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CAP 1

Le memorie di Francesco

Strada silenziosa. Zona residenziale immersa nel sole d'autunno. Azzurro il cielo.
Tante villette quadrate, senza pretese: molte le finestre spalancate, e qualcuna rotta.
Unico suono il vento, frusciare di foglie morte sull'asfalto.
Cigolava 4/4 un'altalena da giardino, impolverata dal tempo.
In mezzo all'erba del praticello, alta e gialla, stava un tavolo di legno decorato: rettangolare,
dall'aria solida.
Alle estremità erano sistemati due piatti bianchi, con una scatola di tonno Rio Mare rovesciata nel
suo laghetto d'olio caldo.

Saranno state le due del pomeriggio, quando d'improvviso l'aria si fece dolciastra e putrida.

Dietro la ruggine del cancello apparve una figura in impermeabile beige, tuta da ginnastica grigia,
cappuccio abbassato, occhiali da sole. Tutto pulito, spiegato da poco.
Si muoveva lento.

"Benvenuto!", disse un uomo in jeans e camicia, che sino ad allora aveva cigolato con l'altalena.
Teneva in mano un bastone, il fodero di una sciabola giapponese, e nel salutare lo protendeva in
alto.

"Zeffiro...", salutò l'altro, con un sorriso stanco, e la voce secca, bassa, sibilante nella gola.

"Posso avvicinarmi Francesco?", disse Zeffiro.


"No, meglio di no... ".

"Gregor, Lattuga e gli altri... morti".


"E Cesare?", non vi era sorpresa nella voce di Zeffiro.
"... ricordi Lattuga?".

<<Guardavo il Sole, che d'un tratto si faceva pallido, in un cielo di madreperla. Poi apparve l'ombra
scura, nera nei pressi del Sole: pareva la sagoma di un cavalluccio marino, ma io lo sapevo un
drago, arrivato lì per divorarlo. Per divorare il Sole.
Nel sogno pensai a quell'ombra, e mi ritrovai nello spazio: guardavo un pianeta, che orbitava verso
la terra. Lo guardavo da sopra, come un uccello, e vedevo quella massa marrone e nera con la luce
di sghembo. Sapevo che il pianeta era il drago. Sul pianeta c'era una città color della roccia, panna
chiara ed enorme, fatta di casupole basse, illuminata dalla luce livida di un sole bianco e malato: era
la città dei morti, la città dei morti del mito egizio. Pensavo questo nel sogno e mi dicevo che
seppur per gli Egizi quella città era bene, per noi essa era Male>>. Lattuga parlava, guardando i
tram arancioni fuori della finestra. C'era un bel sole.

"Sei sicuro che sia una profezia?... Può essere un tuo simbolismo: la quiete dell'immobilità che
divora lo slancio vitale...", rimuginava Zeffiro, incontrando una folata di gelo alle spalle di Lattuga,
negli occhi di Cristiana.
Era strano che Cristiana s'offendesse per ciò di cui Lattuga (che si chiamava Antonio Ganci)
rideva. Lattuga era esile come i raggi della sua sedia a rotelle.
Una scena datata: dieci anni.
Eppure sì, Zeffiro ricordava Lattuga. E ricordava quella scena, perfettamente, vedendosi in terza
persona.
Il suo sguardo tornò a Francesco, quello con la tuta da ginnastica.

Francesco, si accomodò con lentezza. Il sole illuminava il viso grigio, rugoso. Scoperse il tonno, e
prese a contemplarlo, la bocca socchiusa.
"Sono più simile a questo tonno che a te.
Grazie, ma... non fa più al caso mio", ironico.

Zeffiro si era appoggiata la spada alla gamba, e d'istinto ne controllò la posizione.

Dopo qualche esitazione, con qualche scricchiolio, Francesco si raddrizzò le spalle, estrasse un
floppy dalla tasca dell'impermeabile, e lo poggiò sul tavolo.
"Ho scritto molto, in questo mese... tutta la storia, tutta quella che so. Perché... non ci vedremo più".
Proseguì, monotono:"Lascerò il corpo al demone, stanotte".
Si alzò, oltrepassò il cancello rugginoso, si avviò verso il bosco.
"Alla fine, ci rivedremo", soggiunse Zeffiro, tra sé: ma rimase immobile, non fece neppure per
accompagnarlo.

La sera arrivò presto, con repentine nubi da occidente.


Zeffiro fece tutto con calma, il dischetto che lo attendeva sotto il monitor.
Spaccò un po' di legna, preparò qualche pacchetto di carbonella. Portò in casa la piccola scorta
d'acqua per la notte.
Cenò. La casa illuminata dal ronzare del gruppo elettrogeno; pannocchie e carote sulla stufa,
Simmenthal ed insalata nel piatto. Qualche mela, piccola e butterata.

Poi accese il computer, e la storia di Francesco rese più luminosa la stanza semibuia.

MEMOIRES
di
FRANCESCO BELLADONNA

Introduzione

Un giovane poeta era divenuto l'amante della stagionata proprietaria di un'importante


casa editrice inglese. Alla sua ennesima richiesta di essere introdotto nell'ambiente
letterario, la signora replicò:"My Love... introduction is not penetration!".
Vecchiotta... Ma non ho resistito.
Sai dove sono? Al Fantasilandia: ho preso il portatile in un negozio qui vicino. Carico la
batteria all'ospedale, e poi vengo qui, a scrivere, in mezzo alla vetrina. Era sempre stato il
mio sogno, scrivere in vetrina.

Mi staranno cercando, ma sono sicuro che non mi troveranno finché non avrò finito: me
l'ha assicurato il demone...
Il mio demone.
Cominciamo la storia. Da allora. Da quando fondammo il circolo.

Leggete, Signori: uomini, demoni, parassiti astrali od angeli.


Leggete, creature antiche; spiriti silvani.
Leggi, Zeffiro.
Leggete la meta del vostro passato; la condanna del futuro,
Sicché odiate chiari i disperati singhiozzi del presente.

----- Inizio della storia: morte della signorina Hannah.

Una tristezza che già conosci.


Sai cosa cercavo allora?
Libertà: che parola grande. Oggi ne ho ben poca, a condividere il corpo con un demone, a
sprecare forze per dominarlo, a perdere il mio essere per nutrirlo.
Al confronto, nel ventre di mia madre ero più libero del vento. Ma ciò che conta, ora, è ciò
che provavo allora.
Piaciuta la rima?
Tu avresti detto che chiamai l'incontro: fatto è che si aprì un legame tra me e la famiglia
Stauffen. Tra me e Laura.

Ti ricordi Laura, vero? O sì, che te la ricordi.


I suoi occhi verde chiaro, i capelli neri. Un viso elegante, dai tratti duri.
La vidi piangere solo quella volta, perché magari quell'altra non la vidi.

Rosemary Street, al numero diciannove.


Hannah giaceva lì, sotto l'insegna di neon verde – "free" – di un parcheggio coperto.
Intorno tutto era scuro: l'asfalto nero, il muro marrone del palazzo; e pioveva. Hannah, coi
suoi capelli biondi sparsi sull'asfalto e il giubbotto di daino, era una macchia di luce
infangata.

Così la vidi: piccola, distesa sulla terra di catrame.

Il cuore non le batteva più, la testa sfondata: suo fratello le accarezzava i capelli, mentre la
moto rovesciata gemeva ancora lì accanto, come un animale ferito. Il faro, bianco, puntava
il cielo.

Ero tra la folla dei curiosi: feci per scattare qualche foto, e mi passò la voglia. Alla vista di
Laura: in piedi con le braccia conserte, piangente e fredda, davanti al corpo di sua sorella.
Bagnata di pioggia.
La trovai bellissima. Proprio allora: bellissima mentre piangeva.

Si accorda bene la pioggia, con la morte. La quiete.


Forse mi è sempre stata vicina, la consunzione, già allora.

Li rividi su di un pullman, tempo dopo: un mese, più o meno. Un pullman rosso a due
piani, di quelli che ancora giravano a Londra. Me li ritrovai dietro, appoggiati al
corrimano, sotto il lunotto. Mi voltai, incontrando il suo sguardo. Un attimo, giusto il
tempo di farmi ricordare. Parlava col fratello di uccisione. Chi avrebbe dovuto ucciderla,
Hannah? Chi...
Sicuri che l'avessero uccisa. Tutti e due, tutti e due avevano visto l'altra moto, quella che
non aveva lasciato tracce.

Mi presentai per giornalista, per free lance: per ciò che cercavo di essere. Un'indagine.

Mi batteva il cuore forte, quando decisi di parlare, con la gola inondata di saliva. Lo
volevo dire d'un fiato: "Scusate... sono un giornalista e vi ho sentiti parlare di omicidio. E'
dell'incidente di Rosemary che parlavate, vero?".
Mi uscì solo "Scusa...", strozzato.

Laura mi sorrise. Era un bel sorriso, ed abbassava un po' la testa.


Chi l'avrebbe detto che sarebbe andata come è andata.
Dove sbagliai con Laura?. Forse era solo una puttana.

No, non era una puttana. Quando la vidi con Gregor. Te lo ricordi, Gregor.

L'ho ucciso io. Lui, con tutti i suoi amici, coi suoi compagni. Anche Lattuga.
E tu...

Posso giustificare tutto, sai? Tutto si può giustificare. Per ogni più schifosa, piccola porcata
si possono trovare tante giustificazioni. Tante.
Non c'è cattiveria cui non si possa trovare una giustificazione. Gratuità che non si possa
comprendere. E dovresti piangere pure sulla frusta che ti scarnifica, a conoscerne il
destino.

Prendi l'Olocausto, prendi Hitler. Non aveva le sue ragioni, quel povero Cristo?
E' nato con un padre bastardo e una madre stronza.
Fottuto già dal primo vagito. Poi, a scuola, magari c'erano degli ebrei a sfotterlo, a
insultarlo, a fargli ingoiar merda. Poi l'han mandato al fronte, che non sapeva bene perché,
e vedeva tanta gente crepare ai suoi piedi, e tanti che volevano far crepare lui.
Quando è tornato a casa gli han detto: "Stronzo, hai perso la guerra..." E' logico che si sia
messo a vomitar birra con qualche altra merda come lui, qualche pervertito fallito con
un'ascendenza di falliti.
Era il peggiore dei peggiori, e tirava, che lo conosceva bene, fuori il lato peggiore di chi gli
stava attorno. E quando tutti gli si inchinavano... perché non doveva uccidere?
Essere quel che era? Quel che era diventato?
A chi doveva qualcosa che non fosse vendetta.
Se avesse avuto un amico: non pazzo, non perverso, no... Un amico per bene, avrebbe
fatto il pittore. Ma l'hai mai incontrato qualcuno perbene?
Non era il signor Hitler a uccidere, erano tutti quelli che uccidevano, di Hitler, per Hitler,
come Hitler: col gas, con le pistole... Fino alla vecchina bastarda, che uccide lentamente
con le parole. Le piccole umiliazioni.
La maldicenza.
Gli scherzi, a chi non può scherzare.

Ed il male genera il male; il male piccolo il male grande. E più grande ancora. E ancora.
Ed ogni volta il male si giustifica col male che gli sta monte.
E non bisogna salire tanto, per trovare il comune buon senso che dice:"Hai fatto bene".
Bene a offendere, a umiliare, a uccidere.
Bene.
Che strano, vero? Una volta è giustizia, una volta crimine. Dipende da chi lo fa.
Quando lo fa.
Per cui... sono giustificato.
Sarei giustificato.

Perché non me ne frega un cazzo delle vostre ragioni. Io faccio il male, lo commetto. Mia è
la consunzione di questo mondo, che io solo - no, anche tu "Maestro", che mi hai insegnato
- ho fatto imputridire al sole, asciugandogli la formalina.

Già... tu mi hai insegnato. Se tu non fossi nato, tutto quello che è stato (ogni istante di
quest'immenso dolore) non sarebbe stato. La Morte Grande ti è nata sorella, sorella
gemella. E il seme della distruzione è quello dei tuoi antenati, non più di quanto lo sia dei
miei.
Ma in fondo, che miserabile Male è stato, il nostro: abbiamo disinfestato un pietrone
dell'universo dai suoi primi parassiti.
Ti rode "abbiamo".
Quanto deve roderti... Ma è vero: sì, l'ho fatto io, ma tu mi hai insegnato.

Torniamo alla storia, a Gregor.


Gregor... piccolo, miserabile Gregor. Credevo che l'amante di Laura mi avesse tolto Laura.
No. Fosti tu, a strapparmela. A rendermi quello che sono. A farci cadere.
E' stata infelice. Ed io anche. Non sarebbe accaduto...

Per questo sei vivo, non per le tue arti: per rimpiangere il futuro di Ermelinda.
E la prenderemo. Quando vorrò, prima o poi. Povera Ermelinda, viva n un mondo di
morte: gliel’hai detto? Le hai detto che tu, proprio tu mi hai insegnato...

Contentati di rimpiangere di essere nato, adesso.


E poi, quando abbandonerai la tua vita dannata, io ti accoglierò.

Zeffiro smise di leggere. Era come se un vuoto freddo gli avesse riempito lo stomaco. Un velo
luccicante gli balenò sugli occhi.
Fece pastrugnare la stampante, e se ne andò a dormire.
C'era di che meditare. C'era da sognare. Questo si disse.

CAP 2

Cesare
Il sole superò il davanzale della finestra, ed un vitreo barattolo di nutella scintillò orgoglioso.
Il barattolo troneggiava al centro di un tavolaccio rotondo, in una disastrata baracca di legno.
Dietro al vetro ricurvo, chiuso dal tappo bianco adorno del bassorilievo "Nutella", stava una
creaturina marrone, dai brillanti occhioni scuri.

"E questo sarebbe il Demone Supremo?".


"Ma non vedi la sua aura?".
"E' lui", disse Michelle. Michelle Gauche.
Una donna alta, luminosi occhi blu, capelli a caschetto: inusualmente ordinati, per quell'epoca.

Azeem Battuta sospirò, corrucciato.

"E' con ogni probabilità un Demone Superiore: tutti vediamo l'oscurità della sua aura, e la sua
potenza. E poi c'è la premonizione. Tanto mi basta". Juan Fernando Deva sentenziò lasciandosi
andare su una vecchia panca, approfittando di uno sbadiglio per tastare i due giorni di barba non
curata.

Azeem Battuta, un nero dal cranio rasato e dal fisico possente, prese in mano il barattolo,
osservando la creaturina all'interno come il sommelier che si accerti della qualità di un buon rosso: "
Il Demone Supremo...un pipistrellino. Si è lasciato catturare senza opporre resistenza nel cavo di un
albero marcio. Si è lasciato rinchiudere in barattolo di nutella... Non c’è che dire... un bel...".

"Prendi il tuo pugnale e trapassalo!", disse Juan, balzando in piedi. "Su avanti, non scherzo".

Il Pipistrellino assistette al lento svitarsi del tappo con giocosa curiosità, e pareva si divertisse a
sbirciare la fredda lama di sole riflessa da coltello di Azeem.
Con una certa titubanza l'uomo appoggiò l'acciaio sul petto del bestiolino, e premette.

Il fondo del barattolo si fece come di lava fusa, incandescente rosso e stelline gialle. Ed il magma,
improvviso, si rifece pipistrello, a destra della lama.

"Sei convinto? L'abbiamo preso. Il Supremo o un altro Superiore, è una bella mazzata per i
Compagnucci. Mettiamolo sotto controllo, studiamolo e qualcosa verrà fuori".

"Sei un ingenuo, Juan...", disse Michelle. "E' stato il Demone a chiamarci, e se l'ha fatto avrà le sue
ragioni. Non credo che l'abbiamo catturato: può lasciare il barattolo quando gli pare: con o senza i
nostri incantesimi".

La creaturina pareva ascoltare interessata, volgendo lo sguardo ora all'uno ora all'altro. Di sicuro, a
giudicare il suo ammiccare, non era in apprensione.

Azeem stava appoggiato al muro, presso la finestra illuminata. Le braccia conserte, mento reclinato,
tornava con un sorriso da alcuni istanti di meditazione.
"Cerca protezione".
"Per completare il passaggio dimensionale?"
"Sì, per stabilizzarsi in un organismo compatibile con la sua struttura energetica ha bisogno di
tempo".
"Perché non se ne va da Cesare?"
"Perché non vuole"...
Le parole di Michelle rimasero nell'aria, mentre tutto si faceva chiaro e sfocato; poi il risveglio
improvviso, il cuore in gola.
Gli c'era voluto un po', a Cesare, per ricordare il sogno di quella mattina. Fino all'ora di pranzo.

Una piccola sala scura, dall'elegante tappezzeria rossa. Alle pareti, sontuosi specchi dalla cornice
nera. Luce soffocante di un sole umido. Posate d'argento.
Alla tavola sedevano Cesare e sua madre Laura, ed i consiglieri di Cesare già ricoperti di pelle:
Laura non sopportava gli altri, e neppure Cesare ne era entusiasta.

Come sempre, non volavano parole, né pensieri. Solo tintinnare di posate, scrosci di vento, qualche
urlo piangeva dal cortile.
Laura consumò il pasto a testa china, fredda, ma con la timidezza che sempre l'assaliva in
compagnia dei Consiglieri: piccole, dispettose ribellioni della sua umanità, che certo non trovava
conforto nello sguardo indifferente di quell'uomo ventenne, dall'infinita sapienza, dall'infinito
potere. E pure era l'uomo che ella stessa aveva partorito: dieci anni prima soltanto.

"Come proseguono i sacrifici ?", domandò Cesare.


"Stentiamo a trovare umani sufficienti, mio Signore... La loro biologia è lenta...", rispose un
consigliere grigio, gli occhi giallastri che ballavano frenetici sul filo delle orbite.
Cesare l'interruppe con un gesto. Lasciò la tavola... osservava le vie deserte e polverose, immerse
nella malinconia del sole. Godnar, il Primo Consigliere, uomo ormai formato dall'aspetto di
quarantenne, lo seguì.
"Trovate Azeem Battuta, Michelle Gauche e Juan Fernando Devas... Portatemeli vivi": i volti degli
uomini si stamparono nella mente del Consigliere.

Congedati, i Consiglieri si allontanarono. Laura attese che i loro ancora cadenti corpi nudi
sparissero dalla vista, prima di andarsene lei pure.
Un vezzo di sua madre che Cesare trovava divertente: anch'egli era uso portare abiti, come i suoi
genitori. Non altrettanto i demoni in formazione: sia per abitudine, sia per agevolare la
rigenerazione del tessuto morto.
Notò che non incontrava il padre da tempo.

La capitale del suo provvisorio Dominio ebbe a chiamarsi Milano. Caso volle che vi nascesse, e
l'abitudine lo portò a mantenervi residenza. Decise di passeggiare.
Ricordava vagamente voci, vestiti multicolore riempire i marciapiedi, tram arancioni sferragliare in
tondo... proprio in quella piazza.
Qualche albero spelacchiato. Un silenzio polveroso rotto da cadenzate urla.
Girato l'angolo, gli si presentò il Duomo. Sembrava più scuro, anche per il sole, ormai spostatosi
verso ovest. L'antica chiesa era stata scoperchiata: si doveva sistemare l'enorme struttura di metallo
verde, pentagonale, che avrebbe costituito il portale per l'ingresso del Gran Demone: ora la punta
del pentagono svettava sopra l'incrocio delle navate.

Ci sarebbe voluto ancora tempo per aprire il passaggio, per dotare la macchina di energia
sufficiente a creare un corpo fisico per il Signore dell'Ombra: la materia eterica non era ancora
neppure visibile nell'intelaiatura del portale.
Ma ad ogni urlo, ad ogni umano sacrificato, goccia dopo goccia, l'ora s'avvicinava.

Cesare si fermò nel mezzo dello spiazzo tra il Duomo ed il vecchio Museo dell'Opera.
Tornò all'arcivescovado.Godnar sollevò le fauci da una giovane donna morente, e salutò il suo
Signore sbavando sangue.
Godnar uccideva torturando, sprecando molta dell'energia eterica che avrebbe dovuto assorbire: un
pessimo esempio per i demoni.
Un vizio trascurabile, per il Consigliere più potente: "Quegli uomini?", chiese Cesare.
Godnar gli si fece incontro con un inchino, senza abbassare gli occhi: "Né tra le aure dei viventi, né
tra i morti; neppure tra i simbioti. Credo, Signore, che abbiate semplicemente sognato". Lo disse
senza inflessioni, senza ironia, senza emozioni, senza pensieri, eppure Cesare vi colse una velata
accusa: di sognare, di essere umano; di dominarli tutti nel nome del Gran Demone, e del proprio
personale potere.

Ma neppure lasciò trapelare la propria intuizione, non perché temesse Godnar, o gli altri della sua
schiatta. Neppure temeva il Gran Demone, forse. Lasciò Godnar senza rispondere, con la
sensazione che qualcosa si fosse mosso nel suo animo tranquillo, come una minuscola scheggia di
ghiaccio che d'improvviso gli sublimasse nel petto, senza lasciare una traccia che non fosse il
nebuloso ricordo di un respiro. Oltrepassò Godnar, e, camminando, osservò il corpo morto della
donna in mezzo al cortile, le braccia aperte e la pelle rotta; l'anima disperata che svaniva lontano, in
un azzurro foschioso..
Nulla di nuovo, pensò Cesare. Tirò fuori un accendino Bic celeste dalla tasca dei pantaloni, e si
accese una Diana.
Godnar lo guardava stupito, le fauci socchiuse. Stupito di dover servire un uomo in completo color
panna, camicia bianca e boccoli biondi.
Un fumatore che vegliava un cadavere, fissando il cielo.

CAP III

Lynn di Goan
L'uomo se ne stava piegato in due, la fronte a insudiciare un pavimento lercio. Osservava con
meraviglia la lucida spada che gli spuntava dal petto, e gli trapassava il cuore.
Era uscito poco sangue, vecchio e scolorito. Lacrime sulla sua faccia: dagli occhi alla fronte, alle
piastrelle di terracotta.
L'uomo udì una voce parlargli dal di dentro:"Tu non puoi morire...". Una voce sarcastica. Francesco
la conosceva bene.

Si sollevò in ginocchio, osservando amareggiato i cinque candelabri d'argento, il pentacolo che


l'avrebbe dovuto salvare dalla vita. E che a nulla era servito, se non ad aumentargli la fame. Guardò
se stesso, con una smorfia di disgusto.
Allora si spalancò la porta di legno verde, e due demoni nudi dal corpo umano incompleto
macchiarono la piccola stanza bagnata di sole. Quello più evoluto parlò, sibilante:"Cesare ti vuole".

Francesco non si voltò neppure, e con lentezza estrasse la spada dai visceri, senza un lamento che
non fosse il gorgogliare della sua carne; si levò in piedi, poggiandosi all'elsa dorata. La lama
luccicava al sole, ornata del suo sangue.
Rimase immobile, la testa china, lo sguardo coperto dal cappuccio della lunga mantella marrone.

Un demone decise di fargli fretta, di smuovere il cadente simbiote. La mano del demone, già quasi
rossa e coperta di vene pulsanti, gli toccò il gomito. Allora il demone vide il bagliore della lama
orizzontale farglisi incontro, ed udì il rumore sordo della sua testa staccarsi dal busto.
Ora anche l'altro demone cadeva; l'energia eterica fluente in mille rivoli luminosi verso il palmo
aperto dello stregone; pulsava e tremava anche l'aria assolata, pregna dell'incantesimo.
Il primo demone osservava la scena dal piano astrale più prossimo, a mezz'aria dietro la testa di
Francesco, sopra quello che per quasi un anno era stato il suo corpo, e per un'altra trentina quello di
qualcun altro.
Anche il suo compagno, ancora più debole, appariva ora nella dimensione di mezzo.
Una stanchezza profonda si insinuò nelle loro anime, voglia di sonno come mai avevano conosciuto
nei loro embrioni umani. La loro coscienza si disperdeva inesorabilmente nel flusso immane
dell'energia cosmica, ed essi si videro cadere negli abissi più scuri delle dimensioni parallele, là
dove neppure il Gran Demone era uso mandare il suo pensiero.

Francesco, per la prima volta da molti anni, sorrise. E sentiva il distacco impaurito del suo
compagno eterno. Ora il suo viso era roseo, non più grigio.
Si avvicinò alla tavola di cerata verde che stava sotto la finestra. Guardò il vecchio cortile
polveroso, e pucciò la mano nella scatola dei vecchi Kellog's Corn Flakes scaduti: mangiò con
gusto.

Zeffiro rivide la scena, in Akasha, cercando per l'infinitesima volta Cristiana nel mondo dei
pensieri, dei ricordi e degli eventi del Mondo, e dei Mondi che potrebbero divenire.
Vide un quadro ad olio antico: un monaco conosciuto che imponeva la mano al corpo consunto di
un morente, sormontando un cadavere decapitato; nella destra del monaco una spada luminosa.
Tutta la scena era scolpita dalla luce sbieca del sole, che veniva da un punto luce sulla sinistra.
Poi il ritratto si infranse.

Nel suono di un pianto sommesso si svegliò Zeffiro.


Calmò la sua mente, restio a tornare al mondo reale, ma, in un lampo, si destò il desiderio di leggere
gli appunti di Francesco, ed essi si fecero chiari alla sua vista. Scritti com'erano dalla Lexmark
Deskjet 440, apparvero dalle nebbie della sua mente.
"Se infinite vite avessi potuto vivere, e se tutte le avessi dovute bruciare per quell'anno con
Laura, tutte le avrei bruciate, amico mio.
L'Inferno che vivo, l'Inferno che ho portato sulla Terra sarebbero poco prezzo per lei, se
fossero apparsi dal nulla, dall'oscuro orizzonte degli eventi sul mio destino.
Ma ciò non accadde, Maestro, fui io ad evocare gli eventi, rompere la continuità del tempo
e condannare la donna che amavo, mio figlio e me stesso. E te e tutta la storia umana

Per un tempo infinito i miei pensieri si sono bagnati nelle lacrime acide del mio dolore,
consumandosi invece che trovare la forza di volare lontani. Poi venne il giorno in cui il
mio demone compagno commise l'errore di rivelarmisi, bruciando pure gli ultimi veli di
illusione cui ostinatamente mi aggrappavo, ed allora potei fuggire nelle lande eterne
dell'Akasha.

Vagai per anni: parte di me a condividere il corpo, parte a sondare le Terre del Possibile.
E passò ancora tempo prima che cominciassi a cercare... a cercare il rimedio dei..."

<<Puff!>> Un volto di donna, molto bella. Forse occhi verdi, forse capelli rossi: scomparve presto
nel latte della sua pelle, nel giallo oro delle palpebre chiuse, nel risveglio.

"Zeffiro Circassi, vero?" constatò - con calma - una donna, molto bella: occhi verdi e capelli rossi.
Indossava una semplice tunica nera stretta alla vita da una cintura di cuoio. I capelli raccolti sulla
nuca in un fiocco di fili di lucente metallo Geist.
Al fianco un'elsa d'oro tempestata di variopinte pietre dure, senza lama: l'arma di luce degli ufficiali
della Guardia del Consiglio di Lothlorient. Dimostrava non più di vent'anni, ma in termini solari
doveva averne passati almeno una cinquantina.

Il tempo non ha molta importanza per gli elfi. Erano trascorsi quasi nove anni dacché Zeffiro aveva
viaggiato attraverso i confini più lontani delle dimensioni parallele, per chiedere aiuto e consiglio a
Negash, il Ministro del Popolo di Lothlorient.
E solo ora, dopo il Piano di Semplificazione, dopo che Cesare aveva aperto il Piccolo Portale, dopo
che la Terra era giunta a distillare le ultime gocce del suo sangue... ora giungeva la risposta del
Ministro.

"Sono Lynn di Goan, della Guardia del Ministro Negash".


Attese che Zeffiro terminasse di deglutire e tossicchiare per aggiungere:" Ho creato un tunnel
intertempo attraverso una dimensione demonica per arrivare, ed ho silenziato il passaggio. Ma non è
sicuro restare qui ancora a lungo".

"Se non ti ho sentita arrivare io, non ti avranno sentita neppure loro. Hanno vinto sulla Terra, e da
anni mi ignorano: troppo occupati a gestire la costruzione del Gran Portale...
Allora? Che si dice a Lothlorient?" domandò quindi Zeffiro, col sorriso da gattone che gli donava
una settimana senza rasatura, e la speranza di veder presto le armate delle Terre delle Lune Verdi
varcare la nostra dimensione.

La donna corrucciò la fronte chiara, soppesando il proprio pensiero: "Il Consiglio è convinto che la
Terra abbia creato da sé le condizioni per l'avvento di Nyarlathothep, il Gran Demone, nella vostra
dimensione. Dunque non gli muoveremo guerra per difendervi.
Tuttavia Negash, il Ministro, dissente dal Consiglio: Egli ritiene che l'Oscuro attaccherà i Regni
delle Tre Lune proprio col potere della Terra. Ed io sono con lui".
La sparò con voce ferma, ma tutta d'un fiato, a raffica.
"Se vieni catturata sarà guerra comunque, e perderete l'iniziativa...", dubitò Zeffiro.
Lynn si aggiustò una ciocca ribelle dietro l'orecchio:"Ufficialmente ho disertato..."

Non erano state pronunciate quelle parole, che Zeffiro aveva lanciato "Matrice del Tempo"- il suo
incantesimo dell'energia- aprendo un portale intradimensionale sufficiente a ciucciare tutta la casa
in una tempesta di fulmini azzurri vorticanti, e nubi scure.
Lynn cadde tra le braccia di Zeffiro, mentre la casa, col suo praticello ingiallito, approdava in un
posto a caso, dalle parti del massiccio dello Hoggar, zona Sahariana.
Il freddo della casa scivolò via, sotto la folata di calore che prorompeva dalle finestre infrante.

Erano in un ingarbugliato canyon, ombroso e profondo.

"Il Consiglio, allora, li avrà informati del tuo arrivo", disse Zeffiro, nell'aiutarla ad alzarsi.
Lynn consentì dubbiosa.
"Negash ha incontrato un'anima errante in Akasha, un'anima confusa: Francesco Belladonna, il
padre degli eventi della tua epoca. E ne ha letto i pensieri.
Ritiene che nel Dharma di Francesco sia la soluzione degli eventi, ma gli viene dall'intuizione, non
dalla logica, questo sapere". Sollevò la mano per interrompere un'obiezione di Zeffiro, e riprese
l'esposizione, tranquilla:
"Così non gli è venuto in mente che un'azione mirata sull'uomo potrebbe essere d'aiuto..."
Esitò..."Cioè, gli è venuto in mente.
A livello intuitivo concordo con lui: tale è la ragione della mia presenza qui".

Zeffiro rimase silenzioso.


Gli elfi rifiutavano assistenza. Ma il Ministro gli mandava un soldato col compito di fargli sapere
che, siccome Francesco è il padre di Cesare, e Cesare ha aperto il Piccolo Portale, allora agendo su
Francesco, forse, c'è la possibilità di fermare Cesare.
"Grazie Negash, da solo non ci sarei mai arrivato", si disse Zeffiro con ironia, ma senza neppure la
forza di arrabbiarsi. In quell'istante ricordò il sogno con le parole di Francesco, ed il modo con cui
era stato interrotto.

Lynn lesse quel pensiero, e lo prevenne:"Sì, dobbiamo leggere quegli appunti".


Ma la coscienza delle sue menzogne in Zeffiro, questo a Lynn non riuscì di leggere.

Zeffiro diede a Lynn di Goan i fogli con la versione a stampa e scese ad accendere il gruppo
elettrogeno: sul computer sarebbe apparso di nuovo il racconto di Francesco.

[...]

E poi, quando abbandonerai la tua vita dannata, io ti accoglierò.

No, io non ti scrivo per questo, amico mio. E' per narrarti la storia che ti scrivo.
Non trovai nulla, in quell'epoca, sulla morte di Hannah. Trovai solo Laura. Prendemmo a
frequentarci, al punto che mi condusse a visitare suo padre, ed allora eravamo già amanti.

Suo padre giaceva col corpo in quel sarcofago meccanico, solo la testa in vista. Nel mezzo
di un salone enorme e oscuro, pieno delle macchine destinate a tenerlo in vita. Un uomo di
poche parole... Laura mi disse quella sera a cena, arrossendo, che la salute di suo padre era
migliorata sorprendentemente, dal giorno della morte dell'altra figlia. Purtroppo l'evento
tragico gli aveva distrutto il morale.
Al vecchio bastardo! Ha... gli aveva distrutto il morale. Te lo ricordi? Io, tu e Lattuga: lui
davanti al monitor che assisteva all'incidente: la moto che seguiva Hannah. La piccola
punta che emergeva dal cruscotto. Hannah che perdeva l'energia vitale e l'anima,
schiantandosi davanti al palazzo del parcheggio. Le linee sottili della sua energia eterica
che sparivano nella direzione dell'assassino, assorbite dall'arma del vecchio bastardo...
l'avevamo visto tutti e tre.
Chissà perché non era poi guarito: aveva sacrificato una figlia per niente: era crepato lo
stesso.

Wolf Stauffen alla vita ci teneva... magari la sta ancora rimpiangendo.


Ma cosa cazzo vuoi che me ne freghi, stronzo! Se quel fottuto non fosse morto l'avrei
ammazzato io con le mie mani, mi sarei divorato la sua anima con un godimento che tu,
mangiatore del cibo merdoso dei viventi, neanche ti puoi immaginare.

Intanto mi fottevo sua figlia e me la portai a Milano.

----------------- Milano! -----------------------

Non ricordo bene cos'ho fatto nelle ultime ore, ma pare ti debba raccontare la parte che
ancora non conosci, la parte che cominciò a riguardarti.
Acquistammo un appartamento ed andammo a vivere insieme, Laura ed io.
Devi immaginare... la mia vita allora. Tutto era il Paradiso, e non ne parlerò ora, perché
non posso,,, non posso riuscirci più.

E allora veniamo alla cacciata dal Paradiso.


Ero entrato nel tuo Circolo per intervistare i Viaggiatori di Milano.
Mi mostraste la morte di Hannah, e molte altre magie.
Bastardo! Bastardo figlio di puttana: chi te l'aveva chiesto? Perché cazzo ti dovevi
pavoneggiare... no! andiamo avanti.

Ero un giornalista, allora. Così conobbi anche Gregor Samsa. Il direttore degli scavi della
Città, il complesso archeologico che avevano scoperto nella zona di Arcore.
Gregor - te lo ricordi no?, quel pezzo di tedesco biondo - era un uomo affascinante. Forse
anche per il comune interesse nell'occultismo, diventammo amici.
Cominciò qualche uscita insieme, anche con Laura.

La Città... Gregor era ossessionato da quella città. Non faceva che parlarne, e ne
infervorava Laura: "Catari?", diceva Laura - così, per caso- una sera.
La Città era unica.
I resti organici che vi avevano trovato la facevano risalire al VI secolo dopo Cristo, in
anticipo di molti anni sugli uomini di Alby, ma Laura si era avvicinata: in una stanza
murata, molto ben conservata perché al di sopra del livello dell’insediamento, sotto un
tumulo di terra che era ormai diventato parte integrante della collina, si erano trovati dei
testi religiosi riferentesi, chiaramente, ad una "Weltanschauung" (diceva Gregor) di
stampo manicheo.
Interessante il fatto che gli adepti di quella religione ponessero al centro del loro rituale il
Signore Oscuro, un principio lunare.
Chissà, forse una filiazione "satanica" dei Manichei...

E mentre parlava, era come se Gregor rivivesse quella città, viaggiasse a mezz'aria nei
suoi cunicoli oscuri e tondeggianti, sporchi di muffa e viscidi d'umidità, come frattaglie
della terra. E camminava nel nulla del sogno sino a quella stanza in salita, in cima al
corridoio, e così polverosamente secca, priva di insetti, di lercio: ordinata.
E la vedeva come doveva essere: vagamente illuminata da una lama del sole di
mezzogiorno, i testi aperti sulla banconata di legno che seguiva le pareti di pietra. Le
illustrazioni d'oro, nei libri che scintillavano al sole.
Gregor fece riaprire le finestre di quella cripta, e, quando Laura la visitò, il vento aveva già
smosso il peso dei secoli, e l'azzurro del cielo ribaciava l'antico pavimento.

Mi aveva tradito lì, la prima volta.

Un giorno tornai a casa. E mi pare di averla vista piangere. Gli occhi arrossati e il volto in
fiamme per la vergogna; la vidi piangere nuda sul letto disfatto; la vidi piangere sul letto,
con Gregor, e sentii lo stomaco chiudersi in un conato di vomito, e mancare le forze.
Credevo di conoscerla, e l'amavo.
Poi sentii quella nausea cambiarsi in una rabbia assoluta: la sentii in ogni fibra, ogni
muscolo, e mi vidi pestare la faccia di Gregor contro il muro, schiaffeggiare lei e
andarmene piangendo, da una porta spalancata.

Ne passai di tempo, a piangere ed odiare.


Poi, un giorno che ero in un letto senza neanche voglia di bere, mi venne voglia di capire
perché. E mi ricordai di quello che mi avevi insegnato. E scoprii che la rabbia aiuta la
concentrazione.
Viaggiai, viaggiai per la prima volta nell'Akasha.
E fu il più strano dei viaggi: perché io divenni lei, divenni Laura. Non credevo fosse
possibile... e ricordo tutto... ricordavo tutto: lei, i suoi pensieri, le sue sensazioni... e le mie
di contrappunto, e la mia rabbia.

Che cosa vidi? Che cosa provai. Una cosa complicata.

Si può dimenticare l'ingiustizia di una coercizione fisica? La rabbia che provoca?


Forse solo il sangue può sbollirla.
Peggiore è il ricordo se alla coercizione non hai potuto reagire per tua decisione: se la
mente ti frena la rabbia, come ad evitare guai maggiori dopo l'arrogante spintone di un
poliziotto. Il desiderio di vendetta ti rode...
Peggio se anche la mente tradisce, unendosi al tuo nemico, cedendo ad un impulso
contro cui la tua anima vorrebbe battersi.
Allora devi scegliere, tra l'odiarti, ed il dimenticare la vittima di quel tradimento, per
ritrovarti alleato del tuo carnefice, come il Kapò, ma di se stessi.
Dunque non giudicare male Laura, quella puttana.

Laura, là dentro, dentro quella fottuta Città, si sentì formicolare la carne e svanire la
mente: fu lì che si fece fottere da Gregor. Si lasciò prendere sulle pietre antiche di secoli, e
l'eco soffocato del piccolo tempio moltiplicò i gemiti del suo piacere, e l'ansimare di
Gregor le rombava nelle orecchie, mentre la loro pelle si era fatta d'oro al sole di
Mezzogiorno.
Cazzo! Un colore d'oro marcio impregnava quella stanza: lo vedo ancora adesso.

Laura... Laura soffrì, ma non riuscì a provare rimorso: sentiva solo pietà, per me.
No, non amava Gregor, ma si sentiva come chi si accorgesse di essere Re del Nulla, libero
in se stesso. Ad un tratto avvertì come la vita fosse appagante, senza la preoccupazione del
futuro, delle aspettative altrui, del rimandare la soddisfazione dei desideri.
E non mi diceva nulla: stava ancora con me.
Una passione che neppure lei riusciva a spiegarsi le era cresciuta dentro, come una mare
d'ira fredda e acida. Le aveva bruciato l'anima.
Si sentiva diversa, legata a Gregor solo da quell'assoluta sensazione di forza e libertà che
egli le aveva saputo donare.
Ma sola. No... c'era una voce. Una voce dentro di lei. Ora so cos'era quella voce: era la voce
del demone della Città, del demone che le era entrato dentro assieme a Gregor.
Ti rendi conto? La vidi... sentii addirittura la voce: ma non capii. Mi avevi insegnato
troppo e troppo poco.

Io mi svegliai nell'abisso.
Milano è bella, almeno il centro: dalla cima del Duomo si vedono le Alpi...
"Non lasciare che il tempo passi sopra il tuo corpo, che ti avvolga nel suo mantello senza
che tu faccia niente per colpirlo. Cerca di ferirlo, di bollarlo, che almeno lui ricordi di
averti incontrato.
Tu non sei nulla, sei una merda. Non hai fatto nulla...
Devi fare qualcosa.... fai qualcosa, bastardo, fai... Non c'è dignità in te: sei solo un
vigliacco. Sei una merda".
Questo mi dicevo, e lo facevo spesso.
Ma con quelle parole non riuscivo ad offendermi: persa Laura, nessun'altra offesa poteva
offendermi.
Non fraintendere.
Non mi sarei concesso di dividerla con altri per conservarla: non l'avrei fatto.
Potevo lasciarla? No.
Dovevo bere il veleno dell'umiliazione, fino in fondo. Per l'opinione del mondo? Per
l'opinione che Francesco, se fosse stato il mondo, avrebbe avuto di se stesso?
No.

Non mi riusciva di odiare Gregor, quasi che il tradimento di Laura fosse un fatto naturale.
Salii sulla terrazza del Duomo, a vedere aria e montagne: senza il coraggio di uccidermi.

A casa...
Rimasi un giorno a letto, senza pensieri, fuorché l'uncino che mi straziava il cuore.
Decisi di uccidere Gregor. E di farlo con le mie arti, le tue arti.

Mi concentrai, pronunciai le bestemmie più buie, aprii i portali proibiti... mi vidi farlo a
pezzi, Gregor. E poi vidi quel volto di Gregor divenire il mio volto.
Non ricordo che accadde poi, se non che mi ridestai rabbioso.
Un demone, il mio demone, era arrivato anche per me. E neppure questo, allora, riuscii a
capire.
Poi la serratura mugolò due volte, sotto le chiavi di Laura.
La sbattei sul muro e la presi con rabbia. E lasciò fare, o forse fece anche lei. Con rabbia.
Fu allora che concepimmo Cesare.
Ricordo che dopo sentivo ridere dentro di me, e volevo vomitare.

Laura si rivestì e se ne andò senza una parola.


Ma Gregor era esploso... depezzato in una pioggia di sangue nel mezzo di Corso Vittorio
Emanuele, in una scena che fece epoca sui giornali. La gente vomitava, nel vederlo morire.
Chissà, Zeffiro, forse accadrà anche a te la stessa cosa... uh! già... non c'è più molta gente
che possa guardarti morire.

Zeffiro sorrise: anche Lynn aveva letto quel passaggio, a giudicare dalla sua espressione vagamente
disgustata.
"E tu eri amico di un tipo simile?", domandò Lynn.
"Non sembra, ma è un bravo ragazzo", disse Zeffiro, dietro un sorrisone.
"Ho fame", soggiunse Lynn.

CAP. IV

Piano di Semplificazione

Tonno e piselli. Tonno Rio Mare Qualità Pinne Gialle; piselli sconosciuti, il barattolo abbandonato
dall'etichetta, triste.
Ma vino: Lambrusco Salamino di Santa Croce, DOC, Vendemmia 1999.
"Ti va?", disse Zeffiro.
"Sì".

La scorta d'acqua giaceva derelitta nel praticello sconvolto, quel praticello che ebbe l'avventura di
conoscere il decollo di una villetta.
Un grosso demone volante, rosso - essere di bassa intelligenza, usato come cavalcatura o ricognitore
- annusava mestamente l'aria d'intorno. Non l'arrivo di Lynn, ma il movimento di Zeffiro era stato
notato.
Non rimanevano tracce di una meta casuale.

Il cavaliere del demone rosso indossava un casco da motociclista nero, il volto nascosto dalla
visiera scurita. Tuta di cuoio nera, mantello di seta.
Esile, si muoveva con eleganza tra le buche del terreno sconnesso. Percepì un riflesso dell'aura di
Lynn. Guardò la sua cavalcatura rosso spento attraverso il casco, e la congedò con un pensiero; poi
scomparve nel nulla: incantesimo di trasporto d'altissimo livello. Aprì un piccolo varco
intradimensionale, come in una vecchia pubblicità del Campari.

Il demone rosso si lanciò nel cielo mentre la terra rimbombava del frastuono delle sue ali e della sua
gola: tornava da Cesare, inghiottito dal sole.

Zeffiro contemplava il liquido color rubino, in un silenzio nostalgico. Lynn si abbuffava.


In breve furono pieni, le guance vagamente arrossate.
In breve si abbioccarono: uno sul letto, l'altra sul divano del salotto.

Così, nel mezzo di un canyon rossiccio e rugginoso, sotto al sole bianco del Sahara, apparve una
villetta incrinata e senza vetri: apparve in una nuvoletta grigia di pioggia, vento e saette, che si
perdeva nel caldo irreale con la stessa rapidità del tuono che l'aveva annunciata.

E se fuori tutto pareva d'un candido incandescente, di là dalle finestre sfasciate il solo colore
dell'ombra regalava frescura.

Zeffiro si svegliò prima, e, invocando acqua dalla terra, preparò il tè.


Lynn, affascinata dai Mountain Cake al cioccolato, pucciandone uno con voluttà nella tazza,
propose a Zeffiro di declamare ad alta voce l'ultima parte delle memorie di Francesco.

E Zeffiro, accaldato ma stranamente allegro, decantò.

-------------------- CESARE -----------------------

Oggi ti parlerò di mio figlio, di Cesare. Nacque dopo cinque mesi di gestazione.
Laura ed io stavamo assieme, ci eravamo sposati su suggerimento dei nostri compagni.
Cesare fu un bambino normale per due giorni. Il tempo in cui rimase in ospedale.
La sera del terzo giorno pronunciò la prima parola.
In due settimane aveva acquisito il coordinamento motorio di un adulto.

Il demone, il mio demone, ne aveva deferenza. Ma non io: non lo temevo.


Parlavo di cosmologia con mio figlio di quattro anni, ed a cinque anni mi traduceva
fotocopie dei testi in copto che mi aveva chiesto di procuragli.
Gli riconoscevo il taglio degli occhi della mia famiglia, qualche vezzo delle sopracciglia di
Laura. Ogni tanto si imbronciava.
Gli volevo bene, pur sapendo chi fosse in realtà.

Anche Cesare mi voleva bene: in sua presenza, il mio demone si annichiliva rabbioso. Mi
lasciava essere me stesso. Fu così per qualche anno, sinché il mio demone acquisì nuova
forza, nuovo dominio: era giunto il momento che l'educazione di Cesare passasse al Gran
Demone direttamente.
Mi si presentò compunto, mentre ero in meditazione, in quegli sprazzi di lucidità che
avevo preso a dedicare alla lotta con il mio intimo compagno: "Mi dispiace, papà", disse. E
notai un grande sforzo nel dire quelle parole.

Corse via piangendo. Fu l'unica volta che Cesare pianse. Da quell'istante i nostri rapporti
terminarono. Eppure, forse per il non temerlo, o per il ricordo di quell'antico affetto,
Cesare non cancella il mio lato umano...

Ma che cazzo mi illudo... dell'affetto di un figlio che non so neppure se abbia un cuore
umano.

Laura. Laura ha smesso di vivere il giorno in cui mise al mondo Cesare.


Un pezzo di ghiaccio, un volto livido chiuso nella sua fantasia, nella sua alterigia...
nella sua crudeltà...
Quando me ne rendo conto, della sua crudeltà che è anche la mia, ne sono addolorato. Più
che di tutto, della sua crudeltà.
Durante la gravidanza, la gestazione... una novità con cui era costretta a fare i conti. La
stessa peculiare rapidità del processo incatenava la sua attenzione, la rendeva curiosa, in
un riflesso di vita.
Ma con la nascita di Cesare, ogni interesse venne meno. Neppure i prodigi di Cesare
riuscirono mai a scuoterla. E' come un vecchio albero col tronco marcio e senza foglie, che
aspetta solo di crollare.

Ma a te frega di quello che cominciò allora.


Quando Cesare prese commiato dalla sua qualità di figlio, il Piano di Semplificazione
muoveva i primi passi.
Presidente Usa divenne Matthew Godrawn, il metodista bigotto.
Cosa vorresti sapere? Che fu Cesare ad essere eletto Presidente, e non il povero Matt?

Che quel porco festeggiava l'elezione scopandosi sua figlia tredicenne che proprio allora
Cesare gli fermò il cuore, per l'istante sufficiente a rubargli il corpo e cacciargli l'anima
nell'abisso?
Che Cesare iniziò la semplificazione?

Ti piacerebbe sentirtelo dire, vero? Poter scaricare tutta la colpa su Cesare...


Ma non andò così: a quanto ne so io, Cesare e i suoi demoni non ci misero il nasone.
Non so neppure se Godrawn si sia mai scopato sua figlia.

La verità è che non so un cazzo di quel che successe allora: avevo troppo da pensare del
mio.
Vidi solo il potere di Cesare crescere con gli scuri semi del karma nero della terra, ogni
giorno più cupo.
Cesare ebbe i suoi adepti, tante sette infime di giovani sfigati senza futuro.
Al culmine del caos, mentre la guerra sterminava il mondo, essi si sterminarono tra loro,
immolandosi per aprire il Piccolo Portale: un mucchio di cadaveri sgozzati nel salone di
casa mia - pardon, di Cesare - che riprendevano a tremolare, a respirare pesante e
camminare, coi loro occhi spenti. In quella penombra molliccia e insanguinata; grondante
sangue.

Chissà dove Cesare prese l'energia per rianimarli tutti insieme: saranno stati una
sessantina. Fu il sangue sparso dalla guerra, forse, od un supremo sforzo del Gran
Demone.

Il primo a prostrarsi ai piedi di Cesare fu Godnar, il Primo Consigliere, che ha la piena


fiducia del Gran Demone: quanto e più di Cesare, forse. Allora era un cadavere
infradiciato di sangue, ma si rimise presto.

E poi ciò che già conosci ebbe inizio: coi loro corpi umani, iniziarono ad uccidere, a
liberare energia eterica, a procurare vita ad altri di loro, nostri fratelli.

Ma uccidevano poco, in proprio: lo ricordi. Quale disgustosa crudeltà commisero mai i


demoni che gli uomini non avessero già perpetrata milioni di volte, forse con minore
voluttà. Per certo, senza il peso delle loro motivazioni.

Ho visto la guerra, ho volato tra soldati morituri, che massacravano dei bastardi profughi
per il gusto di uccidere prima di morire. Ho visto padri che mi offrivano la moglie e i figli
piangenti per aver salva la vita: e li uccidevo tutti, scorgendo nei loro occhi più la sorpresa
del tradimento, che la rabbia.

Siete una razza dannata di vigliacchi ipocriti e piagnoni. Capaci solo di portare dolore,
nella miseranda convinzione di essere forti.
Non vi meritate il mondo della vita. E noi ce lo riprendiamo, perché ce lo siamo meritati,
vermicelli schifosi. Ce lo siamo meritati con un'eternità di esilio, di sofferenza negli
aethyrs più lontani e scuri.
Senza la luce di una speranza o di un dio che ci sollevasse dal bruciore della nostra
solitudine.
Non abbiamo donne cui unirci.
Non siamo maestri dei nostri figli, perché non abbiamo figli.
Eternamente in compagnia di noi stessi.

E voi ci chiamate ingiusti, Voi?.


Avete avuto il vostro tempo. Avete avuto occasioni infinite, possibilità che mai ci furono
concesse dal Fato... o quello che è a reggere l'Apparente.
E tutto avete gettato. Chi fu Cesare se non una miserabile perturbazione nello scorrere del
tempo?
Come tutti voi, come tutti noi: un solitario nulla.
Voi ci avete aperto la strada: non Cesare, non il Gran Demone: voi ci avete aperto la
strada.
Il mio nome è Flagetorn, uomo, e sono da milioni dei tuoi anni.
Ho invidiato e perseguitato la vita, ogni vita, per tutto lo scorrere del mio insensato
esistere. Ma ascolti il vero quando dico che giammai commisi "abiezione" che uomo non
abbia commesso: e senza suggerimenti.

Questo io ti dico: io e l'uomo miserabile che Cesare ed una volontà di vita che non capisco
mi vuole compagno in questo corpo.

***** stelline stelline, amico mio. Qui si chiude con l'imprevedibile.

Ecco, hai letto anche le paure del mio demone: quale onore. Non mi concesse mai, prima,
di chiamarlo per nome.

Hai letto che dice Falgetorn - pronuncialo Flaghetorn -? Che tutto è solitudine.
Possibile?
Chissà perché ti ha voluto parlare...
Magari vuole solo giustificarsi: c'è sempre una giustificazione, ricordi?

HA! un demone che si giustifica, un ipocrita cosmico.


Ma ora basta. Mi hai stufato. Il tuo ricordo mi viene a noia.
Vorrai sapere di Cristiana.

E' nostra buona amica.

#########################################################
Un dì, vidi l'Abisso,
e l'Abisso generato dall'Abisso.

E capii che non me fregava un cazzo.

A proposito...
Lo sai che la nostra specie è degenerata?
Una volta ogni uomo aveva tre cazzi: da ciò l'espressione "Che cazzo vuoi"?

######################################################################

"Mmm... non è sua: era di Benigni", disse Zeffiro.


"Cosa?"
"La battuta sui cosi, la degenerazione della specie".
"Da noi, qualche leggenda in proposito esiste".
"NON E' VERO!": la voce, baritonale, pareva giungere dal biancore al di là della finestra.
"Non è vero", ripeté, più vicina, da dentro la casa, da dentro le loro menti.
Lo videro. Un soldato, la tuta mimetica verde, il volto annerito.
Gli occhi arrossati.
"Io morii qui", disse lo spirito. "I demoni arrivarono prima che Godrawn portasse a termine il suo
piano".
"Sì, ma che c'entrano i cazzi?", fece Zeffiro, divertito.
"Racconta la tua storia", disse Lynn.
Zeffiro scrutava il triste campo d'energia del fantasma.
"Non è vero che i demoni vennero solo con la guerra. Vennero prima: questo sapere mi è costato la
vita; a me e molti compagni. Ero il comandante...", rimase assorto, lo sguardo perso a rivedere un
episodio della vita che fu.
Ma durò poco il suo silenzio, e riprese:
"Qui era un gigantesco acquitrino. D'improvviso l'acqua era sgorgata dalla sabbia: non da un punto
preciso, ma una traspirazione, il sudore della Terra sofferente.
Accadeva nei territori della Libia meridionale, presso i confini col Ciad. I nostri satelliti avevano
registrato il fenomeno, e ci parve di doverlo attribuire ad un successo dei tentativi di Gheddafi di
estrarre acqua dalla falda che il Sahara si cova.

Godrawn era appena stato eletto, che la Libia ci chiedeva aiuto. Gli italiani garantivano, allegando
documentazione relativa alla scomparsa di una missione di ricerca italo-libica e del contingente
militare (circa cento uomini), inviato in soccorso.

Il dossier comprendeva pure alcuni videotapes, trovati successivamente in quello che era stato il
campo base della spedizione.
I nastri riguardavano per lo più osservazioni naturalistiche sull'ecosistema instaurato dall'acqua: un
gigantesco acquitrino, rigoglioso di fiori variopinti ed erbe verdi d'ogni specie. E vuoto di animali.
Neppure gli insetti.

Poi, in una cassetta, negli ultimi minuti di quella telecamera, la morte di due uomini.
Un ricercatore barbuto commentava le correnti d'acqua dolce scaturenti da mille piccole fenditure
del terreno, quando alle sue spalle appariva un corpo nudo, umano, privo di occhi: l'azzannava
alla gola, tra urla, ruggiti e frastornante schiumare d'acqua. La telecamera cadde in acqua, in un
rimescolarsi di fanghiglia che poi, senza novità, si rifece limpida e pacifica.

I Libici, in un consiglio di prudenza che noi scambiammo per buona volontà, ci invitarono ad
utilizzare armi pesanti.
Fui incaricato dal Presidente in persona. Avevo settanta uomini sotto il mio comando, equipaggiati
con lanciamissili e armi individuali dell'ultima generazione; appoggiati, ad ogni buon conto, da
elicotteri corazzati.
Rifiutammo la cooperazione di un gruppo scelto libico, nel timore di trucchi.

Avanzammo nell'acquitrino per circa quattro ore, quando i contatti con la base furono interrotti
dalla morte improvvisa dei soli apparecchi radio.
Dalla bruma calda che era apparsa a circa seicento metri di distanza vedemmo uscire, con lentezza,
delle creatura di forma umana, nudi e rigidi nei movimenti.
Non si fermarono ai nostri spari in aria, ed ordinai di colpirne uno alle gambe: cadde in acqua e si
risollevò rapido: non perdeva sangue, ma ora la coscia era storpia: Era come se il femore si fosse
risaldato istantaneamente nella posizione in cui il proiettile l'aveva lasciato.
Avevo paura. Da tutta quella mattina sentivo la paura scendermi dal cuore verso le gambe, ed
annebbiarmi la mente. Ma quella scena, attraverso il binocolo, mi terrorizzava. Ora erano molti, un
fronte semicircolare compatto di creature lente e cadenti, che avanzavano verso di noi.

Ordinai il fuoco, a volontà, con le armi pesanti. Una muraglia di fiamme e proiettili investì quegli
esseri, facendoli urlare, facendoli a pezzi. Era incredibile, ma sentivamo le loro urla nel frastuono
delle nostre armi: urla prolungate, sguaiate, acute. Il vento diradò la bruma ed il fumo delle
esplosioni. Non c'era più nulla davanti a noi, quando sul lato destro, dal nulla, spuntò un barcone
carico di quelle creature, che si rovesciarono nell'acqua: verso di noi. Un'acqua sempre più alta, che
ci rallentava i movimenti.
Fui preso dal panico: volevo sganciarmi a tutti i costi, proteggendo la ritirata con il fuoco delle armi
pesanti. Ma non facemmo in tempo a rischierarci che ci erano addosso, nuotando nella corrente che
d’improvviso animava le acque morte. Vedevo i miei uomini sbranati vivi da quegli esseri, e pensai
solo a fuggire, ad una fuga precipitosa e disperata Per un po' li distanziai, io ed altri quattro soldati,
tra cui due donne. Ma faticavamo, ci impantanavamo. E quelli sempre dietro, più lenti ma sempre
uguali. tutto piatto, niente dietro cui nasconderci.
E cominciammo a faticare, a trascinarci, finché quei mostri non furono veloci come noi, poi più
veloci. Finché non ci raggiunsero. Ed io sentii quei mostri puzzolenti strapparmi la carne di dosso,
per ultimo: dopo aver visto finire allo stesso modo i miei compagni.
Ero scappato".

Il soldato piangeva. E mentre piangeva, mentre le lacrime gli rigavano il viso, la sua immagine si
faceva meno nitida, come se in quelle lacrime si stesse sciogliendo.
Lynn gli chiese di restare.
Ma parlò solo all'aria.

Zeffiro sospirò: "Un'anima persa, come ce ne sono tante in quest'aria, nell'aria di questo mondo".
Lynn si era alzata in piedi, e salutava lo spirito nella sua lingua tintinnante, illuminando la sua
scimitarra di luce.

Ma il suo sguardo si era fatto duro: "Tu che hai fatto, in questi nove anni?".
"Mi rimproveri di essere vivo?", domandò Zeffiro.
"Tu non hai mai combattuto i demoni".
"No".

"Perché?".

CAP V

Autunno

"Chi è la donna?". Godnar parlò senza alcuna inflessione.


"Una donna", disse Cesare, fissandolo negli occhi. Con calma, senza emozioni.
Eppure Godnar vide la pupilla del suo Signore sussultare, mentre la mandibola era
impercettibilmente avanzata. Ma l'aura non recava traccia di rabbia.
<<Controlla più la sua aura del suo corpo>> avrebbe pensato Godnar, se non fosse stato troppo
prudente per formulare un pensiero tanto chiaro in presenza di Cesare. Cesare percepì solo un'onda
nell'aura del suo Primo Consigliere.

"Perché non volete che venga uccisa? E' una fattrice sterile. A che può servire se non ad avvicinare
il Nostro Sovra..."
"Perché così ho deciso", l'interruppe Cesare: questa volta senza mostrare alcun cenno d'emozione;
nulla, almeno, che Godnar potesse notare.

Il Primo Consigliere si congedò, e nell'uscire lanciò uno sguardo volutamente aggressivo


all'indirizzo della ragazza.
Questa se ne stava rannicchiata in un cantuccio: gli occhi bassi, solo a tratti spaventati. E furono
spaventati con un istante di ritardo pure sotto lo sguardo di Godnar. Ma il Consigliere non era uso
prestare troppa attenzione ai semplici esseri umani: e la porta si richiuse alle sue spalle.

La ragazza indossava ancora il malandato camice azzurro delle fattrici: sporco e lacero.
Capelli biondo cenere, crespi e sfilacciati, ma il taglio, a caschetto, in ordine.
Occhi azzurri, anzi blu: straordinariamente luminosi: fu il suo sguardo a colpire Cesare.
A costringergli il cuore a battere con un istante di ritardo: se ne accorse, e la cosa lo sorprese.

La vide incatenata mentre passeggiava lungo la sterminata fila dei sacrificandi: di coloro che
avrebbe dato la loro vita al corpo del Gran Demone; di coloro che i Sacerdoti avrebbero squartato
sul basamento del Portale, adorno di sangue, sfavillante nel sole dorato d'autunno.
La ragazza sollevò lo sguardo ad incontrare il sole, ed i suoi occhi risplendettero in quelli di Cesare.

Cesare annusò l'ombra di un'emozione: "Questo, non la donna, mi incuriosisce", pensò, incerto.
Qualcosa che pareva perso sotto un mare di millenni, gli tornò alla mente. Il riflesso della sua
infanzia, il fantasma di un sapore.

Una stanza bianca, adorna di pannelli di legno laccato, fregi dorati, specchi incandescenti.
Guardava la ragazza raggomitolata nell'angolo: una macchia di tela azzurra, due stelle luminose, un
ciuffo di stoppa.
Cesare sistemò una delle sontuose sedie di fronte alla ragazza, ad un paio di metri dai suoi piedi
nudi e insanguinati. Ci si sedette.

"Chi sei?", domandò, cortese.


Già lo sapeva: Jaqueline Domat, di 27 anni, corpo esile. Gli piaceva guardarla.
Dunque era bella. Mancava ai demoni un senso del bello, ed anche per Cesare riconoscere il bello
non era un fatto spontaneo, ma un esercizio di volontà.
Indubbiamente: era bella.

"Jaqueline Domat", rispose la donna. Con voce ferma, dopo aver raccolto le energie.
Cesare non lesse paura nella sua aura: solo una disperata tranquillità. Una lettura rara, anche per
quell'epoca.

Cesare avrebbe dominato quel mondo, meglio: l'avrebbe diretto per conto del Gran Demone, una
volta che questi fosse arrivato.
Poi Cesare sarebbe morto, ed avrebbe raggiunto il resto della sua specie.
Non c'era risposta circa il dove. Non c'era risposta al perché.
Infiniti quando, più o meno probabili, che egli conosceva, e non temeva... Come quella donna...
Cesare fu sorpreso, e respirò più aria in quel respiro: "come questa donna", si ripeté.
Entrambi non temevano una morte certa. I demoni, tendenzialmente, non morivano: come le pietre
sarebbe esistiti sempre; a pietre potevano ridursi, privati del fuoco della coscienza, della ragione.
Ma con la quasi certezza di risvegliarsi, prima o poi.

I demoni sono fratelli delle pietre: sorrise tra sé. E invidiano la via degli uomini: anche questo
sapeva, per certo, per esperienza.
"Cosa c’è in me e in te, ragazza, che un demone dovrebbe invidiare; cosa proviamo noi che loro non
proveranno", si domandava studiando le lunghe gambe di Jaqueline, nascoste dal camice.
No: non il sesso, si rispondeva. Un meccanismo semplice che li incuriosiva appena preso possesso
dei nuovi corpi, e poi li annoiava. I demoni non facevano sesso, né Cesare, padrone di sé, privo di
emozioni, ne aveva mai sentito il bisogno.

Neppure ora: "Che sciocco pensiero", pensò.

"Tutto ciò che vive", gli disse una volta Francesco "è parassita della Vita; e la Vita uccide i propri
parassiti".
Domandò cosa, o chi, fosse la Vita.
"L'insieme di noi parassiti", rispose suo padre.

Ne fu deluso, ma non riusciva a trovare di meglio.


Sorrise dell'idea che gli aveva attraversato la mente: dell'idea che Jaqueline gliel'avrebbe spiegato.
Non ne avrebbe sorriso Jaqueline: solo per grazia di quell'idea avrebbe vissuto ancora.
Solo in grazia di quell'idea? Non ne era del tutto convinto neppure lui.

Un demone dal corpo umano perfetto - un bel corpo di donna - entrò nella stanza:
"Portala dalle dame di Laura: che la ripuliscano e la rivestano. Stasera cenerò solo con lei: servirai
tu. Nella saletta".
"Sì, mio Signore".

***

Si era levato il vento: un vento tenue, e stranamente fresco.


Il cielo si tingeva di blu, e di verde nei pressi del sole. Già qualche stella si affacciava oltre le pareti
del canyon.
Zeffiro Circassi tacque per un'ora abbondante, perso nell'assenza di pensieri.
Lynn ascoltava dubbiosa il rumore pastoso dei propri passi.

Il cielo era bello. Zeffiro non era un suo superiore, né le pareva fosse particolarmente degno
d'ammirazione. Un personaggio curioso, forse un vigliacco. Probabilmente un vigliacco.
La Terra era persa irrimediabilmente. Se anche gente come Zeffiro avesse deciso di organizzare una
qualche forma di resistenza, il loro tentativo non sarebbe andato al di là del pietoso bel gesto.

Sola, in un aethyr sconosciuto, respirò come mai aveva fatto prima: se la vita aveva un senso,
questo è la libertà. E, almeno per qualche tempo, sarebbe stata libera.
Poi sarebbe morta: non era un problema. Ragioni per campare, d'altronde, non ne aveva mai avute
troppe. Meglio morire liberi, che schiavi a Lothlorient: le ghignò l’anima per un pensiero in cui non
credeva.

***

Anche sull'Arcivescovado, a Milano, si era fatta notte. La saletta di sete scure prendeva luce dal
fuoco del caminetto e da due candele bianche su candelabri elfi di metallo Geist, finemente
cesellati, luminosi: parevano ricoperti da una miriade di stelle tremolanti.

Jaqueline indossava un miniabito di seta nera. Gliel'aveva scelto Laura, divertita dalla richiesta di
Cesare.

Laura e le sue dame, demoni e umane, si erano divertite molto a riportare Jaqueline al "livello della
perduta civiltà", come disse Laura.
Laura pensò che, in fin dei conti, non più di dieci anni la separavano dalla giovane fattrice sterile.
Eppure erano tanti. Congelati sul suo volto non meno che lo fossero i sentimenti nel suo cuore.
Jaqueline non parlava: subiva passivamente bagni, misure e trucco.

"Che strano tipo", pensò Laura: "rassegnata a tutto, quasi placida".


Sentì di invidiare quella calma: era come se l'acido nero della paura avesse riempito Jaqueline, ed
invece di bruciarla si fosse trasformato in una culla d'acqua tranquilla, che la sosteneva sempre.
Laura non sentiva che un doloroso nulla dietro il suo petto: se ne accorse ancor più nel terminare il
divertimento di quella vestizione.

Cesare si materializzò nella stanza. Davanti alla finestra, poco discosto dal fuoco: in una folata
d'aria che si fece di solida carne in un fluire vivo di liquido argento.
Indossava un sobrio abito nero, di foggia iraniana.
Scelse con cura il suo abbigliamento. Con studio.
Guardandosi allo specchio - imberbe boccoli biondi - volle anche trasformarsi in barbuto
mediorientale, come suo padre, pensò. Poi decise di tornare alla norma: controvoglia. Ma non ci
rifletté più che tanto.

Alla vista di Jaqueline, dovette trattenere il respiro. Non furono le gambe chilometriche, gli occhi o
l'insieme di lei: non capì più nulla, e basta.
Una strana via di mezzo tra attrazione e paura gli scaldava il petto.
D'un tratto si rese conto di temerla più di quanto non avesse mai temuto il Gran Demone( ma
l'aveva mai temuto?), e di aver paura - sì, quella colata di ghiaccio dal cuore alle gambe era paura -
che lei se ne accorgesse: fu di nuovo presente a se stesso, e bruciò quel fumo di sentimenti nella
luce del suo chi guerriero. Jaqueline si accorse dello strano illuminarsi degli occhi di Cesare, e si
spaventò.
"No, no... non preoccuparti... ero soprappensiero!", si scusò(!) Cesare, che cominciava a sentirsi
stressato, tanto da isolare la stanza con un incantesimo: e Godnar, già messo sull'avviso dagli
inusuali scoppi di ilarità pomeridiana nelle camere di Laura, avvertì l'incantesimo.

***

"Preoccupata?", disse Zeffiro, alle sue spalle.


"Perché non hai combattuto?", ripeté Lynn.
"Per non morire".
"Ti piace tanto campare?".
Rimase in silenzio per un po', fissando Lynn , che gli dava le spalle.
"Mettila così soldato: sono cose che non ti riguardano".

"Diciamo che sei un vigliacco", fu la risposta.


"Può essere”, ed una folata, presto riassorbita, percorse il campo di energia di Zeffiro:
straordinariamente potente, per un umano, osservò Lynn, tra sé.
"Però, potrei anche rimediare alla mia ignavia: potrei costringere Negash alla guerra
consegnandoti ai demoni", sorrise, beffardo, giocando con ciò in cui non credeva.
Fu un mezzo portarsi sfiga da sé, perché all'istante calò una terrificante onda di energia, e si
trovarono lanciati verso le rocce.
Zeffiro, d'istinto, alzò una barriera; il cielo stellato venne trapassato dal lampo blu dell'arma di
Lynn: Lama di Luce di primo livello.

L'aggressore non parve farci troppo caso: indossava tuta e casco da motociclista.
Il suo obbiettivo primario parve, fin da subito, Zeffiro. Ignorava i ripetuti attacchi di Lynn, che
peraltro non pareva troppo convinta della sua azione.
Pure Zeffiro era sorpreso: l'Avversario ostentava un'aura potentissima; un'aura in tutto umana.
E le sue movenze... familiari.

Lynn attaccò, con decisione, sul fianco sinistro: col bagliore di una colonna di energia sufficiente ad
avvolgere l'avversario, e far crollare le pareti di roccia del canyon.

In quel frastuono polveroso, Zeffiro, il cui sguardo era divenuto quello di un lupo, il suo animale
totemico, scorse una fenditura nel campo difensivo del motociclista.
Invocando Matrice del Tempo vi si lanciò, riuscendo a bloccare il nemico in una presa. Poi,
sfruttando l'onda di energia complessivamente liberata dai contendenti, trasportò quella figura
oscuramente nota in un aethyr parallelo, più sfavorevole della Terra agli incantesimi neri.

Nella concentrazione Zeffiro vide attraverso il casco dell'avversario:... vide gli occhi di... Cristiana?
La lasciò. Si guardarono entrambi, in un istante di ricordo senza pensieri.
Intanto, Lynn penetrava dal basso in quel mondo di nebbie candide. Cristiana con un riflesso che
aveva della premonizione, attaccò direttamente Lynn, concentrando tutta l'energia nell'attacco,
lasciandosi completamente scoperta rispetto a Zeffiro. Ma Zeffiro era paralizzato.

Lynn parò il colpo - raggio nero - con l'arma di luce: all'apice dello sforzo l'elsa le sfuggì di mano,
persa ad incredibile velocità nel fluire di ciò che rimaneva del raggio: via, flebile puntino blu che si
rimpiccioliva.
Cristiana sparì dietro la spada: inutile seguirla. Un lampo sull'orizzonte rivelava l'apertura del
passaggio dimensionale.

Zeffiro prese in braccio Lynn, ormai sul punto di svenire, e con lei tornò sulla terra.
"Non hai ancora visto casa mia", le sussurrò: un tunnel di fulmini sfocati accompagnò il sonno di
Lynn.

***

Lo sguardo di Jaqueline passò da Cesare alla porta. Qualcuno bussava, già da un po'.
A intervalli regolari.
Cesare se ne accorse solo allora.
Era Aithyn, il demone-segretaria di Cesare. Per l'occasione anche cameriera. Perfettamente
formata, padroneggiava con disinvoltura il bellissimo corpo di donna che era diventato suo.
Per l'occasione era vestita, di rosso. Anche lei aveva occhi azzurri, ma erano come circondati dal
riflesso scuro dell'abisso, dal riflesso della sua sterminata conoscenza.
Aythin era il demone più fidato per Cesare: Aythin aveva curato la sua educazione per conto del
Gran Demone, nella forma di entità astrale.
In effetti Aythin non era della stirpe dei demoni.

Jaqueline rabbrividì nel sentirsela passare accanto, col carrello delle vivande.
Ma ora il brodo fumava nei piatti, il vino luccicava come un rubino liquido nei bicchieri: Aithyn
era svanita, si erano accomodati attorno al piccolo tavolo.
Prima di dire qualunque cosa, Cesare guardò ancora Jaqueline.
Jaqueline, ad un tratto, si sentì abbastanza tranquilla da ricordare la propria disperazione.
Jaqueline si mise a piangere: in silenzio, la testa china, i pugni stretti in grembo.
Le lacrime scorrevano pesanti, scintillando lungo le guance, e cadevano sugli avambracci, sul
vestito: punti neri sulla seta nera.

Cesare non disse nulla. Considerò il trascorre di alcuni attimi, in piedi, vicino a lei. La prese in
braccio, con dolcezza. La adagiò nel suo letto, nella stanza accanto. La avvolse nelle coperte:
piangeva e tremava ancora.
Cesare andò a meditare dove gli piaceva di più: dov'era la guglia più alta del Duomo, in cima al
Portale.
Ma quella notte non gli piacque.

Cap VI

Lorena

“E’grande l’orizzonte della Terra!”: questo pensò, in quell’istante, Lorena.


L’orizzonte della Terra arabescava il cielo, poco più alto dell’orizzonte vero: evanescente,
fotografia sfocata, acquerello bagnato. Ma c’era. E la sua ultima apparizione giaceva sotto l’abisso
del tempo.

La grande nave - ‘Airone’ per le lingue degli uomini - si accostò ai margini del mondo degli elfi, in
una sera di aurora boreale e di tramonto sanguigno, rompendo la volta del cielo.
L’airone riposava ora nel suo primo elemento, tra ondicciole dorate che gli sbaciucchiavano la
pancia: una brezza quieta.
Le nuvole rosse parevano gocce di sangue morenti nell’acqua.

Il mondo degli elfi aveva perso l’allegria, ed ora si riempiva di tristezza.

Il portellone della stiva si aprì, calando lentamente sulla banchina: attendeva un uomo dall’aria
grassa e l’aspetto poco amichevole: Gor, addestratore di Ndrach.
Ed in fila indiana arrivarono pure gli Ndrach: sorta di quadrupedi pelosi dalla testa vagamente
equina, il corpo tozzo degli orsi, enormi arti anteriori a tre dita prensili; capaci di mutarsi in bipedi
a volontà; sufficientemente intelligenti da imparare a scaricare da soli una nave e trasportare le
merci (alla rinfusa) in un magazzino, con appena qualche anno di addestramento.
Bestioline sensibili: tatto e delicatezza per addestrarle. Gor ci sapeva fare.

Lorena bambina ammirava il giovane Gor danzare e cantare per gli Ndrach, e gli Ndrach lo
guardavano estasiati, neanche capissero il senso di quelle parole e di quei canti.
Canzoni malinconiche...
Lorena innamorata del Gor d’allora: innamorata dell’elfo più brutto che il cielo di Lothlorient
avesse mai accolto. E Gor, uomo coraggioso, accettò un destino in cui le feste degli Ndrach ed i
sorrisi dei bambini sarebbero stati gli unici regali di gioia.

Quando Gor si rese conto di tutto ciò, mentre cioè piangeva in mezzo a un prato il ‘no’ della bella
Gabriéla, con uno Ndrach impacciato che s’ingegnava di confortarlo a furia di pacche e di annusate,
Lorena, ancora molto piccola, lo vide: e pianse.
Pianse sentendosi nel cuore il riflesso della solitudine di Gor.

“Allora Gor, che novità?”.


“Goringa ha figliato il mese scorso: c’è un nuovo Ndrach, finalmente!”, urlava Gor, piccolo, sulla
banchina, mentre gli Ndrach gli ciondolavano attorno con apparente indifferenza.

“Tutto qui?”: Lorena sorprese Gor di fronte, divertendosi della sua sorpresa.
Gor sorrise amareggiato, col suo faccione grosso inondato di rughe.

In quell’istante apparve un mingherlino altezzoso, Gtrach il suo nome, agente governativo del porto
dimensionale: si presentò a Lorena, che già lo conosceva.
Portava una notifica su corteccia, col Sigillo di Cristallo delle Ordinanze: sospensione ad effetto
immediato dei traffici con la Terra. Avvertimento circa l’eventualità di ulteriori limitazioni al
commercio dimensionale. Necessità di visto dell’autorità portuale (Gtrach) per lasciare la
dimensione delle Lune Verdi.
Pena la perdita della licenza commerciale, confisca della nave... Infamia? Sì!

Già si parlava di introdurre pene detentive, soggiunse Gtrach, con una punta di soddisfazione nella
voce, ed uno strano brillare degli occhietti chiari.
“Qualcuno...” proseguì Gor con circospezione, quando furono sufficientemente lontani da Gtrach,
“Qualcuno parla di lavori per trasformare in carcere la vecchia fortezza di Hfera”.

E Gor assunse un’aria truce, dicendo “Tuo padre deve portare la sfera di sorveglianza alla cintura:
ha parlato troppo nell’ultimo consiglio del villaggio, e Gtrach l’ha denunciato all’Ufficiale di
Zona”.

“Coraggio papà, che vuoi che sia!” e subito un gesto per fare silenzio, che il vecchio Ler’a, la faccia
più scura dell’inferno e gli occhi come tizzoni ardenti attendeva solo un’occasione per scoppiare.

E la piccola casa dai muri di pietra tremò dalle fondamenta alla cima del tetto, sotto la notte stellata,
sotto i riflessi dell’aurora boreale, sotto le luci lontane degli universi del possibile...
“Negash, il Consiglio... quello stupido Ndrach incattivito di Gtrach, questo popolo di merda: il tuo
bisnonno e tanti ragazzi come lui sono morti, hanno combattuto nella guerra contro l’Oscuro
Signore... per questo schifo?”.
Lorena impallidì, e tutti in quella casa impallidirono. Pure Gor: non erano le parole, ma la sfera
scarlatta alla cintura.

E accadde tutto in un attimo, la cena di soia fumante nel piatto: bussò Gtrach con due silvani.
Strattonò Ler’a per portarlo con sé, e finì sanguinante a terra, il labbro rotto dal manrovescio di uno
che aveva passato la vita commerciando con le creature più strane delle dimensioni vicine, e
neanche troppo vicine.
Gtrach, che non aveva mai visto neppure Lothlorient, accese rabbioso la spada, e senza forse
neppure volere, trapassò Ler’a all’altezza del volto.
Dogai, il giovanissimo fratello di Lorena, reagì d’impeto e conficcò una lancia dorata nella gola di
Gtrach, che era rimasto lì imbambolato, a fissare il corpo e la testa maciullata di Ler’a.
Un silvano allora azzannò Dogai alla gola, prima che Gor potesse coprirlo: a Gor si dedicò l’altro.

Quando Lorena, con la spada di Gtrach liberò Dogai dalla stretta, questi era già morto, con la gola
squarciata. E Lorena non vide più nulla: non vide gli Ndrach di Gor smembrare vivo il silvano che
aveva maciullato un braccio al loro padrone; non vide nulla se non gli strani sogni di chi sviene.

Così Lorena cominciò ad essere Lorena, sola sul ponte dell’Airone, a ripensare quel giorno. A
quello che aveva visto, a quello che Sentinella, lo spirito elementale che reggeva l’Airone, le aveva
comunicato.
Fu il vecchio Gor a salvarla, mentre accorreva un drappello di Silvani a sedare la rivolta che il
cristallo sul corpo morto di Ler’a puntualmente trasmetteva.

Gor, piccola, grassa macchia grigia, con Lorena caricata su un solo braccio mentre l’altro
sanguinava, correva per tutta la banchina, con un nugolo di Ndrach che lo seguiva agitato.
Gor apriva il portello, adagiava dolcemente Lorena subito dopo l’ingresso.
“Nel nome di Ler’a, viaggio nella Terra Tranquilla”: l’ordine segreto di fuga dell’Airone, l’ordine
che Sentinella, agitata, eseguì dicendo: “Tu non sali Gor?”.

E Gor piangeva, voltandosi a guardare i suoi Ndrach che morivano sotto i colpi dei Silvani, che
morivano per difendere il loro padrone.
Il piccolo Gor con la spada di Gtrach che uccideva due silvani, prima di finire divorato tra i corpi
macellati di tutti i suoi Ndrach.

Accadeva tutto in fretta: un giorno mutato in un respiro.


L’airone galleggiava silenzioso, circondato dal nulla più nero. Con Lorena senza lacrime sul seggio
di comando e Sentinella che non riusciva più a pensare, imbambolata nella morte dei suoi amici
Ndrach e di Gor.

Ehtgeri, il piccolo Ndrach figlio di Goringa, si era salvato, perso nella stiva dell’Airone. Fu Ehtgeri
ad accogliere Lorena dal mondo dei sogni: un bestiolino peloso dalla testa di cavallo che la
annusava con mesta circospezione, non osando toccarla.

Lorena badò ad Ehtgeri quel giorno: gli rifece le fasce, lo rimpinzò di latte. E si addormentò sulla
scrivania dello studiolo, cuccia del piccolo Ndrach. Strani ammassi di stelle ornavano la notte, nello
spazio.

Nulla, se non l’odio, legavano Lorena al mondo degli elfi. Per giorni meditò vendetta, e si vide
strappare lentamente il cuore dal petto di Negash, e tutti i notabili Elfi implorare inutilmente la sua
pietà. Di uccidere le loro famiglie, e cancellare la schiatta degli elfi dall’Universo, affogando gli
abitanti di Lothlorient nel loro stesso sangue.
Ed in mezzo a quei pensieri Lorena pingeva.

Ma nelle lunghe ore di veglia, nella quiete silenziosa dello spazio, nell’accudire l’orfanello Ehtgeri,
il suo cuore mutò. Chi uccise suo padre e suo fratello era morto. Gor era morto da valoroso come
aveva vissuto, e non ci si può vendicare di bestie come i silvani.
Non avrebbe concesso altri pensieri agli elfi: né odio, né pietà, caso mai il destino gliene avesse
offerta occasione.
Questo pensò, accarezzando il testone di Ehtgeri, accucciato accanto al suo scranno.

Anche Sentinella, che rispondeva agli umori dell’Airone, si riscosse in quel momento: apparve a
Lorena nella sua forma di Ondina Dorata, inginocchiandosi a porgere l’Omaggio:
“Sentinella è il mio nome. Sono da molto prima che l’Airone fosse costruito, da molto prima che
Aragorn sconfiggesse l’Oscuro Signore.
Accettai di servire tuo padre sulla promessa che avrei servito la giustizia ed il libero commercio,
sotto nessuna bandiera che non fosse la nostra. Se rinnoverai la sua promessa, rinnoverò la mia”.

“Non serviremo nessuna bandiera che non sia la nostra. Nessun ideale che non sia la giustizia.
Soli”.

L’Airone issò il vecchio vessillo di Ler’a: paperotto d’oro in campo bianco.

Ehtgeri rabbrividì, Sentinella si fece assorta, e tornò invisibile, sciolta nei metalli dell’Airone.
“Navi da Guerra, Signora: Sud Est Ovest”. Nella stanza comparve una sfera di luce giallina, al
centro un piccolo Airone spiegava le vele. Sotto l’Airone, stilizzate in rosso cinque incrociatori da
guerra.

Lorena carezzò il testone di Ehtgeri: “Vie di fuga?”


“Nessuna: possono tracciare più rapidamente di noi i nostri stessi tunnel dimensionali”, rispose
Sentinella.
“Tra poco saremo a portata di tiro”, soggiunse.
“Rotta su Lothlorient”.
Sentinella capì, e non fece domande,
Dopo il lampo violetto, apparve il mondo degli Elfi, vastamente curvo sotto la luce dei suoi soli,
molto verde, tanta terra quanto mare.

L’airone si tuffò in quel gioiello di luce liquida, di venti colorati. Lorena si sentiva esplodere il
petto, sorpresa e commossa di non aver paura. Ma non era giusto morire, non era giusto che Lorena,
così giovane, e suo padre e suo fratello fossero morti. Dov’è la Giustizia? Perché tra coloro che
sempre hanno seguito le vie dell’onore, tra gli innocenti di ogni crimine, tra chi ha sempre tentato di
cacciare la malafede dalle proprie azioni il Male poteva scegliersi le sue vittime?

“Perché io, Lorena della stirpe di Mondrago, figlia dell’onorato Ler’a, devo lasciare la vita che solo
ora comnciavo ad amare? Quale peccato la mia famiglia deve scontare?”

Lothlorient splendeva dorata nel suo pomeriggio sereno, poche strisce di nubi a incurvare il cielo
cristallino e tiepido.
Un bagliore, l’esplodere lontano di una stella, annunciò l’Airone. Planò si abbassò sulle guglie di
oricalco, sui tetti di pietre luccicanti, sui nasi levati della gente.

“E quale peccato è così grande che per essere scontato si debba lordare l’anima di coloro che mi
uccideranno, senza neppure sapere il nome?”

L’Airone brillava: brillavano i fregi d’animale che ricoprivano le fiancate, brillava la polena a testa
di cigno, argento contro l’oro dello scafo, brillava il castello di poppa: una sfinge alata nella cui
pupilla destra risplendeva la giovane Lorena.

“E che razza di miserabili sono coloro che uccidono i loro simili sulla parola altrui...”

L’Airone virò d’improvviso: prua ai quattro bagliori di stella nati sul cielo lontano.
“Sistemi d’arma approntati”...
“Massima energia al cristallo azzurro”: voce ferma di Lorena.
Un fagotto scuro, Ehtgeri, volò fuori dall’Airone, appeso ad un piccolo paracadute bianco.
Ehtgeri piangeva.

Lorena sentì una strana euforia riversaglisi nelle vene: un desiderio folle di sangue e morte.

“Non è bene morire nella rabbia, nella vendetta, con la maligna tristezza che ti rode il cuore.
Rabbia e paura sono figlie della tristezza. Non disonorerò la vita che ho vissuto”, pensò Lorena La
Bella.

Allora disse: “Fuoco sul cielo: non colpire nessuno”.


Un denso fiume di luce azzurra, ornato di guizzi d’oro, circondato da fulmini bianchi, staccatosi dal
petto dell’Airone, si perse nel cielo.
Proiettava ombra dov’era la luce di due soli.

E dagli incrociatori partirono altre luci, e pezzi di metallo carichi di morte: Il petto del cigno si
squarciò in un volare di schegge di metallo, e così il Leone. Lorena guardò la morte nel baluginare
dei raggi porpora, e vi si sciolse. E i raggi si spegnevano nelle viscere della città, in grandi sfere di
fuoco rosso.

L’Airone cadde nel mare e vi bruciò a lungo, affondando bagnato della luce rossa di un tramonto di
sangue.
Inaspettatamente il cielo pianse molte stelle, quella notte.
........................................................................

“Sulla città!”
“Sì, Ministro... non potevamo prevedere...”
Negash non tradì il suo disappunto.

“Questo non è bene Negash: la tua spia tra gli stregoni umani non rende quei grandi servigi; una
nave dimensionale armata sfugge al tuo controllo, e i tuoi l’abbattono sul centro della città,
massacrando un intero quartiere...
Mi chiedo quanto ci convenga l’alleanza degli Elfi”, parole affilate come spade in bocca
all’Ambasciatore del Gran Demone - e di Cesare - a Lothlorient.

“Lynn di Goan ci ha comunicato la posizione dei ribelli sulla terra: ma ci è voluto tempo a
ricostruire il suo pensiero: l’hai colpita troppo forte nell’Aethyr degli Irani... e la colpa dei danni
l’attribuiremo alla ribelle: la confusione rende plausibili molte verità”.

“Voglio credere alle tue parole”, replicò l’ambasciatore, la strega Cristiana Dena, Prima Adoratrice
al Gran Portale. La sua voce era gelida come il nero lago d’oscurità che balenava dietro la
verdissima iride: un’iride priva di contrazioni, pensò Negash.

Negash non la temeva: “Perciò mi affascina”, pensava tra sé, distrattamente attratto dalla bellezza
terrena di quella creatura che definire umana sarebbe stato puro ottimismo.

E prima di uscire, voltandosi un’ultima volta, Cristiana soggiunse: “Cesare sarebbe felice di
rinsaldare l’Alleanza: che sia un contingente di Elfi a schiacciare i ribelli umani quando verrà il
tempo”.

“Quando verrà il tempo”, rispose Negash, conscio dello sputtanamento che ciò avrebbe significato.

Ma il Gran Demone era forte, tanto più ora che controllava la terra. S’era aspettato troppo: la via più
sicura è l’Alleanza. Sopravvivenza, speranza di riscatto. Forse anche dominio su una parte della
Terra. Forse.

D’altronde il popolo non voleva la guerra, men che meno i militari.


Negash sospirò fissando un tramonto rosso e verde sotto le lune di Lothlorient. La città era
particolarmente bella quella sera: la pietra rossa delle strade riluceva nell’oro del sole; le piastre di
metallo Geist sui cornicioni iniziavano splendere, a dare un tocco dell’argento notturno alle strade.

Il mondo degli Elfi, non importa a che prezzo, voleva la pace.

“Conservare la tranquillità, condividere un potere sugli uomini, che nostri amici non si sono mai
dimostrati, non è disonore. E’ seguire il destino dei nostri tempi e dei nostri mondi.
I demoni non hanno di malvagio che il desiderio di vita, che tutti condividiamo. Gli uomini hanno
distrutto la vita sulla terra, ed il Gran Demone si prende quella parte di vita che si è liberata. Noi
torneremo sulla libera terra com’era al principio dei tempi, quando più che mai in tutti gli Aethyrs
risplendeva la gloria del Grande Popolo, degli Elfi”.

Il Consiglio approvava, l’Assemblea pure, applausi.


Gli enormi pilastri del Parlamento risuonarono debolmente a quegli applausi. Pure le urla di giubilo
della variopinta folla di fuori parevano immerse nell’ovatta, come se una nebbia invisibile di
silenzio volesse insinuarsi nella festa, e mortificarla.
Ma quella nebbia esisteva solo nei cuori di Lorena, di Sentinella, del piccolo Ehtegeri, il cui cuore
copiava i battiti di quello della sua padrona; e nel cuore dei piccoli popoli sotto il coltello dei
demoni e, ora, degli elfi.
Nel cuore di tutti coloro che ebbero in Akasha o per chiaroveggenza, la visione delle feste di
Lothlorient.
Negash, nella sua armatura nera, i capelli brizzolati al vento, arringava la truppa schierata e il
popolo intorno.
Tredici battaglioni di cinquemila elfi scelti, sessantacinquemila guerrieri: il corpo di spedizione Elfo
in partenza per la terra, era schierato al completo sull’enorme piazza d’arme di Lothlorient.
Cristiana, magnifica a fianco di Negash, e dodici Grandi Draghi Rossi, nel cielo di Lothlorient, a
simboleggiare la stretta Alleanza col Gran Demone, con l’oscuro.

Le armature dorate scintillavano al sole, un sole così brillante come non si vedeva da anni, e una
leggera, frizzante brezza: meravigliosa opera dei maghi di Negash. Grande energia.
La battuta di moda, tra gli spiritosoni un po’ bastian contrari era che tutta quell’energia veniva dal
sacrificio di qualche umano graziosamente donato dai demoni. Una primizia della guerra.
Di strano c’era che nessuno se ne offendeva di quelle voci, e nessuno ne inorridiva.

Quando prese la parola Cristiana si fece silenzio: nella sua bellezza si dimenticava l’antica
inimicizia coi demoni. Un fascino sorprendente per chi era stato, forse era ancora, umano.

I capelli castani, ricci, le scendevano dolcemente sulle spalle. I suoi occhi verdi brillavano più che
mai. Indossava un abito lungo e avvolgente, di sete e veli neri. Sobrio e inebriante.
La sua voce risuonava argentina sulla piazza.
“Chi siete voi Elfi, spiriti silvani cacciati dai monti della terra, esuli in questo universo per volontà
degli uomini? Chi siete se non profughi di un mondo da cui foste cacciati dall’arroganza di una
razza bruta e violenta, paga del dono di una vita che non comprende. Di una vita che ha speso
nell’uccidere, nel distruggere la vita altrui. Nel disperdere il Piccolo Popolo, nel disperdere il
popolo degli Elfi prima di far scempio degli altri, e di se stesso.

E Chi sono i demoni... I Demoni. Quale colpa può esserci mossa, se non d’amare la vita, d’amarla
sopra ogni altra cosa, più di quanto chiunque altro l’abbia amata: noi, che il privilegio di vivere non
l’abbiamo mai avuto.
Quali crimini hanno mai commesso i demoni che gli uomini non abbiano commesso?
Eppure il popolo degli Elfi si alleò sinceramente agli uomini... Che ne ricavò se non l’esilio e il
disprezzo? E come foste ripagati dal perdonare quell’umiliazione che ancora vi brucia nel cuore e
lascia perplessi tutti popoli, se non con l’oblio?

Seguiste il destino dei mondi? Seguimmo allora, combattendoci, il destino dei nostri mondi?
No, perché allora la Terra avrebbe prosperato felice: non languirebbe stuprata dalla guerra degli
uomini, dalla vita degli uomini.

Noi, Elfi, Piccolo Popolo e Demoni: noi siamo stati fratelli. Prima nella disgrazia, ora nella buona
sorte.

Torniamo sulla Terra, e riprendiamoci ciò che è nostro: una volta per tutte!!!”

Un boato d’approvazione, milioni di piccole urla risposero dalla sterminata piazza, gremita di
popolo e di soldati.
L’urlo di Guerra dei battaglioni schierati sovrastò tutti.
I Draghi Rossi, come stabilito, rimasero in silenzio.
Cap VII

Anime

Torrione di mattoni rossi domina la pianura.


L’ala sudorientale del mastio era squarciata dai colpi che gli uomini si erano inferti durante l’ultima
delle loro guerre, ma la torre era intatta.
Non particolarmente alta, tozza e squadrata, parapetti e merlatura ornati di pietra chiara.
Intorno era solo il vento silenzioso, la polvere sulle strade asfaltate e inutili. L’erba seccava nei
campi e nelle risaie non più che sulla mensola delle finestre. Ma il cielo era azzurro come sembrava
non fosse mai stato, e com’era da sempre, in autunno, a Briona.

Zeffiro si era ricavato un appartamento all’ultimo piano della torre, giusto sotto le merlature.
Un appartamento piccolo e confortevole: tranquillo. Gli era sempre piaciuta quella torre, e dopo che
tutte le proprietà tornarono alla Terra, decise di farne la sua dimora.

<<Ti Piace?>>
<<Sì...>>, rispose Lynn, stanca nel languore della convalescenza.

Dal letto osservava il blu del cielo, il giallo delle pianure, il sole: un’ampia vetrata copriva il lato
Sud, davanti al letto d’ottone e lenzuola bianche.
<<E’ Bello>>, soggiunse. Più parlando a se stessa che altro.

<<Molto tempo fa compresi come non ci fosse spettacolo più bello dello spettacolo del nostro
universo; come nessun pensiero, fantasia, macchina o incantesimo potesse paragonarglisi... Se una
cosa è realmente preziosa è preziosa in sé. Non importa quanto sia comune o facile da raggiungere:
pare sia sempre stata la più negletta delle mie convinzioni>>, sorrise Zeffiro.

Lynn lo osservava alzandosi un po’ dal cuscino, attenta.


<<Parlami ancora del piano di semplificazione, della guerra>>.

Zeffiro sprofondò nella poltrona che era accanto al letto, lasciando che lo sguardo si perdesse nella
pianura.

<< Neppure io so esattamente come sia andata: Akasha è confusa, un affastellarsi errori di e di
possibilità. Ti posso raccontare quello che ho vissuto in quel periodo, i miei ricordi.
Ti va?>>, non era una domanda.
Lynn sorrise.

<< Dodici anni fa, secondo il calendario dei popoli ‘occidentali’ (una delle civiltà del nostro
mondo), entrammo nel tempo contrassegnato da un nuovo millennio: 2000, una cifra tonda con tre
zeri.
La cosa non impressionava nessuno: io campavo facendo il commesso in una libreria di Milano, e
da poco avevo iniziato lo studio delle tecniche spirituali.

Ero un buon dilettante della meditazione, forse della visione a distanza.


Cercavo la saggezza, un equilibrio che non fosse l’appagarsi della mia vanità.
Con alcuni altri che la pensavano allo stesso modo fondammo un circolo, sede l’appartamento
milanese di uno di quegli amici.

Francesco Belladonna si unì al gruppo di lì a poco: era eccezionalmente dotato, più che tutti noi. In
realtà non gli insegnai nulla che non avrebbe potuto trovare da sé su libri di meditazione e trattati di
parapsicologia. Ma Francesco aveva sempre trascurato, o represso i suoi talenti: ne scoprì la natura
grazie a noi, e grazie a noi imparò a padroneggiarli. E l’influenza del suo esempio aiutò anche noi a
fare progressi>>.

Lynn guardava Zeffiro senza proferire parola, le labbra socchiuse.


<< Se vuoi che passi subito al nocciolo...>>
<<No, no... mi interessa. Non dico niente solo perché non conosco la storia... Mi interessa, vai
avanti>>, le gote di Lynn presero un po’ di colore.

E Zeffiro, continuò a raccontare.


<<Bene... per qualche mese tutto continuò com’era sempre stato: vedemmo qualcosa sulla morte di
Hannah Stauffen, percepimmo qualche nebuloso presagio del futuro. Niente di chiaro, o degno di
nota, al nostro tempo.
Racimolai un po’ di quattrini, e mi permisi un viaggio di quindici giorni negli Stati Uniti, nello
Utah, dove si teneva quello che pareva essere un ‘serio’ corso di meditazione.
In effetti non si trattò che di rimanere isolati per dieci giorni, in tenda, sugli altipiani ed eseguire il
piano di esercizi disposti da una specie di lama eretico.

Mi piaceva stare solo lassù, solo sotto il cielo stellato. Era come prendere atto della solitudine che
mi portavo nel cuore in quel tempo, e la cosa mi faceva stare meglio.
Passai i giorni a respirare il vento e sospirare alle stelle, con l’erba ce mi frusciava sotto i piedi.

Poi venne l’ora di tornare alla ‘civiltà’: doveva passare a prelevarmi un fuoristrada. E non passò
nessuno.
Scesi, camminando, verso la città: Silktown.
Vi trovai... incontrai pick-up e camion carichi di cadaveri, di morti affastellati.

Civili armati, contadinotti in giacche a quadrettoni, uomini e donne, si urlavano ordini qua e là,
imbracciando i fucili, uccidendosi a vicenda: forse a caso, forse seguendo un piano.

Camminavo per le vie di quel paesotto, nel puzzo del sangue e della morte: senza che nessuno
badasse a me, e senza badare a proteggermi da nessuno.

Era un viavai di macchine, elicotteri militari in dubbiosa perlustrazione. Mucchi tremolanti di morti
su cui si gettavano altri morti, qualche macchina incendiata, immondizie rovesciate.
E negli occhi della gente rabbia, e odio come non credevo fosse possibile leggervi>>.

Zeffiro tacque solo per ricominciare a parlare, la voce un po’ più bassa, lo sguardo perso.

<<Mi impadronii di un furgoncino abbandonato: un furgoncino blu, con la porta spalancata e la


chiave nell’accensione; il muso sulla strada che portava a Salt Lake City: pareva mi chiamasse...

Guidai per un paio d’ore, senza incontrare nulla: né uomini, né mezzi. Ma nella città le stesse scene:
morti ovunque, spari e sangue.
Rubavo i discorsi della gente, i discorsi di chi si alleava per uccidere, e le parole di qualche
morente.

C’era un gruppo, come una setta, che uccideva. E quel gruppo erano tanti, il più della popolazione.

Eppure l’aeroporto funzionava: per chi uccideva - ed erano i più - tutto normale, tranquillo,
comune... erano giorni come gli altri. Solo che bisognava uccidere... non i non membri della setta
(perché potevano diventarlo, forse uccidendo) ma quelli che per qualche ragione si sapeva non
avrebbero mai potuto entrarne a far parte.

Non so perché, per quale incosciente fortuna , ma nessuno mi notò, ed io continuai a muovermi in
quel macello come un turista allo zoo.
Mi dicevo che non era tutto così: che erano impazziti lì soltanto. Dovevo prendere l’aereo:
l’aeroporto sarà sorvegliato...
Arrivai all’aeroporto che ormai mi ero abituato al sottofondo di spari, agonie e pianti.
Oltrepassai la porta automatica di vetro scheggiato per incontrare lo sguardo di una donna bionda:
una ragazza dagli occhi chiari se ne stava seduta nella sala d’attesa vuota e ombrosa con apparente
tranquillità. In qualche modo capii che era come me: per qualche ragione salva dalla follia e folle
d’incoscienza.

E folli desiderosi di uccidere ci fingemmo per arrivare a volare sull’aereo in partenza: una hostess
con l’M16 a tracolla diceva che il biglietto si pagava “uccidendo uno di quelli che non volevano”.
Non lo diceva con calma: i suoi occhi brillavano come un drogato che ricordi la sua ultima dose, e
ne pregusti una ulteriore.

Ci condusse con lei, in un magazzino sotterraneo stipato d’armi. Non fosse stata quello che era, la si
poteva definire una bellissima donna.

Scendemmo un paio di rampe illuminate al neon, poi un corridoio: l’hostess sbatté violentemente
sul pavimento, schiacciata da un peso immane. Poi il suo corpo prese a rimbalzare sulle pareti,
sfaldandosi come una bambola di porcellana.
Rimanemmo lì a guardare, imbambolati. Poi vidi cos’era stato: un baluginare nell’aria, una nebbia,
un cristallo fatto di nulla che definiva un collo lungo e due enormi mascelle: un parassita astrale
passato sulla terra seguendo l’odore del sangue. Mi guardò, per un istante, e poi scattò verso di me,
nell’accelerazione dell’incubo.
Sentivo la mano della mia amica dai capelli biondi tremare dentro la mia mano sinistra.
Quando la creatura mi si fece incontro poggiai la destra sulla sua mascella: percepii la sua rabbia, e
la dispersi facendola scivolare nel mio corpo, nel cuore grande della terra.... non so come ci riuscii,
ma ci salvammo.

Dopo aver affrontato la creatura tornammo a passare inosservati: il primo aereo ci portò a Parigi.
Soldati ovunque: una quarantena in un campo militare, esami psicologici.
Ci liberarono dopo una settimana: solo noi.

La mia amica si chiamava Erika, di Lipsia. Ci salutammo con un abbraccio di buona fortuna, senza
troppe speranze.
Io tornai a Milano.

Non vi accadeva nulla di speciale. Tanta polizia, militari a controllore comportamenti violenti o
inusuali, quarantene preventive: tutti ci fecero presto l’abitudine.

Morì un mio conoscente: Gregor Samsa, il nemico di Francesco. Lo videro andare in pezzi nel
mezzo di Corso Vittorio Emanuele, ma avevo già perso i contatti con Francesco e Laura: non
sospettai fosse così forte...

Il timore era la guerra: che il ‘male’, che quella malattia arrivasse alle alte sfere. Non si capiva ciò
che avveniva in America.
Le frontiere degli Stati Uniti vennero chiuse poco dopo il mio ritorno: per evitare un’epidemia
planetaria il Pentagono ordinò la distruzione di tutti i mezzi aerei civili, e l’affondamento delle navi
civili nei porti: i telegiornali trasmettevano le scene con un commento di compiaciuto terrore.
Ma si capiva che anche reparti militari impazzivano, che la sovranità centrale, la gerarchia del
potere controllava sempre meno la situazione: territori, città, Stati... tutto sprofondava nell’anarchia.

Matthew Godrawn, il Presidente, quando ormai la situazione stava precipitando, assicurò in un


discorso al pianeta che i codici delle armi atomiche erano stati da tempo inattivati. A ruota
seguirono l’esempio i responsabili delle rimanenti potenze atomiche.
Intanto i casi del ‘male’ si diffondevano pure in Europa: notizie di massacri efferati dall’Africa,
dall’Oriente.

Finché avvenne ciò che tutti temevano: si mossero gli eserciti. Divisioni e armate furono preda del
male, e attaccarono le nazioni.
E non c’è quarantena quando i muri delle case si sgretolano sotto le bombe, quando gli incendi e le
scie di luce morta dei missili illuminano la notte.

La guerra avanzava ovunque, e non vi erano regole né prigionieri, né fazioni: si uccideva per
uccidere.
Nelle città, sui campi di battaglia: ci si impantanava nel sangue raggrumato, senza metafora.

E se la setta non aveva nemici esterni, si uccidevano i seguaci più deboli, e via via meno forti.

Allora arrivarono i demoni.


Noi, quelli più sensibili, avvertimmo l’apertura del piccolo portale. Ma presto se ne accorsero tutti,
anche i folli vittima del ‘male’: se ne accorsero quando i morti riprendevano vita, quando i demoni
cominciarono a uccidere per fortificare i loro corpi>>.

Lynn lesse un sorriso amareggiato sulle labbra di Zeffiro, e vi rispose con un’interrogazione delle
ciglia.
<< Eh, Lynn... furono i demoni a riportare un po’ di pace!>>, smorfiaccia di chi la sa lunga...

<<Tock-Tock!!! Si può entrare?>>, era Martina. Martina era una bambina.


<<Scusa, ma voleva assolutamente vedere un Elfo!>> si schermì Fran, la mamma; mentre Giovanni
sorrideva da dietro gli occhiali.

<<Lo sai che sei cresciuta da ieri?>>, disse Zeffiro, che coi bambini non ci sapeva fare.
<<Bugiardo!>> gridò Martina, volando al letto di Lynn: <<Così sei un Elfo?>>

<<Sì: vedi che ho le orecchie un po’ a punta?>> disse scostandosi i capelli...


<<Oooo!>>, ma non finì di dire “oooo” Martina, che si ritrovò a fluttuare qualche centimetro sopra
il pavimento, mentre Lynn le sorrideva compiaciuta; e Martina arrivò a tirarle i capelli.
Al che iniziò una lotta furibonda a colpi di solletico e risate, cui pose termine Fran agguantando
Martina, che svolazzava sopra Lynn, per il retro dei pantaloni.

Lynn si era divertita, e sfinita, pure.


<<Aspetta Martina: tieni!>>: le regalò un filo di metallo Geist. L’avrebbe usato come diadema, o
per fermare i capelli. Avrebbe cominciato a vibrare, e farsi scuro in presenza di nemici.
Ma rimase lucente tra le mani di Martina, che andò fuori a rimirare il suo regalo.

<<Mi fa piacere che tu stia meglio>>, disse Fran.


<<Sono in debito con tutti voi>> disse Lynn, seria: <<Ho carezzato il confine della vita in questi
giorni. Senza attraversarlo: Martina è splendida Fran... è valso la pena vivere per vederla>>.
Lo disse, un velo lucente sugli occhi, sopra il sorriso.

Il più sorpreso, e incuriosito, fu Zeffiro. Lynn era molto debole...


Fran stava per Francesca, mentre Giovanni era Giovanni.
A Zeffiro piaceva pensare a quei due. E ci pensò mentre Lynn dormiva sommersa dalle coperte
calde; mentre il sole tramontava sulla pianura arancione nella sera di un pomeriggio d’inverno.

E’ strana la malinconia dell’autunno, delle giornate corte: è un soffio freddo dentro al cuore, un
vento che scopre la solitudine sotto la polvere della speranza.

Francesca e Giovanni erano belli da pensare perché sono una metafora vivente della speranza: un
amore puro nella maturità, sopravvissuto alle passioni dell’adolescenza senza corrompersi né
incrinarsi. Qualcosa che il mondo aveva conosciuto di rado: a Zeffiro la fortuna d’essere certo che
poteva esistere; la fortuna di una speranza che ti scalda il cuore, nell’inverno.

Ma fuori era già notte: il fuoco crepitava nel camino. Zeffiro s’immaginò di amare Lynn, ma
quando si provò a immaginare che Lynn lo riamasse, cessò di credere alla propria fantasia
Era bello sentirsi il calore del fuoco addosso, e bello doveva essere il calore dell’amore, dell’amore
vero, di una donna.
E per quanto Zeffiro avesse conosciuto molte cose, quella gli mancava: quella, forse, non l’avrebbe
mai conosciuta.

Spesso aveva sognato di incontrare la donna della sua vita: nella visione di giardini fioriti, di
cascate luminose, di placide pianure nebbiose: in abbracci che si concludevano in un <<Finalmente!
>> gridato e sospirato.

Poi i suoi sogni mutarono: si vide attendere il métro a qualche passo da Fran e dagli amici, sicuro
che, se del caso, avrebbe affrontato la via della solitudine.

Delle dodicimila vie che gli uomini seguono nelle loro vite, tre sono le principali vie del bene, che
riassumono tutte le molte altre:
la mistica: solitario cammino di chi pone Dio al centro del proprio esistere;
la strada di chi combatte il Male per conquistarsi l’ammirazione di una donna;
e quella di chi, per conquistare una donna, incidentalmente combatte il male.

Disse anche il maestro di Zeffiro, uno spirito antico, essere nel numero di cento le chiavi che gli
uomini devono trovare per risolvere gli enigmi della loro vita. Ma il maestro parlava per metafore:
molte vie, molte chiavi. Nessuna certezza.

Essere un potente stregone conta più per chi non lo è, che per chi lo è: chi non lo è crede di
incontrare una fiaba, chi lo è sa di essere uno qualsiasi, col dubbio di non vivere la vita giusta.

Era bello immaginarsi l’abbraccio di un amore vero, che comprendesse - o almeno sospettasse- le
tempeste della sua anima, ma guardando Lynn dormiente e placida, Zeffiro ricordò che non era mai
successo per una caterva eccessiva di anni: troppi per non sospettare di essere per sbaglio finito
nella noiosa carreggiata dei mistici: <<Fa che non sia così!>>, sospirò tra se, salutando Lynn la
fatina, dolcemente addormentata.

***

<<Può capitare, mio Signore...>>, bofonchiò Flagetorn.


<<Certo che può capitare, ma non era mai accaduto dall’apertura del portale>>, replicò Cesare,
stravaccato sulla sua poltrona, accarezzandosi il mento dubbioso.

<<Così mio padre non solo ti ha scacciato, ma si è reso trasparente alla vista lontana...>>
<<Non credevo che vostro padre fosse tanto potente>>, interloquì Godnar.
<<Già>> si compiacque Cesare.
<<E’ meglio ucciderlo>>, disse Godnar, fissando Cesare negli occhi.
<<Io e solo io, ricorda, prenderò questa decisione Godnar>>. Silenzio: <<E non sarà adesso>>.

Flagetorn assisteva alla discussione incuriosito, strano luccicare d’aria tra soffitto e pavimento.
Jaqueline osservava Godnar, da dietro, e quello si sentì trapassare dalla vibrazione piacevole del suo
odio.

<<Col vostro permesso, vado a controllare i preparativi per l’arrivo degli Elfi>>, si congedò
Godnar.
Pregustava il terrore di Jaqueline quando le avesse restituito lo sguardo, e prima della porta incrociò
i suoi occhi: ma lei non cedette.

<<Neanche a me piace Godnar>>, disse Cesare, per confortare Jaqueline e pungolare Godnar, che
ascoltava tutto dietro la sottile anta delle porte, dietro quei muri così lievi, per un demone.

<<Vieni qui>>, mormorò Cesare, abbracciando Jaqueline.


E Cesare, pur sentendosi forte come mai era stato prima, avvertì una nuova paura: una paura del
futuro che prima non aveva mai conosciuto.
Temette per Jaqueline ed il suo mondo; per il figlio che sentiva crescere nel ventre di quella che
doveva essere una fattrice sterile. Sentiva di temere il Gran Demone, e Godnar, per la prima volta.

Ripensava quei pensieri e quelle sensazioni, Cesare, corrucciato nello studio rosso: la stanza
accanto a quella in cui riposava Jaqueline.
Osservava il pomeriggio al di là della vecchia finestra luminosa: il raso rosso delle pareti
impallidiva alla luce lattea del giorno.
Cesare aveva capito di amare, e di amare Jaqueline, meditando di notte sul campanile di una
vecchia chiesa. E quando comprese di amarla, decise che l’avrebbe amata: si ricordò di essere nato
uomo da uomini.

<<Capisco cosa provi>>, disse Aithyn: solo Aithyn sapeva sorprenderlo, e si divertiva a farlo.
Cesare arrivò appena a riscuotetersi, che subito dovette ascoltare:<<Anch’io ebbi dei figli umani>>
dalle labbra di Aithyn.

<<Quanto sei antica tu, Aithyn? Forse più del più antico dei demoni...>>
<<Il corpo in cui cammino non è mio Cesare. Apparteneva ad una fanciulla: triste fanciulla.
Isabelle si chiamava, figlia di Etienne d’Anjou. Infuriava la guerra sul disgraziato Ducato di Tolosa,
la guerra voluta da Innocenzo III per convertire e sterminare i catari, e la guerra si prese il giovane
Bertrand. Era un bel giovane Bertrand, un lupo nero dagli occhi verdi, un lupo trapassato da una
lancia, in una radura della Provenza. E giovane era Isabelle, così ardentemente giovane...
Incontrò un ponte di pietre, un fiume placido proprio quando le lacrime erano più amare, il cuore
più pesante, la rabbia più forte... e nel fiume Isabelle morì.

Aleggiavo su Marsiglia, vidi l’urlo, e l’anima di Isabelle, e vidi questo bellissimo corpo galleggiare
senza l’alito della vita sulle acque brune. Volli vivere: per la prima volta da che presi ad esistere
desiderai non essere più un soffio del vento, un riflesso d’argento nel cielo d’inverno.
Tu non puoi immaginare quanti secoli ho guardato gli uomini senza capire. Non capivo loro e non
capivo me, priva del sentimento di me stessa. Ero come una rete a maglie larghe, e il mondo mi
passava attraverso senza lasciare tracce: non avevo desideri, né rimpianti...
Eppure quando vidi l’anima di Isabelle fuggire via, proprio la sua di infinite che ne avevo viste,
provai la tristezza e la rabbia per quella vita così preziosa gettata senza una ragione che non fosse il
greto di un fiume tranquillo.

Io capii che la mia vita infinita non valeva un respiro nel corpo del più miserabile dei cani, e decisi
di vivere la vita di Isabelle, di vivere la dolce malinconia degli uomini... e così mi dannai>>.

<<Per questo servi il Gran Demone, vero? Per questo... tu non potevi farlo...>>

<<No... io sono potente, quasi quanto il Gran Demone, più di te Cesare, più di Godnar e degli altri
miserabili che... ma non potevo farlo. Ero inesperta di desideri, ed accondiscesi al patto del Gran
Demone: fedeltà.
Ma non rubai il corpo: Isabelle me lo concesse.

Mi trasse a riva un pellegrino: un uomo folle. Un po’ mago, un po’ cantastorie e un po’ guerriero.
Più che altro cantastorie. Mi innamorai al primo sguardo, ed egli si innamorò di me.
Vagavamo nei boschi, gimcanando tra le battaglie. Mi ammirava: ammirava la mia saggezza. E io
scoprii il senso del mio respirare nel guarire i malati, aiutare gli uomini...
Diedi due figli al mio cantastorie: ero una donna, una madre. Conobbi la felicità che tu solo ora
cominci a conoscere tra le braccia di Jaqueline...

E il Gran Demone lasciava fare, non c’era. Gli ero grata addirittura, forse.
Vivevamo in villaggio, amati da coloro che curavo, e per noi tutto era... allegria>>
<<Poi arrivarono i cavalieri del Papa, del Signore di Montsegur, arrivarono i Franchi spietati>>.

Aithyn piangeva: già da un po’ le lacrime rigavano il suo bel viso.


Lo sguardo si perdeva nel passato... nel passato.

<<Io non avevo paura: sapevo di essere potente, di saper combattere. Li avrei difesi tutti: i miei
figli, il mio amore, i miei amici. Non avrei neppure ucciso: avrei reso invisibile il villaggio, o
intenerito i cuori dei cavalieri, o li avrei fatti volare lontano... Chissà.

Dissi di non chiudere le porte. Li confortai con un sorriso, e tutti si fidarono. Uscii sulla radura. Mio
marito (sì, ci sposammo) era al mio fianco, la mano sull’elsa della spada: non si fidava mai più che
tanto, e lo prendevo in giro.

Di fronte a noi, a meno di mezzo chilometro, il prato era calpestato da cavalli corazzati, da soldati
impolverati. Vidi Montsegur abbassare il braccio e lanciare la carica.
Io levai la mano nel mio incantesimo, e sentii che non sarebbe accaduto nulla, che non accadeva
nulla.
Bruno... Bruno capì. Mi disse “corri, corri nelle mura”... e mi disse “Ti amo”. E io lo sapevo,
sapevo che era vero... Mi spingeva via, e non me ne andavo.
Arrivò un cavaliere al galoppo: Bruno schivò la lancia, e abbatté il cavallo lanciando dentro la terra
quella massa di ferro. Poi altri due... poi vidi una lama uscirgli da dietro la schiena.
Vidi la sua anima trascinata via. E allora mi accorsi che i cavalieri non mi vedevano.
Corsi dai miei figli, e vidi che li uccidevano nel sangue dei miei amici.

Sapevo che era stato il Gran Demone a organizzare tutto. Allora lo sfidai, lo cercai.
E la tristezza divorava anche il ricordo della gioia.
Il dolore che provavo era merito degli uomini, del mondo. E ciò per cui avevo amato quella vita era
morto. Così odiai quella mia propria vita, e la vita di tutti.
Desideravo di morire, ma non potevo, e maledicevo la mia esistenza, e l’esistenza tutta.
Allora il Gran Demone mi venne a trovare: se l’avessi servito fino al giorno del suo arrivo qui, sulla
Terra, mi avrebbe concesso di morire. Di cessare di esistere>>.

Aithyn non piangeva più.


Cesare si sentiva formicolare il cuore. Più che paura... battersi svantaggiato... Jaqueline...

Ma Aithyn non lo vide: guardava il pavimento altrove, a comporre i pensieri e le parole.


Poi fissò gli occhi negli occhi di Cesare, e se pure non se ne rese conto, per un istante Cesare guardò
Aithyn come la Terra guarda il Sole, come un bambino piccolo guarda la propria madre.

<<Il Gran Demone volle che ti allevassi io, che conoscevo gli uomini, per cancellare la tua umanità
senza renderti folle. E questo perché credeva che io avessi bruciato ogni traccia di umanità, in me.
Invece nell’allevarti sono tornata ad essere madre, e nell’amore tuo e di Jaqueline, ho ricordato il
mio amore.

Io tornerò a combattere il Gran Demone, Cesare. Ho ricordato quanto sia bello vivere, e sarò felice
di morire per difendere la vita.

Tu che farai?>>

Jaqueline era entrata nelle stanza: si fermò sullo stipite della porta. I suoi occhi brillavano,
supplicando Cesare.
E Cesare sentiva una paura folle: paura di agire. Paura di lasciare il Gran Demone, il tutto di una
vita.
Ma le avrebbe perse entrambe: re del mondo, ma solo. Jaqueline unicamente schiava.
La certa sconfitta contro il Gran Demone, i rischi per Jaqueline e il bambino.

Il freddo ricordo della solitudine...

Accadde tutto in un istante. Un istante in cui Cesare scoprì aver già scelto da molto tempo, dal
giorno in cui salvò Jaqueline dal sacrificio. Dal giorno in cui pianse per il destino di suo padre.
La paura non c’era: il cuore batteva d’eccitazione, di voglia di vivere.

Sorrise Cesare, rise, sghignazzò con Jaqueline che gli piangeva tra le braccia.
Inebriante attimo, scoprire il proprio destino.

Cap VIII

La Strega Nera

D'improvviso sentì freddo, ma su Lothlorient aleggiava una notte calda, quasi afosa.
Folate di freddo: ombre nella tenebra.
Una tenebra più spessa, che schermava le stelle di là della finestra spalancata, che si insinuava tra i
broccati rossi del baldacchino, facendoli risplendere come sangue alla luce della morte.
Era come se quella soffice tenebra s'insinuasse ovunque, e la carezzasse fin sotto la pelle, fino alle
ossa.
Cristiana Dena riconobbe quel tocco: il richiamo del suo Signore. Non di Cesare: del gran demone.

Si inginocchiò sul letto, nuda: i lunghi capelli sciolti sulle spalle, più brillanti che mai i verdi occhi.
Pronunciò le sue impronunziabili bestemmie, in una lingua che non si penserebbe la gola di un
essere umano possa pronunciare.
Sospirò, e si cinse il capo di un diadema con incastonato, sulla fronte, un diamante azzurro tagliato
in foggia di dente di drago, e un rubino giallo: l'occhio del drago.

Come lo fece, precipitò nel nero assoluto dell'Universo del Gran Demone: un buio opprimente di
dolore e sofferenza, pregno del sudore della rabbia, del puzzo della vendetta: un mondo di doloroso
rancore.

"Mio Signore, Oscurità.... gli Elfi muoveranno una guerra meschina sotto le nostre bandiere, ed
Gran Portale presto ti porterà sulla terra..."
"Il Gran Portale non mi porterà sulla Terra".
"Sei sorpresa mia serva? Il Gran Portale ha svolto il suo compito, di maledire ancor una volta la
terra nelle lacrime dei suoi figli, che hanno rimpianto la vita come poche volte prima. Il Portale
serve alla Sofferenza degli ultimi uomini, non alla mia trasmigrazione...

Taci! E Ascolta!
Cesare è figlio di uomini, con l'anima di uomo. Bene ha servito, finora, ma l'umanità che è in lui -
sento ciò che ho previsto - mi si rivolta contro, ogni giorno di più.
E' scritto che siano gli uomini a recare il Male sulla Terra, ed Egli ha ben svolto questo compito,
disciplinando e regnando spietato sui miei sconsiderati e folli demoni.
Ma il suo tempo è trascorso.

Ed il Mio giunge: nulla esiste, tra i viventi, che possa contenere la mia oscurità.
L'anima nera del parto di donna che io avrò generato preparerà un corpo a sostenermi.
Vuoi essere tu quell'infame figlia del sole della Terra? In cambio reggerai i mondi della Terra e
degli altri viventi in nome mio".

Cristiana Dena accettò. Con entusiasmo.

************************

"Ed ora?"

"Ed ora?", si ripeteva.

"Ad ogni respiro sento il rimorso divorarmi un pezzo di cuore"

<<Ma se è libero, se non gli è toccato in sorte di morire, o di perdersi nell'incubo della propria
follia; se è accaduto che dovesse nascere e odorare la terra, e guardare il Sole; e dopo la notte
terribile del Male che ha cercato e creato e inflitto, torna a scorgere il sole ed odorare la terra... non
ci sarà un fine?>>

"Sono carne e sangue delle mie vene, vita che anela morte. Un ultimo sacrificio di sangue al mio
dolore".

<< vendicare il suo Male con la giustizia di almeno una, una sola azione...>>

<<Tu vaneggi: la sua stessa anima è marchip d'infamia: nera notte di amarezza>>

Francesco Belladonna sedeva sul prato bagnato, in una mattina di pioggia. Cielo grigio, erba
marcia: tutto sfocava rimescolandosi sotto il bordo convesso di quel cielo annebbiato.
Parlava da solo, al vento brezzoso.
E Tante voci rispondevano, dal dentro della testa.

Francesco Belladonna pensò anche questo: Sognava di fantasticare: di perdersi nel sogno di un
futuro limpido, diverso dal futuro del suo passato. Dimenticare se stesso, e cedere ai sogni.

<<Eppure tutto il suo Male, tutti i suoi errori erano stati quello: non vivere l'unica vita per drogarsi
con le illusione del futuro>>.
<<Non è forse il più comune dei peccati?>>
<<E' l'abomionio più triste: l'uomo dal cuore di bambino. Solo egoismo e paura, non onore, dignità,
né coraggio... schiavo dei suoi demoni...>>

Un'eternità di anni prima.


Si rivide quando scoprì la sua donna nuda tra le braccia di un altro...Allora fu come se gli si
disfacesse il mondo attorno, adesso... che dolore lieve, uno starnuto. Lo starnuto di moscerino
confrontato al dolore che il cuore di un uomo - il suo cuore - avrebbe potuto... avrebbe accolto.
Quasi se ne compiacque.

Seduto, immobile su una collina verde a guardare il cielo farsi azzurro, a guardare le nuvole che lo
coprivano, a guardare la luce grigia della pioggia fredda che lo infradiciava.
Seduto, mentre il mondo prendeva i suoi contorni.

<<tacete! Tacete! TACETE! TACETE BASTARDI!!!!!!!!!>>, urlò: quasi un rantolo.

Il cuore gli batteva forte.


Non fu per Laura che si era dannato: non fu per lei.
Non fu per Laura se aveva preso ad odiare il giorno della sua nascita: "Per la mia vigliaccheria, la
mia debolezza... ho seguito la solitudine fino nei più assurdi abissi del Male".

<<Che Destino schifoso! SCHIFOSO!>> urlò ancora, percuotendo la terra, bestemmiando il cielo.

<<Così sei diventato potente!>>, dissero le voci.

Francesco prese a camminare. Senza pensieri.


CAP IX
Sogni

<<Coltivi troppe speranze su quell'uomo Musheveli...>>


<<Sono un uomo Ooya: sarei potuto essere lui...>>
<<Ed io sono un Troll, figlio delle foreste di Cardonia: e potrei giurare su tutta la mia stirpe che tu
non saresti mai lui! Francesco Belladonna è malvagio.>>

Musheveli se ne stava seduto con l'aria crucciata, poggiando la schiena sul lato ombroso di
un'assolata betulla: un colosso nero da cranio rasato e la barba curata, vestito di un'ampia tunica di
seta blu.

Ooya era un Troll della stirpe di Ghedano, un guerriero: cappello nero a tese larghe, lungo naso,
occhi di lupo. La pelle pareva legno chiaro: nero il mantello, e pure il ferro della spada.

<<Zefferino...>>
<<Zeffiro si chiama...>>
<<Sì, Zeffiro è potente. Lynn di Goan una discreta incognita. Tu. Aithyn offre alleanza, garantisce
per Cesare: difficile fidarsi>>.
<<Ottimismo, Ooya...>>
<<Grazie, lo lascio ai sognatori... dicevo... Forse questo Belladonna... E contro sicuramente:
Cristiana Dena, molto potente - più di quanto tu non creda -... Godnar: io l'ho incontrato, e non ti
auguro altrettanto... Poi Negash con l'esercito degli Elfi, e il Gran Demone...>>

<<Suggellare alleanze, complicità, rastrellamenti... di che? Avrebbe senso sapendo per certo Cesare
traditore, ma fu Cesare a organizzare la spedizione...>>
<<Gli Elfi sono timidi e romantici Musheveli: crederanno nel Demone per non vergognarsi di
esserci giaciuti assieme... Comunque sia arriveranno, e spazzeranno quel poco che è rimasto...>>

<<E i Troll?>>
Ooya sorrise i suoi denti aguzzi, e bianchi.

<<Hai mai visto la guerra Musheveli? Una pallottola o un incantesimo ti staccano la carne di dosso
allo stesso modo... Non vogliamo la guerra>>.
<<Ho visto la guerra da lontano, non l'ho vissuta, ma vi capisco...>>

Da lontano Musheveli vide la sua donna sbracciarsi ad annunziare il pranzo pronto.


<<Vedi Ooya: siamo sopravvissuti isolati. Nascosti dal mondo. Non so se ho fatto bene... Siamo
vissuti bene, dietro all'oblio del deserto, mentre il resto del mondo cadeva, e l'ho visto cadere>>.

<<Perché vuoi perdere tutto proprio adesso? Credi che ora ti troveranno?>>

<<Mi troveranno perché non vogliamo più nasconderci: guardiamo gli anni aggiungersi agli anni, e
sappiamo che moriremo come folate di vento, senza restituire il favore al mondo che ci ha accolti,
perdendoci in questo sogno, come Francesco avrebbe voluto perdersi nei suoi sogni...>>

<<Anche tu... Non capirò mai perché la voglia di vivere debba sempre concupire la distruzione: hai
nascoste molte persone nella tua nebbia d'oblio, hai usato bene i tuoi poteri, e ti senti in colpa per
non avere ucciso e distrutto. La gloria è alimento per i mangiatori di merda>>.

<<Porti una spada alla cintura Ooya...>>


<<Sia per difendere i più deboli, per la più nobile delle cause, fosse pure per ordine espresso del
Creatore, non c'è... è umiliante uccidere Musheveli, fosse pure la mezza vita di un demone>>.

<<Allora tutti noi, pure voi Troll, ci lasceremo allegramente sbudellare dal Gran Demone?>>

Arrivarono alla tavola imbandita sotto un grande telo bianco.


Un tavolo di legno, spesso e pesante: un noce scuro, coperto d'intarsi lunghi ed eleganti. Volute
suadenti si perdevano nel rilievo incavo di foglie di platano: le foglie reggevano i piatti, e nelle
volute i bicchieri. E il tavolo stava su un prato fiorito, di tulipani e papaveri, steso ai piedi della
lunga baita di pietra dal tetto di pietra: una casa perfetta, in quel piccolo mondo perfetto.

Il figlio di OOya, Uhti, e gli altri sei trool della sua scorta consumavano le loro pietanze poco
lontano, nell'ombra luccicante di un'enorme quercia verde.
A chiacchierare con loro c'erano quattro uomini e tre donne tra i trenta e i quarantacinque anni, più
alcuni ragazzini curiosi.
Uhti parlava col piatto in mano, in piedi, appoggiato all'albero: lo divertivano quegli occhioni
curiosi e variopinti. Leggeva anche paura in quegli sguardi, e ciò lo divertiva ancora di più.
Uhti era diverso da suo padre. Un metro e ottantacinque (un gigante per i troll), le sue mascelle, il
suo volto, erano quelle del lupo. Portava una criniera fluente, ed una lunga coda color della notte:
semplice armatura di cuoio ornata di pietre colorate, lunga spada leggera al fianco, mantello rosso.
Terribile a vedersi.
<<No... non è un consiglio di guerra. Mio padre e il signore Musheveli sono amici da tempo. E' un
incontro tra amici>>. Una voce meno cavernosa di quanto ci si potesse attendere, ma decisa.
<<Sei un lupo?>>, domandò un bambino.
<<Sono un Troll della stirpe di Ghedano... un po' lupo, ma solo un po'>> sospirò Uhti.
<<Non ti da fastidio la coda?>>

<<Guarda laggiù, Musheveli>>, disse a un certo punto OOya, indicando la quercia.


<<Vedi quel gigante appoggiato all'albero? E' mio figlio Uhti. E vedi quel bambino che piange
trascinato da sua madre? E' Uhti, molti anni fa.
E' vero: prima o poi il tuo incantesimo sarà scoperto, ed anche questo pezzo di mondo insozzato dal
Gran Demone... no... lasciami finire.
Il Consiglio è d'accordo, è sicuro. Per questo sono venuto... Ti accoglieremo nel nostro mondo: te e
la tua gente>>

<<E gli altri Ooya? Siamo neppure un centinaio... e gli altri sulla Terra? Li dovrei lasciare...>>
<<Voi ci avete scacciati... nelle foreste più oscure, negli antri umidi. Ci cacciaste e ci uccideste. E
fuggimmo in un mondo nostro... è difficile aprire la porta di casa al tuo assassino>>
<<Il Gran Demone è nemico vostro quanto nostro: combattiamolo qui, e sarà salvezza anche per i
Troll>>
<<Sarà la fine anche per i Troll, e basta>>.

**************

<<Qual è la fonte della magia degli elfi?>>


Lynn si voltò verso Zeffiro stupita: camminava pensierosa, le mani dietro la schiena. I capelli
sciolti, sprofondata nelle volute rosse e blu della sua tunica. Stese nel vento il mantello arabescato
d'oro e si stiracchiò: era davvero bella.
<<Noi siamo così>>, disse, sorridendo al sole.

Camminavano sulla strada polverosa che unisce il castello a Briona: la pianura silenziosa si
scaldava nel sole ormai basso. Ma il cielo era di cobalto, solcato da qualche nuvola piatta e chiara.
C'era vento, e Lynn di Goan, ormai guarita, se lo godeva.

"Voglio leggere le carte ancora una volta". L'aveva detto a se stesso Zeffiro, molti anni prima.
"E per che cosa", si era soggiunto..."Per illudermi?".
Sì. Si illudeva nelle carte. "Mi inventavo il futuro"... lo ripensava spesso, quel tempo. Così sprecato,
così rimpianto, e così difficile... difficile dominarlo, se anche ci fosse tornato.
"Nostalgia e rimpianto sono per chi non ha vissuto", si ripeteva allora, senza convinzione. Come i
suoi capelli ormai imbiancati, impolverati di tempo.
Gli pesavano, a volte... sciocca vanità, con più nulla a giudicare. Ma... era come portare
un'onorificenza immeritata. Ne traeva solo imbarazzo.

Guardava Lynn di Goan, così terribilmente bella, e ripensava a sè, chiuso nell'egoismo del suo
passato, all'inesorabile sciogliersi dei mille volti che aveva trascurato e dimenticato, al nulla che
aveva dato...
Zeffiro, Zeffiro: un corvo gli strappa brandelli di cuore quando si stende nella notte buia, e non
dorme. Solo da sempre, libero. Solo.
Nessuno da rimpiangere, nessuno che potesse rimpiangerlo.

Si guardava i piedi, gli scarponi neri e infangati che si alternavano sulla terra incatramata. E vedeva
il drappeggio arioso della veste di Lynn infrangersi sulle sue caviglie, sulla linea delle sue gambe.
Alzando lo sguardo incontro gli occhi di lei: infinitamente e dolcemente verdi, e profondi.
Le strinse i fianchi e la baciò. Assaporò la sua bocca, il profumo della sua pelle, il suo calore...
stretta tra le sue braccia.

<<Ti amo>> non voleva, e non riusciva a non dirglielo. E glielo diceva mille volte e altre ancora: e
facevano l'amore lì, su quei campi...
O forse lei se ne andava, senza una parola: fredda e stupita insieme.
O forse si era divincolata, arrabbiata e offesa...

La guardò: guardò i suoi occhi verdi, e non fece nulla.

"Perché?", se lo chiedeva: se stesso sul letto, notte di romantica luna. Le stelle più luminose.
Stranamente, incredibilmente luminose, di là del tetto.
Pensò a Lynn: al suo corpo e al suo sorriso; a quanto l'amava e quanto nulla egli valeva. Immaginò
futuri terribili e meravigliosi.

E poi, quando stava per riaddormentarsi..., una cosa sopra tutte lo sorprendeva: per la prima volta,
dopo un tempo di... di tutta una vita, aveva sperato. Realmente e tenacemente.
La Tristezza del mondo sparita.
E così, con quella gioia nel cuore si riaddormentava.

<<SVEGLIA!>>
<<SVEGLIA>>, e l'infermiere lo strattonò.

Il cuore in gola gli batteva forte, mentre metteva a fuoco quella faccia grassa contornata di bianco,
gli occhietti azzurri tra pieghe di beige ghignante...

Lo strattonò ancora: lo tirava per un braccio, bofonchiando qualcosa, mentre la sua mente vagava,
ricordava il sogno.
La tristezza tornava, dopo che l'aveva cacciata: si sentì arrabbiare.

Sulla sua pelle, sul suo viso sentì scorrere un'onda di rosso, poi pallore, e poi ancora rosso ascoltò se
stesso urlare, urlare forte, piegato in avanti, le braccia allargate. Le dita delle mani si contraevano
spasmodicamente, preda della rabbia.

I due enormi infermieri avevano fatto un passo indietro: conoscevano la forza dell'uomo... urlavano
anche loro, per chiamare rinforzi.
E gli altri, gli altri accoccolati sui letti, sui divani: gli altri nudi o in pigiama che strusciavano i piedi
nei corridoi. Anche gli altri cominciarono a urlare, a ridere e a piangere...

E un infermiere gridava, col naso rotto che fiottava sangue, e imbrattava il muro bianco di quella
stanza fatta di bianco illuridito. E tutto si fece rosso.

L'uomo sentì tornò a dormire: sciolto nei sedativi, legato a un letto.

Allora, alle 7 e 28 di un mattino comune, Zeffiro si svegliò.


E risvegliandosi da quel sonno inquieto vide chiaramente quanto strano fosse il suo mondo di
demoni , draghi, elfi e potenti maghi, quanto normali fossero i suoi incubi.
Era la sua stanza, sulla torre del castello di Briona: altro non poteva essere.
Era Zeffiro Circassi: uomo sopravvissuto e sopravvivente.

Respirava pesante, scosso dall'emozione dei sogni. Osservava il fuoco arancione dell'alba
attraversare la stanza, dipingere d'arancio le pareti bianche, di brillante nero i mobili scuri, d'oro la
trapunta gialla.
E rimase lì, seduto sul letto, ad aspettare lo svanire di quella magia, ad aspettare la luce giallo
bianca del sole d'inverno: e quella luce di bianco nulla si rifletteva nel suo stato d'animo: vuoto e
stanco.

Per colazione Lynn si era alzata: il veleno dell'incantesimo si scioglieva pian piano, e le forze,
seppur lentamente, tornavano.

Zeffiro la osservò, a lungo: e si accorse che il suo cuore gli batteva indifferente nel petto.

E Lynn di suo osservava quel piccolo mondo: la piccola Martina, Fran, Giovanni e Zeffiro. Tutti un
po' seduti, un po' a scodellare.
Rumore di piatti e bicchieri: che palle per un guerriero. Si fissava la scodella ricolma di tè caldo e
trasparente: foglioline scure si rincorrevano sul fondo.
Era stata una notte strana, come gliene capitavano spesso nella noia della convalescenza, ma
peggiore del solito. Si era immaginata libera da qualche parte ad amare qualcuno: si era accorta di
non conoscere alcun qualcuno, e che 'da qualche parte' non era Lothlorient.

Vivere per servire, servire l'Armata, il suo popolo, Lothlorient... quanto poco contava una vita... la
vita di interi popoli in quel guazzabuglio di mondi che collassavano uno sull'altro.
Com'era fragile la vita, tanto amata e cercata da tutti, e distrutta per questo. E per lei... per Lynn
spesso, sempre più spesso non contava: non ci teneva granché.
Un tempo, un tempo non lontano, ricordava come si sentiva felice, orgogliosa alle lodi del
comandante, alle menzioni di merito: null'altro contava.

Ora nulla contava. Alle foglioline scure nulla importa comunque, e rallentavano per adagiarsi con
eleganza sul fondo del tazzone. Lynn bevve un sorso: l'attraversò il pensiero di tradire il suo
governo, i suoi compagni e unirsi ai popoli della terra per combattere la battaglia già persa contro il
Gran demone. Appoggiando la tazza sorrise tra sé: non la inorridiva quel pensiero, non più. Non
gliene importava.
Era criminale, bandita dalla società e dal mondo, almeno in potenza: assaggiò quel sapore nuovo, ed
il gusto le piacque.

Zeffiro si taceva, perso nei suoi pensieri.


Cap X
Mondi

Sette Sorelle,
Sette Mondi,
Sette Pianeti a Sognare la Terra.

Sogna la Dea del tempo passato,


Sogna il futuro che non è mai stato.
Camminava. Camminava per un sentiero boscoso, tra rovi e pioppi. Un luogo cupo, tra lago e
fortezza. Una fortezza antica, di pietra e mattoni.
C’erano i cartelli di “Zona Militare Limite Invalicabile”, arrugginiti e corrosi.

Camminava sul sentiero ghiaioso, e ascoltava mugolare della ghiaia sotto ai suoi piedi.
E ascoltava il silenzio tutto intorno a quel mugolare.
Si fermò fuori dal bosco, sul limitare di una sterminata piana erbosa. E guardò il cielo.

Francesco Belladonna. Si ricordava del suo nome, e ricordava una vita che non l’aveva mai più che
tanto attratto. Sentiva disperdersi ogni desiderio nel suo cuore, ogni ambizione che non fosse
un’insofferenza diffusa... un odio di fondo?
Si, poteva essere odio. Odio velenoso e tenace, che gli faceva male al cuore e gli corrodeva l’anima.

Non c’era più Flagetorn a tenergli compagnia, a prendersi carico del suo odio. A divorargli l’anima
per giustificare quel dolore.
Solo come non era da moltissimi anni, Francesco Belladonna si sentiva solo.
Disperso dentro al proprio nulla, desiderava un desiderio. E sentì che avrebbe voluto desiderare
carezze, e compassione, e commiserazione. E, di nuovo come infinite altre volte, si lasciò prendere
dal suo desiderio, e smise di vivere la realtà per vivere nella sua fantasia.

Trascorse minuti, e poi ore, gli occhi aperti o socchiusi, steso sull’erba secca a fantasticare attimi,
giorni e vite. Fantasticò della sua donna, Laura. Di rivederla, e sciogliere il ghiaccio dei loro cuori, e
tornare all’innocenza dei primi incontri, e vivere una vita felice, raccontandosi della propria felicità.
Facendo l’amore.
Fantasticò di suo figlio Cesare, e si vide padre di suo figlio, saggio padre.

E sentiva la menzogna dei suoi pensieri, e l’urgenza forte di abbandonarli, eppure vi si perdeva. Si
vedeva amato e commiserato, compianto e consolato.
Vittima di una vita cattiva, e di un destino spietato.
E
E il buco d’odio dentro al suo cuore si fece voragine, e la voragine abisso.

Si odiava: odiava il giorno della sua nascita, e lavita vissuta, e la vita da vivere.

E non si uccideva: lontana l’urgenza di uccidersi, la necessità, le ragioni. Fantasticava di uccidersi,


di morire. Fantasticava le lacrime nascoste di Laura. I rimpianti di Cesare.
Ma non c’era foga in quei pensieri: non vera commozione, non vera rabbia.
Solo quel sottile odio sul fondo del suo animo, e una tenebra fatta di nulla attorno a quella
pozzanghera d’odio.
Sospirava, si alzava e camminava.

E si contorceva dentro cercando di inventarsi la frescura, la guarigione per quel tormento fine. Ma
non c’era nulla da scacciare lontano: non c’erano demoni, o uomini, che non fossero lui stesso.
E non poteva sfuggirsi lontano, nel cuore di altri: era il suo cuore a perseguitarlo: il suo essere
presente; né passato né futuro si curavano di lui. Almeno gli pareva.
Un tarlo infame gli scavava dentro, forse a ragione: ma senza palesare i motivi della sua opera.

Decise di aspettare che la morte, la fame o la sete lo distraessero da quel dolore.

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