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STUDIARE LA POPULAR MUSIC

Roberto Agostini
(r.agostini@unibo.it)

Saggio pubblicato in Gino Stefani, a cura di, Dal blues al liscio. Studi sull’esperienza musicale co-
mune, Verona, Ianua, 1992, pp. 167-189.

‘WHAT IS POPULAR MUSIC?’1


Parlare di ‘generi’ musicali come il blues, il liscio e il rock, parlare di swing, di riff
e di altre cose affini, significa parlare di ciò che negli studi musicali è ormai con-
sueto indicare con la denominazione inglese popular music. L’espressione musica
popolare sembra certo essere la traduzione italiana logica e appropriata di popu-
lar music, ma negli studi musicali italiani – dove per ‘musica popolare’ si intende
generalmente ‘musica folk’ – le due espressioni si trovano ad avere significati di-
versi2. Anche espressioni come musica extracolta, funzionale, d’uso, di consumo,
di massa, leggera indicano più o meno gli stessi oggetti musicali che gli anglosas-
soni indicano con l’espressione popular music, tuttavia ciascuna di esse esprime
un punto di vista particolare e parziale, mentre l’idea centrale di ‘popular music’
è quella di una popolarità della musica che sia distinguibile da quella folclorica
in quanto non specificamente legata alla cultura rurale e orale, ma legata anche
al mondo contemporaneo occidentale e urbano, alle comunicazioni di massa e
alle forme di riproduzione sonora; una popolarità che non dobbiamo andare a
cercare nelle società e nelle culture a noi lontane nello spazio e/o nel tempo, ma

1 Per il momento uso l’espressione ‘popular music’ in modo intuitivo. In prima approssimazione,
utilizzando una formula diffusa negli studi sulla popular music, dirò che la popular music è tutta
quella musica che non è musica folk o musica colta. La domanda What is popular music? (‘Che
cosa è la popular music?’) è invece un palese riferimento ad un’importante raccolta di scritti sulla
popular music che raccoglie gli atti del secondo convegno della IASPM (International Association
for the Study of Popular Music) (vedi AAVV 1985). Nei primi due paragrafi prenderò appunto in
considerazione i primi sviluppi dei moderni studi sulla popular music facendo riferimento al la-
voro svolto da quei ricercatori che, prima individualmente, poi all’interno della IASPM, ne sono
stati i maggiori promotori (vedi AAVV 1982, 1985, 1989; Hebdige 1982; Chambers 1985; Frith
1982, 1988; Tagg 1979, 1982; Popular Music 1981–).
2 Il problema nasce essenzialmente dal fatto che la lingua inglese possiede due aggettivi – folk e
popular – per indicare ciò che in italiano è all’incirca espresso dall’unico aggettivo ‘popolare’.
Dato che negli studi musicali è ormai una consuetudine più che consolidata indicare con
l’espressione ‘musica popolare’ le attività musicali di tradizione orale diffuse negli ambienti rurali
e pre-industriali, l’espressione ‘folk music’ è abitualmente tradotta ‘musica popolare’. Anzi, in ita-
liano diciamo indifferentemente sia ‘musica popolare’ che ‘musica folk’ per indicare lo stesso
concetto, concetto che è però diverso da quello indicato dall’espressione popular music.
che ritroviamo nelle pratiche musicali più diffuse e comuni che la gente esercita
più o meno quotidianamente di fronte alla televisione, al cinema, ascoltando la
radio, andando in discoteca o ai concerti rock.
La recente discussione sul tema della popular music ha appunto avuto origine da
questa sorta di nozione intuitiva di popular music, che a livello generale trova un
sostanziale accordo, ma che a livello più approfondito rivela una notevole polie-
dricità e suscita divergenze. All’interno dell’universo musicale contemporaneo è
infatti possibile ritagliare intuitivamente un vasto insieme di attività musicali che
non sono né colte né folk che spazia dal punk al rock’n’roll, dal reggae allo hip-
hop, dalle sonorizzazioni ambientali ai jingles, dalle musiche del cinema e della
televisione alle canzoni di ogni genere, fino a raggiungere zone di più difficile
classificazione come il jazz, il rock ‘progressivo’, il tango, il minimalismo. Ora,
malgrado le evidenti diversità, abbiamo comunque l’impressione di trovarci di
fronte ad una certa omogeneità, ad alcuni elementi comuni (vedi Tagg 1979 e
Fabbri 1985). Infatti, tutte queste attività musicali
• non si studiano nelle istituzioni pubbliche (conservatori, università, scuole di
ogni tipo, istituti di ricerca);
• sono inserite nel contesto di attività complesse (messaggi multimediali,
sottoculture e controculture, sottofondo di ambienti pubblici e privati);
• circolano perlopiù attraverso forme riprodotte (mezzi di comunicazione di
massa, dischi, nastri, CD, ecc.) e sono prodotte principalmente in studio di re-
gistrazione;
• fanno sistematicamente uso delle moderne tecnologie elettroacustiche;
• si incontrano quotidianamente, a volte anche se non vogliamo;
• sono fruite generalmente in modo ‘distratto’; a volte non sono neppure ‘ascol-
tate’ ma semplicemente ‘sentite’;
• non sono finanziate da fondi pubblici, ma si basano sul libero mercato;
• sono attività professionali;
• sono diffuse nella moderna società industrializzata, dove sono le maggiori
protagoniste dell’industria musicale;
• in genere non posseggono teorizzazioni tecnico-musicali, estetiche o di qual-
siasi altro tipo;
• spesso sono attività diffuse fra i ceti sociali più bassi.
E’ questa impressione di omogeneità che si vuole indicare con l’espressione ‘po-
pular music’.

PUNTI DI VISTA
In questa nozione intuitiva di popular music ho cercato di esprimere lo stato
d’animo in cui credo si siano trovati negli anni ‘70 alcuni ricercatori che per una
ragione o per l’altra si erano trovati ad interessarsi di quelle musiche che le istitu-
zioni pubbliche continuavano ad ignorare. Ora, non è certo mia intenzione riper-
correre le tappe del recente sviluppo degli studi sulla popular music3; penso co-
munque sia importante ricordare almeno due punti.

3 A questo proposito, vedi Tagg 1979, Shepherd 1989, Middleton 1990 e Agostini 1990.

2 Roberto Agostini
In primo luogo, quello che si è sviluppato è fondamentalmente un unico filone di
ricerca che definirei ‘filone storico-socioculturale’. Qui l’attenzione cade non
tanto sullo studio delle forme e delle strutture sonore, quanto sullo studio dei pro-
cessi di produzione e di consumo musicale in rapporto al contesto storico, cultu-
rale, sociale, tecnologico ed economico in cui tali processi sono calati. Da questo
punto di vista mi interessa denunciare che ben di rado la popular music è stata
affrontata da un punto di vista musicale. Solo in questi ultimi anni ci si è comin-
ciati a muovere anche in questa direzione, che è quella che qui prenderò mag-
giormente in considerazione. In secondo luogo, uno dei problemi teorici in cui si
è principalmente concentrata l’attenzione è stato quello di definire che cosa sia la
popular music4. Ciò ha dato il via ad una serie di studi che affermavano generica-
mente di studiare la popular music, ma che di fatto spaziavano in un ampio ed
eterogeneo campo di interessi, pratiche e repertori musicali, e facevano riferi-
mento a un altrettanto eterogeneo insieme di concetti, teorie, metodi e valori.
Mi sembra che nella seconda parte degli anni ‘80 l’attenzione si sia fruttuosa-
mente spostata dalla definizione dell’oggetto dello studio ai valori, alle motiva-
zioni, ai concetti, teorie e metodi relativi allo studio sulla popular music. Passerò
quindi ora in rassegna – anche se in modo alquanto sintetico – alcuni autori che
sotto questo punto di vista mi sembrano di particolare interesse.

BLACKING
Cominciamo da John Blacking (1973, 1981), etnomusicologo inglese recente-
mente scomparso la cui proposta è efficacemente sintetizzata nella ben nota do-
manda che dà il titolo alla sua più famosa pubblicazione, e che non è altro che
uno stimolo, una provocazione, un vero e proprio programma di ricerca con una
sua propria morale e filosofia: How musical is man? (Come è musicale l’uomo?).
Due sono i presupposti fondamentali di Blacking:

tutta la musica è musica popolare [folk], nel senso che non può essere trasmessa o
avere un significato al di fuori dei rapporti sociali (Blacking 1973, 24);
la chiave per la comprensione della musica è nel rapporto esistente fra soggetto
[l’uomo] e oggetto [il suono], principio attivo di organizzazione (Ibid., 48).

In altre parole, tutta la musica è ‘etnica’, e come tale va sempre considerata; di


conseguenza bisognerà sempre porre al centro dello studio le pratiche e i com-
portamenti musicali piuttosto che gli oggetti sonori ‘in se stessi’.
In particolare, Blacking era interessato allo studio della musicalità umana intesa
come competenza e capacità musicale posseduta da ogni membro acculturato di
una data comunità, e puntava un po’ ambiziosamente ad uno studio che riuscisse
a mettere in luce meccanismi tanto generali (le ‘strutture profonde’) da poter es-
sere ipotizzati costanti psico-biologiche, antropologiche, universali. Per questa
strada è giunto ad una concezione di popular music alquanto interessante:

4 Fra le definizioni più complete ed elaborate, vedi Tagg 1979.

Studiare la popular music 3


Riconosciamo la popular music quando alla gente piace un motivo, una sonorità o
un intero pezzo di musica (...) e cerca di mettersi in relazione con l’organizzazione
dei ritmi, delle note e dei timbri che percepisce.
In questo senso, ‘popular music’ è una categoria di valore che può essere applicata a
qualsiasi stile di musica: è musica che piace o è ammirata dalla gente in generale
(...), descrive positivamente la musica che ha successo nel suo obiettivo fondamen-
tale di comunicare in quanto musica. La musica che la maggior parte di gente consi-
dera di maggior valore è popular music (Blacking 1981, 13).

Blacking, da buon etnomusicologo, si interessava principalmente alle culture


lontane dalla nostra, dove risultano particolarmente evidenti agli occhi del ricer-
catore culturalmente relativista l’eurocentrismo dell’approccio musicologico tra-
dizionale e l’inconsistenza dell’ideale di una musica ‘autonoma’, depurata da
ogni intrusione del sociale. Ora, noi ci occupiamo invece dell’esperienza musi-
cale comune nella nostra cultura, una esperienza che è quindi anche nostra; cio-
nondimeno, le indicazioni di Blacking rimangono di grande importanza.

MAROTHY, SHEPHERD
Ciò risulterà chiaro se prendiamo in considerazione Jànos Maróthy (1980, 1981)
e John Shepherd (1988), i quali hanno appunto rivolto l’attenzione non tanto alle
culture a loro lontane nello spazio e/o nel tempo, quanto soprattutto alla propria.
Partendo dall’assunto – che certo Blacking condividerebbe – che tutta la musica è
fenomeno intrinsecamente sociale, entrambi gli autori ipotizzano che fra musica
e società esista una sorta di omologia strutturale, e quindi indagano sulle relazioni
fra strutture musicali e strutture sociali cercando di esplicitare tale omologia. In
tal modo mettono in luce i significati sociali, i modelli di comportamento, le
ideologie e le visioni del mondo che si riflettono nella musica. Maróthy e
Shepherd ci propongono quindi studi musicali di tipo storico-sociale dove però si
tenta di risaldare quel rapporto fra uomo e musica che negli studi musicali tradi-
zionali è andato in frantumi, e così facendo ci mostrano anche quanto complesso
e pluralistico è questo rapporto anche solo all’interno della nostra stessa cultura.
Resta solo da aggiungere che, se Shepherd continua sostanzialmente ad usare
termini come ‘folk’ e ‘popular’ in modo intuitivo per denominare oggetti musicali
definiti dalle loro condizioni socioculturali di esistenza e da tratti tecnico-stlistici,
Maróthy concepisce la questione in modo diverso. Egli pone infatti l’accento su
un certo tipo di creatività fondata sull’appropriazione musicale, la quale consiste
fondamentalmente nel ricavare da qualsiasi materiale con il quale si viene a
contatto (sia esso musicale o meno) A music of your own (vedi Maróthy 1981),
cioè una musica adatta (e ‘adattata’) alle proprie esigenze e capacità.
Secondo Maróthy, un comportamento basato sull’appropriazione sarebbe un
tratto generale e forse antropologico della creatività umana, un comportamento
che nella musica trovava la sua più vera e originaria realizzazione nelle culture
arcaiche orali – ossia nel folclore musicale – e che oggi, ormai soffocato dalla
condizione alienata dell’uomo, si manifesta solo a tratti. La ‘popolarità’ della mu-
sica starebbe dunque nel manifestarsi di questo comportamento creativo, nella
popular appropriation, e non in determinati gruppi socioculturali o in determinati
stili o generi musicali.

4 Roberto Agostini
MIDDLETON
Richard Middleton (1990) pone alla base del proprio studio il concetto di cultura
popolare sviluppato negli studi sociologici di Stuart Hall5, e propone un quadro
generale di tipo storico secondo il quale i vari tipi di popular music devono ve-
nire studiati nel contesto storico e sociale del quale fanno parte. Egli descrive
quindi le specificità della popular music contemporanea passando in rassegna le
condizioni sociali e culturali che la caratterizzano. Riflettendo sul problema della
competenza musicale e su quello della pertinenza, si rende poi conto della diffi-
coltà di ‘definire’ la popular music, e va qui notato il suo sforzo per centrare
l’indagine sull’oggetto:

La competenza popolare può connettersi a qualsiasi tipo di musica, anche se le mu-


siche codificate in maniera a lei analoga rendono la cosa più probabile. In modo si-
mile, la popular music può essere ascoltata in conformità con i principi della com-
petenza colta (come a volte succede quando abbiamo a che fare con musicisti di
professione). La maggior parte dell’ascolto della popular music sembra comunque es-
sere di tipo conforme alla competenza popolare. Entro questo limite, questa compe-
tenza fa parte della definizione di ‘popular music’. Allo stesso tempo, il fatto che
competenza popolare e popular music non sono del tutto omologhi aiuta a spiegare
la difficoltà del definire la popular music (in quanto oggetto) (Middleton 1990, 175,
corsivo mio)6.

In base a questi presupposti, Middleton propone anzitutto una analisi sintattico-


generativa con la quale cerca di risalire alle strutture profonde generali della mu-
sica, le quali – nella sua ipotesi – posseggono implicazioni cognitive, affettive e
cinetiche. Egli denomina tali strutture ‘gesti’. Middleton propone poi anche
l’analisi semantica. Questa ha a che fare principalmente con la ‘significazione
primaria’ e consiste in una

‘semantica strutturale’ che dovrebbe considerare il significato delle unità e dei para-
metri nei termini delle loro relazioni con altre unità e parametri e nei termini della
loro posizione su vari ‘assi’ che si riferiscono a opposizioni binarie o a continuum –
assi come, ad esempio, ripetizione/cambiamento, quantità di variazione, polarità to-
nale, tipo melodico (calmo/nervoso, frase lunga/frase corta, ascendente/discendente),
timbro (ruvido/liscio, variato/non variato, quanto variato) e così via (Ibid., 222).

Va notato che analisi semantica e analisi sintattica si incontrano. Sintetizzando


alquanto, dirò solo che per Middleton la semantica delle strutture è collegata alle
strutture profonde a livello di ‘gesti’. I gesti non sono quindi altro che strutture
pre-concettuali che si riferiscono a processi somatici strutturalmente analoghi a
processi musicali. Credo che uno dei punti più interessanti della proposta di
Middleton stia proprio qui, nell’andare a scavare nelle strutture profonde generali

5 “La cultura popolare [popular culture] non è in senso ‘stretto’ la tradizione popolare che resiste
(...) né è costituita della forme che su questa si sono sedimentate. Essa è il terreno sul quale si ope-
rano le trasformazioni” (Stuart Hall, “Notes on Decostructing «the Popular»”, in S. Samuel, ed.,
People’s History and Socialist Theory, London, Routledge, 1981, pp. 227-240; cit. in Middleton
1990, 7).
6 Ovvio che porre la questione in questi termini significa essere comunque ben consapevoli del
problema della pertinenza delle strutture musicali: tipi di competenze diversi possono portare a
diverse segmentazione della materia sonora.

Studiare la popular music 5


(neurologiche, biologiche, antropologiche, psicologiche) dei comportamenti mu-
sicali.
Solo in un secondo momento Middleton propone l’analisi della ‘significazione
secondaria’, ovvero l’analisi del significato connotativo (associativo, emotivo) e
sociale (ideologico) della musica. Per Middleton questo è un livello di significa-
zione ‘extramusicale’ socioculturalmente determinato che nasce soprattutto sulla
base della significazione primaria e del rapporto fra testo musicale e contesti di
occorrenza.
Trattando il problema del significato sociale della musica, Middleton si sposta
così verso la sociologia proponendo il principio di ‘articolazione’, principio si-
mile a quello di ‘omologia’, ma tendente a porre in risalto la convenzionalità so-
cio-culturale e la dinamicità della relazione fra strutture musicali e strutture so-
ciali andando contro all’idea di omologie ‘innate’ o ‘naturali’. Per quanto ri-
guarda l’analisi delle connotazioni, Middleton è invece dell’idea che – problemi
metodologici a parte – nella popular music è operativo soprattutto il livello di si-
gnificazione primario, mentre i casi di stimolazione di associazioni connotative
sono rari.

TAGG
Sull’idea di comunicazione musicale ha poi basato tutto il proprio lavoro Philip
Tagg (1979, 1981, 1982). Tagg vede infatti uno dei tratti più caratteristici della
popular music nella sua capacità di comunicare veri e propri significati lingui-
stici, immagini, stati d’animo, emozioni, atmosfere, ecc.. In pratica, tutto ciò si-
gnifica sostenere che nell’epoca contemporanea uno dei tratti più caratteristici
della competenza musicale comune è quello dell’uso della musica come mezzo
di comunicazione. Da questo punto di vista l’indagine di Tagg è doppiamente
interessante: pur partendo da una definizione di popular music basata sull’oggetto
piuttosto rigida, essa si rivela poi essere centrata in generale sul funzionamento
della musica in quanto sistema simbolico a prescindere dal genere o dallo stile
esaminato7.
Secondo Tagg, la comunicazione musicale è favorita dal livello di percezione
‘preconscio’ che si è recentemente diffuso nelle pratiche musicali quotidiane. Qui
il soggetto, pur sapendo di ascoltare musica, non vi presta molta attenzione per-
ché ‘distratto’ da altri messaggi concomitanti a quello musicale (come al cinema
o alla televisione) o dalle attività che sta svolgendo parallelamante all’ascolto
(fare la spesa, lavorare, guidare, ecc.). La messa in azione di questo livello di per-
cezione è a sua volta favorita dalla presenza massiccia dei mass media nel
mondo contemporaneo. Questi ultimi hanno inoltre fatto sì che la ricorrenza co-
stante di certe immagini (sia nel senso di cose, ambienti, situazioni e personaggi
fisicamente rappresentati che nel senso di stati d’animo e atmosfere da loro su-
scitati) insieme a certi elementi o stili musicali ha finito con l’istituire un vero e
proprio sistema uniforme di correlazioni significante/significato alquanto stereoti-

7 Questa tendenza ad occuparsi di pratiche e comportamenti più che di oggetti musicali è evi-
dente negli scritti più recenti (vedi, ad esempio, Tagg 1984, 1990).

6 Roberto Agostini
pato. In questo modo, la comunicazione musicale risulta spesso enfatizzata per-
fino dove di fatto non ci sono immagini concomitanti alla musica ascoltata.
Il lavoro di Tagg è di grande interesse soprattutto perché egli è l’unico autore ad
aver elaborato un rigoroso metodo per l’analisi della popular music, un metodo
talmente complesso che qui non può che essere semplicemente accennato. In
breve, questo metodo consiste nella interpretazione dei significati comunicati
dalla musica attraverso un procedimento fondato sul confronto fra il brano in
esame e altri a lui simili. Per prima cosa, Tagg cerca di giungere ai musemi (le più
piccole unità di significato) utilizzando per corroborare le proprie ipotesi inter-
pretative una operazione – la ‘sostituzione ipotetica’ – alquanto simile a quella
che i linguisti chiamano ‘prova di commutazione’8. E’ infatti evidente che a que-
sto livello di analisi Tagg deve fare i conti con il problema della pertinenza di
determinati elementi sonori rispetto a un determinato senso. Tagg indaga poi an-
che sul processo musicale, ossia sul modo in cui i musemi si succedono o si so-
vrappongono formando unità musicali più ampie. A questo scopo egli utilizza
vari tipi di soluzioni grafiche che mettono in forma i risultati dell’analisi ‘muse-
matica’ (va segnalato l’uso di modelli generativi).

STEFANI
In un recente saggio (vedi Stefani 1991), Stefani propone come punto di partenza
per la ricerca musicale l’idea di esperienza musicale intesa come “compresenza
indivisibile dell’oggetto musicale e del soggetto che lo esperisce” (Stefani 1991,
29). In questa prospettiva la ricerca deve esplicitare la relazione reciproca che si
instaura tra oggetto musicale e soggetto umano inteso come essere individuale,
socioculturale, universale. Ed infatti il lavoro di Stefani è più o meno sempre stato
orientato in questa ottica: spesso egli parte da una certa produzione di senso sulla
musica per andare a cercare quali elementi musicali sono pertinenti ad essa,
quali comportamenti ne stanno alla base, quali competenze musicali sono state
messe in azione.
Più in specifico, Stefani ipotizza che alla base dell’esperienza musicale stia una
competenza musicale – “la capacità di produzione di senso mediante e/o intorno
alla ‘musica’” (Stefani 1982, 9) – che è posseduta, anche se in misura diversa, da
tutti i membri acculturati di una data comunità. Egli elabora quindi un modello
fondato sull’idea di una competenza musicale stratificata che dai livelli più co-
muni e generali giunge fino a quelli più specialistici e specifici al campo musi-
cale. Ad ogni esperienza musicale corrisponderà la messa in azione di una de-
terminata porzione di competenza formata dalla compresenza di più livelli in

8 La prova di commutazione è una complessa procedura di analisi che in musica è generalmente


usata per stabilire che cosa nella musica è pertinente a un determinato senso. Una volta ipotizzato
che un dato elemento musicale veicoli un certo ‘senso’, si procede alterando tale elemento senza
però mutare in alcun modo il contesto in cui esso occorre. Se a operazione conclusa il senso ri-
sulta mutato, allora l’ipotesi è corroborata, e possiamo concludere che, in quel dato contesto,
quell’elemento musicale è pertinente a quel senso; viceversa, se il senso non è mutato l’ipotesi è
falsificata. Fra le applicazioni più interessanti, vedi quelle implicite di Tagg (1979, 1981) e quelle
di Stefani, Marconi e Ferrari (Stefani e Marconi 1989; Stefani, Marconi e Ferrari 1990; Marconi
1991). Per una discussione generale su questo metodo analitico e su questi autori, vedi Agostini
1990.

Studiare la popular music 7


dosi variabili. Va da sé che la messa in azione di porzioni di competenza diverse
può portare a segmentazioni della materia sonora diverse. Ecco quindi che ci
trova di fronte al problema della pertinenza, che Stefani risolve mutuando dalla
linguistica il metodo della prova di commutazione.
Stefani è particolarmente interessato alle esperienze musicali più comuni e diffuse
nel mondo contemporaneo occidentale e in questa prospettiva sviluppa una inte-
ressante concezione di musica popolare. Egli ipotizza che nella nostra cultura
l’esperienza musicale sia regolata da due principali tipi di competenza che ad un
livello di osservazione generale possono essere giudicati relativamente omogenei:
la competenza ‘popolare’ e la competenza ‘colta’9. Dunque il popolare in musica
non sta nelle qualità intrinseche della musica, in determinate condizioni storiche
e socioculturali o in determinati ceti sociali, bensì in un certo comportamento
dell’uomo produttore e/o consumatore di musica, in un certo modo di fare coi
suoni che mette in gioco determinati livelli di competenza piuttosto che altri. Da
qui Stefani propone come criterio del popolare in musica quello
dell’appropriazione:

un’esperienza musicale è tanto più popolare quanto più c’è appropriazione, di più
gente, in più modi, e particolarmente in certi modi tipici che sono opposti a quelli
tipici di un’appropriazione colta (Stefani 1986, 97, corsivo mio).

Appropriazione è una categoria trasversale alla dicotomia produzione/consumo e


può essere intesa come ‘consumo produttivo’, modo di fare con le cose, modo di
agire, di usare. In questa ottica il popolare diviene “una categoria quasi-antropo-
logica, affine al ‘quotidiano’” (Ibid., 98).
In breve: Stefani vede la popolarità della musica nell’esperienza musicale co-
mune, ovvero nei comportamenti musicali più comuni e diffusi nella quotidianità
dove – a prescindere da repertori, stili, generi e da qualsiasi altra classificazione
fondata su criteri tecnico-stilistici o socioculturali – vengono messi in azione i li-
velli di competenza musicale popolare10.

VERSO UN NUOVO PARADIGMA


Blacking, Maróthy, Shepherd, Middleton, Tagg, Stefani: sei diversi tipi di approc-
cio al problema ‘studiare la popular music’11. Eppure all’inizio di questo scritto
abbiamo visto che questi stessi autori – assieme a molti altri – convergono verso

9 Ciò non toglie però che questi due tipi di competenza siano caratterizzi da una certa eteroge-
neità interna. Stefani ha indagato sulla competenza popolare cercando di metterne in luce sia i
tratti generali che quelli particolari (vedi soprattutto Stefani 1977, 1986; vedi anche nota 10).
10 Per scritti di Stefani più a carattere teorico generale, vedi Stefani 1982, 1987, 1991. Per quelli
più specifici sul ‘popolare’ in musica, vedi Stefani 1977, 1985a, 1986, 1989. In ogni caso, gli
scritti di Stefani sono sempre orientati in quest’ultima ottica: oltre a quelli appena citati, anche
studi come Stefani e Marconi 1989 e Stefani, Marconi e Ferrari 1990 vanno in questo senso.
11 E’ doveroso precisare che la lettura data del lavoro di questi sei autori è stata fatta in relazione
al problema ‘studiare la popular music’ e non rende affatto giustizia al vasto lavoro di ricerca da
loro portato avanti. Questo vale soprattutto per Maróthy, Stefani e Blacking: visto che il loro la-
voro sulla popular music rientra nell’ambito di ricerche il cui raggio di azione è molto vasto, essi
non possono essere annoverati tra i ‘teorici della popular music’ in senso stretto.

8 Roberto Agostini
interessi comuni e fanno addirittura parte di una stessa associazione (la IASPM).
Viene spontaneo chiedersi se, al di là dei punti di convergenza più superficiali –
interessi per certi repertori (il rock, prima di tutto), per le comunicazioni di massa,
per la tecnologia musicale e così via (vedi il primo paragrafo) –, è possibile rile-
vare interessi comuni anche a livello più profondo. Cercherò di chiarire questo
punto assumendo gli studi degli autori qui ricordati come casi particolarmente si-
gnificativi dell’intero campo di studi sulla popular music.
A livello molto generale, va notato che gli autori ricordati non pensano alla ri-
cerca come pura accumulazione di saperi o come mero passatempo intellettuale.
Al contrario: per loro la ricerca deve essere anzitutto socialmente utile. In questo
senso è poi interessante notare che, pur partendo da riferimenti filosofici e politici
diversi, essi giungono a conclusioni del tutto simili.
In generale, questi autori insistono sul fatto che nella nostra società anche la mu-
sica – come molte altre attività umane – si sviluppa in una direzione scarsamente
democratica e profondamente alienata. Essi pensano infatti che nella nostra so-
cietà siano presenti elementi di inibizione o addirittura di repressione delle po-
tenzialità musicali dell’uomo che si manifestano principalmente in fenomeni
quali la divisione fra ‘esperti’ e ‘profani’ (divisione del lavoro, specializzazione),
l’intolleranza per le differenze, la diffusa convinzione che la musica non sia una
forma conoscitiva ma solo ‘arte’ o ‘divertimento’ (spaccatura fra sfera del tempo
libero e sfera del tempo di lavoro).
Ecco quindi che per mutare questa direzione dello sviluppo delle attività musicali
lo studio della popular music è di particolare importanza, in quanto valorizza le
pratiche e i comportamenti musicali comuni, assume e cerca di spiegare la plura-
lità delle attività musicali senza pregiudizi di sorta, e considera la musica non
come mero intrattenimento, ma come forma di conoscenza alla pari, ad esempio,
del linguaggio verbale. Ma l’obiettivo ultimo della ricerca spesso oltrepassa i
confini dell’ambito strettamente musicale: studiare e comprendere la popular
music non è solo un modo per vivere e aiutare a vivere meglio e più consape-
volmente il proprio rapporto quotidiano con la musica, ma è anche un passo
nella direzione di un più generale processo di superamento dell’attuale condi-
zione non democratica e alienata in cui si trova l’uomo nella nostra società.
Non è certo questa la sede per dilungarci su queste complesse problematiche12; è
invece interessante notare che lo sviluppo di questa posizione di impegno sociale
va di pari passo con lo sviluppo di un punto di vista dal quale guardare alla mu-
sica diverso da quello della musicologia tradizionale. Infatti, mentre la musicolo-
gia si fonda su una concezione ‘autonomistica’ dell’oggetto musicale e centra
quindi l’attenzione sull’oggetto in se stesso quasi fosse un oggetto dato in natura,
lo studioso di popular music, interessato sia per piacere personale che per ragioni
di impegno sociale alla pluralità delle attività musicali e alla varietà dei meccani-

12 Vedi le osservazioni dal punto di vista del pensiero marxista di Shepherd 1988, Blacking 1973
e Maróthy 1980, e quelle dal punto di vista del pensiero non-violento di Stefani 1985b e 1989.
Altre osservazioni interessanti si trovano negli scritti di Tagg e in AAVV 1990. Queste letture criti-
che della nostra cultura non sostengono che ci troviamo di fronte a potenti ‘forze del male’ che
cospirano intenzionalmente ai danni delle persone comuni; piuttosto, esse descrivono il risultato
del modello di sviluppo che ha scelto la nostra cultura.

Studiare la popular music 9


smi in essa implicati, sente l’esigenza di collegare l’oggetto musicale a chi lo pro-
duce, a chi lo usa, alle situazioni e ai contesti in cui occorre, e pone quindi a
fondamento della ricerca musicale l’idea di musica come attività intrinsecamente
umana, come oggetto sociale e culturale. Assumere un simile punto di vista
spinge la ricerca a spostare il proprio centro di interesse dall’oggetto alle pratiche
e ai comportamenti musicali, o meglio al rapporto che si instaura fra oggetto mu-
sicale e soggetti umani (una società, una cultura, il mondo intero).
Ecco quindi che assistiamo al rifiuto dell’apparato teorico-metodologico svilup-
pato dalla musicologia tradizionale13 e al tentativo di svilupparne uno adeguato
alla popular music, alle sue specificità. Nel campo di studi sulla popular music
siamo però di fronte ad una scarsa omogeneità a livello di concetti, teorie e me-
todi, e quindi sarebbe un po’ forzato cercare di fare considerazioni generali a
questo proposito14. Mi sembra comunque che, sulla base di un comune approc-
cio interdisciplinare, nello studio della popular music si siano sviluppate due
principali linee di ricerca la cui distinzione – peraltro alquanto sfumata – mette in
luce due diverse concezioni di popular music. In questo senso, il caso dei sei
autori citati è esemplare.
Se Middleton, Shepherd e, soprattutto nei suoi primi scritti, Tagg centrano lo stu-
dio su determinati tipi di stili e generi, Blacking, Maróthy e Stefani (e, a volte,
Tagg) centrano invece lo studio sui comportamenti e sulle pratiche musicali dif-
fuse e quotidiane. In breve: mentre i primi ritengono che la popular music sia un
certo tipo di musica che si differenzia da quella ‘colta’ e da quella ‘folk’ in base a
categorie di tipo storico-socioculturale, i secondi preferiscono indicare con ‘po-
pular music’ (Maróthy, Blacking) o ‘musica popolare’ (Stefani) un certo modo di
vivere la musica legato alle pratiche sociali quotidiane della nostra cultura e so-
cietà, e spesso lasciano intendere che questo modo di vedere taglia trasversal-
mente la dicotomia folk/popular e oppone un generico modo ‘popolare’ di vivere
la musica alle pratiche altamente specializzate dei musicisti e degli esperti.
Un ultimo rilievo: per questi autori lo studio della popular music non deve sem-
plicemente ambire ad una legittimazione istituzionale che gli garantisca un pro-
prio angolino sottodisciplinare nel mondo accademico; al contrario, esso deve
contribuire ad un auspicato riassetto dell’intero campo degli studi musicali e mu-
sicologici, riassetto alquanto urgente visto che gli studi musicali e musicologici
tradizionali non riescono a rendere conto della vita musicale attuale nella sua
globalità e pluralità, ma solo di alcuni suoi aspetti parziali. Quello a cui ideal-
mente si tende è, in parole povere, lo sviluppo di una nuova musicologia, interdi-
sciplinare e priva di pregiudizi, che sia in grado di venire alle prese con
l’universo musicale nella sua globalità. Lo studio della popular music, in quanto
studio che si concentra proprio su aspetti musicali estremamente attuali ma allo

13 In realtà, più che di rifiuto si tratta di relativizzazione: gli studi musicologici tradizionali sono
stati sviluppati per rendere conto delle attività musicali altamente specializzate dei musicisti e de-
gli esperti di musica del mondo nord-occidentale moderno e contemporaneo, quindi non neces-
sariamente gli strumenti teorico-metodologici qui sviluppati saranno appropriati per lo studio
della popular music.
14 Alcuni elementi più o meno comuni sono però emersi: il principio di pertinenza, le idee di
competenza (o musicalità), di struttura profonda, di appropriazione sono i casi più evidenti.

10 Roberto Agostini
stesso tempo ai margini degli studi musicali tradizionali, può contribuire in modo
determinante a questo progetto15.
Tirando le somme, mi sembra che fra gli studiosi di popular music esista una
grande convergenza soprattutto a livello di motivazioni e valori, oltre che di
punto di vista generale dal quale osservare i fatti musicali. Ho cercato comunque
di mettere in luce l’esistenza di alcuni strumenti concettuali e metodologici e di
alcune direzioni di ricerca che sembrano emergere e che ritengo particolarmente
stimolanti. E’ interessante notare che, se tutto questo sembra dare contenuto ad
un campo di studio sulla popular music ancora giovane e in via di formazione,
d’altra parte contiene già in sé la spinta a guardare oltre questo stesso campo
verso quello dello studio della musica in genere: una tensione continua tra lo
studio della ‘popular music’ e lo studio della musica in una prospettiva ‘popolare’.

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15 Se capita spesso di incontrare la manifesta volontà di incidere attivamente sull’impostazione


generale degli studi musicologici, alcuni autori approfondiscono in modo particolare la riflessione
su questo problema. A questo proposito ricordo le osservazioni di Shepherd e Middleton, Bla-
cking e la sua intenzione di superare la rigida distinzione fra musicologia ed etnomusicologia, e
l’articolata proposta di Stefani (vedi AAVV 1990).

Studiare la popular music 11


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