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Benedetta invidia!

06 MARZO 201

Corrado Ocone

C' invidia e invidia, questo il punto. Anche una "passione triste", un


sentimento condannato da moralisti e senso comune, pu avere, in
determinate circostanze e a certe condizioni, un esito utile, anzi necessario,
per la societ e per la crescita personale. Ma procediamo con ordine.
Etimologicamente invidia significa guardare contro, di traverso. E la
stessa iconografia classica mostra, in genere, l'uomo invidioso con
l'occhio storto e non sincero e il viso corroso dalla bile. L'invidia
perci un sentimento sociale, intersoggettivo, che concerne il nostro vivere in
relazione con gli altri. Non a caso Heidegger, in Essere e tempo, definisce il
rapporto fra gli umani come caratterizzato da "contrapposizione
commisurante", cio da un continuo giudicare se stessi in rapporto agli altri.
Siano essi da noi avvertiti come inferiori, in genere o per qualche aspetto, e
quindi da dominare, o superiori, e quindi da emulare. E in effetti, l'invidia, di
cui Heidegger non fa esplicita menzione, pu essere sia quella che hanno i
capi nei confronti dei successi dei loro sottoposti, che lasciano intravedere,
seppur in lontananza, una messa in discussione della loro leadership, o che
comunque rappresentano per il loro ego una diminutio; sia, al contrario,
quella dei secondi rispetto ai successi gi acquisiti e al fascino che emana
dal potere dei primi. In generale, questo secondo tipo di invidia, che
chiamiamo ascensionale, pu assumere un aspetto negativo o
positivo a seconda che sia fatta propria da spiriti volgari o aristocratici. Nel
primo caso, ci troviamo infatti di fronte all'invidia sociale apostrofata da
Nietzsche e generatrice di rancore e risentimento. Essa propria dei
perdenti, degli sconfitti della storia o nella vita, dei deboli, degli
inetti: di tutti coloro che sono incapaci di raggiungere gli altri, per
impossibilit oggettiva o perch presi da paralisi della volont. Solo che, a un
certo punto, e Nietzsche pensa alle grandi forze ideali del suo secolo ma pi
anche al cristianesimo pauperistico, costoro si sono coalizzati, fatti
persino forza politica. Ed hanno per questa via cercato di imporre a
tutti la loro morale da schiavi, la "morale del gregge". Se tu hai dieci
ed io cinque, voglio che anche tu scenda a cinque o ti strapper il
resto. Meglio che tutti siano eguali nella povert piuttosto che ci siano
ricchezza e abbondanza ma diseguaglianze sociali. Da qui l'egualitarismo,
il conformismo, il livellamento, il democraticismo, il socialismo, tutti
i miti e i movimenti della societ moderna che a Nietzsche stanno
invisi e contro cui combatte. chiaro che, laddove non pu realizzare i
suoi scopi, l'invidia plebea comporta, sul piano personale, dissolvimento,
macerazione, al limite autodistruzione. Ma pu l'uomo aristocratico convertire
l'invidia in un valore, in un fattore positivo di crescita per s e la societ? In
questo caso, occorre cambiare scenario. Puntare dritto sulla tradizione
liberale.

Sulle virt positive dell'antagonismo e della competizione ha


insistito soprattutto Kant, il quale ha parlato della "socievole
insociovelezza" degli esseri umani: del loro tendere verso gli altri ma anche
del loro volersene differenziare e distinguere. Una identit personale non pu
infatti darsi se non riconosciuta, ma, per esserlo, necessario che ognuno
tenda ad essere diverso. In concreto, essendo l'uomo un essere egoistico e
volto principalmente all'interesse personale, ognuno vuole raggiungere e
superare gli altri in onore, gloria, ricchezze, realizzazioni. Ecco, perch li
invidiamo. Kant non solo non condanna moralisticamente questo
nostro egoismo, ma tesse un elogio di esso e dell'invidia. Si tratta di
una disposizione instillata in noi dalla "natura" per farci vincere la
pigrizia e procedere sulla via del progresso umano. "Senza la
condizione, in s certo non desiderabile, della insociovelezza, tutti i
talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale di
arcadica armonia, frugalit, amore reciproco: gli uomini, buoni come le
pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un
valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico. Siano allora
rese grazie alla natura per la intrattabilit che genera, per la invidiosa
emulazione della vanit, per la cupidigia mai soddisfatta di averi e anche di
dominio!" In questa lotta contro gli altri, l'uomo, senza accorgersene,
mette a disposizione della societ, e quindi di tutti, beni,
conoscenze, tecniche. senza dubbio questo il tema dell'
"eterogenesi dei fini", che,gi presente in Giambattista Vico, ha qui
un'accentuazione di quell'aspetto utilitaristico che alla base delle conquiste
della nuova civilt. Esso, pertanto, viene letto per la prima volta, in epoca
illuministica, in senso positivo. In opposizione alla morale classica del
"sacrificio", della parsimonia e del buonismo solidaristico. Il riferimento
principale , in questo senso, La favola delle api di Bernard De
Mandeville,che, pubblicata a Londra nel 1705, divenne in poco un tempo un
bestseller. In essa, come noto, si mostra, sotto forma di parodia, la
conversione dei "vizi privati", e quindi di lusso, sperpero, invidia, in
"pubbliche virt". Quando ad un certo momento nell'alveare, chiara
metafora della societ umana, ci sar la rivoluzione dei probi e saranno
adottate politiche virtuistiche, in men che non si dica l'antica prosperit
scomparir e presto i nemici lo conquisteranno. La morale della favola , per
Mandeville, che "il vizio tanto necessario in uno stato fiorente quanto la
fame necessaria per obbligarci a mangiare. impossibile che la virt da
sola renda mai una nazione celebre e gloriosa". All'invidia, in particolare, ai
suoi effetti benefici, il pensatore inglese dedica molte pagine, alcune gustose
come quando ad esempio parla della naturale invidia che sorge fra le
donne belle per chi lo di pi. Le idee di Mandeville vennero poi
elaborate teoricamente dagli illuministi scozzesi (David Hume, Adam
Ferguson, Adam Smith), in concomitanza con l'imponente affermarsi della
societ capitalistica da una parte e della scienza che ne studiava le
dinamiche, l'economia politica, dall'altra. Troveranno poi ulteriori e pi
raffinati sviluppi, fra Otto e Novecento, nelle teorie della "scuola austriaca",
soprattutto nel pensiero di Friedrich von Hayek. Il quale, fra l'altro, ci offre
un'analisi di un altro aspetto dell'invidia, quello che distingue il leader
da chi non lo . il primo, egli dice, che, percorrendo per la prima volta un
tratto in campagna, crea un solco che, ulteriormente praticato da chi lo segue
per invidia imitativa, finisce per creare sentieri ben solidi. Cioeun ordine
spontaneo entro cui si svolge la vita comune (norme, consuetudini, regole).
Quindi, persino l'invidia plebea, ha un compito importantissimo
nelleconomia del reale. Quante volte ci capitato di vedere chi, incapace di
essere innovativo e crearsi nuove vie per soddisfare la sua voglia di
emulazione, imita semplicemente chi ne ha gi creata una propria?
comunque strano, o significativo dei nostri tempi, che una concezione
moralistica e adialettica dell'invidia abbia ripreso auge negli ultimi tempi in
Italia, anche fra gli studiosi, in primo luogo quelli della cosiddetta "etica
applicata". Si pensi, ad esempio, a Elena Pulcini che, in un documentato
volume dedicato al tema (Invidia, Il Mulino, 2011), relega, secondo il sentire
comune, l'invidia quasi a un livello sottoumano proponendo di contrastarla
coltivando altre e pi umane passioni (non accorgendosi che "un mondo
senza invidia" semplicemente non sarebbe). Le passioni che Pulcini ha in
mente sono, come ella dice, quelle "che incrinino alla radice quella logica
individualistica e utilitaristica dalla quale la stessa invidia trae il suo
principale alimento". Che affermazione che chiarisce molto. I nemici
dell'invidia sono oggi i nemici dell'individuo: tutti coloro che,
incapaci di volare da soli, sognano comunit pi o meno organiche e
improntate alla sobriet. Da qui la loro irrazionale avversione per il
profitto, il capitalismo, la modernit. Nonch il loro amore per il pensiero
precotto, ove ogni cosa in ordine, del politically correct. Chiaramente, in un
siffatto mondo ovattato spazio non c' per quella passione "umana, troppo
umana" che risponde al nome di invidia e che, se da un lato
distrugge, dall'altro fa crescere e avanzare.

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