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GRARD GENETTE

FIGURE II
LA PAROLA LETTERARIA
Titolo originale Figures II
Copyright Editions du Seuil, 1969
Copyright 1972 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino
Traduzione di Franca Madonia

Giulio Einaudi editore

[fare un ebook un lavoro che costa tempo e fatica. Il modo migliore per ringraziare chi vi si
dedica farne a propria volta. Cerca delle guide e provaci anche tu.]

Indice generale
Ragioni della critica pura........................................................................................................................
Diegesis e mimesis.............................................................................................................................
Narrazione e descrizione....................................................................................................................
Racconto e discorso...........................................................................................................................
Verosimiglianza e motivazione..........................................................................................................
Il giorno, la notte....................................................................................................................................
Linguaggio poetico, poetica del linguaggio...........................................................................................
Stendhal ............................................................................................................................................
Mocenigo. .........................................................................................................................................
Aporia dello stendhalismo. ...............................................................................................................
Proust e il linguaggio indiretto...............................................................................................................

Ragioni della critica pura

Vorrei indicare per sommi capi quali dovrebbero essere le principali caratteristiche di una critica veramente
attuale, di una critica, cio , capace di rispondere nel modo pi adeguato possibile alle esigenze e alle risorse della
nostra intelligenza e del nostro uso della letteratura, hic et nunc.
[Comunicazione alla decade di Cerisy-la-Salle su Les chemins actuels de la critique, settembre 1966 [pubblicata in Les chemins actuels de la critique, a
cura di J. Ricardou, Plon, Paris 1967].

Per ribadire per che con attuale non si intende semplicemente e necessariamente il nuovo e d'altronde
non si sarebbe (per quanto poco lo si sia) critici, senza l'abitudine e il gusto di parlare facendo finta di lasciare
parlare gli altri (quando non sia l'opposto) prenderemo come testo di questo breve discorso qualche pagina
scritta tra il 1925 e il 1930 da un grande critico dell'epoca, che potrebbe anch'egli figurare, a suo modo ma per pi
ragioni, nel novero di quei grandi predecessori di cui ha parlato Georges Poulet. Ci riferiamo infatti ad Albert
Thibaudet, ed ovvio che questa scelta non del tutto priva in questo caso d'intenzioni eristiche: basta pensare
all'antitesi esemplare che unisce il tipo d'intelligenza critica incarnata da Thibaudet e quello rappresentato nella
stessa epoca da un Charles du Bos senza dimenticare peraltro l'opposizione di gran lunga pi profonda che
poteva separarli entrambi da quel tipo d'intelligenza critica che rispondeva allora al nome di Julien Benda.
In una cronaca letteraria pubblicata da Thibaudet sulla Nouvelle Revue Franaise del 1 aprile 1936 e
ristampata dopo la sua morte in Rflexions sur la critique possiamo leggere il seguente brano:
Qualche giorno fa sull'Europe Nouvelle Gabriel Marcel indicava come una delle qualit principali d'un
critico degno di questo nome l'attenzione all'unico ossia l'attenzione al modo in cui il romanziere di cui egli si
occupa ha sentito e vissuto l'esistenza. Elogiava Charles du Bos per avere saputo porre il problema in termini
precisi... Si rammaricava che un altro critico, ritenuto un bergsoniano, non avesse abbastanza, o anzi avesse
sempre meno tratto profitto dalla lezione del bergsonismo in tale campo, e imputava questo cedimento, questo
calo di temperatura a un eccesso di spirito classificatore. Il che anche possibile. Ma se vero che non esiste
critica letteraria degna di questo nome senza l'attenzione all'unico, ossia senza il senso dell'individualit e delle
differenze, siamo per proprio certi che ne possa esistere una al di fuori di un certo senso sociale della
Repubblica delle Lettere, ossia di un sentimento delle rassomiglianze, delle affinit, che deve pure esprimersi di
tanto in tanto con delle classificazioni?
Rflexions sur la critique, Gallimard, Paris 1939, P. 244.

Notiamo innanzi tutto che Thibaudet non ha difficolt qui a riconoscersi un eccesso di spirito classificatore
e confrontiamo subito questa confessione con una frase di Jules Lemaitre su Bruneti re, che Thibaudet citava in
un'altra cronaca del 1922 e che, salvo un'unica riserva, potrebbe benissimo applicarsi anche a lui:
Bruneti re incapace, a quanto sembra, di considerare un'opera, qualunque essa sia, grande o piccola, se
non nelle sue connessioni con un gruppo di altre opere, di cui coglie immediatamente, attraverso il tempo e lo
spazio, il rapporto con altri gruppi, e cos via... Si potrebbe dire che, mentre legge un libro, pensi a tutti i libri che sono stati
scritti dall'inizio del mondo. Nulla gli passa per le mani che egli non classifichi, e per l'eternit .
[Ibid., p. 136. Il corsivo nostro.]

La riserva riguarderebbe evidentemente l'ultimo frammento della frase, giacch Thibaudet, diversamente da
Bruneti re, non era di coloro che pensano di lavorare per l'eternit, oppure che l'eternit lavori per loro.
Probabilmente avrebbe volentieri adottato il motto di Monsieur Teste Transiit classificando che, in fondo, e
secondo che si ponga l'accento sul verbo principale o sul gerundio, significa tanto Pass (la vita) classificando ,
quanto anche Classific en passant . E, a parte i giuochi di parole, c' in quest'idea che una classificazione
possa valere diversamente che per l'eternit, che una classificazione possa anche passare col tempo, appartenere
al tempo che passa e portare la sua impronta, c' in questa idea, certamente estranea a Brunetire, ma non a

Thibaudet, qualcosa di molto importante oggi per noi, in letteratura e altrove. Anche la storia transit classificando.
Non discostiamoci per troppo dai nostri testi e lasciamoci piuttosto condurre, dal riferimento a Valry, verso
un'altra pagina delle Rflextons sur la critique, datata giugno 1927. Vi ritroviamo quella mancanza d'attenzione
all'unico che Gabriel Marce! rimproverava a Thibaudet, attribuita questa volta, e in modo ancora pi legittimo, a
colui che faceva dire al suo eroe: Lo spirito non deve occuparsi delle persone. De personis non curandum . Ecco il
testo di Thibaudet:
Immagino che una critica filosofica ringiovanirebbe la nostra intelligenza della letteratura pensando dei
mondi laddove la critica classica pensava degli artigiani che lavorano come il demiurgo del Timeo sopra modelli
eterni dei generi, e dove la critica del xix secolo ha pensato degli uomini che vivono in societ. Possediamo
d'altronde un campione non approssimativo, ma paradossalmente integrale, di questa critica. il Lonard di
Valry. Da Leonardo Valry ha tolto deliberatamente tutto quello che era il Leonardo uomo, per conservare
soltanto ci che costituiva il Leonardo mondo. L'influsso di Valry sui poeti abbastanza evidente. Dal canto
mio incomincio gi a intravedere un influsso di Monsieur Teste sui romanzieri. Perch non potrebbe essere a buon
diritto auspicato un influssodel Lonard sui nostri giovani critici filosofi? In ogni caso, non avranno nulla da
perdere a leggerlo ancora una volta .
[Rflexions sur la critique, p. 191.]

Decliniamo gentilmente l'appellativo di critici filosofi, di cui si pu facilmente immaginare che cosa avrebbe
pensato lo stesso Valry, e completiamo questa citazione con un'altra che sar l'ultima e la pi lunga, tratta questa
volta dalla Physiologie de la critique. Thibaudet, dopo avere citato e commentato una pagina del William Shakespeare,
aggiunge:
Leggendo queste righe di Hugo e il commento che le accompagna, si sar forse pensato a Paul Valry. E
infatti l'Introduction la mthode de Lonard de Vinci proprio concepita in modo analogo al William Shakespeare, e
tende al medesimo scopo. Semplicemente la sua presa di posizione ancora pi netta. Valry previene il lettore
che il suo Leonardo non Leonardo, bens una certa idea del genio, per la quale si servito di alcune qualit di
Leonardo ma senza limitarsi ad esse e integrandole con altre. Qui come altrove, ci cui mira Valry proprio
quell'algebra ideale, quel linguaggio non gi comune a diversi ordini, ma indifferente a diversi ordini, che
potrebbe altrettanto bene cifrarsi nell'uno come nell'altro e che d'altronde assomiglia alla forza di suggestione e di
variazione che assume una poesia ridotta a pure essenze. L'Introduction la mthode de Lonard, come altre opere di
Valry, non sarebbe probabilmente stata scritta se non gli fosse stato dato di convivere con un poeta che aveva
anch'egli giocata la vita su quell'impossibile algebra e quell'ineffabile mistica. Ci che era presente alla
meditazione di Valry e di Mallarm lo era anche a quella di Hugo. La critica pura nasce qui dalle stesse algide
sorgenti della poesia pura. Per critica intendo quella critica che ha come oggetto non gli esseri o le opere, bens le essenze, e che
non vede nella visione degli esseri e delle opere altro che un pretesto per la meditazione delle essenze.
[Il corsivo nostro.]

Tre sono le essenze che io scorgo e tutte e tre hanno occupato, hanno tormentato Hugo, Mallarm, Valry;
esse sono loro apparse come il giuoco trascendente del pensiero letterario: il genio, il genere, il Libro.
Il genio: ad esso sono consacrati il William Shakespeare e l'Introduction. la forma pi alta dell'individuo, il
vertice dell'individuale, eppure il segreto del genio d'infrangere le barriere dell'individualit, di essere Idea, di
rappresentare, al di l dell'invenzione, il flusso inventivo.
Ci che in letteratura rappresenta, al di sopra dello stesso genio individuale, quest'Idea, e al di sotto di esso il
flusso che lo porta, sono quelle forme dello slancio vitale letterario che sono chiamate i generi. Bruneti re ha
avuto ragione quando ha visto qui il problema fondamentale della grande critica, per la quale una teoria dei
generi rimarr sempre la pi alta ambizione. Il suo torto stato quello di confonderne il movimento con
un'evoluzione ricalcata sulla falsariga di un'evoluzione naturale, i cui elementi arbitrarie sommari gli erano forniti
da una scienza male assimilata... certo per che i generi sono, vivono, muoiono, si trasformano, e gli artisti, che
lavorano nella fucina stessa dei generi, lo sanno ancora meglio dei critici... Mallarm non ha fatto della poesia che
per precisare l'essenza della poesia, non andato a teatro che per cercare quell'essenza del teatro che gli piaceva
vedere nello sfolgorio della sua luce.
Infine il Libro. La critica, la storia letteraria hanno spesso il torto di mescolare in una stessa serie, di
confondere in uno stesso ordine ci che si dice, ci che si canta, ci che si legge. La letteratura si compie in
funzione del Libro, eppure non c' niente a cui l'uomo dei libri
[Si tratta qui del critico.]

pensi meno che al Libro... Sappiamo fino a quali paradossi Mallarm abbia spinto l'allucinazione del Libro
[Physiologie de la critique, Editions de la Nouvelle Revue Critique; Paris 1930, pp. 120-24.]

Interrompiamo qui la citazione e cerchiamo ora di ritrovare il movimento di pensiero che scaturisce da questi

pochi testi e che pu aiutarci a definire una certa idea della critica, per la quale conserveremo volentieri; se non
altro per il valore provocatorio che hanno a uso delle anime semplici, i termini di critica pura e anche il patrocinio
di Valry: Valry di cui non si ricorder mai abbastanza proponeva allo stesso scopo una storia della stanza che pr
letteratura intesa come una Storia dello spirito in quanto produttore o consumatore della letteratura e che
potrebbe essere fatta senza che mai vi fosse pronunziato il nome d'uno scrittore . Notiamo comunque che
Thibaudet, meno assoluto di Valry, non rifiuta affatto l'attenzione all'unico (da lui interpretato, d'altronde, in
modo assai caratteristico, come il senso delle individualit e delle differenze, il che significa gi uscire dall'unicit per
entrare, attraverso il giuoco dei 'confronti, in quello che Blanchot chiamer l'infinito letterario), ma semplicemente
che egli vi vede non un termine bens il punto di partenza di una ricerca che alla fine verter non sulle
individualit ma sulla totalit d'un universo di cui egli aveva spesso sognato di farsi il geografo (il geografo,
ripetiamo, non lo storico) e che chiama, qui e altrove, la Repubblica delle Lettere. C' in questo appellativo
qualcosa che indica un'epoca e che connota un po' pesantemente, secondo noi, l'aspetto sociale , e quindi
troppo umano, di ci che chiameremmo oggi pi sobriamente, con una parola che conserva ancora la sua curiosa
modernit, la Letteratura. Ricordiamo soprattutto questo movimento caratteristico di una critica forse ancora
impura , che potrebbe benissimo anche essere chiamata critica paradigmatica, nel senso che le circostanze, ossia
gli autori e le opere, vi fanno ancora la loro comparsa, ma soltanto alla stregua di casi o d'esempi di fenomeni
letterari che li superano e a cui servono si pu dire da indice, un po' come quei poeti eponimi, Hoffmann per
esempio, o Swinburne, di cui Bachelard fai portavoce di un complesso, senza lasciare loro ignorare che un
complesso non mai molto originale. Studiare l'opera di un autore, diciamo Thibaudet per fare un esempio del tutto
immaginario, vorrebbe quindi dire studiare un Thibaudet che non sarebbe pi Thibaudet di quanto il Leonardo
di Valry non Leonardo, bens soltanto una certa idea del genio per la quale ci si servirebbe di alcune qualit di
Thibaudet, senza limitarsi a queste e integrandole con altre. Non sarebbe studiare un essere e neppure studiare
un'opera, ma attraverso quest'essere e quest'opera, inseguire un'essenza.
Dobbiamo ora considerare un po' pi attentamente i tre tipi d'essenze di cui parla Thibaudet. Il primo porta
un nome di cui oggi si un po' perduto l'uso, nella sua apparente indiscrezione, ma che non abbiamo saputo
sostituire con nessun altro. Il genio, dice Thibaudet in modo un po' enigmatico, al tempo stesso il vertice
dell'individuale e la rottura delle barriere dell'individualit. Il commento pi illuminante di questo paradosso va
cercato in autori come Maurice Blanchot (e Jacques Lacan), in quell'idea oggi familiare alla letteratura, ma da cui
probabilmente la critica non ha ancora tratto tutte le conseguenze, che l'autore, l'artigiano di un libro come
diceva Valry, non effettivamente nessuno o anche che una delle funzioni del linguaggio, e della letteratura come
linguaggio, distruggere il parlante e designarlo come assente, Quello che Thibaudet chiama il genio potrebbe
allora essere qui quell'assenza del soggetto, quell'esercizio del linguaggio decentrato, privo di centro, di cui parla
Blanchot a proposito dell'esperienza di Kafka scoprendo che egli fece il suo ingresso nella letteratura non
appena pot sostituire l'egli all'io... Lo scrittore aggiunge Blanchot appartiene a un linguaggio che nessuno
parla, che non si rivolge a nessuno, che manca di centro, che non rivela nulla .
[ L'espace littraire, Gallimard, Paris 1955, P. 17 [trad. it. Lo spazio letterario, trad. di Gabriella Zanobetti, con un saggio di J. Pfeiffer e una nota di G.
Neri, Einaudi, Torino 1967].]

La sostituzione dell'egli all'io evidentemente qui soltanto un simbolo, fors'anche troppo chiaro, di cui
potremmo trovare una versione meno appariscente e apparentemente inversa, nel modo in cui Proust rinuncia
all'egli troppo ben centrato di Jean Santeuil per l'io decentrato, equivoco, della Recherche, l'io di un Narratore che non
effettivamente nessuno, n l'autore n qualsivoglia d'altri e che mostra benissimo come Proust abbia incontrato
il suo genio nel momento in cui trovava nella sua opera il luogo linguistico ove la sua individualit poteva
frantumarsi e dissolversi in Idea. Cos, per il critico, parlare di Proust o di Kafka sar forse parlare del genio di
Proust o di Kafka, non della loro persona. Sar parlare di quello che lo stesso Proust chiama l' io profondo ,
quell'io che, com'egli ha asserito con pi vigore di chiunque altro, si rivela soltanto nei suoi libri e che, com'egli ha
dimostrato proprio nella sua opera, un io senza fondo, un io senza io, ossia quasi l'opposto di quello che si
suole chiamare un soggetto. E, sia detto di sfuggita, questa riflessione potrebbe togliere gran parte dell'interesse a
tutte le controversie sul carattere oggettivo o soggettivo della critica: propriamente parlando per il critico (per il
lettore) il genio di uno scrittore non n un oggetto n un soggetto, e il rapporto critico, il rapporto di lettura,
potrebbe appunto rappresentare ci che in letteratura dissolve e liquida questa opposizione troppo semplicistica.
La seconda essenza di cui ci parla Thibaudet, in termini forse non del tutto appropriati, sono quei generi in cui
egli vede delle forme dello slancio vitale letterario , formula piuttosto avventurosa ove il suo personale
bergsonismo viene a sostituirsi allo pseudodarwinismo di Bruneti re, e che sarebbe probabilmente meglio
chiamare, al di fuori di ogni riferimento vitalistico, le strutture fondamentali del discorso letterario. La nozione di
genere non oggi molto bene accetta, forse proprio a causa di quell'organicismo grossolano di cui stata
inficiata alla fine del secolo scorso, e inoltre e soprattutto perch viviamo un'epoca letteraria che quella del
dissolvimento dei generi e dell'avvento della letteratura come abolizione delle frontiere interne dello scritto. Se
vero, come stato gi detto, che uno dei compiti della critica quello di riversare sulla letteratura del passato

l'esperienza letteraria del presente e di leggere gli antichi alla luce dei moderni, pu sembrare strano e addirittura
assurdo, in un'epoca dominata da nomi quali Lautramont, Proust, Joyce, Musil, Bataille, di darsi da fare per
risuscitare, sia pure rinnovandole, le categorie di Aristotele e di Boileau. Resta il fatto tuttavia che quando
Thibaudet ci ricorda che Mallarm non ha fatto della poesia che per precisare l'essenza della poesia e non
andato a teatro che per cercare l'essenza del teatro, questo ci dice qualcosa e ci sollecita.
Forse non vero, o non pi vero, che i generi vivano, muoiano e si trasformino, resta per vero che il
discorso letterario si produce e si sviluppa secondo strutture che non pu trasgredire se non perch le trova
ancora oggi nel campo del suo linguaggio e della sua scrittura. Per non riportare qui che un esempio
particolarmente chiaro, Benveniste ci ha appunto dimostrato, in uno o due capitoli' dei suoi Problmes de
linguistique gnrale,
[Problmes de linguistique gnrale, GaIlimard, Paris 1966, cap. xix: Les relations de temps dans le verbe franais, e cap. xxi: De la subjectivit dans le langage [trad.
it. Problemi di linguistica generale, Il Samlatore, Milano 1971].]

in che modo i sistemi del racconto e del discorso si oppongono nelle strutture stesse della lingua, della lingua
francese per lo meno, attraverso l'uso riservato di certe forme verbali, di certi pronomi, di certi avverbi, ecc. Da
tali analisi e dai loro successivi sviluppi e ampliamenti si ricava quanto meno che il racconto rappresenta, pur
nelle sue forme pi elementari e anche solo dal punto di vista strettamente grammaticale, un uso molto
particolare del linguaggio, ossia all'incirca quello che Valry chiamava, a proposito della poesia, un linguaggio nel
linguaggio, e qualsiasi studio delle grandi forme narrative (epopea, romanzo, ecc.) dovrebbe se non altro tenere
conto di questo dato, cos come qualsiasi studio delle grandi creazioni poetiche dovrebbe cominciare col riflettere
su quella che di recente stata chiamata la struttura del linguaggio poetico. Lo stesso si dovrebbe evidentemente fare
per tutte le altre forme dell'espressione letteraria, e tanto per fare un esempio pu sembrare strano che nessuno
abbia mai pensato (almeno per quanto mi risulta) a studiare in se stesso, nel sistema delle sue risorse e delle sue
esigenze specifiche, un tipo di discorso fondamentale come la descrizione. Questo genere di studi, che si sta
appena affermando adesso e d'altronde solo ai margini dell'insegnamento letterario ufficiale, potrebbe, vero,
essere battezzato con un nome antichissimo e piuttosto screditato: la retorica, e da parte mia non vedrei nessun
inconveniente ad ammettere che la critica quale noi la concepiamo sia, almeno in parte, qualcosa come una nuova
retorica. Aggiungiamo soltanto (e il riferimento a Benveniste voleva in parte tendere a questo) che questa nuova
retorica verrebbe a porsi con tutta naturalezza, come aveva d'altronde previsto Valry, alle dipendenze della
linguistica, che probabilmente la sola disciplina scientifica che abbia oggi qualcosa da dire sulla letteratura in
quanto tale o, per riprendere ancora una volta l'espressione di Jakobson, sulla letteralit della letteratura.
La terza essenza nominata da Thibaudet, la pi alta indubbiamente e la pi ampia, il Libro. Nessun bisogno
di trasposizione in questo caso, e il riferimento a Mallarm basterebbe gi a esimerci da ogni commento.
Dobbiamo per essere grati a Thibaudet per averci rammentato cos vigorosamente che la letteratura si realizza in
funzione del Libro e che la critica ha torto di pensare cos poco al Libro e di mescolare in un'unica serie ci che si
dice, ci che si canta, ci che si legge . Che la letteratura non sia soltanto linguaggio, ma pi precisamente e pi
ampiamente al tempo stesso, anche scrittura, e che il mondo sia per essa, dinanzi ad essa, in essa, come diceva cos
giustamente Claudel, non come uno spettacolo, ma come un testo da decifrare e da trascrivere, una verit che la
critica non ha forse ancora oggi abbastanza accettato e di cui la meditazione mallarmeana sul Libro ci deve
insegnare l'importanza. Contro una tradizione antichissima, pressoch originaria (visto che risale a Platone) della
nostra cultura, che faceva della scrittura un semplice ausilio della memoria, un semplice strumento d'annotazione
e di conservazione del linguaggio, o pi precisamente della parola parola viva, giudicata insostituibile come
presenza immediata del parlante al suo discorso , stiamo oggi scoprendo o meglio capendo, grazie specialmente
agli studi di Jacques Derrida sulla grammatologia, ci che le pi penetranti intuizioni della linguistica saussuriana
implicavano gi, ossia che il linguaggio, o pi precisamente la lingua, essa stessa innanzi tutto una scrittura, cio
un giuoco fondato sulla differenza pura e la spaziatura, ove la relazione vuota quella che significa e non il
termine pieno. Sistema di rapporti spaziali estremamente complessi dice Blanchot del quale n lo spazio
geometrico
ordinario, n lo spazio della vita pratica ci permettono di cogliere l'originalit.
[Le livre venir, Gallimard, Paris 1959, P. 286 [trad. it. Il libro a venire, trad. di G. Ceronetti e G. Neri, Einaudi, Torino 1969].]

Che il tempo della parola sia sempre gi situato e, in un certo senso, preformato nello spazio della lingua e
che i segni della scrittura (nel senso banale) siano in qualche modo, nella loro disposizione, meglio accordati alla
struttura di questo spazio dei suoni della parola nella loro successione temporale, non una cosa indifferente
all'idea che possiamo farci della letteratura. Blanchot dice bene che il Coup de ds voleva essere questo spazio
divenuto poesia . Ogni libro, ogni pagina, a suo modo il poema dello spazio del linguaggio che si svolge e si
compie sotto lo sguardo della lettura. La critica non ha forse fatto nulla, non pu fare nulla fintanto che non ha
deciso con tutto ci che questa decisione comporta di considerare ogni opera, o ogni frammento di opera
letteraria, innanzi tutto come un testo, ossia come un tessuto di figure in cui il tempo (o, come si dice, la vita) dello

scrittore che scrive e quello (quella) del lettore che legge si annodano e si intrecciano in quel luogo paradossale
che la pagina e il volume. La qual cosa implica se non altro, come ha detto con molta precisione Philippe
Sollers, che il problema essenziale oggi non pi quello dello scrittore e dell'opera, bens quello della scrittura e
della lettura e che dobbiamo quindi definire un nuovo spazio in cui questi due fenomeni potrebbero essere
compresi come reciproci e simultanei, uno spazio curvo, un luogo di scambi e di reversibilit in cui saremmo
finalmente dalla stessa parte del nostro linguaggio... La scrittura legata a uno spazio in cui il tempo avrebbe in
qualche modo girato, in cui non sarebbe altro che questo movimento circolare e operativo.
[Le roman et l'exprience des limites, conferenza Tel Quel dell'8 dicembre 1965, in Logiques, Editions du Seuil, Paris 1968, pp. 237-38.]

Il testo quell'anello di Mbius in cui la faccia interna e la faccia esterna, faccia significante e faccia
significata, faccia di scrittura e faccia di lettura girano invertendosi di continuo, in cui la scrittura non cessa di
leggersi, in cui la lettura non cessa di scriversi e d'inscriversi. Anche il critico deve entrare nel giuoco di questo
strano circuito reversibile e diventare, cos, come dice Proust e come ogni vero lettore, il lettore di se stesso .
Chi glielo rimproverasse dimostrerebbe semplicemente di non avere mai saputo che cosa significa leggere.
Ci sarebbe certo molto di pi da dire sui tre temi proposti da Thibaudet alla meditazione della critica pura ,
ma dobbiamo limitarci qui a questo breve commento. evidente d'altronde che queste tre essenze non sono le
uniche cui si possa e si debba arrestare la riflessione critica. Sembra piuttosto che Thibaudet ci indichi qui delle
specie di schemi o di categorie a priori dello spazio letterario e che il compito della critica pura sarebbe, all'interno
di questi schemi generali, di occuparsi anche di essenze pi particolari, bench trascendenti l'individualit delle
opere. Io proporrei di chiamare queste essenze particolari semplicemente forme a condizione di prendere
qui la parola forma in un senso un po' speciale che corrisponde all'incirca a quello che le d in linguistica la
scuola di Copenaghen.. noto infatti che Hjelmslev opponeva la forma non al fondo ossia al contenuto, come
fa la tradizione scolastica, bens alla sostanza, ossia alla massa inerte sia della realt extralinguistica (sostanza del
contenuto), sia dei mezzi, fonici o altri, usati dal linguaggio (sostanza dell'espressione). Ci che costituisce la
lingua come sistema di segni il modo in cui il contenuto e l'espressione si tagliano e si strutturano nel loro
reciproco rapporto d'articolazione, determinando l'apparizione congiunta di una forma del contenuto e di una forma
dell'espressione. Il vantaggio di questa nuova suddivisione, per quello che ci riguarda qui, che essa svuota
l'opposizione volgare tra forma e contenuto, intesa come opposizione tra le parole e le cose, tra il linguaggio e
la vita , e che insiste invece sulla reciproca implicazione del significante e del significato, implicazione che
regola l'esistenza del segno. Se l'opposizione pertinente non tra forma e contenuto, bens tra forma e sostanza,
il formalismo non consister nel privilegiare le forme a spese del senso il che non vuole dire nulla ma a
considerare il senso stesso come una forma impressa nella continuit del reale, secondo un taglio d'insieme che
il sistema della lingua: il linguaggio pu esprimere il reale soltanto articolandolo e questa articolazione un
sistema di forme, tanto sul piano significato quanto sul piano significante.
Orbene ci che vale per il fatto linguistico elementare pu valere a un altro livello, mutatis mutandis, per quel
fatto sovralinguistico (secondo l'espressione applicata da Benveniste al linguaggio onirico) che costituisce la
letteratura: tra la massa letterariamente amorfa del reale e la massa, anch'essa letterariamente amorfa, dei mezzi
espressivi, ogni essenza letteraria interpone un sistema d'articolazione che , inestricabilmente, una forma
d'esperienza e una forma d'espressione. Queste specie di nodi formali potrebbero costituire l'oggetto per
eccellenza di un tipo di critica che chiameremo indifferentemente formalista o tematica se si vuole dare alla
nozione di tema un'apertura sul piano del significante simmetrica a quella che stata appena data alla nozione di
forma sul piano del significato. E infatti un formalismo quale lo immaginiamo qui non si oppone a una critica del
senso (non c' critica se non del senso), ma a una critica che confondesse senso e sostanza e che trascurasse la
funzione della forma nel lavoro del senso. Notiamo d'altronde che si opporrebbe ugualmente (come appunto hanno
fatto certi formalisti russi) a una critica che riportasse l'espressione alla sua sola sostanza, fonica, grafica o altra.
Ci che esso ricerca di preferenza sono quei temi-forme, quelle strutture a due facce in cui si articolano insieme
le scelte di linguaggio e le scelte d'esistenza, il cui legame costituisce quello che la tradizione chiama, con termine
felicemente equivoco, uno stile. Per fare un esempio tratto dalla mia stessa esperienza critica (il che, se non altro,
mi eviter di compromettere altri in un tentativo teorico d'esito incerto) tempo fa mi parve appunto di
individuare nel barocco francese, quale ce l'hanno rivelato Marcel Raymond e Jean Rousset, una certa
predilezione per una situazione che pu sembrare caratteristica al tempo stesso della sua visione del mondo e,
diciamo cos, della sua retorica. Questa situazione la vertigine, e pi precisamente quella vertigine della simmetria,
dialettica immobile dello stesso e dell'altro, della differenza e dell'identit, che si manifesta altrettanto bene, per
esempio, in un certo modo di organizzare il mondo intorno a ci che Bachelard chiamer la reversibilit dei
grandi spettacoli dell'acqua , quanto nel ricorso a una figura stilistica consistente nel conciliare due termini
ritenuti antitetici in una paradossale combinazione di parole: uccello dell'onda, pesce del cielo. Il fatto di stile appartiene
chiaramente qui, per fare ricorso al vocabolario proustiano, all'ordine della tecnica e insieme all'ordine della visione:
non n un puro sentimento (che cercherebbe d' esprimersi meglio che pu), n un semplice modo di

dire (che non esprimerebbe nulla): appunto una forma, un modo che ha il linguaggio di dividere e ordinare
insieme le parole e le cose. Naturalmente questa forma non privilegio esclusivo del barocco, anche se si pu
costatane che esso ne fa un uso particolarmente smodato; possiamo benissimo ricercarla anche altrove ed
certamente legittimo interessarsi pi di quest' essenza in se stessa che non delle diverse circostanze attraverso
cui le accaduto di manifestarsi. Per chiarire maggiormente questo discorso con un secondo esempio altrettanto
personale e quindi altrettanto poco esemplare, dir che la forma del palinsesto, o della sovrimpressione, mi parsa
come una caratteristica comune della scrittura di Proust ( la famosa metafora ), della struttura della sua opera
e della sua visione delle cose e degli esseri, e che essa non ha suscitato in me, se posso permettermi l'espressione,
il desiderio critico se non perch organizzava in lui, in un unico e medesimo movimento, lo spazio del mondo e lo
spazio del linguaggio.
Per terminare, e senza discostarsi troppo da quella che stata la nostra guida d'un momento, diciamo qualche
parola su un problema che Thibaudet stesso ha sollevato pi volte nelle sue riflessioni critiche e che da allora non
ha mai smesso si pu dire di alimentare discussioni. Si tratta del problema dei rapporti tra l'attivit critica e la
letteratura, o, se si vuole, di sapere se il critico o non uno scrittore.
Notiamo innanzi tutto che Thibaudet il primo ad avere dato il giusto posto nel panorama critico a quella
che egli chiamava la critica dei Maestri. Si tratta evidentemente dell'opera critica di coloro che vengono
comunemente considerati dei creatori, e basta ricordare i nomi di Diderot, di Baudelaire, di Proust per sapere
che, da quando nata, forse, il meglio della critica si trova proprio li.

Sappiamo per altrettanto bene che quest'aspetto dell'attivit letteraria in continua espansione da un secolo
in qua, e che le frontiere tra opera critica e opera non critica tendono sempre pi a cancellarsi, come gi
dimostrano da soli i nomi di Borges e Blanchot. Cos la critica letteraria potrebbe essere definita senza ironia
come una critica di creatori senza creazione, o la cui creazione sarebbe in un certo senso quel vuoto centrale,
quella carenza profonda di cui la loro opera critica disegnerebbe come la forma in cavo. A questo titolo l'opera
critica potrebbe apparire come un tipo di creazione molto significativo della nostra epoca. Ma a dire il vero, il
problema non forse del tutto pertinente, giacch la nozione di creazione una delle pi confuse che la nostra
tradizione critica abbia generato. La distinzione significativa non tra una letteratura critica e una letteratura
creatrice , ma tra due funzioni della scrittura che si oppongono all'interno di uno stesso genere letterario. Ci
che definisce secondo noi lo scrittore in opposizione a quello che Barthes ha chiamato lo scrivente , che la
scrittura non per lui un mezzo d'espressione, un veicolo, uno strumento, ma il luogo stesso del suo pensiero.
Come stato detto molto spesso lo scrittore colui che non sa e non pu pensare se non nel segreto della
scrittura, colui che sa e sperimenta ad ogni istante che quando scrive non lui che pensa il suo linguaggio ma il
suo linguaggio che lo pensa e pensa fuori di lui. In questo senso ci sembra evidente che il critico non pu dirsi
pienamente critico finch non entrato egli pure in quella che va appunto chiamata la vertigine, o se si preferisce,
il giuoco seducente e mortale della scrittura. Come lo scrittore come scrittore il critico non si riconosce che
due compiti che sono poi uno solo: scrivere, tacere.

Frontiere del racconto

Se accettiamo per convenzione di rimanere nel campo dell'espressione letteraria possiamo senza difficolt
definire il racconto come la rappresentazione d'un avvenimento o di una serie di avvenimenti reali o fittizi per
mezzo del linguaggio, e pi specificamente del linguaggio scritto. Questa definizione positiva (e corrente) ha il
merito dell'evidenza e della semplicit: il suo principale inconveniente forse proprio quello di chiudersi e di
chiuderci nell'evidenza, di mascherare ai nostri occhi ci che appunto, nell'essere stesso del racconto, costituisce
problema e difficolt, cancellando in un certo senso le frontiere del suo esercizio, le condizioni della sua
esistenza. Definire il racconto positivamente significa accreditare, pericolosamente forse, l'idea o la sensazione
che il racconto sia qualcosa che va da s, che non vi sia nulla di pi naturale che raccontare una storia o collegare
un insieme di azioni in un mito, una novella, un'epopea, un romanzo. L'evoluzione della letteratura e della
coscienza letteraria da mezzo secolo in qua avr avuto, tra altre felici conseguenze, anche quella di attirare la
nostra attenzione proprio sull'aspetto singolare, artificiale e problematico dell'atto narrativo. Bisogna ritornare
ancora una volta allo stupore di Valry nell'atto di considerare un enunciato come La marchesa usci alla cinque
. Si sa in quante forme diverse e a volte contraddittorie la letteratura moderna abbia vissuto e reso questo
stupore fecondo, quanto si sia voluta e si sia fatta, nella sua stessa sostanza, interrogazione, esitazione,
contestazione del discorso narrativo. Una domanda falsamente ingenua come: perch il racconto? potrebbe per lo
meno indurci a ricercare o pi semplicemente a riconoscere i limiti in certo qual modo negativi del racconto, a
riflettere sui principali giuochi d'opposizioni attraverso cui il racconto si definisce, si costituisce di fronte alle
diverse forme del non-racconto.

Diegesis e mimesis.
Una prima opposizione quella indicata da Aristotele in alcune rapide frasi della Poetica. Per Aristotele il
racconto (diegesis) uno dei due modi dell'imitazione poetica (mimesis), mentre l'altro la rappresentazione diretta
degli avvenimenti fatta da attori che parlano e agiscono davanti al pubblico.
[1448a.]

Si instaura qui la distinzione classica fra poesia narrativa e poesia drammatica, distinzione che era gi stata
accennata da Platone nel III libro della Repubblica, con queste due differenze per, che da un lato Socrate negava
al racconto la qualit (ossia per lui il difetto) dell'imitazione, e dall'altro teneva conto degli aspetti di
rappresentazione diretta (dialoghi) che poteva comportare un poema non drammatico come quelli d'Omero. Ci
sono dunque alle origini della tradizione classica due partizioni apparentemente contraddittorie, in cui il racconto
verrebbe ad opporsi all'imitazione, qui come sua antitesi, l come uno dei suoi modi.
Per Platone il campo d quella che chiama la lexis (o modo di dire, in opposizione a logos che designa ci che
viene detto), si divide teoricamente in imitazione propriamente detta (mimesis) e semplice racconto (diegesis). s). Per
semplice racconto Platone intende tutto ci che il poeta narra parlando a suo nome, senza cercare di farci
credere che sia un altro a parlare:
[393a]

ad esempio quando Omero, nel canto I dell'Iliade, ci dice a proposito di Crise: Giunse costui alle navi snelle
degli Achei per liberare la figlia, con riscatto infinito, avendo tra mano le bende d'Apollo che lungi saetta, intorno
allo scettro d'oro, e pregava tutti gli Achei ma sopra tutto i due Atridi, ordinatori d'eserciti .
[Iliade, I, vv. 1216, trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1963.]

Invece l'imitazione consiste, a partire dal verso successivo, nel fatto che Omero fa parlare Crise stesso, o
meglio, secondo Platone, che parla facendo finta d'essere divenuto Crise e sforzandosi in tutti i modi di darci
l'illusione che non Omero a parlare, bens proprio il vegliardo, sacerdote d'Apollo . Ecco il testo del discorso
di Crise: Atridi, e voi tutti, Achei schinieri robusti, a voi diano gli dei, che hanno le case d'Olimpo, d'abbattere la
citt di Priamo, di ben tornare in patria; e voi liberate la mia creatura, accettate il riscatto, venerando il figlio di

Zeus, che lungi saetta . Ora, aggiunge Platone, Omero avrebbe potuto benissimo proseguire l'esposizione in
forma puramente narrativa, raccontando le parole di Crise, invece di riferirle, il che, per il medesimo brano, avrebbe
dato in stile indiretto e in prosa: Una volta giunto il sacerdote preg gli dei di concedere loro di prendere Troia
scampandoli da morte, e chiese ai Greci che gli venisse resa la figlia in cambio di un riscatto e per rispetto verso
gli dei .
[393e]

Questa divisione teorica che contrappone all'interno della dizione poetica, i due modi puri ed eterogenei del
racconto e dell'imitazione, comporta e instaura una classificazione pratica dei generi che comprende i due modi
puri (il modo narrativo, rappresentato dall'antico ditirambo, e il modo mimetico rappresentato dal teatro), pi un
modo misto, o pi precisamente alternato, che quello dell'epopea, come l'esempio dell'Iliade ci ha mostrato.
La classificazione aristotelica a prima vista completamente diversa, perch riporta ogni poesia all'imitazione,
distinguendo soltanto due modi imitativi, il diretto, che quello che Platone chiama propriamente imitazione, e il
narrativo che chiama, come Platone, diegesis. D'altra parte Aristotele sembra identificare non solo, come Platone, il
genere drammatico al modo imitativo, ma anche, senza tenere conto in linea di principio del suo carattere misto,
il genere epico al modo narrativo puro. Questa riduzione pu dipendere dal fatto che Aristotele definisce, pi
strettamente di Platone, il modo imitativo in base alle condizioni sceniche della rappresentazione drammatica.
Pu inoltre giustificarsi per il fatto che l'opera epica, qualunque sia la parte materiale dei dialoghi o dei discorsi in
stile diretto, e anche se essa eccede quella del racconto, rimane essenzialmente narrativa in quanto i dialoghi
vengono necessariamente inquadrati e introdotti da parti narrative che costituiscono in senso vero e proprio il
fondo o, se si vuole, la trama del discorso. Del resto Aristotele riconosce ad Omero la superiorit, sugli altri poeti
epici, di intervenire personalmente il meno possibile nel suo poema, mettendo il pi delle volte in scena
personaggi caratterizzati, conformemente al compito del poeta che d'imitare il pi possibile.
[1460a]

Con ci egli sembra riconoscere implicitamente il carattere imitativo dei dialoghi omerici e quindi il carattere
misto della dizione epica, narrativa nel fondo ma drammatica nella sua dimensione maggiore.
La differenza tra la classificazione di Platone e quella d'Aristotele si riduce quindi a una semplice variazione di
terminologia: le due classificazioni convergono nell'essenziale, ossia nell'opposizione fra genere drammatico e
genere narrativo, giacch il primo viene considerato da entrambi i filosofi come pi compiutamente imitativo del
secondo accordo di fatto, in un certo senso sottolineato dal disaccordo sui valori: Platone, infatti, condanna i
poeti in quanto imitatore, a cominciare dai drammaturghi, senza far eccezione per Omero considerato ancora
troppo mimetico per un poeta narrativo, poich egli non ammette nella Citt che un poeta ideale la cui dizione
austera dovrebbe essere il meno mimetica possibile; mentre Aristotele simmetricamente pone la tragedia sopra
l'epopea e loda in Omero tutto ci che avvicina la sua scrittura alla dizione drammatica. I due sistemi sono quindi
identici, salvo un rovesciamento di valori: tanto per Platone, quanto per Aristotele, il racconto un modo
attenuato della rappresentazione letteraria e non si vede bene sulle prime che cosa potrebbe indurre a un punto
di vista diverso.
Bisogna tuttavia introdurre qui un'osservazione di cui n Platone n Aristotele sembrano essersi preoccupati
e che restituisce al racconto tutto il suo valore e la sua importanza. L'imitazione diretta, cos come funziona sulla
scena, si avvale di gesti quanto di parole. In quanto si avvale di gesti pu evidentemente rappresentare delle
azioni, ma sfugge in questo caso al piano linguistico che quello in cui si esercita l'attivit specifica del poeta. In
quanto si avvale di parole, discorsi tenuti da personaggi ( ovvio che in un'opera narrativa la parte d'imitazione
diretta si riduce a questo), non propriamente parlando rappresentativa poich si limita a riprodurre tale e quale
un discorso reale o fittizio. Possiamo dire che i versi 1520 dell'Iliade citati prima ci danno una rappresentazione
verbale degli atti di Crise, ma non possiamo dire la stessa cosa dei sette successivi; essi non rappresentano il
discorso di Crise: se si tratta di un discorso realmente pronunziato, lo ripetono, letteralmente, e se si tratta di un
discorso fittizio, altrettanto letteralmente lo costituiscono, in entrambi i casi il lavoro della rappresentazione nullo;
in entrambi i casi i cinque versi d'Omero si confondono strettamente con il discorso di Crise: non
evidentemente lo stesso per i cinque versi narrativi che precedono e che non si confondono minimamente con
gli atti di Crise: La parola cane dice William James non morde . Se si chiama imitazione poetica il fatto di
rappresentare con mezzi verbali una realt non verbale ed, eccezionalmente, verbale (cos come si chiama
imitazione pittorica il fatto di rappresentare con mezzi pittorici una realt non pittorica ed, eccezionalmente,
pittorica), bisogna ammettere che l'imitazione si trova nei cinque versi narrativi e non si trova affatto nei cinque
versi drammatici, che consistono semplicemente nell'interpolazione, dentro un testo che rappresenta degli
avvenimenti, d'un altro testo direttamente tratto da questi avvenimenti come se un pittore olandese del xvii
secolo, anticipando certi procedimenti moderni avesse messo in mezzo a una natura morta non la pittura di un
guscio d'ostrica, ma un vero guscio d'ostrica. Questo paragone semplicistico vuole fare toccare con mano il
carattere profondamente eterogeneo d'un modo d'espressione cui siamo talmente abituati da non accorgerci pi

dei suoi cambiamenti di registro, neppure di quelli pi bruschi. Secondo Platone il racconto misto , il tipo di
relazione pi corrente e pi universale, imita alternativamente, con lo stesso tono, e come direbbe Michaux
senza neppure vedere la differenza , una materia non verbale che deve effettivamente rappresentare come pu,
e una materia verbale che si rappresenta da sola e che si accontenta il pi delle volte di citare. Se si tratta di un
racconto storico rigorosamente fedele, lo storico-narratore deve s essere sensibile al cambiamento di regime,
allorch passa dallo sforzo narrativo nel riferire gli atti accaduti alla trascrizione meccanica delle parole
pronunciate, ma quando si tratta di un racconto parzialmente o totalmente fittizio, il lavoro di finzione che
concerne ugualmente contenuti verbali e contenuti non verbali probabilmente l'effetto di dissimulare la
differenza che separa i due tipi d'imitazione, di cui una , oserei dire, in presa diretta, mentre l'altra fa intervenire
un sistema piuttosto complesso di meccanismi. Anche ammettendo (il che d'altronde difficile) che immaginare
atti e immaginare parole sia frutto della medesima operazione mentale, dire questi atti e dire queste parole
sono due operazioni verbali profondamente diverse. O meglio, soltanto la prima costituisce una vera operazione,
un atto di dizione in senso platonico, comportante una serie di trasposizioni e d'equivalenze, e una serie di scelte
inevitabili fra gli elementi della storia da conservare e quelli da scartare, tra le diverse prospettive possibili, ecc.
tutte operazioni evidentemente assenti quando il poeta o lo storico si limitano a trascrivere un discorso. Si pu
certo (anzi si deve) contestare questa distinzione fra l'atto di rappresentazione mentale e l'atto di
rappresentazione verbale fra il logos e la lexis , ma questo significa contestare la teoria stessa dell'imitazione che
concepisce la finzione poetica come un simulacro di realt altrettanto trascendente il discorso che l'assume
quanto l'evento storico esterno al discorso dello storico oppure il paesaggio rappresentato al quadro che lo
rappresenta: teoria che non fa alcuna differenza tra finzione e rappresentazione poich per essa l'oggetto della
finzione si riduce a un reale finto e che aspetta di essere rappresentato. Ne viene che in questa prospettiva la
nozione stessa d'imitazione sul piano della lexis un puro miraggio che svanisce man mano che ci si avvicina: il
linguaggio non pu imitare perfettamente altro che il linguaggio, o pi precisamente un discorso pu imitare
perfettamente soltanto un discorso perfettamente identico; un discorso insomma pu imitare soltanto se stesso.
In quanto lexis, l'imitazione diretta n pi n meno una tautologia.
Ci troviamo dunque di fronte a questa conclusione inattesa, che il solo modo che la letteratura in quanto
rappresentazione conosca il racconto, equivalente verbale d'eventi non verbali e anche (come dimostra
l'esempio portato da Platone) d'eventi verbali, salvo cancellarsi in quest'ultimo caso di fronte a una citazione
diretta in cui si annulla ogni funzione rappresentativa, all'incirca come un oratore forense pu interrompere il
discorso per lasciare che il tribunale esamini personalmente una prova. La rappresentazione letteraria, la mimesis
degli antichi non quindi il racconto pi i discorsi , il racconto e soltanto il racconto. Platone opponeva
mimesis a diegesis come un'imitazione perfetta a un'imitazione imperfetta; ma l'imitazione perfetta non pi
un'imitazione, la cosa stessa, e in ultima analisi la sola imitazione quella imperfetta. La mimesis diegesis.

Narrazione e descrizione.
Ma se cos definita la rappresentazione letteraria si confonde con il racconto (in senso largo), non si riduce
per agli elementi puramente narrativi (in senso stretto) del racconto. Dobbiamo ora tenere conto, nel seno
stesso della diegesi, di una distinzione che non presente n in Platone n in Aristotele e che segner una nuova
frontiera all'interno stesso della rappresentazione. Ogni racconto comporta infatti, per quanto intimamente
mescolate e in proporzioni assai variabili, tanto rappresentazioni d'azioni e d'avvenimenti, che costituiscono la
narrazione propriamente detta, quanto rappresentazioni d'oggetti o di personaggi, che appartengono pi
specificamente a quella che oggi viene chiamata la descrizione. L'opposizione tra narrazione e descrizione,
accentuata d'altronde dalla tradizione scolastica, uno dei caratteri salienti della nostra coscienza letteraria.
Eppure si tratta di una distinzione relativamente recente di cui sarebbe interessante una volta o l'altra studiare
l'origine e gli sviluppi nella teoria e nella pratica della letteratura. Non sembra, a un primo sguardo, che sia stata
molto operante prima del xix secolo, epoca in cui l'introduzione di lunghi passi descrittivi in un genere
tipicamente narrativo come il romanzo mette in evidenza le possibilit e le esigenze del procedimento.
[La troviamo tuttavia in Boileau a proposito dell'epopea: Soyez vif et press dans vos narrations; | Soyez riche et pompeux dans vos descriptions [Sii vivace e rapido
nelle narrazioni, | ricco e pomposo nelle descrizioni] (Art Pot. III, 257-58).]

Questa persistente confusione o meglio indifferenza a distinguere, come indica molto nettamente in greco
l'uso del termine comune diegesis, dipende forse soprattutto dal diverso statuto letterario dei due tipi di
rappresentazione. In teoria evidentemente possibile concepire testi puramente descrittivi, miranti a
rappresentare un oggetto nella sua mera esistenza spaziale, al di fuori di ogni evento e anche di ogni dimensione
temporale. anzi pi facile concepire una descrizione scevra di ogni elemento narrativo che l'inverso, giacch
anche la pi sobria designazione degli elementi e delle circostanze di un processo pu gi passare per un inizio di
descrizione: una frase come La casa bianca, con il tetto d'ardesia e le persiane verdi , non comporta nessun

elemento narrativo, mentre una frase come L'uomo si avvicin al tavolo e prese un coltello , contiene almeno,
accanto ai due verbi d'azione, tre sostantivi che, per quanto poco qualificati, possono essere considerati come
descrittivi per il solo fatto che designano esseri animati o inanimati; anche un verbo pu essere pi o meno
descrittivo, nella precisione che d allo spettacolo dell'azione (basta, per convincersene, paragonare per esempio
afferr un coltello a prese un coltello ) e di conseguenza nessun verbo totalmente esente da risonanza
descrittiva. Si pu dire dunque che la descrizione pi indispensabile della narrazione, poich pi facile
descrivere senza raccontare che raccontare senza descrivere (forse perch gli oggetti possono esistere senza
movimento, ma non il movimento senza oggetti). Questa condizione di principio indica per gi la natura del
rapporto che unisce le due funzioni nella grande maggioranza dei testi letterari: la descrizione potrebbe essere
concepita anche indipendentemente dalla narrazione, ma in realt non la si trova per cos dire mai allo stato
libero; dal canto suo la narrazione non pu esistere senza descrizione, ma questa dipendenza non le impedisce di
avere costantemente la parte principale. La descrizione per natura ancilla narrationis, schiava sempre necessaria
ma sempre sottomessa, mai emancipata. Esistono generi narrativi come l'epopea, il racconto, la novella, il
romanzo, in cui la descrizione pu occupare uno spazio vastissimo, addirittura lo spazio maggiore in senso
materiale, senza cessare di essere, come per vocazione, un semplice sussidio del racconto. Non esistono in
compenso generi descrittivi e si stenta a immaginare, al di fuori dell'ambito didattico (o di finzioni semididattiche
come quelle di Jules Verne) un'opera in cui il racconto funga da sussidio alla descrizione.
Lo studio dei rapporti tra narrazione e descrizione si riduce quindi essenzialmente a considerare le funzioni
diegetiche della descrizione, ossia il fine che assolvono i brani o gli aspetti descrittivi nell'economia generale del
racconto. Senza entrare qui nei particolari di questo studio possiamo almeno riconoscere, nella tradizione
letteraria classica (da Omero sino alla fine del xix secolo), due funzioni relativamente distinte. La prima
d'ordine in un certo senso decorativo. Com' noto la retorica tradizionale colloca la descrizione, al pari delle altre
figure stilistiche, tra gli ornamenti del discorso: la descrizione ampia e particolareggiata appare in questo caso
come una
pausa o una ricreazione nel racconto, con funzione pura.mente estetica, simile a quella della scultura in un
edificio classico. L'esempio pi celebre forse la descrizione dello scudo d'Achille nel canto XVIII dell'Iliade.
[Se non altro come l'ha interpretata e imitata la tradizione classica. Bisogna per notare che la descrizione tende qui ad animarsi e quindi a
narrativizzarsi.].

probabile che proprio a questa funzione ornamentale pensi Boileau quando raccomanda la ricchezza e il
fasto in questo genere di brani. L'epoca barocca si distinta per una sorta di proliferazione dell'excursus
descrittivo, assai evidente per esempio nel Moyse sauv di Saint-Amant, e che ha finito col distruggere l'equilibrio
del poema narrativo ormai in declino.
La seconda grande funzione della descrizione, quella pi appariscente oggi poich si imposta, con Balzar,
nella tradizione del genere romanzesco, d'ordine esplicativo e simbolico insieme: i ritratti fisici, le descrizioni di
certi capi di vestiario e di certi arredamenti tendono in Balzac e nei suoi successori realisti a rivelare e insieme a
giustificare la psicologia dei personaggi, di cui sono al contempo segno, causa ed effetto. La descrizione diventa
qui quello che non era nell'epoca classica, un elemento importante dell'esposizione: si pensi alle case della
signorina Cormon nella Vieille falle o di Balthazar Clas nella Recherche de l'absolu. Tutto questo fin troppo noto
perch ci si possa permettere d'insistervi. Osserviamo soltanto che l'evoluzione delle forme narrative,
sostituendo alla descrizione ornamentale la descrizione significativa, ha mirato (almeno sino agli inizi del xx
secolo) a rafforzare il predominio del narrativo: la descrizione ha indubbiamente perduto in autonomia quello
che ha guadagnato in importanza drammatica. Quanto a certe forme del romanzo contemporaneo che sono
apparse sulle prime come tentativi per liberare il modo descrittivo dalla tirannia del racconto, non detto che
vadano davvero interpretate cos: considerata sotto questo aspetto, l'opera di Robbe-Grillet appare, se mai, pi
come un tentativo per costruire un racconto (una storia) quasi esclusivamente mediante descrizioni
impercettibilmente modificate di pagina in pagina il che pu passare al tempo stesso per una strepitosa
promozione della funzione descrittiva e per una clamorosa conferma della sua irreducibile finalit narrativa.
C' da osservare infine che tutte le differenze che separano descrizione e narrazione sono differenze di
contenuto, che non hanno, propriamente parlando, esistenza semiologica: la narrazione s'interessa d'azioni o
d'eventi considerati come puri processi, e perci pone l'accento sull'aspetto temporale e drammatico del
racconto; la descrizione invece, indugiando su certi oggetti e certi esseri colti nella loro simultaneit, e anzi
considerando i processi stessi come spettacoli, sembra sospendere il corso del tempo e contribuisce a dilatare il
racconto nello spazio. Questi due tipi di discorso sembrerebbero quindi esprimere due atteggiamenti antitetici
davanti al mondo e all'esistenza, uno pi attivo, l'altro pi contemplativo e perci, secondo un'equivalenza
tradizionale, pi poetico . Ma dal punto di vista dei modi di rappresentazione raccontare un avvenimento e
descrivere un oggetto sono due operazioni simili che impegnano le medesime facolt del linguaggio. La

differenza pi significativa sarebbe forse che la narrazione riesce a rendere, nella successione temporale del suo
discorso, la successione ugualmente temporale degli eventi, _mentre la descrizione deve modulare nel successivo
la rappresentazione d'oggetti simultanei e coesistenti nello spazio: il linguaggio narrativo si distinguerebbe cos
per una specie di coincidenza temporale col proprio oggetto, di cui il linguaggio descrittivo sarebbe
irrimediabilmente privo. Questa opposizione perde per molta della sua forza nella letteratura scritta, ove nulla
impedisce al lettore di ritornare indietro e di considerare il testo nella sua simultaneit spaziale come un analogon
dello spettacolo che descrive: i calligrammi di Apollinaire o le disposizioni grafiche del Coup de ds non fanno che
spingere all'estremo lo sfruttamento di certe possibilit latenti dell'espressione scritta. D'altra parte nessuna
narrazione, neppure quella della cronaca radiofonica, rigorosamente sincrona dell'avvenimento che riporta, e la
variet di rapporti che possono intercorrere tra il tempo della storia e il tempo del racconto finisce col ridurre la
specificit della rappresentazione narrativa. Aristotele osservava gi che uno dei vantaggi del racconto sulla
rappresentazione scenica di potere trattare varie azioni simultanee:
[1459b.]

deve per trattarle successivamente e quindi la sua situazione, le sue risorse e i suoi limiti sono analoghi a
quelli del linguaggio descrittivo.
Appare dunque chiaro che, in quanto modo della rappresentazione letteraria, la descrizione non si distingue
abbastanza nettamente dalla narrazione, n per autonomia di fini n per originalit di mezzi, perch sia necessario
rompere quell'unit narrativo-descrittiva (a dominante narrativa) che Platone e Aristotele hanno chiamato
racconto. Se la descrizione segna una frontiera del racconto, per una frontiera interna, e in ultima analisi
piuttosto incerta: si potr quindi tranquillamente includere nella nozione di racconto tutte le forme della
rappresentazione letteraria e si considerer la descrizione non come uno dei suoi modi (il che implicherebbe una
specificit di linguaggio) ma, pi modestamente, come uno dei suoi aspetti sia pure, da un certo punto di vista,
il pi avvincente.

Racconto e discorso.
Stando alla Repubblica e alla Poetica si direbbe che Platone e Aristotele abbiano voluto esplicitamente ridurre il
campo della letteratura alla sola letteratura rappresentativa: poiesis = mimesis. Se pensiamo a tutto ci che questa
decisione viene ad escludere dalla sfera del poetico, vediamo profilarsi un'ultima frontiera del racconto che
potrebbe essere la pi importante e la pi significativa. Si tratta nientemeno che della poesia lirica, satirica e
didattica: ossia, per limitarsi ai nomi che un greco del v o del iv secolo doveva conoscere: Pindaro, Alceo, Saffo,
Archiloco, Esiodo. Cos Empedocle, sebbene si serva dello stesso metro d'Omero, non considerato un poeta da
Aristotele: Bisogna chiamare Omero un poeta e l'altro pi un fisico che un poeta .
[1447b.]

Ma certamente Archiloco, Saffo, Pindaro non possono essere chiamati fisici: ci che hanno in comune tutti
gli esclusi dalla Poetica che la loro opera non consiste nell'imitazione, mediante conto o una rappresentazione
scenica, di un'azione, reale o fittizia, esterna alla persona e alla parola del poeta, ma semplicemente in un discorso
che questi tiene direttamente e a nome proprio. Pindaro canta i meriti del vincitore dei giuochi olimpici,
Archloco inveisce contro i suoi nemici politici, Esiodo d consigli agli agricoltori. Empedocle, o Parmenide,
espongono la loro teoria dell'universo: non vi qui nessuna rappresentazione, nessuna finzione, semplicemente
una parola che s'investe direttamente nel discorso dell'opera. Altrettanto si pu dire della poesia elegiaca latina e
di tutta quella che oggi chiamiamo in senso molto largo poesia lirica e, passando alla prosa, di tutto ci che
eloquenza, riflessione morale e filosofica,
[Siccome ci che conta qui la dizione, e non quello che viene detto, escluderemo da questa lista, come fa Aristotele (1447b), i dialoghi socratici di
Platone e tutte le relazioni in forma drammatica, che appartengono al campo dell'imitazione in prosa]

dissertazione scientifica o parascientifica, saggio, carteggio, diario, ecc. Tutto questo immenso campo
dell'espressione diretta sfugge, qualunque siano i modi, le costruzioni, le forme, alla riflessione della Poetica, in
quanto esso trascura la funzione rappresentativa della poesia. Abbiamo qui una nuova divisione di grande
ampiezza perch taglia in due parti d'importanza grosso modo uguale l'insieme di quella che oggi costituisce per
noi la letteraura.
Questa divisione corrisponde press'a poco alla distinzione gi proposta da Emile Benveniste
[Cap. xix: Les relations de temps dans le verbe franais, in Problmes de linguistique gnrale, pp. 237-50.]

fra racconto (o, storia) e discorso, con la differenza per che Benviste include nella categoria del discorso tutto

quello che Aristotele chiamava imitazione diretta e che consiste effettivamente, almeno nella parte verbale, in
discorsi che il poeta o il narratore attribuisce a uno dei suoi personaggi. Benveniste dimostra che certe forme
grammaticali, come il pronome io (e il suo referimento implicito tu), gli indicativi pronominali (alcuni
dimostrativi) o avverbiali (come qui, ora, ieri, oggi, domani, ecc.) e, almeno in francese, certi tempi del verbo, come il
presente, il passato prossimo o il futuro si trovano specificamente riservati al discorso, mentre il racconto in
senso stretto si contraddistingue per l'uso esclusivo della terza persona e di forme come l'aoristo (passato
remoto) e il trapassato prossimo. Qualunque siano le variazioni particolari da un idioma all'altro, tutte queste
differenze si riducono chiaramente a un'opposizione fra l'oggettivit del racconto e la soggettivit del discorso;
bisogna per precisare che si tratta in questo caso di un'oggettivit e di una soggettivit definite da criteri
d'ordine prettamente linguistico: soggettivo il discorso in cui si rivela, esplicitamente o no, la presenza di (o il
riferimento a) io, ma questo io non si definisce altro che come la persona che tiene questo discorso, allo stesso
modo in cui il presente, che per eccellenza il tempo del modo discorsivo, non si definisce altro che come il
momento in cui tenuto il discorso, poich il suo uso marca il coincidere dell'avvenimento descritto con
l'istanza di discorso che lo descrive .
[ Cap. xxi: De la subjectivit dans le langage, in Problmes de linguistique gnrale, p. 262.]

Inversamente l'oggettivit del racconto definita dall'assenza di ogni riferimento al narratore: In realt non
esiste nemmeno pi un narratore. Gli avvenimenti vengono disposti come si sono prodotti a mano a mano che
appaiono all'orizzonte della storia. Nessuno parla qui. Gli avvenimenti sembrano raccontarsi da soli .
[Ibid., p. 241]

Abbiamo indubbiamente qui una descrizione perfetta di quello che , nella sua essenza specifica e
nell'opposizione radicale a qualsiasi forma d'espressione personale del parlante, il racconto allo stato puro, quale
lo si pu idealmente concepire ed effettivamente cogliere in certi esempi privilegiati che Benveniste stesso attinge
dallo storico Glotz e da Balzar. Riportiamo qui il passo di Gambara su cui ci soffermeremo con una certa
attenzione:
Dopo un giro in galleria, il giovanotto guard alternativamente il cielo e l'orologio da polso, fece un gesto di
impazienza, entr in una tabaccheria, accese un sigaro, and a porsi di fronte a uno specchio e diede un'occhiata
al proprio abito, un po' pi sfarzoso di quanto sia consentito in Francia dalle leggi del buon gusto. Si aggiust il
bavero e il panciotto di velluto nero su cui si incrociava pi volte una di quelle grosse catene d'oro fabbricate a
Genova; poi, dopo avere gettato con un solo gesto sulla spalla sinistra il mantello foderato di velluto,
drappeggiandolo con eleganza, riprese la passeggiata senza lasciarsi distrarre dalle occhiate borghesi che riceveva.
Allorch i negozi incominciarono a illuminarsi e la notte gli parve abbastanza scura, si diresse verso la piazza del
Palais-Royal con l'atteggiamento di qualcuno che teme di essere riconosciuto, giacch rasent la piazza sino alla
fontana, per raggiungere al riparo delle carrozze l'imbocco di via Froidmanteau...
A questo livello di purezza, la dizione propria del racconto in un certo senso la transitivit assoluta del testo,
l'assenza perfetta (se si trascura qualche strappo su cui ritorneremo tra un momento) non soltanto del narratore
ma anche della narrazione stessa, attraverso l'abolizione rigorosa di ogni riferimento all'istanza di discorso che la
costituisce. Il testo qui, sotto i nostri occhi, senza che nessuno lo proferisca, senza che nessuna (o quasi) delle
informazioni che contiene esiga, per essere capita o valutata, di essere riferita alla fonte, di essere giudicata
secondo la distanza o il rapporto che ha col (dal) parlante e con (dal) l'atto del parlare. Se si paragona un tale
enunciato a una frase del tipo: Aspettavo per scrivervi d'avere una dimora fissa. Alla fine mi sono deciso:
passer l'inverno qui
[SENANCOUR, Oberman, Lettera V.]

si pu misurare fino a che punto l'autonomia del racconto si opponga alla dipendenza del discorso, le cui
determinazioni essenziali (chi lo, chi voi, quale luogo designa qui?) possono essere decifrate solo in rapporto
alle condizioni in cui stato emesso. Nel discorso qualcuno parla e la sua situazione nell'atto stesso in cui parla
la fonte delle informazioni pi importanti; nel racconto, come dice incisivamente Benveniste, nessuno parla, nel
senso che non c' mai un momento in cui dobbiamo chiederci chi parla, dove e quando, ecc., per recepire
integralmente il significato del testo.
Bisogna per aggiungere immediatamente che queste essenze del racconto e del discorso non si trovano quasi
mai allo stato puro in nessun testo: c' quasi sempre una certa proporzione di racconto nel discorso, una certa
dose di discorso nel racconto. In realt la simmetria finisce qui in quanto la contaminazione sembra poi agire
molto differentemente sui due tipi d'espressione: l'inserzione di elementi narrativi sul piano del discorso non
basta a emancipare quest'ultimo, perch essi rimangono il pi delle volte legati al riferimento al parlante, il quale
resta implicitamente presente nello sfondo e pu intervenire di nuovo quando vuole, senza che questo
reinserimento sia percepito come un intrusione . Cos per esempio leggiamo nei Mmoires d'outretombe questo
passo apparentemente oggettivo: Quando il mare era grosso e c'era tempesta, l'onda, sbattuta ai piedi del

castello dalla parte della grande spiaggia di sassi, sprizzava fino alle grandi torri. A venti piedi d'altezza sopra la
base di una di queste torri si ergeva un parapetto di granito stretto e scivoloso, inclinato, attraverso il quale si
comunicava col rivellino che proteggeva il fossato: si trattava di cogliere l'istante fra due onde, superare il punto
pericoloso prima che l'onda si frangesse e coprisse la torre... .
[ Libro I, cap. v.]

Noi sappiamo per che il narratore, rimasto momentaneamente nell'ombra durante questo passo, non si
allontanato di molto e non siamo n meravigliati n infastiditi quando riprende la parola per aggiungere: Non
uno solo di noi si rifiutava all'avventura, ma io ho visto molti impallidire prima di tentarla . La narrazione non era
veramente uscita dall'ordine del discorso in prima persona, ed esso l'aveva assorbita senza sforzo n distorsioni, e
senza smettere di essere se stesso. Invece ogni intromissione di elementi discorsivi all'interno di un racconto
avvertita ce me uno strappo al rigore del partito narrativo. Cos avviene per la breve riflessione inserita da Balzar
nel testo riferito sopra: il suo abito un po' pi sfarzoso di quanto sia consentito in Francia dalle leggi del buon gusto
Altrettanto si pu dire dell'espressione dimostrativa una di quelle catene d'oro fabbricate a Genova che contiene
evidentemente l'invito a un passaggio al presente (fabbricato corrisponde non a che si fabbricavano bens a che si
fabbricano) e di una allocuzione diretta al lettore implicitamente preso a testimonio. Altrettanto ancora si pu
dire dell'aggettivo occhiate borghesi e della locuzione avverbiale con eleganza che implicano un giudizio la cui
fonte qui chiaramente il narratore; della relativa qualcuno che teme che in latino sarebbe marcata da un
congiuntivo per la valutazione personale che comporta; e infine della congiunzione giacch rasent che
introduce una spiegazione proposta dal narratore. evidente che il racconto non integra queste parentesi
discorsive, giustamente chiamate da Georges Blin intrusioni d'autore , con la medesima facilit con cui il
discorso accoglie quelle narrative: il racconto inserito nel discorso si trasforma in elemento di discorso, il discorso
inserito nel racconto rimane discorso e costituisce una specie di cisti molto facile da riconoscere e da localizzare.
La purezza del racconto, si direbbe, pi palese di quella del discorso.
La ragione di questa dissimmetria del resto assai semplice ma rivela un carattere decisivo del racconto: il
discorso in realt non ha alcuna purezza da preservare perch il modo naturale del linguaggio, il pi ampio e il
pi universale, aperto per definizione a tutte le forme; il racconto invece un modo particolare, marcato, definito
da un certo numero d'esclusioni e di condizioni restrittive (rifiuto del presente, della prima persona, ecc.). Il
discorso pu raccontare senza smettere di essere discorso, il racconto non pu discorrere senza snaturarsi.
Ma non pu neppure astenersene senza finire con l'essere arido e monco: ecco perch si pu dire che il racconto
non esiste mai nella sua forma rigorosa. La minima osservazione di carattere generale, il minimo aggettivo che
non sia semplicemente descrittivo, il pi discreto paragone, il pi modesto forse, la pi inoffensiva delle
articolazioni logiche introducono nella trama un tipo di discorso che le estraneo e come refrattario. Per studiare
particolareggiatamente questi accidenti talvolta microscopici sarebbero necessarie numerose e minuziose analisi
di testi. Uno scopo di questo studio potrebbe essere quello d'inventariare e di classificare i mezzi con cui la
letteratura narrativa (e in particolare quella romanzesca) ha cercato di organizzare in modo accettabile, all'interno
della sua particolare lexis, i delicati rapporti che intercorrono tra le esigenze del racconto e le necessit del
discorso.
Sappiamo infatti che il romanzo non mai riuscito a risolvere in modo convincente e definitivo il problema
posto da questi rapporti. A volte, come ci mostra durante l'epoca classica l'esempio di Cervantes, Scarron,
Fielding, l'autore-narratore si compiace di assumere il proprio discorso e interviene nel racconto con
un'indiscrezione ironicamente insistita, rivolgendosi al lettore col tono disinvolto della conversazione familiare; a
volte invece, come si pu ugualmente vedere nella medesima epoca, trasferisce tutte le responsabilit del discorso
su un personaggio principale che parler, ossia al tempo stesso racconter e commenter gli avvenimenti in prima
persona; il caso dei romanzi picareschi, da Lazarillo a Gil Blas, e di altre opere fittiziamente autobiografiche
come Manon Lescaut e La vie de Marianne; a volte ancora, non potendo decidersi n a parlare a nome proprio n
ad affidare quest'incarico a un unico personaggio, suddivide il discorso fra i vari attori, sia in forma di lettere
come fa spesso il romanzo nel xviii secolo (La nouvelle Hloise, Les Liaisons dangereuses), sia, alla maniera pi sciolta e
pi sottile d'un Joyce o d'un Faulkner, facendo successivamente assumere il racconto dal discorso interiore dei
personaggi principali. Il solo momento in cui l'equilibrio fra racconto e discorso sembra essere stato assunto con
perfetta buona coscienza senza scrupoli n ostentazione, evidentemente il XIX secolo, l'et classica della
narrazione oggettiva, da Balzar a Tolstj; vediamo invece fino a che punto l'epoca moderna abbia accentuato la
coscienza della difficolt, rosi da rendere certi tipi d'eloquio come fisicamente impossibili agli scrittori pi lucidi e
pi rigorosi.
Sappiamo bene per esempio come lo sforzo per portare il racconto al suo pi alto livello di purezza abbia
spinto certi scrittori americani, come Hammet o Hemingway, a escludere l'esposizione delle motivazioni
psicologiche, sempre difficili da trattare senza far ricorso a considerazioni generali di carattere discorsivo, le

qualificazioni implicanti una valutazione personale del narratore, i nessi logici, ecc., fino a ridurre la dizione
romanzesca a quella successione di frasi corte, a scatti, senza articolazioni, che Sartre riconosceva nel 1943
nell'Etranger di Camus e che abbiamo potuto ritrovare dieci anni dopo in Robbe-Grillet. Ci che stato sovente
interpretato come un'applicazione alla letteratura delle teorie behavioriste era forse soltanto l'effetto di una
sensibilit particolarmente acuta a certe incompatibilit di linguaggio. Tutte le fluttuazioni della scrittura
romanzesca contemporanea andrebbero probabilmente analizzate da questo punto di vista, e in particolare la
tendenza attuale, forse inversa alla precedente, e ben chiara in un Sollers o in un Thibaudeau per esempio, a
riassorbire il racconto nel discorso presente dello scrittore intento a scrivere, in quello che Michel Foucault
chiama il discorso legato all'atto di scrivere, contemporaneo al suo sviluppo e chiuso in esso .
[L'arri refable, L'Arc numero speciale su Jules Verne, p. 6.]

come se la letteratura avesse esaurito o sfogato tutte le possibilit del suo modo rappresentativo e volesse
ripiegarsi sul mormorio indefinito del proprio discorso. Forse il romanzo, dopo la poesia, sta per uscire
definitivamente dall'et della rappresentazione. Forse il racconto, nella singolarit negativa che gli abbiamo
riconosciuta, gi per noi, come l'arte per Hegel, una cosa del passato, che dobbiamo affrettarci a osservare nel suo
ritrarsi, prima che abbia definitivamente abbandonato il nostro orizzonte.

Verosimiglianza e motivazione

Il xvii secolo francese conobbe, in letteratura, due grandi processi di verosimiglianza. Il primo si colloca sul
terreno propriamente aristotelico della tragedia o pi esattamente, nel caso specifico, della tragicommedia :
la disputa del Cid (1637); il secondo estende la sua giurisdizione sino al racconto in prosa: la polemica della
Princesse de Cl ves (1678 ). In entrambi i casi infatti l'esame critico d'un'opera si ridusse essenzialmente a una
discussione sulla verosimiglianza di una delle azioni costitutive della vicenda: il comportamento di Chim ne nei
confronti di Rodrigo, dopo la morte del conte, la confessione fatta dalla signora di Clves al marito.
[Non torneremo qui sui particolari di queste due polemiche di cui possiamo trovare la documentazione da una parte in A. GAST, La querelle du Cid,
Paris 1898, e dall'altra nella collezione dell'annata 1678 del Mercure Galant , in VALINCOUR, Lettres sur le sujet de la Princesse de Clves (1678), edizione
curata da Cazes, Paris 1925, e nelle Conversations sur la critique de la Princesse de Clves, Paris 1679. Una lettera di Fontenelle al Mercure e un'altra di
BussyRabutin alla marchesa di Svign sono in appendice all'edizione Cazes della Princesse, Les Belles Lettres, Paris 1934, a cui rinvieranno qui tutte le
citazioni del romanzo. Sulle teorie classiche del
verosimile consultare BRAY, Formation de la dottrine classique en Frante, Nizet, Paris 1927, e SCHRER, La
dramaturgie classique en Frante, Nzet, Paris 19622.]

In entrambi i casi vediamo anche quanto la verosimiglianza si distingua dalla verit storica o particolare:
vero dice Scudry che Chim ne spos il Cd, ma non affatto verosimile che una damigella sposi l'assassino
del proprio padre
[Observations sur le Cid, in GAST, La querelle du Cid, P. 75.]

e Bussy-Rabutin: La confessione della signora di Clves al marito stravagante e pu essere fatta soltanto in
una storia vera; ma quando se ne inventa una liberamente ridicolo attribuire alla propria eroina un sentimento
cos fuori dal comune.
[La Princesse de Clves, ed. Cazes, p. 198.]

In entrambi i casi inoltre risalta chiaramente il legame stretto, anzi per meglio dire l'amalgama, tra la nozione
di verosimiglianza e quella di buona creanza, amalgama perfettamente rappresentato dalla ben nota ambiguit
(come obbligo e come probabilit) del verbo dovere: il soggetto del Cid cattivo perch Chim ne non doveva ricevere
Rodrigo dopo il duello fatale, desiderare la sua vittoria su don Sancio, accettare, sia pure tacitamente, la
prospettiva di un matrimonio, ecc.; l'azione della Princesse de Cl ves cattiva perch la signora di Cl ves non
doveva prendere il marito come confidente il che evidentemente significa che queste azioni sono contrarie ai
buoni costumi
[Come li si concepisce all'epoca. Lasciando da parte l'insulsa disputa di fondo, notiamo soltanto il carattere piuttosto aristocratico di entrambe le
critiche nel loro insieme: a proposito del Cid, lo spirito di vendetta e di piet familiare che prevalgono sui sentimenti personali, e nel caso della Princesse
l'allentamento del legame coniugale e il disprezzo d'ogni intimit affettiva tra sposi. Bernard Pingaud riassume bene (Madame de la Fayette par ellemme,
Editions du Seuil, Paris 1959, P. 145) l'opinione della maggior parte dei lettori, contrari alla confessione, con questa frase: Il modo di procedere della
signora di Cl ves sembra loro essere l'ultimo grido della borghesia.]

e al tempo stesso che sono contrarie a ogni ragionevole previsione: infrazione e accidente. L'abate

d'Aubignac, nell'escludere dalla scena un atto storico come l'assassinio di Agrippina da parte di Nerone, scrive
parimenti: Questa barbarie non soltanto parrebbe orribile a chi la vedesse, ma addirittura incredibile, per la
ragione che una cosa del genere non sarebbe dovuta accadere ; oppure ancora, in modo pi teorico: Il teatro non
rappresenta le cose come sono state ma come avrebbero dovuto essere
[ La pratique du thtre (1657), ed. Mattino, Algeri 1927, pp. 76 e 68. Il corsivo nostro.]

Sappiamo dopo Aristotele che il soggetto teatrale e, per estensione, di ogni finzione non n il vero n il
possibile, bens il verosimile, ma si tende a identificare sempre pi il verosimile col dovente essere. Questa
identificazione e l'opposizione tra verosimiglianza e verit sono enunciate contemporaneamente da P. Rapin, in
termini tipicamente platonici: La verit non fa le cose altro che come sono, la verosimiglianza le fa come
debbono essere. La verit quasi sempre imperfetta perch risulta dalla mescolanza di condizioni particolari.
Nulla nasce al mondo che nascendo non si allontani dalla perfezione della sua idea. Bisogna ricercare gli originali
e i modelli nella verosimiglianza e nei principi universali delle cose; ove nulla entra di materiale e di individuale a
corromperli .
[Rflexions sur la potique (1674), OEuvres, Amsterdam 1709, II, pp. 115-16.]

Cos le buone creanze interne si confondono con la conformit o convenienza o propriet dei costumi pretesa da
Aristotele e che evidentemente un elemento della verosimiglianza. Per la propriet dei costumi dice La
Mesnardi re il poeta deve tenere presente che non bisogna mai introdurre senza necessit assoluta n una
fanciulla valorosa, n una donna sapiente, n un servo assennato... Mettere in scena queste tre specie di persone
con queste nobili condizioni significa offendere direttamente la verosimiglianza. ordinaria... (Sempre salvo
necessit) non faccia mai di un asiatico un guerriero, di un africano un fedele, di un persiano un empio, di un
greco un verace, d'un trace un generoso, d'un tedesco un sagace, d'uno spagnolo un modesto, di un francese un
incivile .
[La potique (1639), citato da BRAY, Formation de la dottrine classique, p. 221.]

In effetti verosimiglianza e buona creanza s'incontrano in un unico criterio, vale a dire quello che
conforme all'opinione del pubblico
[RAPIN, Rflexions sur la potique, p. 114. la sua definizione del verosimile.]

Questa opinione , reale o supposta, corrisponde abbastanza precisamente a ci che chiameremmo oggi
un'ideologia, ossia un corpo di massime e di pregiudizi che costituisce al tempo stesso una visione del mondo e
un sistema di valori. Si pu dunque indifferentemente enunciare il giudizio d'inverosimiglianza in una forma
etica: Il Cid un cattivo testo drammatico perch porta come esempio il comportamento di una figlia snaturata,
[Scudry (GAST, La querelle du Cid, pp. 798o): lo scioglimento del Cid urta i buoni costumi , tutta la commedia di pessimo esempio.]

o in una forma logica, cio : Il Cid un cattivo testo drammatico perch attribuisce un comportamento
riprovevole a una fanciulla presentata come onesta.
[Chapelain (GAST, La querelle du Cid, P. 365): Il soggetto del Cid pecca proprio nella parte pi essenziale... perch... l'ossequio alla morale di una
ragazza presentata come virtuosa non salvaguardato dal poeta.]

ben chiaro per che una medesima massima sottende questi due giudizi, ossia che una ragazza non deve
sposare l'assassino del padre, o anche che una ragazza onesta non sposa l'assassino del padre; o meglio ancora e pi
modestamente che una ragazza onesta non deve sposare ecc.: il che significa che un tale fatto al limite possibile e
concepibile, ma come un accidente. Ora il teatro (la finzione) deve rappresentare solo l'essenziale. La cattiva
condotta di Chim ne, l'imprudenza della signora di Clves sono azioni stravaganti , per usare il termine cos
espressivo di Bussy, e la stravaganza un privilegio del reale.
Questo, sommariamente delineato, l'atteggiamento mentale su cui poggia esplicitamente la teoria classica del
verosimile, e implicitamente tutti i sistemi di verosimiglianza ancora in vigore nei generi popolari quali il romanzo
poliziesco, la letteratura rosa d'appendice, il western, ecc. Da un'epoca all'altra, da un genere all'altro, il contenuto
del sistema, ossia il tenore delle norme che lo costituiscono, pu variare in tutto o in parte (d'Aubignac osserva
per esempio che ci che era politicamente verosimile per i Greci, i quali erano repubblicani e ritenevano la
monarchia sempre tirannica , non pu pi essere accettato da uno spettatore francese del xvii secolo: noi ci
rifiutiamo di credere che i re possano essere cattivi ;
[Pratique du thtre, pp. 72-73.]

ci che permane e definisce il verosimile il principio formale di rispetto alla norma, ossia l'esistenza d'un
rapporto d'implicazione tra il comportamento particolare attribuito a un certo personaggio e una certa massima
generale
[Per Aristotele, com' noto, una massima l'espressione d'una generalit riguardante i comportamenti umani (Retorica II, 1394a): si tratta per qui delle
massime dell'oratore. Le massime del verosimile possono essere d'un grado molto vario di generalit, poich sappiamo bene, per esempio, che il verosimile
della commedia non quello della tragedia o dell'epopea.]

implicita e universalmente riconosciuta. Questo rapporto d'implicazione funziona anche come principio di
spiegazione: il generale determina e quindi spiega il particolare, capire il comportamento d'un personaggio (tanto
per fare un esempio) significa riferirlo a una massima accettata e al tempo stesso risalire anche dall'effetto alla
causa: Rodrigo provoca il conte perch nulla pu impedire a un giovane bennato di vendicare l'onore del padre
; inversamente un comportamento incomprensibile o stravagante allorch nessuna massima accettata pu
renderne conto. Per capire la confessione della signora di Clves bisognerebbe poterla riferire a una massima
quale: una donna onesta deve confidare tutto al marito ; nel xvii secolo questa massima non ammessa (il che
equivale a dire che non esiste); sarebbe pi accetta quest'altra, che un lettore scandalizzato propone sul Mercure
Galant : una donna deve sempre evitare di mettere in allarme il marito ; il comportamento della principessa
dunque incomprensibile nel senso preciso che un'azione senza massima. Sappiamo d'altronde che Madame de La
Fayette la prima a rivendicare, per bocca della sua eroina, la gloria un po' scandalosa di questa anomalia: Vi
far una confessione che non mai stata fatta a un marito ; e ancora: La singolarit di una simile confessione
di cui non conosceva l'esempio ; e ancora: Non c' al mondo un'altra avventura simile alla mia ; e addirittura
(bisogna qui tenere conto delle circostanze che le impongono di dissimulare davanti alla Delfina, per il termine
da notare): Questa storia non mi par quasi verosimile.
[La Princesse de Clves, pp. 109, 112, 126, 121.]

Un tale sfoggio di originalit di per se stesso una sfida allo spirito classico; bisogna tuttavia aggiungere che
l'autrice ha cercato di garantirsi da un altro lato mettendo la sua eroina in una situazione tale che la confessione
diventava l'unica via d'uscita possibile, giustificando cos col necessario (nel senso greco dell'anankaion aristotelico,
ossia l'inevitabile) quello che non era giustificato dal verosimile: poich il marito voleva obbligarla a ritornare a
corte, la signora di Clves si trova costretta a rivelargli la ragione del suo ritiro, come d'altronde aveva gi previsto:
Se il principe di Clves si ostinasse a impedirlo o a volerne conoscere le ragioni forse far a lui e a me il male di
fargliele sapere . Si vede bene per che questo tipo di motivazione non decisivo, giacch questa frase si trova
negata da quest'altra: Si chiedeva perch mai avesse fatto una cosa cos arrischiata e le pareva d'essersi
impegnata senza quasi averne avuto il proposito ;
[La Princesse de Cl ves, pp. 105, 112.]

e in effetti un proposito forzato non pi un proposito; la vera risposta al perch : perch non poteva fare
altrimenti, ma questo perch di necessit non di una grande dignit psicologica e non sembra essere stato molto
preso in considerazione nella polemica sulla confessione: nella morale classica le sole ragioni rispettabili sono
le ragioni della verosimiglianza.
Il racconto verosimile dunque un racconto le cui azioni corrispondono come altrettante applicazioni o casi
particolari a un corpo di massime riconosciute come vere dal pubblico cui esso si rivolge; queste massime per,
per il fatto stesso di essere condivise e accettate restano il pi delle volte implicite. Il rapporto tra il racconto
verosimile e il sistema di verosimiglianza cui esso si adegua dunque essenzialmente muto: le convenzioni di
genere funzionano come un sistema di forze e di costrizioni naturali, cui il racconto obbedisce come senza
percepirle, e a fortiori senza nominarle. Nel western classico, per esempio, anche le pi rigide regole di condotta
sono applicate senza essere mai spiegate, perch esse sono assolutamente scontate nel tacito contratto che esiste
tra l'opera e il suo pubblico. Il verosimile dunque qui un significato senza significante o piuttosto non ha altro
significante che l'opera stessa. Donde quel palese gradimento delle opere verosimili che spesso compensa o
supera la povert o la piattezza della loro ideologia: il relativo silenzio del loro funzionamento.
All'altro capo della catena, ossia all'estremit opposta di questo stato di verosimiglianza implicita, starebbero
le opere pi affrancate da ogni sudditanza nei confronti dell'opinione del pubblico. Qui il racconto non si preoccupa
pi di rispettare un sistema di verit generali; esso non dipende altro che da una verit particolare o da
un'immaginazione profonda. L'originalit radicale, l'indipendenza di una tale scelta si colloca s, ideologicamente,
agli antipodi del servilismo del verosimile, per i due atteggiamenti hanno un punto in comune e cio la
medesima mancanza di commenti e di giustificazioni. Citiamo soltanto come esempi di questo secondo
atteggiamento lo sdegnoso silenzio di cui si circonda, in Le rouge et le noir, il tentativo di assassinio di Julien contro
Madame de Renal, o in Vanina Vanin il matrimonio finale di Vanna col principe Savelli: queste azioni brutali non
sono, in se stesse, pi incomprensibili di molte altre e anche il pi maldestro romanziere realista avrebbe
saputo facilmente giustificarle per mezzo di una psicologia, diciamo cos, di comodo; si direbbe per che
Stendhal abbia deliberatamente scelto di conservare, o forse di conferire loro, col suo rifiuto di ogni spiegazione,
quell'indvidualt selvaggia che fa l'imprevedibile delle grandi azioni e delle grandi opere. L'accento di verit, a
mille miglia da ogni specie di realismo, non si distacca qui dal sentimento violento d'un'arbitrariet pienamente
assunta e che disdegna di giustificarsi. C' forse qualcosa di questo nella enigmatica Princesse de Clves, alla quale
BussyRabutin rimproverava d'essersi preoccupata pi di non rassomigliare agli altri romanzi che di seguire il
buon senso . Ne deriva in ogni caso questo effetto particolare che dipende forse altrettanto dalla sua parte di
classicismo (ossia di rispetto del verosimile) quanto dalla sua parte di modernismo (ossia di disprezzo delle

verosimiglianze): l'estrema riservatezza del commento e l'assenza pressocch completa di massime generali,
[Bernard Pingaud (Madame de la Fayette, p. 139) afferma il contrario, il che un po' strano, anche se si tiene conto di qualche rara massima pronunziata
da qualcuno dei personaggi, che non rientra nel nostro discorso (unica eccezione, e per questo tanto pi notevole: la serie di massime di Nemours sul
ballo, pp. 37-38).]

che pu stupire in un racconto la cui redazione finale viene a volte attribuita a La Rochefoucauld o che figura
comunque come opera di moralista . In realt nulla pi estraneo al suo stile dell'epifrase
[Il termine qui deviato dal suo senso retorico stretto (sviluppo imprevisto dato a una frase apparentemente compiuta), per designare ogni intervento
del discorso nel racconto: ossia all'incirca ci che la retorica chiamava con una parola che diventata, per altre ragioni, scomoda: epifonema.]

sentenziosa: come se le sue azioni fossero sempre o al di sotto o al di sopra di ogni commento. A questa
situazione paradossale La Princesse de Clves deve forse il suo valore esemplare come tipo ed emblema del racconto
puro.
Il modo in cui questi due estremi rappresentati dal racconto verosimile pi acquiesciente e dal racconto non
verosimile pi emancipato confluiscono in uno stesso mutismo nei confronti dei moventi e delle massime
dell'azione, l troppo evidenti, qui troppo oscuri per essere esposti, induce naturalmente a supporre nella scala
dei racconti una gradazione alla maniera pascaliana, in cui la parte del primo grado, corrispondente all'ignoranza
naturale, sarebbe tenuta dal racconto verosimile, e quella del terzo grado, l'ignoranza dotta che conosce se stessa, dal
racconto enigmatico; resterebbe da individuare il tipo di racconto di grado intermedio, ovverossia uscito dal silenzio
naturale del verosimile e non ancora giunto al silenzio profondo di quello che chiameremmo volentieri,
riprendendo il titolo d'un libro d'Yves Bonnefoy, l'Improbable. Evitando per quanto possibile di dare a questa
gradazione ogni connotazione di valore, si potrebbe collocare nella regione mediana un tipo di racconto troppo
discosto dai luoghi comuni del verosimile per riposare sul consenso dell'opinione volgare, ma nello stesso tempo
troppo attaccato all'assenso di quest'opinione per imporle senza commento certe azioni la cui ragione
rischierebbe allora di sfuggirle: racconto troppo originale (forse troppo vero ), per essere ancora trasparente al
suo pubblico, ma ancora
[Il termine non va preso in senso temporale. Se c' qui evoluzione storica, essa ben lungi dall'essere rigorosa.]

troppo timido o troppo compiacente per assumere coscientemente la propria opacit. Un racconto del
genere dovrebbe allora cercare di darsi la trasparenza che gli manca moltiplicando le spiegazioni, fornendo a ogni
occasione le massime, ignorate dal pubblico, capaci di rendere conto del comportamento dei personaggi e del
concatenarsi degli eventi, insomma inventando i suoi stessi luoghi comuni e simulando di sana pianta, per i
bisogni della propria causa, un verosimile artificiale che sarebbe la teoria questa volta necessariamente esplicita e
dichiarata della propria pratica. Questo tipo di racconto non puramente ipotetico: lo conosciamo tutti, e in
forma degradata, infarcisce ancora la letteratura dei suol inesauribili sproloqui. Meglio considerarlo qui nel suo
aspetto pi glorioso che anche quello pi pregnante e pi caratteristico: il racconto balzacchiano. Spesso sono
state irrise (e spesso anche imitate) quelle clausole pedagogiche che introducono in modo greve ma possente, i
ritorni indietro esplicativi della Comdie humaine: Ecco perch,.. Per capire quello che seguir sono forse necessarie alcune
spiegazioni... Questo abbisogna d'una spiegazione... necessario qui addentrarci in qualche spiegazione... necessario per la
comprensione di questa storia, ecc. Ma il demone esplicativo in Balzar non riguarda esclusivamente e neppure
essenzialmente l'intreccio; la sua manifestazione pi frequente e pi caratteristica proprio la giustificazione del
fatto particolare mediante una legge generale che si suppone sconosciuta o forse dimenticata dal lettore e che il
narratore deve insegnargli oppure ricordargli; donde quei triti ritornelli: Come tutte le zitelle... Quando una cortigiana...
Soltanto una duchessa... La vita di provincia, per esempio, immaginata a una distanza quasi etnografica dal lettore
parigino, occasione d'una sollecitudine didattica inesauribile: Grandet godeva a Saumur di una reputazione le
cui cause ed effetti non potranno essere valutati in tutta la loro estensione da coloro che non sono mai vissuti in
provincia... Queste parole debbono sembrare oscure a coloro che non hanno ancora osservato le abitudini
particolari delle citt divise in citt alta e citt bassa... Soltanto voi, poveri iloti di provincia per cui le distanze
sociali sonopi lunghe da percorrere che per i parigini agli occhi dei quali si accorciano di giorno in giorno... voi
soli potete capire....
[Eugnie Grandet, ed. Garnier, p. io; Illusione perdues, P. 36; ibid., p. 54.]

Compreso com'era di questa difficolt, Balzac non risparmi nulla per fondare e imporre, e sappiamo con
che risultato, un verosimile provinciale che una vera e propria antropologia della provincia francese, con le
sue strutture sociali (come abbiamo appena visto), i suoi caratteri (l'avaro provinciale tipo Grandet contrapposto
all'avaro parigino tipo Gobseck), le sue categorie professionali (vedi il procuratore legale di provincia nelle
Illusions perdues), i suoi costumi ( la vita limitata che si conduce in provincia.., i costumi probi e severi della
provincia... una di quelle guerre senza esclusione di colpi quali si conducono in provincia ), le sue caratteristiche
intellettuali ( quel genio dell'analisi che posseggono i provinciali... poich la gente di provincia calcola tutto...

com' capace di dissimulare la gente di provincia ), le sue passioni ( uno di quegli odi sordi e mortali come se ne
trova in provincia ): tutte formule
[Eugnie Grandet, Le cur de Tours, La vieille falle, Le cabinet des Antiques, passim.]

che, con molte altre, compongono come il background ideologico necessario all'intelligenza di una buona
parte della Comdie humaine. Balzac, noto, ha delle teorie su tutto ,
[CLAUDE ROY, Le commerce des classiques, Gallimard, Paris 1953, p. 191.]

ma queste teorie non sono l per il mero piacere di teorizzare, esse sono innanzi tutto al servizio del
racconto: gli servono a ogni pi sospinto di cauzione, di giustificazione, di captatio benevolentiae, tappano tutte le
falle, indicano a ogni incrocio la direzione da seguire.
Il racconto balzacchiano rimane infatti spesso piuttosto lontano da quell'infallibile concatenatio rerum che gli si
attribuisce sulla fede del suo piglio sicuro e di ci che Maurice Bard che chiama il suo apparente rigore ; il
medesimo critico nota cos nel solo Cur de Tours come la potenza del reverendo Troubert, capo occulto della
Congregazione, la pleurite di Mademoiselle Gamard e la cortesia che mette a morire il vicario generale quando si
ha bisogno della sua mozzetta siano coincidenze un po' troppo numerose perch passino inosservate .
[Balzac romancier, Plon, Paris 1945, P. 253.]

Ma non sono soltanto queste compiacenze del caso a mostrare a ogni svolta al lettore un po' diffidente quella che
Valry avrebbe chiamato la mano di Balzac. Meno evidenti, ma pi numerosi e in fondo pi importanti, gli
interventi che riguardano la determinazione dei comportamenti, individuali e collettivi, e che rivelano la volont
dell'autore di condurre l'azione, costi quel che costi, in una determinata direzione e non in un'altra. Le grandi
sequenze d'intreccio puro, intreccio mondano come l' esecuzione di Rubempr nella seconda parte delle
Illusions perdues, o giuridico come quello di Schard nella terza parte, sono piene di queste azioni decisive le cui
conseguenze potrebbero anche essere tutt'altre, di questi errori f atali che avrebbero potuto decidere della
vittoria, di queste consumate abilit che avrebbero dovuto finire in catastrofe. Quando un personaggio
balzacchiano sulla strada del successo tutti i suoi atti rendono; quando sulla china del fallimento tutti i suoi
atti gli stessi cospirano alla sua perdita:
[Nella vita degli ambiziosi e di tutti coloro che arrivano soltanto con l'appoggio degli uomini e delle circostanze, seguendo un piano di condotta pi o
meno ben programmato e mantenuto, sopraggiunge un momento cruciale in cui non si sa bene quale forza li sottopone a dure prove: rutto cede nello
stesso momento, da tutte le parti i fili si rompono o s'ingarbugliano, in ogni punto si mostra la sfortuna (Illusions perdues, P. 506). In Balzac, questa forza si
chiama spesso Balzac.]

non c' migliore esempio dell'incertezza e della reversibilit delle cose umane. Balzac per non si rassegna a
riconoscere quest'indeterminatezza di cui tuttavia approfitta senza scrupoli, e meno ancora a lasciare vedere il
modo in cui egli stesso manipola il corso degli eventi: e qui appunto intervengono le giustificazioni teoriche.
Spesso riconosce egli stesso in Eugnie Grandet
[Eugnie Grandet, p. 122. Il corsivo nostro.]

certe azioni della vita umana appaiono, letteralmente parlando, inverosimili, bench vere. Ma ci non avviene forse
perch quasi sempre si omette di spandere sulle nostre decisioni spontanee una sorta di luce psicologica, evitando
cos di spiegare le ragioni misteriosamente concepite che le hanno rese necessarie?... Molti preferiscono negare gli
eventi piuttosto che misurare la forza dei legami, dei nodi, dei vincoli che saldano segretamente un fatto a un
altro nell'ordine morale . chiaro che qui la funzione della luce psicologica proprio quella di scongiurare
l'inverosimile rivelando o presupponendo i legami, i nodi, i vincoli che assicurano bene o male la coerenza di
quello che Balzac chiama l'ordine morale. Di qui quegli entimemi caratteristici del discorso balzacchiano che
fanno la gioia dei conoscitori e che a volte riescono solo a malapena a dissimulare la loro fun. zione di
tappabuchi. Cos, ad esempio, perch Mademoiselle Cormon non indovina i sentimenti di Athanase Granson?
Capace d'inventare quelle raffinatezze di grandezza sentimentale che l'avevano inizialmente perduta, non le
riconosceva in Athanase. Questo fenomeno morale non sembrer straordinario a quanti sanno che le qualit del cuore sono
altrettanto indipendenti da quelle dello spirito quanto le facolt del genio lo sono dalle nobilt dell'anima. Gli
uomini completi sono rari come Socrate, ecc. .
[ La vieille fille, p. 101 Il corsivo nostro.]

Perch Birotteau non pienamente soddisfatto della sua esistenza dopo avere ricevuto l'eredit di Chapeloud?
Bench gli fosse toccato in sorte il benessere da tutti desiderato e che aveva spesso sognato, siccome riesce difficile a
tutti, e persino a un prete vivere senza un ideale, da diciotto mesi l'abate Birotteau aveva messo al posto delle due
passioni soddisfatte il desiderio di un canonicato .
[Le cur de Tours, p. 11. Seguiamo qui la concatenatio rerum sino alla fine, in cui vediamo una grande causa partorire un piccolo effetto: ... Perci la
probabilit della sua nomina, le speranze che gli avevano appena date in casa della signora di Listomre, gli facevano girare cos bene la testa che non si
ricord d'avere dimenticato il paracqua che arrivando a casa. Il corsivo nostro.]

Perch il medesimo abate Birotteau abbandona il salotto di Mademoiselle Gamard (la qual cosa, come noto,
all'origine del dramma)? La causa di questa diserzione facile da capire.
[Bell'esempio di denegazione .]

Bench il vicario fosse uno di quelli cui il paradiso dovr un giorno appartenere in virt della sentenza: Beati i
poveri di spirito! non era capace, come molti sciocchi, di sopportare la noia che gli procuravano altri sciocchi. Le
persone prive di spirito assomigliano all'erba cattiva che si compiace dei terreni godono fertili, e godono tanto
pi a essere divertite in quanto vanno soggette alla noia .
[Le cur de Tours, P. 23. Il corsivo nostro.]

evidente che in caso di bisogno si potrebbe benissimo dire il contrario e non ci sono massime che richiamino
pi irresistibilmente il rovesciamento ducassiano. Se fosse stato necessario Mademoiselle Cormon avrebbe
riconosciuto in Athanase le sue stesse delicatezze, perch i grandi pensieri vengono dal cuore; Birotteau si sarebbe
accontentato del suo appartamento perch uno sciocco non ha abbastanza stoffa per essere ambizioso; si sarebbe trovato a
suo agio nel salotto beota della signorina Gamard perch asinus asinum fricat, ecc. Succede d'altronde che lo stesso
dato comporti successivamente due conseguenze opposte, a distanza di qualche riga: Siccome la natura degli
spiriti gretti E induce a scrutare le minuzie, egli si abbandon subito a grandi riflessioni su questi quattro
avvenimenti che per altro sarebbero risultati impercettibili ; ma: Il vicario aveva ormai riconosciuto, un po'
tardi in verit,
[La vera ragione di questo ritardo che a Balzac serviva un inizio in mediar res.]

i segni di una persecuzione sorda... le cui malvagie intenzioni sarebbero state probabilmente indovinate assai
prima da una mente acuta .
[Le cur de Tours, pp. 13 e 14.]

O ancora: Con quella sagacia indagatrice propria dei preti avvezzi a dirigere le coscienze e a scavare dei nulla in
fondo al confessionale, l'abate Birotteau... ; ma: L'abate Birotteau... che non aveva nessuna esperienza del
mondo e dei suoi costumi, e che viveva tra la messa e il confessionale, grandemente occupato a decidere i pi
lievi casi di coscienza, nella sua veste di confessore delle collegiali della citt e di alcune anime belle che
l'apprezzavano, l'abate Birotteau poteva essere considerato un bambinone .
[Ibid., pp. 14 e 16.]

C' naturalmente una certa trascuratezza in queste piccole contraddizioni che Balzac avrebbe facilmente
eliminato se se ne fosse accorto: per questi lapsus rivelano anche delle profonde ambivalenze che la logica
del racconto non riesce a ridurre altro che in superficie. L'abate Troubert ha successo perch a cinquant'anni
decide di dissimulare e di fare dimenticare la sua ambizione e le sue capacit e di farsi passare per gravemente
ammalato, come Sisto V, ma una cos brusca conversione potrebbe anche suscitare la diffidenza del clero turingio
(e suscita quella del reverendo Chapeloud); d'altra parte riesce anche perch la Congregazione ha fatto di lui il
proconsole segreto della Turenna ; perch questa scelta? a causa della posizione del canonico in mezzo al
senato femminile che con tanta sottigliezza faceva la polizia della provincia , a causa anche della sua capacit
personale :
[Le cur de Tours, P. 72.]

vediamo qui come altrove che la capacit d'un personaggio un'arma a doppio taglio: ragione per innalzarlo,
ragione per diffidarne e dunque per abbatterlo. Simili ambivalenze di motivazione lasciano quindi intera la libert
del romanziere a patto per lui d'insistere, per via d'epifrase, ora su un valore ora su un altro. Tra un imbecille e un
intrigante consumato, per esempio, la partita pari: secondo quello che decide l'autore il furbo la spunter grazie
alla propria abilit ( la lezione del Cur de Tours), oppure sar vittima di questa stessa abilit ( la lezione della
Vieille falle). Una donna schernita pu a volont vendicarsi per dispetto o perdonare per amore: la signora di
Bargeton finisce pi o meno col fare successivamente onore a entrambe le possibilit nelle Illusione perdues. Poich
qualsiasi sentimento pu benissimo, a livello della psicologia romanzesca, giustificare qualsiasi condotta, le
determinazioni sono quasi sempre, qui, delle pseudo-determinazioni; e sembrerebbe quasi che Balzac, conscio e
preoccupato di questa compromettente libert, abbia tentato di dissimularla moltiplicando un po' a caso i perch, i
dunque, i perci, tutte quelle motivazioni che chiameremmo volentieri pseudosoggettive (come Spitzer chiamava
pseudooggettive le motivazioni attribuite da CharlesLouis Philippe ai suoi personaggi), e la cui abbondanza
sospetta non fa secondo noi che sottolineare in ultima analisi, quello che esse vorrebbero mascherare: l'arbitrariet
del racconto.
A questo disperato tentativo dobbiamo se non altro uno degli esempi pi avvincenti di quello che si potrebbe
chiamare l'invasione del racconto da parte del discorso. Certo in Balzac il discorso esplicativo e moralista resta
ancora il pi delle volte (e qualunque sia il piacere che ne ricavi l'autore e in via subordinata il lettore),

strettamente ancorato agli interessi del racconto, e la bilancia tra queste due forme della parola romanzesca
sembra restare in equilibrio; tuttavia anche se tenuto a freno da un autore loquace ma pur sempre attaccato al
movimento drammatico, il discorso si dilata, prolifera e sembra spesso sul punto di soffocare il corso degli eventi
che ha il compito d'illuminare. Tanto che il predominio del narrativo si trova gi ad essere, se non contestato,
almeno minacciato, in quest'opera peraltro considerata sinonimo di romanzo tradizionale. Un passo ancora e
l'azione drammatica passer in secondo piano, il racconto perder la sua pertinenza a vantaggio del discorso:
preludio alla dissoluzione del genere romanzesco e all'avvento della letteratura, nel senso moderno del termine. Da
Balzac a Proust, per esempio, c' meno distanza di quanto si creda e Proust d'altronde lo sapeva meglio di
chiunque altro.
Ritorniamo ora alle nostre due dispute sulla verosimiglianza. In mezzo a quelle testimonianze cos impregnate
d'illusione realista giacch si discute per sapere se Chim ne o Madame de Cl ves hanno avuto torto o ragione ad
agire come hanno fatto, in attesa di interrogarsi, due secoli dopo, sui loro veri moventi
[Esempio di tale atteggiamento, Jacques Chardonne: Questa confessione fu criticata nel xvii secolo. Fu trovata crudele e soprattutto inverosimile. C'
un'unica spiegazione: un atto sventato. Ma una simile sventatezza possibile soltanto se una donna ama il marito. E subito sopra: La signora di Clves
non ama molto (il marito). Crede d'amarlo. Ma l'ama meno di quanto non creda. E tuttavia l'ama molto di pi di quanto non sappia. Queste incertezze
intime fanno la complessit e tutto il movimento dei sentimenti reali (Tableau de la littrature franaise xviie et xviiie si cles (...) de Corneille Chnier, Gallimard,
Paris 1939, P. 128). La spiegazione seducente; ha soltanto il difetto di dimenticare che i sentimenti della signora di Clves per il marito come per
Nemours non sono dei sentimenti reali, ma dei sentimenti di finzione e di linguaggio: ossia dei sentimenti che la totalit degli enunciati attraverso cui il
racconto li significa esaurisce completamente. Interrogarsi sulla realt (fuori dal testo) dei sentimenti della signora di Clves chimerico come domandarsi
quanti figli avesse realmente Lady Macbeth, o se Don Chiscotte avesse davvero letto Cervantes. certamente legittimo cercare il significato profondo d'un atto
come quello della signora di Clves, considerato come un lapsus (una sventatezza) che rimanda a qualche realt pi oscura: ma allora, lo si voglia o no,
non la psicanalisi della signora di Clves che viene intrapresa, ma quella di Madame de la Fayette, o (e) quella del lettore. Per esempio: Se la signora di
Clves si confida col principe di Clves, perch ama lui; ma il principe di Clves non suo marito, suo padre .]

, esamineremo ora due testi il cui tenore e i cui intenti sono molto lontani da tale atteggiamento e che
hanno in comune (nonostante grandi differenze d'estensione e di portata) una sorta di cinismo letterario
abbastanza sano. Il primo un pamphlet d'una decina di pagine, generalmente attribuito a Sorel e intitolato Le
jugement du Cid, compos par un bourgeois de Paris, marguillier de sa paroisse.
[ GAST, La querelle du Cid, pp. 230-40]

L'autore intende esprimere, contro il parere dei dotti rappresentati da Scudry, l'opinione del popolo , il
quale se ne infischia di Aristotele e decide dei pregi d'una commedia soltanto dal piacere che ne ricava: Ritengo
(Il Cid) un bel testo drammatico per questa sola ragione, che ha riscosso grandi consensi . Questo ricorso al
giudizio del pubblico sar, come sappiamo, l'atteggiamento costante degli autori classici, e in particolare di Moli
re; argomento d'altronde decisivo contro regole che pretendono di fondarsi unicamente sulla preoccupazione
dell'efficacia. Meno classica e anzi, potremmo dire, tipicamente barocca, questa precisazione che il gradimento
del Cid sta nella sua bizzarria e stravaganza . Questo piacere della bizzarria, che Corneille conferma nel suo
Examen del 166o ricordando che la visita tanto criticata di Rodtigo a Chim ne dopo la morte del Conte, provoc
un certo fremito nell'assemblea che rivelava una stupefacente curiosit e un subitaneo aumento d'interesse e
d'attenzione , sembra proprio provare che l'essere conformi all'opinione non il solo mezzo per ottenere l'adesione
del pubblico: di qui alla distruzione di tutta la teoria del verosimile, o per lo meno alla necessit di porla su nuove
basi non corre molto. Ma ecco il punto cruciale dell'argomentazione in cui vedremo che questa difesa non
esente da una certa forma impertinente di quella che si chiamer pi tardi la messa a nudo del procedimento: So bene
dice Sorel che non verosimile che una ragazza voglia sposare l'assassino del padre, ma questo d adito a un
bello scambio di battute... So bene che il Re sbaglia a non fare arrestare don Gormas, invece di invitarlo a un
accomodamento, ma stando cos le cose non sarebbe morto... So che il Re doveva avere dato ordini al porto, essendo
stato avvertito dei piano dei Mori, ma se lo avesse fatto il Cid non gli avrebbe reso quel gran servizio che lo obbliga a
perdonarlo. So bene che l'Infanta un personaggio inutile, ma bisognava riempire la commedia. So bene che don Sancio
un'innocua macchietta, ma bisognava che portasse la spada per fare paura a Chimne. So bene che non c'era bisogno
che don Gormas parlasse alla serva di quello che si sarebbe deliberato al Consiglio, ma l'autore non aveva saputo farlo
dire diversamente. So bene che la scena ora il Palazzo, ora la piazza pubblica, ora la stanza di Chimne, ora
l'appartamento dell'Infanta, ora quello del Re, e tutto questo cos confuso che talvolta si passa dall'uno all'altro
come per miracolo, senza avere varcato nessuna porta: ma l'autore aveva bisogno di tutto questo .
[Il corsivo nostro.]

Nel momento culminante della polemica, a qualche settimana dal verdetto dell'Accademia, una simile difesa
era meglio perderla che trovarla; oggi per che Scudry, Chapelain e Richelieu sono morti, e Il Cid ben vivo,
possiamo riconoscere che Sorel dice parole d'oro e che egli esprime ad alta voce quello che ogni autore deve
pensare piano: all'eterno perch? della critica verosimilista la vera risposta : perch mi serve. Verosimiglianze e
convenienze sono spesso soltanto delle oneste foglie di fico, e non male di tanto in tanto che un fabbriciere
[Il marguillier che si proclama nel titolo autore del volumetto],

arrivi cos con grande scandalo delle beghine a svelare certe funzioni.
Il jugement du Cid voleva essere, pur nella sua indiscrezione, una difesa della commedia; le Lettres Madame la
Marquise de *** sur le sujet de la Princesse de Clves, di Valincour (1679), si presentano piuttosto come una critica del
romanzo; critica spesso severa nei particolari, ma la cui seriet costituisce pi un omaggio che un attacco. Il libro

si compone di tre Lettere di cui la prima riguarda il trattamento della storia e il modo in cui vengono introdotti gli eventi,
la seconda i sentimenti dei personaggi, e la terza lo stile. Tralasciando qui la terza, bisogna intanto osservare che la
seconda riprende spesso la prima e che i sentimenti non sono la cosa pi importante per Valincour. Perci la
confessione, documento fondamentale del dibattito promosso sul Mercure Galant , non gli ispira (astensione
interessante) alcun commento psicologico riguardante la Signora di Clves, ma soltanto un elogio dell'effetto
patetico prodotto dalla scena, seguito da una critica dell'atteggiamento del marito, e dal richiamo a una scena
simile in un romanzo di Mademoiselle de Villedieu. Se Valincour se la prende spesso, secondo il costume
dell'epoca, con il comportamento dei personaggi (imprudenza della signora di Clves, goffaggine e indiscrezione
del duca di Nemours, mancanza di perspicacia e precipitazione del principe di Clves, per esempio) soltanto in
quanto esso incide sul trattamento della storia, che la sua vera preoccupazione. Come Sorel, bench in modo
meno disinvolto, Valincour mette l'accento sulla funzione dei diversi episodi: abbiamo gi visto la scena della
confessione giustificata da quella che si pu chiamare la sua funzione immediata (il patetico); Valincour l'esamna
anche nella sua funzione a termine, che pi importante ancora. La principessa non soltanto confessa al marito il
sentimento che prova per un altro uomo (che non nomina: di qui il primo effetto a termine, curiosit e indagini
del principe di Cl ves); lo confessa anche, senza saperlo, a Nemours, nascosto a due passi di l, che ode tutto, e
che si riconosce da certi particolari.
[Questo risente un po' dell'Astre, dice Fontanelle (ed. Cazes, p. 197). Indubbiamente: ma il fatto che La Princesse de Cl ves, al pari dell'Astre, un
romanzo.]

Di qui impressione prodotta su Nemours, diviso fra la gioia e la disperazione; di qui confidenza da lui fatta di
tutta l'avventura a un amico, che la riferir alla sua amante, che la riferir alla Delfina, che la riferisce alla signora
di Cl ves in presenza di Nemours stesso (scena! ); di qui rimproveri della principessa al marito, che ella sospetta
naturalmente d'essere all'origine delle indiscrezioni; reciproci rimproveri del principe di Cl ves alla moglie: ecco
alcuni effetti a lunga scadenza di questa scena della confessione che sono stati e sono ancora
[Sulla particolare situazione di Nemours in quest'episodio e anche in un altro, cfr. tuttavia NICHEL BUTOR, Rpertoire, Editions de Minuit, Paris 1960,
pp. 74-78, e JEAN ROUSSET, Forme et signfccation, Corti, Paris 1962, PP. 26-27.]

trascurati dalla maggior parte dei lettori, affascinati dalla discussione sui motivi, tanto vero il fatto che il come
si spiega? serve a fare dimenticare l'a che cosa serve? Valincour invece non lo dimentica: So anche bene dice a
proposito delle confidenze di Nemours che stata messa per preparare la confusione in cui vengono a trovarsi
in seguito la signora di Cl ves e il duca di Nemours di fronte alla Delfina , e ancora: La verit che se entrambi
non avessero commesso questi errori l'avventura della camera della Delfina non sarebbe successa . Il rimprovero
che rivolge a questi mezzi soltanto di produrre i loro effetti a prezzo troppo alto e di compromettere cos, in
senso forte, l'economia del racconto: Un'avventura non costa forse troppo cara, quando costa errori di senso e di
comportamento all'eroe del libro? oppure: Peccato che essa abbia potuto essere introdotta nella storia soltanto
a spese del verosimile
[La Princesse de Cl ves, pp. 11314. Il corsivo nostro.]

Possiamo vedere che Valincour lontano dal lassismo beffardo di Sorel: gli errori contro la verosimiglianza
(imprudenze di una donna presentata come saggia, indelicatezze di un gentiluomo, ecc.) non lo lasciano
indifferente; ma invece di condannare queste inverosimiglianza in s (il che costituisce appunto l'illusione
realista), come fa uno Scudry o un Bussy, le giudica in funzione del racconto, secondo il rapporto di produttivit
che lega l'effetto al suo mezzo e le condanna soltanto nella misura in cui questo rapporto risulta deficitario. Cos,
se la scena nella stanza della Delfina costa cara, per in se stessa cos felice che il piacere che mi ha dato mi ha
fatto dimenticare tutto il resto
[La Princesse de Clves, p. 115.]

ossia l'inverosimiglianza dei mezzi: bilancia in equilibrio.


Invece per la presenza di Nemours al momento della confessione: Direi che dipendeva solo dall'autore
creargli un'occasione meno pericolosa e soprattutto pi naturale (= meno onerosa), per udire quello che voleva
che sapesse .
[Ibid., p. 110]

Stessa cosa per la morte del principe, provocata da un rapporto incompleto della sua spia che vede Nemours
entrare nottetempo nel parco di Coulommiers, ma non sa vedere (o dire) che la visita era rimasta senza
conseguenze. La spia si comporta da imbecille e il padrone da stordito e: non so se fautorenon avrebbe fatto
meglio a servirsi del suo potere assoluto per fare morire il principe di Cl ves, piuttosto di dare alla sua morte un
pretesto tanto poco verosimile come quello di non avere voluto ascoltare tutto ci che il suo gentiluomo aveva da
dirgli :
[Ibid., pp. 217-18.]

ancora un effetto che costa troppo caro; sappiamo bene che il principe di Cl ves deve morire a causa
dell'amore della moglie per Nemours, ma la connessione scelta maldestra. La legge del racconto quale la rivela

implicitamente Valincour semplice e brutale: il fine deve giustificare il mezzo. L'autore non dirige troppo
scrupolosamente la condotta dei suoi eroi: non si preoccupa che dimentichino un poco se stessi purch questo
gli prepari delle avventure ; e ancora Quando viene detto o commesso da un personaggio... quello che ci sembra
un errore, non bisogna giudicarlo come negli altri libri, come qualcosa che andrebbe tagliato; al contrario si pu
stare sicuri che messo apposta per preparare qualche evento straordinario .
[Ibid., pp. 119 e 125. Il corsivo nostro.]

La difesa dell'autore felix culpa; compito del critico non condannare l'errore a priori, ma ricercare che bene
ne venga, commisurare l'uno all'altro e decidere se il bene sia tale da scusare l'errore. E quindi il vero peccato per
lui sar l'errore senza risultato felice, ossia la scena costosa e al tempo stesso inutile come l'incontro tra la signora
di Cl ves e il duca di Nemours in un giardino dopo la morte del principe: La cosa che mi sembrata pi strana
in tutta l'avventura scoprire quanto sia inutile. A quale scopo darsi la pena di supporre un evento cos
straordinario... per concluderlo in modo cos assurdo? Si tira fuori la signora di Cl ves dalla sua solitudine, la si
porta in un luogo dove non ha l'abitudine di andare, e tutto per darle il dispiacere di vedere il duca di Nemours
uscire da una porta secondaria :
[La Princesse de Cl ves, pp. 12930.]

il giuoco non vale la candela.


Una critica cos pragmatista non certo fatta per soddisfare i patiti dell'anima, e si capisce bene che il libro di
Valincour non abbia buona stampa: aridit di cuore, grettezza di spirito, formalismo sterile, rimproveri del genere
sono in simili casi inevitabili e privi d'importanza. Cerchiamo piuttosto di estrarre da questa critica gli elementi
di una teoria funzionale del racconto e, subordinatamente, di una definizione, anch'essa funzionale (forse sarebbe
meglio dire economica) del verosimile.
Bisogna partire, come da un dato fondamentale, da quell'arbitrariet del racconto, cui abbiamo gi accennato
prima, che affascinava e disgustava Valry, da quella libert vertiginosa che ha per prima cosa il racconto
d'adottare a ogni passo una direzione o un'altra, e cio la libert, avendo gi enunciato La marchesa..., di
continuare con usci, oppure ugualmente bene con rientr, o cantava, o s'addormenta, ecc.: arbitrariet dunque di
direzione; e inoltre di rimanere fermo sul posto e di dilatarsi attraverso l'aggiunta di qualche circostanza,
informazione, indizio, catalisi
[Cfr. ROLAND BARTHES, Introduction l'analyse structurale du rcit, in Communications , n. 8, p. g.]

(e cio la facolt di proporre dopo La marchesa... degli enunciati come de Svigne, oppure una donna alta, magra e
altera, oppure chiese la sua vettura e...): arbitrariet d'espansione. Sarebbe forse interessante scrivere una volta un'opera
che mostrasse in ogni connessione tutta la diversit che pu presentarsi allo spirito e in mezzo alla quale questo
sceglie la sequenza unica che passer nel testo. Ci significherebbe sostituire all'illusione di una determinazione
unica e imtatrice del reale quella del possibileo,ognimomento che mi sembra pi vera .
[VALRY, OEuvres, Biblioth que de la Pliade, I, Gallimard, Paris 1957, P. 1467.]

Bisogna tuttavia osservare che questa libert non in realt infinita, e che il possibile di ogni momento
soggetto a un certo numero di restrizioni combinatorie paragonabili a quelle che impone la correttezza sintattica
e semantica d'una frase: anche il racconto ha i suoi criteri di grammaticalit , che fan s per esempio che dopo
l'enunciato: La marchesa chiese la vettura e... ci si aspetter piuttosto: usc per fare una passeggiata che: si mise a letto.
comunque pi giusto come metodo considerare il racconto come totalmente libero all'inizio, poi registrare
le sue diverse determinazioni come altrettante restrizioni accumulate, piuttosto che postulare in partenza una
determinazione unica e imitatrice del reale . Inoltre bisogna ammettere che quelle che appaiono al lettore come
tante determinazioni meccaniche non sono state prodotte come tali dal narratore. Avendo scritto: La marchesa,
disperata..., non probabilmente altrettanto libero di concludere con: ... ordin una bottiglia di champagne che con:
prese una pistola e si fece saltare le cervella; in realt per le cose non si svolgono affatto cos: scrivendo La marchesa...,
l'autore sa gi se terminer la scena con una baldoria o con un suicidio, e quindi sceglie il centro in funzione della
fine. Contrariamente a quanto suggerisce il punto di vista del lettore, non dunque disperata che determina la
pistola, bens proprio la pistola che determina disperata. Per ritornare ad esempi pi canonici, il principe di Clves
non muore perch il suo gentiluomo si comporta stupidamente, bens il gentiluomo si comporta stupidamente
perch l'autore vuole fare morire il principe di Clves e questa finalit del racconto l'ultima ratio di ogni suo
elemento. Citiamo un'ultima volta Valincour:
Quando un autore fa un romanzo lo guarda come un piccolo mondo creato da lui; e considera tutti i

personaggi come creature sue di cui il padrone assoluto. Egli pu attribuire loro pregi e ricchezze finch vuole,
farli morire o vivere finch gli piace, senza che nessuno di essi abbia diritto di chiedergli ragione della sua
condotta: neppure i lettori possono farlo e se c' qualcuno che biasima un autore per avere fatto morire un eroe
troppo di buon'ora perch non riesce a indovinare le ragioni che egli ha avuto, a che cosa questa morte doveva servire
nella continuazione della storia .
[VALINCOUR, Lettres, p. 216. Il corsivo nostro.]

Queste determinazioni retroattive costituiscono precisamente quella che chiamiamo l'arbitrariet del racconto,
ossia non proprio l'indeterminazione, ma la determinazione dei mezzi attraverso i fini, in parole povere delle cause
attraverso gli effetti. Questa la logica paradossale della finzione, che obbliga a definire ogni elemento, ogni unit
del racconto in base al suo carattere funzionale, ossia alla sua correlazione con un'altra unit,
[cfr. ROLAND BARTHES, Introduction l'analyse strutturale du rcit, P. 7: L'anima di ogni funzione , se cos possiamo dire, il suo germe, ci che le
permette di inseminare il racconto con un elemento che maturer pi tardi.]

e a motivare la prima (nell'ordine della temporalit narrativa) attraverso la seconda, e via di seguito per cui
l'ultima quella che regge tutte le altre e che non retta da nessuna: luogo essenziale dell'arbitrariet almeno
nell'immanenza del racconto stesso, giacch lecito in seguito cercargli tutte le determinazioni psicologiche,
storiche, estetiche, ecc. che si vorr. Secondo questo schema tutto nella Princesse de Clves, sarebbe legato a questo,
che costituirebbe appunto il suo telos: la signora di Cl ves, vedova, non sposer il duca di Nemours, che ama, cos
come tutto, in Brnice, legato all'epilogo enunciato da Tacito: invitus invitarn dimisit.
Schema, s certo, e anzi schema il cui effetto riduttivo meno avvertibile a proposito di un'opera il cui
disegno (come si sa) estremamente lineare. Esso tuttavia sacrifica quella che dianzi abbiamo chiamata la funzione
immediata di ogni episodio: ma tali funzioni non cessano per questo di essere delle funzioni e la loro reale
determinazione (la preoccupazione dell'effetto) di essere una finalit.
C' dunque in realt, e persino nel racconto pi unilineare, una sovradeterminazione funzionale sempre possibile (e
auspicabile): la confessione della signora di Clves detiene cos, oltre alla sua funzione a lunga scadenza
nell'intreccio, un gran numero di funzioni a breve e media scadenza, di cui abbiamo visto le principali. Possono
anche esistere forme di racconto la cui finalit si esercita non attraverso un concatenamento lineare ma attraverso
una determinazione a fasci: tali le avventure di Don Chisciotte nella prima parte del romanzo, le quali pi che
determinarsi l'una con l'altra sono tutte determinate (apparentemente, ricordiamolo, poich la determinazione
reale inversa) dalla follia del cavaliere, che detiene un fascio di funzioni i cui effetti saranno scaglionati nel
tempo del racconto ma che logicamente sono sul medesimo piano. Esistono certamente altri schemi funzionali
possibili, ed esistono anche delle funzioni estetiche diffuse il cui punto d'applicazione resta fluttuante e
apparentemente indeterminato. Non si potrebbe certo dire senza danno per la verit dell'opera che il telos della
Chartreuse de Parure che Fabrizio del Dongo muoia in un convento a due leghe da Sacca, o quello di Madame
Bovary che Homais riceva la legion d'onore e neppure che Bovary muoia solo e disilluso sotto il pergolato, e
neppure... La vera funzione globale di ciascuna di queste opere ce la indicano abbastanza giustamente
[Non bisogna tuttavia confondere funzione e intenzione: una funzione pu essere in larga misura involontaria, un'intenzione pu fallire o essere
trascesa dalla realt dell'opera: l'intenzione globale di Balzar nella Comde humaine era, come si sa, di fare concorrenza allo stato civile.]

gli autori stessi: quella di Bovary di essere un romanzo color pulce, come Salammb sar color porpora; quella
della Chartreuse di dare la medesima sensazione della pittura del Correo gio e della musica di Cimarosa. Lo
studio di tali effetti supera i mezzi attuali dell'analisi strutturale del racconto,
[ Del resto la narrativit d'un'opera narrativa non esaurisce la sua esistenza, e neppure la sua letterariet. Nessun racconto letterario soltanto un
racconto.]

ma questo fatto non autorizza a ignorare il loro statuto funzionale.


Chiamiamo dunque qui arbitrariet del racconto la sua funzionalit, ma questo appellativo pu a buon diritto
sembrare mal scelto; la sua ragion d'essere sta nella volont di connotare un certo parallelismo di condizioni tra il
racconto e la lingua. Sappiamo che anche in linguistica il termine di arbitrariet, proposto da Saussure, soggetto
a contestazioni, ma ha il merito, che l'uso ha oggi reso imprescrittibile, di opporsi a un termine simmetrico che
motivazione. Il segno linguistico arbitrario anche in questo senso che esso giustificato soltanto dalla sua
funzione, e sappiamo che la motivazione del segno, e particolarmente della parola ,
[Esempio classico, citato (o inventato) da GRAMMONT, Le vers franais, P. 3: E la parola table? Sentite come rende bene l'impressione d'una superficie
piana poggiata su quattro piedi .]

nella coscienza linguistica un caso tipico d'illusione realista. Ora il termine di motivazione (motivacija) stato
felicemente introdotto (come quello di funzione) nella teoria letteraria moderna dai formalisti russi per designare
il modo in cui la funzionalit degli elementi del racconto si dissimula sotto una maschera di determinazione
causale: cos il contenuto pu non essere altro che una motivazione, ossia una giustificazione a posteriori della
forma che, in realt, lo determina: Don Chisciotte presentato come erudito per giustificare l'intromissione nel
romanzo di brani critici, l'eroe byroniano lacerato per giustificare il carattere frammentario della composizione

dei poemi di Byron, ecc.


[Cfr. V. ERLICH, Russian Formalism, Mouton, L'Aia 1964, cap. xi [trad. it. Il formalismo russo, trad. di M. Bassi, Bompiani, Milano 1966].]

La motivazione quindi l'apparenza e l'alibi causalista che si d la determinazione finalista che la regola
della finzione:
[L'importanza dell'alibi evidentemente variabile. Sembra raggiungere il massimo nel romanzo realista alla fine del xix secolo. In epoche pi antiche
(Evo Antico, Medioevo, per esempio) un livello pi rozzo o pi aristocratico del racconto non cerca si pu dire affatto di dissimulare le sue funzioni.
L'Odissea non comporta nessuna sorpresa; tutto detto in an, ticipo, e tutto ci che detto s'avvera... Questa fiducia nella realizzazione degli avvenimenti
preannunciati incide profondamente sulla nozione d'intreccio... Che cosa ha in comune l'intreccio causale che ci abituale con l'intreccio di
predestinazione proprio dell'Odissea? (TZVETAN TODOROV, Le rcit primitif, Tel Quel , n. 30, P. 55)]

il poich incaricato di fare dimenticare il in vista di che? e dunque di naturalizzare, o di realizzare (nel senso di:
fare passare per reale) la finzione, dissimulando ci che essa ha di concertato, come dice Valincour, ossia d'artificiale:
insomma di fittizio. Il rovesciamento di determinazione che trasforma il rapporto (artificiale) da mezzo a fine in
un rapporto (naturale) da causa a effetto, lo strumento vero e proprio di questa realizzazione, evidentemente
necessaria per il consumo corrente, che esige che la finzione sia presa in un'illusione, sia pure imperfetta, di realt.
C' dunque un'opposizione diametrale, dal punto di vista dell'economia del racconto, tra la funzione di una
unit e la sua motivazione. Se la sua funzione (grossolanamente parlando) ci a cui essa serve, la sua motivazione
ci che le abbisogna per dissimulare la sua funzione. In altre parole la funzione un profitto, la motivazione un
costo.
[Bisogna tuttavia tenere conto, fuori dal piano narrativo, dell'eventuale funzione immediata del discorso motivante. Una motivazione pu essere
onerosa dal punto di vista della meccanica narrativa e gratificante su un altro piano, quello estetico per esempio: ossia il piacere pi o meno ambiguo che il
lettore di Balzac trae dal discorso balzacchiano e che pu benissimo arrivare fino a eliminare del tutto il punto di vista narrativo. Non per la storia che
vengono letti SaintSimon o Michelet.]

Il rendimento di un'unit narrativa, o se si preferisce, il suo valore, sar dunque la differenza data dalla
sottrazione: funzione meno motivazione. V = FM quello che potremmo chiamare il teorema di Valincour.
[ tempo di rammentare qui che esimi studiosi attribuiscono la paternit reale delle Lettres sur la Princesse de Cl ves, non a Valincour ma al P. Bouhours.]

Non bisogna troppo ridere di questo sistema di misura, un po' spicciativo forse, ma che vale quanto un altro.
Esso fornisce in ogni caso una definizione abbastanza spedita del verosimile che tutto ci che precede ci
dispenser dal giustificare maggiormente: il verosimile una motivazione implicita e che non costa nulla. In questo caso
dunque, V = F0, ossia, se non mi sbaglio, V = F. Quando si sia sperimentata una volta l'efficacia di una tale
formula, non ci si stupisce pi del suo uso e neppure del suo abuso. Che cosa si pu immaginare di pi
economico, di pi redditizio? L'assenza di motivazione, il nudo procedimento caro ai formalisti? Ma il lettore,
umanista per essenza, psicologo per vocazione, mal respira quest'aria rarefatta; o meglio l'orrore del vuoto e
l'urgere del senso sono tali che quest'assenza di segno diventa ben presto significante. La non motivazione
diventa allora, cosa ben diversa, ma altrettanto economica, una motivazione zero. Nasce cos un nuovo verosimile,
[Se si ammette che il verosimile sia caratterizzato da M = zero. Per chi giudicasse sordido questo punto di vista economico, ricordiamo che in
matematica, tanto per fare un esempio, l'economia definisce l'eleganza.]

che il nostro, che abbiamo venerato e che pure dobbiamo bruciare: l'assenza di motivazione come motivazione.
Formuleremo ora in maniera pi agevole il discorso un po' aggrovigliato di questo capitolo:
1) Distinti tre tipi di racconto:
a) Il racconto verosimile, o a motivazione implicita, esempio: La marchesa chiese la vettura e and a passeggio .
b) Il racconto motivato, esempio: La marchesa chiese la vettura e si mise a letto, perch era molto capricciosa
(motivazione di primo grado o motivazione ristretta) o, ancora: ... perch, come tutte le marchese, era molto
capricciosa (motivazione di secondo grado, o motivazione generalizzante).
c)Il racconto arbitrario, esempio: La marchesa chiese la vettura e si mise a letto .

2) Possiamo osservare allora che formalmente nulla separa il tipo a dal tipo c. La differenza fra racconto
arbitrario e racconto verosimile dipende soltanto da un giudizio che in fondo, di qualsiasi ordine sia, rimane
sempre esterno al testo ed estremamente variabile: secondo l'ora e il luogo, ogni racconto arbitrario pu
diventare verosimile e viceversa. La sola distinzione pertinente dunque tra racconto motivato e racconto non
motivato ( arbitrario o verosimile ). Questa distinzione ci riporta, in modo evidente, all'opposizione gi
individuata tra racconto e discorso.

Il giorno, la notte
Ci proponiamo d'affrontare qui, a proposito di un caso molto limitato, lo studio di un settore ancora vergine,
o quasi, della semiotica letteraria, che vorremmo chiamare, con una locuzione volontariamente ambigua e che
non cerca di dissimulare la propria derivazione bachelardiana, la poetica del linguaggio. Non si tratterebbe tanto in
questo caso di una semiologia applicata alla letteratura quanto di un'esplorazione, in un certo senso
preletteraria, delle risorse, delle occasioni, delle inflessione, dei limiti, delle costrizioni che le lingue naturali
sembrano offrire o imporre allo scrittore e particolarmente al poeta che ne fa uso. Abbiamo detto sembrano, s,
perch il pi delle volte la materia linguistica meno data che costruita, comunque sempre interpretata e
quindi trasformata da una sorta di fantasticheria attiva che insieme azione del linguaggio sull'immaginazione e
dell'immaginazione sul linguaggio: reciprocit palese, per esempio, nelle pagine che Bachelard stesso consacra alla
fonetica acquatica di parole come rivi re, ruisseau, grenouille (fiume, ruscello, rana) ecc., nell'ultimo capitolo de l'eau:
et les rves. Queste mimologie immaginarie sono indissolubilmente, come quelle che Proust ci ha lasciato, tra
l'altro, in una celebre pagina di Swann, fantasticherie di parole
[S, davvero, le parole sognano (BACHELARD, La potique de la rverie, Presses Universitaires de France, Paris 1961, p. 16).]

e fantasticherie sulle parole, suggerimenti fatti dalla lingua e alla lingua, immaginazione del linguaggio nel duplice
senso, oggettivo e soggettivo, che possiamo dare qui al complemento di specificazione.
Vorremmo quindi esplorare, animati da questo spirito e in via in un certo senso sperimentale, il semantismo
im maginario d'un sistema parziale e molto elementare, ma che per la sua frequenza, la sua ubiquit, la sua
importanza cosmica, esistenziale e simbolica pu assurgere a valore d'esempio: si tratta della coppia formata,
nella lingua francese moderna, dalle parole jour (giorno) e nuit (notte). Non evidentemente il caso qui di pretendere
l'esaustivit e neppure di stabilire un campione veramente rappresentativo. Si tratta pi modestamente, e in
modo affatto artigianale, di riconoscere e di abbozzare la configurazione di una particella (infima, ma centrale)
dello spazio verbale all'interno del quale la letteratura trova il suo posto, il suo ordine e il suo giuoco.
Coppia di parole, giacch ed la prima osservazione che ci si impone i due termini sono chiaramente
uniti da una relazione molto forte che non lascia loro nessun valore autonomo. Dobbiamo dunque per prima
cosa prendere nota di questo rapporto d'implicazione reciproca che designa con evidenza immediata e massiccia
il giorno e la notte come due contrari . Dobbiamo anche osservare che quest'opposizione non nelle cose,
non tra i referenti , giacch in fondo nessun oggetto al mondo pu essere realmente considerato come il
contrario d'un altro; l'opposizione soltanto tra i significati: la lingua qui che fa una divisione netta, imponendo
una discontinuit che le propria a realt che di per s non ne comportano affatto. La Natura, almeno alle nostre
latitudini, passa insensibilmente dal giorno alla notte; la lingua invece non pu passare insensibilmente da una
parola all'altra: tra giorno e notte pu introdurre qualche vocabolo intermedio come alba, crepuscolo, ecc., ma non
pu dire contemporaneamente giorno e notte, un po' giorno e un po' notte. O almeno, nello stesso modo in cui
l'articolazione intermedia tra /b/ e /p/ non permette di designare nare un concetto intermedio tra bi re e
pierre
[MARTINET, Elments de linguistique gnrale, Armand Colin, Paris 1960, p. 28 [ trad. it. Elementi di linguistica generale, Laterza, Bari 1966]

in francese oppure tra bollo e pollo in italiano, la mescolanza sempre possibile dei significanti non
comporta una mescolanza dei significati: il segno totale una quantit discreta. Aggiungiamo ancora che
quest'opposizione si trova rafforzata, in francese, dall'isolamento di ciascun vocabolo: un'antonimia
evidentemente tanto pi netta quanto pi contrappone due termini sprovvisti di sinonimi. Se per esempio
vogliamo designare l'antonimo di lumire (luce) possiamo esitare tra ombre (ombra), obscurit (oscurit) e magari ten
bres (tenebre), e reciprocamente per fare antitesi a obscurit possiamo scegliere tra lumire e clart (chiarore) per quello
che concerne jour e nuit non possibile nessuna incertezza, in nessun senso.
Questa drastica opposizione non esaurisce per la relazione che unisce i due termini e, nonostante il suo
carattere d'evidenza immediata, non probabilmente neppure il primo tratto che un'analisi semantica rigorosa
dovrebbe prendere in considerazione. In effetti l'opposizione tra due termini non acquista un senso se non in
rapporto a ci che fonda il loro accostamento e che il loro elemento comune: la fonologia ci ha insegnato che,
in linguistica come altrove, la differenza pertinente soltanto su un fondo di rassomiglianza. Ebbene, se
vogliamo definire la notte con un minimo di precisione dobbiamo dire che , all'interno della durata di
ventiquattr'ore determinata dalla rotazione della terra, la frazione che passa tra il tramonto e il sorgere visibili del
sole, e inversamente definiremo il giorno come quella frazione della medesima durata totale, compresa tra il
sorgere e il calare del sole. L'elemento comune di significazione quindi l'inclusione nella durata di

ventiquattr'ore. Ci imbattiamo per qui nel primo paradosso del nostro sistema: infatti per designare questo
elemento comune senza ricorrere a una perifrasi, la lingua francese, come tutti sanno, dispone di un solo lessema,
che evidentemente la parola jour (giorno), ed dunque lecito dire che la notte la frazione del giorno compresa,
ecc. . In altre parole la relazione tra jour e nuit non soltanto d'opposizione, e quindi di reciproca esclusione, ma
anche d'inclusione: in uno dei suoi significati il giorno esclude la notte, nell'altro la comprende poich allora ,
come dice Blanchot, il tutto del giorno e della notte .
[L'espace littraire, Gallimard, Paris 1955, P. 174 [trad. it. Lo spazio letterario, trad. di G. Zanobetti, con un saggio di J. Pfeiffer e una nota di G. Neri,
Einaudi, Torino 1967].]

Abbiamo dunque qui un paradigma a due termini, uno dei quali serve a definire l'insieme del paradigma.
Questa situazione difettiva, frequentissima d'altronde, pu apparire in questo caso priva di pertinenza, visto
che il contesto provvede di solito, anche in poesia, a eliminare gli equivoci pi gravi, e quando ad esempio Racine
contrappone
La lumire du jour, les ombres de la nuit
[La luce del giorno, le ombre della notte]

il lettore sa subito in che senso deve prendere la parola giorno.


Bisogna per andare pi lontano e considerare la ragione di questa polisemia che invece non pu non avere
un'incidenza sul discorso. Un paradigma difettivo sempre, a quanto pare, la traccia d'una dssimmetria
semantica profonda tra i suoi termini. La confusione lessematica tra il giorno in senso ristretto e quello che
potremmo chiamare l'archigiorno indica chiaramente che l'opposizione tra giorno e notte una di quelle
opposizioni che i fonologi chiamano privative, tra un termine marcato e un termine non marcato. Il termine non
marcato, quello che fa tutt'uno col paradigma, il giorno; il termine marcato, quello che marchiamo e
rimarchiamo, la notte. Il giorno viene cos designato come il termine normale, il versante non specificato
dell'archigiorno, quello che non ha bisogno di essere specificato perch gi ovvio, perch l'essenziale; la notte
invece rappresenta l'accidente, la divergenza, l'alterazione. Facendo ricorso a un paragone un po' sommario, ma
che s'impone, e di cui ritroveremo pi avanti altre implicazioni, diremo che il rapporto tra giorno e notte
omologo, su questo piano, al rapporto tra uomo e donna che traduce il medesimo complesso di valorizzazioni
contraddittorie e complementari: infatti se da un lato il giorno si trova valorizzato in quanto termine forte del
paradigma, dall'altro la notte si trova in altro modo valorizzata in quanto termine marcato, significativo per la sua
divergenza e la sua alterit, e crediamo di non anticipare troppo sulla disamina dei testi dicendo fin d'ora che
l'immaginazione poetica s'interessa pi della notte che del giorno. Vedremo pi avanti qualcuna delle forme che
pu assumere questa valorizzazione secondaria e inversa che cerca di compensare la valorizzazione primaria
cristallizzata nella lingua; prendiamo almeno nota per il momento di questo fatto caratteristico: quando la poesia
paragona fra loro il giorno e la notte, il paragone, sia esso esplicito oppure implicito in una metafora, opera quasi
sempre nella stessa direzione che , come sappiamo, di riferire il meno noto al pi noto, il meno naturale al pi
naturale, l'accidentale all'essenziale, ossia, in questo caso, la notte al giorno. Quando si scrive:
Et nous avons des nuits plus belles que vos jours
[E abbiamo notti belle pi dei vostri giorni].

quando si nominano le stelle, questi fiori dell'ombra, la notte appunto allora il paragonato , ossia il soggetto del
paragone, e il giorno soltanto il paragonante , ossia il mezzo. Il percorso inverso sembra molto pi raro: c',
s, quel giorno nero pi triste delle notti, al quarto verso dell'ultimo Spleen, ma si vede subito tutto quello che c' di
paradossale, d'abbastanza paradossale per ispirare un paragone contro natura. Abbiamo ancora in Michel Deguy
un esempio che solo apparentemente anomalo, e che in realt conferma sottilmente la regola:
Au coeur de la nut le jour Nuit de la nuit
[In mezzo alla notte il giorno | Notte della notte...] Oui dire, P. 35

Qui certo il giorno che viene paragonato alla notte, definito in rapporto alla notte, come in genere viene
definita la notte in rapporto al giorno; ma la notte a scatola cinese, la notte della notte, l'alterazione
dell'alterazione: resta la norma. Nessun poeta, penso, avrebbe spontaneamente scritto all'inverso: la notte, giorno del
giorno, perch una metafora del genere sarebbe inconcepibile: la negazione della negazione pu essere
affermazione, ma l'affermazione dell'affermazione non pu mai produrre alcuna negazione. L'algebra dice pi
semplicemente: meno per meno fa pi, ma pi per pi fa sempre pi. La notte della notte pu essere il giorno,
ma il giorno del giorno ancora il giorno... Cos la coppia giorno/notte non oppone due contrari a pari diritto,
perch la notte molto pi il contrario del giorno di quanto il giorno non sia il contrario della notte. La notte in
realt soltanto l'altro del giorno, o anche, come stato detto
[GILBERT DURANO, Structures anthropologiques de l'imaginaire, P. 512.]

con parola spiccia e decisiva, il suo rovescio. E questo evidentemente senza reciproco.

Ecco perch la valorizzazione poetica della notte quasi sempre sentita come una reazione, come una
controvalorizzazione. Amata o temuta, esaltata o esorcizzata, la notte ci di cui si parla: ma si direbbe che questa
parola non possa fare a meno del giorno. Si potrebbe parlare del giorno senza pensare alla notte, non si pu
invece parlare della notte senza pensare al giorno: La notte dice Blanchot non parla che del giorno .
[L'espace littraire.]

Esaltare la notte significa quasi per forza prendersela col giorno e questo inevitabile riferimento un
omaggio involontario a quella dominanza che si vorrebbe contestare... Ne troviamo un esempio caratteristico in
quell'inno alla notte che conclude Le porche du mystre de la deuxi me vertu. Qui la controvalorizzazione spinta
all'estremo poich l'autore, con l'ostinazione retorica che gli propria, si sforza di stabilire contro il giorno la
preminenza della notte, come priorit di fatto ( Ti ho creata per prima ) e come supremazia di diritto,
riducendo il giorno a una specie d'infrazione, a uno strappo irrisorio nella grande coltre notturna: Continua la
notte... la notte che fa un lungo tessuto continuo, un tessuto continuo, senza fine in cui i giorni sono soltanto
dei giorni, si aprono come dei giorni, ossia come buchi in una stoffa trapunta a giorno . Questa rivendicazione
dell'essenzialit a favore della notte, questa relegazione del giorno nell'accidente acquistano un risalto particolare
nell'opposizione tra singolare e plurale: prendendo alla rovescia, a quel che sembra, l'andamento normale della
lingua, che contrappone per esempio l'astro del giorno all'astro delle notti, il Dio di Pguy non vuole conoscere che i
giorni e la notte: O Notte, tu sei la notte. E tutti i giorni insieme non sono mai il giorno, sono sempre soltanto dei
giorni . Ma chi non vede al tempo stesso che proprio quest'ostinazione a glorificare la notte a spese del giorno
smentisce quell'autonomia che il suo discorso vorrebbe fare riconoscere? In fondo ci che questa pia sofistica
non arriva a dissimulare, giacch il linguaggio rivela sempre quello che vuole nascondere, che la preferenza
accordata alla notte non , come essa pretende, una scelta lecita e sanzionata (santificata) dall'adesione divina,
bens una scelta colpevole, un partito preso del proibito, una trasgressione.
Questa dissimmetria evidentemente fondamentale nell'opposizione dei due significati. Se si volesse
sviscerare sino in fondo questa opposizione, bisognerebbe studiare ancora altri squilibri meno immediatamente
percepibili. In realt la sola relazione semica davvero simmetrica quella che contrappone il giorno e la notte sul
piano temporale, come frazioni separate dal sorgere e dal calare del sole, e anche, metaforicamente, come simboli
della vita e della morte. In compenso l'antitesi tra il giorno come luce e la notte come oscurit pi zoppicante:
in effetti, jour sinonimo di luce nel linguaggio comune, per una metonimia d'uso assolutamente corrente in
francese, quando si dice per esempio laisser entrer le jour dans une pi ce; nuit invece pu designare l'oscurit, come ne
la nuit du tombeau solo per una decisione stilistica che certamente deriva anch'essa da un uso, ma pi limitato e
specificatamente letterario (e anzi direi pi strettamente poetico e oratorio). In altre parole i rapporti semantici
iour/lumi re e nuit/obscurit sono, per quello che riguarda la pura denotazione, strettamente identici,
[A livello della sincronia, per lo meno. Lo studio delle origini apporterebbe forse maggiori precisazioni ma queste non avrebbero pertinenza per
un'analisi che riguarda tipicamente la coscienza linguistica del francese moderno , che non sembra (ma quest'impressione avrebbe bisogno di essere
verificata pi da vicino) avere subito notevoli variazioni su questo punto da quattro secoli in qua. Cos non abbiamo bisogno di chiederci se il significato
luce anteriore o posteriore al significato temporale di giorno e neppure se l'etimologia ossia la ricerca attraverso il latino delle radici indoeuropee
lascia un senso alla questione: sufficiente che la coscienza linguistica attuale percepisca il seme luminoso come secondo e derivato, anche se il percorso
diacronico inverso.]

ma la loro estensione e il loro livello d'uso, e quindi la loro connotazione, diversa: prendiamo nota di questa
nuova dissimmetria che ritroveremo pi avanti sotto un altro aspetto, e che gi sembra indicare, ci si perdoni se lo
diciamo esagerandone un po' l'effetto, che la coscienza linguistica sperimenta il seme oscurit come meno
essenziale alla significazione di nuit, del seme luminosit alla significazione di jour. Altro difetto di simmetria, il
senso derivato di jour in francese come apertura, soluzione di continuit, che abbiamo incontrato prima in Pguy,
non ha nessun corrispondente nel semantismo di nuit; in compenso si trover facilmente in nuit un seme spaziale
di cui invece jour sembra privo: marcher dans la nuit un enunciato pi naturale alla lingua, che marcher dans le
jour. C' una spazialit (meglio sarebbe dire spaziosit) privilegiata della notte, che dipende forse dalla dilatazione
cosmica del cielo notturno, alla quale molti poeti sono stati sensibili. Citiamo per esempio Supervielle:
... la Nuit, toujours reconnaissable
A sa grande altitude o n'atteint pas le vent.
[ [ ... La notte riconoscibile sempre I Per la sua grande altezza ove non giunge il vento]. Les amis inconnus, Gallimard, Paris 1934, P. 139.]

Il medesimo poeta ci mette sull'avviso di un altro valore metaforico di nuit, di grandissima importanza
simbolica: il senso di profondit intima, dnteriorit fisica o psichica: rimandiamo qui, per esempio, alle analisi
di Gilbert Durand, che non per niente ha posto i simboli dell'intimit nella categoria del regime notturno
dell'immagine. La spazialit notturna dunque ambivalente, la notte porosa e penetrante
contemporaneamente metafora d'esteriorit e d'interiorit, d'altezza e di profondit, e sappiamo quanto
l'intimismo cosmico di Supervielle debba a questa ambivalenza:

Nuit en moi, nuit en dehors,


Elles risquent leurs toiles,
Les mlant sans le savor...
Mais laquelle des deux nuits,
Du dehors ou du dedans?
L'ombre est une et circolante,
Le ciel, le sang ne font qu'un.
[[Notte in me, notte fuori, | Rischiano le loro stelle, | Mescolandole senza saperlo... | Ma quale delle due notti, | Quella di dentro o quella di fuori? |
L'ombra una e circolante, | Il cielo, il sangue fanno una cosa sola]. Notturne en plein jour, La fable du monde, p. 88.]

O anche:
Le jour monte, toujours une cte gravir,
Toi, tu descends en nous, sans jamais en finir,
Tu te laisses glisser, nous sommes sur ta pente,
Par toi nous devenons toiles consentantes.
Tu nous gagnes, tu cultives nos profondeurs,
O le jour ne va pas, tu pn tres sans heurts.
[ [Il giorno sale, sempre un pendio da scalare, I Tu, invece, scendi in noi, scendi senza fine, | Ti lasci scivolare, siamo sulla tua china, | Per te noi
diveniamo stelle consenzienti. | Tu ci vinci, tu lavori nel nostro profondo, | Ove il giorno non va, penetri incontrastata]. A la nuit, L'escalier, p. 57.]

Le osservazioni precedenti si situavano tutte, come abbiamo visto, a livello del significato, o per servirci
liberamente del termine di Hjelmslev designando con ci il taglio e i raggruppamenti di senso propri a uno stato
di lingua, della forma del contenuto. Considereremo ora gli effetti di senso prodotti dagli stessi significanti al di fuori
del loro semantismo esplicito, nella loro realt sonora e grafica e nelle loro determinazioni grammaticali. Simili
effetti di senso sono in linea di principio inoperanti nella funzione denotativi del linguaggio (la qual cosa non
significa che siano totalmente assenti dal suo uso corrente, il quale non manca di fare appello a quelli che Bally
chiama i valori espressivi ), ma trovano il loro pieno impiego nell'espressione letteraria, e particolarmente
nell'espressione poetica, nella misura in cui questa sfrutta, coscientemente o no, quelle che Valry chiama le
propriet sensibili del linguaggio.
Bisogna notare innanzi tutto che le parole jour e nuit considerate nella loro faccia significante sono due di
quelle parole semplici, isolate, indecomponibili, che i linguisti generalmente giudicano come le pi caratteristiche
della lingua francese; e che, contrariamente al tedesco per esempio, la schierano con l'inglese dalla parte delle
lingue pi lessicologiche che grammaticali .
[F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique gnrale, Payot, Paris-Lausanne 1922, p. 183 [trad. it. Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, ed.
riveduta, Latenza, Bari 1970]. Cfr. anche CH. BALLY, Linguistique gnrale et linguistique franaise, Francke Verlag, Berna 1950 [trad. it. Linguistica generale e
linguistica francese, trad. di G. Caravaggi, introd. di C. Segre, Il Saggiatore, Milano 1963].]

Ora, se si paragona la coppia jour/nuit ad altre coppie antonimiche quali justice/injustice o clart/obscurit in cui si
esercita il giuoco visibile degli elementi comuni e degli elementi distintivi, risulta evidente che lo stato lessicale
puro, l'assenza di ogni motivazione morfologica e quindi di ogni articolazione logica, tende ad accentuare il
carattere apparentemente naturale della relazione tra jour e nuit. Queste due parole semplici, senza morfema
reperibile, ridotte entrambe al loro radicale semantico, ma ciascuno dalla propria parte e senza alcun tratto
comune, sembrano cos contrapporsi non come due forme, ma come due sostanze, come due cose o
piuttosto, la parola s'impone da s, come due elementi. Il carattere sostanziale dei vocaboli sembra qui
corrispondere a quello dei significati, di cui contribuisce forse a suscitare l'illusione. Quando utilizza parole
derivate, a forte articolazione morfologica, quali clart o obscurit, il lavoro della poesia, nel suo sforzo generale per
naturalizzare e reificare il linguaggio, consiste nel cancellare la motivazione intellettuale a vantaggio d'associazioni
pi fisiche, e quindi pi immediatamente seducenti per l'immaginazione. Con dei lessemi elementari come jour
e nuit, questa riduzione preliminare gli viene in un certo senso risparmiata e si pu pensare che il valore poetico
di tali vocaboli dipenda in gran parte dalla loro stessa opacit, che li sottrae in anticipo a ogni motivazione
analitica e che, appunto per questo, li rende pi concreti , pi aperti alle sole fantasticherie dell'immaginazione
sensibile.
Nell'esempio di cui ci occupiamo, questi effetti legati alla forma del significante si riducono essenzialmente a
due categorie che considereremo successivamente per necessit d'esposizione, bench le azioni possano in realt
essere simultanee: si tratta innanzi tutto dei valori d'ordine fonico o grafico, e poi di quelli che dipendono
dall'appartenenza di ciascun termine della coppia a un genere grammaticale diverso.
La prima categoria si richiama a fenomeni semantici sulla cui esistenza e sul cui valore non si mai smesso di
discutere dopo il Cratilo; non potendo entrare qui in questo dibattito teorico, postuleremo come ammesse un

certo numero di posizioni che non lo sono in modo universale. Possiamo comunque prendere l'avvio da una
memorabile osservazione di Mallarm il quale, rammaricandosi che il discorso non riesca a esprimere gli oggetti
con tocchi ad essi rispondenti in colorito o andamento, tocchi esistenti nello strumento della voce , cita a
sostegno di questo rimprovero rivolto all'arbitrariet del segno due esempi convergenti, di cui uno solo fermer
qui la nostra attenzione: A ct d'ombre, opaque, tn bres se fonce peu; quelle dception, devant la perversit confrant
jour comete nuit, contradictoirement, des timbres obscur ici, l clair .
[[Accanto a ombre, opaco, tn bres incupisce poco; quale delusione di fronte alla perversit che conferisce a jour e a nuit, contraddittoriamente, dei timbri
qui oscuro, l chiaro]. OEuvres compl tes, Biblioth que de la Pleiade , Gallimard, Paris 1945, P. 364. Identica osservazione troviamo in Paulhan: La parola
nuit chiara come se volesse dire il giorno, invece la parola jour scura e cupa come se designasse la notte (OEuvres compl tes, Cercle du Livre prcieux,
Paris, tomo III [1968] 3, p. 273).]

Questa osservazione si fonda su uno del dati, diciamo meno frequentemente contestati, dell'espressivit
fonica, e cio che una vocale definita acuta come l'// semiconsonante e l'/i/ di nuit, possa richiamare, per una
sinestesia naturale, un colore chiaro o un'impressione luminosa, e che invece una vocale definita grave, come
l'/u/ di jour possa richiamare un colore cupo, un'impressione d'oscurit: virtualit espressive notevolmente
rafforzate nella situazione di coppia, in cui una specie di omologia, o proporzione a quattro termini viene a
sottolineare (o a sostituire) le corrispondenze a due termini eventualmente carenti, nel senso che, se anche si
contestano le equivalenze termine a termine /i/ = chiaro e /u/ = scuro, si ammetter con maggiore facilit la
proporzione /i/ sta a /u/ come chiaro sta a scuro. Sul conto di questi effetti sonori c' da aggiungere un'altra
osservazione, che riguarda il solo nuit, e cio che il suo vocalismo consiste in un dittongo costituito da due vocali
chiare , molto vicine di timbro, separate da una sfumatura assai leggera paragonabile diciamo a quella che
distingue lo scintillio giallo dell'oro dallo scintillio bianco dell'argento, dissonanza che ha il suo peso nella
luminosit sottile di questa parola. Bisognerebbe inoltre tenere conto di certi effetti visivi che contribuiscono a
rafforzare o a flettere il giuoco delle sonorit, giacch, come noto, la poesia e pi generalmente l'immaginazione
linguistica, non giocano soltanto su impressioni auditive, e poeti come Claudel
[Cfr. in particolare La philosophie du livre et idogrammes occidentaux (OEuvres en prose, La Pliade, pp. 68-95).]

hanno avuto ragione ad attirare l'attenzione sull'incidenza delle forme grafiche nella fantasticheria delle parole.
Come Bally dice assai bene, le parole scritte, soprattutto nelle lingue con un'ortografia capricciosa e arbitraria,
come l'inglese e il francese, assumono per l'occhio la forma d'immagini globali, di monogrammi; in pi questa
immagine visuale pu essere associata, bene o male che sia, al suo significato, cosicch il monogramma diventa
ideogramma .
[Linguistique gnrale et linguistique franaise, p. 133.]

Non quindi privo d'interesse per il nostro discorso notare tra le lettere u ed i, una sfumatura grafica analoga a
quella che abbiamo notata tra i fonemi corrispondenti, un doppio effetto d'esilit e acutezza, che la presenza
contigua delle gambe della n iniziale e dell'asta della t finale, nel suo slancio verticale, non fa che sottolineare
maggiormente: sul piano visuale come sul piano sonoro, nuit una parola leggera, viva, acuta. Dall'altra parte
bisogna se non altro notare in jour quell'effetto di pesantezza e di spessore un po' opprimente che si sprigiona dal
falso dittongo ou, e che le consonanti che lo circondano non attenuano affatto: evidente che la parola
risulterebbe pi leggera in una grafia fonetica. Infine questi richiami sinestesici vengono ad essere confermati, se
non forse provocati, da alcune di quelle associazioni chiamate lessicali che muovono da rassomiglianze foniche
e/o grafiche tra le parole per suggerire una specie d'affinit di senso, storicamente illusoria, ma di cui le
conseguenze semantiche dell' etimologia popolare dimostrano la forza di persuasione, sul piano della lingua
naturale. Questa azione probabilmente meno semplicistica e pi diffusa nel linguaggio poetico, ma questa stessa
diffusione ne accresce l'importanza, soprattutto quando la rassomiglianza formale, in posizione finale, sfruttata
e sottolineata dalla rima. Si trover cos una conferma della luminosit di nuit nella sua stretta consonanza col
verbo luire (scintillare) e pi alla lontana con lumire (luce), per cui indirettamente con lune (luna). Ugualmente la
sonorit grave di jour si rafforza per contagio paronimico con aggettivi come sourd (sordo) o lourd (denso,
pesante). Come dice pi o meno Bally, il carattere puerile o fantasioso di simili accostamenti non li rende per
questo trascurabile. Aggiungerei volentieri: anzi proprio al contrario. Esiste nel linguaggio un inconscio che
Proust e Freud, se non altro, ci hanno insegnato a considerare con tutta la seriet che merita.
Questo dunque lo scandalo linguistico di cui Mallarm si crucciava, come noto, soltanto in maniera del
tutto provvisoria e non senza averne un risarcimento perch proprio queste specie di difetti delle lingue
rendono possibile, in quanto necessario per compensarli , il verso il quale di parecchi vocaboli fa una parola
totale, nuova, estranea alla lingua e come incantatoria
[Oeuvres compl tes, p. 858.]

assegnando cos al linguaggio poetico il compito d'abolire, o di dare l'illusione d'abolire l'arbitrariet del segno
linguistico. Bisogna dunque esaminare, nel caso specifico delle due parole che ci interessano, in che modo il
verso , ossia evidentemente il linguaggio poetico in generale, possa correggere il difetto o persino trarne

vantaggio. Ci pu servire qui un commento, breve ma prezioso, del testo di Mallarm fatto da Roman Jakobson:
Nel caso di un conflitto tra suono e senso come quello notato da Mallarm, la poesia francese o cercher
un'alternativa fonologica a tale discordanza e smorzer la distribuzione inversa degli elementi vocalici
circondando nuit di fonemi gravi e jour di fonemi acuti, ovvero ricorrer a uno slittamento semantico, sostituendo
alle immagini di chiaro e di scuro associate al giorno e alla notte, altri correlati sinestesici dell'opposizione
fonematica grave/acuto, creando ad esempio contrasto tra il calore afoso del giorno e la freschezza ariosa della
notte .
[Essais de linguistique gnrale, Editions de Minuit, Paris 1963, p. 242 [Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Feltrinelli, Milano 1966].]

Insomma per abolire oppure attenuare il disaccordo tra il suono, o pi generalmente la forma, e il senso, il
poeta pu agire sia sulla forma sia sul senso. Correggere la forma in modo diretto, modificare il significante
sarebbe una soluzione violenta, un'aggressione contro la lingua che pochi poeti si sono sentiti di commettere.
[ in compenso quello che fa l'argot, che nell'operare le sue sostituzioni si fa forte di un consenso sociale, per ristretto che sia. Tra le designazioni
argotiche del giorno e della notte troviamo (attestata da VIDOCQ nella prefazione de Les Voleurs) la coppia le reluit / la sorgue, che sembra scelta per
rimediare l'inversione fonica di cui soffre la lingua comune.]

Spetter dunque al contesto modificare il suono venuto male diesizzandolo o bemollizzandolo , come dice
Jakobson, per contagio indiretto: in questo appunto che il poeta utilizza il verso , il sintagma poetico, come
una parola nuova e incantatoria. Ecco due esempi insigni tratti da Racine in cui il procedimento appare abbastanza
chiaro:
Le jour n'est pas plus pur que le fond de mon cceur
e
C'tait pendant l'horreur d'une profonde nuit.
[Il giorno meno limpido del fondo del mio cuore] e [Fu durante l'orrore di una notte profonda].

Bisogna tuttavia osservare che la correzione viene qui non solo, come dice Jakobson, dal contesto
fonematico, ma anche, e forse pi, dai valori semantici scelti: limpido, orrore, profonda, agiscono fortemente col loro
significato per rischiarare il giorno e incupire la notte. Cos l'altro verso di Racine, gi citato:
La lumi re du jour, les ombres de la nuit
[La chiart del giorno, le ombre della notte]

non ha, contrariamente a ci che pensano gli animi insensibili all'esistenza fisica del linguaggio, nulla di
pleonastico: ombres e lumi re sono qui pienamente necessari a fondare l'opposizione tra il giorno e la notte su
quella che Greimas chiamerebbe l'isotopia del semantismo luminoso, che i due vocaboli sarebbero impotenti a
costituire da soli. Alla stessa necessit risponde, ancora in Racine, l'epiteto in apparenza molto ridondante: nuit
obscure .
[[Notte oscura]. Phdre, v. 193.]

In Hugo, pi sensibile di qualsiasi altro forse, alle impressioni luminose e insieme ai vincoli della lingua, si trova
abbastanza spesso, per designare la notte senza stelle, questo sintagma piuttosto banale ma assai efficace, in cui il
contesto, anche se elementare, apporta una potente correzione fonetica e semantica insieme: nuit noire.
[[Notte nera]. Oceano nox, A Thophile Gautier...]

L'azione inversa che consiste nel flettere il senso per adattarlo all'espressione, in certo qual modo pi facile,
giacch come abbiamo visto prima, il significato di una parola un dato pi malleabile della sua forma, essendo
generalmente composto di un insieme di semi tra cui l'utente resta spesso libero di scegliere. Cosi, come nota
Jakobson, il poeta francese potr optare preferibilmente per i semi di leggerezza trasparente, di freschezza
luminosa che si accordano meglio col fonetismo di nuit e, inversamente, per i semi di calore afoso , e diremmo
anzi, discostandoci un po' dall'impressione mallarmeana, di biancore opaco e diffuso che suggerisce il vocalismo
di jour, evocatore, ci sembra, non tanto di oscurit quanto di una luminosit brumosa e come soffocata, opposta
alla chiarezza scintillante del dittongo ui. ovvio che una simile interpretazione comporta una gran parte di
suggestione attraverso il senso, come gli avversari dell'espressivit fonica
[Come d'altronde anche i suoi sostenitori, a cominciare da Grammont, che per lo meno l'ammette in teoria prima di dimenticarla in pratica. Si pu
trovare una copiosa raccolta d'opinioni su quest'argomento nel libro di PAUL DELBOUILLE, Posie et sonorit, Lige 1961.]

non si stancano (a ragione) di ripetere; ma proprio in questo consiste l'illusione di motivazione, e Piene Guiraud
dice giustamente che nella parola espressiva (aggiungiamo: o accolta come tale) il senso significa la forma... L
dove c' analogia tra la forma e il senso, c' non soltanto espressivit per concrezione dell'immagine significata
ma effetto di rimbalzo; il senso dinamizza certe propriet della sostanza sonora, altrimenti non percepite: esso la
significa per una vera e propria inversione del processo che potremmo chiamare retrosignificazione .
[Pour une Smiologie de l'expression potique, in Langue et Littrature (atti del VII congresso della FILLM), Li ge 1961, p. 124.]

Risulta cos che la correzione poetica dell'arbitrariet linguistica potrebbe essere molto pi giustamente
definita come un reciproco adattamento consistente nell'accentuare i semi compatibili e nel dimenticare o
attenuare i semi incompatibili, tanto da una parte quanto dall'altra. La formula di Pope, il suono deve sembrare
un'eco del senso sarebbe quindi da correggere con l'altra, meno unilaterale, meglio atta a caratterizzare la
reciprocit, di Valry prolungata esitazione tra il suono e il senso :
[OEuvres, Biblioth que de la Pliade, II, Gallimard, Paris 196o, p. 637; le due formule sono citate da JAKOBSON, Essais de linguistique gnrale, pp. 240
e 233]

esitazione che si marca qui come una specie di andata e ritorno semantica il cui approdo una posizione di
compromesso.
Rimarrebbe, impresa del tutto impossibile, da verificare e da misurare le deviazioni subite per questo fatto
dalla rappresentazione del giorno e della notte nella poesia francese. Per quanto concerne il primo termine, ci si
ricorder che il discorso poetico s'interessa poco per natura al giorno in s e per s. Possiamo tuttavia
ricordare il giorno parnassiano, il Midi soffocante di Leconte de Liste e il giorno bianco cantato da Baudelaire: i
giorni bianchi, tiepidi e velati di Ciel brouill, l'estate bianca e torrida (Chant d'automne), il giorno tropicale di
Parum exotique,
Qu'blouissent les feux d'un soleil monotone,
[Abbagliate dalle luci di un sole monotono]

il cielo puro in cui freme l'eterno calore (La chevelure). vero che la parola giorno pressoch assente da
questi testi e sembrer forse sofistico o disinvolto dire che essi ne costituiscono la parafrasi. Dovremo inoltre
riconoscere nel giorno di Valry, diurnit lucida e senza bruma, un'eccezione ancora maggiore.
In compenso la deviazione del semantismo notturno verso i valori di luminosit appare molto evidente nella
poesia francese di tutte le epoche: Notte pi chiara del giorno uno dei suoi paradossi pi abituali, che trova il suo
pieno investimento simbolico nell'et barocca, nel lirismo amoroso ( O Notte, giorno degli amanti ) e
nell'effusione mistica ( Notte pi chiara del giorno , Notte che splendi pi del giorno , O Notte, o torrente
di luce)
[BOISSIRE, in L'amour noir, poesie raccolte da A.M. Schmidt, P. 58 HOPIL, MADAME GUYON, in JEAN ROUSSET, Anthologie de la posie baroque
franaise, Armand Colin, Paris 1961, pp 192 e 230.]

al punto che ci si chiede se non bisognerebbe opporre, sotto questo riguardo, la notte di luce dei mistici
francesi alla notte oscura di san Giovanni della Croce ; ma lo si ritrova facilmente anche altrove. Citiamo ancora
Pguy:
Ces jours ne soni jamas que des clarts
Douteuses, et toi, la nuit, tu es ma grande lumire sombre
[[I giorni non sono che chiarezze | Incerte, e tu, notte, sei la mia grande luce oscura]. OEuvres potiques, La Pliade, p. 662.]

La notte esemplare, qui, la Notte per eccellenza, la notte vaporosa, la notte estiva di Hugo, trasparente e
profumata, in cui
L'aube docce et pale, en attendant con heure,
Semble toute la nut errer au bas du ciel,
[[L'alba dolce e pallida neLl'attesa dell'ora 1 Pare errar tutta notte si fondo dei cielo]. OEuvres potiques. La Pliade, 1, p. 1117]

e che ritroveremo intorno al sonno di Booz: la notte chiara, lunare, stellata, per dire infine la parola
fondamentale, notte che cos volentieri, come abbiamo gi visto in Supervielle, si confonde, s'identifica con il
firmamento, la volta notturna in cui essa trova la sua piena verit semantica, nell'unione felice del significante e del
significato Per collegare, in maniera indiretta ma stretta e per cos dire automatica, la parola toiles (stelle) alla
parola nuit. (proiettando cos, secondo la formula jakobsoniana, il principio d'equivalenza sulla catena
sintagmatica), il discorso poetico classico disponeva d'un comodo clich che era la rima toiles/voiles (veli della
notte). Eccone alcuni esempi presi a caso:
... encore les toiles
De la nuit taciturne illuminaient les voles
[... e ancora le stelle | Della tacita notte illuminavano i veli].

(Saint-Amant, Moyse sauv).


Dieu dit, et les toiles
De la nuit ternelle claircirent les voiles.
[Dio disse, e le stelle | Della notte infinita rischiararono i veli].

(Lamartine, Mdittjons).
Questi due esempi, presi alle due estremit della catena diacronica, rappresentano la versione pi tradizionale;
pi sottile invece quest'altro, tratto da Deffile (Les trois r gnes), in cui le stelle rappresentano delle lucciole:
Les bois mmes les bois, quand la nuit tend ses voiles,
Offrent aux yeux surpris de volantes toiles,
[I boschi stessi, i boschi, quando la notte stende i suoi veli | Offrono allo sguardo stupito un volo di stelle].

o quest'altro, di Corneille, in cui les voiles, con un piacevole rinnovamento del luogo comune, non sono pi i
veli della notte ma, come noto, le vele della flotta maura:
Cetre obscure clart qui tombe des toiles
Enfin avec le flux nous fit voir trente voiles.
[Nell'incerto chiarore che cade dalle stelle | infin con la marea, vedemmo trenta vele].

Secondo un paradosso d'un'evidente verit questa notte stellare una notte che s'accende; che accende le sue
luci , dice Supervielle,
[Les amis inconnus, p. 139.]

le sue onici , dice Mallarm in una prima versione del sonnet en -x, tutta dedicata attraverso le raffinatezze
d'una messa in scena sofisticata, al tema secolare della notte scintillante (e per ci stesso) benefica il che va
letto qui con una parola: approvatrice.
[OEuvres compltes, p. 1488.]

Rimane da considerare l'incidenza di un fatto d'ordine non pi fonico o grafico, ma grammaticale, che
l'opposizione di genere tra i due termini. Non staremo qui a ricordare tutto quello che stato cos ben esposto da
Bachelard, specialmente nella Potique de la rverie, sull'importanza del genere delle parole per la fantasticheria
sessualizzante delle cose, e sulla necessit, per lo studio dell'immaginazione poetica, di quella che egli proponeva
di chiamate la genosanalisi. La fortuna non certo esclusiva, per non universalmente condivisa, pensiamo se
non altro all'inglese per il quale tutti gli esseri inanimati sono neutri la fortuna della lingua francese d'avere
totalmente mascolinizzato il giorno e femminilizzato la notte,
[Ricordiamo che il latino dies a volte maschile e a volte femminile, e che il tardo latino diurnum, antenato di jour e di giorno, neutro.]

d'avere fatto di essi in senso pieno una coppia, il che rafforza il carattere inclusivo dell'opposizione che
abbiamo notato sopra. Per l'utente della lingua francese il giorno maschio e la notte femmina a tal punto che ci
pressocch impossibile concepire una suddivisione differente o inversa; la notte femmina, l'amante o la
sorella, l'amante e la sorella del sognatore, del poeta; in pari tempo l'amante e la sorella del giorno: e appunto
sotto gli auspici della femminilit, della bellezza femminile, tanti poeti barocchi, cantando dopo Marino la bella in
lutto, la bella ngresse, la bella sognante, la bella morta, tutte le belle notturne, hanno vagheggiato l'unione, le nozze
miracolose del giorno e della notte,
[Ciel brun, Soleil l'ombre, obscur et clair sjour, | La Nature dans toi s'admire et se surpasse, | Entretenant sans cesse en ton divin espace | Un
accord merveilleux de la nuit et du jour |. [Cielo buio, Sole in ombra, scura e chiara dimora, | La Natura in te si supera e s'ammira, | Alimentando sempre
nel tuo divino spazio | Un mirabile accordo della notte e del giorno]. ANONIMO, in L'amour noir, p. 92.]

chimera di cui cogliamo quest'eco in Capitale de la douleur:


O douce, quand tu dors, la nuit se mle au jour.
[O dolce, mentre dormi, la notte si mescola al giorno].

Il carattere sessuale, erotico, di quest'unione sottolineato nella dizione classica da un rinvio alla rima la cui
forma canonica ci offerta da Boileau, s proprio Boileau (Lutrin, canto II):
Ah! Nuit, si tant de fos, dans les bras de l'amour, Je t'admis aux plaisirs que je cachais au jour....
[Ah, Notte, se tante volte, nelle braccia dell'amore | Ti ho ammesso ai piaceri che io celavo al giorno...]

l'amore che effettua il legame tra notte e giorno, sia che avvenga come qui per contrapporli, sia invece, come
nell'invocazione gi citata di Boissire, Nuit, jour des amants, per unirli mediante inversione
[ Et toi, nuit, doux support des songes o j'aspire, | Puisses tu dans mes yeux toujours faire sjour, | Jamais Phbus pour mo ses rais ne fasce luire |
Puisque le jour m'est nuit et que la nuit m'est jour. [E tu, o notte, dolce supporto dei so gni cui aspiro | Possa tu nei miei occhi soggiornare per sempre, |
Mai Febo per me faccia risplendere i suoi raggi | Poich il giorno m' notte e la notte m' giorno]. PYARD DE LA MIRANDE, in L'amour noir, P. 121.]
In una tonalit a dire il vero pi satanica che amorosa, Lamartine usa, nei confronti di Byron, questa sintesi folgorante: La notte il tuo soggiorno...
(Mditation deuxime).

Ma in quanto femmina la notte ancora e qui attingiamo probabilmente il suo simbolismo pi profondo
la madre; madre essenziale, madre del giorno, che esce dalla notte ,
[HUGO, Booz endormi, ma anche D'AUBIGN Prire du matin.]

madre unica di tutti gli dei,


[CLMENCE RAMNOUX, Le symbolisme du jour et de la nuit, Cahiers internationaux de symbolsme, n. 13.]

madre universale come la chiama Pguy non pi soltanto madre dei bambini ( cos facile) ma madre
anche degli uomini e delle donne, che tanto difficile . Non c' bisogno di grandi conoscenze di psicanalisi per
ravvisare nella notte un simbolo materno, simbolo di quel luogo materno, di quella notte delle viscere ove tutto
inizia, e per vedere che l'amore per la notte ritorno alla madre, discesa verso le Madri, viluppo inestricabile
d'istinto vitale e d'attrazione mortale. Qui si rivela un ulteriore rovesciamento nella dialettica del giorno e della
notte, giacch se il giorno dominatone , nel pieno del suo splendore, la vita, la notte femminea , nella sua
profondit abissale, vita e morte insieme: la notte che ci d alla luce, la notte che ce la riprender.
[Tutto finisce nella notte, ecco perch esiste il giorno. Il giorno legato alla notte, perch anch'esso non giorno che se ha un inizio e una fine
(BLANCHOT, L'espace littraire).]

Una parola ancora per finire pur senza concludere: evidentemente deplorevole, oltre che arbitrario, studiare
per quanto succintamente lo si faccia i nomi del giorno e della notte senza affrontare lo studio congiunto
di alcuni vocaboli derivati che sono loro strettamente connessi, ossia minuit (mezzanotte), che raddoppia ancora,
come ben mostra Mallarm per esempio, lo scintillio della parola semplice, oppure journe, femminilizzazione
paradossale e ambigua del giorno e soprattutto i due aggettivi, cos vicini ai sostantivi nella loro derivazione
latinizzante, e nello stesso tempo cos autonomi nei loro valori poetici propri. Dopo quella del giorno e della
notte, immaginare l'opposizione, la congiunzione
[In questo caso la congiunzione sembra, forse a causa dell'omofonia, pi importante dei l'opposizione. In effetti notturno dominante e diurno sembra
essere soltanto un pallido calco analogico, dal semantismo marcato forse, nelle regioni oscure della coscienza linguistica, da qualche traccia di contagio da
parte del suo omologo: non possibile pensare diurno senza passare attraverso il riferimento a notturno, e senza che questo giro lasci il suo segno. Gent,
per esempio, non parla forse, nel Journal du Voleur, del mistero della Natura diurna?]

del diurne (diurno) e del notturne (notturno) costituirebbe un altro compito del tutto simile e del tutto diverso.

Linguaggio poetico, poetica del linguaggio

Non c' probabilmente in letteratura categoria pi antica o pi universale dell'opposizione tra prosa e poesia:
a questa considerevole estensione abbiamo visto corrispondere per secoli, e addirittura per millenni, una relativa
stabilit del criterio distintivo fondamentale. Sappiamo che fino agli inizi del xx secolo questo criterio fu
essenzialmente d'ordine fonico: si trattava appunto di quell'insieme di regole riservate alla (e per ci stesso
costitutive della) espressione poetica, che possono essere grosso modo ricondotte alla nozione di metro:
alternanza regolata di sillabe brevi e lunghe, accentuate e atone, numero obbligato delle sillabe e omofonia delle
finali di verso, e (per la cosiddetta poesia lirica) regole di costituzione delle strofe, ossia degli insiemi ricorrenti di
versi nel corso della poesia. Questo criterio poteva essere definito fondamentale nel senso che le altre
caratteristiche, d'altronde variabili, d'ordine dialettale (e cio l'uso del dorico come modo degli interventi lirici
nella tragedia attica, o la tradizione, conservata fino in epoca alessandrina, di scrivere l'epopea in dialetto ionico
misto d'eolico che era quello dei poemi omerici), grammaticale (particolarit morfologiche o sintattiche dette
forme poetiche nelle lingue antiche, inversioni e altre licenze nel francese classico), o propriamente stilistiche
(lessici riservati, figure dominanti), non erano mai, nella poetica classica, considerate come obbligatorie e
determinanti allo stesso titolo delle regole della metrica: si trattava in tutti questi casi d'abbellimenti secondari e in
certi casi anche facoltativi, d'un tipo di discorso il cui tratto pertinente restava in ogni caso il rispetto della forma
metrica. Il Problema, oggi cos spinoso, del linguaggio poetico era allora d'una grande semplicit, poich la presenza
o l'assenza del metro costituiva un criterio decisivo e inequivocabile.
Sappiamo anche che la fine del xix secolo e l'inizio del xx hanno assistito, specialmente in Francia, alla
progressiva rovina e infine al crollo, probabilmente irreversibile, di questo sistema, e alla nascita di un concetto
inedito che ci divenuto familiare senza per questo divenirci del tutto trasparente: quello di una poesia affrancata

dalle regole metriche e tuttavia distinta dalla prosa. Le ragioni di un mutamento cos profondo sono ben lungi
dall'esserci chiare, ma sembra almeno che questa scomparsa del criterio metrico, possa essere messa in rapporto
con un'evoluzione pi generale, il cui principio lo scadimento continuo dei modi auditivi della consumazione
letteraria. noto che la poesia antica era essenzialmente cantata (lirismo) e recitata (epopea) e che, per ragioni
materiali abbastanza evidenti, il modo fondamentale di comunicazione letteraria anche per la prosa, era la lettura
o declamazione pubblica senza contare la parte preponderante, in prosa, dell'eloquenza propriamente detta.
un po' meno noto invece, ma largamente attestato, che anche la lettura individuale era praticata ad alta voce:
sant'Agostino afferma che il suo maestro Ambrogio (iv secolo) fu il primo uomo dell'antichit a praticare la
lettura silenziosa, ed assodato che il Medioevo vide un ritorno allo stato anteriore e che la consumazione orale
del testo scritto si prolung ben oltre l'invenzione della stampa e la diffusione massiccia del libro.
[L'informazione resta principalmente auditiva: anche i grandi dell'epoca ascoltano pi d quanto non leggano; sono circondati di consiglieri che
forniscono loro il sapere attraverso la parola, che leggono forte in loro presenza... Inoltre anche coloro che leggono volentieri, gli umanisti, hanno
l'abirudine di farlo ad alta voce e ascoltando il testo (R. MANDROU, Introduction la France moderne, Albin Michel, Paris 1961, P. 70).]

Ma altrettanto certo che tale diffusione e quella della pratica della lettura e della scrittura dovevano alla
lunga far scadere il modo auditivo di percezione dei testi a favore d'un modo visivo,
[Valry aveva gi detto perfettamente tutto questo, tra l'altro: A lungo, molto a lungo la voce umana fu base e condizione della letteratura. La presenza
della voce spiega la letteratura primitiva da cui quella classica prese forma e l'2m irevole temperamento: tutto il corpo umano presente sotto la voce e supporto,
condizione d'equilibrio dell'idea... Venne il giorno in cui si seppe leggere senza sillabare, senza ascoltare, e la letteratura ne fu stravolta. Evoluzione
dall'articolato allo sfiorato, dal ritmato e concatenato all'istantaneo da ci che esige un auditorio a ci che comporta uno sguardo rapido, avido,
libero sulla pagina (OEuvres, II, p. 549).]

e quindi il loro modo d'esistenza fonica a vantaggio d'un modo grafico (ricordiamoci che gli albori della
modernit letteraria hanno visto, insieme ai primi segni di scomparsa del sistema della versificazione classica, i
primi tentativi sistematici, con Mallarm e Apollinaire, d'esplorazione delle possibilit poetiche del grafismo e
dell'impaginazione) e soprattutto, e in quell'occasione, mettere in evidenza altri caratteri del linguaggio poetico,
che possiamo definire formali in senso hjelmsleviano, in quanto non dipendono dal modo di realizzazione, o
sostanza (fonica o grafica) del significante, ma dall'articolazione stessa del significante e del significato
considerati nella loro idealit. Appaiono cos come sempre pi determinanti gli aspetti semantici del linguaggio
poetico, e questo non soltanto nei confronti delle opere moderne, scritte senza preoccupazione del metro e della
rima, ma anche, necessariamente, nei confronti delle opere antiche che oggi non possiamo fare a meno di leggere
e di apprezzare secondo i nostri criteri attuali meno immediatamente sensibili, per esempio, alla melodia o al
ritmo accentuale del verso raciniano che al giuoco delle sue immagini , oppure pi inclini a preferire alla
metrica rigorosa, o sottile, d'un Malherbe o d'un La Fontaine gli audaci fuochi incrociati di parole della poesia
barocca.
[Questo cambiamento di criterio non significa per che la realt fonica, ritmica, metrica della poesia antica si sia cancellata (il che sarebbe un gran
peccato): essa si piuttosto trasposta nel visuale e, in quell'occasione, in un certo senso idealizzata: c' un modo muto di percepire gli effetti sonori , una
specie di dizione silenziosa, paragonabile a quella che per un musicista esperto la lettura d'uno spartito. Tutta la teoria prosodica andrebbe ripresa in
questo senso.]

Una tale modificazione che determina addirittura un nuovo tracciato della frontiera tra prosa e poesia, e
dunque una nuova suddivisione del campo letterario, pone alla semiologia letteraria un compito che si distingue
nettamente da quello che si prefiggevano le antiche poetiche o i trattati di versificazione dei secoli scorsi, compito
arduo e fondamentale che Rerre Guiraud designa appunto come semiologia dell'espressione poetica .
[Pour une smiologie de l'expression potique, in Langue et Littrature, Les Belles Lettres, Paris 1961.]

Fondamentale perch nessun altro forse corrisponde pi specificatamente alla sua vocazione, ma anche
arduo perch gli effetti in cui s'imbatte in questo campo sono d'una sottigliezza e d'una complessit che possono
scoraggiare l'analisi e che, sordamente rafforzate da quel vieto e persistente tab che grava sul mistero della
creazione poetica, contribuiscono a tacciare il ricercatore che vi si avventura di sacrilego o (e) di beota: per
quanto si circondi di precauzioni onde evitare gli errori e le ridicolaggini dello scientismo, l'atteggiamento
scientifico sempre come intimidito davanti ai mezzi dell'arte, i quali in generale si fanno stimare proprio per
ci che in essi, inviolabile nodo d'oscurit , si sottrae allo studio e alla conoscenza.
Bisogna essere grati a Jean Cohen
[Structure du langage potique, Flammarion, Paris 1966.]

d'avere bandito tutti gli scrupoli e di essere penetrato in questi misteri con una fermezza che pu essere
giudicata brutale, ma che non si chiude alla discussione n eventualmente alla confutazione. Una delle due,
dice giustamente: o la poesia una grazia venuta dall'alto che bisogna ricevere in silenzio e in raccoglimento,
oppure decidiamo di parlarne e allora bisogna cercare di farlo in modo positivo... Bisogna porre il problema in
modo che sia aperto a possibili soluzioni. Pu darsi naturalmente che le ipotesi che presentiamo si rivelino false,
ma almeno avranno offerto l'occasione di provare che lo sono. Sar allora possibile correggerle o sostituirle fino
a quando si trovi quella buona. Niente d'altronde ci garantisce che in questa materia la verit sia accessibile, e

l'investigazione scientifica pu alla fine rivelarsi inoperante. Ma come saperlo, questo, prima di averlo tentato? .
[Ibid., p. 25.]

Il principio maggiore della poetica cos proposta alla discussione che il linguaggio poetico
linguaggio si definisce, in rapporto alla prosa, come uno scarto in rapporto a una norma e perci (essendo lo
scarto o deviazione, per Guiraud come per Valry, per Spitzer come per Bally, la marca stessa del fatto di stile )
che la poetica pu essere definita coine una stilistica di genere che studia e misura le deviazioni caratteristiche non
d'un individuo ma d'un genere di linguaggio,
[p. 14 Un esempio sorprendente dell'influsso del genere sullo stile dato a p. 122 dal caso di Hugo che usa il 6 per cento d'epiteti impertinenti nel
romanzo e il 19 per cento in poesia.]

ossia abbastanza esattamente di quella che Barthes ha proposto di chiamare una scrittura.
[Con questa riserva tuttavia che secondo Barthes la poesia moderna ignora la scrittura come figura della Storia o della socialit , e si riduce a una
miriade di stili individuali (Le degr zero de l'criture, Editions du Seuil, Paris 1953, cap. iv).]

Rischieremmo per di sminuire l'idea che Jean Cohen si fa dello scarto poetico se non precisassimo che
quest'idea corrisponde meno al concetto di deviazione che a quello d'infrazione: la poesia non devia in rapporto al
codice della prosa come una variante libera in rapporto a una costante tematica, la viola e la trasgredisce, ne la
contraddizione in persona: la poesia l'antiprosa.
[Structure du langage potique, pp. 51 e 97]

In questo senso preciso si potrebbe dire che lo scarto poetico, per Cohen, uno scarto assoluto.
Un secondo principio, che chiameremo il principio minore; potrebbe incontrare altrove la pi viva
opposizione, se non addirittura una fin de nonrecevoir pura e semplice: questo principio che l'evoluzione
diacronica della poesia va regolarmente nel senso d'una poeticit sempre crescente, nello stesso modo in cui la
pittura si sarebbe fatta, da Giotto a Klee, sempre pi pittorica, poich ogni arte in un certo senso si involve per
un approccio sempre crescente della propria forma pura
[Ibid., p. 21.]

o della propria essenza. Si vede immediatamente tutto quello che c' di contestabile in teoria in questo postulato
d'involuzione
[Ci si pu domandare se questo postulato vuole applicarsi a ogni arte nel senso di tutte le arti: in che cosa si potrebbe dire che l'arte di Messiaen pi
puramente musicale di quella di Palestrina, o quella di Le Corbusier pi puramente architettonica di quella di Brunelleschi? Se l'involuzione si riduce, come
pu fare pensare l'esempio della pittura e della scultura, a un progressivo abbandono della funzione rappresentativa, bisogna domandarsi pi precisamente
che cosa quest'abbandono pu significare nel caso della poesia.]

e vedremo pi avanti come la scelta delle procedure di verifica ne accentui la gratuit; inoltre quando Cohen
afferma che l'estetica classica un'estetica antipoetica,
[Structure du langage potique, p. 20.]

fa un'asserzione che pu gettare qualche dubbio sull'oggettivit del suo intento. Ma non ci lasceremo fermare qui
da questa discussione, giacch noi abbiamo accolto Structure du langage potique come uno sforzo per costituire una
poetica movendo dai criteri rivelati dalla pratica stessa della poesia moderna . Si pu dire semplicemente che
una coscienza p dichiarata di questo partito preso avrebbe permesso l'economia di un assioma che, posto
invece come atemporale e oggettivo, solleva gravissime difficolt metodologiche perch d spesso l'impressione
d'essere stato introdotto ai fini della dimostrazione ossia p precisamente per far s che la costatazione
d'un'evoluzione (la poesia sempre pi scarto) servisse a stabilire il principio maggiore (lo scarto l'essenza della
poesia). In realt i due postulati si sostengono un po' surrettiziamente l'un l'altro in un implicito mulinello di
premesse e di conclusioni che potrebbe essere esplicitato all'incirca cosi: primo sillogismo, la poesia sempre pi
scarto, essa sempre pi vicina alla sua essenza, dunque la sua essenza lo scarto; secondo sillogismo, la poesia
sempre pi scarto, lo scarto la sua essenza, dunque essa sempre pi vicina alla sua essenza. Ma poco importa,
probabilmente, quando si sia deciso di accettare senza dimostrazione (e c' di che) il principio minore come
esprimente l'inevitabile, e in un certo senso legittimo anacronismo del punto di vista.
La verifica empirica, che occupa la maggior parte del lavoro, verte dunque essenzialmente sul fatto evolutivo,
di cui abbiamo appena visto la funzione strategica determinante. Essa affidata a un test statistico molto
semplice e rivelatore che consiste nel paragonare su qualche punto decisivo, sia tra loro, sia invece a un campione
di prosa scientifica della fine del xix secolo (Berthelot, Claude Bernard, Pasteur), un corpus di testi poetici presi
in tre epoche diverse: classica (Corneille, Racine, Moli re), romantica (Lamartine, Hugo, Vigny) e simbolista
(Rimbaud, Verlaine, Mallarm).
[In ragione di cento versi (dieci serie di dieci) per poeta.]

Il primo punto esaminato, che ovviamente pu mettere a confronto soltanto i testi poetici tra loro, quello della
versificazione, considerata innanzi tutto sotto l'aspetto del rapporto tra la pausa metrica (fine di verso) e la pausa
sintattica; il semplice conteggio delle fini di verso non punteggiate (e quindi in discordanza con il ritmo frastico)

fa apparire una proporzione media dell'11 per cento nei tre classici, 19 per cento nei romantici e 39 per cento nei
simbolisti: scarto dunque in rapporto alla norma prosastica dell'isocroma tra frase-suono e frase-senso;
considerata inoltre dal punto di vista della grammaticalit delle rime: le rime non categoriali , ossia quelle che
uniscono vocaboli non appartenenti alla stessa classe morfologica, passano, su cento versi, dal 18,6 di media nei
classici al 28,6 nei romantici e al 30,7 nei simbolisti: scarto qui, in rapporto al principio linguistico di sinonimia
delle finali omonime (essenza-esistenza, partiranno-riusciranno).
Il secondo punto quello della predicazione, studiata sotto l'aspetto della pertinenza degli epiteti. Il confronto
tra i campioni di prosa scientifica, di prosa romanzesca (Hugo, Balzac, Maupassant) e di poesia romantica fa
apparire nel xix secolo delle medie rispettive dello o per cento, 8 per cento e 23,6 per cento d'epiteti impertinenti
, ossia logicamente inaccettabili nel loro senso letterale (esempi: cielo morto o vento increspato ). Le tre
epoche poetiche considerate si differenziano come segue: classica: 3,6; romantica: 23,6; simbolista: 46.
Bisogna inoltre distinguere qui due livelli d'impertinenza: il livello debole riducibile per semplice analisi e
astrazione, come in erba di smeraldo = erba verde perch smeraldo = (pietra +) verde; il livello forte non passibile
di una analisi del genere e la sua riduzione esige un giro pi complesso, ossia quello di una sinestesia, come in
celesti angelus angelus sereni, in virt della sinestesia celeste = pace.
[Questa interpretazione in particolare, e l'idea in generale che tutte le impertinenze del secondo livello sono riconducibili a delle sinestesie appaiono
molto discutibile. Si potrebbe altrettanto bene leggere celesti angelus come una predicazione metonimica (l'angelus che risuona nell'azzurro del cielo);
l'ipallage ibant obscuri tipicamente metonimica; uomo bruno per uomo dai capelli bruni evidentemente sineddochica, ecc. Esistono certamente per lo meno
tante specie d'epiteti impertinenti quante sono le specie di trop: l'epiteto sinestesico corrisponde semplicemente alla specie delle metafore, di cui le
poetiche moderne sopravvalutano generalmente l'importanza.]

Se consideriamo da questo punto di vista il numero degli epiteti di colore impertinenti, i classici si trovano esclusi
dal quadro per via del loro troppo scarso numero di epiteti di colore, e si passa dal 4,3 nei romantici al 42 nei
simbolisti; lo scarto in aumento qui evidentemente l'impertinenza della predicazione, l'anomalia semantica.
Il terzo test riguarda la determinazione, cio in effetti la carenza di determinazione palesata dal numero degli
epiteti ridondanti, del genere verde smeraldo o elefanti rugosi . La nozione di ridondanza qui giustificata dal
principio, linguisticamente contestabile, e d'altronde contestato, secondo cui la funzione pertinente d'un epiteto
di determinare una specie all'interno del genere designato dal nome, come in gli elefanti bianchi sono rarissimi .
Ogni epiteto descrittivo dunque per Cohen, ridondante. La proporzione di questi epiteti in rapporto al numero
totale d'epiteti pertinenti del 3,66 in prosa scientifica, 18,4 in prosa romanzesca e 58,5 in poesia del xix secolo,
giacch il corpus poetico opposto agli altri due non pi ora, come per gli epiteti impertinenti, quello dei
romantici, ma quello che forniscono insieme Hugo, Baudelaire e Mallarm (perch questo slittamento verso
l'epoca moderna?) All'interno del linguaggio poetico, il quadro evolutivo d 40,3 ai classici, 54 ai romantici, 66 ai
simbolisti: progressione pi debole, da correggere, secondo Cohen, col fatto (allegato senza verifica statistica) che
gli epiteti ridondanti dei classici sono nella stragrande maggioranza di primo grado, ossia riducibili a un valore
circostanziale (Corneille: E il mio amore adulatore gi mi persuade... = E il mio amore, poich adulatore...),
mentre quelli dei moderni (Mallarm: ... d'azzurro blu vorace ) non possono generalmente essere interpretati
cos. Scarto dunque e anche qui crescente in rapporto alla norma (?) della funzione determinativi dell'epiteto.
[Il totale degli epiteti anormali (impertinenti + ridondanti) d la seguente progressione: 42 per cento, 64,6 per cento e 82 per cento.]

Quarto punto di paragone: l'incongruenza (crescente) delle coordinazioni. La progressione qui


caratterizzata, senza apparato statistico, dal passaggio dalle coordinazioni quasi sempre logiche del discorso
classico ( Me ne vado, caro Teramene, e lascio la dimora del gentile Trezene ) alle rotture momentanee del
discorso romantico ( Ruth pensava e Booz sognava; l'erba era nera ), quindi all'incongruenza sistematica e, se
cos possiamo dire, continua, inaugurata dalle Illuminations, e sbocciata poi nella scrittura surrealista.
Il quinto e ultimo confronto riguarda l'inversione, e pi precisamente l'anteposizione degli epiteti. Il prospetto
comparativo d qui il 2 per cento alla prosa scientifica, 54,3 alla poesia classica, 33,3 alla romantica, 34 alla
simbolista. La dominanza dei classici in un quadro delle inversioni poetiche non ha niente di sorprendente in
teoria, ma il postulato d'involuzione caro a Cohen gli impedisce di accettare un simile fatto: cos non gli dispiace
di potere ristabilire quello che la sua norma eliminando dal conto gli epiteti valutativi , pi suscettibili
d'anteposizione normale (un gran giardino, una bella donna). La tabella cos corretta d lo o per cento alla prosa
scientifica, 11,9 ai classici, 52,4 ai romantici; 49,5 ai simbolisti. Questa correzione probabilmente giustificata,
non serve per a dissimulare un fatto noto a tutti, ossia la frequenza relativamente maggiore in poesia classica
dell'inversione in genere, che non si riduce all'anteposizione dell'epiteto
[ Spesso l'inversione come dice Laharpe il solo tratto che distingue i versi dalla prosa (FONTANIER, Les figures du discours, 1827; riedizione
Flammarion. Paris 1968, P. 288).]

Ci potremmo allo stesso modo interrogare sul perch dell'assenza di altri paragoni che sarebbero stati
altrettanto istruttivi: sappiamo per esempio che il Pietre Guiraud ha stabilito
[Langage et versification d'aprs l'oeuvre de Paul Valry: Etude sur la forme potique dans ses rapports avec la lingue, Klincksieck, Paris 1952.]

sulla base di un corpus a dire il vero stranamente scelto (Phdre, Les fleurs du mal, Mallarm, Valry, le Cinq

grandes odes), un lessico poetico di cui ha confrontato le frequenze con quelle date, per la lingua normale, dalla
tavola di Van der Beke, e che questo confronto rivela uno scarto di vocabolario molto rilevante (sulle duecento
parole pi frequenti in poesia, o parole-temi, se ne trovano centotrenta la cui frequenza anormalmente forte in
rapporto a quella di Van der Beke; tra queste centotrenta parole-chiave, soltanto ventidue appartengono alle prime
duecento della lingua normale). Sarebbe interessante sottoporre a un paragone analogo i campioni scelti da
Cohen, ma non detto in anticipo che lo scarto di vocabolario sarebbe pi rilevante nei simbolisti, e a fortiori nei
romantici, piuttosto che nei classici: il xvii e xviii secolo non sono forse stati per la poesia l'epoca per eccellenza
del lessico riservato, con le sue onde i suoi corsieri, i suoi mortali, le sue labbra di rubino e i suoi seni d'alabastro? E il
gesto rivoluzionario di cui si compiace Hugo nella Rponse un acre d'accusation non fu precisamente, nella
circostanza, una riduzione di scarto?
Questa obiezione per, come probabilmente altre simili, non inciderebbe sull'intento essenziale di Jean
Cohen: secondo questi, infatti, lo scarto non per la poesia un fine ma un semplice mezzo, la qual cosa respinge
fuori dal suo campo d'interesse certe deviazioni del linguaggio poetico tra le pi appariscenti quali i suaccennati
effetti di lessico o i privilegi dialettali di cui abbiamo parlato prima: uno scarto linguistico che arrivasse addirittura
a riservare alla poesia un idioma speciale, non sarebbe un caso esemplare, giacch lo scarto adempie la sua
funzione poetica solo in quanto lo strumento d'un cambiamento di senso. Bisogna dunque al tempo stesso che
stabilisca, all'interno della lingua naturale, un'anomalia o impertinenza, e che questa impertinenza sia riducibile. Lo
scarto non riducibile, come nell'enunciato surrealista l'ostrica del Senegal manger il pane tricolore , non
poetico; lo scarto poetico si definisce per la sua possibilit di riduzione,
[Ma come sapere dove passa la frontiera? Vediamo bene qui che per Cohen celesti angelus costituisce uno scarto riducibile e ostrica del Sene gal... uno scarto
assurdo (il che d'altronde discutibile). Ma dove mettere per esempio il mare dalle viscere d'uva (Claudel) o la rugiada dalla te sta di gatto (Breton)?]

che implica necessariamente un cambiamento di senso, e pi precisamente un passaggio dal senso


denotative , ossia intellettuale, al senso connotativo , ossia affettivo: la corrente di significazione bloccata al
livello denotativo (angelus celesti) si rimette in moto al livello connotativo (angelus sereni), e questo blocco della
denotazione indispensabile per liberare la connotazione. Un messaggio non pu, secondo Cohen, essere al
tempo stesso denotativo e connotativo: Connotazione e denotazione sono antagoniste. Risposta emozionale e
risposta intellettuale non possono prodursi contemporaneamente. Esse sono antitetiche, e perch sorga la prima
bisogna che la seconda scompaia .
[Strutture du langage potique, P. 214]

Cos tutte le infrazioni e impertinenze notate nei diversi campi della versificazione, della predicazione, della
determinazione, della coordinazione e dell'ordine delle parole sono tali solo sul piano denotative: il loro
momento negativo, che s'annulla subito in un momento positivo in cui pertinenza e rispetto del codice si
ristabiliscono a vantaggio del significato di connotazione. Cos l'impertinenza denotativi che separa i due termini
della rima soeur douceur nell'Invitation au voyage si cancella davanti a una pertinenza connotativa: La verit
affettiva corregge l'errore nozionale. Se la sororit connota un valore, sentito tale, d'intimit e d'amore, vero
che ogni sorella dolce, e anche, reciprocamente, che ogni dolcezza sororale. Il semantismo della rima
metaforico .
[Ibid., p. 220.]

Se si vuole applicare a questo libro che ha il merito di sollecitare quasi a ogni pagina la discussione per il sue
piglio vigoroso e l'incisivit del suo discorso, quello spirito di contestazione rigorosa che lo stesso autore tanto
garbatamente sollecita, bisogna innanzi tutto notare nella procedura di verifica adottata tre partiti presi che
dispongono un po' troppo opportunamente la realt in senso favorevole alla tesi. Il primo concerne la scelta dei
tre periodi presi in considerazione. ovvio intanto che la storia della poesia francese non si ferma a Mallarm:
possiamo per ammettere senza troppa difficolt che un campione prelevato dalla poesia del xx secolo non
farebbe che accentuare, almeno per alcuni dei criteri da lui scelti, l'evoluzione rivelata da Cohen nella poesia
romantica e simbolista. In compenso davvero troppo comodo prendere come punto di partenza il xvii secolo
(e addirittura anzi la seconda met di esso) col pretesto
[Structure du langage potique, p. 18.]

che risalire pi indietro significherebbe far intervenire degli stati di lingua troppo eterogenei. Un corpus della
seconda met del xvi secolo composto per esempio da Du Bellay, Ronsard e d'Aubign non avrebbe adulterato in
maniera rilevante lo stato di lingua costituito, in ogni caso in un senso molto relativo, dal francese moderno
soprattutto in un'inchiesta che non faceva intervenire le divergenze lessicali; invece probabile che avrebbe
compromessa la curva d'involuzione su cui poggia tutta la tesi di Cohen, e che avremmo visto apparire all'inizio
del ciclo, almeno per qualcuno dei suoi criteri, un tasso di poesia ,
[ Ibid., p. 15.]

ossia una tendenza allo scarto superiore, c' da giurarlo, a quella del classicismo, ma fors'anche a quella del

romanticismo. L'inconveniente sarebbe probabilmente stato per l'autore dello stesso ordine se, invece di scegliere
per il xvii secolo tre classici tosi canonici come Corneille, Racine e Moli re, si fosse orientato verso Rgner,
Thophile, SaintAmant, Martial de Brives, Tristan, Le Moyne, che non sono proprio dei minori. So bene che
Cohen giustifica questa scelta, che non la sua ma quella della posterit ,
[Ibid., pp. 17-18.]

con una preoccupazione d'obiettivit: ma per l'appunto il consenso del pubblico non immutabile, e c' una
certa discordanza tra la scelta di criteri moderni (poich essenzialmente semantici) e quella di un corpus
chiaramente accademico. Discordanza sorprendente sulle prime e che diventa indisponente una volta che si sia
intuito che il suo principale effetto di facilitare la dimostrazione: il classicismo, che nella storia della letteratura
francese un episodio, una reazione, diventa qui un'origine: quasi un primo timido stato di una poesia ancora 12
nell'infanzia e che dovr progressivamente assumere i suoi caratteri adulti. Cancellati con un colpo di spugna
la Pliade e il barocco, dimenticati il manierismo e il preziosismo! Boileau diceva: Finalmente venne Malherbe...
, il che era almeno un omaggio involontario alla storia, la confessione inconscia di un passato sconfessato. In
Cohen questo diventa all'incirca: in principio era Malherbe.
Il quale d'altronde non gran che ripagato della sua fatica, perch non figura nemmeno nella lista dei tre poeti
classici: lista piuttosto singolare che non ha a suo favore n (probabilmente) la sanzione della posterit, n (di
certo) la pertinenza metodologica. Che sulla rosa dei tre maggiori poeti classici, in un'inchiesta che verte
dichiaratamente sul linguaggio poetico, Racine sia quasi fatalmente nominato, questo gi scontato; il caso di
Corneille molto pi incerto, e quanto a Molire... Eleggere o pretendere di fare eleggere dal consenso questi tre
nomi per formare il corpus della poesia classica, e contrapporli successivamente ai romantici e ai simbolisti che
sappiamo, significa davvero scegliersi le carte migliori e dimostrare con poca spesa che l'estetica classica
un'estetica antipoetica . Una lista composta per esempio da Malherbe, Racine, La Fontaine sarebbe stata un po'
pi rappresentativa. Non si tratta d'altronde soltanto del valore poetico delle opere considerate, si tratta
soprattutto dell'equilibrio dei generi: Cohen si lusinga
[Structure du langage potique, p. 19.]

d'avere coperto una gamma molto varia di generi: lirico, tragico, epico, comico, ecc. (ecc.?), ma come fa a non
vedere che tutto il drammatico nel campione classico e viceversa, e che di conseguenza tutto il suo confronto si
riduce a opporre tre drammaturga classici a sei poeti moderni essenzialmente lirici?
[Anche se certi esempi presi dalla Lgende des sicles sono stati valutati come epici, il che si presterebbe evidentemente a discussione.]

E quando si sa quale differenza i classici mettevano (per ragioni evidenti) tra il tenore poetico richiesto da una
poesia lirica e quello di cui poteva (e doveva) accontentarsi una tragedia e a fortiori una commedia, si pu misurare
l'incidenza di una simile scelta. Un solo esempio (il meno evidente) baster forse a illustrarla: Jean Cohen nota
una progressione delle rime non categoriali che va dal 18,6 al 28,6 e al 30,7. Chi non sa per che le rime della
tragedia (e, ancora una volta, a fortiori della commedia) erano per cos dire statutariamente pi facili (il che
significa, tra l'altro, pi categoriali) di quelle della poesia lirica? Che ne sarebbe stato della dimostrazione di Cohen
con un altro campione? Il principio di Banville da lui citato ( Farete rimare insieme il pi possibile, parole simili
tra loro come suono e differenti come senso ) di spirito tipicamente malherbiano; ma le esigenze malherbiano
non si applicano al verso teatrale, il cui merito maggiore sta nella semplicit e nell'intelligibilit immediata.
Paragonare i tassi di poesia del classicismo e della modernit in queste condizioni, un po' come se
paragonassimo il clima di Parigi e quello di Marsiglia prendendo a Parigi la media di dicembre e a Marsiglia quella
di luglio: significa cambiare le carte in tavola.
Si potr rispondere che questi incidenti di metodo non inficiano quella che l'essenza del discorso, e che
un'inchiesta condotta in modo pi rigoroso metterebbe ugualmente in luce nella poesia moderna , se non altro
sul piano propriamente semantico, un aumento dello scarto. Bisognerebbe inoltre vedere d'intendersi sul
significato e sulla portata di questa nozione che non forse cos chiara e pertinente come sulle prime si potrebbe
pensare.
Quando Cohen qualifica come scarto l'impertinenza o la ridondanza d'un epiteto e parla a questo proposito
di figura, sembra proprio si tratti in questo caso di uno scarto in rapporto a una norma di letteralit, con
slittamento di senso e sostituzione del termine; in questo modo appunto che angelus celeste si oppone ad angelus
sereno. Allorch afferma per che una metafora dell'uso (per esempio: fiamma per amore) non uno scarto e, quel
che pi conta, non lo per definizione , negando per esempio ogni valore di scarto alla doppia metafora
raciniana fiamma cos nera per amore colpevole, perch questi due tropi sono in quell'epoca d'uso corrente , e
aggiungendo che se la figura scarto, il termine figura dell'uso una contraddizione in termini, giacch l'usuale
la negazione stessa dello scarto ,
[ Strutture du langage potique, p. 114, nota, e p. 46.]

non definisce pi lo scarto, come Fontanier definisce la figura, dall'opposizione al letterale, ma dall'opposizione

all'uso, misconoscendo se non altro quella verit cardinale della retorica che si fanno pi figure in un giorno di
mercato che in un mese d'Accademia in altre parole che l'uso saturo di scarti-figure e che n l'uso n lo
scarto ne risentono alcun danno semplicemente perch lo scarto-figura si definisce linguisticamente, come
differente dal termine proprio, e non, psico-sociologicamente, come differente dall'espressione usuale; non il fatto
di essere entrata nell'uso che fa scadere una figura in quanto tale, ma la scomparsa del termine proprio. Tte
(testa) oggi non pi figura, non per avere troppo servito, ma perch cbef (capo) in questo senso scomparso in
francese; gueule o bobine (faccia), per quanto usuali e usati siano, saranno sentiti come scarti fintanto che non
avranno eliminato o sostituito tte. E fiamma nel discorso classico non cessa di essere metafora per il fatto d'essere
d'uso corrente: avrebbe cessato di esserlo soltanto se l'uso della parola amore si fosse perso. Se la retorica distingue
figure dell'uso e figure d'invenzione e appunto perch continua a considerare le prime delle figure e mi sembra
che essa abbia ragione. Il monello che ripete Provaci se sei capace o Va a farti friggere sa benissimo d'usare
qui dei clich e anzi delle espressioni trite e ritrite della sua generazione, e il suo piacere stilistico non d'inventare
un'espressione ma d'impiegare un'espressione deviata, un giro d'espressione che sia alla moda: la figura sta in questo
giro e la moda (l'uso) non pu cancellarlo. Bisogna dunque scegliere tra una definizione dello scarto come infrazione
oppure come giro, anche se alcuni di questi scarti si trovano ad essere contemporaneamente entrambe le cose,
cosi come Archimede contemporaneamente principe e geometra: Jean Cohen invece si sottrae a questa scelta,
[Sulla scia di molti altri, vero, tra cui i retori stessi, che contrappongono cos spesso nelle loro definizioni la figura all'espressione semplice e comune
, senza distinguere oltre tra la norma di letteralit (espressione semplice) e la norma d'uso (espressione comune), come se esse coincidessero per forza,
cosa che viene infirmata dalle loro stesse osservazioni sull'impiego corrente. popolare, ossia selvaggio , di ogni sorta di figure.]

e gioca ora su un carattere ora su un altro, il che gli permette di accettare la metafora moderna, perch
d'invenzione, e di respingere la metafora classica, perch dell'uso, bench l' impertinenza , e quindi secondo la
sua stessa teoria il passaggio dal denotativo al connotativo vi siano ugualmente presenti: sembrerebbe quasi che il
criterio semantico (scarto = giro) gli serva per fondare la sua teoria del linguaggio poetico, e il criterio
psicosociologico (scarto = invenzione) per riservarne i benefici alla poesia moderna. Equivoco certamente
involontario, ma probabilmente favorito dal desiderio inconscio di aumentare l'effetto del principio
d'involuzione.
Se la nozione di scarto non del tutto esente da confusioni, non nemmeno, applicata al linguaggio poetico,
d'una pertinenza decisiva. Abbiamo visto che era mutuata dalla stilistica e che Cohen definisce la poetica come
una stilistica di genere : discorso forse sostenibile ma a condizione che sia nettamente mantenuta la differenza
d'estensione e di comprensione tra i concetti di stile in generale e di stile poetico in particolare. Ora questo non
sempre avviene, e l'ultimo capitolo si apre con uno slittamento molto caratteristico. Preoccupato di rispondere
all'obiezione: sufficiente che vi sia scarto perch vi sia poesia? , Cohen risponde cos: Noi crediamo che
effettivamente non basti violare il codice per scrivere un poema. Lo stile infrazione, ma non ogni infrazione
stile .
[Structure du langage potique, p. 201.]

Questa puntualizzazione forse necessaria ma non per questo sufficiente, giacch trascura la questione pi
importante: ogni stile poesia? Cohen sembra incline a pensarlo a volte, come quando scrive che dal punto
di vista stilistico (la prosa letteraria) differisce dalla poesia solo per un aspetto quantitativo. La prosa letteraria
solo una poesia moderata o, se si vuole, la poesia costituisce la forma veemente della letteratura, il livello
parossistico dello stile. Lo stile uno. Comporta un numero finito di figure, sempre le stesse. Dalla prosa alla
poesia,
e da uno stato della poesia all'altro, la differenza sta soltanto nell'audacia con cui il linguaggio utilizza i
procedimenti potenzialmente iscritti nella sua struttura.
[Structure du langage potique, p. 149]

Si spiega cos che Cohen abbia adottato come punto di riferimento unico la prosa scientifica della fine del
xix secolo, che una scrittura neutra, volutamente spoglia d'effetti stilistici, quella stessa di cui si serve Bally per
scoprire a contrario gli effetti espressivi del linguaggio, compresi quelli del linguaggio parlato. Ci sarebbe da
chiedersi quale risultato avrebbe dato un paragone sistematico, epoca per epoca, della poesia classica con la prosa
letteraria classica, della poesia romantica con la prosa letteraria romantica, della poesia moderna con la prosa
moderna. Tra Racine e La Bruyre, Delille e Rousseau, Hugo e Michelet, Baudelaire e Goncourt, Mallarm e
Huysmans, lo scarto non sarebbe forse cos grande, n cos crescente, e in fondo Cohen stesso ne convinto in
partenza: Lo stile uno . La struttura che egli scopre forse meno quella del linguaggio poetico che quella
dello stile in generale, e infatti mette in luce alcuni tratti stilistici che la poesia non detiene m proprio, ma condivide
con altri generi letterari. Non c' da stupirsi quindi che egli concluda con una definizione della poesia che
all'incirca quella che Bally d dell'espressivit in genere: sostituzione del linguaggio affettivo (o emozionale) al
linguaggio intellettuale.
Il fatto pi sorprendente che Cohen abbia chiamato connotazione questa sostituzione, insistendo con forza,
come abbiamo visto sopra, sull'antagonismo tra i due sistemi di significazione, e sulla necessit che uno si cancelli

perch appaia l'altro. In effetti, anche senza attenersi strettamente alla definizione linguistica rigorosa (HjelmlevBarthes) della connotazione come sistema significante sganciato a partire da un sistema di significazione
primario, il prefisso sembra indicare abbastanza chiaramente una conotazione, ossia una significazione che viene
ad aggiungersi a un'altra senza peraltro scacciarla. Dire fiamma per amore per il messaggio portare il
contrassegno: io sono poesia :
[Structure du tangage potique, p. 46.]

ecco una tipica connotazione, e si vede bene qui che il senso secondo (poesia) non scaccia il senso primo
(amore); fiamma denota amore e al tempo stesso connota poesia. Ora gli effetti di senso caratteristici del linguaggio
poetico sono s delle connotazioni, ma non soltanto perch, come si vede qui, la presenza di una figura dell'uso
connota per noi lo stile poetico classico: per chi prende sul serio la metafora, fiamma connota anche, e in
primo luogo, il giro attraverso l'analogia sensibile, la presenza del paragonante nel paragonato, ovverossia qui: il
fuoco della passione.
[Il rapporto tra l'opposizione letterale/figurato e l'opposizione denotato/connotato abbastanza complesso come ogni volta che si cerca di far
corrispondere categorie appartenenti a campi epistemologici disparati. La cosa pi giusta ci sembra sia considerare come denotato nel tropo, bench
secondo, il senso figurato (qui: amore), e come connotato sia la traccia del senso letterale (fuoco) sia l'effetto di stile, in senso classico, della presenza stessa
del tropo (poesia).]

una strana illusione retrospettiva quella d'attribuire al pubblico e ai poeticlassici un'ndifferenza nei confronti
delle connotazioni sensibili delle figure che sarebbe piuttosto da attribuire, dopo tre secoli d'usura e di nausea
scolastica, al lettore moderno, oramai disincantato, prevenuto, ben deciso in anticipo a non trovare alcun sapore,
alcun colore, alcun rilievo, in un discorso ritenuto da cima a fondo intellettuale e astratto . I retore
dell'epoca classica, per esempio, non vedevano in queste specie di tropi degli indici stereotipati della poeticit
dello stile, ma vere e proprie immagini sensibili.
[Piacciono le espressioni che creano nell'immaginazione una pittura sensibile di ci che si vuoi fare pensare. Ecco perch i poeti, il cui scopo
principale piacere, usano soltanto quest'ultime espressioni. Ed per la medesima ragione che le metafore, che rendono sensibili tutte le cose, sono cos
frequenti nel loro stile (LAMY, Rhtorique, 1688, IV, 16). Si potrebbero trovare nei trattati posteriori sui tropi giudizi concordanti, ma noi ci atteniamo
volontariamente a un retore della piena epoca classica. E, per sovrammercato, cartesiano.]

Cos bisognerebbe forse vedere nella fiamma nera di Racine un po' pi di fiamma e un po' pi di nero di quanto
non voglia Cohen per ritrovare un modo giusto di intendere il discorso raciniano: tra una lettura superattivante
e quella che col pretesto di lasciare alle parole il loro valore d'epoca riduce sistematicamente lo scarto
sensibile delle figure, la pi anacronistica non forse quella che si crede.
La denotazione e la connotazione sono insomma ben lontane dall'essere antagoniste quanto pensa Cohen,
ed proprio la loro doppia presenza simultanea ad alimentare l'ambiguit poetica, tanto nell'immagine moderna
quanto nella figura classica. Angelus celeste non significa soltanto angelus sereno: anche se si accetta la
traduzione proposta da Cohen, bisogna ammettere che il giro giro attraverso il colore importa al senso affettivo
, e quindi che la connotazione non ha bandito la denotazione. Ci che spinge Cohen ad affermarlo il suo
desiderio di trasformare interamente il linguaggio poetico in un linguaggio dell'emozione: avendo legato il
destino dell'emozionale al linguaggio connotativo e quello del nozionale al linguaggio denotativo, bisogna per forza
che espella il secondo a vantaggio esclusivo del primo. Il nostro codice dice un po' spicciativamente a
proposito della lingua naturale denotativo. Appunto per questo il poeta tenuto a forzare il linguaggio se
vuole fare sorgere il volto patetico del mondo... .
[Structure du langage potique, p.225]

Questo significa al tempo stesso equiparare troppo largamente la funzione poetica all'espressivit dello stile
affettivo (cos consostanziale, come sappiamo per lo meno dopo Bally, al linguaggio parlato stesso), e separare
troppo drasticamente il linguaggio poetico dalle risorse profonde della lingua.
La poesia e insieme un'operazione pi specifica e pi strettamente legata all'essere intimo del linguaggio. La
poesia non forza il linguaggio: Mallarm, con maggiore misura e ambiguit, diceva che ne compensa il difetto .
Il che significa al tempo stesso che lo corregge, che lo compensa e che lo ricompensa; che lo adempie, lo
sopprime e l'esalta: che lo colma. Che, lungi dal discostarsi dal linguaggio, si costituisce e si compie proprio in suo
diletto. In quel difetto appunto che lo costituisce.
[Sarebbe opportuno confrontare il libro di Cohen con un'altra opera, che rappresenta uno dei pi interessanti tentativi di teoria del linguaggio poetico:
Les constantes du po me, di A. KIBDl VARGA (Van Goor Zonen, L'Aja 1963). La nozione d'estraneit, nozione centrale di questa poetica dialettica,
ricorda evidentemente l'ostranenie dei formalisti russi. A noi pare pi felice di quella di scarto, in quanto non erige la prosa a riferimento obbligatorio della
definizione della poesia e inoltre s'accorda meglio con l'idea del linguaggio poetico come stato intransitivo del linguaggio, d'ogni testo ricevuto come
messaggio centrato su se stesso (Jakobson): la qual cosa, forse, ci libera di Monsieur Jourdain intendo dire del tourniquet prosa/poesia.]

Per giustificare in qualche modo queste formule che Jean Cohen probabilmente respingerebbe, non senza
qualche parvenza di ragione, come vane, perch non sono n chiare n verificabili , dobbiamo soffermarci un
po' pi da vicino su questo testo di Mallarm che ci sembra cogliere l'essenziale della funzione poetica: Le lingue
imperfette in questo che sono molte, manca la suprema: pensare essendo scrivere senza accessori n mormorio,
ma tacita ancora l'immortale parola, la diversit sulla terra degli idiomi impedisce di proferire le parole che
altrimenti si troverebbero ad essere, in un conio unico, materialmente la stessa verit... Il mio sentire rimpiange
che il discorso non riesca a esprimere gli oggetti con tocchi ad essi rispondenti in colorito e andamento, tocchi

esistenti nello strumento della voce, fra i diversi linguaggi e qualche volta nel singolo. Accanto a ombra opaco,
tenebre incupisce poco; quale delusione di fronte alla perversit che conferisce a giorno e a notte
contraddittoriamente un timbro oscuro qui e l chiaro. Il desiderio di un termine di splendore brillante, o che si
spenga, inverso; quanto ad alternative luminose semplici. Solamente, sappiamolo, non esisterebbe il verso: esso
filosoficamente ci compensa del difetto delle lingue, complemento superiore.
[OEuvres compltes, p. 364.]

Lo stile di questa pagina non deve dissimulare la fermezza del suo discorso, n la solidit del suo fondamento
linguistico: il difetto del linguaggio, attestato per Mallarm come pi tardi per Saussure, dalla diversit degli idiomi,
e illustrato dalla discordanza tra le sonorit e i significati, evidentemente quello che Saussure chiamer
l'arbitrariet del segno, il carattere convenzionale dei legame tra significante e significato; ma proprio questo
difetto la ragione d'essere della poesia, che esiste appunto in virt di essa: se le lingue fossero perfette, non
esisterebbe il verso, perch ogni parola sarebbe poesia; e quindi nessuna. Se capisco bene diceva Mallarm a
Vil-Griffin (secondo quest'ultimo) voi fondate il privilegio creatore del poeta sull'imperfezione dello
strumento che deve suonare; una lingua ipoteticamente adeguata a tradurne il pensiero sopprimerebbe il letterato,
che si chiamerebbe allora di fatto signor Tutti Quanti.
[Stphane Mallarm, esquisse orale, Mercure de France, febbraio]

La funzione poetica consiste infatti proprio in questo sforzo per compensare , sia pure illusoriamente,
l'arbitrariet del segno, ossia per motivare il linguaggio. Valry che aveva lungamente meditato sull'esempio e
sull'insegnamento di Mallarm, torn pi volte su quest'idea, opponendo alla funzione prosastica, essenzialmente
transitiva, in cui si vede la forma abolirsi nel suo senso (comprendere essendo tradurre), la funzione poetica in
cui la forma si unisce al senso e tende a perpetuarsi indefinitamente con esso: sappiamo che paragonava la
transitivit della prosa a quella del camminare, e l'intransitivit della poesia a quella della danza. La speculazione
sulle propriet sensibili della parola, l'indissolubilit della forma e del senso, l'illusione di una rassomiglianza tra la
parola e la cosa erano per lui, come per Mallarm,
[O per Claudel: Nella vita quotidiana adoperiamo le parole non propriamente in quanto significano gli oggetti, ma in quanto li designano e in quanto
praticamente ci permettono di prenderli e di servirci di essi. Ce ne dnno come una specie di riduzione portatile e spicciativa, un controvalore, banale
come il denaro. Il poeta invece non si serve delle parole nello stesso modo: se ne serve non per l'utilit, ma per costituire di tutti quei fantasmi sonori che
le parole mettono a sua disposizione un quadro intelligibile e dilettevole al tempo stesso ( OEuvres en prose, pp. 4748). La teoria di Sartre, in Qu'estce que la
littrature? e in Saint-Genet non presenta sostanziali differenze.]

l'essenza stessa del linguaggio poetico: Il potere dei versi dipende da un'armonia indefinibile tra quello che
dicono e quello che sono .
[OEuvres, II, p. 637.]

Vediamo cosi l'attivit poetica legarsi strettamente in alcuni, come nello stesso Mallarm (vedi i suoi Mots anglais
e l'interesse che dimostra per il famoso Trait du verbe di Ren Ghil), a un'incessante immaginazione del linguaggio, che
in fondo una fantasticheria motivante, una fantasticheria della motivazione linguistica, caratterizzata da una
sorta di nostalgia per quell'ipotetico stato primitivo della lingua in cui la parola sarebbe stata quello che diceva.
La funzione poetica, nel senso pi largo del termine dice Roland Barthes si definirebbe cos per una
coscienza cratilea dei segni, e lo scrittore sarebbe la voce recitante di quel gran mito secolare che vuole che il
linguaggio imiti le idee che, contrariamente alle affermazioni della scienza linguistica, i segni siano motivati
[Proust et les noms, in To honor R. Jakobson, Mouton, L'Aia 1967. ]

Lo studio del linguaggio poetico definito in questi termini dovrebbe poggiare su un altro studio che ancora
non mai stato sistematicamente intrapreso e che dovrebbe vertere sulla poetica del linguaggio (nel senso in cui
Bachelard parlava, per esempio, d'una poetica dello spazio), ossia sulle innumerevoli forme dell'immaginazione
linguistica. Gli uomini, infatti non sognano soltanto con le parole, sognano anche, e persino i pi rozzi, sulle
parole, su tutte le manifestazioni del linguaggio: abbiamo qui appunto dopo il Cratilo, quello che Claudel chiama
un formidabile dossier
[OEuvres en prose, p. 96.]

che bisogner pure decidersi ad aprire un giorno. Bisognerebbe d'altra parte analizzare a fondo tutto l'insieme
dei procedimenti e degli artifici cui fa ricorso l'espressione poetica per motivare i segni; qui non possiamo fare
altro che indicarne le principali specie.
La pi nota, perch la pi immediatamente percepibile, comprende i procedimenti che, prima di affrontare il
difetto del linguaggio, si studiano di ridurlo, sfruttando in un certo senso il difetto del difetto, ossia quelle poche
vestigia di motivazione, diretta o indiretta, che troviamo naturalmente nella lingua: onomatopee, mimologismi,
armonie imitative, effetti d'espressivit fonica o grafica,
[ I primi sono ben noti (anche troppo, probabilmente) dopo Gramont e Jespersen. I secondi sono stati studiati molto meno nonostante l'insistenza di
Claudel (cfr. in particolare Idogrammes occidentaux, p. 81).]

evocazioni per sinestesia, associazioni lessicali.

[Possiamo chiamare cos, nonostante qualche ondeggiamento nella terminologia linguistica il contagio semantico tra parole vicine per la forma: cos la
frequente associazione, nella rima per esempio, con funebre, pu scurire, come desidera Mallarm, il semantismo naturale di tenebre.]

Valry, che pure ci sapeva fare quanto un altro,


[Per esempio: L'insetto netto gratta la secchezza (Le cimeti re marin).]

non aveva molta stima per questo genere d'effetti: l'armonia tra l'essere e il dire non deve scriveva essere
definibile. Quando lo si tratta d'armonia imitativa, e questo non bello .
[OEuvres, II, p. 637.]

certo comunque che sono questi i mezzi pi facili, visto che sono dati nella lingua, e quindi alla portata del
signor Tutti Quanti , e soprattutto che il mimetismo da essi realizzato del tipo pi grossolano. C' pi finezza
negli artifici che (rispondendo cos pi direttamente alla formula di Mallarm) si sforzano di correggere il difetto
avvicinando, adattando l'uno all'altro il significante e il significato separati dalla dura legge dell'arbitrariet.
Schematicamente parlando, questo adattamento pu essere realizzato in due modi diversi.
Il primo consiste nell'avvicinare il significato al significante, ossia nel flettere il senso o, pi esattamente forse,
nello scegliere tra le virtualit semiche quelle che meglio si accordano alla forma sensibile dell'espressione: cos
appunto Jakobson indica come la poesia francese possa sfruttare, e con ci stesso giustificare, la discordanza
notata da Mallarm tra i fonetismi delle parole giorno e notte, e da parte nostra si cercato di dimostrare
[Qui stesso, pp. 111-19.]

in che cosa gli effetti di questa discordanza e del suo sfruttamento possono contribuire a quella particolare
sfumatura che la poesia francese d all'opposizione tra il giorno e la notte: soltanto un esempio tra migliaia
d'altri possibili: ci vorrebbero qui numerosi studi di semantica prepoetica, in tutti i campi (e in tutte le lingue)
anche solo per cominciare ad apprezzare l'incidenza di questi fenomeni su quella che viene chiamata, forse
impropriamente, la creazione poetica.
Il secondo consiste, inversamente, nell'avvicinare il significante al significato. Questa azione sul significante
pu essere di due ordini molto diversi: d'ordine morfologico, se il poeta, non soddisfatto delle risorse espressive
del suo idioma, si sforza di modificare le forme esistenti o anche di foggiarne delle nuove; nel xx secolo questo
capitolo dell'invenzione verbale ha trovato i suoi illustratoci in poeti come Fargue o Michaux, ma il
procedimento, per ngioni evidenti, rimasto fino a questo momento eccezion
le. L'azione pi frequente sul significante, la pi efficace, probabilmente in ogni caso quella pi conforme
alla vocazione del giuoco poetico che di situarsi all'interno della lingua naturale e non accanto ad essa ,
d'ordine semantico e consiste non nel deformare dei significanti o nell'inventarne altri, ma nello spostarli, ossia nel
mettere al posto di un termine proprio un altro termine che viene distolto dal suo uso e a cui viene affidato un
uso e un senso nuovi. Questa azione di spostamento, che Verlaine ha finemente chiamato la mprise ,
evidentemente all'origine di tutte quelle figure di parole prese fuori dal loro significato che sono i tropi della
retorica classica. Si tratta di una funzione della figura che non forse stata messa sufficientemente in luce fino ad
ora
[Cfr. tuttavia Bally: Le ipostasi sono tutte segni motivati (Le langege et la vie, Niehans, Zurigo 19361, p. 95)]

e che concerne direttamente il nostro discorso: contrariamente al termine proprio o letterale, che
normalmente arbitrario, il termine figurato essenzialmente motivato, e motivato in due sensi: innanzi tutto e
semplicemente perch scelto (anche se in un repertorio tradizionale come quello dei tropi d'uso corrente) invece
di essere imposto dalla lingua; inoltre perch la sostituzione di termine procede sempre da un certo rapporto tra i
due significati (rapporto d'analogia per una metafora, d'inclusione per una sineddoche, di contiguit per una
metonimia, ecc.) che resta presente (connotato) nel significante spostato per cui questo significante, bench
generalmente altrettanto arbitrario, nel suo senso letterale, del termine soppiantato, diventa motivato nel suo uso
figurato. Dire fiamma per designare la fiamma, amore per designare l'amore, sottomettersi alla lingua accettando
le parole arbitrarie e transitive che essa ci impone; dire fiamma per amore motivare il proprio linguaggio (dico
fiamma perch l'amore brucia) e con ci stesso dargli lo spessore, il rilievo e il peso d'esistenza che gli mancano
nella circolazione quotidiana dell'universel reportoge.
comunque opportuno precisare qui che non ogni sorta di motivazione risponde al voto poetico profondo
che , secondo l'espressione di Eluard,
[Sans ge (Cours naturel), in (Euvres compl tes, Biblioth que de la Pliade, Gaffimard, Paris 1968, I.]

di parlare un linguaggio sensibile. Le motivazioni relative , d'ordine essenzialmente morfologico (vaccalvaccaro,


uguale/disuguale, scelta/scegliere, ecc.) di cui parla Saussure e che egli vede dominare nelle lingue pi grammaticali ,
[Cours de linguistique gnrale, pp. 180-84.]

non sono tra le pi felici per il linguaggio poetico, forse perch la loro origine troppo intellettuale e il loro

funzionamento troppo meccanico. Il rapporto tra oscuro e oscurit troppo astratto per dare a oscurit una vera
motivazione poetica. Un lessema non analizzabile come ombra o tenebre, con le sue qualit e i suoi difetti sensibili
immediati e la sua rete d'evocazioni indirette (ombra-tomba, tenebre-funebre) offrir probabilmente lo spunto a una
azione motivante pi ricca, nonostante la sua maggiore immotivazione linguistica. E la stessa parola oscurit per
acquistare una certa densit poetica, dovr darsi una sorta di freschezza verbale facendo dimenticare la sua
derivazione e riattivando gli attributi sonori e visuali della sua esistenza lessicale. Questo implica tra l'altro che la
presenza del morfema non sia sottolineata da una rima categoriale del genere oscurit-verit e possiamo, sia
detto di sfuggita, immaginare che questa ragione sia pure inconsciamente e con varie altre, abbia contribuito
alla proscrizione delle rime grammaticali. Guardate invece come la parola si rigenera e si sensibilizza in un
contesto appropriato, come in questi versi di Saint-Amant:
J'coute, demi transport, Le bruit des ailes du silence Qui vole dans l'obscurit.
[[Ascolto quasi trasportato | Il fruscio delle ali del silenzio | Che vola nell'oscurit]. Le contemplateur.]

Oscurit ha trovato qui il suo destino poetico; essa non pi la qualit astratta di ci che oscuro, diventata
uno spazio, un elemento, una sostanza; e contro ogni logica, ma secondo la segreta verit del notturno
quanto luminosa!
Questa digressione ci ha allontanato dai procedimenti di motivazione, ma non dobbiamo rimpiangerlo giacch in
realt l'essenziale della motivazione poetica non in questi artifici, che funzionano probabilmente solo da
catalizzatori: pi semplicemente e pi profondamente nell'atteggiamento di lettura che la poesia riesce (o, pi
spesso, non riesce) a imporre al lettore, atteggiamento motivante che, al di l o al di qua di tutti gli attributi
prosodici o semantici, accorda a tutto o a parte del discorso quella specie di presenza intransitiva e d'esistenza
assoluta che Eluard chiama l'evidenza poetica. Il linguaggio poetico rivela qui, ci sembra, la sua vera struttura ,
che non di essere una forma particolare, definita dai suoi accidenti specifici, ma piuttosto uno stato, un grado di
presenza e d'intensit cui pu essere portato, per cos dire, qualsiasi enunciato, alla sola condizione che si
stabilisca intorno ad esso quel margine di silenzio
[ Le poesie hanno sempre grandi margini bianchi, grandi margini di silenzio (P. ELUARD, Donner voir, in (Euvres compl tes, I, p. 81). Si osserver che
anche la poesia pi libera dalle forme tradizionali non ha rinunciato (anzi al contrario) al potere della messa in condizione poetica che dipende dalla
disposizione della poesia nel bianco della pagina. Esiste, in tutti i sensi del termine, una disposizione poetica. Cohen lo dimostra benissimo con quest'esempio
fabbricato: Ieri sulla Nazionale sette | Un'automobile | Che marciava a cento allora finita | Contro un platano | I quattro occupanti sono rimasti |
Uccisi . Cos disposta dice giustamente la frase non gi pi prosa. Le parole si animano, si elettrizzano (p. 76). Questo dipende non soltanto,
com'egli dice, dal taglio grammaticalmente aberrante, ma anche, e prima di tutto, da un'impaginazione che chiameremmo volentieri intimidatoria. La
soppressione della punteggiatura in gran parte della poesia moderna, di cui Cohen sottolinea giustamente l'importanza (p. 62), va anch'essa nella medesima
direzione: annullamento dei rapporti grammaticali e tendenza a costruire la poesia, nello spazio silenzioso della pagina come una pura costellazione verbale
(sappiamo quanto quest'immagine abbia ossessionato Mallarm ).]

che l'isola in mezzo al linguaggio quotidiano pur senza estraniarlo da esso. Per questo probabilmente la poesia si
distingue da tutte le sorti di stile, con le quali condivide soltanto un certo numero di mezzi. Lo stile s uno
scarto, nel senso che si allontana dal linguaggio neutro per un certo effetto di differenza e d'eccentricit; la poesia
non procede allo stesso modo: si direbbe piuttosto che essa si ritiri dal linguaggio comune dall'interno, attraverso
un'azione certo in larga parte illusoria d'approfondimento e di risonanza paragonabile a quelle percezioni
esaltate dalla droga che secondo quanto afferma Baudelaire trasformano la grammatica, perfino l'arida
grammatica in una sorta di *magia evocatora: le parole risuscitano rivestite di carne e di ossa, il sostantivo nella
sua maest sostanziale, l'aggettivo, manto trasparente che lo veste e lo colora come uno smalto, e il verbo, angelo
del movimento, che d l'impulso alla frase .
[ Le pome du baschisch, parte IV. La menzione fatta qui della grammatica non contraddice l'idea, che condividiamo nell'essenzale con Jean Cohen,
della poesia come degrammaticalizzazione del linguaggio, e non appoggia, come vorrebbe Roman Jakobson (Une microscope du dernier spleen, Tel Quel, n.
29), l'idea di una poesia della grammatica. Per Baudelaire l'arida grammatica non diventa magia evocatoria (formula cardinale, come sappiamo, che si ritrova
in Fuses e nell'articolo su Gautier, in contesti che non debbono pi nulla allo stupefacente) se non perdendo il carattere puramente relazionale che
costituisce la sua aridit, ossia degrammaticalizzandosi: le partes orationis risuscitano vestendosi di carne e di ossa, ritrovando un'esistenza sostanziale, le
parole diventano esseri materiali, colorati e animati. Non c' nulla di pi lontano da un'esaltazione della grammatica come tale. Esistono forse delle
immaginazioni linguistiche centrate sul grammaticale e Mallarm, per lo meno, si diceva un syntaxier. Ma il poeta che lodava in Gautier quel magnifico
dizionario i cui fogli, mossi da un soffio divino s'aprono al punto giusto per lasciare scaturire la parola appropriata, la parola unica, e che scrive anche
nell'articolo del 1861 su Hugo: Vedo nella Bibbia un profeta al quale Dio ordina di mangiare un libro. Ignoro in quale mondo Vietor Hugo abbia
mangiato in anticipo il dizionario della lingua che era chiamato a parlare: vedo per che il lessico francese, uscendo dalle sue labbra, diventato un mondo, un
universo colorato, melodioso e mutevole (sottolineato da noi), questo poeta non invece un esempio caratteristico di quella che potremmo chiamare
l'immaginazione lessicale? Citiamo ancora l'articolo del 1859 su Gautier: Ero stato colpito molto giovane da lessicomania .]

Del linguaggio poetico cos inteso che sarebbe forse meglio chiamare il linguaggio allo stato poetico, o lo
stato poetico del linguaggio diremo senza troppo forzare la metafora, che il linguaggio allo stato di sogno, e si sa
bene che il sogno in rapporto alla veglia non uno scarto, anzi il contrario... ma come dire quello che il
contrario di uno scarto? In verit ci che si lascia pi giustamente definire dallo scarto, come scarto, non il
linguaggio poetico, bens proprio la prosa, l'orario soluta, la parola disgiunta, il linguaggio stesso come divergenza e
disgiunzione dei significanti, dei significati, dei significante e del significato. La poesia sarebbe s allora, come dice
Cohen (ma in senso diverso, o piuttosto in direzione opposta), antiprosa e riduzione dello scarto: scarto scartato,
negazione, rifiuto, oblio, annullamento dello scarto, di quello scarto che costituisce il linguaggio;
[Questo rimando dallo scarto stilistico agli scarti costitutivi di ogni linguaggio pu apparire sofistico. Vogliamo semplicemente, sfruttando
quest'equivoco, attirare (o riportare) l'attenzione sulla reversibilit dell'opposizione prosa/poesia e sull'artificio essenziale della lingua naturale. Se la poesia
scarto in rapporto alla lingua, la lingua scarto in rapporto a tutte le cose, e in particolare a se stessa. De Brosses designa con questo termine la
separazione, secondo lui progressiva (e spiacevole), nella storia delle lingue, tra oggetto, idea e significanti (fonici e grafici): Per quanti scarti vi siano nella
composizione delle lingue, per quanta parte possa avervi l'arbitrario... ; Quando si penetra questo difficile mistero (dell'unione, nella lingua primitiva,
dell'essere reale, dell'idea, del suono e della lettera), non ci si stupisce, progredendo nell'osservazione, di riconoscere a quale eccesso queste quattro cose,
dopo essersi cos avvicinate a un centro comune, si discostino di nuovo attraverso un sistema di derivazione... (Trait de la formation mcanique des langues, Paris
1765, pp. 6 e 21. Il corsivo nostro).]

illusione, sogno, utopia necessaria e assurda d'un linguaggio senza scarto, senza iato senza difetto.

Stendhal

Il vero melomane, macchietta piuttosto rara in Francia, ove di solito non che una pretenziosa vanit, si
incontra a ogni angolo in Italia. Quando ero di guarnigione a Brescia ebbi modo di conoscere la persona del
luogo forse pi sensibile alla musica. Era uomo molto mite e cortese, ma quando si trovava a un concerto e la
musica gli piaceva oltre un certo limite, senza accorgersene si toglieva le scarpe; si giungeva a un passaggio
sublime, ecco che immancabilmente lanciava le scarpe dietro di s sugli spettatori.
[Vie de Rossini (Divan), I, p. 31. La menzione Divan rinvia qui all'edizione in 79 volumi (1927-37); Divan critique rinvier alle edizioni critiche, curate
sempre per il Divan da Henri Martineau.]

C' nel beylismo, nello Stendhal-Club, e in altre manifestazioni particolarmente appariscenti nel caso di
Stendhal di feticismo dell'autore, almeno questo di buono, che ci preservano o ci distolgono da un'altra sorta
d'idolatria, non meno grave e oggi pi pericolosa, che il feticismo dell'opera concepita come un oggetto
chiuso, compiuto, assoluto.
Da un altro canto per, non v' impresa pi vana che cercare negli scritti di Stendhal, o nelle testimonianze
dei suoi contemporanei, la traccia d'un essere definito e sostanziale che si potrebbe legittimamente, in accordo
con lo stato civile, chiamare Henri Beyle. Quanto pi giusta, pur nei suoi eccessi, la riserva di Mrime che
laconicamente intitola H. B. una specie di necrologia clandestina nella quale sostiene che il defunto non scriveva
mai una lettera senza firmarla con un nome falso o datarla da un luogo fantasioso, che gratificava tutti i suoi
amici di un nome di battaglia e che nessuno ha mai saputo esattamente quali persone frequentasse, quali libri
avesse scritto, quali viaggi avesse fatto . Le scoperte dell'erudizione da allora in poi non hanno fatto che infittire
il mistero, moltiplicando semplicemente il numero dei dati.
Le due cariatidi dell'antico sapere letterario si chiamavano, forse lo si rammenta ancora: l'uomo e l'opera. Il
valore esemplare del fenomeno Stendhal dipende dal modo in cui esso scombussola queste due nozioni
alterandone la simmetria, confondendone la differenza, distorcendone i rapporti. In questo nome di battaglia
che Stendhal confluiscono, si incrociano e s'annullano vicendevolmente e incessantemente la persona
d'Henri Beyle e la sua opera : infatti se, per ogni stendhaliano l'opera di Stendhal designa costantemente Henri
Beyle, Henri Beyle a sua volta non esiste veramente che attraverso l'opera di Stendhal. Non c' nulla di pi
improbabile, di pi fantomatico del Beyle dei ricordi, delle testimonianze, dei documenti, il Beyle raccontato da
coloro che l'hanno visto , quei Beyle appunto di cui Sainte-Beuve chiedeva informazioni a Mrime, ad Ampre,
a Jacquemont, a tutti coloro insomma che l'hanno visto e assaporato nella sua forma originaria . La forma
originaria di Beyle, quel Beyle anteriore a Stendhal che Sainte-Beuve ricerca, soltanto un'illusione biografica: la
vera forma di Beyle essenzialmente seconda. Beyle per noi legittimamente soltanto un personaggio di Stendhal.
Dice di se stesso: il vero mestiere dell'animale scrivere romanzi in una soffitta , cosa che avrebbero potuta
affermare altrettanto bene Balzac o Flaubert o qualsiasi altro romanziere a meno che il fatto stesso d'avere
bisogno d'affermarla non sia indicativo della singolarit d'uno scrittore che, a differenza della maggior parte
dei suoi confratelli, si sempre preferito alla propria opera ,
[JEAN POUILLON, La Cration chez Stendhal , Temps modernes, n. 69.]

e che, lungi dal sacrificarsi ad essa, sembra soprattutto desideroso di metterla al servizio di quello che egli stesso
ha battezzato, con parola introdotta per la circostanza, il suo egotismo.
Ma se, secondo il parere generale, la presenza dell'autore in quest'opera piuttosto ingombrante, bisogna
per anche notarne il carattere costantemente ambiguo e come problematico. La mania pseudonimica assurge qui
a valore di simbolo: nei romanzi come nella corrispondenza, nei saggi come nelle memorie, Beyle sempre

presente, ma quasi sempre mascherato o travestito ed significativo che la sua opera pi direttamente
autobiografica porti come titolo un nome che non n quello dell'autore, n quello dell'eroe: Stendhal copre
Henry Brulard, che copre Henry Beyle che a sua volta sposta impercettibilmente Menri Beyle dello stato
civile, il quale non si confonde con nessuno degli altri tre e ci sfugge per sempre.
Il paradosso dell'egotismo press'a poco questo: parlare di s, nella maniera pi indiscreta e pi spudorata,
pu essere il modo migliore per nascondersi. L'egotismo , in tutti i sensi del termine, una parata .
La dimostrazione pi efficace probabilmente la sconcertante confessione edipica di Brulard: Mia madre,
Henriette Gagnon, era una donna incantevole e io ero innamorato di mia madre...
Volevo coprire mia madre di baci e desideravo che non ci fossero abiti. Ella mi amava appassionatamente e
mi baciava spessissimo; io le rendevo i baci con un tal fuoco che sovente era obbligata a fuggire. Detestavo mio
padre quando veniva a interromperei nostri baci...
Una sera, poich mi avevano messo, per non so quale ventura, a dormire nella sua stanza in terra su un
materasso, questa creatura viva e leggera come una cerbiatta salt sopra il mio materasso per raggiungere pi in
fretta il suo letto .
[Vie de Henry Brulard (Divan cric.), I, pp. 42 e 45.]

Per gli specialisti un simile testo dovrebbe costituire una specie di scandalo: che cosa lascia da interpretare?
Immaginiamo Edipo, al levarsi dei sipario che dichiara senza preamboli al popolo tebano: Brava gente, ho
ammazzato mio padre Laio e fatto fare quattro figli a mia madre Giocasta: due maschi e due femmine. Non state
a cercare oltre, tutto il male viene di qui . Faccia stupita di Tiresia. (Faccia stupita di Sofocle).
Scandalo, tra l'altro, in senso etimologico: scandalon significa trappola , e dire l'indicibile una trappola senza
fine. Grazie a Brulard siamo ancora crudelmente privi di una psicanalisi di Stendhal. Il che d una sorta di comica
verit a questa affermazione di Alain: Stendhal lontano pi di quanto si pu pensare dai nostri freudiani .
Sul margine del manoscritto di Leuwen, a proposito di un particolare del carattere dell'eroe, Stendhal annota:
Modello: Dominique himself. Ah! Dominique himself! .
[Ed. Hazan, p. 671]

Questa strana designazione di s tipicamente stendhaliana, nel tutto come nelle parti. Dominique, come
noto, da tempo il suo soprannome pi intimo, quello che riserva, quasi esclusivamente, al suo uso personale:
cos che egli si nomina. Il sabir internazionale anch'esso uno dei suoi procedimenti crittografici favoriti, nelle
note che destina soltanto a se stesso. Ma la convergenza dei due codici sul medesimo oggetto, che si trova ad
essere qui precisamente il soggetto, di un effetto sorprendente. L' io stendhaliano non precisamente odioso
: propriamente (e profondamente) innominabile. Il linguaggio non pu avvicinarglisi senza disintegrarsi in una
miriade di sostituzioni, spostamenti e circonlocuzioni al tempo stesso ridondanti ed elusivi. Dominique nome
italianizzante, pu essere attento a mo' d'omaggio, dall'autore del Matrimonio segreto; himself, riflessivo inglese il
cui idiomatismo bicorne scusa, relegandolo in un'eccentricit vagamente ridicola, l'insopportabile riferimento a
s. Ah! Dominique himself! Si pu esprimere in modo pi netto il decentramento del soggetto, l'alterit, l'estraneit
dell'ego?
O ancora, a diverse riprese nel Journal: Mr (oppure il Sig.) Myself .
Rifiuto edipico del patronimico, probabilmente. Ma che cosa significa d'altronde la soppressione o
l'alterazione del nome (pratica certamente banale) e, cosa pi rara, il tab posto qui sulla lingua materna? (A meno
che non si debba dire paterna [sermo patrius], la lingua originaria, da parte dei Gagnon, essendo invece
miticamente l'italiano).

La proliferazione pseudonimica
[Cfr. JEAN STAROBINSKI, Stendhal pseudonyme, in L'oeil vivant, Gallimard, Paris 1961, pp. 193-244.]

non riguarda soltanto Beyle stesso (pi di cento nomignoli nella corrispondenza e nelle carte intime, due
pseudonimi letterari, senza contare i prestanome di Rome, Naples et Florence o dell'Arnour), o i suoi amici pi cari
(Mrime diventa Clara, la signora Dembowsky Lonore, Alberthe de Rubempr la signora Azur o Sanscrit) o i
luoghi familiari (Milano si scrive i000 ans. Roma Ornar o Omer, Grenoble Cularo, Civitavecchia Abeille; e Milano
designa a volte, gloriosamente, Napoleone). Riguarda anche i titoli di certe opere. Cos De l'amour quasi
costantemente battezzato Love, e il Rouge: Julien. Sappiamo che Stendhal esit per Lucien Leuwen tra Leuwen,
L'orange de Malte, Le tlgraphe, Le chasseur vert, Les bois de Prmol, L'amarante et le noir, Le rouge et le blanc: ma, pi d'una
vera e propria indecisione, sembrerebbe quasi trattarsi d'una specie di reazione a catena, come se il primo titolo

adottato richiamasse immediatamente una sostituzione pseudonimica che, non appena stabilizzata come
denominazione propria, richiama a sua volta un'altra sostituzione e cos via. L'argot conosce bene questa perpetua
fuga delle denominazioni, il cui principio sta forse nel desiderio sempre deluso e sempre rilanciato di chiamare
altrimenti quello che ha gi un nome. E lo pseudonimismo, come le altre tecniche di scrittura cifrata care a
Stendhal (abbreviazioni, anagrammi, anglicismi, ecc.) proviene da questa rabbia metalinguistica. Le crittografie
stendhaliane rivelano probabilmente non tanto una fissazione poliziesca quanto una certa ossessione del
linguaggio, la quale si esprime in tutta una serie di fughe e rilanci.
Se si presta fede a Mrime capit una volta al console francese a Civitavecchia d'inviare al proprio ministro
degli affari esteri una lettera cifrata con la cifra messa nella stessa busta. Mrime spiega l'accaduto con la
sbadataggine, ma se si vuole interpretare la sbadataggine stessa, si tentati di vedere in questo lapsus una
confessione: la cifratura l per il piacere. E il piacere di cifrare al tempo stesso quello di escludere il linguaggio
e di parlare due volte.

Mocenigo.
Che cosa designa esattamente questo nome venero che ossessiona il diario tra il 1811 e il 1814? Un'opera in
ideazione, cos battezzata dal nome dell'eroe? I will be able to work to Mocenigo . Un certo ruolo o tipo
sociale, o psicologico? The mestiere of Mocenigo makes bashfull procurando gioie intime che si vorrebbe non
turbare con niente . Beyle stesso? Anglique Delaporte che ha attualmente sedici anni e dieci mesi, e che viene
giudicata nell'attimo in cui scrivo, mi sembra un essere degno di tutta l'attenzione di Mocenigo . Il genere
drammatico, come vuole Martineau? Con questa parola bisogna intendere l'arte teatrale nella quale pensava
sempre di diventare famoso . Pi genericamente la conoscenza del cuore umano e tutta la letteratura
d'analisi? Le Memorie scritte con verit... vere miniere for the Mocenigo . O ancora il diario stesso? Avevo in
t) animo di scrivere oggi la parte di Mocenigo della giornata di ieri. Ma rientro stanco a mezzanotte e ho soltanto
la forza di annotare la giornata di oggi.
[Journal (Divan), V, pp. 258, 94, 85; MARTINEAU, Le coeur de Stendhal, historie de sa vie et de ses sentiments, Albin Michel, Paris 195253, 2 voll., P. 361;
Journal, IV, p. 254, V, p. 153]

Allo stato attuale degli studi stendhaliani sembra che queste domande restino senza risposta e forse lo resteranno
per sempre. Ma che Mocenigo possa apparire, secondo le circostanze, come un nome di personaggio, un titolo, uno
pseudonimo, o anche come la designazione di qualche entit letteraria pi vasta, questa stessa polivalenza
rivelatrice e in un certo senso esemplare. Mocenigo: n l' uomo n l' opera , bens qualcosa come il lavoro
reciproco, o reversibile, che li unisce e li fonda l'uno attraverso l'altro. Fare Mocenigo, essere Mocenigo una cosa
sola.
Nello stesso modo forse, negli anni 18i82o, Beyle designa volentieri col nome di Bombet, con cui le aveva
firmate, le Vies de Haydn, Mozart et Mtastase, e con Stendhal, la prima versione di Rome, Naples et Florence: Invece di
fare un articolo su Stendhal, fatelo su Bombet... I centocinquantotto Stendhal si venderanno da soli .
[Correspondance (Divan), V, pp. 108-9.]
Il nome Stendhal per lui ancora soltanto quello di un libro. Diventer egli stesso Stendhal per metonimia,
identificandosi con questo libro e con il suo problematico autore.
L'imponente palazzo costruito da Pierre Wanghen occupa l'estremit nord della Frdric-Gasse, la bella strada di Kdnigsberg, cos interessante per gli
stranieri a causa del gran numero di piccole scalinate dai sette agli otto gradini sporgenti sulla via, che conducono ai portoni delle case. Le ringhiere di
queste piccole scalinate, splendenti di pulizia, sono di ferro fuso di Berlino, credo, e ostentano tutta la ricchezza un po' stravagante del disegno tedesco. In
complesso questi ornamenti involuti non sono sgradevoli: hanno il vantaggio della novit e si accordano a meraviglia con quelli delle finestre
dell'appartamento nobiliare che a Knigsberg si trova al pianterreno, rialzato di quattro o cinque piedi sul livello della strada. Le finestre sono munite nella
parte inferiore di telai mobili che portano delle telette metalliche d'un effetto molto particolare. Questi tessuti brillanti, comodissimi per la curiosit delle
signore, sono impenetrabili all'occhio del passante abbagliato dallo scintillio che si sprigiona dal tessuto metallico. Gli uomini non scorgono affatto
l'interno degli appartamenti, mentre le dame che lavorano vicino alle finestre vedono perfettamente i passanti.
Questo genere di piacere e di passeggiata sedentaria, se mi consentita l'espressione ardita, costituisce una delle caratteristiche salienti della vita sociale
in Prussia. Da mezzogiorno alle quattro, se si passeggia a cavallo e si fa fare un po' di rumore al cavallo, si sicuri di vedere tutte le bellezze della citt che
lavorano proprio contro il vetro inferiore della finestra. C' anche un tipo particolare d'abbigliamento che ha un suo nome speciale ed indicato dalla
moda per figurare cos dietro il vetro che, nelle case tenute un po' con cura, assai trasparente.
La curiosit delle donne aiutata da un'ulteriore risorsa: in tutte le case signorili si vedono, ai due lati delle finestre del pianterreno, rialzato di circa
quattro piedi sul livello della strada, degli specchi alti un piede, sorretti da un piccolo braccio di ferro e un po' inclinati verso l'interno. Per effetto di questi
specchi inclinati le donne vedono i passanti che arrivano dal fondo della strada, mentre, come abbiamo detto, l'occhio curioso di questi signori non pu
penetrare nell'appartamento, attraverso le telette metalliche che accecano la parte inferiore delle finestre. Essi per, anche se non vedono, sono sicuri di
essere visti e questa certezza d una rapidit particolare a tutti i romanzetti che animano la societ di Berlino e di K nigsberg. Un uomo certo d'essere
visto tutti i giorni e diverse volte dalla donna che preferisce; non anzi del tutto impossibile che il telaio di tela metallica sia a volte per puro caso un po'
fuori posto e permetta a colui che sta passeggiando di scorgere la manina della dama che cerca di rimetterla a posto. Si arriva persino a dire che la
posizione di questi telai pu avere un linguaggio. Chi potrebbe capirlo od offendersene?. [Le rose et le vert, Romans et Nouvelles (Divan), I, p. 17.]

La comunicazione indiretta una delle situazioni privilegiate della topica stendhaliana. Conosciamo la
condanna lanciata da Rousseau contro la funzione mediatrice del linguaggio e quella per lui doppiamente
mediatrice della scrittura; sembra invece che Stendhal respinga, o per lo meno si riservi quella relazione di
trasparenza in cui l'anima parla direttamente all'anima . I momenti decisivi della comunicazione (confessioni,
rotture, dichiarazioni di guerra) sono generalmente affidati nelle sue opere alla scrittura: cos per la
corrispondenza tra Lucien Leuwen e la signora di Chasteller che traspone in termini di passione vera l'insidiosa

tecnica di seduzione epistolare presa a prestito da Laclos (di cui l'episodio delle lettere ricopiate per la signora di
Fervaque, nel 1Zouge, ("0 stituisce invece una sorta di parodia), o per lo scambio di lettere fra Julien e Mathilde
nei capitoli xiii e xiv della seconda parte del Rouae. Il modo di trasmissione, in quest'ultimo episodio, anch'esso
caratteristico: Julien e Mathilde abitano sotto lo stesso tetto, si incontrano tutti i giorni, ma la confessione che
Mathilde sta per fare eccede la parola: Riceverete stasera una mia lettera, gli disse con una voce talmente
alterata, che il suono non era riconoscibile... Un'ora dopo, un servo consegn una lettera a Julien; era una vera e
propria dichiarazione d'amore . Questa lettera compromettente viene affidata in custodia da Julien all'amico
Fouqu non senza precauzioni iperboliche: nascosta nella copertina di un'enorme Bibbia acquistata all'uopo da
un libraio protestante. Poi redige una risposta prudente che consegna direttamente nelle mani di lei. Pensava
che fosse doveroso parlarle; era la cosa pi comoda, ma la signorina de la Mle non volle ascoltarlo e scomparve.
Julien ne fu deliziato, non avrebbe saputo che cosa dirle . Seconda lettera di Mathilde: La signorina de la Mle
apparve sulla soglia della biblioteca, gli gett una lettera e fuggi. A quanto pare sta diventando un romanzo
epistolare, disse raccogliendo la lettera . Terza lettera: Questa gli fu lanciata dalla porta della biblioteca. La
signorina de la Mle scapp nuovamente. Che mania di scrivere, disse tra s ridendo, quando c' modo
di parlarsi tanto comodamente! Julien ne parla con disinvoltura: non innamorato. Mathilde invece non solo
non pu dire comodamente duello che ha da dire, ma solo con grande sforzo pu tenere o far tenere in mano
quello che ha scritto e che brucia: fa recapitare le sue lettere oppure le getta di lontano come fossero granate.
La scrittura presto accompagnata, dunque, come mediazione, da un atto o da un sistema di trasmissione che
ne aggrava il carattere indiretto e differito. Lucien fa sei leghe a cavallo per andare a impostare le sue lettere a
Darney, sulla strada da Nancy a Parigi. La signora di Chasteller gli risponde al supposto indirizzo del suo
domestico. Corrieri che si incrociano e si scontrano, quiproquo postale a beneficio della cristallizzazione. Octave
e Armance affidano le loro lettere, vere e false, alla cassa d'un arancio. In Ernestine ou la naissance de l'amour,
[De l'amour (Divan crit.), pp. 320-43]

i biglietti di Philippe Astzan sono attaccati al nodo di mazzi di fiori deposti nel cavo di una grande quercia sulla
riva del lago. Sempre in un mazzo di fiori fissato all'estremit di una serie di canne di bamb Giulio Branciforte
nell'Abbesse de Castro issa la sua prima lettera all'altezza della finestra di Elena Campireali; la risposta favorevole
sar l'invio d'un fazzoletto.
L'amore stendhaliano tra l'altro un sistema e uno scambio di segni. La cifra non soltanto un ausilio della
passione: il sentimento tende per cos dire naturalmente alla crittografia, come per una specie di superstizione
profonda. La comunicazione amorosa si compie, con l'aiuto di reclusioni talvolta compiacenti (conventi, prigioni,
clausure familiari), attraverso codici telegrafici la cui ingegnosit simula molto bene quella del desiderio. In Suora
Scolastica, Gennaro usa il linguaggio a gesti dei sordomuti, ben noto, sembra, alle ragazze napoletane, per far
giungere a Rosalinda questo messaggio: Da quando non vi vedo sono infelice. Voi siete felice in convento? Siete
libera di venire spesso sul belvedere? Vi piacciono sempre i fiori? Nella prigione della torre Farnese, Clelia si
rivolge a Fabrizio accompagnandosi col pianoforte, facendo finta di cantate un recitativo dell'opera alla moda.
Fabrizio risponde tracciandosi delle lettere col carbone sulla mano: per domandare carta e matita. La giovino a
sua volta strapp le pagine d'un libro e cominci a tracciarvi su in tutta fretta grandi lettere a inchiostro, con
immensa gioia di Fabrizio che vide finalmente stabilito, dopo tre mesi di pene, quel mezzo di corrispondenza
cos vanamente sollecitato. Si guard bene dallo smettere quella piccola astuzia cos ben riuscita: egli aspirava a
comunicare per iscritto e fingeva a ogni momento di non afferrare bene le parole di cui Clelia gli mostrava
successivamente tutte le lettere . Il legame (di sostituzione) tra lo scambio di scrittura e il rapporto amoroso
qui fin troppo palese. Fabrizio ricever anche in seguito un pane abbastanza grosso, ornato di tante crocette
tracciate a penna: Fabrizio le coperse di baci , poi dei messaggi sul margine di un breviario, da cui strapper
alcune pagine per fabbricare un alfabeto, e questo sistema di corrispondenza durer fino all'evasione. Con Gina
comunica all'inizio mediante segnalazioni luminose: uno per A, due per B, ecc. Chiunque per avrebbe potuto
vederle e capirle; si cominci da quella prima notte a stabilire certe abbreviazioni: tre apparizioni susseguentisi
rapidamente indicavano la duchessa; quattro il principe, due il conte Mosca; due apparizioni rapide seguite da due
lente avrebbero voluto dire evasione. Fu poi convenuto di seguire per l'innanzi l'antico alfabeto detto alla Monaca
che, per non essere indovinato da indiscreti, cambia il numero ordinario delle lettere e ne d loro uno arbitrario:
A, per esempio, porta il numero dieci; B, il numero tre; cio tre apparizioni successive della lampada significavano
B, dieci apparizioni successive significavano A, ecc. Un momento d'oscurit contrassegnava la separazione delle
parole.
[Abbesse de Castro, Chroniques italiennes (Divan), 1, pp. 33-37; Suora Scolastica, ibid., II, p. 236; Chartreuse (Garnier), pp. 315, 317, 318, 324-25]

Ma certo nessuno di questi alfabeti supera per attrattiva e per comodit il misterioso linguaggio dei telai di
Knigsberg, che nessuno pu capire e di cui nessuno pu offendersi.
Ho passeggiato stamane con un giovane di bell'aspetto, molto istruito e di una gentilezza perfetta. Scriveva le
sue confessioni, e con tanta grazia che il confessore glielo ha proibito. Lei gode una seconda volta dei suoi

peccati scrivendoli cos, me li dica a voce.


[Mmoires d'un touriste (Calmann-Lvy), II, p. 140.]

Tutti gli stendhaliani conoscono quella strana abitudine dell'iscrizione memorativa che induce Beyle, per
esempio, a tracciare sulla polvere d'Albano le iniziali delle donne che l'hanno diversamente occupato nel corso
della vita, o a scrivere sull'interno della cintura, il 16 ottobre 1832, sto per toccare la cinquantina, cos
abbreviato per non essere capito: S. Topertocca rela 5 .
[Brulard, I, p. 15]

Una ventina d'anni prima, celebrando dentro di s il secondo anniversario della sua vittoria su Angela
Pietragrua, annotava nel diario questo fatto che illustra in maniera a dir poco singolare il detto scripta manent:
Vedo sulle mie bretelle che fu il 21 settembre 1811, alle undici e mezza del mattino .
[Journal, V, p. 211.]

Non si sa, a proposito di questi graffiti intimi su che cosa ci si debba interrogare di p, se sul messaggio, sul
codice o forse sulla natura del supporto. Valry, che gi mal digeriva i fogli cuciti nelle fodere di Pascal, si stupi
sce (a proposito del secondo esempio) di quell'atto poco comune e pone una domanda pertinente: Che
senso ha l'atto secondo di annotarlo? .
[OEuvres, Bibliothque de la Pliade, I, Gallimard, Paris, p. 567]

C' in effetti nel journal e in Brulard un raddoppiamento dell'iscrizone che ne aggrava il carattere. Questione
accessoria, probabilmente, ma non per questo meno irritante: tra il Beyle che scrive sulla polvere, sulla cintura,
sulle bretelle, e lo Stendhal che trascrive sulla carta, ove comincia la letteratura?
Questo feticismo epigrafico colpisce per lo meno altri due eroi stendhaliani, nei quali si pu notare di sfuggita
che esso accompagna una certa incapacit fisica (in Ottavio) o di sentimenti (in Fabrizio, prima dell'incontro con
Clelia). Ottavio segna su un piccolo promemoria, celato nel segreto del suo scrittoio: 14 dicembre 182...
Gradevole effetto di due m. Amicizia raddoppiata. Invidia di Ar. Finire. Sar pi grande di lei. Specchi
di Saint-Gobain .
[Armance (Garnier), p. 27. Chartreuse, p. 206.]

Stendhal riporta questa annotazione senza spiegazione n commento, come se la sua oscurit servisse a
illuminarla. Quanto a Fabrizio, egli incide sul quadrante dell'orologio, con caratteri abbreviati, questa importante
risoluzione: Quando scrivo alla D(uchessa) mai dire quando ero prelato, quando ero un uomo di Chiesa, sono frasi che
l'indispettiscono
[Chartreuse, p. 206]

Per il lettore di Brulard la prima sorpresa viene dall'importanza degli schizzi in rapporto al testo. L'abitudine di
disegnare sul margine o tra le righe dei manoscritti costante in Stendhal, ma qui il grafismo prolifera e invade la
pagina. Non si accontenta pi di illustrare il discorso, diventa spesso indispensabile alla sua stessa comprensione,
e i numerosi riferimenti agli schizzi rendono impossibile o assurda l'idea di un'edizione di Brulard ridotta al solo
testo. O piuttosto il disegno fa parte qui del testo: prolunga la scrittura con un movimento naturale che conferma
come Stendhal, pur nella fretta e nell'improvvisazione, e anche se a volte gli accaduto di dettare qualche pagina,
rimane lontano da ogni letteratura orale , declamata, mormorata o conversata. Le sue stesse trascuratezze sono
legate allo scritto: ellissi, scorrettezza, rotture. Stile fatto di annotazioni, espressioni concise, impazienze e audacie
proprie della scrittura. Oratio soluta.
La presenza del disegno taglia netto a ogni tentazione d'eloquenza ed esercita a volte effetti molto strani sul
linguaggio: Quel giorno vidi scorrere il primo sangue sparso dalla Rivoluzione francese. Era un operaio
cappellaio (S), colpito a morte da un colpo di baionetta (S') in fondo alla schiena .
[Brulard, I, p. 68.]

Sappiamo anche che i margini dei libri appartenuti a Stendhal, e particolarmente degli esemplari personali
delle sue opere, sono costellati di quelle annotazioni intime, generalmente cifrate e pressoch illeggibili, che gli
eruditi stendhaliani hanno messo tutto il loro accanimento a trasmetterci e a tradurci. Esse costituiscono in
particolare la materia di due volumetti di Marginalia et mlanges intimate santuario del beylismo devoto. Quando
queste note occupano i margini di un manoscritto, come il caso per Lucien Leuwen, il compito dell'editore
postumo evidentemente fondamentale: sta a lui decidere tra quello che apparterr all'opera propriamente detta,
quello alle note ammesse a pi di pagina, quello infine ai margini, relegati in appendice critica con varianti, piani,
abbozzi, cancellature, ecc. Cos per Leuwen Henri Martineau ha lasciato in nota riflessioni come queste: chi parla
un repubblicano , oppure: l'opinione dell'eroe che pazzo ma si corregger , la cui sincerit beylista
contestabile e che sono quindi da ricollegare alla commedia dell'opera: non Beyle a parlare, l'autore . Ma

come dire la stessa cosa di quest'altra nota a pi di pagina che risponde con una certa bruschezza alla signora di
Chasteller che, presa dal desiderio improvviso di baciare la mano di Lucien, si chiede di dove le possano venire
simili orrori: Dalla matrice, mia cara! E in tal caso, perch non ammettere allo stesso titolo i vari Modello:
Dominique himself ; With Mtilde, Dominque ha parlato troppo ; Lettere inviate al giardino per la cameriera.
E 16 anni after I write upon! Se Mti l'avesse saputo

[ pp. 257, 671, 680, 675. Le parole in corsivo sono in italiano nel testo.]

che, nello spirito del vero stendhaliano appartengono di pieno diritto al testo di Leuwen. Il testo stendhaliano,
margini e bretelle compresi, uno. Nulla autorizza a isolarvi quella specie di supertesto preziosamente elaborato
che sarebbe, ne varietur, l'opera di Stendhal. Tutto ci che traccia la penna di Beyle (o il suo bastone, o il tuo
temperino, o Dio sa che cosa) Stendhal, senza distinzione n gerarchia.
Stendhal stesso ne era probabilmente conscio, o forse qualche proto gi beylista, che lasciava passare nel testo
stampato del Rouge, della Chartreuse o delle Promenades dans Rome note come queste: Esprit per. pre. gui. II. A. 30
. (Esprit perde prefettura, Guizot, i i agosto 1830. Allusione alla pi grossa delusione professionale di Beyle);
Para v. P. y E. 15 x 38 (Per voi Paquita ed Eugenia 15 dicembre 1838: dedica di Waterloo alle signorine di
Montijo); The day of paq, 1829, nopr. bylov (Il giorno di Pasqua 1829, niente bozze corrette, per amore):
[Rouge (Garnier), P. 325; Chartreuse, p. 49; Promenades dans Rome (Divan), III, p. 237.]

specie di a parte criptologici (l'espressone di Georges Blin) che probabilmente non si rivolgono a noi. Ma
sappiamo mai esattamente a chi si rivolge Stendhal?
Ecco un effetto che mi sar contestato, e che non indico se non agli uomini, dir cos, abbastanza infelici per
aver amato con passione durante lunghi anni, e d'un amore ostacolato da difficolt insormontabili.
La vista di tutto ci che estremamente bello, in arte o in natura, richiama in un lampo il ricordo di chi si
ama. Perch, per il meccanismo del ramo d'albero fiorito di diamanti nella miniera di Salisburgo, tutto ci che al
mondo bello e sublime fa parte della bellezza di chi si ama, e quest'imprevisto apparire della felicit riempie di
colpo gli occhi di lacrime. Cos l'amore del bello e l'amore si danno vita l'un l'altro.
Una delle disgrazie della vita che la gioia di vedere l'amata e di parlarle non lascia ricordi precisi. L'anima
come troppo turbata dalle proprie emozioni per potere porre attenzione a ci che le produce o le accompagna.
Essa la sensazione stessa: forse appunto perch gioie di quella natura non possono richiamarsi alla mente
quando si voglia, si rinnovano con tanta forza appena qualcosa viene a distrarci dal fantasticare intorno alla
donna amata e a rammentarcela pi vivacemente sotto nuova forma *.
Un vecchio architetto arido la incontrava ogni sera in societ. Un giorno, senza porre attenzione a quel che
dicevo **, con tutta naturalezza io le feci un elogio tenero e pomposo di lui ed ella si burl di me. Non ebbi il
coraggio di dirle: Egli vi vede tutte le sere .
Quest'impressione tanto forte che si comunica persino alla persona della mia nemica che l'avvicina
continuamente. Quando la vedo mi ricorda tanto Leonora, che in quel momento, per quanti sforzi io faccia, mi
impossibile odiarla.
Si direbbe che per una strana bizzarria del cuore, la donna amata emani pi seduzione di quella che possiede
in se stessa. La visione della citt lontana dove la vedemmo un momento ***, ci getta in una fantasticheria pi
dolce e profonda che non la sua stessa presenza.
*I profumi.
**L'autore usa qui il pronome di prima persona nel riferire sensazioni che gli sono estranee solo allo scopo di
abbreviare e di descrivere intimamente il cuore umano; nulla di personale meritava di essere citato.
*** ... Nessun maggior dolore | Che ricordarsi del tempo felice | Nella miseria... (DANTE, Francesca ).
[ De l'amour, p. 33]

Dove inizia l'opera? Dove finisce? Anche se si vogliono ritenere patologici (ma quello che patologico non
forse per questo tanto pi significante?) i casi estremi ricordati or ora, ogni lettore di Stendhal che non si sia
fermato ai cinque o sei capolavori canonici sa bene quale infrangibile continuit si stabilisca dalla
Correspondance al Journal, dal Journal ai saggi, dai saggi ai racconti. L'opera romanzesca non gode di alcuna
autonomia definibile in rapporto all'insieme degli scritti. L'Histoire de la peinture, De l'amour, Rome, Naples et Florence,
le Promenades dans Rome, le Mmoires d'un touriste contengono decine d'aneddoti che appartengono pienamente, e
talvolta con un risalto tutto particolare, all'universo del racconto stendhaliano. Tra i saggi italiani e il diario del
1811, da una parte, e le Chroniques e la Chartreuse dall'altra, la frontiera indiscernibile. Le prime pagine della
Chartreuse vengono dai Mmoires sur Napolon. La prima idea del Rouge annotata nelle Promenades.. E quale lettore

di Leuwen non ne ritrova lo spunto essenziale in queste poche righe di Racine et Shakespeare: Cos, un giovane che
abbia ricevuto dal cielo un animo delicato, se il caso fa di lui un sottotenente e lo sbatte in una guarnigione nella
societ di certe donne, crede in buona fede, vedendo i successi dei camerati e il genere dei loro piaceri, di essere
insensibile all'amore. Un giorno infine la sorte gli fa incontrare una donna semplice, naturale, onesta, degna
d'essere amata, ed egli sente d'avere un cuore.
[Racine et Shakespeare (Divan), p. 112. L'accostamento di MARTINEAU, Leuwen, p. xi.]

Nessuno dei grandi romanzi stendhaliani, anche se compiuti, comunque assolutamente chiuso in se stesso,
autonomo nella sua genesi e nel suo significato. N Julien n Fabrizio arrivano mai a rompere del tutto il cordone
che li ricollega all'Antoine Berthet della Gazette des Tribunaux e all'Alessandro Farnese della Cronaca. Il Rouge ha
inoltre il suo centro spostato da un'altra parte dall'esistenza di quel progetto d'articolo destinato al conte
Salvagnoli,
[Rouge, pp. 509-27]

che non ne soltanto un commento, decisivo su parecchi punti, ma anche, e in modo pi inquietante, un
riassunto, e quindi un doppione del racconto che al tempo stesso lo contesta e lo conferma, e di certo lo
decentra, non senza un curioso effetto di mosso nel raffronto dei due testi. Un contro-testo del genere
accompagna anche la Chartreuse, il celebre articolo di Balzac; ma si tratta piuttosto in questo caso d'una
traduzione: trasposizione anch'essa sconvolgente dell'universo stendhaliano nel registro balzacchiano. Per Leuwen
il controtesto ci manca, ma per lo meno ne conosciamo l'esistenza giacch sappiamo che in linea di principio
questo romanzo, almeno per quanto riguarda la prima parte, non altro che una sorta di rewriting, un rifacimento
del manoscritto Le lieutenant, affidato a Stendhal dall'amica signora Adle-Jules Gaulthier. Sappiamo anche che
Armance nata da una specie di competizione con la duchessa di Duras e Henri de Latouche sul tema del
babilanismo , ovvero dell'impotenza; ma soprattutto questo romanzo costituisce l'esempio forse unico in tutta la
letteratura di un'opera a chiave la cui chiave si trovi altrove: ossia in una lettera a Mrime e in una nota in margine
d'un esemplare personale, che affermano formalmente l'impotenza d'Ottave.
[Armance, pp. 249-53 e 261.]

Caso estremo di decentramento, giacch qui il centro l'esterno: si immagini un romanzo poliziesco il cui
colpevole venisse indicato solo da qualche confidenza postuma dell'autore. D'altronde Stendhal stava per trovarsi
in una situazione meno paradossale, ma pi sottile, ossia n completamente dentro n completamente fuori.
Stendhal aveva infatti pensato di intitolare il suo romanzo come quelli dei concorrenti, 0livier, la qual cosa, nel
1826 non poteva mancare di essere indicativa . Sar il caso di Ulysses, con la differenza che la menomazione
d'Ottavio molto pi essenziale al significato del racconto stendhaliano di quanto non sia il riferimento
all'Odissea per il romanzo di Joyce. Certo il lettore pu benissimo indovinare da solo questa menomazione:
essa resta per un'ipotesi, un'interpretazione. Il fatto che tale interpretazione si trovi invece corroborata su un
margine del testo modifica radicalmente, dobbiamo convenirne, il suo statuto in rapporto all'opera e in
particolare questo soltanto autorizza l'uso del verbo indovinare: infatti si pu indovinare soltanto ci che , e dire
Ottavio impotente non significa altro che Stendhal dice che Ottavio impotente . Lo dice s, ma lo dice
altrove, e questo il punto.
Allo stesso modo il lettore della Chartreuse, soprattutto se ha dimestichezza col tema beylista della
bastardaggine come rifiuto del padre, potr provare qualche sospetto sulla vera eredit di Fabrizio. Ma
tutt'altra cosa trovare questi sospetti attribuiti all'opinione pubblica milanese, in quel progetto di correzione
dell'esemplare Chaper: Passava persino a quel tempo per il figlio del bel luogotenente Robert... .
[p. 585]

Per Armante il fuori testo (o meglio l'extra testo, il testo esterno) risolve il mistero; per la Chartreuse contribuisce
piuttosto a crearlo; in entrambi i casi per la trascendenza dell'opera l'aprirsi del testo sull'extra testo
respinge il discorso di una lettura immanente .
Quanto alle Chroniques italiennes, tutti sanno, o credono di sapere che costituiscono per la maggior parte
soltanto un lavoro di traduzione e d'adattamento. Ma, senza il riferimento al testo originale, chi pu misurare la
parte della creazione stendhaliana? (E chi se ne preoccupa? )
Quest'altro caso limite serve a ricordarci che varie opere di Stendhal, dalla Vie de Haydn alle Promenades dans
Roine non possono essergli attribuite in maniera incontestabile ed esclusiva. La parte del plagio, dell'imitazione,
dell'apocrifo, dell'imprestito in lui quasi impossibile da determinare. Mrime, rammentiamo, diceva nel 1850
che nessuno sapeva esattamente quali libri Beyle avesse scritto, e nel 1933 Martineau, nella prefazione alla sua
edizione dei Mlanges de littrature, si confessava incapace di dire con certezza quali pagine gli appartenessero
autenticamente e aggiungeva: probabile che tutto quello che la sua penna ha tracciato non sia ancora stato
pubblicato .
[Divan, p. 1.]

Nessuno pu ancora e probabilmente nessuno potr mai tracciare i limiti del corpus stendhaliano.

L'incompiutezza ha una parte immensa nell'opera di Stendhal. Testi dell'mpottanza di Henry Brulard, Lucien
Leuwen, Lamiel e i Souvenirs d'gotisme sono stati abbandonati in pieno lavoro e si sono insabbiati, cos come
Napolon, l'abbozzo di romanzo Une position sociale e parecchie cronache e novelle, tra cui Le rose et le veri che,
riprendendo i dati di Mina de Vangbel, doveva ricavarne un vero e proprio romanzo. Se si aggiunge l'epilogo
chiaramente precipitoso della Chartreuse e la pubblicazione interrotta e scorciata dell'Histoire de la Peinture e dei
Mmoires d'un touriste, non eccessivo dire che almeno sull'essenziale dell'opera pesa un destino di mutilazione. Gli
abbozzi e le minute che Stendhal ha lasciato non impediscono al lettore di fantasticare sull'ipotetica
continuazione di Leuwen e di Lamiel, o d'immaginare che cosa sarebbe stato un Brulard che si congiungesse col
Journal, integrando, superando l'Egotisme e si spingesse fino a quella riva del lago d'Albano ove il Baron Dormant
traccia nella polvere la filza malinconica dei suoi amori passati. O ancora d'osservare che la Chartreuse inizia
all'incirca l dove s'interrompe Brulard, all'arrivo dei francesi a Milano: incatenando senza rotture la finzione
all'autobiografia, il destino del tenente Robert a quello del sottotenente Beyle con tutte le conseguenze che ne
derivano.

Aporia dello stendhalismo.


Potrebbe essere formulata pi o meno come segue: quella che viene chiamata l' opera di Stendhal un
testo frammentario spezzettato, lacunoso, ripetitivo, e d'altro canto infinito, o per lo meno indefinito, ma in cui
nessuna parte pu venire separata dall'insieme. Chi tira un solo filo deve portarsi dietro tutto l'intreccio con i suoi
buchi e perfino la smarginatura. Leggere Stendhal significa leggere tutto Stendhal; ma leggere tutto Stendhal
impossibile, se non altro per questa ragione che tutto Stendhal non ancora pubblicato, n decifrato, n scoperto
e neppure scritto: intendo dire proprio tutto il testo stendhaliano, giacch la lacuna, l'interruzone del testo non
una semplice assenza, un puro non testo: una mancanza, attiva e avvertibile come mancanza, come non
scrittura, come testo non scritto.
Contrariamente a ogni aspettativa quest'aporia non uccide lo stendhalismo che, al contrario, vive solo di essa,
cosi come ogni passione si nutre delle proprie impossibilit.

Statuto ambiguo dell'Italia stendhaliana: esotica, eccentrica, alibi costante dell'eccentricit e della differenza,
fame italienne copre e giustifica le pi flagranti infrazioni al codice implicito della psicologia comune: luogo dei
sentimenti problematici e degli atti imprevedibili, luogo d'un romanzesco liberato dalle pastoie del verosimile
volgare. E al tempo stesso luogo centrale, originario, intimamente legato alla filiazione materna e alla negazione
del padre. Per il discendente esclusivo dei Gagnon (Guadagni, Guadagnamo), la partenza per l'Italia un ritorno
alle origini, un ritorno al seno materno. Il carattere francese dominato dall'interesse e dalla vanit, soltanto
per l'ex discepolo d'Helvtius e di Tracy un riferimento esteriore che funziona da contrasto. Il centro del conflitto
intimo stendhaliano in Italia: conflitto tra energia (Roma, l'Ariosto) e tenerezza (Milano, il Tasso). L'Italia il
centro paradossale del decentramento beylista, patria (matria?) dell'espatriato, luogo del senza luogo, del non
luogo: utopia intima.
Pesaro, 24 maggio 1817. Qui le persone non passano il loro tempo a giudicare la loro felicit. Mi piace oppure
non mi piace il grande modo di decidere di tutto. La vera patria quella in cui si incontra il maggior numero di
persone che vi assomigliano. In Francia temo che troverei sempre un fondo di freddezza in ogni societ. Provo
un incanto in questo paese di cui io stesso non so capacitarmi: come se fosse amore, eppure non sono
innamorato di nessuno. L'ombra dei begli alberi, la bellezza del cielo durante le notti, l'aspetto del mare, tutto ha
per me un Lascino, una forza d'impressione che mi ricorda una sensazione del tutto dimenticata, ci che provavo
a sedici anni durante la mia prima campagna. Capisco che non riesco a esprimere il mio pensiero: tutte le
circostanze con cui cerco di renderlo sono deboli.
Qui tutta la natura ha il potere di commuovermi di pi; essa mi appare come nuova, non vedo pi nulla di
piatto e d'insipido. Spesso alle due di notte, ritornando verso casa, a Bologna, attraverso quei grandi portici,
l'anima ancora presa da quei begli occhi che avevo appena visti, passando davanti a quei palazzi di cui la luna, con
le grandi ombre, disegnava le masse, mi accadeva di fermarmi, come oppresso dalla gioia per dirmi: Che
meraviglia! Contemplando quelle colline cariche d'alberi che avanzano fin sopra la citt, rischiarate da quella luce
silenziosa in mezzo a quel cielo scintillante, avevo un fremito; gli occhi mi si riempivano di lacrime. Per ogni
nonnulla m'avviene d'esclamare: Dio mio, come ho fatto bene a venire in Italia! .
[Rome, Naples et Florence en 1817 (Divan crit.), pp. 118-19.]

L'unit (spezzettata) del testo stendhaliano, l'assenza d'autonomia di ciascuna delle sue opere, la costante
perfusione del senso che circola dall'una all'altra, spiccano meglio per contrasto se si confronta questa situazione
a quella, per esempio, della Comde humaine. Ogni romanzo di Balzac un racconto chiuso e compiuto, separato

dagli altri dalle pareti invalicabili della costruzione drammatica, e sappiamo che stata necessaria la trovata della
riapparizione dei personaggi per assicurare, un po' tardivamente, l'unit del mondo balzacchiano.
L'universo stendhaliano procede da dati del tutto diversi. Nessuna unit di luogo o di tempo, nessun ritorno
completa e coerente; alcuni romanzi erratici, sprovvisti di ogni principio federatore e d'altronde dispersi in una
produzione eteroclita e di cui sono ben lontani, almeno come quantit, dal costituire la parte essenziale: come
Rousseau, o Barr s, o Gide, Stendhal evidentemente un romanziere impuro . L'unit del mondo romanzesco
stendhaliano tuttavia incontestabile, ma non di coesone, e meno ancora di continuit: essa dovuta a una
sorta di costanza propriamente tematica: unit di ripetizione e di variazione che apparente fra loro questi romanzi
pi di quanto non li colleghi.
Gilbert Durand
[Le dcor mythique de la Chartreuse, Corti, Paris 1961.]

ha messo in luce i pi importanti temi ricorrenti. Solitudine dell'eroe e accentuazione del suo destino attraverso
il raddoppiamento (o l'incertezza) della sua nascita e la sovradeterminazione oracolare; prove e tentazioni
qualificatric; dualit femminile e opposizione simbolica tra i due tipi dell'amazzone (o catin sublime ), (Mathilde,
Vanina, Mina de Vanghel, la signora d'Hocquncourt, la Sanseverina) e della donna tenera, custode dei segreti del
cuore (la signora di Rnal, la signora di Chasteller, Clelia Conti); conversione dell'eroe e passaggio dal registro
epico a quello dell'intimit tenera (simboleggiato almeno due volte nel Rouge e nella Chartreuse dal motivo
paradossale della prigione felice), che definisce appunto il momento del romanzesco stendhaliano: anche, mi
sembra, e contrariamente al giudizio di Durand, nella prima parte di Leuwen, ove si vede un eroe,
originariamente convinto, proprio come Fabrizio, d'essere insensibile all'amore, e prevenuto contro questo
sentimento per pregiudizio politico ( Come! mentre tutta la giovent di Francia si schiera per ideali cos grandi,
tutta la mia vita trascorrer a guardare due begli occhi! .
[Leuwen, p. 145 (cfr. p. 146: Da un momento all'altro la voce della patria pu farsi udire; posso essere chiamato... E io scelgo questo momento per
diventare lo schiavo di una piccola altra di provincia! )]

Dopo il 1830 commentano i Mmoires d'un touriste, l'amore sarebbe il peggior disonore per un giovane )
[Touriste, I, p. 59]

scoprire che possiede un cuore e convertirsi alla sua passione.


Questo tema fondamentale della Rcksickt, dell'abbandono alla tenerezza femminile come ritorno alla madre,
accentuato inoltre dall'aspetto e dalle funzioni tipicamente materni dell'eroina trionfatrice (ivi compresa Clelia,
pi materna, a dispetto dell'et e della parentela, della conquistatrice Sanseverina), si trova dunque alla base di
quella che l'essenza della creazione romanzesca stendhaliana, la quale non fa quasi che variarne, da un'opera
all'altra, il ritmo e la tonalit. Il lettore cos spinto a operare incessanti paragoni tra le situazioni, i personaggi, i
sentimenti, le azioni, scoprendo istintivamente le corrispondenze attraverso un lavoro di sovrapposizione e di
prospettive. Una rete d'interferenze si stabilisce allora tra Julien, Fabrizio, Lucien, tra Mathilde e Gina, la signora
di R nal, la signora di Chasteller e Clelia, tra Francois Leuwen, il signor de la Mle e il conte Mosca, Chlan e
Blan s, Sansfin e Du Poirier, Frilair e Ressi, le paternit sospette di Julien e di Fabrice, il loro culto comune per
Napoleone, tra la torre Farnese e la prigione di Besancon, tra il seminario, la guarnigione di Nancy e il campo di
battaglia di Waterloo, ecc. Pi di qualsiasi altra, probabilmente, l'opera di Stendhal invita a una lettura
paradigmatica, in cui la considerazione degli intrecci narrativi si cancella davanti all'evidenza delle relazioni
d'omologia: lettura armonica dunque o verticale, lettura a due o pi registri, per cui il vero testo comincia con il
raddoppiarsi del testo.
Qualche mese fa una donna sposata di Melito, nota per la sua devozione ardente quanto per la rara bellezza, ebbe la debolezza di dare appuntamento
all'amante in una foresta della montagna, a due leghe dal villaggio. L'amante fu felice. Dopo questo momento di delirio l'enormt della colpa oppresse
l'animo della colpevole che rest immersa in un cupo silenzio. Perch tanta freddezza chiese l'amante. Pensavo a come vederci domani; questa capanna
abbandonata, in questo bosco oscuro, il luogo pi adatto . L'amante s'allontana; l'infelice non ritorn al villa,,Rio e pass la notte nella foresta, occupata,
come ella stessa ha confessato, a pregare e a scavare due fosse. Viene il giorno, e ben presto l'amante, che riceve la morte dalle mani di quella donna da cui
si credeva adorato. Quell'infelice vittima del rimorso seppellisce il suo amante con la massima cura, scende al villaggio ove si confessa al parroco e abbraccia
i figli. Poi ritorna nella foresta ove viene trovata senza vita, stesa nella fossa scavata accanto a quella dell'amante.
[Rome, Naples et Florence (Divan)]

Questo breve aneddoto offre un esempio abbastanza rappresentativo di quello che possiamo chiamare, senza
esagerare la sua specificit, il racconto stendhaliano. Non soffermiamoci sull'esempio (folgorante) dell'me italienne ,
mandataria del verosimile beylista, e soffermiamoci a esaminare meglio gli elementi caratteristici del trattamento
narrativo mediante il quale questo fatterello vero diventa un testo di Stendhal.
Il primo elemento probabilmente lo spostamento quasi sistematico del racconto in rapporto all'azione, che
risulta contemporaneamente dall'elisione degli avvenimenti principali e dall'accentuazione delle circostanze
accessorie. L'atto adultero designato tre volte con delle specie di metonimie narrative: l'appuntamento dato
all'amante; la felicit di questi (figura banale, rinnovata qui dalla concisione dell'enunciato); il momento di

delirio qualificato retrospettivamente a partire dallo stato di coscienza virtuosa che gli succede. Non per se
stesso dunque, ma attraverso gli avvenimenti che lo preparano, l'accompagnano o lo seguono. L'uccisione
dell'amante attraverso una perifrasi accademica sottilmente relegata in una proposizione subordinata il cui
accento principale altrove. Infine, e soprattutto, il suicidio della giovane subisce una completa ellisse, tra il suo
ritorno nella foresta e il momento in cui verr ritrovata senza vita; ellisse rafforzata inoltre dall'ambiguit
temporale del presente narrativo e dall'assenza di qualsiasi avverbio di tempo che rendono i due verbi
apparentemente simultanei, facendo sparire tutta la durata che separa le due azioni.
Questa elisione dei tempi forti uno dei tratti che caratterizzano il racconto stendhaliano. Nella Chartreuse il
primo abbraccio di Fabrizio e Clelia, nella torre Farnese, cos discreto che passa generalmente inosservato (
Era cos bella, semivestita e in quello stato d'estrema passione, che Fabrizio non pot impedirsi un atto quasi
involontario. Nessuna resistenza gli venne opposta ), e il sacrificio di Gina con Ranuccio-Ernesto V
scompare tra due frasi: Egli os ripresentarsi alle dieci meno tre minuti. Alle dieci e mezza la duchessa saliva in
carrozza e partiva per Bologna . La morte di Fabrizio pi sottintesa che menzionata nell'ultima pagina: Gina
non sopravvisse che pochissimo tempo a Fabrizio, ch'ella adorava, e che non trascorse pi d'un anno nella sua
Certosa .
[pp. 423, 455, 480]

Si pu qui incolpare la mutilazione forzata dell'epilogo, ma nel Rouge l'esecuzione di Julien cos attesa e preparata,
all'ultimo momento scompare: Mai quella testa aveva avuto pensieri cos poetici come nel momento in cui stava
per cadere. I pi dolci momenti vissuti un tempo nei boschi di Vergy gli tornavano a frotte alla mente con
singolare intensit .
Tutto avvenne semplicemente, nel modo pi corretto, e da parte sua, senza alcuna ostentazione . Segue una
scena retrospettiva (procedimento invece assai raro in Stendhal, pi propenso, pare, ad accelerare i tempi che a
ritardarli) che contribuisce anch'essa a questo eclissamento della morte risuscitando Julien nello spazio di una
mezza pagina.
[p. 506]

Jean Prvost parlava giustamente a proposito di queste morti silenziose e come furtive, d'una specie d'eutanasia
letteraria.
[La cration chez Stendhal, Mercure de Franco, Paris 1951]

A questa discrezione sulle funzioni cardinali del racconto si oppone evidentemente l'importanza data ai
particolari marginali e quasi tecnici: localizzazione precisa della foresta, capanna abbandonata, scavo delle due
fosse. Questa attenzione alle piccole cose , che Stendhal lodava in Mrime, pi caratteristica ancora della sua
maniera: ne abbiamo gi visto alcuni effetti. Stendhal stesso si descrive nell'atto di gareggiare in precisione con
Mrime: La fece scendere da cavallo con un pretesto, direbbe Clara. Dominique dice: La fece scendere da
cavallo fingendo di vedere che il cavallo perdeva un ferro e che voleva attaccarlo con un chiodo .
[Marginalia, II, p. 96.]

Ma bisogna soprattutto osservare che questa attenzione agli oggetti e alle circostanze accompagnata tuttavia,
come sappiamo, da un gran disdegno per la descrizione serve quasi sempre a mediare l'evocazione di atti o di
situazioni fondamentali lasciando parlare al loro posto delle specie di sostituti materiali. Nell'ultima scena di
Vanina Vanini, le catene fredde e puntute che fasciano Missirilli e lo sottraggono agli abbracci di Vanina, i diamanti e le
limette, strumenti tradizionali dell'evasione, che ella gli consegna e che il prigioniero finir per gettare con la
forza che gli permettevano le catene , tutti questi particolari brillano d'una tale intensit di presenza, nonostante
la secchezza della loro menzione, da eclissare il dialogo tra i due amanti: in essi molto pi che nelle parole
scambiate riposa tutto il senso.
[Chroniques italiennes (Divan), II, p. 125.]

Altra forma d'ellissi, e forse ancora pi specifica: la si potrebbe chiamare l'ellissi delle intenzioni. Consiste nel
riferire gli atti d'un personaggio senza illuminare il. lettore sulla loro finalit, la quale apparir soltanto a cose
fatte. Il secondo appuntamento dato per l'indomani nella capanna abbandonata inganna qui il lettore quanto
l'amante, e se il fatto di scavare due tombe non lascia quasi nessuna incertezza sulla continuazione della storia,
resta tuttavia che il racconto tace deliberatamente il proposito che d significato a una serie di atti (scendere al
villaggio, confessarsi, abbracciare i figli), lasciando a noi la cura di riempire retroattivamente la lacuna. Cosi
nell'Abbesse de Castro Stendhal ci dice che Elena nota il furore del padre contro Branciforte. Subito aggiunge
and a spargere un po' di polvere sul calcio di legno dei cinque magnifici archibugi che suo padre teneva appesi
accanto al letto e copri allo stesso modo di un leggero strato di polvere i suoi pugnali e le spade . Il rapporto tra
la collera del padre e il fatto di cospargere di polvere le sue armi non evidente e la funzione di quest'atto ci
rimane oscura fino al momento in cui leggiamo che essendosi recata a ispezionare verso sera le armi del padre,
si accorse che due archibugi erano stati caricati e che quasi tutti i pugnali erano stati maneggiati :
[ Chroniques Italiennes, I, pp. 39-40]

aveva sparso la polvere per potere sorvegliare i preparativi del padre, ma il racconto ci aveva accuratamente

dissimulato questa motivazione. L'esempio pi celebre di quest'abitudine stendhaliana evidentemente la fine del
capitolo xxxv della seconda parte del Rouge, ove vediamo Julien lasciare Mathilde, precipitarsi in diligenza fino a
Verri res, acquistare un paio di pistole dall'armaiolo e entrare nella chiesa, senza essere informati sulle sue
intenzioni se non dalla loro realizzazione nell'ultima riga: Spar su di lei un colpo e la manc; tir un secondo
colpo, ed ella cadde .
[p.450]

Bisogna insistere qui sul carattere voluto del procedimento: se il racconto stendhaliano fosse, alla maniera
posteriore d'un Hemingway, una mera relazione oggettiva degli atti compiuti, senza incursioni nella coscienza
dei personaggi, l'ellissi delle intenzioni sarebbe conforme all'atteggiamento d'insieme e quindi molto meno
marcato. Sappiamo bene per che Stendhal non si mai attenuto a questo partito preso behaviorista e anzi
che il ricorso al monologo interiore una delle sue innovazioni e delle sue abitudini pi costanti. Qui non
rinuncia minimamente a informare il lettore che l'enormit della colpa oppresse l'animo della colpevole e se
non gli concede di saperne di pi sui propositi della donna, evidentemente per un'omissione volontaria. Allo
stesso modo quando Vanina ode Missirilli proclamare che alla prossima sconfitta, abbandoner la causa del
carbonarismo, Stendhal aggiunge soltanto che queste parole illuminarono di luce fatale il suo spirito. Ella si
disse: I carbonari hanno ricevuto da me migliaia di zecchini e non possono dubitare della mia devozione alla
loro causa .
[p. 103]

Questo monologo interiore truccato come il racconto del narratore-criminale in Dalle nove alle dieci, giacch
Stendhal, facendo finta di riferirci in quel momento i pensieri di Vanina, ha cura di dissimularne l'essenziale che
all'incirca, come si capisce qualche pagina dopo: Posso denunciare la vendita senza che Pietro mi sospetti .
L'accessorio, anche qui, si sostituisce all'essenziale, cos come nel racconto di Melito i particolari sulla capanna
abbandonata dissimulano per la futura vittima e per il lettore, il proposito d'assassinio.
[Ecco un altro esempio di quest'ellissi delle intenzioni, accompagnato anche qui da un effetto di silenzio di grande bellezza: Il curato non era vecchio; la
serva era graziosa: circolavano delle chiacchiere, il che per non impediva a un giovanotto del paese vicino di fare la corte alla serva. Un giorno egli
nasconde le molle del camino della cucina nel letto della donna. Quando ritorn otto giorni dopo, la serva gli disse: Suvvia, ditemi dove avete messo le
molle che ho cercato dappertutto dopo che ve ne siete andato. proprio uno scherzo molto sciocco. L'innamorato l'abbracci con le lacrime agli occhi e
s'allontan (Voyage dans le Midi, Divan, p. 115),]

Questo tipo d'ellissi implica una grande libert nella scelta del punto di vista narrativo. Com' noto Stendhal
inaugura la tecnica delle restrizioni di campo
[GEORGES BLIN, Stendhal et les problmes du roman, Corti, Paris]

che consiste nel ridurre il campo narrativo alle percezioni e ai pensieri di un personaggio. Ma altera questa scelta
intanto, come abbiamo visto, tenendo per s alcuni di questi pensieri, sovente i pi importanti; e poi anche
cambiando spesso il personaggio focale: persino in un romanzo cos imperniato sulla persona dell'eroe come il
Rouge, avviene che la narrazione adotti il punto di vista d'un altro personaggio, come la signora di Rnal, o
Mathilde, o anche il signor di Rnal. Nel nostro caso il punto focale quasi costantemente Peroina, ma il
racconto fa almeno un'incursione, d'altronde retrospettiva, nella coscienza dell'amante ( quella donna da cui si
credeva adorato ). Infine, e soprattutto, la focalizzazione del racconto disturbata, come lo pi o meno quasi
sempre in Stendhal, da quella pratica che George Blin ha chiamato l'intrusione d'autore , e che sarebbe
probabilmente meglio chiamare intervento del narratore, facendo una riserva, particolarmente necessaria nel caso
di Stendhal, sull'identit di questi due ruoli.
estremamente difficile infatti determinare momento per momento qual la fonte potenziale del discorso
stendhaliano poich i soli dati evidenti sono che questa fonte variabilissima e che raramente si confonde con la
persona di Stendhal. Conosciamo il suo gusto quasi isterico per il travestimento e sappiamo per esempio che il
viaggiatore immaginario dei Mmoires d'un touriste un certo M. L...., un commesso viaggiatore per il commercio
dei metalli le cui opinioni non sempre si confondono con quelle di Beyle. Nei romanzi e racconti lo statuto del
narratore generalmente mal determinato. Il Rouge e Lamiel iniziano come una cronaca tenuta da un
testimonenarratore che appartiene all'universo diegetico: quello del Rouge un anonimo abitante di Verrires che
spesso ha contemplato la vallata del Doubs dall'alto della passeggiata allargata dal signor di Rnal e che loda
quest'ultimo bench sia ultra ed io liberale . Quello di Lamiel, pi precisamente identificato, figlio e nipote dei
Lager, notai a Carville. Il primo si eclissa nello spazio di poche pagine, senza che la sua sparizione venga notata
da nessuno, il secondo, pi chiassosamente, annuncia la sua scomparsa in questi termini: Tutte queste
avventure... girano intorno alla piccola Lamiel... e mi venuto l'estro di scriverle allo scopo di diventare un
letterato. Cos addio, benevolo lettore, tu non sentirai pi parlare di me .
[Lamiel (Divan 1948), P. 43]

Per la Chartreuse Stendhal vuole s confessare, retrodatandola, la redazione di questa novella ma non senza
addossarne la responsabilit essenziale a un preteso canonico padovano di cui egli avrebbe soltanto rivedute e
adattate le memorie. Chi dei due si assume l' io che compare tre o quattro volte almeno,
[pp. 6,8, 149...]

e sempre inaspettatamente, nel corso di una cronaca in teoria del tutto impersonale?
La situazione delle Chroniques italiennes, e in particolare dell'Abbesse de Castro, al tempo stesso pi chiara e pi

sottile poich Stendhal vi compare in teoria soltanto come un traduttore, ma un traduttore indiscreto e attivo, che
non si perita di commentare l'azione ( la franchezza e la rudezza, naturali conseguenze della libert di cui
soffrono le repubbliche, e l'abitudine delle passioni franche non ancore represse dai costumi della monarchia, si
_mostrano scopertamente nel primo passo compiuto dal signor Campireali ), n d'autenticare le sue fonti (
Ormai il mio triste compito si limiter a dare un estratto necessariamente molto arido del processo, in seguito al
quale Elena trov la morte. Questo processo, da me letto in una biblioteca di cui debbo tacere il nome, non
forma meno di otto volumi in folio ), n di giudicare il testo che egli dovrebbe limitarsi a ricopiare ( Verso sera
Elena scrisse al suo innamorato una lettera ingenua e, a nostro parere, assai commovente ), e neppure
d'esercitare di tanto in tanto una censura piuttosto insolente: Ritengo di dover passare sotto silenzio molte
circostanze che, in realt, ritraggono i costumi dell'epoca, ma che mi paiono tristi da raccontare. L'autore del
manoscritto romano si dato molto da fare per stabilire la data esatta dei particolari che io sopprimo .
[pp. 31, 157, 107, 154]

Questa situazione marginale in rapporto a un testo di cui egli non sarebbe l'autore e nei confronti del quale
non sentirebbe nessuna responsabilit viene spesso come trasferita di peso da Stendhal, dalle Chroniques e dagli
aneddoti raccolti nei primi saggi italiani, nelle grandi opere romanzesche: Georges Blin ha messo in evidenza il
passaggio del tutto naturale che porta dai supposti tagli dell'Abbesse de Castro ai famosi ecc. che nei romanzi
tagliano corto a tante tirate ritenute troppo piatte o noiose.
[Stendhal et les problmes du roman, p. 235]

Questo vero non solo per la censura ma anche per tutte le altre forme di commento e d'intervento. Si direbbe
quasi che Stendhal avendo preso l'abitudine d'annotare i testi altrui, continui a chiosare anche i propri come se
non vi vedesse differenza. Sappiamo in particolare come moltiplichi all'indirizzo dei suoi giovani eroi, i giudizi, le
rimostranza e i consigli, ma stata anche notata la dubbiosa sincerit di quelle parafrasi in cui Stendhal sembra a
volte deresponsabilizzarsi ipocritamente dai suoi personaggi preferiti, presentando come difetto o goffaggine
quelli che in realt giudica come tratti simpatici o ammirevole. Perch dice nel vi capitolo della Chartreuse
perch mai dovrebbe essere biasimevole lo storico che trascrive fedelmente ogni minuto particolare del racconto
riferitogli? forse colpa sua se i personaggi sedotti da passioni che egli non condivide, cadono per sua disgrazia
in azioni profondamente immorali? Vero che in un paese dove l'unica passione che sopravviva a tutte le altre
il denaro, mezzo di vanit, d'azioni simili non se ne commettono pi .
[p. 104]

quasi impossibile distinguere in queste occasioni l'intervento ironico dell'autore dal supposto intervento d'un
narratore distinto da lui di cui Stendhal si divertirebbe a contraffare lo stile e l'opinione. L'antifrasi, la parodia
satirica, lo stile indiretto libero, il pastiche ( Quel ministro, nonostante, Paria fatua e i modi brillanti, non era
dotato d'un animo alla francese, non sapeva dimenticare i crucci. Quando il suo capezzale aveva qualche spina era
costretto a spezzarla e a smussarla a forza di pungervi contro le membra palpitanti. Chiedo venia per questa
frase tradotta dall'italiano )
[p.94]

si susseguono e a volte si sovrappongono in un contrappunto di cui le prime pagine della Chartreuse costituiscono
un esempio caratteristico, mescolando l'enfasi epica dei bollettini di vittoria rivoluzionari, le recriminazioni aspre
o furibonde del partito dispotico, l'ironia dell'osservatore volterriano, l'entusiasmo popolare, le circospezione del
linguaggio amministrativo, ecc. La figura del narratore dunque in Stendhal essenzialmente problematica, e
allorch il racconto stendhaliano lascia, sia pure per poco, la parola al discorso, spesso difficilissimo e anzi
talvolta impossibile rispondere alla domanda in apparenza semplicissima: chi parla?
Sotto questo aspetto il nostro testo di riferimento si distingue innanzi tutto per la sobriet del discorso,
l'assenza di ogni commento esplicito ( quello che Stendhal chiama raccontare narrativamente ). Quest'assenza
non priva di significato, ha anzi un valore pieno e d'altronde evidente per i lettori che hanno una certa
familiarit con l'Italia stendhaliana. E silenzio del racconto sottolinea eloquentemente la grandezza e la bellezza
dell'azione: contribuisce quindi a qualificarla. un commento di grado zero, lo stesso che la retorica classica
raccomandava per i momenti sublimi, in cui l'evento parla da solo meglio di quanto potrebbe fare qualsiasi sorta di
parola: e sappiamo che il sublime non per Stendhal una categoria accademica, bens uno dei termini pi attivi
del suo sistema di valori.
Il discorso tuttavia non totalmente assente da questo racconto: una simile esclusione d'altronde soltanto
un'ipotesi accademica, pressocch impossibile nella pratica narrativa. Noteremo innanzi tutto l'indicazione
temporale iniziale qualche mese fa , che situa l'avvenimento in rapporto all'istanza di discorso costituita dalla
narrazione stessa, in un tempo relativo che sottolinea e valorizza la situazione del narratore, unico punto
cronologico di riferimento. E cos la formula testimoniale come ella ha confessato , che collega, secondo le
categorie di Roman Jakobson, il processo dell'enunciato (l'azione), il processo dell'enunciazione (il racconto) e
un processo d'enunciazione enunciato : la testimonianza della donna che non sembra possa essere stata raccolta
altro che durante la confessione menzionata pi sotto, confessione dunque designata in maniera indiretta come la

fonte delle determinazioni essenziali del racconto e in particolare di tutto ci che riguarda le motivazioni
dell'azione. Questi due shifters pongono dunque qui il narratore nella situazione dello storico, in senso
etimologico, ossia dell'inquisitore-relatore. Situazione del tutto normale in un testo etnografico come Rome,
Naples et Florence (o le Promenades o i Mmoires d'un touriste) ma di cui abbiamo visto che Stendhal, forse per
semplice abitudine, conserva certi segni anche nelle grandi opere di fantasia: donde certe strane precauzioni
come quel io credo che abbiamo incontrato senza meravigliarcene in una situazione di cronaca nella pagina
gi citata del Rose e le vert, ma che ritroviamo con pi stupore in una pagina del Leuzven come la seguente (si tratta
del vestito della signorina Berchu): Era una stoffa d'Algeri, a righe molto larghe, marrone, credo, e giallo pallido
o della Cbartreuse: La contessa sorrise, non sapendo come regolarsi credo... .
[Leuwen, p. 117; Chartreuse, P. 76.]

Il caso del dimostrativo ( Quell'infelice... ) di cui Stendhal fa un uso molto accentuato un po' pi sottile,
giacch se si tratta (astrazion fatta dal valore stilistico d'enfasi, di gusto forse italianeggiante) essenzialmente d'un
rinvio anaforico del racconto a se stesso (l'infelice di cui si gi parlato), questo rinvio passa necessariamente
attraverso l'istanza discorsiva e perci attraverso il riferimento al lettore che si trova impercettibilmente preso a
testimonio: lo stesso dicasi dell'intensivo tosi, anch'esso tipicamente stendhaliano e che implica un ulteriore
ripiegarsi del testo su se stesso: le due espressioni sono d'altra parte molto spesso congiunte: quella donna cos
tenera...
Quanto alle locuzioni che implicano una valutazione, rimangono, nonostante la loro discrezione, difficili da
assegnare. L'infelice , infelice vittima del rimorso possono tradurre l'opinione compassionevole di Stendhal,
ma debolezza, colpa, colpevole e anche delirio comportano un giudizio morale che sarebbe molto imprudente
attribuirgli. Questi temi moralizzanti vanno piuttosto attribuiti all'eroina stessa, con una leggera inflessione di
discorso indiretto, a meno che non siano un'eco dell'opinione comune del villaggio, veicolo dell'episodio, di cui
Stendhal non esiterebbe a riprodurre i qualificativi senza tuttavia assumerli in proprio, come quando riferisce in
corsivo certe espressioni prese dalla vulgata di cui egli rifiuta per di prendere la responsabilit: troppo
preoccupato di salvaguardare una sua distanza che ci lascia intravvedere senza permetterci di valutarla, fedele alla
sua politica che d'essere sempre presente e sempre inafferrabile.154
Rapporto equivoco tra l' autore e l' opera ; difficolt di separare il testo letterario dalle altre funzioni
della scrittura e del grafismo; trasposizioni, plagi, pastiches; incompiutezza quasi generalizzata, proliferazione
delle minute, delle varianti, delle correzioni, delle postille, decentramento del testo in rapporto all' opera ; forte
rapporto tematico tra un'opera e l'altra che compromette l'autonomia, e quindi l'esistenza stessa di ciascuna;
confusione tra discorsivo e narrativo; spostamento del racconto in rapporto all'azione; ambiguit della
focalizzazione narrativa, indeterminazione del narratore, o, pi rigorosamente, della fonte del discorso narrativo:
ovunque, a tutti i livelli, in tutte le direzioni, si ritrova la marca essenziale dell'attivit stendhaliana che
trasgressione costante ed esemplare dei limiti, delle regole e delle funzioni apparentemente sostitutive del giuoco
letterario. sintomatico che, oltre la sua ammirazione per il Tasso, Pascal, SaintSimon, Montesquieu o Fielding, i
suoi veri modelli siano un musicista, Mozart o Cimarosa, e un pittore, il Corteggio, e che la sua pi cara
ambizione sia stata di rendere con la scrittura le qualit mal definibili (leggerezza, grazia, brio, volutt, limpidezza,
fantasticheria tenera, magia delle lontananze) che trovava nella loro opera. Sempre a margine, un po' a lato, di qua o
di l delle parole, in direzione di quell'orizzonte mitico che designa coi termini di musica e di pittura tenera, la sua
arte non finisce di eccedere e forse di ricusare, l'idea stessa di letteratura.
Ave Maria (twilight), in Italia, ora della tenerezza, dei piaceri dell'animo e della malinconia: sentimenti ingigantiti dal suono di quelle belle campane.
Ore dei piaceri che sono legati ai sensi solo dai ricordi
[De l'Amour, p. 233.]

La caratteristica del discorso stendhaliano non la chiarezza e meno ancora l'oscurit (ch'egli detestava come
complice dell'ipocrisia e paravento della stupidit); bens qualcosa come una trasparenza enigmatica, che sempre,
una volta o l'altra, sconcerta certe abitudini dello spirito: perci fa qualche persona felice e offende o, come diceva
Stendhal stesso
[Avrete ancora occasione di stendhalizzarvi (a Mareste, 3 gennaio 1818), Correspondance, V, P. 92.]

stendhalise (scandalizza) tutti gli altri.


(Sul vaporetto nella baia di Tolone) Mi ha divertito l'atteggiamento galante di un marinaio infreddolito (?) con una donna assai graziosa a dire il vero,
appartenente alla classe popolare agiata che il caldo aveva fatto fuggire dalla stanza in basso insieme con un'amica. L'ha coperta con una vela per ripararla
un poco, lei e il suo bambino, ma il vento violento s'infilava nella vela e la scompigliava; lui faceva il solletico alla bella viaggiatrice e la scopriva fingendo di
coprirla. C'era molta allegria, spontaneit e anche grazia in quest'azione che durata un'ora. Tutto questo accadeva a un piede e mezzo da me. L'amica non
fatta oggetto di galanterie prestava attenzione a me e mi diceva: Quello si compromette . Avrei dovuto parlare con lei; era una bella creatura, ma la vista
della grazia mi faceva pi piacere. La bella cercava come poteva di prevenire il marinaio. A una delle sue prime galanterie, che era una parola a doppio senso,
lei gli risposto vivamente: Merde! [Voyage dans le Midi, pp. 284-85.]

Proust e il linguaggio indiretto

Il dovere e il compito d'uno scrittore sono quelli di un traduttore. (III, p. 890).


L'interesse di Proust per i fatti di linguaggio nota,
[Cfr. R. LE , Le langage parl des personnages de Proust, Le Francais Moderne , giugno-luglio 1939; J. VELNDRYPS, Proust et les noms propres,
Mlanges Huguet, , Paris 1940; . BARTHES, Proust et les noms in To honor Roman Jakobson, Mouton, L'Aia 1967; sulla semiotica proustiana in generale, G.
DELEUZE, Marcel Proust et les signes, , Paris 1964 [Marcel Proust e i segni, . di Clara Lucignoli, Einaudi, Torino 1967]; ed. accresciuta, PUF, Paris 1970.]

e comunque evidente per chiunque abbia letto, sia pur superficialmente, la Recherche du temps perdu. I successi e
talvolta anche i fastidi che gli furono procurati da un eccezionale dono dell'osservazione e dell'imitazione verbale,
e come questo mimetismo, di cui egli stesso denuncia, a proposito dello stile di Flaubert
[Chroniques, , Paris 1928, p. 204.]

il potere d'ossessione e persino d' intossicazione , si sia al tempo stesso esercitato ed esorcizzato nella serie dei
pastiches l'Affaire Lemoine. anche vedere quanto della loro esistenza certi personaggi, di primo piano come
Charlus, oppure episodici come il direttore del Grand Htel di Balbec, debbano a questa sensibilit linguistica.
Nell'universo essenzialmente verbale della Recherche, esseri si manifestano pressoch soltanto come esemplari
stilistici (Norpois, Legrandin, Bloch) o come collezioni d'accidenti di linguaggio (il direttore gi nominato, il liftier,
Franoise). La carriera professionale di un Cottard si cancella dietro la storia delle sue difficolt con la lingua e
d'altronde la medicina, che ha fatto qualche piccolo progresso nelle conoscenze dopo Molire ma nessuno nel
vocabolario ,
[A la recherche du temps perdu, Biblioth que de la Pliade, II, Gallimard, Paris , 641]

forse qualcosa di diverso in Proust da un'attivit di linguaggio? Il medico, immediatamente chiamato, dichiar
di preferire seriet, virulenza dell'accesso febbrile che accompagnava la mia congestione polmonare e non sarebbe
stato che un fuoco di paglia, forme pi insidiose larvate ; Cottard, docile, aveva detto alla Padrona: S, agitatevi
ancora cos e domani mi farete quaranta di febbre, come avrebbe detto alla cuoca: Domani mi farete risotto
con vitella. La medicina, non potendo guarire, bada a mutare il senso dei verbi e dei pronomi .
[Recherche, I, . 496; II, p. 900.]

- Proust non rinuncia neppure a notare e a trascrivere, come fa Balzac per un Gobseck o un Nucingen, i difetti di
pronuncia del marchese di Braut, per esempio ( Mia 'ara du'hessa ), o del principe Sherbatoff ( S, mi piace
questa piccola celchia intelligente, gladevole... e dove si ha dello spilito fino alla punta delle unghie .
[III, P. 41; II, P. 893; o anche i chuintements entusiasti della signora di Cambremer e l'accento del principe von Faffenheim. Vi sono momenti in cui dice
Proust per dipingere compiutamente una persona, bisognerebbe che l'imitazione fonetica s'unisse alla descrizione (II, P. 942).]

Personaggi come Octave (nel periodo di Balbec).o la signora Poussin s'identificano talmente col loro principale
tic di linguaggio, che esso resta loro come soprannome: Nelle canne , Me lo farai sapere ; la breve esistenza
della signora Poussin nella Recherche (una pagina di Sodome et Gomorrhe) 'altra parte puramente linguistica, poich
si riduce all'abitudine che le vale questo nomignolo e alla sua mania di addolcire la pronuncia di certe parole. La
stessa cosa, o quasi, si pu dire del servitorello Prigot Joseph la cui esistenza ha come sola giustificazione
l'indimenticabile lettera che egli lascia un giorno inavverttamente sulla scrivania di Marcel ( Come tu lo sai, la

madre di Madama trapassata con delle sofferenze inesprimibili che la hanno molto stancata perch essa ha visto
fino a tre medici. Il giorno delle sue esequie fu un bel giorno perch tutte le relazioni del Signore erano venute in
folla cos come parecchi ministri. Abbiamo messo pi di due ore per andare al cimitero, ci che vi far tutti
spalancare gli occhi nel vostro villaggio perch non si far certamente altrettanto per mamma Michu. Cos la mia
vita pi non sar che un eterno singhiozzo. Io mi diverto enormemente colla motocicletta di cui ho imparato
ultimamente, ecc. ).
[II, p. 771; II, p. 566.]

Marcel non si sarebbe probabilmente mai affezionato alla piccola brigata di Balbec senza la virt magica di
questa frase pronunciata da Gisle: Mi fa pena 'sto povero vecchio, sembra mezzo andato ,
[p. 792]

e se Albertine diventa pi tardi la sua amante avere aggiunto al suo vocabolario espressioni come: distinto, select,
lasso di tempo, a mio giudizio, cui si pu chiaramente vedere un'emancipazione che dei piaceri pi vivi, e ancor r
l'apparizone propriamente afrodisiaca della parola musm: quello che mi decise, commenta Marcel, fu
un'ultima scoperta filologica .
[Il, p. 357]

Potere delle parole, potenza della connotazione.


significativo che parecchi personaggi della Recherche di qualche difficolt nell'uso della lingua e non meno
significativa minuziosit con la quale Proust osserva i minimi accidenti del loro comportamento linguistico.
Accidenti che non si producono soltanto nell'apprendimento d'una lingua straniera come quando Bloch, per
iperanglicismo, crede di dovere pronunciare laift Venaise quando il principe von Faffenheim dice arsceologo, o
periferia vicinanze
[ I, p. 739; II, pp. 527, 510.]

; o in esseri incolti come Franoise o il liftier di Balbec; ma anche, e in modo forse pi rilevante, in persone
istruite come il dottor Cottard, o d'un'origne sociale elevata come il duca di Guermantes. Questi strafalcioni
possono essere errori di pronuncia come lai/t o arsceologo; come settembre o rammendatora,
[II, pp. 392, 736.]

(parentesi per parentela, Camembert per Cambremer)


[p. 154; II, pp. 805, 825, 857.]

o impropriet: restare per abitare, in tesi generale,


[III, p. 515; II, p. 720.]

e quasi tutti gli strafalcioni del direttore di Balbec che fioriva i suoi discorsi commerciali di espressioni scelte,
ma a sproposito .
[I, p. 663.]

Diversi per origine e per natura questi errori differiscono anche nel loro significato psicologico o sociale e
nel loro valore estetico. Quelli del direttore cosmopolita, non connotano tanto la sua originalit rumena ,
quanto una certa pretesa senza fondamento; quelli di Basin che non era mai arrivato a conoscere il significato
preciso di certe parole ,
[II, p. 239; cfr. p. 725: la sua incapacit di assimilare con precisione le sfumature della lingua francese.]

partecipano, con i suoi volgarismi affettati e stravaganti,


[Rimasto al verde (II, p. 826), Arrivedercela (p. 724), me ne frego , la mia padrona, (p. 580), la vostra buccia (p. 547).]

le sue involontarie stonature


[Egli mi trascin verso la mamma dicendomi: Volete farmi il grande onore di presentarmi alla signora vostra madre? deragliando un po' sulla parola
madre (II, p. 338).]

e i suoi improvvisi rossori, della personalit un po' disadattata, come smarrita, forse talvolta al limite d'una sorta
d'ebrezza, del fratello di Charlus; forse indicano quello che c' d'altrettanto cosmopolita, bench in modo diverso
che nell'albergatore monegasco, in quella dinastia per met bavarese, i cui feudi e i cui diritti (senza parlare dei
matrimoni) si estendono su tutta l'Europa.
[Dobbiamo tuttavia citare un'altra spiegazione secondo cui Basin dovrebbe il suo cattivo francese, al pari di tutta una generazione d'aristocratici ,
all'educazione impartita da monsignor Dupanloup (II, p. 720).]

Oriane invece, col suo accento contadino ( stupida come ugn'oca ) e il vocabolario provinciale accuratamente
conservato come mobili antichi o gioielli di famiglia, ne incarna il lato vecchia Francia ; in questo i suoi
arcaismi sono affini agli errori di Franoise e l'accostamento notato dallo stesso Proust.
[III, p. 34]

Infatti il linguaggio della vecchia contadina, persino nei suoi strafalcioni, rappresenta per lui, come una volta per

Malherbe quello degli scaricatori del Port au Foin, il genio linguistico allo stato vivo, l'avvenire e il passato del
francese :
[II, p. 736]

l'autenticit originaria di una lingua che le affettazioni volgari dell'argot parigino, nella stessa figlia di Franoise (
La principessa Tait! credo che possiate aspettarla in sempiterno),
[II, p. 728.]

adulterano invece al pari degli anglicismi demimondains di Odette di Crcy, del gergo da iniziati di Saint-Loup, o
dello stile da studente di Bloch. Ma cosi come la moneta cattiva scaccia la buona, Franoise subir a poco a
poco l'influsso della figlia e creder d'avere fatto dei progressi nelle eleganze parigine perch avr imparato a dire
Corro a scavallarmi e presto . Questa decadenza del linguaggio di Franoise, che avevo conosciuto nella sua
et aurea
[III, p. 154.]

uno degli indici pi evidenti della degradazione generale che travolge ogni cosa nelle ultime parti della Recherche
du temps perdu.
Nonostante questa disparit di valore, alcune leggi generali presiedono alla genesi e alla persistenza di questi
errori linguistici. La prima e la pi importante dipende da un desiderio, apparentemente universale e che
ritroveremo all'opera altrove, di motivazione del segno; i linguisti l'hanno spesso notato a proposito di quella che
si chiamava una volta l' etimologia popolare , e che consiste in una tendenza a riportare ogni forma nuova a una
forma vicina pi conosciuta. Cos Franoise dice Julien per Jupien e Algeri per Angers, o il lift gi citato Camembert
per Cambremer. Per quanto riguarda il primo caso, Proust stesso nota che Franoise assimilava volentieri le
parole nuove a quelle che gi conosceva ; e per il secondo che era assai naturale che egli avesse percepito un
nome che gi conosceva ; le sillabe familiari e piene di significato (del nome primitivo) precisa pi avanti
venivano in aiuto al giovane domestico quand'era in difficolt per quel nome difficile, ed erano immediatamente
preferite e riadottate, non con pigrizia e come una vecchia abitudine inestirpabile, ma per l'esigenza di logica e di
chiarezza ch'esse soddisfacevano ;
[II, pp. 19, 825, 857.]

logica e chiarezza evidentemente designano qui il bisogno di semplificazione e di motivazione (sillabe piene di
significato) che s'oppone alla proliferazione arbitraria delle forme: se Franoise dice prosciutto di NevYork perch
crede la lingua meno ricca di quanto non sia e le pare d'una prodigalit inverosimile nel vocabolario che
possa esistere al tempo stesso York e New York .
[III p. 445.]

La seconda legge, che dipende dalla prima, spiega non pi l'origine degli errori ma la loro resistenza a ogni
correzione: la perseveranza nell'errore e il rifiuto ostinato dell'orecchio a percepire la forma corretta rifiutata
nell'intimo. L strano, dice Marcel, come una persona che cinquanta volte al giorno sentiva i clienti gridare:
ascensore! , non dicesse mai altro che ascensore ; ma il liftier ode solo quello che pu udire e la meraviglia di
Marcel non qui pi giustificata di quella che prova a udire il nome della sogliola pronunciato storpiato da un
uomo che ne aveva ordinate chiss quante in vita sua .
[III pp. 791, 765.]

Capir pi tardi che in materia di linguaggio come in ogni altra la testimonianza dei sensi anch'essa
un'operazione spirituale in cui la convinzione crea l'evidenza .
[ I, p. 697]

Questa specie di sordit linguistica risalta con forza nel modo in cui Franoise, imitando il pi possibile la voce
della signora di Villeparisis e credendo di ripetere testualmente le sue parole, mentre le deformava non meno di
quanto Platone deformasse quelle di Socrate o san Giovanni quelle di Ges , trasmette da parte sua al Narratore
e a sua nonna questo messaggio inconsciamente tradotto nel solo linguaggio che essa adopera e quindi
percepisce: Salutateli tanto tanto .
[III p. 190. E qualche riga pi sotto: L'errore pi pertinace della fede e non esamina mai le proprie credenze. Gi a Combray, una delle pi ferme
convinzioni d'Eulalie, che l'imponente somma delle smentite portate dall'esperienza non era bastata a scalfire, era che la signora Sazerat si chiamasse
Sazerin (I, p. 70). Stesso errore in Franoise, III, p. 573.]

vero che a questa ostinazione naturale pu aggiungersi in certi casi una sorta di pertinacia volontaria e per cos
dire dimostrativa, come quando il maggiordomo del Narratore, debitamente avvertito dal padrone che deve
pronunziare saliente, ripete sagliente con un'insistenza intesa contemporaneamente a dimostrare che non ha ordine
da ricevere al di fuori del servizio e che la Rivoluzione non stata fatta invano, e a fare credere che quella
pronuncia era frutto non d'ignoranza ma di maturata e ponderata determinazione .
[III p. 842.]

Se l'arroganza di Bloch non nascondesse un profondo sentimento d'inferiorit, egli avrebbe potuto, in questo
medesimo spirito d'indipendenza e d'autogiustificazione, decidere d'imporre la sua pronuncia laift e possiamo
supporre che l'ignoranza della lingua sia alimentata in Basin dal sentimento orgoglioso che un Guermantes non
tenuto a piegarsi a quella norma plebea che l'uso. Si congiungono cos, forse con la stessa dose di cattiva
coscienza e di malafede, la rivendicazione popolare e la boria aristocratica. Ma dobbiamo anche tenere conto qui
di una terza legge che si applica almeno a tre personaggi diversi come il maggiordomo, il direttore di Balbec e il

principe di Faffenheim. Vediamo infatti che anche in mancanza d'ogni opposizione, e quindi d'ogni obbligo
d'amor proprio, il primo dice pistoio (per pisciatoio), scorrettamente ma eternamente ; cos come i bench sono
dei poich misconosciuti, questo ma un quindi che s'ignora: a proposito del direttore Proust scrive in modo gi
pi neutro che gli piaceva usare le parole che pronunciava male , e il principe infine gli ispira questa
osservazione in cui la causalit proustiana ritrova il suo ordine: non sapendo pronunziare la parola archeologo,
non perdeva un'occasione per servirsene .
[III, p. 750; II, pp. 778, 526.]

La legge di Proust su questo punto, potrebbe dunque venire enunciata cos: l'errore, cosciente o no, tende non
soltanto a perseverare nel suo essere, ma a moltiplicare le sue occorrenze. Forse la spiegazione del fatto non va
cercata (anche se Proust sembra qualche volta propendervi) in una volont deliberatamente cattiva o in una
specie di volutt immanente dell'errore, ma piuttosto nel carattere necessariamente compulsionale di tutto ci
(errore, colpa morale, vizio nascosto, inferiorit, ecc.) che lo spirito censura e vorrebbe reprimere: ne vedremo
altrove altri esempi.
Tuttavia l'imperfettibilit assoluta che queste leggi sembrano implicare subisce qualche eccezione nel mondo
della Recherche. In fondo il modo con cui Franoise finisce per adottare le espressioni d'argot della figlia in un
certo senso un apprendistato, cos come la maturazione progressiva del vocabolario d'Albertine. Il caso pi
interessante per quello di Cottard. Ai suoi esordi, quali ci vengono presentati in Un amour de Swann, il futuro
professore si trova nei confronti del linguaggio sociale in una condizione d'incompetenza caratteristica, che si
manifesta innanzi tutto attraverso quella che Proust chiama la sua ingenuit , ossia la sua incapacit a
distinguere nel discorso altrui la componente seria da quella ironica o di cortesia, la sua tendenza a prendere
tutto alla lettera : gli viene reso un grande favore e si aggiunge che cosa da poco, e lui crede subito di dovere
confermare che in effetti non nulla e anzi lo disturba; l'altra componente del complesso di Cottard la sua
ignoranza del significato e perci dell'opportunit d'usare i luoghi comuni, quali sangue blu, dare carta bianca,
ecc. La caratteristica comune di queste due menomazioni evidentemente una sorta d'insufficienza retorica (nel
senso in cui egli stesso parlerebbe d'insufficienza. epatica) che gli impedisce costantemente di superare il senso
letterale per raggiungere quello figurato e probabilmente di concepire
il fatto in s della figurazione. Ma invece di chiudersi come gli altri nella soddisfazione della propria ignoranza,
Cottard manifesta sin dall'inizio un desiderio d'emendarsi che finir coll'avere la sua ricompensa: impara a
memoria giochi di parole, non perde occasione d'istruirsi in materia d'idiotismi e questo zelo di linguista
[I, p. 217]

costituisce a lungo il tema unico della sua parte nella Recherche du temps perdu, di quella mondana, beninteso,
giacch il personaggio del medico infallibile in lui totalmente distinto dal personaggio del commensale sciocco,
o meglio i due sono uniti soltanto da un rapporto paradossale: E noi capimmo che quell'imbecille era un grande
clinico .
[I, p. 499]

Come quasi sempre in Proust, la fine dell'evoluzione appare di colpo, senza tappe intermedie, quando,
ingolfandosi nel trenino della Raspelire, il Professore esclama: Questo s che si chiama prenderlo per un pelo!
strizzando l'occhio non per domandare se l'espressione era esatta, perch egli adesso traboccava di sicurezza di
s, ma per soddisfazione . La sua perfetta padronanza d'altronde confermata dalla signora di Cambremer:
Eccone uno che ha sempre la parola pronta . Egli padroneggia ormai cos bene gli stereotipi, ne conosce
talmente bene i pregi e i difetti che pu concedersi il piacere di criticare quelli altrui: Perch stupido come
una rapa? chiede al signor di Cambremer. Credete che le rape siano pi stupide d'un'altra cosa?... .
[II, pp. 869, 1094, 923]
Naturalmente quest'aggressivit trionfante ha ancora qualcosa d'inquietante: il Professore non affatto guarito
della sua nevrosi linguistica, semplicemente essa ha mutato di segno, invertito il suo sintomo. Cottard passato
per quello che riguarda lui dal Terrore alla Retorica, e per quello che riguarda gli altri (com' di regola) dalla
Retorica al Terrore: il che significa che non si affatto sottratto al fascino del linguaggio.
A questo fascino neppure Proust sembra essere del tutto sfuggito. O per lo meno lo attribuisce, sotto una
certa forma e a un certo punto della sua evoluzione, al Narratore della Recherche. Il suo oggetto d'elezione
costituito, com' noto, da quello che Proust chiama il Nome, ossia il nome proprio. La differenza tra il Nome e la
Parola (nome comune) indicata in una celebre pagina della terza parte di Swann in cui Proust ricorda le
fantasticherie del suo eroe sui nomi di alcuni paesi ove spera di passare le prossime vacanze di Pasqua: Le
parole ci offrono delle cose una piccola immagine chiara e usuale come le immagini che si tengono appese alle
pareti delle classi per dare ai bambini un esempio di quel che sia un banco di lavoro, un uccello, un formicaio,
cose concepite come simili a tutte quelle della stessa specie. I nomi invece offrono delle persone e delle citt
che ci abituano a credere individuali, uniche al pari di persone un'immagine confusa che trae da loro, dalla loro
sonorit risplendente od oscura, il colore di cui dipinta uniformemente.
[ I, pp. 387-88.]

Vediamo qui che la tradizionale (e contestabile) opposizione tra l'individualit del nome proprio e la generalit del
nome comune si accompagna a un'altra differenza, apparentemente secondaria ma che riassume in realt tutta la
teoria semantica del nome secondo Proust: l' immagine che il nome comune presenta della cosa chiara e
usuale , ossia neutra, trasparente, inattiva e non modifica in niente la rappresentazione mentale, il concetto
d'uccello, di banco di lavoro o di formicaio; al contrario l'immagine offerta dal nome proprio confusa in quanto
riceve il suo colore unico dalla realt sostanziale (la sonorit) di questo nome: confusa dunque, nel senso
d'indistinta, per unit o piuttosto per unicit di tono; ma anche confusa nel senso di complessa, per la confusione
che si stabilisce in essa tra gli elementi che provengono dal significante e quelli che provengono dal significato: la
rappresentazione extralinguistica della persona o della citt che, come vedremo, coesiste sempre in realt con, e
spesso preesiste alle suggestioni presentate dal nome. Pensiamo quindi che Proust riservi ai nomi propri quel
rapporto attivo tra significante e significato che definisce lo stato poetico del linguaggio, e che altri Mallarm e
Claudel, per esempio attribuiscono altrettanto bene ai nomi comuni e a ogni altra specie di parole.
[Salvo dimenticanza la sola osservazione fatta da Proust concernente la forma d'un nome comune (il quale oltretutto lo ben poco) riguarda musm : a
udirlo si prova lo stesso male ai denti di quando ci siamo messi in bocca un pezzo troppo grande di gelato (II, P. 357); ma come si vede abbiamo qui
soltanto una notazione sensibile senza l'accenno d'una motivazione semantica.]

Una simile restrizione pu in effetti meravigliare da parte d'uno scrittore cui il rapporto metaforico era cos
connaturale; ne possiamo trovare la causa nel predominio, in lui cos accentuato, della sensibilit spaziale e per
meglio dire geografica: infatti i nomi propri che cristallizzano la fantasticheria del Narratore sono in realt qua, si
sempre (e non soltanto nel capitolo che porta questo titolo) nomi di paesi o nomi di famiglie nobili che
traggono il loro valore immaginativo essenzialmente dal fatto che sono sempre nomi di luoghi .
[Contre Sainte-Beuve, Gallimard, Paris 1954, p. 274. Cfr. la pagina di Sodoma et Gomorrhe in cui Marcel riceve una partecipazione di morte firmata da una
folla di nomi di nobili normanni terminanti in ville, in court e in tot: vestiti delle tegole dei loro castelli o dell'intonaco delle loro chiese, la cui testa malferma
supera a malapena la volta o il corpo centrale del fabbricato e soltanto per acconciarsi col lanternone normanno o con qualche colombaia dal tetto a
pinnacolo, pareva avessero chiamato a raccolta tutti i graziosi villaggi scaglionati o dispersi a cinquanta leghe all'intorno (II, p. 786).]

L'unicit, l'individualit dei luoghi uno degli articoli di fede del giovane Marcel, come del narratore di Jean
Santeuil, e nonostante le ulteriori smentite dell'esperienza egli ne serber almeno la traccia onirica, poich pu
ancora scrivere a proposito del paesaggio di Guermantes che a volte, nei sogni, la sua individualit (lo) afferra
con una forza quasi fantastica .
[Jean Santeuil, Gallimard, Paris 1952, II, P. 317; Recherche, I, p. 185]

La supposta singolarit del nome proprio corrisponde alla singolarit mitica del luogo e la rafforza: I nomi
esaltarono l'idea che io mi facevo di certi luoghi della terra, rendendoli pi particolari e di conseguenza pi reali...
A qual segno essi acquistarono qualcosa di ancor pi individuale, nell'essere designati con dei nomi, dei nomi che
non erano che per loro, dei nomi come ne posseggono le persone.
[I, p. 387]

Non bisogna tuttavia lasciarsi prendere da questa pigrizia di linguaggio che sembra fare qui della persona il
modello stesso dell'individualit ( le citt... individuali, uniche come persone ): per quanto mitica sia,
l'individualit dei luoghi in realt molto pi marcata, in Proust, di quella degli esseri. Fin dalle loro prime
apparizioni un Saint-Loup, un Charlus, un'Odette, un'Albertina manifestano la loro inafferrabile moltiplicit e la
rete di parentele e di rassomiglianze confuse che li collega ad altre persone anch'esse poco uniche come lo sono
loro; cosi i loro cognomi, come vedremo meglio pi avanti, non sono davvero fissi e non appartengono loro in
maniera sostanziale: Odette cambia pi volte il suo, Saint-Loup e Charlus ne hanno parecchi, lo stesso nome
d'Albertina e quello di Gilberte sono calcolati per potersi un giorno confondere, ecc. Almeno in apparenza i
luoghi sono assai pi persone
[Jean Santeuil, II, p. 336.]

delle persone stesse: cos essi sono molto pi legati al loro nome.
Rimane da precisare la natura di quel rapporto attivo tra significante e significato in cui abbiamo visto
l'essenza dell'immaginazione nominale in Proust. Se ci attenessimo all'enunciato teorico gi citato si potrebbe
pensare a una relazione unilaterale, in cui l' immagine del luogo trarrebbe tutto il suo contenuto dalla
sonorit del nome. Il rapporto reale, quale lo possiamo analizzare sulla base degli esempi che troviamo nella
Recberche, pi complesso e pi dialettico. Bisogna per innanzi tutto introdurre una distinzione tra i nomi
inventati da Proust per localit immaginarie, come Balbec, e i nomi (reali) di luoghi reali come Firenze o Quimperl
restando inteso che questa distinzione pertinente soltanto nei confronti del lavoro (reale) dell'autore e non delle
fantasticherie fittizie del suo eroe, per il quale Firenze e Balbec si collocano al medesimo livello di realt .
[Un caso intermedio quello dei nomi presi dalla realt e attribuiti a un luogo fittizio come Guermantes: la libert del romanziere non sta allora nella
combinazione dei fonemi, ma nella scelta globale d'un vocabolo appropriato.]

Secondo un'osservazione di Roland Barthes, il ruolo del narratore qui di decodificare ( decifrare nei nomi
che gli sono dati una sorta d'affinit naturale tra il significante e il significato ), quello del romanziere, invece di
codificare: dovendo inventare qualche localit al tempo stesso normanna, gotica e ventosa, cercare nella tavola
generale dei fonemi, qualche suono che si accordi con la combinazione di questi significati .
[ Proust et les noms, p. 154]

Questa osservazione per pu valere soltanto per i nomi inventati, come quello di Balbec al quale evidentemente
Barthes pensa qui, ossia per un numero piuttosto scarso dei nomi di paese che dnno luogo nella Recherche a una

fantasticheria linguistica ; per i nomi reali, la situazione dell'eroe e quella del romanziere non sono pi
simmetriche e inverse, bens parallele poich Proust attribuisce a Marcel un'interpretazione della forma nominale
necessariamente inventata, e quindi (le due attivit essendo nel caso specifico equivalenti) provata da lui stesso.
Non si pu dire tuttavia che queste due situazioni si confondano in senso assoluto, giacch almeno su un punto
l'esperienza dell'eroe non coincide con quella dello scrittore: quando pensa a Venezia o a Bnodet, il giovane
Marcel non si ancora mai recato in nessuna delle due localit, ma quando scrive quella pagina Proust invece le
conosce gi e forse non fa totalmente astrazione dai suoi ricordi personali dalla sua esperienza reale quando
attribuisce al suo eroe delle fantasticherie i cui due unici alimenti dovrebbero in teoria essere i nomi di questi
paesi e qualche conoscenza libresca o per sentito dire.
Appare chiaro infatti, a una lettura un po' attenta, che nessuna di queste immagini determinata dalla sola
forma del nome e che viceversa ciascuna il risultato di un'azione reciproca traquesta forma e qualche nozione,
vera o falsa, ma in ogni caso indipendente dal nome e venuta da altrove. Quando Marcel dice che il nome Parma
gli appariva compatto, liscio, color malva e dolce evidente che almeno la notazione del colore ha pi a che
fare con le violette della citt che con la sonorit del nome, e questa evidenza confermata qualche riga in basso:
io l'immaginavo soltanto (la dimora parmense ove sogna di abitare un giorno) in virt di quella sillaba pesante
del nome di Parma ove non circola brezza alcuna, e di tutto quello che le avevo fatto assorbire
[Il corsivo nostro. Questa parola molto incisiva per indicare l'azione del significato sul significante si trovava gi all'inizio di questo brano col medesimo
valore: Ma se quei nomi assorbirono per sempre l'immagine ch'io avevo di quelle citt, ci avvenne solo trasformandola, sottomettendo la sua
riapparizione in me alle loro proprie leggi (I, P. 387). La reciprocit qui ben caratterizzata.]

di dolcezza stendhaliana e del riflesso delle violette . L'analisi semantica c' quindi offerta qui da Proust stesso,
che attribuisce chiaramente le qualit di compatto e probabilmente di liscio all'influsso del nome, il color malva
alla conoscenza per sentito dire delle violette, e la dolcezza al ricordo della Charireuse: il significante agisce s sul
significato per fare immaginare a Marcel una citt ove tutto compatto e liscio, ma il significato agisce a sua volta
sul significante per fargli percepire il nome di questa citt come color malva e dolce.
[I, p. 388; cfr. II, p. 426: il suo nome compatto e troppo dolce . ]
Ugualmente Firenze deve la sua immagine miracolosamente fragrante e simile a una corolla tanto al giglio
rosso del suo stemma e alla cattedrale di Santa Maria del Fiore, quanto all'allusione floreale della prima sillaba:
contenuto ed espressione non essendo pi qui in un rapporto di complementarit e di scambio, ma di
ridondanza, poich il nome si trova ad essere nel caso specifico effettivamente motivato. Balbec deriva la sua
immagine arcaica ( vecchi vasellami normanni , uso decaduto , diritto feudale , condizione antica di
luoghi , modo desueto di pronunziare ) dalle sillabe eteroclite del suo nome, ma sappiamo che il tema
fondamentale delle onde sollevate intorno a una chiesa di stile persiano , contamina, senza alcun riferimento al
nome, due indicazioni di Swann e Legrandin; qui la congiunzione della suggestione verbale e della nozione
extralinguistica non del tutto riuscita, giacch se l'essenza normanna del paese e anche lo stile pseudopersiano
della sua chiesa si riflettono bene nelle sonort di Balbec,
[L'essenza normanna, per analogia con Bolbec. Caudebec, ecc. Lo stile persiano del nome (I, p. 658: il nome Balbec, quasi di stile persiano) dipende
probabilmente dall'ornofonia con nomi come L'Usbek delle Lettres persanes, senza contare il Baalbek libanese.]

pi difficile trovarvi un'eco delle tempeste annunciate da Legrandin.


[Salvo passare, come suggerisce Barthes attraverso il relais concettuale del rugoso che gli permetterebbe d'evocare un complesso di onde dalle alte
creste, di scogliere irte e d'architettura a punte (p. 155).]

Le rievocazioni seguenti realizzano pi efficacemente, come nel caso di Parma, il contagio reciproco del nome
attraverso l'idea e dell'idea attraverso il nome che costituisce la motivazione immaginaria del segno linguistico:
cosi la cattedrale di Bayeux alta e slanciata nei suoi merletti rossastri , riceve sulla vetta la luce oro vecchio
dell'ultima sillaba ; le invetriate antiche delle case giustificano il nome di Vitr il cui accento acuto (da notare qui
l'azione non pi della sonorit ma della forma grafica) nel suo movimento diagonale, taglia a losanghe di legno
nero le antiche facciate; il dittongo (sic) finale di Coutances rende molle la torre di burro della sua
cattedrale; i ruscelli limpidi che gi affascinavano il Flaubert di Par les champs et par les grves corrispondono al
perlato trasparente con cui termina il nome di Quimpert , ecc.
La medesima interazione anima altre fantasie nominali disseminate nei primi volumi della Recbercbe come
quella che alimenta il nome, magico tra tutti, di Guermantes, evocatore di un torrione quasi immateriale, un
luminoso fantasma color arancione:
[ II, p. 13]

il torrione appartiene evidentemente alla roccaforte che la supposta culla di questa famiglia feudale, la luce
arancione emana dal canto suo dalla sillaba finale del nome.
[I p171: La luce arancione che emana da quella sillaba: antes .]

Emanazione d'altronde meno diretta di quanto non si supporrebbe a prima vista, giacch al medesimo nome di
Guermantes viene attribuito altrove
[II p. 209: il color amaranto dell'ultima sillaba del suo nome .]

il color amaranto, poco compatibile con l'arancione, la cui risonanza dovuta al biondo dorato dei capelli
Guermantes: queste due indicazioni, contraddittorie sotto l'aspetto dell' audizione colorata cara ai teorici
dell'espressivit fonica, provengono dunque non da una sinestesia spontanea,

[ come lo in compenso, a quanto sembra, l'associazione i porpora, attestata almeno due volte (I, p. 42 e Contre Sainte-Beuve, p. 168. Osservazione di
Barthes, Proust et les noms, p. 155]

ma pi probabilmente da un'associazione lessicale, ossia dalla presenza comune del suono an nel nome Guermantes e
nei nomi dei colori orange e amarante, cos come l'acidit del nome di battesimo di Gilberte, fresco e acidulo
come le stlle dell'nnaffiatoio verde ' dipende probabilmente meno dall'azione diretta delle sue sonort che
dall'assonanza Gilberteverte: le vie della motivazione sono spesso molto pi indirette di quanto non si immagini.
Ultimo esempio: se il nome di Faffenheim ricorda, nell'energia dell'attacco e nella balbettante ripetizione che
scandisce le prime sillabe, lo slancio, la manierata ingenuit, il peso delle delicatessen tedesche , e nello smalto
blu cupo dell'ultima, il misticismo di una vetrata renana dietro le dorature pallide e finemente cesellate del
settecento germanico , non soltanto a causa delle sonorit, ma anche perch un nome di Principe Elettore;
[II, p. 256. Cfr. J. POMMIER, La mystique de Marcel Proust, Droz, Genve 1939, p. 50.]

l'energia e la ripetizione sono si iscritti nel Faen, ma la loro sfumatura specificamente tedesca viene dal
significato e pi ancora dal ricordo, che gi richiamava alla mente la prima versione del medesimo passo nel
Contre Sainte-Beuve,
[Dove il nome, stranamente, era analizzato senza essere citato, il che pu lasciar supporre (ma poco probabile) che fosse inventato dopo (p. 277)]

dei bonbons colorati mangiati in una piccola drogheria di una vecchia piazza tedesca ; l'audizione colorata del
Heim finale pu ricordare la trasparenza d'una vetrata blu cupo, ma la renanit di questa vetrata, e le dorature
rococ che la incastonano non escono armi e bagagli da quella che la versione primitiva chiamava la sonorit
versicolore dell'ultima sillaba . Avviene per queste interpretazioni prevenute e guidate la stessa cosa che avviene
per quelle musiche a programma o per quei leitmotive espressivi che, come Proust osserva giustamente
dipingono splendidamente lo scintillio della fiamma, il mormorio del fiume e la pace della campagna per gli
ascoltatori che scorrendo precedentemente il libretto, hanno aguzzato l'immaginazione nel senso giusto .
[I, p. 684; cfr. p. 320]

L'espressivit di un vocabolo gli deriva spesso dal contenuto che deve provocare; basta che gli manchi questa
connivenza del significato ed ecco che non esprime pi niente, o qualcosa di totalmente diverso. Nella piccola
ferrovia che conduce da BalbecenTerre a BalbecLido Marcel percepisce come estranei certi nomi di villaggi come
Incarville, Marcouville, Arambouville, Maineville, tristi nomi fatti di sabbia, di spazio troppo aerato e vuoto, e di
sale, al di sopra dei quali la parola ville fuggiva via come vola in Piccione-vola-vola insomma nomi le cui
connotazioni gli appaiono tipicamente marine, senza che egli si renda conto della loro rassomiglianza con altri
nomi, tuttavia familiari come Roussainville o Martinville il cui fascino oscuro dipende invece da un sapore di
marmellata o da un odore di camino acceso legati al mondo dell'infanzia a Combray; le forme sono assai simili,
ma l'invalicabile distanza dei contenuti investiti gli impedisce anche soltanto di scorgere la loro analogia: cos,
all'orecchio di un musicista due motivi, materialmente composti di parecchie note uguali, possono non presentare
nessuna somiglianza se differiscono per il colore dell'armonia e dell'orchestrazione .
[1, p. 661.]

Ritroviamo dunque all'opera nelle fantasticherie poetiche di Marcel quella medesima tendenza alla
motivazione del linguaggio che gi ispirava gli strafalcioni di Franoise o del liftier di Balbec: ma invece d'agire
sulla materia di un significante sconosciuto per ricondurla a una forma familiare e piena di senso e per ci
stesso giustificata, s'esercita, pi sottilmente, tanto sulla forma di questo significante (il modo in cui la sua
sostanza , fonica o altra, percepita, attualizzata e interpretata), quanto su quella del suo significato (l'
immagine del paese) per renderle compatibili, armoniche, reciprocamente evocatrici l'una dell'altra. Abbiamo
visto tutto quello che c' d'illusorio in quest'accordo tra suono e senso e particolarmente nella parte
attribuita al primo dall'immaginazione e vedremo pi avanti come si traduce nella Recherche la presa di
coscienza e la critica di quest'illusione. Ma un altro miraggio riguarda il senso stesso: Roland Barthes insiste
giustamente sul carattere immaginario dei complessi servici evocati dalla fantasticheria dei nomi e sull'errore che
si farebbe, qui come altrove, confondendo il significato col referent, ossia con l'oggetto reale: ma quest'errore
proprio quello di Marcel, e la sua correzione uno degli aspetti essenziali del doloroso apprendistato in cui
consiste l'azione del romanzo. La fantasticheria sui nomi ebbe come conseguenza, dice Proust, di rendere
l'immagine di questi luoghi pi bella, ma anche pi diversa da quel che le citt della Normandia o della Toscana
potessero essere nella realt, e, accrescendo in me le gioie arbitrarie della mia fantasia, di rendere pi grave la
futura delusione dei miei viaggi.
[I, p. 387]

Sappiamo per esempio che amara disillusione prover Marcel scoprendo che l'immagine sintetica che si era fatto
di Balbec (chiesa di stile persiano battuta dalle onde) aveva soltanto una lontana rassomiglianza con la Balbec
reale, in cui chiesa e spiaggia distano tra loro parecchie leghe.
[1, p. 658]

Medesima delusione, un po' pi tardi, davanti allo spettacolo del duca e della duchessa di Guermantes staccati
da quel nome in cui un tempo li immaginavo condurre una vita inconcepibile , o davanti alla principessa di
Parma, una donnetta nera (e non color malva) pi occupata d'opere di carit che di dolcezza stendhaliana, davanti
al principe d'Agrigento, estraneo al suo nome ("vetro trasparente sotto il quale io vedevo, sulla riva di un mare

violetto, illuminati dai raggi obliqui di un sole d'oro, i cubi di marmo rosa di una citt antica") quanto a un'opera
d'arte che avesse posseduta senza ricavarne per s nessun riflesso, senza magari averla mai ammirata , e anche
davanti al principe di Faffenheim-Munsterbourg-Weinigen, Ringravio ed elettore palatino, che spreca le rendite e
il prestigio del suo feudo wagneriano per mantenere cinque automobili Charron, un palazzo a Parigi e uno a
Londra, un palchetto il luned all'Opera e uno ai marted dei Francesi , e la cui unica ambizione d'essere eletto
membro corrispondente dell'Accademia delle Scienze morali e politiche.
[pp. 524, 427, 433, 257]

Cos quando Proust afferma che i nomi, disegnatori fantasiosi ,


[I, p. 548]

sono responsabili dell'illusione in cui si chiude il suo eroe, non bisogna intendere con nome il solo vocabolo, bens
il segno totale, l'unit costituita, secondo la formula hjelmsleviana, dalla relazione d'interdipendenza posta tra la
forma del contenuto e la forma dell'espressione: non il succedersi di suoni o di lettere Parma che crea il mito
poetico d'una citt compatta, color malva e dolce, la solidariet (altro termine hjelmsleviano) stabilita a poco
a poco tra un significante compatto e un significato color malva e dolce. Il nome non dunque la causa
dell'illusione, ma ne precisamente il luogo, il posto dove essa si concentra e si cristallizza. L'indissolubilit
apparente del suono e del senso, la densit del segno favoriscono la credenza infantile nell'unit e nell'individualit
del paese che esso designa. Abbiamo visto come l'arrivo a Balbec dissipi la prima; le passeggiate in carrozza con
Albertina, in Sodoma et Gomorrhe, faranno a loro volta giustizia della seconda. In realt contrariamente al viaggio in
ferrovia, che in Proust passaggio brusco (d'una bruschezza favorita dal sonno del viaggiatore tra due stazioni)
da un'essenza a un'altra, essenze materializzate dal cartello segnaletico che reca in ogni stazione il nome
individuale e distinto d'un nuovo paese,
[III p. 644.]

in carrozza l'ininterrotto procedere mette in risalto la continuit del paesaggio, la solidariet dei luoghi, e questa
scoperta annulla il mito della loro separazione e delle loro rispettive singolarit,
[II p. 1005]

cosi come Gilberte, all'inizio del Temps retrouv, abolir l'opposizione cardinale delle due parti dicendo
semplicemente a Marcel: Se volete si potrebbe andare a Guermantes passando per Msglise, la strada p
bella .
[III, p. 693]

Cos distrutto dal contatto con la realt geografica, il prestigio dei nomi subisce un altro fiero colpo quando il
narratore, ascoltando le compiacenti spiegazioni genealogiche del duca di Guermantes, scopre la rete continua di
matrimoni e d'eredit che uniscono tra loro tanti nomi nobili nomi di paesi che fino ad allora aveva ritenuto
essere altrettanto inconciliabili, altrettanto radicalmente dissociati per una di quelle distanze nello spirito che
possono soltanto allontanare, che separano e mettono su un altro piano , di quelli di Guermantes e Msglise, di
Balbec e di Combray. Sappiamo con quanta meraviglia, nonostante le spiegazioni precedenti di Saint-Loup, aveva
appreso nel salotto della signora di Villeparisis che il barone di Charlus era il fratello del duca di Guermantes;
quando questi gli riveler, per esempio che un Norpois, al tempo di Luigi XIV aveva sposato una Mortemart, che
la madre del signore di Braut era Choiseul, e sua nonna Lucinge o che la bisavola del signore d'Ornessan
era sorella di Maria di Castiglia Montjeu, moglie di Timoleone di Lorena, e per conseguenza, zia d'Oriane , tutti
questi nomi venendo a porsi vicino ad altri da cui io li avrei creduti cos lontani... ciascuno di essi spostato
dall'attrazione di un altro nome col quale non gli sospettavo la minima affinit ,
[II, pp. 540, 542.]

sono altre distanze che si annullano, diaframmi che s'abbattono, essenze credute incompatibili che si confondono
e per ci stesso svaniscono. La vita dei nomi si rivela essere un susseguirsi di trasmissioni e d'usurpazioni che
toglie ogni fondamento alla fantasticheria onomastica: quello di Guermantes finir per cadere in possesso della
plebeissima Padrona, ex Verdurin (via Duras); Odette successivamente Crcy, Swann, Forcheville; Gilberte,
Swann, Forcheville e SantLoup; la morte di un parente fa del principe des Laumes un duca di Guermantes, e il
barone di Charlus anche duca di Brabante, donzello GI Montargis, principe d'Olron, di Catency, di Vireggio
e delle Dune ;
[p. 942. Saint-Loup aveva gi avvertito Marcel a Balbec di quest'instabilit: in quella famiglia cambiano di nome come di camicia (I, p755).]

e in modo pi laborioso, ma non meno significativo, Legrandin diventer conte di Msglse. una ben povera
cosa un nome.
E ancora Marcel poteva provare di fronte al balletto onomastico del Ct de Guermantes una specie di vertigine
non priva di poesia;
[lo stesso nome di Guermantes riceveva, da tutti quei bei nomi estinti e tanto pi vivamente riaccesi, cui apprendevo soltanto ora che era legato, una
determinazione nuova, puramente poetica (Il, pp. 542-43)]

diversa sar invece un'ultima esperienza, puramente linguistica questa, che gli riveler, senza compenso estetico, la
vanit delle sue fantasticherie sui nomi di paese: si tratta delle etimologie di Brichot nell'ultima parte di Sodome et

Gomorrbe.
[La relazione funzionale tra queste etimologie e le genealogie di Basin chiaramente indicata da Proust: i nobili sono gli etimologisti della lingua, non delle
parole ma dei nomi (Il, P. 532). Ma anche Brichot si limita all'etimologia dei nomi (di paese). Ricordiamo che le sue etimologie sono disseminate tra le pp.
888938 del tomo Il della Pliade. C'era stata prima qualche etimologia del curato di Combray (I, pp. 104-6), ma ancora sprovvista di valore critico: spesso
d'altronde saranno confutate da Brichot. A proposito del legame tra genealogie ed etimologie, possiamo notare una rivelazione in un certo senso ibrida,
quando Marcel apprende che il nome di Surgis-le-Duc dipende non da una filiazione ducale, ma da una msalliance con un ricco fabbricante di nome Leduc
(II, P. 706).]

Ci si spesso interrogati sulla loro funzione nel romanzo, e Vendrys, che vedeva in queste tirate una satira del
pedantismo della Sorbona, aggiungeva che esse testimoniano anche una sorta di fascinazione. Questa
ambivalenza indubbia, ma la passione etimologica non ha probabilmente il senso che le attribuisce Vendrys,
allorch afferma che Proust credeva nell'etimologia come in un mezzo razionale per penetrare il senso nascosto
dei nomi e perci di informarsi sull'essenza delle cose. P, una concezione aggiunge che risale a Platone, ma
che oggi nessuno studioso si sentirebbe di sostenere
[Proust et les noms propres, p. 126.]

Ci significa ricollegare senza esitazioni le etimologie di Brichot a quelle di Socrate nella prima parte del Cratilo e
metterle al servizio della coscienza cratilea
[BARTHES, Proust et les noms, p. 158.]

di Marcel, per il quale in effetti, come abbiamo visto, l'essenza delle cose sta appunto nel senso nascosto dei loro nomi.
Orbene, se consideriamo un po' pi attentamente queste etimologie e il loro effetto sullo spirito dell'eroe, ci si
convincer facilmente che la loro funzione esattamente inversa. Qualunque sia il loro valore scientifico reale,
chiaro che si presentano e che sono accettate come altrettante correzioni de,li errori del senso comune (o del
linguista dilettante incarnato dal curato di Combray), delle etimologie popolari o ingenue, delle interpretazioni
spontanee dell'immaginario. Contro tutto questo, e quindi contro il cratilismo istintivo del Narratore, convinto
dell'esistenza d'un rapporto immediato tra la forma attuale del nome e l'essenza intemporale delle cose, Brichot
ristabilisce la deludente verit della filiazione storica, dell'erosione fonetica, insomma della dimensione diacronica
della lingua. Non tutte le etimologie sono necessariamente d'ispirazione realista: quelle di Socrate (che d'altronde
non pretendono d'avere nessuna verit scientifica) lo sono perch mirano a stabilire attraverso analisi arbitrarie
un rapporto tra il suono e il senso che non appare abbastanza chiaro nella forma globale del nome: Dionysos si
scompone in Didous oinon (che d il vino), Apollon in Aei ballon (che non si pu evitare), ecc. Quelle di Brichot,
invece, sono quasi sistematicamente antirealiste. Se eccezionalmente Chanteple proprio la foresta ove canta la
gazza, la regina che canta a Chanteretne una volgarissima rana con buona pace del signor di Cambremer; Loctudy
non il nome barbaro che vi vedeva il curato di Combray, il latinissimo Locus Tudeni; Fervaches, checch ne
pensi la principessa Sherbatoff, Acquecalde (fervidae aquae); Pont-Couleuvre non protegge alcuna serpe,
significa Ponteapedaggio ( Pont qui Vouvre); Charlus ha s il suo albero a SaintMartn du Chne (cbne =
quercia), ma non a SaintMerre des Ifs (if = tasso) perch il viene da aqua; in Torpehomme, bomme non significa
affatto quello che voi siete naturalmente incline a credere, barone , kolm, che significa isolotto ; infine la
stessa Balbec non ha nulla di gotico, n di tempestoso, n soprattutto di persiano: deformazione di Dalbec, da dal
vallata , e bee, ruscello; e persino BalbecenTerre non significa Balbec tra le terre, allusione alla sua lontananza di
qualche lega dalla spiaggia e dalle tempeste, ma Balbec di terraferma m opposizione alla baronia di Dover, da cui
una volta dipendeva: Balbec d'Oltremanica. Finalmente ora, quando tornerete a Balbec, saprete quello che
Balbec significa , dice ironicamente Verdurin, ma la sua ironia non colpisce soltanto colui al quale rivolta (il
pedante Brichot), poich ben vero che Marcel ha per molto tempo creduto di sapere che cosa significasse
Balbec e se le rivelazioni di Brichot lo conquistano perch finiscono col distruggere le sue antiche credenze e
introducono in lui il salubre disincanto della verit. Cos vedr svanire il fascino del fiore che non bisogna pi
vedere in Honfleur (fiord, porto ), e la stranezza del bue (bauf) che non bisogna pi cercare in Bricquebccuf
(budb = capanna ); scoprir cos che i nomi non sono pi individuali dei luoghi che designano, e che alla
continuit (o contiguit) degli uni sul terreno corrisponde la parentela degli altri e la loro organizzazione in
paradigma nel sistema della lingua: Ci che mi era apparso particolare si generalizzava: Bricquebccuf si
congiungeva con Elbeuf, e persino in un nome a prima vista altrettanto individuale quanto la localit, come il
nome di Pennedepie, ove le bizzarrie pi impossibili da elucidare con la ragione mi sembravano amalgamate da
tempo immemorabile in un vocabolo villereccio, saporoso e indurito come certo formaggio normanno, fui
desolato al ritrovare il pen gallico che significa montagna e si trova tanto in Penmarch quanto negli Appennini .
Come l'esperienza del mondo visibile , anche l'apprendistato linguistico spoetizza e demistifica: i nomi di paese
vengono semsvuotati di un mistero che l'etimologia (sostituisce) col ragionamento .
[II, p. 1009.]

Il fatto che dopo questa lezione, le fantasticherie nominali scompaiono definitivamente dal testo della Recberche:
Brichot le ha rese propriamente impossibili.
Bisogna dunque stare attenti ad attribuire a Proust stesso quell'ottimismo del significante
[ l'espressione con cui J.P. Richard designa la credenza da parte di Chateaubriand, in un> espressivit immediata dei segni (Paysage de Cbateaubriand, p.
162).]

di cui d prova il suo giovane eroe: la fede nella verit dei nomi un privilegio ambiguo dell'infanzia, una di

quelle illusioni da distruggere di cui l'eroe dovr spogliarsi via via per accedere allo stato di disincanto assoluto
che precede e prepara la rivelazione finale. Sappiamo da una lettera a Louis de Robert che Proust aveva pensato
d'intitolare le tre parti della Reckercbe previste nel 1913: L'et dei nomi, L'et delle parole, L'et delle cose.
[A. MAUROIS, A la recherche de Marcel Proust, Hachette, Paris 1949, P. 270]
Qualsiasi interpretazione si dia agli altri due titoli, il primo designa senza ambiguit la passione dei nomi come
una tappa transitoria, o meglio come un punto di partenza. L'et dei nomi quella che il Ct de chez Swann
chiama pi crudelmente l'et in cui si crede di creare ci che si nomina :
[I p. 91]

cos detto a proposito della domanda che Bloch fa a Marcel di chiamarlo caro maestro , e creare deve
essere preso qui nel senso pi ingenuamente realista: l'illusione del realismo di credere che ci che si nomina sia
quale lo si nomina.
Una specie di derisione anticipata di questa fallace magia dei nomi propri si pu forse trovare in Un amour
de Szvann, nelle facezie di dubbio gusto che si scambiano Charles e Orane alla serata della marchesa di
SainteEuverte a proposito del nome di Cambremer decisamente uno dei punti vulnerabili dell'onomastica
proustiana giochi di parole e parodie d'etimologia cratilea su cui si consulterebbe volentieri l'illustre Brichot:
Questi Cambremer hanno un nome stupefacente. Finisce proprio a tempo, ma finisce male! diss'ella ridendo.
Non inizia meglio, rispose Swann. Effettivamente quella doppia abbreviazione!... una persona molto in
collera e molto beneducata che non ha osato arrivare al termine della prima parola. Ma poich non poteva
impedirsi di cominciare la seconda, avrebbe fatto meglio a terminare la prima per finirla una buona volta.
[I, p. 341]

Dell'inconveniente che pu capitare ad aprire (o a rompere) senza precauzioni quella che nel Contre Sainte-Beuve
[p. 278]

viene chiamata l' urna d'inconoscibile .


C' dunque nella Recherche du temps perdu contemporaneamente una testimonianza ricchissima e molto precisa
su quella che si propone di chiamare la poetica del linguaggio o e una critica ora esplicita, ora implicita, ma sempre
severa, di questa forma di fantasia, doppiamente denunciata come illusione realista: nella credenza in un'identit
del significato (l' immagine ) e del referente (il paese): quella che verrebbe battezzata oggi l'illusione referenziale;
nella credenza in una relazione naturale tra il significato e il significante: quella che si potrebbe propriamente
chiamare l'illusione semantica. Questa critica, pur giungendo talvolta a cogliere o ad anticipare certi temi della
riflessione linguistica, rimane pur sempre strettamente legata in Proust al movimento e alla prospettiva
d'un'esperienza personale, che l'apprendimento della verit (proustiana) da parte dell'eroe-narratore. Questo
tirocinio concerne fra l'altro il valore e la funzione del linguaggio e la successione delle due formule gi citate
l'et dei nomi, l'et delle parole indica abbastanza precisamente in quale direzione esso progredisca. Bisogna
inoltre evitare, per quel che concerne la seconda, un controsenso che potrebbe trovare un'apparente
giustificazione nell'opposizione gi incontrata, tra il Nome (proprio) e la Parola intesa come nome comune (banco
di lavoro, uccello, formicaio). Se il titolo pensato nel 1913 per la seconda parte della Recherche si riferisse a
quest'opposizione, la sua pertinenza apparirebbe molto dubbia e possiamo naturalmente immaginare che
appunto per questa ragione sia stato abbandonato; ma il problema sarebbe allora di sapere come mai Proust
abbia potuto pensarvi tanto a lungo da sottoporlo all'approvazione di Louis de Robert. Sembra perci pi
probabile che qui parola non sia usato nel senso di nome comune, che come sappiamo non oggetto nella
Recherche di nessuna esperienza n di nessuna riflessione di una certa importanza. Il solo significato pertinente che
possiamo accordargli si riferisce non pi all'uso in certo qual modo solitario del linguaggio che quello delle
fantasticherie infantili, bens all'esperienza sociale e interindividuale della parola: non pi al tte--tte affascinante
della fantasia con le forme verbali prese come oggetti poetici, ma al rapporto con l'altro, quale si allaccia nella
pratica reale della comunicazione linguistica. La parola sarebbe qui, all'incirca nello stesso senso in cui si parla,
a proposito di Moli re o di Balzac, per esempio, di mots de caract re , la parola rivelatrice, il tratto o l'accidente di
linguaggio in cui si manifesta, a volte volontariamente, il pi sovente involontariamente e anche all'insaputa di
colui che la proferisce, un aspetto della sua personalit o della sua situazione. La scoperta di questa nuova
dimensione del linguaggio sarebbe allora una nuova tappa nell'iniziazione dell'eroe, tappa al contempo negativa,
in quanto gli rivela il carattere essenzialmente deludente della relazione con l'altro, e positiva in quanto ogni
verit, sia pure la pi desolante, va accettata come qualcosa di buono: l'esperienza delle parole si confonde
cosi con l'uscita (dolorosa) dal solipsismo verbale dell'infanzia, con la scoperta della parola dell'Altro e della
propria parola come elemento della relazione d'alterit.
L'et delle parole sarebbe dunque in realt quella dell'apprendimento della verit umana e della menzogna
umana. L'importanza attribuita qui a questa formula e l'uso di un'espressione quale parola rivelatrice non
debbono lasciar supporre, neppure un istante, che Proust accordi alla parola un potere di verit paragonabile, per
esempio, a quello che invece suppone l'esercizio della dialettica platonica o il trasparente dialogo delle anime nella

Nouvelle Hloise. La veridicit del logos non maggiormente stabilita nell'et delle parole che in quella dei nomi:
questa nuova esperienza invece una nuova tappa nella critica del linguaggio ossia nella critica delle illusioni
che l'eroe (che l'uomo in generale) pu avere nei confronti del linguaggio. Non c' parola rivelatrice che sulla base
d'una parola essenzialmente menzognera, e la verit della parola oggetto di una conquista che passa
necessariamente attraverso l'esperienza della menzogna: la verit della parola nella menzogna.
Bisogna in effetti distinguere la parola rivelatrice dalla parola ammesso che vi sia semplicemente veridica.
Quando Orgon dice a Clante che il rapporto con Tartufo distacca il suo cuore da tutti gli affetti e che vedrebbe
morire fratello, figli, madre e moglie senza preoccuparsene minimamente, non verrebbe neppure in mente di
giudicare questa dichiarazione rivelatrice : Orgon dice semplicemente a qual punto arrivata la sua
infatuazione e la sua parola appare qui soltanto come l'espressione trasparente del suo pensiero. Rivelatore
invece il E Tartufo? della scena precedente, in cui la verit si esprime senza che Orgon lo voglia, forse senza
che lo sappia, e in una forma che richiede di essere interpretata. La parola dice allora pi di quanto non voglia ed
appunto in questo rivela, o, se si preferisce, tradisce. Si vede subito che enunciati di questo genere pongono un
problema semiologico che gli enunciati veridici (ossia accolti come tali) non pongono affatto: mentre il
messaggio veridico univoco, il messaggio rivelatore ambiguo ed ricevuto come rivelatore soltanto perch
percepito come ambiguo: quello che dice distinto da quello che vuole dire e non detto nello stesso modo.
Orgon vuole dire che Tartufo da compiangere e la maniera in cui lo dice, intempestiva e compulsionale, dice a
sua volta che Orgon intartufato ; la sua parola denota l'ascetismo (immaginario) di Tartufo e connota la
passione (reale) d'Orgon. Nell'enunciato rivelatore, l'organo della rivelazione della verit questa
connotazione, questo linguaggio indiretto che passa, come nota Proust, non attraverso ci che dice il parlante ma
il suo modo di dire.
[I, p. 587]

Alla fine di Sodoma et Gomorrhe, rammentiamo, una frase d'Albertine a rivelare a Marcel il lesbismo dell'amica
informandolo che ella era stata intima della signorina Vinteuil. Tuttavia noi non consideriamo quella frase come
un enunciato rivelatore: e infatti non connota niente, non si presta a nessuna interpretazione, e se acquista per
Marcel una tale importanza perch un'esperienza anteriore ed esterna a quell'enunciato gli fa dare un valore
inquietante a ci che enuncia. La frase d'Albertine non ambigua, ha un solo significato (intimit con la signorina
Vinteuil) e questo significato stesso a sua volta significa per Marcel il lesbismo d'Albertine: l'interpretazione non
riguarda dunque la parola ma il fatto; non siamo nell'ermeneutica della parola rivelatrice, ma semplicemente in
una speculazione, esterna a ogni questione linguistica, sul rapporto necessario tra due fatti. In compenso, nella
medesima dichiarazione d'Albertine, una parentesi come questa: Oh' per niente il genere di donna che potreste
credere! provoca immediatamente il lavoro dell'interpretazione: la premura che mette Albertina nel combattere
un'ipotesi che non stata ancora formulata evidentemente sospetta e ha un significato opposto a quello che ha
la negazione stessa: la connotazione confuta la denotazione, il modo di dire dice pi di quello che detto.
Quando Swann arriva la sera dalla signora Verdurin, questa, mostrando le rose che egli le ha inviato il mattino,
sussurra rapidamente: Debbo sgridarvi e senza dilungarsi oltre in gentilezze gli indica un posto accanto a
Odette.
[I, p. 218]

Questa antfrasi mondana (Debbo sgridarvi = Vi ringrazio ), che ha valore qui soltanto per l'economia di
quella che i Guermantes chiamerebbero la sua redazione , corrisponde con sufficiente precisione a ci che la
retorica classica chiamava asteismo: giuoco delicato e ingegnoso mediante il quale si loda o si lusinga sotto
l'apparenza del biasimo o del rimprovero
[FONTANIER, Les figures du discours, riedizione Flammarion, Paris]

ovvio che le figure della retorica mondana, come tutte le figure, sono forme dichiarate di menzogna, che si
presentano come tali e s'attendono d'essere decifrate secondo un codice riconosciuto dalle due parti. Se Swann
rispondesse alla signora Verdurin qualcosa come: Voi mi sgridate quando vi offro dei fiori, non siete certo
gentile, non ve ne offrir pi , dimostrerebbe contemporaneamente la sua mancanza di buone maniere e quella
che Proust chiamerebbe la sua ingenuit. Questa come abbiamo visto, appunto la debolezza di Cottard (prima
maniera), che prende tutto alla lettera e, come giustamente deplora la signora Verdurin, si rimette a quello che
gli si dice . L'altro carattere ingenuo della societ proustiana il gaffeur Bloch che, quando la duchessa di
Guermantes afferma le cose mondane non sono il mio forte , risponde con tutta semplicit, credendo che
abbia parlato sinceramente: Ah! pensavo il contrario ,
[ II, p. 244. Altro letteralismo di Bloch, p. 222.]

o quando, durante la guerra, SaintLoup, pur facendosi in quattro per essere arruolato, pretende di non volere
riprendere servizio semplicemente per paura , lo tratta da figlio di pap e da imboscato, incapace com' di
concepire un eroismo tacito , e anzi dissimulato sotto il discorso della vilt, che precisamente quello che 2,

vero vigliacco non pronuncerebbe mai: sappiamo che un punto comune al milieu Guermantes e allo spirito
di Combray appunto il principio che non si debbono esprimere sentimenti troppo profondi e che il nostro
animo giudica naturalissimi ;
[III, P. 742. L Charlus a Balbec a dare a Marcel, che ha appena affermato di adorare la nonna, questa doppia lezione che varrebbe altrettanto bene per
Bloch: Voi siete ancora giovane, dovreste approfittarne per imparare due cose. Primo: d'astenervi dall'esprimere sentimenti troppo naturali per non essere
sottintesi; secondo, di non partire lancia in resta per rispondere alle cose che vi si dicono prima di averne inteso il significato (I, P. 767). ]

ma per il letteralismo d'un Bloch o d'un Cottard, quello che non viene detto a fortiori quello che negato non
pu essere, e inversamente quello che viene detto non pu non essere. Entrambi potrebbero sottoscrivere questa
frase di Jean Santeuil, enunciato emblematico di ogni ingenuit: Ho la prova del contrario, lo ha negato lei
stessa.
[Jean Santeuil, III, p. 57.]
Allo stesso modo, allorcb un invitato afferma con Odette di non interessarsi del denaro, ella dice di lui: Ma
un'anima adorabile, un essere sensibile, non l'avevo mai sospettato! mentre la generosit di Swann che disdegna
di mettersi in mostra la lascia fredda: Quello che parlava alla sua fantasia commenta Proust non era la
pratica, bens il vocabolario del disinteresse .
[p. 245]

Vediamo che gli ingenui sono pi numerosi di quanto si potrebbe credere. Addirittura, in un impeto di
stizza, Proust arriva a includere tutta la societ in questa qualifica, dicendo per esempio del signore di Braut che
il suo odio per gli snob dipendeva dal suo snobismo, ma faceva credere agli ingenui, ossia a tutti, che ne era
esente .
[II, p. 204]

Questa generalizzazione supera per manifestamente il suo pensiero e nel caso preciso di Braut per esempio, il
lettore non deve, ingenuo a sua volta, prendere alla lettera le proteste di Oriane ( Snob, Babal! Ma voi siete
matto, caro mio; proprio il contrario, detesta le persone del gran mondo... ): basta che attenda l'ultimo
ricevimento in casa della principessa per trovare, sempre sulla bocca d'Oriane, questa breve orazione funebre:
Era uno snob.
[II, p. 451; III, p. 1007.]

In realt la vita sociale in Proust una vera e propria scuola d'interpretazione e nessuno potrebbe farvi carriera (a
meno d'avvenimenti come l' Affaire o la Guerra che rovesciano tutte le norme) senza almeno averne imparato
i rudimenti. Quella dell'eroe dipende appunto dalla rapidit con cui assimila le lezioni dell'ermeneutica mondana.
Allorch, recatosi dal duca di Guermantes per cercare di sapere se l'invito che ha ricevuto dalla principessa
autentico, urta contro la ben nota ripugnanza dei Guermantes a rendete questo genere di favori e Basin gli
snocciola una serie di ragioni p o meno contraddittorie per giustificare il suo rifiuto, egli sa capire al tempo
stesso che si tratta d'una commedia e che deve comportarsi come se ne fosse rimasto convinto.
[II, p. 577]
Si recher dunque da Marie-Gilbert senza saperne di pi, e quando, eliminato ogni pericolo, Oriane gli dir:
Credete forse che non avrei potuto farvi invitare in casa di mia cugina? si guarda bene dal crederle e dal
rimproverarsi la propria timidezza: Incominciavo a conoscere l'esatto valore del linguaggio, parlato o muto,
dell'amabilit aristocratica... Saper distinguere il carattere fittizio di quell'amabilit ecco ci che i Guermantes
definivano essere ben educati; credere che l'amabilit fosse reale, ecco la cattiva educazione . Si capisce perch
Bloch incarni contemporaneamente, in quel mondo, l'ingenuit e la grossolanit: sono la medesima cosa. E
nell'iniziazione progressiva di Marcel al rituale mondano, pu essere considerata come una prova qualificante e
addirittura glorificante, la scenetta che si svolge poco tempo dopo a una matine dalla duchessa di Montmorency:
invitato a gran gesti dal duca di Guermantes che offre il braccio alla regina d'Inghilterra, ad avvicinarsi per esserle
presentato, Marcel, che comincia a perfezionarsi nella lingua delle corti , s'inchina senza sorridere e s'allontana.
Avrei potuto scrivere un capolavoro, i Guermantes non me ne avrebbero reso minor onore che di quel saluto .
La duchessa se ne complimenter con la madre del Narratore, dicendo che sarebbe stato impossibile
racchiudervi pi cose : il fatto che vi si trovava la sola cosa che importasse mettervi e la cui importanza si
misura dalla cura con la quale si evita di farvi allusione: Non la smettevano pi di trovare in quel saluto ogni
sorta di pregi, pur senza far parola di quello che era apparso loro il pi prezioso, la discrezione, e non la
smettevano ugualmente pi di prodigarmi complimenti che io capii non erano tanto una ricompensa per il
passato quanto piuttosto un'indicazione per l'avvenire .
[II, pp. 562-3]

La lezione dell'episodio evidentemente, come direbbe Cottard se potesse capirla e contemporaneamente


formularla in quel linguaggio degli stereotipi che ancora non padroneggia bene: A buon intenditor poche
parole!
Controprova: una volta che il signore di Cambremer accenna il gesto di cedere il proprio posto a Charlus,
questi finge di prendere il gesto come un omaggio reso al suo rango e pensando giustamente di non potere
affermare meglio il proprio diritto a tale precedenza che declinandola si profonde in veementi proteste,
appoggiando con forza le mani sulle spalle del modesto gentiluomo, che non si era affatto alzato, come per

costringerlo a risedersi. Mi facevate pensare, aggiunge, volendo che io prendessi il vostro posto, a un
signore che stamane mi ha inviato una lettera con questo indirizzo: A sua Altezza il barone di Charlus, e che
cominciava con: Monsignore. Effettivamente chi vi scriveva esagerava un po' , rispose il signore di
Cambremer abbandonandosi a un'ilarit discreta. Il barone di Charlus che l'aveva provocata non la condivise.
Ma in sostanza mio caro, disse, notate che, araldicamente parlando ha ragione lui... .
[II, p. 946]

Non si mai troppo chiari in provincia.


La vita mondana esige dunque, come la diplomazia, un'arte del codice e un'abitudine alla traduzione
immediata. Nello stesso modo in cui in un discorso rivolto dallo Zar alla Francia l'uso della parola alleato al posto
della parola amico annuncia agli iniziati che nella prossima guerra la Russia invier cinque milioni di uomini in
aiuto della Francia, una parola detta per un'altra dal duca di Rveillon significa che inviter o non inviter il suo
interlocutore al suo prossimo ballo. Pertanto il duca sorveglia il proprio linguaggio con la stessa cura di un capo
di stato e centellina le cortesie che rivolge alle sue conoscenze delle vacanze, disponendo di quattro testi i cui
relativi valori sono d'una chiarezza perfetta per chi sa vivere , in altre parole sa leggere: Spero di avere il piacere
di rivedervi a Parigi in casa mia / a Parigi (e basta) / di rivedervi (senza specificare meglio) / di rivedervi qui (alle
acque) . Il primo costituisce un invito, l'ultimo una condanna senz'appello, gli altri due sono lasciati
all'interpretazione perspicace o ingenua dell'interessato; ma quest'ultima eventualit ha ancora la sua copertura:
In quanto agli ingenui, anche coloro che lo erano in modo pi grave, si guardavano bene dal rispondere Ma
certo verr a farvi visita, perch il volto del duca di Rveillon era eloquente e si poteva in un certo senso
leggervi quel che egli avrebbe risposto nei diversi casi. In quest'ultimo si poteva udire in anticipo il glaciale
troppo gentile, seguito dalla brusca soppressione della stretta di mano, il che avrebbe per sempre distolto il
malcapitato dall'idea di dare corso a un proposito cos insensato .
[Jean Santeuil, III, pp. 40-43]

L'espressione muta del volto serve dunque qui di chiosa o di falsariga a un eventuale Cottard o Cambremer di
citt termale.
Quest'aspetto crittografico della conversazione mondana allorch essa coinvolge certi interessi spiega perch
dei diplomatici professionisti rotti a tali esercizi di trascodificazione vi facciano scintille, anche se sono del tutto
stupidi come il marchese di Norpois. La pi bella scena di negoziazione mondana, tutta giocata su un doppio
registro, tra due attori di cui ciascuno traduce istantaneamente il discorso cifrato dell'altro, quella che mette alle
prese il sunnominato Norpois e il principe di Faffenheim nel Ct de Guermantes.
[II, pp. 257-63]

Si tratta situazione rivelatrice per eccellenza d'una candidatura: quella del principe all'Accademia delle scienze
morali e politiche. Bisogna per, per intenderla bene, tenere conto dell'atteggiamento di Norpois nel confronti di
una prima candidatura, quella del padre di Marcel. L'influenza di Norpois che dispone dei due terzi dei voti, la
sua proverbale cortesia, la sua palese simpatia per il postulante non lasciano apparentemente nessun dubbio
sulla sua posizione e Marcel, incaricato di dirgli qualche parola sulla questione, viene investito da un discorso
del tutto inaspettato, dei pi calorosamente scoraggianti, sapiente variazione sul tema obbligato: vostro padre ha
di meglio da fare, tutti i miei colleghi sono dei fossili, non bisogna che si presenti, sarebbe un passo falso, se lo
facesse spingerei il mio affetto per lui fino a rifiutargli il mio voto, attenda dunque che vengano a supplicarlo...
conclusione: io preferisco per vostro padre un'elezione trionfale tra dieci o quindici anni .
[II, p. 226]

Essendo semplicemente un postulante e non avendo nulla da offrire, Marcel non pu evidentemente fare altro
che inghiottire questo rifiuto: si tratta qui della candidatura semplice. Pi produttiva (testualmente) la
candidatura negoziabile, in cui il postulante pu offrire una contropartita in cambio di quello che sollecita.
Bisogna inoltre che questa contropartita corrisponda al desiderio, per ipotesi non formulabile, del sollecitato. La
storia della candidatura Faffenheim diventa dunque quella di una serie di avances per mettere la mano sulla
chiave buona . Le prime offerte, menzioni d'encomio o decorazioni russe, non approdano ad altro che a cortesie
senza conseguenza e a risposte quali: Oh! ne sarei felicissimo! (di vedervi all'Accademia) , che potrebbero
ingannare solo un ingenuo, un dottor Cottard (sempre campione dell'ingenuit), che si sarebbe detto:
Vediamo un po'... mi dice che sarebbe felice che io fossi con lui all'Accademia, le parole hanno pur da avere un
senso, che diamine! Orbene, contrariamente a ci che pensa Cottard, le parole non hanno un senso: ne hanno
pi d'uno. P, quello che d'altronde il principe sa bene quanto il suo interlocutore, formato alla medesima scuola
. L'uno e l'altro sanno benissimo che cosa pu contenere una parola ufficiale apparentemente insignificante , e
che il destino del mondo sar annunziato non dall'apparizione delle parole guerra o pace, ma da tutt'altra parola,
banale in apparenza, terribile o benedetta, che il diplomatico, con l'aiuto del suo cifrario, sapr immediatamente
leggere... Ora, in un affare privato come la sua presentazione all'Accademia il principe aveva usato lo stesso
sistema d'induzione che gli era servito in tutta la sua carriera, lo stesso metodo di leggere certe espressioni
simboliche . Egli fa ottenere a Norpois il cordone di sant'Andrea che gli vale soltanto un discorso simile a quello

che abbiamo gi riassunto prima. Un lungo articolo lusinghiero sulla Revue des Deux Mondes : l'ambasciatore
risponde che non sa come esprimere la sua gratitudine . Leggendo in queste parole, come in un libro aperto, il
suo nuovo scacco e attinendo nel sentimento dell'urgenza un'ispirazione salvatrice, Faffenheim risponde in
apparenza come avrebbe fatto Cottard: Io avr la sfacciataggine di prendervi in parola . Ma questo stesso
prendere in parola non qui, come invece sarebbe in Cottard, da prendere alla lettera. R ancora un asteismo,
poich la domanda che fa il principe in realt un'offerta e questa volta, come lascia prevedere la sua
presentazione antifrastica, segno di certezza e anticipazione di successo, quest'offerta la buona: si tratta
d'ottenere dalla signora di Villeparisis (alla quale, come sappiamo, Norpois legato da antica e quasi coniugale
amicizia) che ella voglia acconsentire a venire a cena con la regina d'Inghilterra. L'esito ora talmente sicuro che
il principe pu fingere di ritirare la sua candidatura: sar l'ambasciatore a trattenerlo: Ma soprattutto non
bisogna rinunciare all'Accademia: io debbo far colazione proprio tra quindici giorni con Leroy-Beaulieu, ecc. .
In modo pi sbrigativo, che per ha il merito di far risaltare il carattere duplice del discorso mondano una
scena di Jean Santeuil
[III, pp. 9-14]

ci presenta le frasi pronunciate in un salotto seguite dalla loro traduzione . Jean era stato invitato come
quattordicesimo dalla signora Marmet e la padrona di casa crede di dovere giustificare agli occhi degli altri invitati
questa presenza mondanamente poco gloriosa: di qui tutta una serie di frasi come: vostro padre non si sar
dispiaciuto di vedervi portar via cos proprio al momento di andare a tavola? (Traduzione: Capite bene, voi
tutti, era perch non si fosse in tredici, stata una cosa fatta all'ultimo momento, ecc. ); Su, Julien, hai
presentato il tuo amico ai signori? (Traduzione: Non dovete credere che sia una mia conoscenza, un
compagno di scuola di mio figlio ); Vostro padre tanto gentile da raccomandare il mio julien ogni volta che si
presenta a un esame agli Affari Esteri (Traduzione: Non poi tanto stupido invitarlo visto che utile a jullen
). Stesso modo di fare alla fine della serata: la signora Sheffler: Com' bella la principessa! Mi molto simpatica
perch dicono che sia intelligentissima, ma io non la conosco sebbene abbiamo le medesime amiche
(Traduzione: Su, presentatemi ). La signora Marmet: Oh! deliziosa. Ma non prendete una tazza di t ,
non volete nulla, mia cara? C' bisogno di tradurre?
Formato all'arte della traduzione da enunciati di questo genere, la cui duplicit quasi dichiarata e che
pressocch indispensabile, per l'esercizio della vita mondana sapere interpretare correttamente, l'eroe proustiano
dunque pronto
[Questa parola non deve tuttavia far pensare a una vera successione cronologica: le due forme d'iniziazione, nella Recbercbe, sono in realt simultanee.]

ad affrontare forme d'enunciato pi vicine a quella che abbiamo chiamata la parola rivelatrice, e il cui vero
significato pu essere attinto solo malgrado e generalmente all'insaputa di colui che le proferisce.
Il linguaggio, nel mondo della Recherehe, uno dei grandi rivelatori dello snobismo, ossia al tempo stesso della
gerarchizzazione della societ in caste sociali e intellettuali e dell'ininterrotto movimento d'imprestiti e di scambi
che non cessa d'alterare e di modificare la struttura di questa gerarchia. La circolazione dei modi d'espressione,
delle particolarit e dei tic di linguaggio caratterizza questa vita sociale almeno quanto quella dei nomi e dei titoli
nobiliari, e sicuramente assai pi di quella dei beni e delle fortune. La stabilit stilistica altrettanto eccezionale
della stabilit sociale o psicologica e, nello stesso modo, sembra essere privilegio un po' miracoloso della famiglia
del Narratore, e particolarmente della madre e della nonna, chiuse nel rifugio inviolabile del buon gusto classico e
del parlare Svign. Un altro miracolo, ma questo pi d'equilibrio che di purezza, protegge lo stile d'Oriane,
sottile sintesi d'un'eredit provinciale, quasi contadina, e d'un dandismo ultraparigino ch'ella condivide con
l'amico Swarin (e che l'insieme della coterie Guermantes cerca maldestramente d'imitare), fatto di litoti, d'una certa
affettazione di leggerezza e di disdegno per i soggetti seri , d'un modo distaccato di pronunciate sempre come
in corsivo o tra virgolette le locuzioni giudicate pretenziose o saccenti. Norpois e Brichot resteranno sino alla
fine fedeli ai loro stili, solenne collezione di clchs per il diplomatico, miscuglio di pedanteria e di familiarit
demagogica per il professore della Sorbona ( spiritosaggini da professore di scuola media in vena coi primi della
classe il giorno di san Carlomagno,
[III, p. 711]

ma questi due linguaggi finiranno per congiungersi, nei loro articoli di guerra, in un medesimo parossismo di
retorica officiosa, al punto che gli editori arrivano
[III, p. 1248]

a supporre una confusione di persona. L'invecchiamento di Charlus caratterizzato, all'inizio della Prisonnire, da
una brusca femminilizzazione del tono e delle forme, fino allora imbrigliati in una retorica possente e dal largo
spazio preso nel suo linguaggio da certi modi di dire, i quali avevano proliferato e adesso ricorrevano di continuo
come per esempio 1a concatenazione delle circostanze'',e in cui la parola del barone cercava, di frase in frase, un
appoggio, come in un tutore necessario :
[III, p. 212]

invasione dello stile da parte dello stereotipo che spinge Charlus dalla parte di Norpois (ricordiamoci che

all'epoca del Contre Sainte-Beuve i due personaggi erano ancora confusi), o del fratello Basin, la cui goffaggine
verbale trova conforto a intervalli regolari in locuzioni pleonastiche quali Che volete che vi dica? .
[II, P. 530. Proust aggiunge: Era per lui, fra l'altro, come una clausola metrica , il che fa stranamente pensare al Debbo proprio dirlo? di Michelet ove egli
vede non una preoccupazione di studioso, ma una cadenza di musicista (III, p. 161). ]

Persino l'eleganza di Swann non resiste al continuo contatto di piccoloborghesi pretenziosi che il matrimonio con
Odette gli impone. Gli succeder di dire di un capo di gabinetto ministeriale: Sembra che sia una cima, un
uomo di prim'ordine, una persona veramente eccezionale. ufficiale della Legion d'Onore, frasi ridicole sulla
bocca di un intimo dei Guermantes, pilastro dello jockey Club, ma inevitabili su quella del marito d'Odette.
[p. 513; Una volta Swarin non parlava cos , commenta Marcel.]

Nessuno, o quasi, si salva quindi da questo movimento del linguaggio sociale, e l'adozione di certe forme
particolari pu essere il segno infallibile d'una degradazione o d'una promozione, o anche d'una pretesa che il pi
delle volte non fa che precorrere la prossima tappa d'una carriera mondana. Promozione intanto nella gerarchia
del livello d'et: abbiamo visto quale conclusione Marcel poteva ricavare dall'apparizione di certe parole nel
vocabolario d'Albertine, ma gi a Balbec egli aveva osservato che le fanciulle della piccola borghesia acquisiscono
in momenti ben precisi il diritto di usare certe locuzioni che i genitori tengono in serbo e come in usufrutto per
loro: Andre ancora troppo giovane per potere dire di un certo pittore: Pare che l'uomo sia affascinante ;
questo verr insieme col permesso d'andare al PalaisRoyal ; per la prima comunione Albertine aveva ricevuto
in regalo l'autorizzazione di dire: Troverei questo abbastanza terribile .
[pp. 909-10]

Promozione sociale, soprattutto. Marcel scopre nel salotto di Swann la raffinatezza e la volutt di pronunziare
Coome staate? strascicando la a e la o, e odioso con la o aperta, e s'affretta a impadronirsi di questi preziosi pegni
d'eleganza. Sappiamo di quale collezione d'anghcismi sia infiorata, sin dai primi passi, la paziente carriera
d'Odette; divenuta signora Swann, attinger dal milieu Guermantes, tramite il marito, parole ed espressioni che
ripeter anche lei fino all'ebbrezza, poich le espressioni che abbiamo preso da poco a prestito dagli altri sono
quelle che, almeno per un certo lasso di tempo, pi ci piace adoperare .
[I, pp. 504, 511, 510.]

Il privilegio di potere chiamare Grgr , Babal , Mm , La Pomme personaggi augusti come il principe
d'Agrigento, il signor di Braut (Hannibal), il signor di Charlus (Palamde) o la signora di la Pommeraye un
segno esteriore d'aristocrazia che nessuna esordiente rinuncerebbe a esibire, e rammentiamo che la signorina
Legrandn aveva sposato un Cambremer per potere dire un giorno se non, come altre giovani maritate di p alto
lignaggio, mia zia d'Uzai (Uzs) o mio tzio di Rouan (Rohan), almeno, secondo l'uso di Fterne, mio
cugino di Ch'nouville : insomma il prestigio, alla fin fine modesto, del matrimonio riceveva lustro dall'esclusivit
della pronunzia.
[II, p. 819]

E siccome l'aristocrazia una cosa relativa e lo snobismo un atteggiamento universale (la conversazione della
marchesa nel piccolo padiglione dei Champs-Elyses del pi puro Guermantes e piccolo clan Verdurin )
[II, p. 312]

vediamo il liftier del Grand Htel adoperarsi da proletario moderno, a cancellare dal suo idioma la traccia del
regime della domesticit sostituendo accuratamente livrea con tunica e salario con trattamento ,
designando il portiere o il cocchiere come suoi capi , per dissimulare sotto questa gerarchia tra colleghi la
vecchia e umiliante opposizione tra padroni e servitori che la sua funzione reale perpetua suo malgrado: cosi
Franoise diventa nel suo discorso la signora che appena uscita e l'autista il signore con cui siete uscito ,
designazione inaspettata che rivela a Marcel come un operaio sia un signore non meno d'un uomo di societ.
Lezione di parole soltanto precisa Proust perch quanto alla cosa in s io non avevo mai fatto alcuna
distinzione tra le classi . Distinguo in verit molto contestabile, smentita pi che sospetta per chi rammenta
d'avere trovato nel discorso dello stesso Marcel un'asserzione di questo tenore: l'appellativo d'impiegato ,
come portare i baffi per i camerier dei caff , una soddisfazione d'amor proprio data ai domestici .
[I, p. 799; II, pp. 855, 790; I, p. 800; II, p. 1026; I, p. 800. II, p. 236.]
Quando le parole sono cariche di connotazioni cos grevi, la lezione di parole anche una lezione di cose.
Ma l'ambizione mondana, il prestigio delle classi superiori non sono la sola strada attraverso cui lo snobismo
agisce sul linguaggio. Lo stesso Proust cita come una legge del linguaggio il fatto che ci si esprima come le
persone della propria casta mentale e non della propria casta d'origine :
[I, p. 763]

nuova spiegazione dei volgarsmi del duca di Guermantes e simbolo stesso del gergo da cenacolo che
SaintLoup apprende da Rachel e attraverso cui il giovane aristocratico blas s'integra spiritualmente a una nuova
casta casta socialmente inferiore alla sua, e la cui superiorit intellettuale su uno Swann o uno Charlus lungi
dall'essere certa, ma che riveste ai suoi occhi tutto il fascino dell'esotismo e la cui imitazione gli fa provare come
un fremito d'inziazione. Cos quando ode suo zio affermare che c' pi verit in una tragedia di Racine che in
tutti i drammi di Victor Huao, s'affretta a sussurrare all'orecchio di Marcel: Preferire Racme a Victor
comunque un'enormit! Era aggiunge il narratore sinceramente rattristato dalle parole dello zio, ma il

piacere di dire comunque e soprattutto enormit lo consolava .


[I, p. 763]

Una legge del linguaggio che Proust invece di enunciare, illustra in molti modi, sembra essere che ogni
linguaggio fortemente caratterizzato nel lessico, nella sintassi, nella fraseologia, nella pronunzia o altrove, che si
tratti di uno stile d'autore (vedi l'influenza dello stile di Bergotte), d'un gergo intellettuale, d'un parlare di gruppo,
d'un dialetto, esercita su coloro che lo incontrano, oralmente o per iscritto, un fascino e un'attrazione
proporzionali, non tanto al prestigio sociale o intellettuale di chi lo parla o lo scrive, quanto all'ampiezza del suo
scarto e alla coerenza del suo sistema. Nella caserma di Doncires, il giovane laureato in lettere si adopera
pedantemente a imitare le costruzioni dialettali e la sintassi popolare dei suoi compagni analfabeti ( Su, vecchio,
tu vuoi farmene bere un litro , Ecco qua uno che non certo uno sfortunato ), sciorinando le nuove forme
linguistiche che aveva apprese solo di recente, fiero di poterle introdurre nel suo discorso .
[II, p. 94]

Nello stesso modo, durante la guerra, e senza che il patriottismo c'entri molto, tutta una societ, dalla duchessa al
maltre d'hotel, si esercita a parlare il linguaggio del giorno: G. O. G. (Gran Quartier Generale), poilus, censurare,
silurare, imboscato, con un piacere uguale e identico a quello che procuravano qualche anno prima l'uso del Babal e
del Mm; ed forse pi per contagio verbale che per desiderio di darsi importanza che la signora Verdurin dice
Noi esigiamo dal re di Grecia, noi gli invieremo, ecc. , e Odette No, non credo che prenderanno Varsavia o
Quello che non vorrei sarebbe una pace zoppicante : la sua ammirazione per i nostri fedeli alleati non
d'altronde l'esaltazione della sua vecchia analomania linguistica, e non proietta questa su SaintLoup quando
annuncia con malaugurata fierezza che suo genero conosce ormai il gergo di quei bravi tommies ? .
[ III, pp. 729,733,788,789]

Per tutti infatti, salvo probabilmente per quelli che la fanno , non come la fa Clmenceau, ma subendola
la guerra, come tante altre situazioni storiche, prima di tutto un gergo .
Apparentemente queste forme elementari della commedia sociale non comportano nessuna ambiguit e non
presentano nessuna difficolt semiologica giacch un tratto linguistico si trova apertamente proposto come
connotatore d'una qualit cui legato per una semiosi del tutto trasparente: anglicismo = distinzione , uso del
diminutivo = familiarit con l'ambiente aristocratico , ecc. Bisogna tuttavia osservare che l'apparente semplicit
del rapporto di significazione nasconde due tipi assai diversi di relazione secondo l'atteggiamento adottato dal
destinatario del messaggio. La prima, che pu essere qualificata, nel vocabolario proustiano, di ingenua e che
evidentemente quella che desidera l'emittente e che postulata dal suo discorso, consiste nel! 'interpretare il
connotatore come un indice, nel senso corrente del termine, ossia come un effetto significante della sua causa:
Questa giovane signora dice Grigr perch conosce intimamente il principe d'Agrigento . L'altro atteggiamento
consiste invece nel ricevere il connotatore come un'indicazione intenzionale e quindi nel leggere un rapporto di
finalit in quello che era presentato come un rapporto di causalit: Questa giovane signora dice Grigri per
mostrare che essa amica intima del principe d'Agrigento . Ma si vede immediatamente che questa modifica del
rapporto semiotico comporta una modifica anche del significato stesso: infatti, se il connotatore ricevuto come
indice significa proprio ci che esso ha il compito di significare, questo medesimo connotatore ridotto allo stato
d'indicazione pu significare soltanto l'intenzione significante, e quindi l'esibizione dell'attributo connotato. Ora, nel
sistema dei valori proustiani, un attributo esibito inevitabilmente svalutato (per esempio, la distinzione
ostentata diventa affettazione) e, quel che pi conta, quasi inevitabilmente contestato in virt della legge che non
si prova mai il bisogno d'esibire quello che si possiede e il cui possesso vi diventa, per definizione, indifferente:
cos Swann, tanto desideroso quando amava Odette, di mostrarle la sua indifferenza il giorno in cui si fosse
staccato da lei, si guarda bene dal farlo quando ne divenuto capace; al contrario le dissimula accuratamente le
sue infedelt; con l'amore, dice Proust, ha perduto anche il desiderio di mostrare che non prova pi amore; dal
punto di vista che ci interessa qui, diremo piuttosto che acquistando quel vantaggio che l'indifferenza ha
perduto il desiderio di manifestarlo.
[I, p. 525; medesima osservazione a proposito di Marcel distaccato da Gilberte. II, p. 713]

Quando Charlus, al momento della sua comparsa a Balbec, vuole darsi un contegno per stornare i sospetti di
Marcel che ha sorpreso il suo sguardo insistente, tira fuori l'orologio, guarda in lontananza, fa il gesto di
malumore con cui si crede di far vedere che si stufi d'aspettare, ma che non si la mai quando si aspetta realmente .
[I, P. 752, il corsivo nostro. Qualche riga sotto: Sbuff rumorosamente come fanno le persone che hanno non gi troppo caldo ma il desiderio di
mostrare che hanno troppo caldo.]

Questa incompatibilit tra l'essere e il sembrare annuncia dunque fatalmente lo scacco del significante, sia verbale
sia gestuale. Marcel, sicuro di essere finalmente presentato da Elstir alla piccola brigata delle fanciulle, si
prepara a ostentare quella specie di sguardo interrogatore che rivela non la sorpresa bens il desiderio d'apparire sorpreso
tanto ciascuno aggiunge un cattivo attore, o il prossimo un buon fisionomista .
[ I, p. 855, il corsivo nostro. Da notare che Jean Santeuil (III, p. 30) diceva esattamente l'opposto: 1 nostri interlocutori concedono a quanto stiamo
dicendo un'attenzione cos distratta o cos indifferente che possiamo essere credut distratti quando invece siamo attentissimi, mentre invece i moti della
fisionomia le gaffes, gli equivoci che crediamo debbano saltare agli occhi passano fisionomia, sempre inosservati. Sarebbe assoluta
mente vano tentare di ridurre questa contraddizione con qualche differenza di contesto o evoluzione del pensiero di Proust: le due verit coesistono
senza conoscersi, voltandosi la schiena.]

Cosi il messaggio esibitore immediatamente decifrato come messaggio simulatore, e la proposizione Dice
Grigri per mostrare che... trasformata in Dice Grigr per fare credere che... : in tal modo l'indice ridotto
viene quasi infallibilmente a indicare il contrario di quello che avrebbe dovuto indicare e il rapporto di causalit si
inverte in extremis a detrimento dell'intenzione significante: dice Grigri perch non conosce il principe
d'Agrigento, Charlus non aspetta nessuno perch guarda l'orologio, Marcel appare sorpreso, dunque non lo . Il
fallimento della significazione menzognera cos sancita non dalla semplice assenza del significato che ci si
prefigge, ma dalla produzione del significato contrario, che si trova appunto ad essere la verit : in questa
astuzia della significazione consiste appunto il linguaggio rivelatore, che per essenza un linguaggio indiretto,
linguaggio che palesa ci che non dice e proprio perch non lo dice. La verit dice Proust non ha bisogno
d'essere detta per essere manifestata ;
[II, p. 66.]

ma non probabilmente forzare il suo discorso tradurre: la verit pu essere manifestata soltanto quando non
detta. Alla nota massima secondo cui il linguaggio stato dato all'uomo per dissimulare il suo pensiero, bisogner
dunque aggiungere: ma dissimulandolo lo rivela. Falsum index sui, et veri.
Proust sembra accordate un'attenzione tutta particolare e ne vedremo pi avanti la ragione alle occasioni
in cui la parola (dis)simulatrice smentita dall'espressione mimica o gestuale. Ecco tre esempi chiarissimi di cui la
coppia Guermantes far ancora le spese. Oriane: A quella notizia la fisionomia della duchessa spir
soddisfazione e le sue parole fastidio: Oh! Dio, ancora dei principi . Basin: Mi pasticcio sempre coi nomi,
che una cosa davvero spiacevole disse con aria di soddisfazione . Basin ancora: Io che non ho l'onore di
far parte del ministero dell'Istruzione pubblica, rispose il duca con finta umilt, ma con una vanit cosi intensa
che la sua bocca non poteva impedirsi di sorridere e i suoi occhi di gettare sugli astanti sguardi scintillanti di gioia
.
[II, pp. 586, 231, 237]

La finta evidentemente ogni volta nel discorso verbale e sono l'aria, la fisionomia, la bocca, gli occhi che non possono
impedirsi d'esprimere il sentimento profondo. certo possibile che l'inconsapevolezza o la volont di dissimulazione
non siano particolarmente marcati qui in Basin, che non (si) fa davvero mistero del disprezzo in cui tiene gli altri
in generale e i funzionari dell'Istruzione pubblica in particolare; e quindi che non potere impedirsi significhi qui non
potersi privare del piacere di manifestarlo. Secondo questa ipotesi noi saremmo ancora, con questi due ultimi
esempi, nell'universo della retorica aperta salvo che si tratterebbe non pi d'una retorica della cortesia bens
dell'insolenza, della quale non bisogna sottovalutare l'importanza nell'ambiente Guermantes. Questa
interpretazione non si applica per al caso della duchessa, che non pu in alcun modo desiderare e neppure
sopportare che si sappia (ammettendo che ella lo confessi a se stessa) a qual punto la compagnia dei principi le
sia gradita. Ancor meno pensabile che lo snobismo artistico della signora di Cambremer voglia confessare la
propria ignoranza di Pellas che ha appena definito un capolavoro, quando a un'allusione pi precisa di Marcel
risponde Credo bene che so ; ma non so affatto proclamavano invece la sua voce e il suo volto che non si
modellavano ad alcun ricordo, e il suo sorriso privo d'appoggio, sospeso nell'aria .
[II, p. 822]

Ritroviamo qui gli elementi di mimica (volto, sorriso) gi incontrati in Basin e in Oriane, ma bisogna notate
l'apparizione d'un altro elemento rivelatore che la voce, separata dall'espressione verbale di cui tuttavia lo
strumento ma uno strumento ribelle e infedele. In effetti come se in Proust il corpo, e tutte le manifestazioni
direttamente legate all'esistenza corporale: gesti, mimica, sguardo, emissione vocale, sfuggissero pi facilmente al
controllo della coscienza e della volont e tradissero per primi, mentre il discorso verbale re sta ancora soggetto
allo spirito del parlante. Marcel parla dei segni scritti come con l'inchiostro invisibile , nella fisionomia e nei
gesti d'Albertine e, autoaccusandosi in un altro punto, ammette che gli era spesso capitato di dire parole in cui
non c'era un briciolo di verit, mentre la manifestavo con tante confidenze involontarie del mio corpo e dei miei
gesti, confidenze che venivano interpretate perfettamente da Franoise :
[III, p. 424; II, p. 66.]

c' dunque pi saggezza che ingenuit nel modo in cui Franoise (cos come controlla 'guardando il giornale,
che non sa leggere, le informazioni che le d il maggiordomo) guarda il volto di Marcel per sincerarsi che non
menta quasi avesse potuto vedere se ci fosse scritto davvero ;
[III, p. 467. Franoise d'altronde capacissima, e questa volta volontariamente, d'esprimers nel linguaggio del silenzio; condannata com' dalla tirannia dei
padroni a parlare come Tiresia, per figure ed enigmi, sapeva racchiudere tutto ci che non le sarebbe stato permesso d'esprimere direttamente, in una
frase che noi non avremmo potuto incriminare senza accusare noi stessi: in meno ancora d'una frase, in un silenzio, nel modo con cui poggiava un oggetto
(Il, P. 359).]

c' scritto davvero ed ella legge perfettamente quell' inchiostro invisibile .


Da questa autonomia del corpo deriva che l'espressione gestuale sia pi difficile da padroneggiare del

linguaggio verbale: Odette per esempio, sa mentire benissimo a parole, ma non capace di reprimere, forse
perch neppure se ne avvede, l'aria di disperazione che ogni volta le si dipinge in viso. E siccome la bugia
diventata in lei una seconda natura, non solo non si accorge della mimica che la tradisce, ma neppure della bugia
stessa: soltanto il suo corpo, in lei, sa ancora separare il vero dal falso, o piuttosto, aderendo fisicamente e come
sostanzialmente alla verit, non pu dire che la verit. Nulla dunque pi imprudente che volere mentire a gesti:
l'abbiamo visto con Charlus e Marcel a Balbec, nessuno abbastanza buon attore per farlo. Allorch Swarin
l'interroga sui suoi rapporti con la signora Verdurin, Odette pensa di poter negare questi rapporti con un solo
gesto: ahim quel segno (scuotere il capo increspando le labbra) ch'ella crede di produrre volontariamente
invece stato scelto dal suo corpo, con la chiaroveggenza infallibile dell'automa, nell'inventario non delle negazioni
ma dei rifiuti, come se si fosse trovato a rispondere non a una domanda ma a una proposta. Volendo dimostrare
di non aver mai fatto nulla con la signora Verdurin, tutto quello che riesce a ottenere dal proprio corpo la
mimica con la quale le probabilmente capitato a volte, e pi per convenienza personale che per
impossibilit morale , di respingere le sue avances. Una smentita che ha quindi il valore d'una semiconfessione:
Vedendo Odette fargli segno in quel modo che era falso, Swann cap che forse era vero .
[I, p. 362]

Le parole che sottolineiamo hanno qui il loro pieno significato: il modo in cui Odette nega il fatto che ne
ammette la possibilit ed ovvio che basta questa possibilit (ossia la certezza del lesbismo d'Odette) a far
disperare Swann. In una circostanza meno grave, vediamo la principessa di Parma, migliore attrice della signora
di Cambremer, imporre alla sua fisionomia la mimica appropriata allorch le viene nominato un quadro di
Gustave Moreau del quale ignora persino il nome, scuotendo la testa e sorridendo con tutto l'ardore della sua
fittizia ammirazione; ma l'atonia dello sguardo, ultimo rifugio della verit bandita, basta a smentire tutta questa
gesticolazione facciale: l'intensit della sua mimica non riusc a surrogare quella luce che resta assente dai nostri
occhi finch non sappiamo quello di cui ci si parla .
[II, p. 520]

Queste situazioni apparentemente marginali in cui il discorso si vede confutato dall'esterno dall'atteggiamento
di colui che lo proferisce, hanno in realt in Proust un valore esemplare perch in certo qual modo proprio sul
loro modello si elabora, almeno idealmente, la tecnica di lettura che permetter al Narratore di reperire e
interpretare i tratti, non pi esterni questa volta, ma interni al linguaggio, attraverso cui il discorso si tradisce e g
si confuta da solo. Tali avvenimenti linguistici (un giro di frase inconsueto, una parola per un'altra, un accento
inatteso, una ripetizione apparentemente superflua, ecc.) hanno significato solo a un secondo livello , e non lo
rivelano Che alla condizione, dice Proust, d'essere interpretati alla stregua d'un improvviso rossore sul viso
d'una persona colta da turbamento oppure d'un improvviso silenzio
[I p. 929; III, p. 88.]

ossia come un accidente fisico esterno alla parola. Questa interpretazione del linguaggio verbale considerato
come non verbale ha un certo rapporto e per questo l'abbiamo qualificata come lettura con la decifrazione
d'una scrittura ideografica o, pi esattamente, in mezzo a un testo in scrittura fonetica, e per il lettore abituato al
tipo di lettura che esso richiede, d'un carattere improvvisamente aberrante, incapace di funzionare nello stesso
modo di quelli che lo circondano e tale da rivelare il suo senso soltanto alla condizione d'essere letto non pi
come fonogramma ma come ideogramma o pittogramma, non pi come segno d'un suono ma come segno
d'un'idea o immagine d'una cosa.
[Per esempio molto comunemente in enunciati quali: Dritto come un'i, che, anche in una comunicazione orale, implicano il passaggio attraverso la
scrittura.]

Davanti a tali enunciati l'uditore si trova evidentemente in una situazione simmetrica a quella del lettore di rebus,
che deve prendere l'immagine d'un oggetto come equivalente di una sillaba, oppure anche dell'ipotetico primo
uomo che avrebbe dovuto utilizzare un ideogramma per scopi puramente fonetici. Cos Marcel paragona il suo
tirocinio ermeneutico a un movimento inverso a quello dei popoli che si servono della scrittura fonetica
soltanto dopo avere considerato i caratteri come un sistema di simboli . Cos la parola diventa scrittura e il
discorso verbale, abbandonando la sua linearit univoca, un testo non soltanto polisemico ma, se si pu usare il
termine in questo senso, poligrafico, ossia un testo che combina diversi sistemi di scrittura: fonetica, ideografica,
talvolta anagrammatica: Talvolta la scrittura nella quale decifravo le bugie d'Albertine, pur non essendo
ideografica, esigeva soltanto d'essere letta a rovescio ; in questo modo una frase come Non ho voglia d'andare
domani dai Verdurin viene capita come puerile anagramma di questa confessione: andr domani dai Verdurin,
certissimo, una cosa d'estrema importanza ;
[III, pp. 88, gi. Cfr. I, p. 860, II, pP. 1023: i segni inversi in virt dei quali esprimiamo i nostri sentimenti col loro contrario.]

l'estrema importanza appunto connotata dalla negazione, cos come un messaggio scritto alla rovescia
dimostra, gi per questo solo sforzo, sia pure elementare, di crittografia, che non del tutto innocente.
Un primo tipo di questi accidenti di linguaggio da interpretare come segni in un certo senso extralinguistici,
va individuato in quella che potremmo chiamare l'allusione involontaria. Com' noto l'allusione, che una figura
debitamente inventariata dalla retorica, e che Fontanier mette tra le figure d'espressione (tropi composti di pi
parole) per riflessione, in cui cio le idee enunciate ricordano indirettamente altre idee non enunciate una delle

prime forme di linguaggio indiretto incontrate da Marcel giacch anima, fin dai tempi di Combray, il discorso
delle due proze Cline e Flora (Non c' soltanto Vinteuil che abbia dei vicini cortesi = Grazie di averci
inviato una cassa d'Asti spumante ).
[I, p. 25]

Fontanier definisce l'allusione una figura che consiste nel fare sentire il rapporto tra una luogo che si dice e
un'altra che non si dice .
[Les figures du discours, p. 125]

Il luogo di questo rapporto pu benissimo ridursi a una sola parola (nel qual caso l'allusione rientra nella
categoria dei tropi propriamente detti), come nell'esempio citato da Dumarsais,
[Les tropes, Slatkine Reprints, Ginevra 1967, P. 189]

in cui una signora pi spiritosa che gentile ricorda a Voiture la sua origine popolare (era figlio di un mercante di
vino) dicendogli durante un gioco di proverbi: Questo non vale niente, spillatecene un altro . Come si vede
subito, se questa allusione fosse cagionata da disattenzione rientrerebbe in quella che il linguaggio sociale chiama
la gaffe : l'allusione involontaria quando pu avere un significato offensivo una forma di gaffe. Esempi
semplici: il signor Verdurin, volendo dimostrare a Charlus che lo considera tra l'lite intellettuale, gli dichiara:
Fin dalle prime parole che abbiamo scambiate, ho capito che voi siete di quelli , o quando sua moglie seccata
dalla volubilit del medesimo Charlus, esclama, mostrandolo a dito: Ah, che bertarella! .
[II, p. 941; III, p. 278]

Esempi che hanno per un valore piuttosto limitato, perch dipendono soltanto dall'ignoranza e dalle
coincidenze. E d'altra parte i Verdurin non si accorgono affatto dell'effetto prodotto dalle loro parole sul barone.
Pi grave la situazione del signore di Guermantes quando, volendo soltanto ricordare al fratello la sua precoce
passione per i viaggi, gli dice in pubblico: Oh, sei sempre stato un tipo speciale tu, si pu dire che in nessuna
cosa hai mai avuto i gusti degli altri , enunciato in cui la vicinanza delle parole gusti e speciale , ancor pi
dell'affermazione d'un'originalit innata, ricorda pericolosamente i gusti speciali di Charlus.
[Il quale ricostruisce subito il sintagma latente (II, p. 718).]

Pi grave, prima di tutto perch conoscendo se non le abitudini, almeno la nomea del fratello , pu temere
che questi ali attribuisca a torto un'intenzione offensiva: cos gli sale subito al viso una vampa di rossore ancora
p accusatrice delle due disgraziate parole; ma soprattutto perch, nel suo caso, l'allusione rischia fortemente di
non essere n volontaria (come teme che essa appaia), n veramente casuale (come quelle dei Verdurin), ma
proprio, nel senso pi forte, involontaria, ossia determinata dalla spinta d'un pensiero represso, compresso, e
diventato appunto per questa ragione esplosivo. Si tratta del noto meccanismo della gaffe per prevenzione, di cui
parla lo stesso Proust in un passo di Jean Santeuil, nel quale l'eroe, andando dalla signora Lawrence che sa essere
snob e adultera, preoccupato come se dovesse andare a fare visita a una persona colpita da una malattia
particolare, nei cui confronti bisogna evitare accuratamente ogni allusione, e fin dalle prime battute che scambi
con la signora sorvegli le sue parole cos come uno che va a spasso con un cieco bada a non farlo inciampare. E
aveva espulso per un'ora dal cervello le tre parole snob, poca seriet, Ribeaumont .
[III, p. 55]

Questa espulsione lascia temere un ritorno del rimosso che prenderebbe inevitabilmente la forma d'una
gaffe, se nel caso specifico Jean non fosse salvato dalla premura che mette la signora Lawrence stessa a parlare
in una forma indiretta, su cui ci soffermeremo pi attentamente tra un momento di snobismo, d'adulterio e del
signore di Ribeaumont. Ogni pensiero ossessivo una minaccia costante per la sicurezza e l'integrit del discorso,
poich il pi pericoloso di tutti gli occultamenti quello della colpa stessa nell'animo del colpevole :
[ II, p. 715]

della colpa o di non importa qual pensiero rifiutato dal linguaggio volontario e che spia l'occasione di esprimersi
attraverso le sue falle. Rammentiamo per esempio come Swann, nell'impossibilit di confidare il suo amore per
Odette, afferra l'occasione involontariamente offerta da Froberville, che ha pronunciato le parole massacrato
dai selvaggi per ricordare Dumont d'Urville, poi La Prouse allusione metonimica (oh quanto!) all'oggetto
amato, che abita in via La Prouse.
[I, p. 343]

Dei discorsi allusivi della signora Destoches, Proust scrive in Jean Santeuil, in modo enigmatico e decisivo, una
forza inconscia inalzava le sue parole e la portava a rivelare ci che diceva di voler nascondere .
[III, p 167]

Vediamo che l'allusione non fa soltanto parte del repertorio della commedia di salotto: con essa noi entriamo nel
regno di quella che Baudelaire ci autorizzerebbe forse a chiamare la retorica profonda.
Nella sua forma pi canonica l'allusione consiste nel prendere a prestito uno o pi elementi del discorso
allusivo dal materiale (per esempio dal vocabolario) della situazione allusa : forme che appunto tradiscono la
loro origine, come nella nota descrizione del mare a Balbec; la comparsa di parole come punte, cime, valanghe, ecc.,
rivela il paragone implicito tra il paesaggio marino e il paesaggio montano; chiaramente il caso, per esempio,
dell'aggettivo speciale nel discorso di Basin al fratello. Quando Marcel riesce finalmente a incontrare la zia
d'Albertine e annuncia quest'incontro ad Andre come se si trattasse d'una corve, Non ne ho mai dubitato un
solo istante, esclam Andre con tono amaro, mentre i suoi occhi allargati e alterati dillo scontento fissavano

non so che d'invisibile. Queste parole d'Andre aggiunge il Narratore non costituivano l'esposizione pi
ordinata di un pensiero che pu riassumersi cos: (So bene che amate Albertine e che vi fate in quattro per
avvicinarvi alla sua famiglia). Ma erano i rottami informi e ricostituibili di questo pensiero ch'io avevo fatto
esplodere, urtandolo, malgrado Andre .
[I, p. 929]

Il commento di Proust, insistendo sul carattere frammentario informe e disordinato del discorso d'Andre,
rischia di celare quello che ci sembra essere il tratto essenziale: Non ne ho mai dubitato , dice Andre,
apparentemente a proposito dell'invito d'Elstir che consentir a Marcel di incontrare la signora Bontemps; ma
questa frase si riferisce in realt alla volont di Marcel, e quindi al suo amore per Albertine denunciando al
tempo stesso la duplicit di questi, la consapevolezza che ne ha Andre, e probabilmente anche la sua gelosia nei
confronti d'Albertine e quindi il suo amore per Marcel (a meno che non si debba piuttosto dire: la sua gelosia nei
confronti di Marcel e quindi il suo amore per Albertine). Anche qui pi che d'un enunciato deformato si tratta,
come in Basin, d'un enunciato spostato.
Mi pare che nella stessa categoria vadano messi altri due enunciati piuttosto confusi e apparentemente
insignificanti, di cui Proust stesso, in ogni caso, non propone nessuna interpretazione. Il primo riguarda, una
volta ancora, il duca di Guermantes: bocciato alla presidenza dello jockey Club da una cabala che riuscita ad
adoperare contro di lui le opinioni dreyfusarde e le amicizie ebraiche d'Oriane, il duca non manca di fare buon
viso e di manifestare il suo giusto disdegno per un incarico cosi al disotto del suo rango. In realt la collera non
gli sbolliva. Fatto abbastanza singolare, il duca di Guermantes non s'era mai servito dell'espressione alquanto
banale di bell'e buono"; ma dopo l'episodio dello jockey, appena si parlava del caso Dreyfus, bell'e buono non
tardava a infiorare i suoi discorsi: Affare Dreyfus, affare Dreyfus, presto detto, un'espressione impropria: non
una faccenda di religione ma una faccenda politica bell'e buona. Passavan cinque anni senza che pi si sentisse
bell'e buono, se durante quel periodo non si parlava dell'aff are Dreyfus; ma se trascorsi quei cinque anni,
tornava a galla il nome di Dreyfus, subito ricompariva automaticamente bell'e buono .
[III, p. 40.]

evidentemente rischioso proporre un'interpretazione per un esempio che pu essere stato arbitrariamente
creato da Proust (in realt poco probabile), ma non possiamo impedirci di pensare che il bell'e buono
meccanicamente legato nel discorso di Basin all'affare Dreyfus, lo nella sua mente a una conseguenza per lui
non priva d'importanza di quell'affare, ossia il suo smacco allo Jockey, ove si visto un principe d'alto rango
battuto bell'e buono come un volgare signorotto di provincia: smacco tanto p assillante in quanto l'amor proprio
gli impedisce di manifestare direttamente il suo dispetto, che viene cos a esprimersi indirettamente, per una
metonimia dall'effetto alla causa. L'altro esempio preso da persone pi basse: Albertine, sorpresa da Franoise
che entra nella stanza di Marcel mentre se ne stava tutta nuda contro di lui , esclama: Tob, ecco la bella
Franoise . Parole cos anormali che rivelarono da sole la loro origine e Franoise non ebbe bisogno di
guardare nulla per capire tutto e se ne and borbottando nel suo dialetto: puttana . Notiamo qui che basta a
Franoise l' anomalia dell'enunciato per inferire la colpevolezza d'Albertine; non ne consegue per che
quest'anomalia sia da considerare cos arbitraria nella sua forma quanto sembra indicare Proust allorch scrive
che Franoise sent queste parole come raccolte a caso dall'emozione . Evidentemente questo genere di
raccolta non avviene a caso e se anche i particolari del meccanismo ci sfuggono, con tutto quello che il passato
d'Albertne pu introdurvi di motivi particolari, il legame tra la situazione presente della ragazza e la bellezza
che la sua frase attribuisce alla vecchia domestica piuttosto lampante, e quindi, ancora una volta, il modo in cui
l'enunciato di superficie mutua dall'enunciato profondo certi elementi che, come minimo, disturbano la
normalit del primo e a volte consentono addirittura di ricostruire il secondo. Allo stesso tipo di meccanismo
vanno probabilmente riferiti due accidenti di pronuncia del tutto paralleli: quello dell'ex signorina Bloch, alla
quale viene domandato improvvisamente il suo cognome di ragazza e che, presa alla sprovvista, risponde Bloch
pronunciandolo alla tedesca, e quello di Gilberte che nelle medesime circostanze risponde Swann, ugualmente alla
tedesca: probabilmente entrambe proiettano nell'enunciazione stessa del loro nome l'atteggiamento peggiorativo
dell'ambiente antisemita cui si sono, per quanto possibile, integrate.
[III, pp. 823 e 585. Nel secondo caso, Proust spiega la deformazione col desiderio di snaturare un po' quello che stava per dire per rendere la
confessione meno penosa: evidentemente questa spiegazione non esclude l'altra, il lapsus qui sovradeterminato o, se si preferisce, determinato
contemporaneamente da diversi aspetti del complesso di rinnegamento.]

La presa a prestito allusiva riguarda qui un unico fonema, che produce nel discorso un semplice metaplasma,
ma dove esso, come si vede, viene a dire pi cose di un lungo discorso .
[Ultimo esempio di questo genere, la frase del lift: Lo sapete che non l'ho trovata (Albertine) (II, p. 794): per la verit egli sa benissimo che Marcel
viene a saperlo dalla sua frase stessa e teme di essere sgridato per quella missione fallita; perci diceva: Lo sapete per evitare a se stesso le angosce che
avrebbe sofferte pronunciando le frasi destinate ad annunciarmelo. Qui un elemento dell'enunciato di superficie preso a prestito dalla situazione
desiderata in profondit, e che si realizza utopicamente nel discorso.]

Bench in tutti questi casi (salvo gli ultimi due, per la precisione) si tratti di produzioni di linguaggio pi
estese, il confronto s'impone tra queste allusioni involontarie e i lapsus studiati da Freud. In tutte e due le serie si
i tratta d'una contaminazione, d'ampiezza variabile, dell'enunciato di superficie da parte dell'enunciato profondo

censurato. La presenza di la bella in ecco la bella Franoise pu essere considerata come equivalente a
quella di dig in begleitdigen , amalgama
[Il termine di Proust, III, p. 89.]

del begleiten che il parlante voleva pronunciare e del beleidigen che ossessiona il suo inconscio.
[FREUD, Psicopatologia della vita quotidiana, Boringhieri, Milano]

Le alterazioni di linguaggio
[II, p. 794]

cui si interessa Proust, possono dunque, tanto nella forma quanto nella genesi, essere equiparate al lapsus
freudiano, qualunque siano d'altronde le differenze che separano le due teorie: alle une come alle altre pu essere
applicata quest'analisi di Freud: L'interlocutore si deciso a non tradurre in parole (la tendenza rimossa), e
allora egli commise la papera, cio allora la tendenza respinta si fece valere contro la sua volont trasformando
l'espressione dell'intenzione da lui ammessa, mescolandosi ad essa o mettendosi addirittura al suo Posto .
[Introduzione allo studio della Psicanalisi, Astrolabio, Roma 1947, p. 47]

Alle une come alle altre, ugualmente, noi applicheremo questa formula di Proust, pi rigorosa forse, nella sua
stessa ambiguit: magnifico linguaggio, cos diverso da quello che parliamo di solito, in cui l'emozione fa deviare
ci che volevamo dire e fa sbocciare in sua vece tutt'altra frase, emersa da un lago sconosciuto ove vivono espressioni
senza nessun rapporto col pensiero e che appunto per questo lo rivelano .
[III, p. 822. Il corsivo nostro. Esiste una definizione pi bella dell'inconscio?]

Una variante dell'allusione cui Proust accorda un'attenzione del tutto speciale la presenza nell'enunciato d'un
termine non pi attinto dalla situazione ossessiva, ma indicante in modo astratto e in un certo senso vuoto il
riferimento a una situazione che non quella cui si riferisce esplicitamente l'enunciato. Esempio tipico di questa
categoria, strumento privilegiato della gaffe (e non soltanto in Proust) l'avverbio appunto , che Proust cita...
appunto nella pagina analizzata sopra per illustrare la sua teoria dell'interpretazione ideografica : il signor di
Cambremer, credendo Marcel uno scrittore, gli dice parlando d'un ricevimento dai Verdurin: C'era appunto de
Borelli . Questo avverbio, la cui pertinenza nell'enunciato stesso evidentemente nulla, funziona in realt come
un gesto, come l'atto di volgersi in particolare verso uno degli ascoltatoti per significargli: questo vi riguarda :
serve soltanto a manifestare, senza specificarlo espressamente, l'esistenza d'un rapporto tra la situazione cui si
riferisce l'enunciato e quella in cui proferito, e per questa funzione d'indice dell'enunciazione nelPenuncato,
appartiene alla categoria di quelli che jakobson chiama sbilters. Proust lo dice sprizzato in una conflagrazione per
effetto del raccostamento involontario, e talora pericoloso, di due idee che il mio interlocutore non esprimeva, e
dal quale potevo estrarle per mezzo di appropriati metodi d'analisi e di elettrolisi .
[III, p. 89]

Le due idee che si scontrano sono evidentemente qui l'idea (referenziale) della qualit di scrittore di Borelli, e
l'idea (situazionale) della qualit di scrittore di Marcel: rapporto d'analogia o metaforico. Metonimico, in
compenso, quello che lo stesso accidente rivela nel discorso d'Andre, la quale dice a Marcel: Ho visto appunto la
zia d'Albertine .
[I, p. 928. Altro esempio, III, p. 178. Avverbio, aggiunge Proust, parente non troppo lontano d'un'espressione cara alla signora Cottard: Cade proprio a
puntino .]

La traduzione dell'avverbio data questa volta da Proust stesso: Sotto le vostre parole, buttate come per caso,
ho inteso come non pensavate che a entrare in rapporto con la zia d'Albertne . Osserviamo di sfuggita che
l'avverbio smaschera qui, come il non ne ho mai dubitato un solo istante di un momento fa, due insincerit in
una volta, quella d'Andre (che aveva finto fino ad allora di essere rimasta convinta) e quella dello stesso Marcel;
ma notiamo soprattutto il commento con cui, ancora una volta, Proust paragona questi accidenti del discorso alle
confidenze mute del corpo: La parola appunto apparteneva alla famiglia di certi sguardi, di certi gesti, che pur
non avendo una forma logica, razionale, direttamente elaborata per la comprensione di chi ascolta, gli giungono
tuttavia col loro vero significato cos come la parola umana, mutata in elettricit nel telefono, si rif parola per
essere udita , Ritroviamo qui il principio dell'interpretazione ideografica : parole del genere non possono
essere direttamente assorbite (capite) dall'intelligenza dell'uditore, per il quale, nella continuit lineare del
discorso, non fanno senso; debbono dapprima essere convertite in gesti o in sguardi, lette come un gesto o
uno sguardo, e di nuovo tradotte in parole.
Questo primo tipo di rivelazione involontaria procede dunque per inserzione nel discorso proferito d'un
frammento preso a prestito dal discorso represso ( bell'e buono , bella Franoise ), o d'un termine che pu
essere spiegato solo facendo riferimento al discorso represso ( appunto ). Un secondo tipo comprende gli
enunciati in cui la verit rimossa s'esprime in modo diciamo attenuato, sia per una diminuzione quantitativa, sia
per un'alterazione che, strappandola alle sue circostanze autentiche, la rende meno virulenta e pi sopportabile.
Esempio tipico d'attenuazione quantitativa, nel discorso della zia Lone, e di riflesso nel discorso di Combray
in generale, uno dei cui dogmi l'insonnia perpetua della valetudinaria, l'uso di termini quali riflettere o
riposare che designano in modo pudico il sonno di Lonie.
[I, p. 51]

Quando Saint-Loup, lungamente e calorosamente sollecitato da Marcel perch lo presentasse a Oriane, deve

finalmente rendere conto della sua missione, comincia col dire che non ha avuto occasione di intavolare il
discorso: la buga semplice; ma non riesce a limitarsi ad essa e si crede in dovere di aggiungere: non per
niente gentile Oriane, non pi la mia Oriane di prima, me l'hanno cambiata. Ti assicuro che non val la pena che
tu ti occupi di lei . Questa aggiunta evidentemente destinata nello spirito di SaintLoup a mettere fine alle
istanze di Marcel sviando il suo desiderio, e in effetti gli propone immediatamente un altro oggetto nella persona
di sua cugina Poitiers; ma la scelta del pretesto (Non gentile ) proprio una traccia (nel senso chimico del
termine: una quantit debolissima, non misurabile) della verit, ossia che Oriane ha rifiutato, o magari che,
sapendo che rifiuterebbe, Robert non ha neppure tentato di farle incontrare Marcel; cos questi capisce benissimo
che parlando in tal modo Saint-Loup si tradisce ingenuamente .
[II, p. 146]

Per l'esempio pi caratteristico di quest'uso omeopatico della verit nella menzogna il discorso in cui Bloch
(cos tipicamente ebreo, come sappiamo) parla della parte, piccolissima in verit, che (nei sentimenti) gli pu
derivare dalle sue origini ebraiche , o d'un lato abbastanza ebraico che riaffiora , restringendo la pupilla
come se si trattasse di dosare al microscopio una quantit infinitesimale di sangue ebreo . Egli ritiene
coraggioso e insieme spiritoso dire la verit, verit che egli per fa in modo di attenuare molto, come gli avari
che si decidono a saldate i propri debiti, nla non osano pagarne pi della met .
[I, p. 746]

Evidentemente in questa confessione attenuata c' ancora una parte di manovra cosciente, che consiste (molto
ingenuamente qui) nel tentare di stornare l'eventuale sospetto dell'interlocutore fissandolo sulla piccola quantit
di verit che gli viene offerta, un po' come Odette mescola talvolta alle sue bugie un particolare vero e
inoffensivo che Swann potr controllare senza pericolo per lei. Ma l'esempio stesso d'Odette dimostra che
quest'astuzia non la ragione essenziale della presenza di questa specie di verit-testimonianza nel discorso
menzognero; questa ragione una volta ancora la presenza ossessiva del vero, che cerca con tutti i mezzi di farsi
strada e di esibirsi in mezzo al falso: Non appena si trovava in presenza della persona a cui voleva mentire era
colta da turbamento, tutte le sue idee sprofondavano, le sue facolt inventive e ragionative restavano paralizzate,
ella non trovava pi nella sua testa che il vuoto, pure occorreva dir qualcosa, e a propria portata incontrava per
l'appunto la cosa che aveva voluto dissimulate e che, essendo vera, era rimasta l .
[I, p. 278]

E possiamo inferire dalle altre forme che prende in Bloch, come vedremo pi avanti, l'involontaria confessione
del suo ebraismo, che questa parola per lui non certo sconosciuta, ma rifiutata, repressa, e appunto per questo
irreprimibile.
Ma se tali attenuazioni quantitative dipendono da quella che la retorica considererebbe come una sineddoche
discendente (dire una parte della verit per il tutto), altre possono invece procedere per sineddoche ascendente:
sono le generalizzazioni grazie alle quali la verit particolare si diluisce in un certo senso in un discorso pi vago e
d'andamento teorico, universale o eventuale, come quando joas dice pensando esclusivamente ad Athalie , ma
in forma di massima generale,
Le bonheur des mchants comune un torrent s'coule.
[RACINE, Athalie, atto II, v. 688. Citato I, p. 108, a proposito delle recriminazioni indirette di Franoise.]

Cos la principessa di Guermantes, innamorata di Charlus, riesce a esprimere quest'amore attraverso


considerazioni come: trovo che una donna che s'innamorasse d'un uomo dell'immenso valore di Palam de
dovrebbe avere abbastanza dedizione, abbastanza ampiezza di vedute, ecc. .
[II, p. 715]

L'ultimo modo d'attenuazione, per modifica delle circostanze, procede piuttosto per slittamento metonimico:
volendo ostentare in generale i suoi rapporti con Motel e insieme nascondere in particolare d'averlo incontrato
nel pomeriggio, Charlus dichiara d'averlo visto il mattino, il che non n pi n meno innocente; ma tra questi
due fatti la sola differenza dice Proust che l'uno falso e l'altro vero .
[III, p. 213]

In effetti soltanto le circostanze differiscono, la verit, nell'essenziale, resta detta. La necessit di mentire e il
sordo desiderio di confessare si compongono qui non pi come due forze di direzione opposta, ma come due
forze di direzione diversa la cui risultante una deviazione: strano miscuglio di confessione e d'alibi.
La terza e ultima forma di confessione involontaria risponde anch'essa a un principio enunciato, qualche anno
dopo, da Freud: Un contenuto rimosso di rappresentazione o di pensiero pu introdursi nella coscienza alla
condizione che si faccia negare. La negazione un modo di prendere coscienza di quello che rimosso senza
tuttavia essere un'ammissione di quello che rimosso .
[Die Verneinung, 1925.]

Quest'intrusione del contenuto rimosso nel discorso, ma in forma negativa, che Freud chiama Verneinung e

che in Francia dopo Lacan viene generalmente tradotta con dngation,


[Il termine si trova d'altronde in Proust: proprio dell'amore il renderci al tempo stesso pi diffidenti e pi creduli, l'indurci a sospettare della donna
amata prima che d'un'altra e a prestar fede pi facilmente alle sue denegazioni (II, p. 833).]

risponde evidentemente alla forma retorica dell'antifrasi.


[Abbiamo gi visto che Proust chiama metaforicamente anagrammi i dinieghi di Albertine, perch debbono essere letti al contrario.]

Proust cita almeno due esempi, d'altra parte molto prossimi a enunciati, per cos dire, necessariamente denegativi,
e che non vengono mai proferiti se non per dissimular(si) una realt appunto inversa. Il primo ( questo del resto
non ha alcuna importanza ) prodotto da Bloch quando apprende che la sua pronuncia laift scorretta:
occasione certo futile, ma questa frase, osserva Proust, la medesima in tutti gli uomini che hanno un po'
d'amor proprio, nelle circostanze pi gravi come in quelle irrilevanti; essa denuncia allora, come nel caso di
Bloch, quanto importante sembri la cosa in questione a colui che la dichiara senza importanza .
[I, p. 740]

Il secondo ( In fin dei conti chi se ne infischia? ) la frase che ripete ogni due minuti, davanti sulla soglia della
casa di piacere di Jupien, un giovane cliente chiaramente paralizzato da una gran tremarella e che non si decide
a entrare.
[I, p. 822. Su questo clich denegatvo, cfr. II, p. 960.]

Sappiamo quale considerevole produzione di testi denegativi esigono, nella Recherche, quei due grandi vizi che
sono lo snobismo e l'omosessualit, entrambi ossessivi ed entrambi inconfessabili, come testimoniano per
esempio i rispettivi discorsi di Legrandin e di Charlus. Ma bisogna osservare subito che il discorso antisnob dello
snob e il discorso antomosessuale dell'omosessuale rappresentano gi uno stato d'enunciato denegativo pi
complesso di quelli che abbiamo riferito: si tratta insomma e per continuare ad attingere dal vocabolario della
psicanalisi, d'un amalgama di denegazione e di proiezione, amalgama che permette al tempo stesso di respingere
lontano da s la passione colpevole, e di parlarne senza soste a proposito di altri. A dire il vero qui la denegazione
presente solo allo stato implicito e come presupposto: Legrandin non dice mai io non sono snob : questa
negazione il significato potenziale delle sue incessanti prediche contro lo snobismo; Charlus non ha bisogno di
dire io non sono omosessuale , egli conta che questo scaturisca con evidenza dalle sue dissertazioni
sull'omosessualit degli altri. La confessione proiettiva dunque una forma particolarmente economica e forse
appunto a questo rendimento bisogna attribuire quella che Proust chiama la cattiva abitudine di denunciare
negli altri difetti del tutto analoghi a quelli che si hanno... come se fosse una maniera di parlare di s, indiretta, e
nella quale al piacere di assolversi si aggiunge quello di confessare
[I, p. 743]

Bloch ne offre un esempio naturalmente caricaturale in un passo delle Jeunes filles en fleurs che perderebbe
molto a non essere citato nella sua schiacciante letteralit Un giorno che si stava seduti sulla sabbia, Saint-Loup
ed io, udimmo da una tenda a cui eravamo accosto, uscire imprecazioni contro il formicolio d'israeliti che
infestava Balbec. Non si possono fare due passi senza incontrarne, diceva la voce. Non che io sia per
principio irriducibilmente ostile alla razza ebraica, ma qui ce n' una pletora. Non si sente altro che: 'Di' un po',
Abramo, cia fu Sciakop'. Par d'essere in via Abukir. L'uomo che tuonava cos contro Israele usc alla fine dalla
tenda, alzammo gli occhi a guardate quell'antisemita. Era il mio compagno di scuola Bloch .
[I, p. 738]

Possiamo vedere che in Bloch la confessione involontaria prende alternativamente le forme della sineddoche ( il
mio lato ebraico ) e d'un'antifrasi un po' iperbolica. In una forma al tempo stesso pi dissociata (poich si tratta
di due vizi diversi) e pi sintetica (poich nello stesso discorso) la signora Lawrence usa le due figure per
discolparsi pur confessandosi: del suo snobismo (e anche della sua leggerezza), che attribuisce alla signora
Marmet e del legame col signore di Ribeaumont, ch'ella riconosce chiamandolo per pura amicizia.
La denegazione proiettiva trova evidentemente nella relazione amorosa un terreno privilegiato, poich il
colpevole designato si trova ad essere anche il nemico intimo. Cos la sofferenza reciprocamente inflitta quasi
sempre accompagnata da un altrettanto reciproco rigetto della colpevolezza sulla vittima rigetto il cui
enunciato archetipo costituito da quella Bestiaccia di cui Franoise, a Combray, gratifica il pollo che non
vuole farsi uccidere.
[I, p. 122; cfr. p. 285]

Le bugie d'Odette non fanno spesso che rispondere a quelle di Swann,

[I, p. 360]

e le due lettere che Marcel scrive ad Albertine dopo la sua fuga


[III, pp 454 e 469]

sono abbastanza eloquenti sulle capacit di simulazione dell'eroe. Cos non affatto vietato considerare la gelosia
di Swann, se non quella di Marcel, come una vasta proiezione della sua stessa infedelt. Inversamente per il
desiderio, la ricerca disperata dell'altro, si prestano altrettanto bene a questo genere di transfert, come mostra
l'immortale Blise delle Femmes savantes. Lo stesso Charlus accarezza talvolta simili chimere . Cos lo vediamo
pretendere, molti anni dopo la loro rottura, che Morel rimpianga il passato e desideri riconciliarsi con lui,
aggiungendo che in ogni caso non sta a lui. Charlus, fare il primo passo senza accorgersi, come osserva
immediatamente Marcel, che il solo fatto di dirlo appunto un primo passo:
[III, p. 803]

situazione esemplare in quanto l'atto di enunciazione, in se stesso, confuta e ridicolizza l'enunciato, come quando
un bambino dichiara ad alta e chiara voce: lo sono muto .
In questo quadro del discorso denegativo bisogna fare un posto a s all'emblematico Legrandin. La serniotca
del suo preteso antisnobismo in effetti pi variata, pi ricca e stilisticamente pi compiuta di ogni altra. Inizia
col suo abbigliamento, in cui la corta giacchetta a un petto e la cravatta a fiocco,
[I, pp. 68, 120, 125, 126; II, p. 154]

opponendosi direttamente alla redingote e alla cravatta foulard dell'uomo di mondo, e intonate al giovanile
candore del volto, testimoniano molto efficacemente la semplicit e l'indipendenza del campagnolo, poeta e
inaccessibile alle ambizioni. Di questa tenuta egli stesso d una giustificazione del tutto prammatica quando
incontra Marcel in una strada di Parigi: Ah, eccovi qui uomo elegante, e in redingote! Ecco una livrea alla quale
la mia indipendenza non si adatterebbe mai. vero che voi probabilmente siete un uomo di mondo e andate in
visita! Per andare a fantasticare come medavanti a qualche antica tomba mezzo distrutta, la mia giacchetta e la
mia lavalli re sono pi intonate . (Sembrerebbe di leggere una pagina di quei giornali di moda analizzati da
Roland Barthes, in cui il valore simbolico di un abbigliamento si maschera da comodit: per il weekend autunnale
uno shetland col collo alto; per fantasticare davanti a una tomba mezzo distrutta, una giacca a un petto e una
lavallire svolazzante). Possiamo misurare l'efficacia semiologica di quest'abbigliamento in almeno due occasioni:
quando il padre del narratore, avendo incontrato Legrandin in compagnia d'una castellana e non avendo ottenuto
risposta al suo saluto, commenta cos l'incidente: Mi rincrescerebbe tanto pi saperlo in collera in quanto aveva,
in mezzo a tutta quella gente vestita a festa, un che di cos poco ricercato, una cos vera semplicit, e un'aria come
ingenua che lo rendeva proprio simpatico ; e quando un secondo incontro conferma la sua scortesia e quindi il
suo snobismo, la nonna rifiuta ancora l'evidenza in nome di quest'argomento: Voi stesso riconoscerete che
viene l coi suoi abiti semplici che non sono per nulla quelli d'un uomo mondano . Cos in ogni circostanza,
anche nella pi compromettente, la giacchetta a un petto continua a protestare contro un lusso detestato e la
lavalli re a pallini a sventolare su Legrandin come il vessillo del suo fic.o isolamento e della sua nobile
indipendenza .
Anche l'arte della mimica e dell'espressione muta in lui n sviluppata che nei comuni mortali. _Sorpreso
dallo Choc d'una domanda diretta come Conoscete la castellana di Guermantes? non pu certo dissimulare la
piccola in taccatura bruna che viene a incidersi negli occhi azzurri, l'abbassamento del cerchio della palpebra,
la piega amara della bocca che significa chiaramente per il suo interlocutore: Purtroppo no! , ma almeno
capace di mascherare questa confessione, non solo con un discorso denegativo ( No, non la conosco, non l'ho
mai voluto, in fondo sono un vecchio orso, una testa giacobina, ecc. ) ma anche e innanzi tutto riprendendo in
mano, se cos si pu dire, la sua fisionomia, il che potrebbe fare esitare uno spettatore meno prevenuto: il rictus si
ricompone in sorriso, la pupilla trafitta reagisce secernendo flussi d'azzurro . A una domanda poco gradita
che egli preferisce non udire, sa ancora attraversare con lo sguardo il viso dell'interlocutore, come se lontano,
dietro quel viso divenuto improvvisamente trasparente scorgesse una nuvola dal vivo colore che gli creava un
alibi mentale . Il suo capolavoro, sotto quest'aspetto, probabilmente il modo in cui riesce, al momento del
secondo incontro in aristocratica compagnia, a rivolgere a Marcel e a suo padre uno sguardo che scintillava di
simpatia per loro e insieme poteva passare assolutamente inosservato alla sua compagna, illuminando allora per
noi soli d'un languore segreto e invisibile alla castellana, una pupilla innamorata in un volto di ghiaccio .
[I, pp. 127, 131, 125-26. I, p. 68.]

Ma l'arte di Legrandin trova evidentemente il suo pi felice rigoglio nell'espressione verbale. La nonna del
Narratore gli rimprovera di parlare un po' troppo bene, un po' troppo come un libro ,
[I, p. 68]

di non avere nel linguaggio la stessa semplicit che ha nel vestire; e potrebbe in effetti sembrare, a una lettura

superficiale, che l'antisnobismo e il parlare letterario siano in lui, come spesso in quegli esseri compositi che sono
i personaggi di Proust, due tratti indipendenti l'uno dall'altro e accostati quasi a caso. Niente affatto: la
produzione testuale (che non d'altronde soltanto orale, poich Legrandin anche scrittore) in lui in
strettissima relazione funzionale con la protesta d'antisnobismo, la denegazione dei suoi insuccessi mondani e la
dissuasione degli importuni che potrebbero compromettere la sua difficile carriera. I discorsi pi elaborati, gli
esemplari in apparenza pi puramente decorativi di ci che pu passare per un complesso pastiche dell'eredit
stilistica chateaubrianesca di fine secolo, compongono in realt il significante proliferante d'un significato
pressocch unico che a volte lo non sono snob e a volte non guastatemi quel po' di relazioni che ho . E se
questi semplicissimi significati possono prendere una forma letteraria cos sontuosa, perch passano attraverso
il relais di un significato-significante intermedio che all'incirca: io non mi interesso delle persone ma soltanto
delle cose; qualche chiesa, due o tre libri, un numero poco maggiore di quadri, e il chiaro di luna ; talvolta
un castello in cui vi imbattete sulla scogliera, al ciglio della strada dove s' fermato per confrontare il suo dolore
alla sera ancor rosea in cui s'alza la luna d'oro e della quale le barche che rientrano striando l'acqua screziata,
issano sui loro alberi la fiamma e portano i colori; talvolta una semplice casa solitaria, piuttosto brutta, con
un'aria timida ma romantica, che cela a ogni sguardo qualche imperituro segreto di felicit e di disinganno... .
[I pp. 128, 132.]

Questa musica paesaggistica s un linguaggio, ma quello di cui parla non quello che essa nomina: e sappiamo
che pi tardi, diventato conte di Msglise, frequentatore abituale dei ricevimenti Guermantes, imparentato col
barone di Charlus, sazio di mondanit, con l'omosessualit che ha in lui interamente soppiantato lo snobismo,
Legrandin perder tutta la sua eloquenza;
[III, p. 934]

Proust attribuisce alla vecchiaia questa decadenza verbale, non possiamo per impedirci di pensare che con lo
snobismo l'ispirazione stessa, la fonte del bello stile che si inaridita. L'tymon stilistico di Legrandin
l'efflorescenza rigogliosa d'un discorso integralmente antifrastico che non cessa di dire natura, paesaggio, mazzi
di fiori, tramonti di sole, chiaro di luna roseo in cielo violetto, perch non cessa di pensare societ, ricevimenti,
castelli, duchesse. Proust ricorda a suo proposito quell' imbroglione erudito che impiegava tutto il suo daffare
e tutta la sua scienza a costruire dei falsi palinsesti , che vendeva come veri: tale appunto la funzione di
Legrandin, salvo il fatto che il suo discorso un vero palinsesto, ossia pi che essere una parola un testo, scritto
su diversi strati e che bisogna leggere a diversi livelli: quello del significante paesaggista, quello del significato
proposto (non sono un uomo di mondo); quello del significato reale, rimosso e ossessivo: non sono altro che uno snob. La
nonna non pensava certo di dire una cosa cos giusta: Legrandin parla come un libro. Quella parola ambigua,
ripiegata pi volte su se stessa, che dice ci che tace e confessa ci che nega, uno dei pi begli esempi del
linguaggio indiretto proustiano; ma non anche in un certo senso l'immagine di ogni letteratura?
Per lo meno forse della Recherche du temps perdu, che nell'atto stesso di presentarsi come un'instancabile ricerca
e un messaggio di verit, non rinuncia per ad apparire anche come un immenso testo contemporaneamente
allusivo, metonimico, sneddocchico, (metaforico, naturalmente) e denegativo, di confessione involontaria, in cui
si rivelano, ma dissimulandosi in mille trasformazioni successive, un piccolo numero d'enunciati semplici
concernenti l'autore, le sue origini, le sue ambizioni, i suoi costumi, tutto quello che segretamente egli condivide
con Bloch, con Legrandin, con Charlus, e di cui ha accuratamente esentato il suo eroe, immagine sbiadita e
insieme idealizzata di se stesso. Sappiamo con quale forse ingenua severit Andr Gide giudicava un tale inganno,
al che Proust rispondeva che si pu dire tutto alla condizione di non dire io . Potere significava qui, beninteso,
avere il diritto , ma forse bisogna dare al verbo un senso pi forte: forse non esiste, in letteratura come altrove,
linguaggio veridico fuori dal linguaggio indiretto.
[Come in tutte le regole, in special modo quando si tratta di Proust, bisogna considerare la parte dell'eccezione. Se ne incarica, e due volte, l'infaticabile
Bloch. Durante la matine dalla marchese di Vlleparisis, siccome il duca di Chtellerault rifiuta di discutere con lui dell'affare Dreyfus, col pretesto che un
argomento di cui ha come principio di parlare soltanto tra Jafetici, il nostro giovanotto sempre pronto a ironizzare sul suo lato ebraico, si trova alle
strette, e, abbandonata ogni difesa, pu soltanto balbettare: Ma come avete potuto saperlo? Chi ve lo ha detto? (II, p. 247). Un po' pi tardi dalla stessa
marchesa di Villeparisis, apprendendo che una vecchia signora con cui si mostrato appena appena cortese nientemeno che la signora Alphonse de
Rothschild, esclama davanti a lei: Se l'avessi saputo! Dimostrazione, aggiunge Proust, che talvolta nella vita, sotto il colpo d'una emozione straordinaria, si
dice quello che si pensa (II, p. 506).]

Forse anche qui la verit ha come condizione, nel doppio senso di clausola necessaria e di maniera d'essere,
insomma cio come luogo, la menzogna:
[Come abbiamo gi potuto notare, la menzogna non quasi mai inProust un comportamento pienamente cosciente e deliberato. Chi mente mente
anche a se stesso, cos come Legrandin, se non del tutto veridico non per questo meno sincero quando tempesta contro gli snob, giacch noi non
conosciamo mai se non le Passioni degli altri (I, p. 129). Swann per esempio, tiene a se stesso lunghi discorsi menzogneri; sulla magnanimit dei Verdurin
quando favoriscono i suoi incontri con Odette (1, P. 249); sulla bassezza degli stessi Verdurin dopo la rottura (pp. 286-88); sul desiderio che prova di andare
a visitare Pierrefonds proprio quando Odette vi si trova (P. 293); e soprattutto quando, pur mandando del denaro a Odette, protesta internamente contro la
sua reputazione di mantenuta , ove l'incontro molesto di queste due idee evitato da uno di quegli accessi di cecit mentale che egli ha ereditati dal padre,
tipico esempio di censura per scotomizzazione; il suo pensiero brancol un momento nelle tenebre, egli si tolse gli occhiali, ne deterse le lenti, si pass la
mano sugli occhi, e non rivide la luce se non quando si trov in presenza d'una idea del tutto diversa, la coscienza che il mese prossimo bisognava cercare di
mandare a Odette sei o settemila franchi invece di cinque, per la sorpresa e la gioia che ci le avrebbe causato (p. 268).
Marcel non al riparo da questo genere di malafede interiore (vedi i discorsi che tiene dopo la partenza d'Albertine. (III, pp. 421-22), e dice bene che le
bugie che rivolge a Franoise, per esempio, sono cos automatiche che egli non ne cosciente (II, p. 66). Quando uno snob come Legrandin o Bloch padre
dice d'un personaggio per lui irraggiungibile non voglio conoscerlo, il senso intellettuale (la verit, per l'interlocutore perspicace) e non posso

conoscerlo ma il senso passionale proprio: Non voglio conoscerlo. Si sa che non vero, ma non lo si dice per puro artificio, lo si dice perch lo si
prova (I, p. 771). La menzogna in Proust dunque molto pi della menzogna: per cos dire l'essere stesso di ci che si chiama altrove la coscienza .]

abitante l'opera, cos come abita ogni parola non in quanto vi si mostri, ma in quanto vi si nasconda.
dunque legittimo far risalire la teoria proustiana del linguaggio, quale viene prodotta esplicitamente o
quale la si pu ricavare dai principali episodi che la illustrano, a una critica di quell'illusione realista che consiste
nel cercare nel linguaggio un'immagine fedele, un'espressione diretta della realt: utopia cratilea (ignorante o
poetica ) d'una motivazione del segno, d'un rapporto naturale tra il nome e il luogo, la parola e la cosa ( l'et dei
nomi), a poco a poco distrutta dal contatto col reale (viaggi, frequentazione della societ ) e del sapere
linguistico (etimologie di Brichot); ingenuit d'un Bloch, d'un Cottard, che pensa che la verit s'esprima alla
lettera nel discorso, smentita dall'esperienza costante, ossessiva, universale della menzogna, della malafede e
dell'incoscienza, in cui si manifesta in modo lampante il decentramento della parola, foss'anche la pi sincera ,
in rapporto alla verit interiore, e l'incapacit del linguaggio a rivelare questa verit se non in modo
dissimulato, deviato, rovesciato, sempre indiretto e come secondo: l'et delle parole.
[A questa critica della parola andrebbero naturalmente riportate le pagine severe che conosciamo sull'amicizia (I, p. 736, e II, p. 394), considerata come pura
conversazione, dialogo superficiale senza autenticit morale n valore intellettuale.]

Il titolo pensato un attimo per l'ultima parte, per il futuro Temps retrouv quindi, sintesi e sfocio spirituale di
tutta l'esperienza proustiana: l'et delle cose, potrebbe far pensare a una specie d' ultima illusione da perdere che
non sarebbe stata perduta, a una ricaduta finale nell'utopia realista di un rapporto diretto e insieme autentico con
il mondo. Evidentemente non affatto cos e gi una pagina delle jeunes filles en fleurs metteva in guardia il lettore
contro quest'errore, contrapponendo il mondo visibile al mondo vero , e facendo un parallelo tra l'illusione
nominale e quell'altro miraggio che la percezione attraverso i sensi .
[Certo i nomi sono disegnatori di fantasia che ci dnno delle persone e dei luoghi schizzi cos poco somiglianti da farci provare spesso una sorta di
stupore quando ci troviamo dinanzi, invece del mondo immaginato, il mondo visibile (che del resto non il mondo vero, perch ai nostri sensi il dono della
rassomiglianza fa difetto quanto all'immaginazione, cosicch i disegni finalmente approssimativi che possibile ottenere dalla realt sono differenti dalle
cose viste almeno quanto queste lo erano dalle cose immaginate) (I, p. 548).]

La sola realt autentica, come sappiamo, per Proust quella che si offre nell'esperienza della riminiscenza e si
perpetua nell'esercizio della metafora presenza d'una sensazione in un'altra, balenio del ricordo, profondit
analogica e differenziale, trasparenza ambigua del testo, palinsesto della scrittura. Lungi dal riportarci a una
qualsiasi immediatezza del percepito, il Temps retrouv ci sprofonder senza uscita in quello che James chiamava lo
splendore dell'indiretto , nell'infinita mediazione del linguaggio.
In questo senso, la teoria linguistica critica delle concezioni ingenue , privilegio di rivelazione
riconosciuto al linguaggio secondo , rinvio del discorso immediato alla parola indiretta, e dunque dal discorso
alla scrittura (al discorso come scrittura) tutto questo non occupa nell'opera di Proust un posto marginale; ne
invece, teoricamente e praticamente, una condizione necessaria e quasi sufficiente: l'opera per Proust, come il
verso per Mallarm, compensa il difetto delle lingue . Sele parole fossero l'immagine delle cose, dice Mallarm,
tutti sarebbero poeti e la poesia non esisterebbe; la poesia nasce dal difetto delle lingue. La lezione di parallela: se il
linguaggio primo fosse veridico, il linguaggio secondo non avrebbe ragione di essere. il conflitto tra il
linguaggio e la verit che produce, come abbiamo potuto vedere, il linguaggio indiretto, e il linguaggio indiretto per
eccellenza la scrittura l'opera.

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