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Il linguaggio come pratica condivisa: con Wittgenstein oltre la dicotomia interno/esterno

la mente essenzialmente manifesta nelle forme


del comportamento umano che danno espressione allinterno 1

Un processo interno abbisogna di criteri esterni2

La lettura delle Ricerche filosofiche di L. Wittgenstein pu fornire delle buone ragioni per tentare di
fuoriuscire da una concezione dualistica dell'umano diviso tra un interno privato, intimo - ed un esterno
pubblico, comunitario. possibile evincere il superamento di questa dicotomia dalla nuova concezione
wittgensteiniana del linguaggio un linguaggio non riducibile al modello ostensivo/descrittivo, bens
concepito come pluralit di pratiche linguistiche - e dal ruolo e dal valore che il filosofo conferisce alle
espressioni naturali, ai contesti d'uso delle parole e alla nozione di Lebensform, forma di vita - da cui si
ricava una caratterizzazione relazionale e dinamica dell'essere umano. Pertanto ci occuperemo dapprima di
alcune sezioni in cui emerge la nuova concezione wittgensteiniana del linguaggio e con essa la conseguente
centralit del ruolo delle espressioni non verbali. In secondo luogo, riferendoci proprio all'importanza
conferita da Wittgenstein a queste ultime, poseremo lo sguardo sulla funzione dei contesti d'uso e sul
concetto di forma di vita. Passare attraverso questi topoi del testo wittgensteiniano dovrebbe portare ad
una metanoia rispetto ad un diffuso luogo comune culturale, qual quello di intendere l'umano lacerato da
una separazione tra interno ed esterno.

1. La complessit del linguaggio

Per tentare di fuoriuscire da una prospettiva dualistica dell'umano, Wittgenstein mira in primo luogo a
mettere in discussione un certo modo che noi abbiamo di concepire il linguaggio in maniera univoca. Ossia,
secondo il filosofo, noi tendiamo ad avere una concezione troppo semplicistica del linguaggio, che non tiene
conto della sua complessit. Il punto che noi siamo portati a pensare che il linguaggio abbia un'unica
funzione, cio quella ostensiva, descrittiva. Esso invece ha molte altre funzioni e non pu in nessun modo
essere ridotto al modello 'oggetto-designazione'.
La visione semplicistica del linguaggio viene esemplificata da Wittgenstein nel 1, laddove riporta una
citazione tratta dalle Confessioni di Agostino:

Quando [gli adulti] nominavano qualche oggetto, e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li
osservavo, e ritenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla. Che
intendessero ci era reso manifesto dai gesti del corpo, linguaggio naturale di ogni gente: dall'espressione del volto e
dal cenno degli occhi, dalle movenze del corpo e dall'accento della voce, che indica le emozioni che proviamo
quando ricerchiamo, possediamo, rigettiamo o fuggiamo le cose. Cos, udendo spesso le parole ricorrere, al posto
appropriato, in proposizioni differenti, mi rendevo conto, poco a poco, di quali cose esse fossero segni, e, avendo
insegnato alla lingua a pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volont. 3

1 P. M. S. Hacker, Wittgenstein, trad. it. a cura di M. Monaldi, Sansoni, Milano 1998.


2 Ricerche filosofiche, 580.
3 Ricerche filosofiche, 1, cit. di Agostino, Confessioni, I, 8.
La citazione di Agostino viene riportata da Wittgenstein perch incarna esattamente la concezione
semplicistica del linguaggio che comunemente abbiamo: le parole del linguaggio nominano oggetti. Il limite
di una simile immagine per quello di non tener conto del fatto che le parole non sono tutte uguali. Infatti,
fa notare Wittgenstein, descrivere in questo modo il linguaggio e l'apprendimento di esso implica il pensare
soltanto ad un tipo di sostantivi tavolo, sedia, pane, oppure ai nomi propri -, mentre sembra tralasciare
un'ampia porzione di sostantivi, ad esempio quella dei cosiddetti stati interni, come sentimenti, emozioni,
sensazioni ecc
Ci che Wittgenstein nota e vuol portare allo scoperto il fatto che se noi pensiamo il linguaggio
agostinianamente, riteniamo che esso abbia unicamente una funzione: dare nomi ad oggetti. E da questo
deriva che siamo portati a concepire le sensazioni interne come molto simili a ci che troviamo nel mondo
esterno. In breve: come le cose del mondo esterno sono degli oggetti il tavolo, la sedia ecc - cos anche il
mondo interno sarebbe popolato da cose, oggetti certamente non materiali, ma pur sempre oggetti. Per cui,
per gli stati interni, il linguaggio funzionerebbe nel seguente modo: noi applichiamo una sorta di etichetta
la parola, il termine ad un oggetto etereo che sarebbe la sensazione. L'idea che nel nostro mondo interno
vi l'oggetto-dolore a cui noi applichiamo il termine 'dolore'.
Tuttavia, come si evince dalla 244, secondo Wittgenstein le cose non stanno in questo modo. Nella presente
proposizione egli pone la seguente domanda: come noi impariamo il significato dei nomi di sensazione? Per
non rimanere troppo nel vago Wittgenstein sceglie un caso specifico, quello del dolore e offre una
possibilit di risposta tramite un esercizio di immaginazione filosofica:

Ecco qui una possibilit: Si collegano certe parole con l'espressione originaria, naturale, della sensazione, e si
sostituiscono ad essa. Un bambino si fatto male e grida; gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni e, pi
tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore.
Tu dunque dici che la parola 'dolore' significa propriamente quel gridare? - Al contrario; l'espressione verbale del
dolore sostituisce, non descrive, il grido. 4

In questa proposizione Wittgenstein ci fornisce un esempio concreto del fatto che il linguaggio non si limita
ad avere soltanto una funzione ostensivo-descrittiva come lasciava tradire, invece, l'immagine di Agostino.
Il caso riportato da Wittgenstein, infatti, a ben guardare, molto differente da quello agostiniano. In entrambi
i casi si vuole spiegare l'apprendimento del linguaggio, ma le strade intraprese divergono sensibilmente.
Infatti, se il bambino di Agostino sembra fare tutto da s, quasi avesse gi una vita interiore ben articolata, il
bambino di Wittgenstein ha bisogno di un intervento esterno da parte degli adulti. La cosa interessante che
gli adulti che insegnano al bambino la parola 'dolore' e il linguaggio del dolore reagiscono, per cos dire, a
quella che Wittgenstein definisce l'espressione originaria, naturale della sensazione. Ossia: essi sentono le
grida del bambino espressione non verbale e, pian piano, insegnano al bambino dapprima delle
esclamazioni e poi delle proposizioni cos essi iniziano il bambino al linguaggio. In questo senso
l'espressione verbale del dolore sostituisce e non descrive l'espressione naturale. Vediamo dunque che il
linguaggio, in questo caso, non descrive qualcosa, ma sostituisce un'espressione naturale con un espressione
linguistica: infatti il termine 'dolore' non descrive il grido, ma, per cos dire, lo rimpiazza. Per questo
4 Ricerche filosofiche, 244.
Wittgenstein sostiene che gli adulti hanno cos insegnato al bambino un nuovo comportamento del dolore.
Quando uno di noi esclama: ho dolore, sembra dirci Wittgenstein, non sta descrivendo un fantomatico
oggetto interno; le parole, piuttosto, sono il sostituto verbale di un agire primitivo nel caso del dolore esse
sono il sostituto di un gemito, di un grido.
Ora, se applichiamo il modello agostiniano alle sensazioni, dobbiamo di necessit presupporre un interno e
un esterno che vengono connessi dal linguaggio. Secondo questo modello, infatti, il linguaggio assume una
funzione di medium tra un'esperienza interiore privata - e la sua espressione pubblica. Come se la
dimensione pubblica fosse qualcosa di secondario secondario non soltanto in quanto essa sia qualcosa di
marginale, ma perch, letteralmente, arriva per seconda 5. La concezione agostiniana, infatti, ha come back-
ground l'idea del linguaggio privato: prima noi abbiamo il dolore, lo sentiamo, e poi lo mettiamo in parole;
prima avvertiamo dolore al braccio e poi lo formuliamo in frasi. Nell'esempio di Agostino non avviene, per
l'appunto, una sostituzione tra un non verbale e un verbale, ma una relazione tra un interno privato e un
esterno; e tale relazione compiuta dal bambino stesso, non da altri.
Con la proposizione 244 Wittgenstein ha invece inteso mostrare che il vero medium non il linguaggio,
bens l'espressivit naturale, il comportamento espressivo originario. tramite il gemito del bambino, infatti,
che gli adulti insegnano ad esso l'uso del termine 'dolore' e quindi il significato che esso ha. Torniamo allora
alla domanda da cui eravamo partiti: come impara un uomo il significato dei nomi di sensazione? Da quanto
Wittgenstein scrive possiamo rispondere in questo modo:
1. un ruolo fondamentale giocato dalle espressioni originarie, o naturali;
2. tale apprendimento non qualcosa che accade solipsisticamente, ma sempre realizzato tramite altri.
Avviene sempre in una dimensione pubblica, in un contesto sociale.

Abbiamo visto come Wittgenstein attribuisca un ruolo fondamentale alle espressioni naturali del dolore. su
di esse, infatti, che si innesta il linguaggio. Ed soltanto tramite il riconoscimento da parte degli adulti o
comunque di altri che pu avvenire. Nella proposizione 257, tuttavia, Wittgenstein torna ancora a
problematizzare tale questione:

Ma se gli uomini non esternassero i loro dolori (non gemessero, non torcessero il volto ecc)? Allora non sarebbe
possibile insegnare a un bimbo l'uso delle parole 'mal di denti'. - Ebbene, supponiamo che il bambino sia un genio e
inventi da s un nome per questa sensazione! - Ma, naturalmente, con questa parola non riuscirebbe a farsi capire. -
Dunque comprende quel nome, ma non in grado di spiegarne il significato a nessuno? - Ma allora che cosa vuol dire
che 'ha dato un nome al suo dolore'? Come ha fatto a dare un nome al dolore?! E, qualunque cosa abbia fatto, qual era
il suo scopo? - Quando si dice Ha dato un nome a una sensazione, si dimentica che molte cose devono essere gi
pronte nel linguaggio, perch il puro denominare abbia un senso. E quando diciamo che una persona d un nome a un
6
dolore, la grammatica della parola dolore gi precostituita; ci indica il posto in cui si colloca la nuova parola.

All'inizio della proposizione Wittgenstein ribadisce quanto abbiamo detto poco sopra: le espressioni naturali,
non verbali sono una condizione necessaria per apprendere i termini di sensazione. Per giustificare

5 Cfr. p. 115, M. Mazzeo, Le onde del linguaggio. Una guida alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, Carocci,
2013.
6 Ricerche filosofiche, 257.
ulteriormente questa posizione egli ci invita ad immaginare un bambino-genio che inventi da se stesso un
nome per la sensazione di dolore sembra cos caldeggiare l'ipotesi di un linguaggio privato. In realt ci gli
serve per mettere in risalto l'insensatezza del pensare ad un'immagine simile. La situazione infatti che viene
configurata tale che non potr mai darsi effettivamente. Per quale motivo? Il punto fondamentale da
cogliere che molte cose devono essere gi pronte nel linguaggio perch il puro denominare abbia un
senso. Chi ritiene che la storia raccontata da Wittgenstein regga pecca di una concezione ancora una volta
troppo semplicistica del linguaggio. Ma cosa intende propriamente Wittgenstein quando dice che per
denominare si devono gi sapere molte cose? Per cercare di comprendere questo passo utile fare un salto
alla proposizioni 30 e 31. Nella proposizione 30 Wittgenstein mette in chiaro che la definizione ostensiva
ed proprio quello che fa il bambino-genio della 257 spiega l'uso e il significato della parola solamente
quando il soggetto sa gi che tipo di funzione la parola svolge nel linguaggio. L'esempio di Wittgenstein
chiarificatore: Cos, la definizione ostensiva: 'Questo si chiama seppia' aiuter a comprendere la parola se so
gi che mi si vuol definire il nome di un colore. La proposizione 31 forse ancor pi illuminante:

Considera ancora questo caso: Spiego a qualcuno il giuoco degli scacchi e comincio indicandogli una figura e
dicendo: Questo il re; pu muoversi cos e cos, ecc. ecc.. - In questo caso diremo: le parole Questo il re (o:
Questo si chiama 're') costituiscono una definizione della parola soltanto se gi il nostro discepolo 'sa che cos' il
pezzo di un giuoco'. Per esempio, se ha gi giocato altri giuochi o se ha gi osservato 'con intelligenza' altri che
giuocano e simili. E anche solo allora, mentre apprende il giuoco, potr chiedere con pertinenza: Come si chiama
questo? - vale a dire questo pezzo del giuoco.
Possiamo dire: Chiede sensatamente il nome solo colui che sa gi fare qualcosa con esso.

Questi esempi quello del color seppia e quello del re nel gioco degli scacchi sono perfettamente in linea
con la conclusione della proposizione 257, in cui Wittgenstein aveva sostenuto che l'ipotesi del bambino-
genio che da un nome alla sensazione non pu stare in piedi poich molte cose devono gi essere pronte nel
linguaggio. Per riprendere l'esempio della definizione Questo si chiama seppia, Wittgenstein ci dice che
perch quella definizione abbia un senso noi dobbiamo aver gi la nozione dei colori e in un certo senso
anche la grammatica che regola i termini di colore; in caso contrario quella definizione non avrebbe per noi
alcun senso! Insomma, per essere in grado di chiedere il nome di una cosa si deve gi sapere qualcosa o fare
qualcosa; in poche parole, occorre essere gi padroni del particolare gioco linguistico cui appartiene il
termine di cui o si chiede la definizione oppure si vuol definire.
Quindi, come uno deve gi possedere la nozione dei colori e uno deve gi esser padrone del gioco degli
scacchi, similmente quando diciamo che una persona d un nome a un dolore, la grammatica della parola
'dolore' gi precostituita. necessario, anche in questo caso, gi avere una padronanza del contesto d'uso
del termine 'sensazione' e 'dolore'. Altrimenti il denominare non avrebbe alcun senso e sarebbe inutile, in
quanto non potrebbe esser comunicato ad alcuno.
Chiarita la non possibilit di una situazione simile la posizione di Wittgenstein sembra uscirne rafforzata: il
linguaggio qualcosa di complesso e non pu esser ridotto ad un solo uso. Se la grammatica della parola
'dolore' deve essere gi precostituita allora il dare un nome ad una sensazione non pu essere un atto
solipsistico e privato, ma sempre inserito in un contesto sociale in cui sono presenti altre persone. Si ritorna
perci a riaffermare quanto detto prima: di primaria importanza l'espressione non verbale del dolore.
infatti a partire da essa che altri, inseriti in un certo contesto d'uso dei termini di sensazione e della parola
'dolore', possono con il tempo effettuare un innesto che porti a sostituire l'espressione originaria con
l'espressione verbale.

2. Comportamento espressivo e Lebensform

Da quanto detto emerge la peculiare funzione che assume nella visione wittgensteiniana il comportamento
espressivo: gemere, contorcersi...senza di esso, infatti, non sarebbe possibile giungere, tramite gli altri, al
linguaggio. Questa centralit conferita al comportamento induce perplessit nell'interlocutore che, nella
proposizione 281 cos si esprime: Ma il risultato di quello che tu dici non che non esiste, ad esempio,
dolore senza comportamento proprio del dolore?7. Dopo una breve pausa Wittgenstein risponde in questo
modo: Il risultato che soltanto dell'uomo vivente, e di ci che gli somiglia (che si comporta in modo
simile) si pu dire che abbia sensazioni; che veda, che sia cieco, che oda, che sia sordo; che sia in s o che
non sia cosciente8. La sintetica risposta del filosofo pu essere meglio esplicitata e compresa guardando alla
proposizione successiva, laddove Wittgenstein propone un altro esercizio immaginativo:

Immaginiamo () il caso in cui soltanto delle cose inanimate la gente dica che provano dolore; commiseri soltanto le
bambole! (Quando i bambini fanno il giuoco del treno, il giuoco dipende dalla loro conoscenza dei treni veri. Ma
bambini appartenenti a una trib che non conosce le ferrovie potrebbero aver appreso questo giuoco da altri, e
potrebbero giocare senza sapere che, cos facendo, imitano qualcosa. Si potrebbe dire che per quei bambini il giuoco
non ha lo stesso senso che ha per noi)9.

Nella proposizione 281 Wittgenstein aveva sostenuto che soltanto dell'uomo vivente si pu dire che abbia
sensazioni. Successivamente per ci invita ad immaginare un caso in cui soltanto delle bambole, cio
qualcosa di non-vivente inanimato -, si possa dire che abbiano sensazioni. Ci su cui si vuole puntare
l'attenzione : veramente possibile una situazione in cui si attribuiscano sensazioni soltanto alle bambole e
non anche agli esseri umani? La risposta di Wittgenstein chiaramente negativa, ma interessante vederne le
ragioni. Quando egli aveva parlato di uomo vivente, infatti, non intendeva riferirsi ad un'essenza dell'uomo,
ad un concetto astratto di uomo, ma all'uomo inteso come una peculiare forma di vita (Lebensform).
La nozione di Lebensform di peculiare importanza per la filosofia di Wittgenstein. Particolarmente
interessante per comprendere il presente discorso e che cosa si intenda con forma di vita, quanto egli
stesso scrive in un testo coevo alle Ricerche filosofiche, le Osservazioni sulla filosofia della psicologia:

[] il fatto che agiamo in questo e questo modo, che ad esempio, puniamo certe azioni, accertiamo la situazione
effettiva in questo e questo modo, diamo ordini, prepariamo resoconti, descriviamo i colori, ci interessiamo ai
sentimenti altrui. Quello che dobbiamo accettare, il dato si potrebbe dire sono i fatti della vita. (variante: le forme
di vita)10.

7 Ricerche filosofiche, 281.


8 Ibid.
9 Ricerche filosofiche, 282.
10 Osservazioni sulla filosofia della psicologia I (1946-49), 630.
Da questo passo emerge cosa Wittgenstein sembra intendere con forma di vita. Come nota Anna
Boncompagni identifichiamo [] la forma di vita con ci che caratterizza, antropologicamente, la vita
umana e ci che la differenza dalla vita degli altri animali [] 11. In questo senso proprio della forma di
vita umana l'avere determinati gesti, determinate espressioni facciali, avere piet o compassione di qualcuno
e portargli il nostro conforto. Secondo Wittgenstein ci costituisce un dato 12 che va accettato in quanto tale,
senza ulteriori problematizzazioni: occorre semplicemente prendere atto del fatto che cos agiamo, cos ci
comportiamo. Bisogna limitarsi a guardare ci che costantemente sotto i nostri occhi: non avrebbe senso
impegnarci a trovare cause nascoste che diano ragione dei nostri comportamenti 13.
Alla luce di quanto precisato, dunque, si pu comprendere come non sia possibile analizzare il dolore senza
tener conto del comportamento di dolore, del fatto che solitamente di fronte ad uno che soffre si presta
soccorso, del fatto che egli solitamente grida, si lamenta ecc Insomma, non si pu non tener conto di un
fatto: il 'dolore' ha un posto nelle nostre vite noi vogliamo esprimere il dolore, oppure, in certi frangenti
preferiamo occultarlo; ci aspettiamo che gli altri riconoscano il nostro dolore e si mostrino compassionevoli
nei nostri confronti ecc...Quando parliamo di 'dolore', secondo Wittgenstein, non possiamo farlo astraendo da
queste pratiche. Un termine, infatti, non pu essere svincolato dal suo contesto d'uso. La situazione delle
bambole immaginata da Wittgenstein tale che i criteri del concetto di dolore risultano sganciati dal loro
contesto normale, usuale, quotidiano che il contesto degli esseri animati. Se un caso come quello delle
bambole fosse possibile, il senso del concetto dolore sarebbe profondamente diverso da quello che
abitualmente utilizziamo. Le bambole, infatti, non fanno parte della forma di vita che l'uomo .

3. Conclusioni

Da quanto visto sembra essere possibile intravedere in Wittgenstein una sorta di superamento della dicotomia
tra soggettivo e oggettivo, tra interno ed esterno. Ci dato dal fatto che le espressioni originarie, le forme
espressive naturali giocano un ruolo fondamentale. Senza riconoscimento di queste da parte di altri, in un
contesto pubblico qual quello della forma di vita umana, non si potrebbe dare alcuna pratica di linguaggio.
Come abbiamo visto, infatti, il linguaggio non qualcosa di privato, di interno che si limita a nominare
oggetti esterni. La pratica linguistica implica sempre una dimensione sociale. I confini tra esterno e interno,
tra intimo e pubblico/sociale, dunque, risultano essere molto labili e fluidi: sembrano compenetrarsi l'un
l'altro.

11 A. Boncompagni, Dal fondamento allo sfondo. Le forme di vita come il dato in Wittgenstein, SILFS
International Congress of the Italian Society for Logic anche Philosophy of Science, Bergamo 2010.
12 Cfr. Ricerche filosofiche, p. 295: Ci che si deve accettare, il dato, sono potremmo dire forme di vita.
13 Cfr. Ricerche filosofiche, 165: Ci che noi forniamo sono propriamente, osservazioni sulla storia naturale degli
uomini; non per curiosit, ma costatazioni cui mai nessuno ha dubitato e che sfuggono all'attenzione solo perch
stanno continuamente sott'occhio.
Bibliografia

L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, trad. it. a cura di R. De Monticelli, Adelphi,
Milano 1990.
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2009.
A. Boncompagni, Dal fondamento allo sfondo. Le forme di vita come il dato in Wittgenstein, SILFS
International Congress of the Italian Society for Logic anche Philosophy of Science, Bergamo 2010.
M. Mazzeo, Le onde del linguaggio. Una guida alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, Carocci, Roma
2013.
P. M. S. Hacker, Wittgenstein, trad. it. a cura di M. Monaldi, Sansoni, Milano 1998.

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