengler, che
riporta lo stesso titolo. Spengler, un uomo della sua epoca, pensava che lumanit
funzionasse grazie a sistemi culturali irripetibili, e che le idee occidentali non sarebbero
state pertinenti, o trasferibili, in altre regioni del pianeta. (Dite questo strafalcione ai
giovani egiziani di Piazza Tahrir.)
Spengler, naturalmente, aveva fatto proprio lo zeitgest dominato dagli Occidentali di un
altro secolo. Considerata le culture come organismi che vivono e muoiono, ciascuna con
unanima separata. LEst o Oriente era magico, mentre lOccidente era Faustiano. Da
misantropo reazionario, era convinto che lOccidente aveva gi raggiunto lo status
supremo che fosse possibile a una civilizzazione democratica, e per questo che era
destinato a far esperienza del declino riportato nel titolo.
Se state pensando che ci risuoni come un precoce scontro di civilt alla Huntington,
sareste scusati, perch proprio quello che voleva significare.
Parlando degli scontri di civilt, nessuno ha notato che forse una prima pagina del
TIME si affida ai temi spengleriani e titola in prima pagine Il Declino e la Caduta
dellEuropa (o forse dellOccidente)? Nella nostra epoca post-spengleriana,
lOccidente da identificarsi sicuramente con gli Stati Uniti; ma come si pu sbagliare
unanalisi in questo modo? Forse? Dopo tutto, lEuropa alle prese con una grave crisi
finanziaria sar in declino fino a che rimarr inestricabilmente intrecciata e continuer

a inchinarsi allOccidente ossia a Washington -, anche se assiste allascesa economica


simultanea di quello che in passato si etichettava con derisione come Sud del mondo.
Pensate al momento presente del capitalismo globale non come a uno scontro, ma come
a uno scon110to di civilizzazioni.
Se Washington ora stordita e viaggia col pilota automatico, in parte ci dovuto al fatto
che, storicamente parlando, il suo momento di unica superpotenza e addirittura iperpotenza durato a malapena i quindici minuti di fama di Andy Warhol, dalla caduta del
Muro di Berlino e al collasso dellUnione Sovietica fino all11 settembre e alla dottrina
Bush. Il nuovo secolo americano stato rapidamente strozzato in tre fasi ricolme di
arroganza: l11 settembre (blowback); linvasione dellIraq (guerra preventiva) e il
collasso di Wall Street del 2008 (capitalismo da casin).
Nel frattempo, ci si potrebbe chiedere se lEuropa abbia ancora opportunit non legate
all'Occidente, come potrebbero suggerire i sogni dei vicini, che non si basano sugli Stati
Uniti. La Primavera Araba, ad esempio, si focalizzata su democrazie parlamentari di
tipo europeo, non su un sistema presidenziale allamericana. Inoltre, per quanto forti
possano essere le ansiet finanziarie, lEuropa rimane il pi grande mercato al mondo. In
una vasta gamma di campi tecnologici, rivaleggia o supera gli Stati Uniti, mentre le
regressive monarchie del Golfo Persico sperperano gli euro (soprattutto per immobili di
Parigi e Londra) per diversificare i propri portafogli.
E ancora con dirigenti come il neo-Napoleonico Nicolas Sarkozy, David (dArabia)
Cameron, Silvio (bunga bunga) Berlusconi e Angela (Santa Pazienza) Merkel che
mancano abbondantemente di immaginazione o di competenze, lEuropa di sicuro non ha
bisogno di nemici. Declino o meno, potrebbe avere una botta di vita mettendo ai margini
il proprio Atlantismo e scommettendo forte sul proprio destino euro-asiatico. Potrebbe
aprire le sue societ, le sue economie e le culture a Cina India e Russia, spingendo cos
lEuropa meridionale a connettersi molto pi profondamente con la Turchia in crescita, il
resto del Medio Oriente, lAmerica Latina e lAfrica (comunque non attraverso i
bombardamenti umanitari della NATO).
Diversamente i fatti parlando di qualcosa che va oltre il declino dellOccidente: il
declino dellOccidente che, in questi ultimi anni, stato portato alla sua cruda essenza.
Lo storico Eric Hobsbawm ha colto lo spirito del tempo quando scrisse nel suo libro
Come cambiare il mondo, che il mondo trasformato dal capitalismo, gi descritto da
Karl Marx nel 1848 in varie fasi di laconica e oscura eloquenza palesemente il mondo
dellinizio del XXI secolo.
In un panorama in cui i politici si sono ridotti a uno specchio (rotto) che riflette la finanza
e in cui la produzione e il risparmio sono stati soppiantati dal consumo, viene alla luce
qualcosa di sistemico. Come recita il famoso verso del poeta William Butler Yeats, il
centro non pu reggere e non lo far sicuramente
Se lOccidente cesser di essere il centro, cosa ha fatto allora di sbagliato?
Sei con me o sei contro di me?
Va ricordato che il capitalismo fu civilizzato grazie allinarrestabile pressione dei solidi
movimenti dei lavoratori e della minaccia onnipresente degli scioperi e persino delle
rivoluzioni. Lesistenza del blocco sovietico, un modello alternativo di sviluppo
economico (anche lui perverso) aiutava allo scopo. Per controbattere lURSS, i gruppi
delle lite a Washington e in Europa dovevano acquisire il supporto delle masse per
difendere quello che chiunque non si vergognava a definire il sistema di vita

occidentale. Venne forgiato un complesso contratto sociale, e ci comport alcune


concessioni da parte del capitale.
Tutto qua. Non a Washington, ovviamente. E, col passare del tempo, sempre di meno
anche in Europa. Quel sistema ha cominciato a venir gi quando parliamo di questo
enorme trionfo ideologico! il neoliberismo divenne lunica alternativa. Cera una sola
enorme autostrada che avrebbe portato la classe media direttamente nel nuovo
proletariato post-industriale, o semplicemente verso la disoccupazione.
Se per ora il neoliberismo vincente, solo perch non esiste un modello di sviluppo
alternativo e realista, ma quello che stato sconfitto viene messo sempre pi in
discussione. Nel frattempo, Medio Oriente a parte, i progressisti di tutto il mondo sono
paralizzati, come se si aspettassero che il vecchio ordine si dissolva da solo.
Sfortunatamente la storia ci insegna che, nel passato di fronte a crocevia cos
determinanti, pi probabile andare incontro ai furori, di stampo populista e di destra, o,
ancor peggio, al fascismo.
LOccidente contro il resto una formula semplicistica che non inizia neppure a
descrivere di che mondo si stia parlando. Immaginatevi, invece, un pianeta in cui il
resto sta cercando di sopravanzare lOccidente in vari modi, ma che ha anche assorbito
quellOccidente in modi troppo complessi da essere descritte. una cosa davvero ironica:
ebbene s, lOccidente decliner, Washington inclusa, ma lascer comunque la sua
immagine dappertutto.
Mi dispiace, ma il tuo modello fa pena
Supponiamo che voi siate in un paese in via di sviluppo, che acquisti al supermercato dei
paesi del mondo sviluppato. Guardate alla Cina e pensate i vedere qualcosa di nuovo,
oppure un modello di consenso che si sta diffondendo ovunque? Dopo tutto, la versione
cinese del boom economico senza libert politiche non diventare un modello da seguire
per altre nazioni. Sotto molti aspetti potrebbe sembrare un ordigno letale e inapplicabile,
una bomba a grappolo composta da frammenti dellidea occidentale di modernit
frammisti a una formula di stampo leninista, dove un solo partito controlla il personale, la
propaganda e soprattutto lEsercito Popolare di Liberazione.
Allo stesso tempo si tratta di un sistema che evidentemente sta cercando di provare che,
anche se lOccidente ha unificato il mondo dal neocolonialismo alla globalizzazione -,
ci non implica che sia destinato a comandare per sempre nei termini intellettuali o
materiali.
Da parte sua lEuropa sta cercando di vendere ovunque un modello di integrazione
sopranazionale per poter risolvere i problemi e conflitti che vanno dal Medio Oriente
allAfrica. Ma ogni persona senziente comprende come lEuropa sia sul punto di
sfasciarsi nel coro di gazzarre continentali che riguardano le rivolte nazionali contro
lEuro, lo scontento verso il ruolo della NATO come Robocop globale e unarroganza
culturale che non le rende possibile, per fare un esempio, comprendere come il modello
cinese abbia cos tanto successo in Africa.
Diciamo che i nostri acquirenti guardano ancora agli Stati Uniti, quel paese che ancora,
dopo tutto, la prima economia mondiale, il cui dollaro ancora la moneta di riserva
mondiale e le sue forze armate sono ancora il numero uno per potenza distruttiva e ancora
presidiano la gran parte del globo. Tutto ci potrebbe sembrare impressionante, se non
fosse che Washington visibilmente in declino, oscillando perennemente tra un gretto
populismo e unortodossia rafferma, frequentando il capitalismo di rapina nel tempo

libero. una superpotenza incartata di una paralisi politica ed economica a cui il mondo
assiste, e non visivamente capace di realizzare una strategia adatta per uscirne.
Quindi, prendereste a modello qualcuno di cui si parlato qui sopra? In un mondo dove i
disordini aumentano ogni giorno di pi, dove sarebbe possibile trovare qualcosa da
imitare?
Una delle ragioni fondamentali che hanno causato la Primavera Araba data dai prezzi
dei generi alimentari fuori controllo, pilotati in modo significativo dalla speculazione. Le
proteste e le rivolte in Grecia, Italia, Spagna, Francia, Germania, Austria e Turchia erano
conseguenze dirette della recessione globale. In Spagna, quasi met dei ragazzi tra i 16 e i
29 anni una iper-istruita generazione perduta non ha lavoro, un record europeo.
Si tratta del peggio in Europa, ma in Gran Bretagna, il 20% dei giovani tra i 16 e i 24 anni
disoccupato, e si tratta della media del resto dellUnione Europea. A Londra quasi il 25
per cento della popolazione in et lavorativa disoccupata. In Francia il 13,5% della
popolazione ora ufficialmente povera, ossia vive con meno di 1.300 dollari al mese.
Come si pu vedere in tutta lEuropa occidentale, lo stato ha rotto il contratto sociale. Gli
indignados di Madrid hanno perfettamente colto lo spirito del momento: Non siamo
contro il sistema, il sistema che contro di noi.
Ci descrive lessenza del fallimento abbietto del neoliberismo capitalista, come David
Harvey ha ben spiegato nel suo ultimo libro, Lenigma del Capitale. Chiarisce come la
politica economica di spoliazione di massa, di pratiche predatorie che giungono al furto
giornaliero - soprattutto dei poveri, dei pi deboli, dei semplici e dei non protetti
legalmente diventata lordine del giorno.
LAsia salver il capitalismo globale?
Nel frattempo Pechino troppo indaffarata a ricreare un proprio destino come Regno di
Mezzo globale, schierando ingegneri, architetti e operai del tipo non bombardante dal
Canada al Brasile, da Cuba allAngola per essere distratta dai travagli atlantisti nel
MENA, la regione che include il Medio Oriente e il Nord Africa.
Se lOccidente nei guai, al capitalismo globale stata offerta una proroga per quanto
tempo non sappiamo dalla comparsa di una classe media asiatica, non solo in Cina e in
India, ma anche in Indonesia (240 milioni di persone in modalit boom) e in Vietnam (85
milioni). Non finisco mai di meravigliarmi quando paragono le speranze attuali e la bolla
immobiliare del momento presente in Asia alle mie prime esperienze di vite nel 1994,
quando questi paesi erano ancora le tigri asiatiche, negli anni prima della crisi
finanziaria del 1997.
Solamente in Cina 300 milioni di persone solo il 23% del totale della popolazione
vive in aree urbane da medie a grandi e gode di quelli che vengono sempre definiti
introiti a disposizione. Costituiscono infatti una nazione a parte, uneconomia che gi
due terzi di quella tedesca.
Il McKinsey Global Institute indica che la classe media cinese ora comprende il 29% dei
190 milioni di famiglie del Regno di Mezzo e che raggiunger uno sbalorditivo 75% delle
372 milioni di famiglie nel 2025 (sempre che, naturalmente, lesperimento capitalista
della Cina non sia venuto meno in qualche modo e se la sua bolla immobiliare/finanziaria
non sar scoppiata facendo affondare la societ.)
In India, con una popolazione di 1,2 miliardi di persone, ci sono gi, secondo McKinsey,
15 milioni di famiglie con un introito annuale superiore a 10.000 dollari; in cinque anni
c una proiezione per 40 milioni di famiglie, o circa 200 milioni di persone, che saranno

in quella fascia di reddito. E in India nel 2011, come in Cina nel 2001, la direzione
unicamente quella che punta in alto (ancora fino a quando durer questa proroga).
Gli americani potrebbero ritenere surreale (o iniziare a fare i bagagli per lestero) un
introito annuale di meno di 10.000 dollari in Cina o in Indonesia, quando negli Stati Uniti
- dove la famiglia media dispone di circa 50.000 dollari con la stessa somma si
praticamente poveri.
Nomura Securities prevede che in soli tre anni le vendite al dettaglio in Cina supereranno
quelle degli USA e cos la classe media asiatica potr davvero salvare il capitalismo
globale per un lasso di tempo, ma un ritmo tanto sostenuto che Madre Natura star
seriamente tramando una qualche vendetta catastrofica sotto forma di quello che viene di
solito definito come cambiamento climatico, ma che conosciuto pi di frequente
come tempo strano.
Back in the USA
Nel frattempo, negli Stati Uniti il premio Nobel per la pace, il presidente Barack Obama,
continua a insistere che stiamo vivendo tutti nel pianeta americano, per fortuna. Se questa
filastrocca ancora frequente in casa, pi difficile convincere il resto del mondo,
proprio mentre il primo jet stealth cinese fa un giro di prova quando il Segretario della
Difesa statunitense in visita in Cina. O quando lagenzia di stampa Xinhua, reiterando il
verso dei padroni a Pechino, si inalberata contro i politici irresponsabili di
Washington che hanno recitato di recente nel circo del tetto del debito e ha indicato la
fragilit di un sistema salvato dal crollo grazie alle promesse della Fed di inondare le
banche con soldi freschi di stampa per almeno due anni.
E neppure Washington si dimostrata davvero gentile nel criticare la dirigenza del suo
pi grande creditore, che detiene 3,2 trilioni di dollari in riserve di moneta, il 40% per del
totale globale, e che sempre pi sconcertata dalla letale esportazione della democrazia
per negati dalle spiagge americane alle zone di guerra dellAf-Pak , allIraq, Libia e
verso altri punti caldi del Grande Medio Oriente. Pechino sa bene che una qualsiasi
turbolenza provocata dagli Stati Uniti potrebbe ridurre le proprie esportazioni, far
collassare la bolla immobiliare e gettare la classe lavorativa cinese in modalit
rivoluzionaria radicale.
Ci significa malgrado le voci che si alzano dal variet di Rick Perrye e Michele
Bachmann che non c alcuna malvagia cospirazione cinese contro Washington o
lOccidente. Infatti, dietro il sorpasso della Cina sulla Germania come primo esportatore
mondiale e la sua designazione come fabbrica del pianeta, presente un gran parte della
produzione che in effetti controllata da aziende americane, europee e giapponesi.
Quindi, il declino dellOccidente esiste, ma lOccidente talmente presente in Cina che
non se ne potr andare molto presto. Indipendentemente dagli sbalzi di questo periodo,
siamo comunque, per il momento, allinterno di un unico e obbligato sistema mondiale di
sviluppo, logoro nellAtlantico e fiorente sul Pacifico.
Anche se le speranze di Washington per poter cambiare la Cina sono un miraggio,
quando si parla di monopolio globale del capitalismo chiss cosa ci riserver il futuro?
La terra desolata redux
Si pensa sempre che gli spauracchi tradizionali del nostro mondo - Osama, Saddam,
Gheddafi, Ahmadinejad (che strano, tutti musulmani!) debbano svolgere la funzione di
piccoli buchi neri che assorbono tutte le nostre paure. Ma non salveranno lOccidente dal
suo declino, e lex unica superpotenza dallavere ci che si merita.

Paul Kennedy, lo storico del declino di Yale, ci ricorderebbe sicuramente che la storia
spazzer via legemonia statunitense come lautunno rimpiazza lestate (cos come fu
spazzato via il colonialismo europeo, nonostante le guerre umanitarie della NATO). Gi
nel 2002, durante la preparazione per linvasione dellIraq, lesperto del sistema-mondo
Immanuel Wallerstein stava elaborando questo dibattito nel suo libro Il declino
dellAmerica : non c da chiedersi se gli Stati Uniti siano in declino, ma se sia possibile
trovare un modo per cadere lentamente, senza troppo danno per s o per il mondo intero.
La risposta data nel corso di questi anni abbastanza chiara: no.
Chi pu dubitare che, dieci anni dopo gli attacchi dell11 settembre, la grande storia
globale del 2011 stata la Primavera Araba, essa stessa una sottotraccia del declino
dellOccidente? Mentre lOccidente sguazza in un pantano di paure, di islamofobia, di
crisi economiche e finanziarie e persino di rivolte e di saccheggi in Gran Bretagna, dal
Nord Africa al Medio Oriente la gente mette a rischio la propria vita per tentare di imitare
la democrazia occidentale.
Naturalmente, questo sogno stato parzialmente deragliato grazie alla medievale Casa di
Saud e ai leccapiedi del Golfo Persico, che hanno fatto irruzione con una spietata
strategia di contro-rivoluzione, mentre la NATO cercava di dare una mano parlando di
una campagna di bombardamenti umanitari il cui scopo era quello di poter riasserire la
grandezza dellOccidente. Tutto questo mentre il Segretario Generale della NATO,
Anders Fogh Rasmussen, andava gi duro: Se non si possono schierare le truppe fuori
dai propri confini, si pu comunque esercitare uninfluenza a livello internazionale e poi
quella carenza verr riempita dalle potenze emergenti che non necessariamente
condividono i tuoi valori e il suo sistema di pensiero.
E allora riportiamo la situazione mentre il 2011 si incammina verso linverno. Per quanto
riguarda il MENA, la NATO si muove per tenere Stati Uniti ed Europa in partita, i paesi
BRICS al di fuori dei giochi e i nativi al loro posto. Nel frattempo, nel mondo atlantico,
gli appartenenti alla classe media riescono a malapena ad essere moderatamente disperati,
anche se la Cina in fase di boom e il mondo intero aspetta tenendo il fiato in attesa delle
prossime banalit.
Peccato che non c un nuovo T. S. Eliot per descrivere questa logora e medievale terra
desolata che subentra allasse atlantista. Quando il capitalismo viene ricoverato per le
cure intensive, quelli che pagano il conto dellospedale sono sempre i pi vulnerabili, e il
conto viene pagato per forza col sangue.
**********************************************
Fonte: The Decline and Fall of Just About Everyone
26.09.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE
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Carnefici e spettatori
Pubblicato il 2 novembre 2012 in alfapi, libri, rivista 2 Commenti
Dal-Lago
Dal numero 24 di alfabeta2, dal 7 novembre nelle edicole, in libreria e in versione
digitale

Alberto Burgio
La questione che sin dal titolo questo agile saggio critico pone una delle pi complesse
fra quelle lasciate in eredit dal Novecento, secolo armato che, come Dal Lago annota,
ha prodotto con le sue guerre pi vittime di quelle causate da tutti conflitti precedenti.
Carnefici e spettatori, quasi una citazione di un celebre studio di Raul Hilberg: e il
problema riguarda soprattutto il ruolo dei secondi, posto che la funzione dei primi pare di
per s inequivocabile. Il libro snocciola unenorme massa di interrogativi. Questo un
merito, bench non a tutte le domande sia data una compiuta risposta.
Limpressione che lautore abbia avvertito il bisogno di chiarire, intanto a se stesso, la
nuova forma che i temi della sua ricerca, da anni incentrata sulla guerra, sono venuti
assumendo nel corso dellultimo decennio (a partire dalle guerre democratiche contro
lAfghanistan e lIraq di Saddam Hussein), man mano che limpiego delle armi da parte
dei paesi occidentali veniva definendosi in base a un nuovo paradigma ideologico,
politico e giuridico. Come se si trattasse ora di prendere congedo da un insieme di ipotesi
per avviare il disegno di un nuovo quadro di riferimento.
Qui possibile appena nominare alcuni di questi interrogativi, giusto per farsi unidea
della loro portata. Si tratta del rapporto tra guerra e cultura occidentale (del fondamento
bellico di questultima); del rapporto tra principi morali e concrete pratiche sociali (in
relazione alla cui contraddittoriet Dal Lago parla di dissonanza cognitiva); degli
effetti della secolarizzazione (del ritirarsi della presa del sacro sulle istituzioni umane
che determina la sacralizzazione delle istituzioni laiche e la denegazione della loro
crudelt); delle conseguenze della metamorfosi novecentesca della guerra, a seguito della
sua mondializzazione. E, soprattutto, della ricostruzione del processo di neutralizzazione
e occultamento della guerra, connesso alla sua esternalizzazione (la guerra si combatte
ormai in luoghi remoti, lontani dalla nostra quotidianit) e al suo divenire una normale
caratteristica delle societ occidentali.
Il paradosso di questa progressiva rimozione (lemma ricorrente nel testo) che essa
culmina proprio quando la guerra diviene totale, pervasiva, illimitata. Dal Lago spiega,
nelle sue pagine pi riuscite, come invisibilit, afasia e indifferenza trionfino al cospetto
di un fenomeno non circoscritto e quindi indefinibile e inesprimibile: unintuizione
che circola gi nelle ultime riflessioni di Foucault, autore a lui caro, e che qui egli
approfondisce. Che cosa ne emerge? Un fermo atto di accusa intellettuale e morale
verso la complice indifferenza degli spettatori, cio dellopinione pubblica, cio di noi
tutti, a cominciare dagli intellettuali democratici fautori delle guerre umanitarie. Cos
torniamo al tema di apertura. Centrale resta la complicata questione di che cosa significhi
essere spettatori nella societ dello spettacolo, e di quali responsabilit morali e
politiche a questo ruolo si leghino.
LIBRO
Alessandro Dal Lago
Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudelt
Raffaello Cortina (2012), pp. 220
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Reality
Pubblicato il 5 novembre 2012 in alfapi, cinema, rivista, societ 7 Commenti
reality-garrone

Dal numero 24 di alfabeta2, dal 7 novembre nelle edicole, in libreria e in versione


digitale
Andrea Cortellessa
Non abbandonate mai i vostri sogni!. lo slogan (Never give up!, in neolingua
televisiva) che grida a ogni pie sospinto Enzo, il simpaticissimo vincitore napoletano del
Grande Fratello la cui fama improvvisa lo ha reso, agli occhi dei conterranei, una specie
dangelo del Paradiso (nella prima delle due scene di vera e propria estasi che
punteggiano il film, lo si vede letteralmente volare sopra la folla adorante, trainato da
tiranti durante una festa in discoteca). Ma anche loracolo della sorte di Luciano, il
protagonista di Reality di Matteo Garrone che tanto gli assomiglia (a sua volta
simpaticissimo, fa la sua prima apparizione travestito da drag queen con parrucca blu), e
pi ancora vorrebbe ripercorrere il suo cammino (a lungo lo pedina, infatti, elemosinando
raccomandazioni per lo Show).
Luciano rester sino alla fine, infatti, prigioniero del suo sogno di fama: o meglio
dellultra-vita, dellestasi rappresentata dalla Casa del Grande Fratello. Nonch, per sua
scelta, prigioniero della rappresentazione in cui la sua vita di tutti i giorni si trasforma:
dal momento in cui superati i primi provini, il secondo dei quali sostenuto a Cinecitt
si convince che Emissari della Televisione abbiano preso a spiarla, quella sua vita, onde
verificarne la coincidenza con laccattivante epitome realizzata in sede di provino. Cos
che Luciano, gesticolante venditore in una pescheria in piazza, ma che in realt trae il suo
misero benessere da piccole truffe su vendite per corrispondenza, letteralmente la
distrugge, quella vita: onde farla coincidere il pi possibile con lastratto modello di
simpatia che reputa idoneo alla Casa (la smette con le truffe, manda a monte il
matrimonio con la moglie-complice, dilapida i beni di consumo nel frattempo accumulati
per regalarli agli Ultimi della scala sociale, i mendicanti prima schifati).
La metafora orwelliana e il procedimento foucaultiano che, protervi, avevano
irreggimentato il concept del format televisivo Big Brother (in Italia trasmesso dal 2001
alla primavera di questanno; caduti gli ascolti dellultima edizione, il programma risulta
attualmente sospeso) vengono, cos, ironicamente letteralizzati. LUomo Comune crede
dessere diventato davvero il protagonista di un Controllo continuo e ossessivo, di essere
costantemente sotto gli occhi di un Panottico che, dallalto, lo sorveglia e giudica (del
resto, fuori di metafora e di cornice, la mdp di Matteo Garrone e con lei, dunque, gli
occhi di noi spettatori davvero lo pedina di continuo; eccellente la prova del
protagonista Aniello Arena, che davvero un carcerato: appartenente alla Compagnia
della Fortezza nata nel 1988 nel carcere di Volterra). Lo Spettatore, condannato a
sorvegliare la vita dei Prigionieri della Casa, si scopre (o si desidera), a sua volta,
Prigioniero di una Super-Casa che per tetto ha solo il cielo. (Gi il precedente
cinematografico concettualmente pi diretto The Truman Show di Peter Weir e Andrew
Niccol, 1998 alludeva alla dimensione religiosa col nome del regista-demiurgo dello
Show che aveva per unica, inconsapevole vittima e star Jim Carrey: Christo grande
empaqueteur altres, come lomonimo artista bulgaro, perch in quel caso davvero il
Cielo era posticcio, ricostruito in uno studio televisivo.)
Dal Cielo infatti proviene, per al Cielo infine fare ritorno, lo sguardo dellAutore (un po
come quello cos provocatorio nel letteralizzare la metafora dellArtista-Demiurgo che
oggi tanto irrita gli avversari dellAutorismo del Lars Von Trier di Breaking the Waves,
1996): che appunto dallalto, nel favoloso piano-sequenza iniziale, a lungo segue una

carrozza a cavalli decorata di stucchi e finimenti rococ, che incongrua percorre la


viabilit dellhinterland partenopeo per fare infine trionfale accesso a un tamarrissimo
ricevimento di matrimonio. LElicottero verosimilmente impiegato per realizzare questa
ripresa, e che poco dopo viene in effetti inquadrato prendersi Enzo, ospite donore della
festa, e portarlo via con s nellEmpireo delle Star inserisce Reality, cos come le
musiche ninoroteggianti di Alexander Desplat, nellalveo di Fellini (lelicottero, certo,
che trasporta la statua di Cristo, nellincipit della Dolce vita): che in effetti il nume
tutelare del ct meno sorprendente del film di Garrone, quello grottesco e satirico (i
parenti obesi di Luciano, le facce mostruose degli invitati alla Festa, eccetera); cos come
non mancano riferimenti compiaciuti allenciclopedia del Neorealismo (specie nella
lunga e un po troppo macchiettistica parte centrale, quella della recita di Luciano in
uno spazio chiuso-aperto uscito dritto da una pice di Eduardo De Filippo), ovviamente a
Bellissima di Visconti eccetera.
Ma non , questo, gratuito collezionismo da cinphile. Bens, mi pare, consapevole e
puntigliosa polemica con quanti avevano accolto trionfalmente Gomorra (e oggi non a
caso storcono il naso di fronte a Reality) in nome di un preteso nuovo realismo.
Lenciclopedia dei Realismi che Reality compendia e parodia si fa cos strategia, obliqua
quanto ironica, di demistificazione: in vista di un altro-realismo, di un oltre-realismo o
Iper-Realismo che in effetti sempre stata la cifra di questo autore (almeno
dallImbalsamatore in avanti). Lultima scena del film (attenzione: spoiler!) fa infatti da
perfetto contraltare a quella iniziale. Pasqua, e Luciano si recato a Roma per assistere
alla Via Crucis, seconda scena estatica del film (segno di mimesi Cristica, certo; ma
anzitutto, direi, mise en abme del Passaggio, del Trasumanare che sta per compiersi, e al
quale in precedenza aveva alluso un piccolo sketch in Cimitero, con due Vecchie che
Luciano, al solito, scambia per misteriosi Emissari e che parlano con lui dellIngresso in
una Casa che , invece, quella del Signore).
Misteriosamente (o meglio, mistericamente), Luciano individua gli studi nei quali viene
ripreso il Grande Fratello; e altrettanto misteriosamente riesce a fare accesso nella Casa.
Prima percorre lentamente, con un sorriso estatico stampato sulla faccia, i corridoi che
perimetrano gli ambienti spiati dalle telecamere; poi sintrude in una breccia ed
effettivamente entra nella Casa. A quel punto succedono due cose. La prima che
nessuno lo vede. Non si accorgono della sua presenza gli altri partecipanti al reality n,
per quanto ne sappiamo (lo sguardo degli Spettatori, in precedenza ripreso nelle scene pi
dolenti del film, ora lontano, forcluso dalla rappresentazione), pu essere visto negli
schermi televisivi. La seconda che Luciano, di ci, non si duole affatto; anzi. Lo
vediamo accomodarsi su una sdraio al limitare della piscina, stendersi, bearsi, perdersi in
lontananza mentre la mdp riprende il volo. Il suo sorriso, ultima citazione, quello di
Robert De Niro nel finale di Cera una volta in America di Sergio Leone. Luciano
finalmente uscito dalla sua vita recitata fuori: ed entrato nella vita reale, quella in
cui il suo modello di esistenza, e lesistenza che davvero conduce, combaciano a
perfezione. In Paradiso, cio.
Non un caso che il finale (almeno nella parte in cui Luciano spia i ragazzi del Grande
Fratello dagli specchi monodirezionali che circondano la Casa) riscriva con precisione un
episodio di Troppi paradisi di Walter Siti (insieme al quale, del resto, per qualche tempo
Garrone ha invano vagheggiato un film sulla resistibile ascesa di Fabrizio Corona): ossia
lautore letterario che al prezzo di una puntigliosa Sospensione del Giudizio, la stessa

che consente a Garrone di evitare le derive, opposte ma equivalenti, del Sarcasmo


Complice da Commedia allItaliana e del Corruccio Moralista da Apologo Sociale
meglio, in questi anni, ha saputo reinterpretare la tradizione dei Realismi (sino a un
pastiche pasoliniano, nel Contagio, che ha la stessa funzione di quello realizzato da
Garrone nella parte centrale di Reality) nella chiave di un Realismo della Derealizzazione
o, appunto, di un Iper-Realismo. Lunico realismo, cio, allaltezza dei tempi che ci sono
dati in sorte.
+
Un ordine della scienza?
Pubblicato il 11 settembre 2012 in rivista 1 Commento
cover-alfabeta2-22-150
Antonio Sparzani
Lordine era di disporre lesercito in ordine di battaglia questa frase mi si formata
nella testa appena ho cominciato a riflettere su quella formula magica foucaultiana
dellordine del discorso, cos che il campo semantico del lemma ordine mi si presentato
immediatamente polimorfo e non rettilineo, a leggerlo con sufficiente apertura e
avvertendone quindi la forse voluta e dunque inquietante ambiguit.
Laccezione militaresca del lemma ma Foucault stesso a usare lespressione
larmatura del sapere tenta infatti di emergere sommessamente anche nella seconda
accezione: lordine di battaglia un modo preciso di disporre le proprie schiere e questo
modo per dettato e imposto da regole precise, che stanno scritte sui manuali di
strategia e di tattica e guai a derogare da esse, sarebbe pur sempre disobbedire a un
ordine!
Potente strumento interpretativo della realt, questo sembra essere ovunque il ruolo
ricoperto dallordine, che dal discorso passa facilmente alluomo e al cosmo, come ci
insegna Giordano Bruno, in queste materie grande e visionario innovatore:
il vero Chaos di Anassagora una variet priva di ordine. Cos nella stessa variet
delle cose possiamo individuare un ordine mirabile, il quale, stabilendo la connessione
dei supremi con gli infimi e degli infimi con i supremi, fa cospirare tutte le parti
delluniverso nella bellissima figura di un unico grande animale (qual il mondo), poich
una diversit tanto grande richiede un ordine altrettanto grande e un ordine tanto grande
richiede una diversit altrettanto grande. Nessun ordine si ritrova infatti, dove non esiste
alcuna diversit.
(De umbris idearum, classici BUR 1997, trad. di Nicoletta Tirinnanzi, p. 70).
Tutta la scienza nata per scoprire, descrivere, spiegare un ordine della natura, diciamo
di pi, per definire, inventare, costruire un ordine nella natura e cio in tutto quanto ci
circonda, quanto esterno a noi. Cos che subito il modello del discorso scientifico si
propone come modello dellordine naturale, come paradigma interpretativo delle nostre
percezioni degli accadimenti del mondo e un po alla volta diventa la nostra immagine del
mondo, e dunque, in ultima istanza, il mondo. qui la prima fonte di problemi per la
comunicazione e il pensare collettivo sulla natura, ed qui anche la presunta fonte della
presunta necessit di uniformare il nostro pensare sulla natura, e dunque di dare un ordine
al nostro discorso su di essa.

Una ricostruzione accurata del cammino percorso da questa pervasiva ma


fortunatamente non sempre coronata da successo strategia uniformatrice compito
primario della storia della scienza: sarebbe buona cosa infatti che questa fosse in ogni
istante consapevole dei propri strumenti e delle proprie inevitabili deformazioni e
soggettivit, anche, e soprattutto, per uscire dalle secche della normalizzazione del
discorso e per riacquistare la pur mai completamente perduta capacit di sopravvivere in
quella compresenza di diverse tradizioni che dovrebbe costituire il contesto pi sicuro e
propizio per una vera libert, vitale e produttiva. Fu Stuart Mill nel suo On liberty infatti
a sostenere con pi forza innovatrice la necessit della contemporanea presenza nella
stessa societ di differenti tradizioni in tutti i campi del sapere tra loro indipendenti
e contrastanti, al fine di garantire la possibilit per ogni individuo di seguire una propria
strada di benessere e felicit, mantenendo il pi rigoroso rispetto delle tradizioni diverse.
Fu lui insomma ante litteram On Liberty usc circa 112 anni prima dellOrdre du
discours a chiedere a gran voce la contemporanea presenza di tanti ordini del discorso.
Un grimaldello dellargomentare di Foucault la parola del folle, quella parola
immediatamente riconoscibile che fa saltare i meccanismi dellaccettabilit e della
stabilit del discorso, quella che sta dallaltro lato della partizione, la linea divisoria che
separa chiaramente il lecito dallillecito, la ragione dalla follia, in ultima istanza lumano
dal non umano; partizione mai dimenticata, incalza Foucault, neppure ai giorni nostri:
Mi si dir che tutto questo finito, oggi, o che sta per aver fine; che la parola del folle
non pi dallaltra parte della separazione; che non pi resa nulla e senza effetto; che al
contrario ci mette in agguato; che vi cerchiamo un senso, o labbozzo o le rovine di
unopera; e che siamo riusciti a sorprenderla, questa parola del folle, in ci che noi stessi
articoliamo, nel minuscolo strappo attraverso cui quel che diciamo ci sfugge. Ma tanta
attenzione non prova che la vecchia partizione non sia pi valida; basta riflettere su tutta
larmatura del sapere attraverso cui decifriamo questa parola; basta pensare a tutta la rete
di istituzioni che consente a qualcuno medico, psicanalista di ascoltare questa
parola e che consente nello stesso tempo al paziente, di venir a portare, o a trattenere
disperatamente, le sue povere parole; basta riflettere su tutto questo per sospettare che la
partizione, lungi dallessere cancellata, agisce altrimenti, secondo linee diverse,
attraverso nuove istituzioni, e con effetti che non sono affatto gli stessi. E quandanche il
ruolo del medico non fosse che quello di prestare orecchio a una parola finalmente libera,
lascolto si esercita pur sempre nel mantenimento di una cesura. Ascolto di un discorso
che investito dal desiderio, e che si crede, per la sua pi grande esaltazione e la sua pi
grande angoscia, carico di terribili poteri. Se occorre veramente il silenzio della ragione
per guarire i mostri, basta che il silenzio sia in allarme, ed ecco la partizione mantenuta.
(Lordine del discorso, trad. di Alessandro Fontana, Einaudi 2004, pp. 6-7).
La storia della scienza stata ricca di folli, grazie ai quali peraltro la scienza stessa ha
spesso potuto compiere passi inaspettati: i nomi che pi facilmente vengono in mente
sono quelli di Copernico, di Einstein, o di Heisenberg, ma forse pi interessante cercare
di scovare episodi meno clamorosi, ma ugualmente rappresentativi di una devianza pi o
meno sotterranea che percorre sotto traccia cammini alternativi a quelli della scienza
standard. La prima caratteristica di questi cammini quella di essere additati al pubblico
ridicolo non appena se ne abbia notizia nel mondo dellufficialit scientifica.
Racconta Paul Feyerabend in Contro il metodo di essersi imbattuto, nel corso dei suoi
studi universitari di fisica, a Vienna nel 1947, in quel singolare personaggio che fu Felix

Ehrenhaft, fisico e viennese anchegli, coetaneo di Einstein, che coinvolgeva i suoi


studenti, tra i quali appunto il ventitreenne Feyerabend, in inusitati esperimenti, tali da far
loro toccare con mano fenomeni assolutamente imprevisti dalla e talvolta in
contraddizione con la fisica ufficiale, tipicamente lelettromagnetismo maxwelliano,
una delle meglio confermate e pi eleganti teorie di tutta la fisica classica. Gli
esperimenti di Ehrenhaft riguardavano la impossibile esistenza del monoplo
magnetico: se prendete una calamita, questa, come abbastanza noto, ha due poli, ben
distinguibili: se cercate di accostare tra loro due calamite tenendo i poli in un modo
sentite una forte attrazione, ma se invertite i poli che accostate, avvertite unaltrettanto
forte resistenza. Si potrebbe pensare che allora, dividendo una calamita a met si
ottengano due poli separati, appunto due monopli, uno da una parte e laltro dallaltra;
ma non cos: per quanto dividiate ottenete sempre delle calamite, naturalmente pi
piccole, ma ognuna con i suoi due poli distinti; e questa una conseguenza chiara e
distinta della teoria classica dei magneti permanenti. Ma le esperienze di Ehrenhaft
sembravano contraddire tutto ci. Esulavano proprio dallordine del discorso. Ehrenhaft
venne isolato e non creduto e dei suoi esperimenti non rimane memoria consolidata.
Un caso del tutto speculare a questo si ebbe invece quando nel 1938 fu assegnato a
Enrico Fermi il premio Nobel per la fisica per la sua dimostrazione dellesistenza di
nuovi elementi radioattivi prodotti da irraggiamento neutronico, e per la relativa scoperta
delle reazioni nucleari indotte da neutroni lenti: niente di pi falso! Il Nobel venne
assegnato con imperdonabile fretta e disinvoltura: Fermi aveva preso un terribile
abbaglio, ben coerente con lordine del suo discorso: credeva di avere prodotto quei
nuovi elementi chimici pi pesanti che andava cercando, e invece aveva, senza
accorgersene, scoperto la fissione nucleare, cio era riuscito a spezzare un nucleo pesante
in due o pi nuclei pi leggeri. La fantomatica dimostrazione dellesistenza di nuovi
elementi radioattivi prodotti da irraggiamento neutronicoera frutto dillusione, ma tutto
quadrava cos bene nellordine del discorso scientifico che lAccademia Svedese delle
Scienze confer il premio (del resto, per leggere qualche altra storia interessante al
proposito, basta andare su questo sito).
La scienza fa progressi malgrado se stessa e le sue regole e malgrado il suo ordine
interno. Ma questordine mantenuto per periodi pi o meno lunghi da quei vincoli che
Thomas Kuhn chiamava paradigmi in realt una grossolana approssimazione di una
dinamica pi complessa e sfaccettata: dinamica caratterizzata, in tempi normali, da una
tale viscosit da non riuscire a modificare sensibilmente il proprio assetto; ma tale che gli
spostamenti insensibili, le piccole incrinature, il pur esiguo esiguo peso dei folli al suo
interno, si accumulano progressivamente fino ad apparire improvvisamente con
sorprendenti metamorfosi. La fisica dei tempi di Copernico non era gi pi la fisica
aristotelica, ancorch ne mantenesse una complessiva impalcatura, perch tutto il
Medioevo aveva lavorato a minare a piccole dosi le basi stesse di quella fisica; si direbbe
che aveva preparato il terreno per un folle, quello strano canonico polacco nato sulle rive
della Vistola e pronto a rovesciare un ordine fissato da millenni.
Eppure questo stesso tema aveva trovato un altro folle, pi di sedici secoli prima, un altro
cio che aveva provato a esplorare e a scardinare quasi lo stesso ordine: Ipparco di Nicea,
vissuto nel II secolo a. C.: Ipparco davvero incredibilmente scopr la precessione
degli equinozi essendosi parallelamente formato con ogni probabilit una visione molto
avanzata ovvero eliocentrica dei movimenti dei vari pezzi del sistema solare,

pianeti, Luna e Sole. E accanto a lui anche altri: il panorama della scienza ellenistica non
manc di tentativi di uscire dallortodossia aristotelica, persino Seneca e Plinio il
Vecchio, di area latina, sembra ambissero a respirare unaria nuova.
E tuttavia una vera restaurazione arriv chiara e distinta tre secoli dopo Ipparco, quando
Claudio Tolomeo, pur servendosi degli stessi dati osservativi di Ipparco, impiant lintero
Almagesto su una solida base geocentrica, ostinatamente ripristinando le tesi
aristoteliche, e chiudendo dunque la strada, per un altro millennio abbondante, a qualsiasi
diverso ordine, o comunque a qualsiasi deviazione dallordine cos ri-costituito.
Per quanto mi riguarda, le suggestioni foucaultiane mi spingono alla fantastica utopia di
una scienza diffusa nel corpo vivo dellumanit che riesca a far convivere idee diverse,
modi diversi di avvicinarsi alla realt, ordini di discorso diversi, che perdano la loro
stessa connotazione di ordine, una scienza non globalizzata, ma rispettosa della diversit
dei vari miliardi di esseri umani che percorrono il pianeta, una scienza che costituisca un
tessuto variopinto e molteplice, ascoltare la quale assomigli allascoltare quello che
Roland Barthes chiamava Il brusio della lingua, in quel miracoloso frammento di scrittura
che appunto cos si concludeva:
Ed io interrogo il fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio di quel
1inguaggio che la mia Natura peculiare di uomo moderno.
+
Letteratura per la vita
Pubblicato il 28 ottobre 2012 in alfapi, etc. 2 Commenti
pantagruel
Paolo Fabbri
La letteratura, dicono in tanti, abita solo mondi possibili; il mondo reale pu solo
rifletterlo, rispecchiarlo, oppure rifrangerlo, travisarlo. Strana idea! Eppure le lettere e i
letterati fanno parte integrante del mondo reale di cui traducono a modo loro le
esperienze. Basta guardare ai premi letterari ai criteri di scelta dei Nobel e alle
statistiche di vendita che circolano in rete e nei supplementi di stampa. Anche la critica
letteraria, in tempi di crisi, dovrebbe rivendicare senza vergogna la condivisa etimologia,
che valutare e giudicare. Se la crisi ci fa metter giudizio, quello critico potrebbe
servire. Dipende dalla critica naturalmente. Non quella che Barthes chiamava epitetica,
specializzata nella selezione di aggettivi, per decorare rapide interviste dautore: neppure
quella parametrica sempre Barthes alla ricerca di metodi scelti in funzione dei
prodotti dallindustria editoriale. N quella tautologica cio socio-storica: per cui tutto
quel che letterale tale perch tali sono le condizioni o i contesti finch non
cambiano, naturalmente.
Pensiamo piuttosto alla critica tipologica, che sceglie con cura i bei tipi o i tipacci con cui
classificare e interdefinire i personaggi della realt/finzione politica. Individui tuttaltro
che immaginari; soggetti cos iperreali da risultare poco credibili. Un progetto
tassonomico ci vuole per fare chiarezza nella congerie di pubblici e privati malandrini
che i media offrono oggi, alla rinfusa, alla nostra sorpresa: Non credevo, corrotti fino a
questo punto, ecc!. Ebbene, gli studi tipologici del romanzo non sono avari di modelli.
il caso della cricca metalinguistica formata dal Furfante, dallo Sciocco, dal Buffone e
infine dal Furbo. Dramatis personae maschili e/o femminili, o ruoli attanziali

semioticus dixit che abitano mondi reali dove convivono con noi, cio coi loro Babbei
(dalla base onom. babb- col suff. spreg. bo) .
Il Furfante lo conosciamo desperienza e non ha bisogno di ulteriori esplicitazioni:
dallantico francese fors-faire uno che la fa sempre fuori: dalle norme e dalle regole.
Se fate la legge, lui gabba lo santo. Una norma per lui solo lo spostamento
dellillegalismo. Invito i lettori a non perdere tempo a riempire con nomi proprii questa
casella: si finisce per perdere il conto o per smettere di leggere. Passiamo allo Sciocco
quello che non ricorda, non cera, non sa chi paga laffitto di casa o la escort, non
controlla, non trova le ricevute, ecc.; spesso il figlio o parente di veri Furfanti, ed
quello che si fa sorprendere e prendere. Ben gli sta! Poi viene il temibile Buffone, che il
Furfante con la maschera dello Sciocco: maschera pi o meno aggiustata, dietro alla
quale fa capolino a piede libero, ma persino dalle laiche galere, dai clericali conventi, dai
benestanti residenze coatte, domiciliari. Lui ruba a man salva e con un certo qual
rispetto: comincia spesso da pensionati, e bambini. Sta bene persino in cella, dove altri
spifferano oppure si sopprimono. Piace anche ai media, ma mi raccomando: con questo
tipo di Buffone c poco da ridere! lui che sogghigna di noi.
Ultimo viene il Furbo. Non il Furbetto, che uno Sciocco travestito da Furfante. Proprio
il Furbo, quello che non ha mai pagato il dazio e prende tutti per Babbei; tutti noi
sintende, ma persino i Furfanti, mascherati e smascherati. Lo conosciamo bene, ma non
c progetto politico che lo possa rottamare, inchiesta giudiziaria n legge anticorruzione
che riuscir ad incastrarlo; lui morir nel suo letto senza insudiciare le nostre celle, gi
affollatissime di Furfanti, Sciocchi, Buffoni e Babbei. Tutti in attesa del prossimo,
inevitabile indulto.
+
Una risata non li seppellir
Pubblicato il 8 ottobre 2012 in alfapi, rivista, societ 7 Commenti
Fabro
Dal numero 23 di alfabeta2 che esce in questi giorni nelle edicole, in libreria e in versione
digitale
Daniele Giglioli
La cosa pi sbagliata da fare prenderli sottogamba, metterla in burletta, lasciarsi sedurre
dallincredibile mole di pasticci, retromarce, figuracce, ragionamenti sghembi e trattative
levantine che hanno accompagnato in questi anni, in Italia, lintroduzione tardiva della
cosiddetta cultura della valutazione: nelluniversit, nella scuola, nella pubblica
amministrazione. Un paranoico potrebbe perfino pensare a una geniale strategia di
comunicazione suggerita da qualche costosissimo spin doctor: non abbiate paura, siamo
buffi. Sono buffi, ma di paura ne fanno e come. Certo la tentazione forte: basterebbe
raccogliere un dossier di neologismi tautologici, anglismi maccheronici, cifre sbagliate,
test farlocchi, passarlo a un bravo comico (un Guzzanti, un Albanese), e leffetto sarebbe
assicurato, specie in un paese dove lunica opposizione culturale visibile dellultimo
ventennio stata svolta, purtroppo, dalla satira.
Chi non ricorda il rettore della Sapienza mentre difende con vibrante accento sabino un
test di ingresso basato sulla grattachecca della sora Maria? Chi non sorriderebbe (amaro)
a rileggere i report delle agenzie di rating che ancora nel 2007 spergiuravano

affidabilissimi i derivati della Lehman Brothers? Ma il pericolo reale, e non c catarsi


comica che possa scongiurarlo. La cultura della valutazione non usurpa il proprio nome,
davvero una cultura, una visione del mondo, un programma che ha ben chiaro, se non
come va il mondo, almeno come dovrebbe andare. E prende piede, acquista carisma, fa
ci che dice, lo produce nel momento stesso in cui si insedia nei gangli di ogni agenzia
decisionale.
Scuole e universit, comuni e regioni, teatri e ospedali, musei e parchi verranno sempre
pi pensati e finanziati da parte di un potere politico che sta cedendo ogni giorno
porzioni della sua sovranit con lallegra spensieratezza del patrizio rovinato, e da parte
di unopinione pubblica impotente di fronte al ricatto di termini civetta come
meritocrazia, efficienza, prestazioni, razionalit (nientedimeno!) in ragione di un
punteggio assegnato, dicono i valutatori culturalmente pi avveduti, non sulla base dei
contenuti o del valore delle prestazioni, ma sulla loro efficienza, a sua volta identificata
con ladeguamento a standard che si pretendono oggettivi quanto pi sono arbitrari. Sotto
le spoglie di unalgida e impersonale terminologia pseudoscientifica, la cultura della
valutazione una forza che si fa ragione, non una ragione che diventa forza: o funzionate
come diciamo noi, o siete fuori. E non conta nemmeno il fatto che perfino nel ramo in cui
ci siamo inventati maestri prendiamo un granchio dietro laltro: lautorit, non la verit
detta la legge.
Da terreno di razionalit intersoggettiva, procedura verificabile, libero dibattito, la
scienza degrada a diktat, imposizione, uso connotativo, affettivo, alonale di parole e
numeri che servono a sedurre, a stupire, ad ammutolire, non a dimostrare. La cultura della
valutazione ha dalla sua molti punti di forza. La trasformazione molecolare del triangolo
che ha dato forma al rapporto tra potere, sapere e produzione nellet moderna (stato
nazione, partiti di massa, istruzione obbligatoria, universit humboldtiana, welfare,
ricerca pubblica) un fatto, non uninvenzione dei banchieri, dei tecnocrati o dei cantori
della moltitudine. (Uninvenzione semmai il ritornello: bisogna comunque
razionalizzare, non ci sono pi risorse. Le risorse ci sono e come, basterebbe chiederle
indietro a chi se le intascate. Razionalizzare non vuol dire accettare la miseria). Un fatto
che di fronte allo strapotere della finanza mondiale, apparati governamentali e non
sovrani come le burocrazie tendono sempre pi a porsi come unica controparte, come
interlocutore che tratta da potenza a potenza, del capitale finanziario: da qui dovete
passare, con le nostre procedure dovrete fare i conti, voi che pure vi dite tanto insofferenti
dei famosi lacci e laccioli. E un fatto, infine, che, almeno in un paese come lItalia, lo
status quo indifendibile.
Non vi piaceremo, ma vi andava bene come andavano prima lorganizzazione scolastica,
il reclutamento universitario, il funzionamento della pubblica amministrazione? Non vi
lamentavate tutti degli sprechi, della corruzione, del nepotismo, della malagestione? Non
ce lavete fatta a riformarvi da soli, giusto che qualcuno vi commissari. Fidatevi di noi,
poich non potete fidarvi di voi stessi. Questo il punto cruciale, il punto donore della
cultura della valutazione, ci che ne fa davvero una cultura e non solo una tecnica. La
sfiducia. La presunzione di minorit. La diffidenza nei confronti della capacit dei
soggetti di autogovernarsi: vi ci vuole un padrone, il sovrano ieri, il tecnocrate oggi,
lagenzia terza, lautorit nominata dallalto, lautoproclamata societ di esperti muniti di
banche dati, grafici e statistiche (raccolti a pagamento; e spacciati con tecniche di

comunicazione da Gatto con gli Stivali: di chi sono queste terre? Ma del Marchese di
Carabas!).
Diffidenza da trasmettere ai soggetti con ogni mezzo necessario. Loperazione gi a
buon punto. Stupisce quanto debole a parte lopera meritoria di chi capace di
smontare pazientemente il meccanismo; e a parte qualche resistenza corporativa sia
stata la reazione di chi rischia di vedere stravolto il senso del lavoro che fa da uno
scombiccherato armamentario di sofismi. Presupponendo cittadini inermi, la cultura della
valutazione contribuisce a crearli: chi ha tempo e voglia di addentrarsi in quella boscaglia
di pseudo numeri e pseudoconcetti? E ne vale la pena, intenti satirici a parte, nel
momento in cui acclarato che non la razionalit ma un principio di autoelezione
inverificabile presiede a quelle pratiche? Tentare di prendere in castagna la cultura della
valutazione sulla base dei suoi sfondoni divertente e utile, ma non decisivo. Urge invece
contrapporle unaltra cultura. Ci vorr tempo, pazienza, idee e soprattutto fiducia nelle
idee.
+
Pubblicato da Le parole e le cose
3 commenti
Ipermoderno. Come raccontare la realt senza farsi divorare dai reality
di Raffaele Donnarumma
[Questo articolo uscito su Alfabeta2. Una versione pi lunga apparsa su
Allegoria].
Goodbye, Postmodernism
Sembra che ormai se ne siano convinti tutti: la cultura e la letteratura postmoderniste si
sono esaurite. Le parole dordine di un trentennio iniziato con la met degli anni Sessanta
e spento alla met degli anni Novanta sono scadute, e le ha sostituite il loro contrario: non
pi morte del soggetto e dellautore, ironia coatta, manierismo, autoreferenzialit,
antistoricismo, scetticismo sulla politica, vanificazione della verit, ma riabilitazione
dellio, nuove forme di realismo, volont di raccontare il presente, partecipazione civile,
denuncia, fiducia in una qualche possibile verit della letteratura. Anche se limpegno
impraticabile per la scomparsa delle strutture che lo sostenevano e per la corrosione cui
proprio il postmoderno lha sottoposto, il presente diventato oggetto di investimenti e
giudizi. La scrittura rivendica oggi effettualit morale, efficacia pratica: ci che, al
contrario, il postmodernismo metteva in mora o irrideva.
Eppure, il cambiamento di clima non coincide affatto con uneclissi del mondo della vita
postmoderna. I miti della fine della storia e dello sciopero degli eventi sono stati
sbugiardati anche prima dell11 settembre; ma non assistiamo certo n alla fine del
tardocapitalismo e del neoliberismo (le loro crisi sono le febbri di crescenza del
Leviatano), n allarchiviazione dei cambiamenti con cui linformatica ha riplasmato il
nostro immaginario. Il processo iniziato alla met degli anni Sessanta si accelerato ed
esteso: il suo secondo nome, infatti, globalizzazione. Ma non pi il tempo
dellanything goes e del laissez faire postmoderni spade di plastica, o maschere troppo
fragili per potersi difendere dalla furia del Nuovo Ordine Mondiale.

Ipermoderno. Come raccontare la realt senza farsi divorare dai reality


19 novembre 2012 Pubblicato da Le parole e le cose | 3 commenti
di Raffaele Donnarumma
[Questo articolo uscito su Alfabeta2. Una versione pi lunga apparsa su
Allegoria].
Goodbye, Postmodernism
Sembra che ormai se ne siano convinti tutti: la cultura e la letteratura postmoderniste si
sono esaurite. Le parole dordine di un trentennio iniziato con la met degli anni Sessanta
e spento alla met degli anni Novanta sono scadute, e le ha sostituite il loro contrario: non
pi morte del soggetto e dellautore, ironia coatta, manierismo, autoreferenzialit,
antistoricismo, scetticismo sulla politica, vanificazione della verit, ma riabilitazione
dellio, nuove forme di realismo, volont di raccontare il presente, partecipazione civile,
denuncia, fiducia in una qualche possibile verit della letteratura. Anche se limpegno
impraticabile per la scomparsa delle strutture che lo sostenevano e per la corrosione cui
proprio il postmoderno lha sottoposto, il presente diventato oggetto di investimenti e
giudizi. La scrittura rivendica oggi effettualit morale, efficacia pratica: ci che, al
contrario, il postmodernismo metteva in mora o irrideva.
Eppure, il cambiamento di clima non coincide affatto con uneclissi del mondo della vita
postmoderna. I miti della fine della storia e dello sciopero degli eventi sono stati
sbugiardati anche prima dell11 settembre; ma non assistiamo certo n alla fine del
tardocapitalismo e del neoliberismo (le loro crisi sono le febbri di crescenza del
Leviatano), n allarchiviazione dei cambiamenti con cui linformatica ha riplasmato il
nostro immaginario. Il processo iniziato alla met degli anni Sessanta si accelerato ed
esteso: il suo secondo nome, infatti, globalizzazione. Ma non pi il tempo
dellanything goes e del laissez faire postmoderni spade di plastica, o maschere troppo
fragili per potersi difendere dalla furia del Nuovo Ordine Mondiale.
Ipermodernit
Che nome dare a queste mutazioni, che stanno in un atteggiamento diverso rispetto
allarroganza del tardocapitalismo, anzich in una sua trasformazione radicale? Lassunto
da cui partirei che la liquidazione ironica della modernit proclamata dal
postmodernismo si rivelata illusoria. Sotto il regime della modernit, siamo stati per
tutto il Novecento e siamo ancora: ci cui assistiamo, e ci che gi let postmoderna
aveva messo in moto, semmai la sua continuazione unilaterale, parodica, impazzita. Se
la modernit conosceva sistemi di autocorrezione e di rivolgimento, oggi la correzione
appalto delletica pi che della politica, e il sole della rivoluzione non sorge pi in nessun
cielo. La storia procede, ma senza mete: piuttosto che credere che sia gi stato fatto e
detto tutto, ci siamo abituati al regime forzoso del nuovo, senza avere fede nelle favole
sul progresso. Il futuro sempre qui, e ci d stupori di routine: rischia di essere la nostra
prigione distopica.
A questa modernit oltranzistica e compulsiva, darei il nome di ipermoderno. Promossa
in Francia soprattutto da filosofi e sociologi come Gilles Lipovetsky (e in principio, forse,
era Baudrillard), questa categoria non ancora stata pensata come occorrerebbe. A
chiarirla, sarebbero utili quanti gi negli anni Ottanta e Novanta, insoddisfatti della
nozione di postmoderno, tentavano vie alternative: Beck con la societ dei rischi, Aug
con la surmodernit, Bauman con la modernit liquida. tutto lavoro da fare; anche
perch, a dirla tutta, in qualche banditore dellipermoderno non mancano

approssimazione e moralismo. Ma prima di tutto, bene che il prefisso iper non crei
equivoci: esso non ha alcuna sfumatura celebrativa, e si rivela anzi ansiogeno e
intimidatorio. Liper il dover essere della contemporaneit, la sua ossessione
prestazionale, la febbre che la fiacca. Labbozzo che si compone, allora, non tanto o
solo una rottura con il postmoderno (la cui egemonia, pure, stata contrastata), ma uno
scivolamento e, dunque, la rivelazione che quel post non si era mai compiuto davvero.
In Italia, di ipermoderno si inizia appena a parlare. Il solo, recentissimo tentativo
sistematico appunto di un sociologo: in Ipermondo (Laterza 2012), Vanni Codeluppi
propone Dieci chiavi per capire il presente. Ma gi prima, Massimo Recalcati ricorso a
questa categoria. Luomo senza inconscio (Cortina 2010), con la giunta di Cosa resta del
padre? (Cortina 2011), un trattato di antropologia contemporanea. Nelle patologie
emergenti e simboliche del presente (anoressia, bulimia, crisi di panico, tossicomanie,
disturbi psicosomatici) non emerge alcun rimosso e linconscio fuori gioco. Sembra il
ritratto di molti personaggi contemporanei e di quei narratori che descrivono il disagio
senza credere al profondo e alla psicoanalisi: sono strumenti fatti apposta per leggere
Easton Ellis o Coetzee, Houellebecq o Littell, Nove o Siti.
Realismi ipermoderni
Ma allora, parlare di ipermoderno pu servire a farci capire la cultura, le arti, e in
particolare la letteratura che si sono imposte da met anni Novanta? Se scrittori come
Bolao o Foster Wallace o lultimo DeLillo segnano una transizione dal postmoderno a
qualcosa che non lo pi, ne sono gi fuori, per limitarsi ai nomi pi in vista, Saramago,
Munro, Richler, Roth, Yehoshua, Coetzee, White, Cunningham, Franzen, Schulze,
Houellebecq, Littell. In loro, non si sfugge al confronto con la tradizione modernista; e
come il modernismo si opponeva alla modernit sino al rifiuto e alla reazione, cos questi
scrittori praticano una storiografia critica del presente che ha poco a che fare con
lhistoriographic metafiction di Pynchon o Doctorow. Tuttavia, quello che identifica la
loro scrittura la conciliazione delleredit modernista con le forme storiche del realismo
ottocentesco: conciliazione straordinariamente produttiva e paradossale, se si considera
che, in tutti i modernisti storici, la polemica contro le fotografie naturalistiche e le
marchese che uscivano alle cinque aveva s la coscienza sporca, ma era frontale e
spazientita.
Il nodo della letteratura ipermoderna proprio il realismo; tanto pi, perch con poche
cose come con quello il postmoderno ha avuto il dente avvelenato. Oggi, il realismo
risponde per statuto a unangoscia di derealizzazione e si misura con lirrealt o la realt
depotenziata prodotta dai media. Come ha detto meglio di tutti Siti, il realismo
diventato un souffl pronto ad afflosciarsi in una poltiglia di finzione, cio vive
costantemente nel dubbio di riuscire a fare presa sulle cose e di essere credibile. La
riduzione del mondo a favola, che il postmoderno dava per avvenuta, fomentava o con
cui flirtava, ci che lipermoderno teme e contro cui resiste. Ipermoderno dunque quel
realismo che sa che la realt mediata dalle immagini e dalle costruzioni culturali (cio,
ci si presenta gi sempre riprodotta); ma che cerca comunque di opporsi alla
falsificazione integrale. La questione (ci ha riflettuto Didi-Huberman) non la realt
fuori o prima delle immagini: ma la verit delle e nelle immagini. Le forme del realismo
ipermoderno che spesso assume o costeggia i modi del reportage sono perci mediate
da due istanze complementari: quella documentaria, e quella testimoniale.
Documento, testimonianza

Una letteratura documentaria sa subito che la realt non la cosa da rispecchiare, ma


qualcosa che gi stato messo in forma dal discorso sociale. Come ci ha spiegato
Maurizio Ferraris, il documento vero solo se ha una sanzione pubblica, cio solo se
esibisce le marche della propria artificialit: il realismo documentario pretende alla verit
proprio perch mette in tavola le carte. Se lautoreferenzialit postmoderna apriva il
cannocchiale infinito delle riscritture che rimandavano solo a se stesse, e al fondo del
quale non cera nulla, il realismo documentario ipermoderno riscrive perch la realt
gi scritta o raccontata o rappresentata, e non per questo meno vera. Viene cos
inscenata quella necessit di un di pi di lavoro interpretativo cui ci hanno abituato i
media audovisivi (P. Montani, Limmaginazione intermediale, Laterza 2010). Proprio
perch il documento richiede unassunzione di responsabilit da parte di chi lo produce,
la radice della sua credibilit non positivistica: al contrario, richiama una responsabilit
etica e un impegno soggettivo. Perci, il documento invoca subito il correttivo della
testimonianza (penso allacutezza con cui Agamben ha articolato questa categoria in Quel
che resta di Auschwitz). Non esiste verit senza che qualcuno non ci metta la faccia e la
parola. Lespansione e quasi listituzionalizzazione delle scritture dellio lo dimostra in
abbondanza, sia che colonizzi forme narrative date, sia che se ne crei nuove (e una delle
pi vitali, oltre al memoir, il cosiddetto personal essay, per come lhanno inventato
Foster Wallace o Sebald). Si prenda proprio il genere pi sfuggente: quellautofiction che,
anche in Italia, ha conosciuto una diffusione straordinaria. Se la consideriamo come
forma simbolica della contemporaneit, il suo intento non dimostrare che lidentit
fittizia perch impastata di menzogne; ma che ogni identit si costruisce, e trova se stessa,
anche nelle menzogne. Cosa dice Operation Shylock se non che alcune verit possono
essere enunciate solo nellinvenzione pi divertitamente spericolata? Cosa fa Lunar Park,
se non sfruttare un immaginario da B-movie per avere accesso al profondo? Cosa
racconta Siti, se non che lio se stesso nelle sue mistificazioni?
Panorama italiano
Letta sotto questa luce, anche la narrativa italiana recente inizia a comporsi in un
panorama. Senza un ripensamento del modernismo non saprei capire libri pur
diversissimi come la trilogia di Siti, Canti del caos di Moresco o Dai cancelli dacciaio di
Frasca: lopacit della forma, lautoriflessivit del racconto, lesibizione dellartificialit
della scrittura non sono i segni di uno scetticismo rinunciatario, ma vogliono, ora
ironicamente, ora in maniera spasmodica, strappare qualcosa di vero alla proliferazione
dei discorsi e delle immagini. Oppure, ripensate in questa chiave il dibattito su Gomorra:
chi come Saviano si confronta con una realt gi mangiata dai media? chi come lui vuole
produrre, pi ancora che documenti, una testimonianza la cui credibilit si fondi sullio
cero e su unenfasi rappresentativa che restituisca forza alle parole? Gi questi titoli
suggeriscono una caratteristica distintiva della nostra narrativa rispetto a quella
internazionale: mentre altrove lipermoderno ha coinciso anzitutto con un rilancio del
romanzo fuori del manierismo o del citazionismo postmoderni, da noi il meglio sembra
voler sfuggire alla sua ombra, che copre invece, ma appunto come ombra, la mediet o
linanit dei bestseller stagionali. Gli scrittori italiani hanno un rapporto difficile con il
romanzo. Siti ci si avvicinato dopo aver scritto alcune delle pi belle autofiction
prodotte in Europa; Moresco se ne allontanato sempre pi visionariamente correndo
verso lopera-mondo, salvo recuperarlo a modo suo neglIncendiati; Frasca lo ha
smontato e rimontato a forza di allegoria e riflessione; Covacich lo costruisce con

sapienza, ma sempre tentato dallautofiction; Gomorra ha imboccato tuttaltra strada;


Pascale ci arriva dopo i racconti e dopo aver trovato nella Citt distratta la sua mistione di
saggismo e narrativa; Trevi pu sognarlo nel Libro della gioia perpetua, ma riesce
davvero nei suoi personal essays; Arminio pratica la paesologia in forme strutturalmente
analoghe, ma costruisce il libro per montaggio di pannelli Dovrebbe bastare questo,
spero, a sgombrare il campo dagli equivoci su quel neo-neorealismo o neo-naturalismo di
cui si sentito parlare in Italia negli ultimi anni. Certo, non affatto esclusa una
regressione a forme grezze; ma neppure quella regressione, per deludente che sia, a
rigore ingenua. Con lipermoderno, nessuno potrebbe vantare di fronte al reale una
verginit che c da stupirsi qualcuno creda sia mai esistita.
+
Le Polemiche letterarie di Gilda Policastro
30 ottobre 2012 Pubblicato da Clotilde Bertoni | 26 commenti
di Clotilde Bertoni
La polemica mi rinfresca il sangue scriveva a fine Ottocento un giovane Croce,
raccontando a un amico un suo ferocissimo diverbio (culminato in un duello, a primo
sangue per fortuna) con Zumbini e i suoi allievi. E le polemiche questo ruolo lo hanno
adempiuto sempre, certo nei modi pi vari: seguendo una logica coerente o sfrangiandosi
in conflitti ulteriori, risolvendosi nel dialogo o deflagrando nella totale frattura,
sprigionando unattrazione superiore a quella dei loro contenuti o persino (basta pensare
alle risse prefabbricate dei variet televisivi) da essi indipendente. Sul loro potere viene
ancora da interrogarsi (tanto pi mentre sono ancora accesi i riflettori sullultimo caso, la
querelle Carofiglio-Ostuni): richiama perci lattenzione fin dal titolo il libro da poco
uscito di Gilda Policastro, Polemiche letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, pp.
207, E 18,00).
Ma proprio questo titolo pu trarre in inganno. In effetti, se il lavoro prende le mosse
dallantologia del 1961 I novissimi. Poesie per gli anni 60, non intraprende poi una
ricostruzione della scena culturale dello scorso cinquantennio: le prove poetiche e
narrative della neoavanguardia, su cui il primo capitolo si incentra (e di cui lautrice si
gi occupata, con una monografia su Sanguineti), rappresentano non un punto di partenza
cronologico ma un punto ideale di riferimento, perch la loro tensione sperimentale fa da
sfondo allo sguardo sulla contemporaneit vero fulcro del discorso; dopo alcuni paragrafi,
molto sintetici, su svolte dei passati decenni (lavvento del postmoderno, le ridiscussioni
del canone, il ritorno degli studi tematologici), Policastro traccia uninquadratura degli
anni compresi tra la fine del Novecento e i giorni nostri, non solo restituendone passaggi
roventi (le invettive di Moresco contro i critici, il caso Saviano, le controversie sul New
Italian Epic), ma anche mettendone a fuoco aspetti dinsieme.
Innanzitutto, il dominio delle holding editoriali, il controllo del commercio librario, la
pervasivit delle strategie di marketing, che sommuovono la discussione su pi fronti: da
un lato, in quanto variamente messi sotto accusa (il libro ripercorre diversi attacchi, da
Editoria senza editori di Schiffrin, a Scritture a perdere di Ferroni al documentario Senza
scrittori di Archibugi e Cortellessa), dallaltro, in quanto ormai insinuati nella produzione
letteraria al punto da provocare infiniti errori di valutazione. Se da tanto capita che gli
scrittori siano trasformati in divi, oggi sono promossi scrittori specialmente quelli al

divismo pi adatti, in virt di meriti eterogenei (accattivante giovinezza, passato


turbinoso, buona o, perch no, cattiva reputazione guadagnata in altri campi e cos via)
ma al talento sempre estranei; e se da tanto lindustria culturale riesce a fagocitare
tendenze innovative (proprio il Gruppo 63 per un po trasformato dal suo tempestoso
successo in voga del momento, satura di epigoni definiti da Pasolini giovanotti cretini e
petulanti che parlano di antiromanzo come se parlassero di prosciutto di Parma), ora
le snatura dal principio: ad esempio, come indicano recenti contributi ricordati da
Policastro (un numero di Allegoria del 2008, il saggio Senza trauma di Daniele
Giglioli), lattuale romanzo storico e noir, reclamizzato come esempio principe di ritorno
al realismo e allimpegno, tende anzich ad affrontare la realt a neutralizzarla,
proponendone appetitose versioni sommamente improbabili e stereotipate.
Un altro problema di fondo consiste nellimpaccio del mondo intellettuale davanti a
questa situazione. Oltre a sottolineare (sulla scia delle riflessioni di Segre, Lavagetto,
Luperini) la crisi complessiva della critica la sua chiusura in specialismi asfittici,
laffievolimento del suo slancio contestatore, la sua perdita di peso sociale il libro si
sofferma sugli imbarazzi della critica militante che con il presente pi si misura: ad
esempio, la spaccatura tra quelli che ignorano senzaltro la galassia dei bestseller (spesso
insignita di fasulle patenti di qualit dalla giostra dei festival e dei premi), e quelli che
provano a esaminarla caso per caso; e le lacerazioni create dai condizionamenti pratici e
finanziari, che possono raggiungere gradi sconcertanti, come ha mostrato la disputa
sollevata nel 2010 da Andrea Cortellessa intorno alla collaborazione di Paolo Nori a
Libero. Disputa che Policastro riepiloga ampiamente, ma che andrebbe a mio avviso
ulteriormente considerata, in quanto preoccupante cartina di tornasole: ne emerso che
lautonomia intellettuale non pi concetto cos scontato, dato che le obiezioni di
Cortellessa e altri sullopportunit di lavorare per un giornale asservito (e nel modo pi
spregiudicato) al potere berlusconiano, sono state confutate o con elucubrazioni sulla
valenza iconoclasta che avrebbero i gesti di peggior piccineria, oppure con richiami al
peso delle necessit economiche, certo validissimi, ma insufficienti a giustificare
senzaltro la prostituzione della penna (a meno di non avallare la vecchia battuta di
Longanesi sul tengo famiglia eterno motto di ogni italiano); e la tendenza nostrana a
distorcere nei virtuosismi retorici la logica pi elementare ha dato il meglio di s, visto
che sono stati bollati come stalinisti quanti rivendicavano lindipendenza dai nuovi
totalitarismi camuffati, mentre sono stati designati libertari quanti negavano in effetti
valore a ogni libert se non beninteso a quella di fare impunemente il comodo proprio.
Tanto lintensit che gli sbilanciamenti di questo scontro hanno avuto nel web un
fondamentale epicentro. Appunto il ruolo giocato dal web nella recente ripresa del
dibattito critico un altro degli argomenti pi in rilievo: alle riviste on line, ai social
network, ai blog, Policastro dedica pagine dense di una lunga esperienza diretta,
segnalando sia il loro peso che le loro disfunzioni, mostrando come il nuovo mezzo
autorizzi, quasi stimoli, gli interventi compulsivi, il narcisismo isterico, laggressivit
ribalda; e appunto il biasimo per queste derive prelude alla speranza in polemiche
immuni da asti personali, su cui termina il libro.
Non si pu che condividere questa speranza, a patto per di non esagerare in ottimismo.
Perch se vero che gli scomposti psicodrammi di Internet sono un fenomeno dei tempi
nostri, vero anche che lo slittamento delle discussioni dal terreno solido del confronto a
quello scivoloso del litigio, e le sovrapposizioni tra il piano concettuale e quello privato,

sono fenomeni di tutti i tempi, troppo perch si possa ragionevolmente sperare di porre
loro fine. Da Balzac a Hemingway e oltre, gli scrittori hanno sempre sbuffato sui critici;
alla met del Novecento un autore di destra attaccato da Temps modernes si chiedeva
perch lo odiassero tanto visto che non lo conoscevano; lo stesso Cassola che Policastro,
ricordando la sua cortesia verso Sanguineti, cita come esempio di correttezza, non
dimostrava sempre uguale buon gusto (come prova un suo scambio al vetriolo con
Bocca); in epoche disparate le contrapposizioni di scuola o di poetica finivano a pugni e
schiaffi (magari, ecco, non sollecitati espressamente da un rinomato scrittore su un
autorevole quotidiano: larticolo uscito su Repubblica, con cui Pennacchi si inserisce
nella querelle Carofiglio-Ostuni, riservando un vaffallippa ai sostenitori del secondo, e
incitando contro di lui il primo con un vagli a men, un caso di cui non facile
rintracciare precedenti).
Ma si tratta di eccessi che val comunque la pena di rischiare. Perch le polemiche
incoraggiano a oltrepassare gli steccati, mettono in rapporto, seppur tra diffidenze e
insofferenze, mondi altrimenti inclini a ignorarsi, suscitano una curiosit forse gratuita
come quella per le zuffe dei reality, ma che pu portare a scoperte pi interessanti;
soprattutto, scongiurano il pericolo peggiore, lindifferenza, lautismo intellettuale. A
volte possono, oltre che rinfrescare il sangue come avveniva a Croce, riscaldarlo troppo,
mandarlo in ebollizione, inacidirlo, avvelenarlo, persino farlo scorrere; ma di certo lo
rimettono in circolazione e, quel che pi conta, rimettono in circolazione anche le idee.
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Pier Paolo Pasolini, Versi del testamento
28 agosto 2012 Pubblicato da Le parole e le cose | 4 commenti
La solitudine: bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c;
specie dinverno; col vento che tira sullerba bagnata,
e coi pietroni tra limmondizia umidi e fangosi;
non c proprio nessun conforto, su ci non c dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.
Il sesso un pretesto. Per quanti siano gli incontri
e anche dinverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese dimmondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti non sono che momenti della solitudine;
pi caldo e vivo il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
pi freddo e mortale intorno il diletto deserto;
esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente o la torbida prepotenza

di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza


enormemente giovane; e in questo disumano,
perch non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia
che sempre la stessa in tutte le stagioni.
Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non che la fecondit del mondo.
il mondo che cos arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza citt, non lo ritroverai pi;
latto compiuto, la sua ripetizione un rito. Dunque
la solitudine ancora pi grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni
landarsene fuggire e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.
Invecchiando, per, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui appena passata lora di cena,
e per te non mutato niente; allora per un soffio non urli o piangi;
e ci sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po di fame. Enorme, perch vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser pi soddisfatto,
e allora cosa ti aspetta, se ci che non considerato solitudine
la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere,
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
da Trasumanar e organizzar (1971)
+
3 Commenti
Rispondi
francesco silvio cutrera
19 novembre 2012 alle 08:59
finalmente siamo arrivati a quellarea estrema della dcadence. finalmente siamo
arrivati ad affrontare uno dei quattro problemi nietzscheani di coscienza: sei autentico? o
soltanto un commediante? un rappresentante? o il rappresentato stesso? alla fine sei
semplicemente limitazione di un commediante secondo problema di coscienza.
nietzsche ha superato i suoi problemi di coscienza con ecce homo, scrittura di un
commediante che entra in contatto con la genealogia del moderno, con quella che enuncia
che ogni forma di rappresentazione una necessaria falsificazione che riduce
immensamente il reale ma si presenta in noi come se lo comprendesse nella sua interezza.
gi con nietzsche, la dcadence loperare stesso del pensiero. finalmente siamo arrivati
a quellarea estrema della dcadence.
Erica Gazzoldi
19 novembre 2012 alle 09:51

Io so e ho le prove. [] Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata


in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili
paesi di montagna. N possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono
inconfutabili perch parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con
le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e cos testimonio,
brutta parola che ancora pu valere quando sussurra falso allorecchio di chi ascolta le
cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verit parziale, in fondo se fosse
riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di
queste verit. ROBERTO SAVIANO
dod
19 novembre 2012 alle 10:05
Non esiste verit senza che qualcuno non ci metta la faccia e la parola se la nostra
salvezza risiede in un fantomatico ritorno allio (mettendo da parte praticamente tutte le
pi importanti conquiste non solo artistiche ma culturali del 900), che poi nella
letteratura industriale/commerciale non se nera mai andato, allora siamo a posto
+
Il bosco
tra natura e cultura
n. 113, ottobre 2012
Editoriale
di Biancamaria Bruno
Avrete forse saputo che, il 6 luglio scorso, scomparso Federico Coen, fondatore
delledizione italiana della nostra rivista e suo direttore fino al maggio del 2009.
Intellettuale fine e attento, aveva locchio lungo di chi sa leggere le cose del mondo e
soprattutto dellItalia: ben noto il suo dissidio con Bettino Craxi, sfociato, nei
primissimi anni Ottanta, nellabbandono del PSI, nella rottura senza appello con lo stesso
Craxi e con la rivista MondOperaio, che Coen aveva diretto per tanti anni, facendola
diventare un orecchio aperto al mondo. Quella esperienza non scoraggi Federico che
decise di fondare anche in Italia Lettera Internazionale insieme ad Antonin Liehm,
lideatore del nostro progetto di rete di riviste di cultura contro i provincialismi delle
grandi culture europee che via via si sono diffuse per tutto il continente europeo, e anche
oltre. Quella sfida, che cominciata nel 1984, ancora per certi aspetti
drammaticamente attuale. Era la sfida per la costruzione di una coscienza civile laica ed
etica, italiana, europea e non solo, nel rispetto delle diversit e nella loro valorizzazione,
ma senza campanilismi, o, peggio, integralismi. Lidea era quella della costruzione di un
arcipelago di comunit in continuo dialogo e confronto tra loro, per sdoganare quelle pi
piccole e per stemperare le vocazioni imperialistiche di quelle grandi insomma, pari
opportunit per tutte. Questo nuovo numero di Lettera Internazionale lo dedichiamo alla
memoria di Federico nella convinzione, speriamo non troppo presuntuosa, di proseguire
idealmente il suo lavoro anche con questo numero. doveroso dire subito che questo n.
113 ha una storia particolare: il frutto della collaborazione editoriale e della comunione
di intenti tra la nostra rivista e la Fondazione Benetton Studi Ricerche che, nel 1990, ha
istituito il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, il quale promuove ogni
anno cito dalle finalit del Premio una campagna di attenzioni verso un luogo

particolarmente denso di valori di natura, di memoria e di invenzione. Nel 2012, il


Premio stato attribuito al Bosco di SantAntonio che, da secoli, il punto di riferimento
ambientale, politico, economico, culturale e sentimentale della comunit di
Pescocostanzo, in Abruzzo. Un piccolo bosco che ha ispirato e continua a suscitare grandi
passioni e battaglie straordinarie per la sua tutela per la sua cura. Dunque, il nostro tema
il bosco, non la foresta bosco sulla soglia tra natura e cultura, che non pu fare a
meno delluomo e di cui luomo non pu fare a meno; e che una grande metafora che
sussume una serie infinita di questioni, tutte molto attuali e molto trasversali. In cima alla
lista, vedo quella della tutela della bio-diversit: ogni individuo, umano, animale o
vegetale che sia, bio-diverso; ogni gruppo di individui a sua volta bio-diverso da
un altro. Ci che importa che, parafrasando Wilhelm von Humboldt, ognuno riconosca
nellaltro umano, animale o vegetale lo straniero da s e non lestraneo: straniero
ci che suscita curiosit e simpatia, estraneo ci che spaventa e allontana. Le piante non
conoscono lestraneo; gli animali s, ma per istinto di sopravvivenza. Quanto agli umani,
devono solo capire che per loro si tratta di una scelta politica. Partendo dal presupposto
che la vecchia opposizione tra Natura e Cultura da tempo priva di senso, dobbiamo
prendere atto che la sola vera chance che abbiamo, come abitanti di questo pianeta, come
europei, come italiani, la costruzione di una seria antropologia della natura. Non si
tratta di un ossimoro, ma di un modo sintetico e provocatorio per dire che necessario
istituire una nuova alleanza tra natura e cultura, perch ormai possiamo intendere la
natura solo come un elemento della cultura. Luomo non fa natura: quello che sa fare,
bene o male, paesaggio che , appunto, somma di natura, memoria e invenzione,
stratificazione di tracce, di camminamenti che si dimenticano e si ritrovano. In senso
stretto, non c paesaggio nella foresta amazzonica, n fra i ghiacci dellAntartide. Il
problema si pone quando quelle tracce, quei camminamenti, diventano calpestamenti,
oltraggi, forme di antropizzazione indiscriminata e bio-omologata a standard dettati
dallinteresse economico, dalle ideologie, o talvolta da mode variamente assurde, come
quella di piantare palme anche dove soffia il vento del Nord. In questo senso, mi sembra
utile ricordare ci che affermava Kurt Lewin, il grande psicologo sociale della met del
Novecento, a cui si deve la nozione ma io preferisco chiamarla la poetica dello
spazio odologico (dal greco hods, via, percorso): quello spazio potenziale di
movimento che contiene percorsi preferenziali che rappresentano un compromesso tra
esigenze diverse distanza breve, sicurezza, lavoro minimo, esperienza massima
determinate dalle condizioni topologiche. Lo spazio odologico fisico, ma anche
affettivo, e soprattutto etico e consapevole; il passaggio dellessere umano sempre
uguale e sempre diverso, ma che deve disegnare unesistenza sostenibile da tutti i punti di
vista; la cultura della natura. Quindi, antropologia della natura vuol dire boschi,
acque, campagne, montagne, ma anche citt, musei, teatri, biblioteche, archivi, scuole,
universit che sono tutti beni comuni, al di l della distinzione, da superare, tra
pubblico e privato. Ma a chi tocca governare i beni comuni? E che cosa significa
governare? Il governo della nave, il governo dello Stato, ma anche il governo della casa,
come si diceva una volta. Chi governa chiunque sia operativo, chiunque si assuma una
responsabilit, chiunque scelga di non abbandonare, chiunque decida di stare in campana,
cio di restare in attesa del suo suono o, meglio ancora, di farsi campana per chiamare a
raccolta la comunit in nome di ci che comune. In questi termini, la questione si fa
interessante e apre nuove possibilit di intervento per tutti noi, proprio mentre la

globalizzazione, ovunque, cerca di negare la bio-diversit nostra e dei nostri luoghi,


fermo restando che non esiste bio-diversit pi degna di altre di essere tutelata. Se
pensassimo questo, infatti, ricadremmo nel solito delirio della difesa miope e ottusa
dellorticello personale, in un orizzonte da piccola patria da cui bene stare alla larga.
Per, la globalizzazione dei media pu tornarci utile nel portare alla nostra attenzione
esperienze particolari di governo delle persone e delle cose compiute in terre e in societ
anche molto distanti dalle nostre che possono rivelarsi efficaci anche a casa nostra. Da
idea nasce idea, da pratica nasce pratica. Tocca a noi decidere se vogliamo entrare nel
grande arcipelago del comune, oppure se restare campane sorde e addormentate. E
siccome larte anticipa e rende esplicito il pensiero anche di questo numero della nostra
rivista, abbiamo scelto per la copertina ilSenza titolo di Jannis Kounellis: campane
antiche rese silenti nel loro avvolgersi allinterno di un pozzo, in una radura al limitare
del bosco. Rimandano al suono della storia, trasmettono leco di una coralit di voci che
devono essere rimesse al loro posto.
Buona cultura a tutti!
+

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