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Pompei non ha bisogno di molte introduzioni. Tra le città antiche è certamente una delle più
conosciute, anche se relativamente da poco è una delle meglio studiate.
Fondata dagli Osci, le sue prime tracce emergono intorno al VII secolo. É etrusca tra il VI e V,
greca tra il 474 e il 425, infine entra nell'orbita dei Sanniti che gettano le basi della città che gli scavi ci
hanno restituito poco più dei tre quinti. Alleata di Roma nelle guerre sannitiche, dal 91 a.c. ne diventa
colonia. I suoi ultimi anni sono inquadrati da due disastri naturali: il devastante terremoto del 62 d.c. il
cui epicentro fu nella stessa città e l'eruzione del Vesuvio del 79 che la distrusse definitivamente. La
quasi contemporaneità di questi due eventi ha trasformato la città in un laboratorio in cui si è
soprattutto analizzato il grado, urbano e umano, di risposta dei pompeiani al disastro del 62. Come il
grande incendio di Roma del 64 e di Londra del 1666, il terremoto di Pompei rappresentò, infatti, per
gli abitanti la sfida alla necessità di ricostruire, ma anche la possibilità di farlo in una maniera e ad una
scala che non sarebbero mai state prese in considerazione senza un disastro di quelle dimensioni,
con interventi che incisero la città nel suo stesso midollo storico. Pompei, dunque, ci permette un
confronto diretto tra aspirazioni civiche e tecniche costruttive, che si evolvono contemporaneamente
attraverso un vero e proprio piano regolatore.
Gli studi hanno inoltre avuto un'accelerazione dopo il terremoto del 1980, che ha ricordato il rischio
latente di ritornare allo stesso disastro del 79: non si rileva mai abbastanza che le strutture della città
poggiano su una delle zone a più alto rischio sismico d'Italia. La possibilità quindi di non poter più
accedere e questa volta in via definitiva, ad un laboratorio urbano così completo ha fatto si che
l'Institute for Advanced Technology in the Humanities dell'Università della Virginia (tanto per cambiare
un istituto non italiano) abbia messo fin dalla prima metà degli anni '80 in cantiere un progetto
computerizzato per riuscire almeno a documentare la totalità di 2 secoli di scavi. Con la
collaborazione dell'Università americana del Nord Carolina di Chapel Hill, dell'Università inglese di
Bradford e di un altro Istituto americano, l'Hunter College, è nato l'Anglo-American Pompeii Forum
Project, le cui conclusioni ancora in via di elaborazione, vengono usate parzialmente per la prima
volta in questo colloquio.
L'unicum di Pompei è in realtà rappresentato dalla perfetta conservazione di masse di dati che
permettono lo studio dettagliato di un’evidenza urbana particolare del terzo quarto del primo secolo d.
C., realtà che è comune a tutte le società urbane contemporanee che hanno subito devastazioni di
guerra, calamità naturali o semplicemente l'abbandono per zone geografiche diverse. Come i
costruttori di Pompei hanno incorporato e demolito le strutture sopravvissute al terremoto del 62, gli
architetti rinascimentali hanno incontrato il problema di eliminare o incorporare strutture medievali
preesistenti alle nuove concezioni urbanistiche. Partendo da questo presupposto, che ridimensiona
l'unicum pompeiano senza intaccarne la spettacolarità, sono stati coinvolti per la prima volta nella
ricerca archeologica anche specialisti in urbanistica moderna, tanto storici quanto progettisti. Le
conclusioni sono state per lo meno inaspettate.
Il modo convenzionale di intendere la Pompei post '62, da Augusto Mau ad Amedeo Maiuri, ha
sempre evidenziato, ad esempio, come il Foro non fosse ritornato alla sua piena funzionalità quando il
Vesuvio esplose, a riprova della non completa capacità di reazione dei pompeiani di fronte al
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maggior parte finì nelle grandi collezioni di Caserta; qualcosa, poco, lo seguì a Madrid.
Archeologicamente parlando i suoi scavi furono devastanti: d'altra parte siamo nel 1748, neppure
all'alba dell'archeologia.
Carlo III lascia Napoli al figlio terzogenito, Ferdinando, handicappato da un'educazione lacunosa e
da una moglie intrigante come Carolina d'Austria, sorella favorita di Maria-Antonietta. Si rifugia nella
caccia e non pensa neppure lontanamente a continuare il mecenatismo del padre. Gli scavi di Pompei
però proseguono sotto l'influenza del suo primo ministro, l'inglese Acton e in particolare di sir William
Hamilton, plenipotenziario della Corona d'Inghilterra, raccoglitore più che collezionista e l'11 maggio
1765 fu trovata all'angolo nord-est del tempio dorico [d’Iside, ricostruito nel 62], nel Foro triangolare,
la prima iscrizione che ci interessa, incisa con un orologio solare su una schola (sedile semicircolare):
L. SEPUNIUS. L. F. SANDILIANUS
M. HERENNIUS. A. F. EPIDIANUS
DUO. VIR.I.D. SCOL. ET. HOROL
D. S. P. F. C.
L'altra iscrizione che ci interessa, la seconda, fu trovata il 14 marzo 1817 nel tempio di Apollo [la
cui fondazione risale al 120 a.c.], incisa su mezza colonna, cioè un orologio solare:
L. SEPUNIUS. L. F.
SANDILIANUS
M. HERENNIUS. A. F.
EPIDIANUS
DUO. VIR. I. D.
D. S. P. F. C.
L'ultima iscrizione che ci interessa, la terza, fu rinvenuta non si sa dove è in realtà solo un
frammento che conserva le lettere:
NDILI
Ma ritorniamo un momento a Pompei. Il clima, il mare vicino, il vino ottimo trasformarono molto in
fretta una cosmopolita città commerciale in un paradiso per eletti monetari con vere e proprie piccole
corti che ruotavano loro intorno. La realtà che gli scavi ci restituiscono, per blasfemo possa sembrare
il paragone, è quella di un incrocio tra Portofino, Viareggio e Las Vegas, dove tutto conviveva in un
insieme di libertà morale, intellettuale e religiosa, stratificato e consolidato attraverso l'incontro di
razze diverse.
La mentalità romana, credo di tutte le classi sociali ma certamente di quella che fece di Pompei il
massimo dello chic della mondanità, era forgiata sulla certezza materiale della supremazia che gli
dava la perfetta macchina militare dello stato, ma non trovava in quello stesso stato le certezze
spirituali di cui aveva scoperto il bisogno, entrando in contatto con le credenze religiose dei popoli via
via sottomessi.
Il suo pragmatismo però lo portò verso l’utilizzo finale del bene spirituale, al lato misterico e
superstizioso del rito. E Pompei rispose perfettamente: i riti underground che già affioravano in Roma-
città, sulla costa napoletana erano all'ordine del giorno. La città pullulava di divinità di ogni tipo e
genere, soprattutto dopo il '62, frutto di una rinata necessità religiosa nella quale ognuno elesse una
propria personale affezione verso una divinità specifica anche importante, ma trasformata in un
piccolo mistero più personale e diretto.
I riti esotici, quasi tutti a sfondo sessuale e orgiastico e le offerte cruente sono quelle che
riaffiorano dalle ceneri dell'eruzione del 79, tanto dalle grandi ville private, quanto dalle piccole edicole
votive. Basta ricordare la più significativa rappresentazione di questa complessissima individuale
religiosità, la villa dei Misteri, che ancora oggi non ci ha restituito pienamente la sua verità.
Gli affreschi delle sue pareti, che sono di eccezionale valore artistico, mostrano una serie di scene
ambigue e molto articolate dove la matrona e domina della casa sorveglia i preparativi dei misteri,
unico aspetto del rito che poteva essere rappresentato, a cui prenderanno parte persone con ruoli
diversi e in cui lei avrà quello preminente. Dìoniso è presente sotto le sembianze di un ragazzo nudo
con i calzari da caccia che legge un rotolo tra due donne e si prepara alla propria iniziazione che, a
giudicare dai tratti del suo volto, sarà terribile. Solo gestualmente, attraverso la donna che gli
accarezza delicatamente la nuca e tiene in mano il secondo rotolo, possiamo intuire l'esito positivo
dell'azione sacra.
Tutta la scena è densa del mistero che sta per attuarsi e a differenza degli altri affreschi pompeiani
che sono solitamente aperti sul paesaggio, questi, della Villa dei Misteri, rimangono impenetrabili, gli
specchi rossi dello sfondo lesenati nero-verde impedendo qualsiasi percezione dello spazio esterno.
Riparlerò di questa realtà alla fine del nostro colloquio.
Torniamo ora alle nostre lapidi che all'improvviso approdarono nel Biellese reinterpretate dalla
fantasia del Casalis e del Maffei, che legarono Lucius Sepunius Sandilianus all'origine del nome
Sandigliano, con un percorso storico miracoloso che vale quanto l'apparizione delle reliquie nel
medioevo: improvviso ed inspiegabile, ma talmente radicato nella storia locale che porta con se
ancora oggi il ricordo del miracolo. Allo stesso modo, le lapidi di Pompei hanno tracciato un solco
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storico che sembra non sradicabile e che ricompare puntuale anche in pubblicazioni recenti, dove
leggo con molto divertimento Sandigliano, dal toponimo di sicura derivazione romana. Pochi i tentativi
di sparuti storici a correggere l'eresia: come il miracolo, l'eresia rimane indelebilmente scolpita nella
memoria collettiva locale, coltivata in quell'orto insidioso che è la pigrizia mentale.
A convalidare quest'errore c'era la leggenda di famiglia di un piccolo lignaggio che apparve nel
Basso Vercellese al fondo del '200, i Sandigliano, capostipite un Facio-Facioto, nome senza dubbio
latino. Questa leggenda, antecedente il ritrovamento delle lapidi, ricordava l'origine romana della
famiglia, testimonianza in realtà di lotte più vicine, quando i Sandigliano decisero di prendere le
distanze dai Vialardi e dalla loro guerra quasi personale contro i Savoia. L'origine romana nacque
quindi per contrapposizione all'origine longobarda dei Vialardi, in un momento storico in cui gli
spartiacque erano fondamentali per la sopravvivenza politica.
Dall'inventio storica al legame diretto dei Sandigliano con il Sandilianus pompeiano, il passo è
stato breve anche perché una corbelleria servì a convalidare l'altra. Hanno giocato un ruolo attivo gli
scritti di Carlo Antonielli d'Oulx, intorno agli anni '40, salvo poi cambiare idea più avanti, ma come
diretto discendente dell'ultima Sandiglian de Sandigliano, che tra l'altro era anche mia nonna materna,
l'occasione era troppo succosa per essere scartata definitivamente.
Venne poi Piero Massia che, imboccata la strada giusta, deragliò miseramente a metà, tra un
Sendiliano e un Sentilius di dentale nasalizzata, ereggendo la desinenza -ianum a ricordo del dio dei
confini e dei campi. Per capire l'errore, bisogna ricordare che solo in età post-classica prevale
nell'onomastica il nomen singulare, vale a dire il cognome invece del gentilizio: i nomi riconducibili alla
traslazione diretta di cognomi su terre sono tutti di età tarda. Attribuire quindi a Sandigliano una
derivazione immediata dal cognome di età augustea Sandilianus non è per lo meno conforme all'uso
per i nomi fondiari coevi, che derivano quasi esclusivamente da gentilizi e non da cognomi. Inoltre il
cognome pompeiano Sandilianus appare archeologicamente isolato, senza altri ritrovamenti anche
limitatamente simili se non quelli di Pompei. Manca poi qualsiasi ritrovamento di un gentilizio
Sandilius da cui far derivare il nome Sandigliano sulla base dell'inversione della formula Aemilius -
Aemilianus.
Chiarita dunque la certa non origine latina, per ritrovare un filo che ci porti al nome di Sandigliano,
dobbiamo risalire agli strati della toponomastica vercellese e alle sue condizioni storiche, che sono
simili a molte altre parti d'Italia.
Sul territorio, come in tutta la penisola, sono numerosi i nomi con desinenza -ANA/-AGA, derivata
da nomi latini in -IUS. La loro forma al femminile si spiega con lo sviluppo del sistema medievale della
curtis e della villa nell'amministrazione dei fundi di origine latina, designati originariamente in -ANUS/-
ACUS, che si volgono al femminile agli inizi del medioevo antico per una concordanza più tardiva del
nome di quei fundi con la voce sottintesa di curtis / villa. Ricordo come esempio CaresANA, DesANA,
FormigliaANA, PezzANA, StroppiANA, BorriANA, CabaliACA e CostanzANA che si riconducono tutti
a nomi maschili d’età romana: Carisianus, Decianus, Firminianus, Pettianus, Stirpianus, Burrianus,
Cabelliacus, Constantianus derivati a loro volta dai relativi gentilizi o nomina singularia d’epoca latina.
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Questi nomi sono distribuiti in maggioranza nella zona di pianura e sono accompagnati da pochi
altri nomi locali in -ANO/-É dal più antico -ACUS, trascritto da una certa epoca medievale in poi in
-ATUM/-ATE sul modello dei nomi lombardi in -ARE, derivati da nomi d’età o di origine latina sfuggiti
per motivi storici particolari alla generale trasformazione in forma femminile degli altri nomi d'identica
età e originariamente in -ANUS/-ACUS, come AsigliANO, CollobiANO, VettignÉ.
Nella loro maggioranza i nomi in -ANO si addensano nelle zone più alte, mentre la sua alterazione
in -ANA si diffonde in pianura. In questa diversa distribuzione spicca il contrasto di due culture: fra le
terre del piano lavorate a buoi e da mano servile e le terre alte della collina lavorate a zappa e da
coloni affittuari o da piccoli proprietari. Questa constatazione porta ad affermare che la zona di collina,
meno redditizia di guadagni rurali di quella del piano, grazie a questa minore importanza economica,
si sottrae meglio alle prime ondate barbare, conservando più a lungo i propri caratteri originali,
mantenendo le proprie forme onomastiche tradizionali, vivendo quindi in ritardo la transizione culturale
e giuridica della pianura.
Questo presupposto sociale relativo all'interpretazione dei nomi locali in -ANA trova conferma nella
serie di nomi di certa origine germanica in -ENGO/-ENGA, diffusi parallelamente nella zona piana:
PertENGO, CarENGO, OlcenENGO, GifflENGA, GhislarENGO affiancati a nomi di origine e d’età
barbarico-medievale, Saletta, Saluggia, Salussola, Grangie di Lucedio.
Una serie di nomi poi con un'identica desinenza germanica in -ENGO, s’insinua più tardi lungo il
corso inferiore delle valli che arrivano dal piano: QuittenENGO, ValdENGO, BrusnENGO,
PettinENGO, ma non attestano più lo stanziamento di genti germaniche, bensì unicamente il
progredire della germanizzazione nella struttura dei nomi locali d’età medievale più tarda, costituiti alla
loro base da nomi d'origine latina, ma foggiati in -ENGO sulla base di nomi di più recente e prevalente
invadenza storica, come CastellENGO, formatosi sulla parola castello, ma bivalente poiché è anche
nome proprio maschile latino, MolinENGO sulla parola molino o PettinENGO sulla parola lombarda
petin, piccolo.
Un esempio particolarmente interessante lo troviamo in due nomi di origine germanica,
RovasENDA e Roasio, quest'ultimo sulle prime propaggini collinose a nord di RovasENDA, che
rivelano la direzione dell'inserimento dei nomi germanici dalla pianura alla collina. Questi due nomi
designano la traslazione su terre di due nomi personali legati da una stessa base strutturale e
compositiva, che rivela i rapporti di affinità gentilizia o familiare con un nucleo iniziale. Ma segnala
contemporaneamente il diramarsi, da questo stesso nucleo comune, di due lignaggi sulle terre vicine
al ceppo iniziale, dovuto ad un'accresciuta potenza economica.
A dimostrare la reazione contro l'invadenza dei nomi germanici troviamo ad esempio BertignANO
e, all'imbocco della piana, SandigliANO, costituiti entrambi alla loro base da nomi di origine germanica
certa, ma foggiati in forma rigorosamente latina.
SandigliANO rappresenta, infatti, l'attestazione di un residuo onomastico goto o longobardo
traslato su una terra dove la dominazione di questi due gruppi è più persistente, traslazione che è tra
le più comuni nello sviluppo morfologico delle basi onomastiche germaniche, sull'analogia della
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il frigio, già in antico legato al sole e al suo movimento, di cui l'orologio non è altro che un simbolo
tardivo.
Il culto solare è, infatti, strettamente connesso all'orologio che il duumvìro Lucio Sepunio
Sandiliano fa incidere sulla schola e sulla mezza colonna, fatto che lascia supporre che Lucio Sepunio
fosse legato ai misteri di Sandan attraverso un thíasos familiare nel senso più ampio: dai parenti più
stretti fino ai clienti ed agli schiavi. Caso frequente in Roma, di cui l'esempio storico più conosciuto è
quello dei misteri detti di Agripinilla che portarono all'emanazione del senatus consultum de
Bacchanalibus che proibì i misteri dionisiaci. Siamo nel 186 a. C. e la proibizione, sappiamo, non sortì
l'effetto desiderato.
La grande iscrizione bacchica del Metropolitan Museum, che è il residuo lapidario archeologico
pervenuto fino a noi del thíasos d’Agripinilla, trova il suo sviluppo più completo proprio nelle
rappresentazioni degli affreschi della Villa dei Misteri.
Ricordato questo, lasciamo ora definitivamente alla sua pace eterna il povero Lucio Sepunio
sepolto tra le oltre 2.000 vittime di Pompei, morto mentre anche il vecchio Plinio moriva tentando di
salvare i cittadini di Stabia.
Resta un dubbio: se Lucio Sepunio offrì agli Dei e fu castigato sotto metri di detriti, se avesse
anche fondato Sandigliano cosa gli sarebbe successo? Grazie.
BIBLIOGRAFIA SOMMARIA