Sie sind auf Seite 1von 71

TOUR GRECIA CLASSICA E METEORE

ovvero
Come tentare di trasformare un viaggio ‘Alpitour’ in un’esperienza
cul-tu(r)ale

La prima cosa da procurarsi per fare un bel viaggio è una bella


gnocca… In alternativa, uno o due amici affiatati.
La seconda è una buona mèta.
Avevo entrambe: Maddalena… e la Grecia Classica.
Lo giuro: io non ho mai partecipato a un viaggio organizzato…
prima di andare in Grecia. Quando andai con mia cugina a Praga nel
’91 – il mio primo viaggio – fu lei ad organizzare quasi tutto, anche se
apparentemente concordammo tutto; quando nel ‘92 visitai con sei
amici Berlino e l’ex DDR successe il contrario: apparentemente
concordammo tutti insieme il tragitto, che guarda caso coincideva
con quello che avevamo preparato qualche sera prima la Paola F. ed
io… Poi noi due abbiamo organizzato altri viaggi: la valle del Reno, la
Provenza, Napoli, la costiera Amalfitana e sono sempre andati bene;
del resto è sempre stato facile organizzare i viaggi con Paola: tutti e
due vogliamo vedere molto, spendere poco… e camminiamo senza
brontolare… Ho sempre preparato da me i miei viaggi: così mi fermo
dove voglio, guardo quello che voglio…
Per quest’estate avevo in mente di girare l’Umbria e le Marche:
qualcosa ho già visto, qualcosa no; Maddalena non aveva visto niente.
Ma la sera che facemmo visita alla Paola, lei ci decantò la
magnificenza della Grecia, ci mise in mano quattro guide… E tutto
questo ebbe l’effetto di eccitare Maddalena in maniera definitiva.

La Grecia è la Grecia, confesso… uno dei pochi viaggi


relativamente lontani (quando bisogna prender l’aereo è lontano,
no?) che da anni stavano ai primi posti dei viaggi possibili. Come
potevo spegnere gli occhi di Maddalena che tanto s’erano illuminati a
quell’idea?
L’organizzazione di un viaggio in Grecia non è complicata, ma
nemmeno così semplice. Aereo o traghetto? E il traghetto l’andiamo a
prendere a Brindisi o ad Ancona? E la macchina? Ce ne vorrebbe una
comoda, con l’aria condizionata, e che magari consumi poco. Si
potrebbe noleggiarla in loco. E i costi? E per dormire? Ogni
pomeriggio cercare albergo… magari non troppo costoso… poi si
trova una bettola: io che sono un po’ tirchio m’accontento, ma
Maddalena? No, meglio affidarsi ad un tour operator: non verrà a
costare molto di più (?)… e io non sarò tacciabile di “spartanismo” (o
spartachismo?). E mi porteranno in giro come un pacco: difficoltà
mentale zero.

1° giorno - lunedì 18 luglio 2005


Il padre di Maddalena, senza dire parola (in famiglia il suo
soprannome è Helmut), ci accompagna a Croce; da lì il mio, parlando
tutto il viaggio, ci accompagna all’aeroporto di Tessera. A mio padre,
che non ha mai viaggiato in aereo, l’aereo deve sembrare un
giocattolo per pazzi, e l’aeroporto una Las Vegas inconcepibile. Si
ferma a farci compagnia in attesa che c’imbarchiamo: in questi giorni
è a casa solo, non sa che fare né dove andare. Mia madre sta
assistendo mia nonna in albergo da mia sorella, e lui per questo – o
per altro – ce l’ha con moglie e suocera. Ma c’è più di un’ora da
aspettare, lo congediamo, e se ne va.

Un’unica lunga fila per il nostro check-in. Poi viene aperto lo


sportello a fianco e lesti ci precipitiamo verso quello: la fila si
dimezza. Solo che la nostra fila ora non procede: s’è inceppato il
computer. Nella fila accanto la famigliola che era dietro di noi ora ci
supera. Viene aperto un terzo sportello, noi ritorniamo nella prima
fila. Le leggi di Murphy hanno una loro verità.
Scendiamo al piano terra. Ormai è l’orario, ma del volo nessun
annuncio. L’aereo ha un’ora di ritardo. Per ingannare l’attesa
Maddalena va a comprare dei biscotti. Quando finalmente l’aereo
arriva saliamo a bordo “L’aeromobile è giunto con un’ora di ritardo
all’aeroporto” dichiara dapprima una hostess; qualche istante dopo il
pilota ripete la stessa scusa. Perché un aeromobile giunge in ritardo
di un’ora dall’aeroporto da dove partire? È chiaramente una scusa…
certo non basta dire ‘Ci scusiamo per il ritardo’, sarebbe irritante, la
colpa sarebbe di chi sta pronunciando la frase… invece la colpa è
sempre altrove, di qualcun altro, e non ci si può fare niente. Siamo
diventati tutti bravi a inventare le scuse meno irritanti… ‘Stiamo
lavorando per voi…’.

Dal cielo vediamo le luci di Atene. Non riconosco niente, solo


vagamente i contorni illuminati del Pireo studiati in piantina.
Atterriamo all’aeroporto ‘Eleftherios Venizelos’ (chi è? Politico greco,
ce l’ho in mente da qualche parte…) che è tardissimo; la signorina
Alpitour, controllata la nostra identità, ci indirizza verso l’autobus
numero 1, in attesa appena fuori dell’aeroporto: un superlusso che
nel corso del viaggio non vedremo più se non a fianco del nostro.
Dopo un po’ sull’autobus sale il ragazzo Alpitour, Alessandro, che ci
assisterà in Atene: fa l’appello e manca proprio il nostro nome… A
voler essere scaramantici dovremmo toccarci… Alessandro scende
dall’autobus per andare a controllare le liste dei colleghi, nell’istante
in cui una di loro sta salendo dalla porta centrale, lo chiama, lo
insegue, scende anche lei da quella davanti. Sorrido: da quando
siamo partiti con occhio indagatore studio tutti i personaggi addetti
all’organizzazione del nostro viaggio, ed ogni sbavatura mi fa
sorridere. Qualche minuto dopo Alessandro ritorna, è tutto in ordine,
può darci le prime indicazioni e un foglietto su cui segnare le
escursioni facoltative che ci vengono proposte per i due giorni che
staremo ad Atene e che dovremo riconsegnare l’indomani mattina:
pomeriggio di martedì: gita in autobus a Capo Sounion, punta estrema
dell’Attica: 34 € a cranio
sera di martedì: serata greca in un tipico locale con cena e spettacolo: 52 €
a cranio
intera giornata di mercoledì: mini crociera a Aegina, Poros e Hydra: 95 € a
cranio
Quello sul nostro autobus è un gruppo che viaggerà compatto per
tutto il tour: 42 persone del circuito ‘Turistico’. Gli altri circuiti sono
‘Confort’ e ‘Sup(i)rior’, ora stanno in altri autobus, ogni gruppo
diretto al proprio albergo, di qualità confort o superior. La famigliola
che faceva la fila con noi a Venezia non c’è più: loro sono minimo
confort. Noi siamo i poveracci dell’Alpitour, o forse quelli che trovano
idiota spendere uno o due centinaia di euro in più a testa solo per
avere una camera più bella o bellissima per una notte.
Durante il trasferimento all’hotel (sono 40 minuti di una bella
strada fino al centro di Atene), mentre Alessandro cerca di intavolare
un dialogo simpatico con i più sensibili di noi raccontando qualcosa di
sé (è previsto da contratto, e le signore di mezza età rispondono),
Maddalena si guarda in giro, io sorrido disapprovando.

Arriviamo all’Hotel Oscar in via Filadelfia che sono le 23 passate.


In fondo alla strada è la stazione dei treni (Stazione Larissa: di lì si
parte per andare a Salonicco…), ma quel che interessa è che siamo
sopra la fermata del metrò (Fermata: “Larissa Station”, ovviamente).
L’albergo si presenta bene, speriamo che anche la camera…; in attesa
delle chiavi ci guardiamo in giro in cerca di facce simpatiche: tutti
vecchietti o giovanetti… Poiché Alessandro va in ordine alfabetico (e
noi siamo registrati come coppia Qfwfq) siamo tra i primi a ricevere
la chiave della stanza: 114. Poco dopo siamo al piano ristorante: è
quasi mezzanotte, ma ci devono ancora la cena.
Maddalena ed io discutiamo un po’ su quale escursione scegliere:
lei farebbe la crociera, così si cuccherebbe anche un po’ di mare (ma
anche la bagarre dei turisti al mare, il sole in faccia per ore, il
bagnetto a comando…); io preferirei Capo Sounion, la meta più
culturale delle tre… (di sicuro ci sarà meno gente… ma la butto sul
culturale, non cambio mai).

2° giorno – martedì 19 luglio -mattino


IN AUTOBUS PER ATENE FINO ALL’ACROPOLI

L’appuntamento in autobus è per le 8,30. Io e Maddalena


abbiamo deciso che faremo solo l’escursione a Capo Sounion (è la
meno costosa e la più culturale delle tre…), rinviando ad un altro
anno la crociera alle isole, “che allora dovrà essere maxi” («cetto,
cetto…»).
Sull’autobus Alessandro ci presenta Aris, la guida locale che ci
accompagnerà la mattina per Atene e nel pomeriggio a Capo
Sounion, e da giovedì in poi per tutta la Grecia. Alessandro si
congeda e qualche mamma pensa bene di ricordargli di “fare il
bravo”.
Attraversiamo la città in autobus. Piazza di Icaro, Odós ( = via)
Agìou Konstandìnou, mezzo giro di Piazza Omonia… Omonia significa
Concordia… anche a Parigi c’è Place de la Concorde.. ovunque c’è
bisogno di ricordare una pace ritrovata. Per capirla, la storia,
bisognerebbe studiare le paci, dice sempre il mio amico Ruggero.
Imbocchiamo Via Stadìou, una delle due grandi strade parallele
che collegano Piazza Omonia con Piazza Sintagma, che insieme
formano il manubrio centrale di Atene; passiamo davanti a quello che
fu il primo parlamento della Grecia indipendente e che oggi è
l’Ethnico (=nazionale) Istorico Moussìo (foto) con davanti la statua
equestre di Theodoros Kolokotrónis, eroe dell’indipendenza;
sbuchiamo quindi in Piazza Sintagma. ‘Sintagma’ significa
‘Costituzione’. Ecco un altro punto fermo della storia d’Europa: la
costituzione… Le costituzioni europee in gran parte risalgono
all’Ottocento: simbolo di libertà e di giustizia ‘costituzione’ è la
parola magica dell’Ottocento, indipendentemente dai suoi articoli: mi
tornano alla mente le costituzioni concesse e ritirate, concesse per
convinzione o per provocazione (la costituzione siciliana di
Franceschiello), ritirate per convinzione o per paura o
inaspettatamente mantenute (lo Statuto Albertino… e Vittorio
Emanuele divenne anche per questo “il re galantuomo”… )

Siamo al centro della città. Piazza Sìntagma ha una storia lunga


che non conosco. La piazza è in lieve pendenza, ricorda Piazza San
Venceslao a Praga; noi siamo nella parte bassa della piazza; in alto,
c’è il Palazzo del Parlamento, che precedentemente era il Palazzo del
re, costruito fra 1836 e 1840 dal re Otto e finanziato dal suo padre
Ludwig I della Baviera. L’idea originale era mettere il palazzo del re
sull’Acropoli, racconta Aris, ma fortunatamente questo non è
accaduto mai. Il neoclassico è lo stile dominante di tutti le vecchie
costruzioni, case e edifici pubblici di Atene, racconta Aris.
Nella parte inferiore della piazza c’è invece il McDonalds… (e
dov’è Benetton?) proprio all’inizio di via Ermou, via principale e
pedonale dello shopping ad Atene (una delle tante Via
Montenapoleone del mondo): conduce giù al mercato delle pulci di
Monastiraki. Fatto il giro dell’isolato ritorniamo in Piazza Sìntagma
dall’importante e trafficata Via Amalia: ora siamo nella parte alta
della piazza, proprio davanti al palazzo del Parlamento, in restauro,
presidiato dagli euzoni in gonellino, calzamaglia (con questo caldo!) e
pon pon sulle scarpe chiodate. Qual è la funzione di tanto folclore?
Avrò modo di tornarci sopra.
Di fronte a noi, a sinistra, è il Grande Bretagne, un hotel
straordinariamente elegante, “il posto migliore per alloggiare ad
Atene”, e difatti ho la netta sensazione che non mi capiterà mai di
alloggiarci. Costruito nel 1862 per ricevere i capi di stato, è ancora
usato per quello scopo…
Svoltiamo a destra per Via Vassilissa (= Regina) Sofia, la via delle
ambasciate (quella italiana è un bell’edificio neoclassico protetto da
due enormi cancelli e un’altissima siepe), ancora a destra per Via
Erode Attico (il ricchissimo amico dell’Imperatore Adriano che fondò
ovunque teatri e palazzi), in fondo alla quale ci appare il meraviglioso
Stadio Callimarmaro dove nell’antichità si svolgevano le Panatenee
(le feste di tutti gli ateniesi) e dove nel 1896 si svolsero i primi giochi
olimpici dell’Era Moderna; proseguiamo a destra per via Vassilissa
Olga, passiamo di fronte al Zappio, centro mostre e congressi di
aspetto classico, mentre alla nostra sinistra stanno le rovine della
città Romana con il tempio di Zeus Olimpio, «più grande del
Partenone» (i Romani non volevano esser secondi a nessuno), e
svoltiamo a sinistra, reimmettendoci nella trafficatissima via Amalia;
ammiriamo alla nostra sinistra l’Arco di Adriano che segnava il
confine tra la Città Romana e la Città Greca e poi svoltiamo a destra
per Via Dionigi Areopagita, verso l’Acropoli.
Sto per visitare qualcosa che mi è noto da sempre, e tuttora
sconosciuto: l’Acropoli.
Nella salita all’Acropoli passiamo dapprima vicino all’Odeion
(teatro) di Erode Attico (ancora lui) del II secolo: Aris ci indica con
foto e piantine i vari periodi di costruzione delle parti dell’Acropoli;
quindi va a fare i biglietti, che dopo cinque minuti ci consegna:
piccoli lenzuolini con un sacco di tagliandi. E saliamo ai propilei.
I propilei furono ricostruiti tre volte… e anche il tempietto di
Athena Nike sta per essere ricostruito per la terza volta: guardiamo e
ne vediamo infatti solo la base.
Ares ci mostra com’era (e come tornerà); quindi inizia il suo
excursus sulle vicende che interessarono l’acropoli: come doveva
apparire nel massimo fulgore, come appariva con la torre che i
Franchi costruirono sopra i propilei, per farci abitare il governatore…
Quando dopo l’indipendenza cominciarono i restauri la torre fu
eliminata: si distrusse tutto il medievale per tornare al puro classico.
Ha senso? Solo se pensiamo che ciò che è più antico vale di più di ciò
che è meno antico. Si prende la foto di un momento e si nega il
succedersi della storia… In ogni caso è difficile scegliere.
Nei propilei Ares mostra la parte distrutta quando i turchi
avevano fatto dei propilei un deposito di esplosivi, che poi di fatto
esplosero… e una fetta di colonna spostata di dieci centimetri dal suo
asse.

Attraversiamo i propilei… la vista è magnifica ed emozionante,


nonostante i turisti e nonostante le gru: il Parthenone di tre quarti
sulla destra, la loggetta della Cariatidi che si appoggia all’Eretteo
sulla sinistra, il sole altro tra le due masse.
Ci portiamo all’ombra del Partenone. Ovunque stanno gru e
martinetti. Aris comincia il suo racconto a reintegrare la storia, che a
mia volta integro a piacer mio.
Storia del Partenone.
447-432 a.C. Per volontà di Pericle sull’Acropoli di Atene viene
costruito il Partenone, tempio dedicato alla dèa Atena. L’architetto
Ictinos si occupa della realizzazione dell’edificio, lo scultore Fidia e i
suoi allievi della sua splendida decorazione con le metope, il fregio, le
sculture dei frontoni… e la grande statua di Athena.
Fidia è già famoso per la statua di Zeus a Olimpia quando giunge
ad Atene, ma qui si supera. La dea, alta quasi 12 metri, è raffigurata
in piedi, paludata di chitone dorico con elmo a triplice cimiero, la
mano destra reggente una minuscola Nike, la sinistra poggiata sullo
scudo. Mirabile simbolo, splendente d'oro e di avorio, della città di
Atene nel tempo della sua maggiore potenza civile, militare, artistica.
I marmi del Partenone sono formati da 92 metope a rilievo: non
sappiamo se sia lui l'esecutore materiale di tutti i rilievi del
Partenone, ma è certo che dal suo genio scaturì l'idea della grandiosa
composizione. Di Fidia è sicuramente il bellissimo fregio che circonda
la cella dei Tempio, dove si snoda la processione delle feste
Panatenaiche.
Ignota è la fine di Fidia: perseguitato alla morte di Pericle, suo
grande amico, dovette fuggire da Atene. Alcuni credono riparasse a
Elide, altri lo dicono morto avvelenato nel 431 a.C.
450 d.C. Il Partenone è trasformato in chiesa cristiana dedicata
alla Vergine Maria. Da Athena Vergine alla Vergine Maria: ciò che si
mantiene nel culto è la verginità.
1204. I Franchi occupano Atene, e il Partenone diventa una
chiesa cattolica. I franchi costruiscono anche una torre vicino ai
propilei e trasformano questi ultimi in abitazione del governatore
francese
1458. Gli Ottomani conquistano Atene e trasformano il Partenone
in una moschea. Tutt’intorno sorgono delle abitazioni.
1674. Jacques Carrey realizza dei disegni che mostrano che il
Partenone è rimasto ancora praticamente intatto.
1687. Atene è assediata dai veneziani. Le autorità turche
decidono di stipare nel Partenone le riserve delle polveri e centinaia
di persone, soprattutto donne e bambini, forse pensando che l’edificio
sia solidissimo o forse illudendosi che i Veneziani lo rispettino quale
glorioso monumento… Il 28 ottobre le truppe della Serenissima
investono l’Acropoli con settecento palle di cannone e alla fine
accade l’inevitabile. Il Partenone stipato di polvere da sparo prende
fuoco e salta in aria uccidendo trecento persone sul colpo. Sacrificio
decisamente sopraffatto dalla tragedia archeologica: il centro
dell’edificio deflagra spaventosamente, ventotto colonne (su
sessanta) vanno in frantumi, sculture, fregi metope di Fidia e pareti
crollano. Quando i veneziani giungono sull’Acropoli tra le macerie
fumanti, il generale veneziano Francesco Morosini (Francisco
Mauroceno Peloponnesiaco…) conquistatore della Morea (la terra
delle more, dei gelsi o morèri… = Peloponneso) ordina di asportare le
sculture sopravvissute all’esplosione. Viene costruito un argano ma la
macchina si rompe improvvisamente facendo precipitare a terra i
marmi, che vanno in mille pezzi. Le operazioni vengono sospese. A
riprenderle ci penserà Lord Elgin...
Aris mostra una ricostruzione e la pianta della moschea che i
turchi incastrarono nello spazio lasciato dalle colonne in frantumi:
non ha i muri paralleli a quelli del Partenone, è orientata verso la
Mecca. Io penso a Francisco Mauroceno Bombardatore, veneziano
lui, signore delle campagne di guerra, veneziano io, delle campagne e
basta: mi sento coinvolto direttamente nella storia del Partenone.
Superbia? Certo, certo…
1802-1811. La ferita più grande: durante l’occupazione ottomana
della Grecia numerosi marmi che ornano il Partenone da 2.300 anni
vengono staccati in malo modo dal tempio provocando danni alla
struttura. A farlo è Sir Thomas Bruce duca di Elgin (Lord Elgin),
ambasciatore britannico presso l'impero ottomano, che porta i marmi
in Inghilterra. Si tratta di 15 metope, 56 bassorilievi di marmo e 12
statue, quasi l’intero frontone ovest del Partenone, oltre ad una delle
sei cariatidi del tempietto dell'Eretteo.
1816. Lord Elgin vende i marmi al British Museum, mostrando
dei documenti per dimostrare che aveva avuto l'autorizzazione delle
autorità ottomane per staccarli dal Partenone, documenti di cui la
Grecia contesta la legittimità: Elgin sarebbe stato autorizzato a
staccare i marmi solo per farne delle copie, non per portarli via.
Il poeta inglese George Byron (Londra 1788-Missolungi 1824) nel
suo “Pellegrinaggio del giovane Aroldo” così condannava il gesto del
connazionale Lord Elgin:
“Ciechi gli occhi che non versano lacrime vedendo, O Grecia
amata, le tue sacre membra razziate da profane mani inglesi, che
hanno ferito ancora una volta il tuo petto dolente, e rapito i tuoi dèi,
dèi che odiano l’abominevole nordico clima d’Inghilterra”.
George Gordon Byron è personaggio centrale della cultura
romantica grazie ai pellegrinaggi del suo giovane Aroldo, opera in
quattro canti, composta tra il 1812 e il 1818. Aroldo è l’alter ego
dell’autore, a cominciare dall’itinerario che disegna (Spagna, Italia,
Grecia) nel mondo mediterraneo e solare – e popolato di rovine
almeno nei due ultimi casi – che fa parte del Grand Tour. È il mondo
della bellezza antica, ma percepito anche nei suoi aspetti luttuosi; il
mondo di Foscolo, lui veramente greco per parte di madre. In questo
pellegrinaggio Childe Harold è peregrinus in senso letterale:
viaggiatore, straniero, esule e su questa molteplice valenza
semantica troverà, nel mondo mutato dalla parabola napoleonica e
dalle nostalgie ‘legittimiste’ della Restaurazione, molti giovani
seguaci.
Il pellegrino, come il suo lord, conosce però delle cadute, che si
riassumono nello “spleen” byroniano. Sentimento che fa scuola: in
Francia con de Musset, ma ancor più in Russia con Lermontov,
Puskin e, perché no, col principe Andrei di Tolstoj. Ma Byron è anche
alfiere di un’altra schiera: quella dei volontari combattenti della
libertà, che lo porta a morire a Missolungi, per la libertà e
l’indipendenza della Grecia.

Canto secondo del “Pellegrinaggio del giovane Aroldo”


LXXIII - Bella Grecia! Mesto avanzo di una gloria svanita!
Immortale, benché tu più non sia: grande, benché caduta! Chi
guiderà ormai alla lotta i tuoi sparsi figli e spezzerà la schiavitù alla
quale da lungo tempo sono abituati? Non così erano i tuoi figli che
una volta – guerrieri senza speranza votati a morte volontaria –
l’attesero nella sepolcrale valle delle squallide Termopili – oh, chi
riconquisterà quell’animo ardito, si lancerà dalle sponde dell’Europa
e ti rievocherà dalla tomba?
LXXXIV – Quando rinascerà l’intrepidità di Sparta, quando Tebe
rinutrirà Epaminonda, quando i figli di Atene saranno dotati di cuori,
quando madri greche partoriranno uomini, allora potrà essere
rinnovata – ma non fino allora. Mille anni bastano appena per
formare uno stato: un’ora può abbatterlo nella polvere: e quando può
l’uomo riaccendere il suo spento splendore, rievocarne le virtù e
vincere il Tempo e il destino?
LXXXV - Eppure quanto sei bella nei tuoi anni di dolore, Terra di
Dei! e di uomini divini perduti! Le tue valli sempre verdi, i tuoi nevosi
monti, ti proclamano ora la variegata favorita della Natura: i tuoi
santuari, i tuoi templi si abbattono al suolo, lentamente
confondendosi con eroica terra, rotta dal vomere di ogni rustico
aratro: così periscono i monumenti di mortale nascita, così tutti
periscono alla loro volta, eccetto i grandi degnamente celebrati;
LXXXVI - eccetto là dove qualche solitaria colonna piange sopra
alle prostate sue sorelle della stessa cava, eccetto là dove l’aereo
tempio di Tritonia orna il capo Colonna e brilla sulle onde; eccetto
sulla quasi dimenticata tomba di qualche eroe, ove la pietra grigia e
l’erba incalpestata debolmente sfidano i secoli ma non l’oblio; mentre
soltanto gli stranieri passano non indifferenti, attardandosi come me,
forse per mirare e sospirare ‘ahimè!’.
LXXXVIII – Ovunque calpestiamo, è suolo animato dagli spiriti e
santo; nessuna parte della tua terra è perduta per dar forma a cose
volgari, bensì un unico immenso regno di meraviglie si stende attorno
e tutti i racconti delle Muse sembrano veri, finché l’occhio duole nel
guardare intento per contemplare le scene dove si sono attardati i
nostri primi sogni; ogni colle, ogni valle, ogni profonda fossa, ed ogni
aperta campagna sfida la Potenza che stritolò i tuoi distrutti templi; il
tempo scuote la torre di Atene, ma risparmia la grigia Maratona.
XCI – Eppure pensosi ma indefessi pellegrini accorreranno in
folla ai resti del tuo passato splendore; per lungo tempo il
viaggiatore, sospinto dal vento Ionio, saluterà la fulgida terra della
guerra e del canto; per lungo tempo i tuoi annali e la tua lingua
immortale nutriranno della tua fama la gioventù di innumerevoli lidi;
vanto dei vecchi! lezione per i giovani che i saggi venerano e i poeti
adorano, mentre Pallade e la Musa svelano la loro sacra scienza.
XCII – Il cuore che n’è separato, s’attacca alla patria ove ha
sempre vissuto, se qualche essere caro rallegrò l’agognato focolare;
ma colui che è solitario si rechi qua e contempli, soddisfatto, questa
terra confacente ai suoi gusti. La Grecia non è uno spensierato paese
di allegria sociale; ma colui a cui la malinconia reca conforto, può
indugiarvisi e appena rimpiangere la terra dei suoi natali, vagando
lentamente lungo il sacro pendio di Delfo o contemplando le pianure
ove Greci e Persiani morirono.
Byron non fu l’unico a piangere per i marmi sottratti del celebre
«milordo» inglese: anche Virginia Woolf…
Lord Elgin, quest’appassionato di arte ellenica, uno dei promotori
della cosiddetta moda greca in Inghilterra, finì per pagarla cara: fra
le tante sciagure tragicomiche capitategli il naufragio della nave e la
dispersione dei marmi sott’acqua, poi in più riprese recuperati; una
terribile infezione cutanea che gli erose per buona parte il naso; lo
scontro con Napoleone, che lo fece arrestare con la moglie e uno
scozzese; lui ovviamente fu trattenuto più tempo in carcere degli altri
due, e quando fu rilasciato, giunto in suolo britannico, trovò la moglie
a letto proprio con lo scozzese in precedenza compagno di cella.

Eppure fu la sottrazione del fregio del Partenone che procurò al


tempio una grandissima pubblicità. «Esistono edifici greci più antichi
e intatti. Se non fosse stato smembrato, il Partenone non sarebbe
diventato così famoso» ha sentenziato Mary Beard, ignota scrittrice
inglese. Forse ha ragione. Di sicuro sappiamo che greci e romani non
prestarono soverchia attenzione al tempio antico. Pausania riservò
all’edificio una descrizione di imbarazzante brevità, dilungandosi
piuttosto sulla statua un po’ kitsch di Atena conservata all’interno:
«un grande simulacro realizzato con un rivestimento d’oro e avorio
attorno a un’armatura in legno, dentro la quale prosperava
indisturbata una colonia di topi…».
Plutarco si dette la pena di ricordarci il nome di architetti e
scultori della fabbrica, Ictino, Callicrate e Fidia, ingaggiati da Pericle
attorno al 440 a.C...

Scorrendo la storia due volte e mezzo millenaria del Partenone si


scopre che esso fu tempio pagano sì e no per ottocento anni, fu molto
più a lungo chiesa cristiana (oltre mille anni); quindi moschea per
altri quattrocento anni, prima di essere restituito alla classicità.
I cristiani d’Oriente e i Crociati dedicarono l’edificio a Nostra
Signora di Atene, facendone la cattedrale della città. La chiesa era
decorata con affreschi e mosaici che entrarono in rotta di collisione
con metope e fregi classici. Si agì così: i bassorilievi di Fidia che
potevano essere reintepretati in chiave cristiana vennero salvati.
Atena davanti a Era, ad esempio, venne letto come l’Angelo
Nunziante davanti a Maria, e questa fu la sua salvezza. Gli altri
invece, troppo marcatamente pagani, vennero brutalmente piallati...”

Strano destino quello dei marmi del Partenone, oggi sparsi in


tutta Europa: la maggior parte in Inghilterra, ma anche in Francia
e… sì, un frammento anche a Palermo: presenta sulla superficie dei
tratti di vesti panneggiate e un piede, forse appartenente alla dea
Peitho; un tempo sul lato est del tempio, venne donato al Museo di
Palermo più di due secoli fa.
Oggi tutti (tutti = il governo greco, la gente greca e chiunque
altro al mondo rifletta sulla vicenda) sono convinti che i marmi del
British dovrebbero essere restituiti alla Grecia. Ma non il governo
britannico che continua a rispondere: “No, sono i miei, li ho
comprati!”. Eppure, se qualcuno (=i turchi) irrompesse in casa nostra
e, tenendoci in ostaggio, vendesse i nostri quadri di valore al vicino,
una volta liberi chiederemmo al vicino di restituirci i nostri quadri,
no?
Negli ultimi decenni a dare grande impulso alla sensibilizzazione
dell’opinione pubblica mondiale fu l’attrice greca scomparsa Melìna
Merkoùri (foto), che Aris chiama Mèrcuri. Anche il parlamento
europeo ha cercato di spiegare agli inglesi che… ma niente. I Greci
speravano di far tornare i marmi ad Atene per le Olimpiadi del 2004,
quando il nuovo museo dell’Acropoli (foto) sarebbe stato dotato di
una sala apposita per ospitarli, e non ci sono riusciti.

Ma perché nacque il Parthenone, dedicato ad Athena? Tutta la


città in verità fu dedicata ad Athena.
Atene, Athena, Athena Parthenos (=vergine), Partenone. Un
giorno il grande re degli Dei, più che mai tempestoso per un terribile
mal di testa, chiamò Efesto e gli ordinò di aprirgli la fronte con un
colpo di scure. Il dio dei fabbri, all’ordine del padre che non
ammetteva discussione, obbedì: calò il fendente sulla sua fronte e
dalla ferita balzò una bellissima guerriera: era Athena, alta di statura,
maestosa, dal volto franco e sereno, gli occhi azzurri, acuti e
profondi. Athena è dea della guerra: indossa uno splendido peplo, che
lei stessa ha tessuto e un’armatura tutta d’oro: un elmo lucente
ricopre i capelli, nelle mani stringe la lancia e lo scudo con la testa
della Gorgone; spesso porta con sé anche l'egida, il magico scudo di
suo padre Zeus.
Athena è dea della guerra, ma della guerra combattuta per il
trionfo della giustizia e guidata dal senno e dall’intelligenza di chi, di
questa triste necessità, fa un’arte volta a reprimere il trionfo del
male. Athena rappresenta l’intelligenza che crea, la genialità del
pensiero, dell’industria, del lavoro. Fu lei ad insegnare agli uomini a
costruire le navi, ad innalzare le case e i templi, a tessere e a
ricamare stoffe di splendidi colori. Inventò anche il flauto, ma
quando, specchiandosi su una fontana mentre lo suonava, vide “il
turpe aspetto delle sue guance enfiate”, lo gettò via sdegnata.
Cecrope aveva da poco fondato una nuova città, in Grecia, nella
regione dell'Attica, e i suoi cittadini erano incerti sul nome da
assegnare alla nuova sede e su quale divinità scegliere come nume
protettore delle mura. Si presentarono allora, per avere tale onore,
Posèidon e Athena; fu deciso che la scelta sarebbe caduta su chi
avesse saputo fare alla città il dono più bello. I due accettarono il
confronto. Il primo percosse la terra con il tridente e ne fece balzare
un animale sino allora mai visto, pieno di forza e di ardimento, che
avrebbe offerto all’uomo, nei lavori dei campi e nelle necessità della
guerra, il più valido aiuto: il cavallo. Athena invece fece nascere dalla
terra una pianta dai rami nodosi e contorti, con piccoli frutti polposi,
il cui succo avrebbe dato agli uomini luce e nutrimento: l’ulivo.
Cecrope e i suoi decisero senz’altro di accettare questo ultimo dono:
scelsero cioè Athena come loro dea protettrice, e dal suo nome
decisero di chiamare ‘Atene’ la loro città, che, consacrata alla dea
della saggezza, divenne il più luminoso centro di civiltà del mondo
antico.
Ci spostiamo a nord dell’Acropoli, verso l’Eretteo, l’Erechthlon.
Nel 421 a,C. si diede inizio alla costruzione di un nuovo tempio di
Athena Polias, dedicato anche a Poseidon Erechtéus (uccisore
dell’eroe miceneo Eretteo) e agli eroi ateniesi; i lavori, dopo una
lunga interruzione, furono portati a termine nel 406. Il piccolo,
elegante tempio, uno dei più alti capolavori dello stile ionico,
presenta una pianta asimmetrica e complessa, dovuta sia al dislivello
del terreno, sia all'unione di diversi luoghi di culto, in quanto era un
santuario dedicato agli dei e agli eroi fondatori della città. Il nome,
che originariamente indicava solo una delle sue parti costitutive,
venne in età romana attribuito a tutto l'edificio, intorno al quale gira
un fregio di scura pietra di Eleusi. In questo erano collocate figure in
marmo ad altorilievo, che probabilmente rappresentavano il mito di
Erittonio, protetto da Athena. Sfigurato dalla trasformazione in
chiesa nel sec. VII e in harem nel 1463, l'Eretteo subì gravi danni
durante la guerra d'indipendenza greca (1826).

Il corpo principale è un tempio ionico anfiprostilo, con sei


colonne sulla fronte est e quattro incastrate nel muro ovest (ne
restano tre). L’interno è diviso in due parti: a est, oltre il colonnato, si
apre la cella di Athena Polèis, nella quale era custodito il simulacro
della dea. La statua, in legno d’ulivo, si diceva mandata dagli dei e
ogni quattro anni, durante le Grandi Panatenee, veniva rivestita con
un nuovo peplo. Più a ovest, è la cella di Poseidon Erecthéus. Il
portico nord presenta quattro eleganti colonne ioniche sulla fronte e
due sui lati. Di finissima fattura sono i rilievi dei capitelli, del soffitto
a cassettoni e della porta principale, che dava accesso alla cella,
divisa in tre parti. La parte ovest, in asse con la porta, è il
Prostomiéion o sala dell’imboccatura, dov’era l’imboccatura del
pozzo in fondo al quale scorreva il cosiddetto «mare dell’Eretteo».
Questo, secondo il mito, era stato scavato da Poseidone quando il dio,
nella gara con Athena per il dominio dell’Acropoli e dell'Attica, fece
scaturire una sorgente di acqua salata dalla roccia colpita dal suo
tridente. Le due altre parti a est, contigue alla cella di Athena Polias,
erano le celle di Poseidon Erechtéus, di Efesto (Vulcano) e di Bronte,
sacerdote di Athena. La porta di destra del portico nord immette nel
Pandrosion, recinto sacro di Pandroso, una delle Aglauridi (le tre
sorelle cui Athena aveva affidato il canestro contenente Erittonio
bambino); vi cresceva l’ulivo sacro, dono di Athena, bruciato dai
Persiani e rinato, secondo il mito, la notte stessa. A sud è invece il
Kekroplon, recinto sacro a Cécrope, mitico re di Atene spesso
raffigurato sotto forma di serpente. Sul lato opposto del portico nord,
il portico delle Korai o loggia delle Cariatidi, è uno dei più celebri
monumenti del mondo antico. Probabilmente la loggetta, con
trabeazione sostenuta da sei stupende statue di korai, era una sorta
di tribuna d’onore, dalla quale importanti personaggi potevano
assistere alle cerimonie delle Grandi Panatenee. La seconda statua
della fronte, da sinistra, è copia dell'originale portato a Londra da
Thomas Elgin; le altre sono copie degli originali custoditi dal 1977
nel Museo dell’Acropoli. Tutte copie. Eppure sono belle. Finte. Cave.
Copie finte perché cave: chi sostiene il peso sono le colonnine di ferro
dentro di loro. Negli originali il trucco del sostegno era la
capigliatura folta che rafforzava il fusto della colonna: il collo da solo
sarebbe troppo sottile per sostenere il peso dell’architarve.

Presso l’Eretteo,vicino all’albero della foto, era l’altra famosa


statua di Athena, detta Promachos, colossale, tutta in bronzo, posta
sull'Acropoli quasi a guardia della città. La punta della lancia
rifulgeva fino al Pireo.

Continuano intanto i lavori attorno al Partenone e attorno


all’Eretteo. Le gru bianche si stagliano alte e con i marmi a terra
danno l’idea di un grande cantiere. Sarà mai possibile vedere il tutto
“abbastanza” in ordine? Quanto di quel che è stato abbattuto verrà
ricostruito?
Gli scavi vicino all’Eretteo mostrano basamenti di costruzioni di
vari periodi: costruzione che non furono mai visibili
contemporaneamente. La foto della storia non è la foto di alcun
istante.
C’è una verità in questa Acropoli ripulita delle costruzioni
posteriori. C’è maggior valore? Ciò che è più antico vale di più per
un’inspiegabile metro di valutazione legato probabilmente alla
rarità, anche d’informazioni: ciò che è raro vale in virtù della rarità e
non della qualità intrinseca. Forse è tutto legato alla quantità di
umanità: gli uomini di duemila anni fa valevano un milionesimo
dell’umanità, quelli di oggi solo un seimiliardesimo…

Ah, poter vedere il Partenone tutto intero, camminarci dentro,


ora che dagli anni ’70 è vietato farlo, ammirarne le dimensioni
interne, sostare ai piedi della statua d Athena Parthenos… Un
momento: ma il Partenone è visibile com’era: basta spostarsi negli
Stati Uniti, a Nashville nel Tennessee

Il Partenone di Nashville, Tennessee


The Parthenon stands proudly as the centerpiece of Centennial
Park, Nashville's premier urban park. The re-creation of the 42-foot
statue Athena is the focus of the Parthenon just as it was in ancient
Greece. The building and the Athena statue are both full-scale
replicas of the Athenian originals.
Originally built for Tennessee’s 1897 Centennial Exposition, this
replica of the original Parthenon in Athens serves as a monument to
what is considered the pinnacle of classical architecture. The plaster
replicas of the Parthenon Marbles found in the Naos are direct casts
of the original sculptures which adorned the pediments of the
Athenian Parthenon, dating back to 438 B.C. The originals of these
powerful fragments are housed in the British Museum in London.
The Parthenon also serves as the city of Nashville's art museum.
The focus of the Parthenon's permanent collection is a group of 63
paintings by 19th and 20th century American artists donated by
James M. Cowan. Additional gallery spaces provide a venue for a
variety of temporary shows and exhibits.
Credete che sia tutto? Non c’è genere di pacchianata che non si
trovi negli Stati Uniti, è negli Stati Uniti che si trova tutto. Gli
Statunitensi sono tassonomici, ripetitivi, inclini a errori e a
ravvedimenti. Sono un grande popolo che sbaglia e chiede scusa. Ne
vediamo gli errori perché, credendosi nel giusto il popolo americano
si espone un sacco (…e Vanzetti). Non sarebbe meglio evitare gli
errori? A volerli evitare accuratamente non si combina nulla, ne sono
un esempio io.
È dei giovani sbagliare tanto. Gli Stati Uniti sono giovani, non
hanno storia, quella che c’era sul loro territorio l’hanno eliminata
nella conquista all’Ovest. Privi anche di una storia dell’arte hanno
copiato quella europea e hanno copiato il Partenone. L’hanno
aggiustato perché una cosa mezza distrutta non serve a nulla e ne
hanno fatto un museo. Sicuramente dentro non c’è una copia della
grandiosa statua crisoelefantina di Fidia…Che senso avrebbe…
Magari in similoro e cartavorio… No.

Invece sì. Leggete la seconda pagina del sito ufficiale della città
di Nashville!
The Athena Statue
Athena Parthenos is 41 feet, 10 inches tall. There are about 12
inches between the top of her helmet and the ceiling beams. Her
weight is estimated at 12 tons. The statue of Nike, the goddess of
victory, in Athena's right hand is 6 feet 4 inches tall. Nike holds a
wreath of victory preparing to crown Athena. This is the story of how
the Athena statue was built in Nashville.
The Athena Project
In the 1920s the Parthenon was rebuilt as a full-scale replica of
the ancient Parthenon with one large exception. The colossal statue
of Athena from ancient times was not in this replica. In 1982, the city
commissioned Alan LeQuire to build a full-scale replica of Athena
Parthenos. Soon after, a group of concerned citizens formed the
Athena Fund. Starting with funds accumulated over the years from
the nickels and dimes of school children and tourists, the Athena
Fund grew rapidly through private and commercial donations.

The Artist
In 1982 seven sculptors submitted proposals to recreate the
Athena statue in Nashville. Alan LeQuire won the commission
because of his skill and commitment to accuracy. LeQuire attended
Vanderbilt University and received his MFA from University of North
Carolina, Greensboro in 1981.
LeQuire, a Nashville native, began his journey by researching the
Athena statue of antiquity. What we know about the Athena statue
from the ancient Parthenon is somewhat limited. The gold and ivory
statue was lost by the 400 A.D., so historical documentation is brief,
but does exist. LeQuire also depended on modern classical scholars
for the most recent archaeological information.
The Original Sculptor
Pheidias, the greatest sculptor of classical antiquity, constructed
the Athena Parthenos on a wooden framework with carved ivory for
skin and a gold wardrobe. The statue was unveiled and dedicated in
438 or 437 B.C. We can depend on this date based on the building
accounts of the temple. Other sources are equally important. For
example, there are ancient authors, such as Pausanias, who referred
to the Athena statue in writings. Athena appears on Athenian coins of
the second and first centuries B.C. Later, Romans copied the statue in
small-scale. Even today on the Acropolis you can see the outline of
Athena’s base on the floor of the Parthenon. All of this evidence is
culminated in LeQuire's Athena.
The Re-creation
After exhaustive research, Alan LeQuire created two small-scale
versions of the statue out of clay. First, he created a 1:10 model from
clay. Later, he sculpted a 1:5 scale model. From this later model
LeQuire spent about three years enlarging and casting the full-size
Athena Parthenos. Athena was cast out of gypsum cement in many
molds and assembled inside the Parthenon. Each section was
attached to a steel armature for support.
The Athena statue was constructed from 1982 to 1990. It stood in
Nashville’s Parthenon as a plain, white statue for 12 years. In 2002
the Parthenon gilded Athena with Alan LeQuire and master gilder
Lou Reed in charge of the project. The gilding project took less than
4 months and makes Athena appear that much closer to the ancient
Athena Parthenos. In addition to gilding, the project included painted
details on her face, wardrobe and shield.

Altri americanazzi hanno preso ispirazione dalla facciata del


Partenone per farne… un radiatore d’automobile: sì, i fondatori della
Roll Royce!
Usciti dal recinto dell’Acropoli, abbandonati a noi stessi, io e
Maddalena saliamo all’Areopago, la collina dove si celebravano i
processi, dove Athena chiese l’assoluzione per Egisto, dove San Paolo
parlò agli Ateniesi, dove Maddalena si scopre una tetta per una foto
che forse sarà memorabile.

Risaliamo in autobus, diretti al Museo Archeologico Nazionale,


uno dei più importanti al mondo, in un tipico edificio dell’Atene
neoclassica (Odos Oktovriou Patissìon, l’altra strada parallela del
manubrio che collega Piazza Omonia e Piazza Sintagma).
Per visitarlo tutto ci vorrebbe almeno una giornata intera ma noi
visiteremo solo il primo piano.
La documentazione presente tocca tutta la produzione artistica
dell’antica Grecia, dai periodi cicladico, minoico e miceneo, a quello
classico.
Tra le attrazioni principali spiccano gli ori micenei ritrovati da
Schliemann tra cui la famosissima maschera detta di Agamennone!
Aris ogni volta ripete quel detta, non vuole che la chiamiamo col
nome sbagliato… In altre sale del Museo stanno le sculture da
Olimpia e da Delfi… le statue dei Kouros, rivelatrici della venerazione
che i greci antichi avevano per la bellezza maschile e le statue in
bronzo del cavallo con fantino e del Poisedon di Artemissio.

Tutto quello che in questo secolo è stato scoperto dalle varie


scuole di archeologia nei vari siti della Gracia, è finito qui; poi le altre
città hanno cominciato a protestare e a costruire musei in loco per
mantenervi le cose che lì venivano trovate.

L’autobus ci riporta all’albergo, ci rinfreschiamo un poco e


usciamo per mangiare in un fast food lungo la strada. Ritornando
all’albergo ci fermiamo in un panificio per comprare gustosissimi
panini con l’uva e del succo d’arancia per il pomeriggio: ci aspetta
l’escursione (facoltativa: sono 34 euri a testa!) a Capo Sounion,
l’appuntamento è alle tre meno venti.
Saliti in autobus (siamo una ventina) imbocchiamo la litoranea
Leoforos Poseidonos che va verso sud costeggiando il Golfo Saronico.
Attraversiamo Glyfada... la Cannes di qui, dove si respira un’aria
internazionale, dove il lusso è visibile a tutti e inarrivabile per molti.
Qui sono sorti i nuovi quartieri residenziali, qui vive il nuovo
capitalismo greco: negozi lussuosi, bar e discoteche alla moda, alta
concentrazione di aziende, società del terziario avanzato, banche e
locali modaioli strapieni di gioventù bella e dorata.
Glyfada, Vouliagmeni…. Ares ci racconta mille cose delle
cittadine che attraversiamo e io non ricordo nulla. Vedo spiagge poco
affollate e bagnanti sulle baie e sulle pendici della strada, macchine
arditamente parcheggiate sul ciglio…
Due carcasse d’auto arrugginite e rovesciate lungo le pendici
stanno lì da quando furono parcheggiate troppo arditamente. Mi
viene in mente Giulio che parcheggiò la Golf nuova in riva al mare,
per stare con la sua donna, e la marea l’affossò e ci volle il carro
attrezzi per riportarla a casa… ma il salso, entrato dappertutto,
l’aveva definitivamente compromessa.

Ecco, ora vediamo Capo Sounion, e sotto, nell’ultima baia, la


massa cementizia dell’Hotel Egeo, criticabile e criticato. Ricorda le
peggiori speculazioni in Italia.
Fa caldo, un caldo terribile. Capo Sounion è la punta meridionale
dell’Attica, un promontorio che si protende nel mare Egeo. Qui, in età
protoarcaica, cinto da un muretto che segnava i confini del temenos,
l’area sacra, sorgeva un altare e verso il VI secolo furono erette
intorno enormi statue di giovinetti, che “annunciavano” ai naviganti
lontani il luogo sacro. Delimitato il temenos, con muri di sostegno
diritti piegati ad angolo retto, si costruì, intorno al V secolo, il tempio
di Poseidone, un periptero dorico in poros con uno stilobate di
13,06x30,2 mt. ed una peristasi di 6x13 colonne, l'unità fondamentale
fu posta in un interasse (sette e mezzo piedi dorici = 2,45 mt.).
Questo tempio fu distrutto dai persiani prima che fosse
completato, e solo in età periclea si procedette alla sua ricostruzione.
Il nuovo tempio, in marmo, fu costruito intorno al 449 a.C., sullo
stilobate di 13,47 x 31,12 mt. insiste una peristasi di 6x13 colonne,
quest’ultime talmente sottili che si ha l'impressione di trovarsi di
fronte ad una costruzione ionica. Le colonne hanno 16 scanalature
anziché le usuali 20: per resistere meglio all’usura della salsedine…
Ma perché resistono meglio? Io non ho capito perché…
L’architrave del pronaos si prolunga nei due deambulatori laterali
fino a congiungersi con la faccia interna dell’architrave della
peristasi, e un fregio ionico, riccamente decorato, corre tutt’intorno
ad essa. La trabeazione esterna, di stile dorico, presenta sulla
facciata principale un frontone riccamente decorato, mentre nella
parte opposta, l'architetto, omette il fregio.
Sulle pietre di questo tempio Byron lasciò inciso il suo nome. Lo
cerco, riconosco il nome di due marinai italiani di fine Ottocento.
Anch’io cerco un posto dove poter incidere il mio, ma il tempio è
delimitato da corde, non vi si può salire sopra, come ormai non si può
più salire in nessun tempio di Grecia.

Qui a Capo Sounion venne Egeo ad aspettare la nave del figlio


Teseo che tornava da Creta e che, per errore o dimenticanza,
comparve all’orizzonte con le vele nere. Egeo, interpretandole come
il convenuto segnale di tragedia, non resse al dolore e si gettò in
mare, dando così il nome al mare della Grecia orientale.
Guardo il mare aperto, cerco quale possa essere stato il punto
esatto da cui Egeo si buttò. Qui no, più sotto ci sono cespugli. Forse
più in là….

Tornando in anticipo verso l’autobus Maddalena ed io ci


fermiamo al bar; seduti all’ombra, e beviamo una birra e una
Cocacola, in attesa degli altri. In autobus Simona ci ha preso il posto,
c’è un attimo d’imbarazzo, ma lei deve solo dormire e dichiara che le
fa lo stesso dormire da un’altra parte. Dallo zaino Maddalena tira
fuori i panini con l’uva che ha comprato a mezzogiorno e ne offre a
Simona e Stefania. Stefania accetta e si lancia in lodi sperticate del
panino.
Lungo la strada del ritorno, tra le tante cose, Aris fa notare che i
tetti delle case hanno le tegole d’angolo a forma di acroterio: ce ne
sono di vari tipi, a imitazione o meno di quelle dei templi. E io, che
non l’avevo finora notato, da qui alla fine della vacanza lo noterò un
milione di volte.
Tornati in albergo, ci laviamo e ci prepariamo per la cena.
Scendiamo, nella sala ristorante non c’è ancora nessuno, solo una
coppia dall’aspetto scontato: ci sediamo con loro e subito giunge una
cameriera con una bottiglia d’acqua; i due hanno la prendono perché
è non gasata e ci spiegano che a mezzogiorno sono rimasti fregati:
una bottiglia di acqua gasata l’hanno pagata 4 euri, e loro di acqua
ne bevono molta e quella non gasata costa solo 1 e 80… Solo? Ma non
ci sono più le belle caraffe di acqua fresca della sera precedente? Ma
non mi vien da chiederlo e ordiniamo anche noi la nostra bella
bottiglia di acqua non gasata. Intanto la sala si va riempiendo e nei
tavoli accanto tutti gli altri, intelligentemente, si sono fatti portare
molte caraffe d’acqua. Gratis. Guardo i due bevitori d’acqua con un
misto di disprezzo e compassione.
Ho appena subito l’influenza di una coppia idiota: dialogare
diventa difficile: che cosa gli chiediamo? Tra lunghi silenzi riusciamo
a buttare lì qualche domanda: veniamo a sapere che sono “…rimasti
tutto il pomeriggio a dormire in albergo…”, e dato che sono lì a cena
con noi è segno che hanno “…deciso di non partecipare alla serata
greca…”. Come noi. Però domani parteciperanno “…alla mini
crociera alle isole…”. Ecco, i veri clienti Alpitour! Bevitori d’acqua in
bottiglia.

Dopo cene Maddalena ed io prendiamo per la prima volta la


metropolitana. Larissa Station è proprio sotto l’albergo: è una
stazione bella, luminosa, nuova, pulita. Le rosse sedie d’attesa hanno
forma umana, parte di un’opera moderna alla parete che contiene gli
stessi omini raddrizzati.
Atene ha una metropolitana coi controfiocchi. La più efficiente e
bella d’Europa, dicono. Con le insegne in greco e in inglese. Il
biglietto per una tratta qualunque costa 70 centesimi.
I lavori per la costruzione del metro sono andati molto a rilento
per anni a causa di tutti i reperti archeologici che sono stati rinvenuti
man mano: ogni volta che si scavava si finiva per trovare una tomba,
un’urna o qualcos’altro. Il problema principale non era quello di
scavare attraverso la roccia, ma quello di setacciare i reperti
archeologici. Come successe a Roma. I treni sono nuovi, puliti, con
una suadente voce femminile dall’altoparlante che avverte, prima in
greco e poi in inglese, a quale fermata si sta giungendo.
“Metaxurghìo… Omonia… Sintagma”. Scendiamo: i lunghissimi
corridoi di marmo che dai binari portano all’uscita stranamente non
hanno pubblicità alle pareti. La stazione di piazza di Sintagma è più
che una stazione di metro, è un museo gratuito e aperto a tutte le
ore. All’entrata, oltre a bacheche in vetro con reperti archeologici di
grande interesse, ci sono foto di Atene di 100 anni fa, quando
realmente era una delle città più belle in Europa.
Ma ogni stazione della metropolitana di Atene è bella, anche
quella apparentemente più sperduta: ora qui ora là vi sono esposte
diverse opere di artisti contemporanei. 3 euro costa il biglietto
giornaliero che consente di viaggiare indisturbati da una estremità
all'altra. Lo compreremo domani.
Passiamo davanti alla porta di Adriano (che separa l’Atene Greca
dall’Atene Romana), ammiriamo la luna dentro una della sue finestra,
non abbiamo la macchina fotografica e ci ripromettiamo di tornare lì
per la foto la sera successiva, quando oltretutto la Luna sarà ancora
più piena…

Ci dirigiamo quindi verso la Plaka, il centro storico di Atene, con


le sue viuzze chiuse al traffico piene di negozi di souvenir, di
artigianato locale e taverne tipiche. Qui si mangia, soprattutto in
strada, e a me l’atmosfera ricorda un poco quella delle Cinque
Terre… I negozietti vendono tutti le stesse cose, agli stessi prezzi…
paccottiglia. Alcuni vendono oggetti d’antiquariato, icone verniciate a
mano, sculture in legno e pitture…
Una smania di acquisti per regali prende subito la Maddalena: un
libro per il fratellino, un CD per il fratellone… Che ne dici della
grappa per il papà?… che belle ceramiche!… Vorrebbe acquistare di
tutto, tutti etti in più che dovremo portare in valigia per tutto il
viaggio… la cosa mi sembra un poco improvvida, e anche vederla
spendere in regali soldi che comunque riceve dai suoi (abbiamo
rinunciato alla mini-crociera perché ci sembrava inutilmente costosa
e ci siamo detti che era troppo Alpitour…); le mie osservazioni la
intristiscono un poco e questa discussione sulle spese f-utili/inutili,
sui soldi guadagnati_a_ fatica/ottenuti_senza_sforzo provoca qualche
incomprensione lasciando un velo di tristezza sui suoi occhi. Soltanto
sulla panchina vicino alla stazione del metrò in Piazza Sintagma
riusciamo a ridere e a recuperare un po’ di buonumore…

3° giorno - mercoledì
Facciamo colazione con la coppia di signori che ieri dietro il
Partenone ci aveva chiesto una foto. Lui, sopra la testa calva, ieri
portava un panama simile al mio, elemento che ci distingue dal
gruppo: oggi in comune abbiamo anche la camicia bianca e i
bermuda chiari; del resto, sotto il solo di Atene, il nostro è l’unico
abbigliamento possibile, perché «mentre gli altri parteciperanno alla
“mini crociera alle isole di Egina, con il tempio di Mea (V sec. a.C -
visita facoltativa), Poros con il caratteristico porticciolo, e Hydra con
le sue dimore patrizie, e neoclassiche, meta di artisti di tutto il
mondo”», noi e loro ce ne andremo in giro per Atene: in fondo
abbiamo visto solo il Parthenone e il Museo Archeologico Nazionale,
e sul biglietto del Parthenone ci sono ancora sei tagliandini, sei zone
da vedere. Maddalena non sta benissimo, le sono venute le
mestruazioni: aveva calcolato che le venissero prima di partire…
L’«accidenti!» è diminuito dalla considerazione che erano in ritardo di
cinque o sei giorni…
Decidiamo che cominceremo dalla zona dell’Agorà. Scesi a piazza
Monastiraki saliamo alla chiesa bizantina trasformata in museo della
ceramica: ma vogliono un biglietto d’ingresso e decidiamo che la cosa
non c’interessa molto; scendiamo la scalinata e accediamo
all’adiacente area archeologica della biblioteca di Adriano. Stanno
togliendo delle impalcature, hanno appena rimesso in piedi alcune
colonne del pronao, integrando i pezzi mancanti… Anche alcuni
gradini sono stati interamente rinnovati… Fanno bene: è così che ci si
forma un’idea di quello che era, non con quattro pietre rimaste a
segnare le fondamenta. L’architettura è spazio e volume, non pianta.
La biblioteca tornò alla luce dopo che andò a fuoco una serie di
case costruite sopra. Nell’angolo del pronao era incastrata una
moschea.
Ad un signore seduto all’ombra apparentemente lì per caso
(scopriremo più avanti che i signori seduti sotto gli alberi sono tutti
controllori) chiediamo indicazioni per il foro romano. Lungo la strada
passiamo davanti alla chiesa degli Arcangeli (Tαξιάρχες) dov’è
conservata l’icona della Vergine “Grigorussa” che offre rapido
rimedio alle malattie umane: c’è una funzione in corso e rimaniamo
nel portico-nartece; su di un tavolo appoggiato alla parete stanno le
offerte, dolci di vario tipo. Dalla navata giunge il canto baritonale e
suggestivo del salmista.
Eccoci all’ingresso del foro romano, proprio davanti alla Torre dei
Venti: ci staccano un tagliandino; fotografo Maddalena davanti al lato
sud della Torre dei Venti; e scendiamo i gradini che portano al foro
assolato: colonne e tronchi di colonne, ma è tutto lì ed è sempre la
stessa storia, dato che mancano i volumi attorno. Risalendo
incontriamo la coppia con cui abbiamo fatto colazione: probabilmente
per tutta la giornata di oggi non faremo che rincorrerci.
Quindi scendiamo verso l’ingresso dell’Agorà: secondo
tagliandino. Sulla sinistra è la chiesa bizantina dei Santi Apostoli,
fotografiamo per terra un tombino che ha la forma del fiore “padano”,
fotografiamo la volta della chiesa; quindi ci portiamo all’ombra della
Stoà di Attalo, interamente ricostruita dalla Scuola Archeologica
Americana. La si critica perché è posticcia. Ma le notizie e i reperti
erano più che sufficienti a dare un’idea chiara di com’era, e dunque
hanno fatto bene: il soffitto in legno, il lungo portico diviso in due
navate, ma soprattutto l’ombra e il fresco… sono gli stessi
dell’antichità: c’è più antichità qui che nelle pietre a terra che
disegnano le piante: la praticabilità ne ha restituito la perenne
bellezza, la perenne modernità: oggi la Stoà di Attalo è moderna
come doveva apparire moderna agli antichi, quindi è antica! Ma
allora anche il Pantheon di Nashville… no, no… il Pantheon di
Nashville no: lì è una copia fuori contesto, lì non c’entra perché
tutt’intorno è aria falsa…
L’Agorà è attraversata dalla strada delle Grandi Panatenee che
giunge fino al Partenone: entrando ne abbiamo percorso un pezzo,
ora noi ne scendiamo un altro pezzo e ci dirigiamo al Teseion. Batte il
sole e Maddalena ha perso il suo cappellino bianco dopo aver fatto la
foto al soffitto della chiesa dei Santi Apostoli e non l’abbiamo
ritrovato.
Mentre tento di salire su di un basamento per una foto “classica”
una voce tra gli alberi urla: “Get dàun, ser!”

Arriviamo al Teseion che domina l’Agorà. Maddalena non sta


bene, fa fatica, deve andare in bagno. Saliamo al Teseion, facciamo il
giro del tempio conservato benissimo, con le colonne in taluni punti
smussate per farci passare …dei mobili? Ci costruirono delle casette
sotto il portico in passato… Una foto che dev’essere memorabile (ed è
quella che fanno tutti) mette in fila il portico ovest in ombra, la porta
ovest e la porta est,aperta sul cielo dell’Agorà…
Qui siamo vicini all’uscita su via Apostòlou Pàvlou: Maddalena
non ce la fa più, c’è un bar odioso con musica, uno di quei posti dove
si capisce subito che t’inculeranno, ma non ce ne sono altri nei
paraggi… Entriamo, lei va in bagno, io mi siedo, mentre un
megaschermo manda video musicali greci ad alto volume. La
cameriera non viene a prendere l’ordine, aspetta che Maddalena
esca. Due tè. 8 euro. Me la sentivo.
Maddalena è rinfrancata: possiamo andare al Keramikos, terzo
tagliandino. Era un cimitero, vi si trovavano delle stele famosissime,
ora al Museo Archeologico... In sito sono rimaste solo le meno
interessanti; quelle interessanti sono state sostituite da copie in
gesso, fin troppo chiare. A fianco è stato costruito un museo per
conservarvi molti altri reperti trovati durante gli scavi, tra cui grande
e intatta statua di kouros dai capelli decoratissimi. Qui i lavori sono
stati fatti dalla scuola tedesca e lo si capisce perché le targhette
riportano la didascalia in tedesco dopo quella in greco… e prima
dell’immancabile inglese.
Quando usciamo la nostra ombra al suolo è lunga una ventina di
centimetri e non c’è ombra per ripararci perché gli alberelli appena
piantati lungo la strada sistemata da poco sono insufficienti;
dobbiamo arrivare alla fermata di Thissio. Da qui ritorniamo verso
Monastiraki e imbocchiamo una di quelle stradine affollate zeppe di
ristoranti: i camerieri ci bloccano, quasi ci trascinano dentro i locali;
resistiamo a due o tre, vogliamo prima vedere menù e prezzi, ma per
la confusione è impossibile; cediamo quindi al più nordico dei
camerieri e ci sediamo ad un tavolinetto. Mangiamo entrambi kebab,
Maddalena in panino, io in un piatto più completo.
Sono le due e mezza quando finiamo e torniamo a riposarci in
albergo, dove rimaniamo a poltrire fino alle sei. Finalmente torniamo
in strada, visitiamo le chiese bizantine della zona di Monastiraki, ma
Maddalena sta male e alle sette già ritorniamo in albergo. Mentre lei
si riposa io mi faccio una nuotata. Dopo cena usciamo per andar a far
la foto alla luna dentro la finestra della porta di Adriano.

Scendiamo a Sìntagma. Guardandoci avanti e attorno scopriamo


che Stefania e Simona e altri del nostro gruppo hanno preso lo stesso
metrò. Qualcuno ricorda che è l’ora del cambio della guardia:
gettiamo un’occhiata oltre la trafficatissima Via Amalia e scopriamo
che è vero: gli Euzoni si stanno movendo; “Fermatevi!” urla Simona
per poterli fotografare; non ci sono strisce pedonali vicine e noi
cerchiamo di arrivare lì per la via più breve, ma le macchine corrono
come matte e c’impieghiamo due minuti per attraversare.
Fortunatamente la pantomima degli Euzoni dura parecchio: vanno,
ritornano, s’incrociano, sempre sollevando come scimmie le loro
gambe al rallentatore; contano a mente, all’unisono fanno dei passi,
all’unisono sbattono con forza la scarpa pon-ponata sopra e chiodata
sotto per far rumore, si bloccano in pose innaturali e simmetriche, e
intanto a mente contano e avanzano, si girano, ritornano, sempre al
rallentatore; mimica facciale zero. Poi che si sono ripiazzati immobili
davanti alle garitte, la guardia cittadina (che è lì per evitare che
qualche buontempone faccia loro il solletico alle palle) li sposta come
manichini di tre o quattro centimetri perché stiano nell’unica
posizione esatta, sistema loro millimetricamente la cravatta e la
reticella da ‘bravi’ che scende dal berretto. E’ un onore ambito per i
militari greci diventare Euzoni… Due euzoni, però… Chissà come son
venute le foto al buio.
Ci salutiamo, ognuno va per la sua strada ed io e Maddalena
facciamo il giro dei giardini presidenziali (il giro che abbiamo fatto il
primo giorno in autobus) con l’obiettivo di tornare davanti alla porta
di Adriano e scattare la foto mancata ieri.
Nella via che passa dietro al parlamento e davanti alla residenza
del Presidente altri Euzoni stanno facendo le prove: questi non sono
ancora ben sincronizzati, appaiono umani, ben lontani dal grado
d’idiozia perfetta che sarà loro richiesto. In più punti i grandi alberi
del giardino presidenziale hanno divelto e “mangiato” la cancellata…
Di nuovo il Callimarmaro, il Tempio di Zeus Olimpio… Attraversiamo
Via Amalia (questa volta aiutati dal semaforo delle strisce pedonali)
ed eccoci finalmente davanti alla Porta di Adriano… Ma la Luna è
troppo alta, non verrà ‘dentro’ la finestra come abbiamo immaginato
ieri, a meno di avvicinarci di molto, il che comporta riattraversare Via
Amalia…Corrono le macchine, non c’è un attimo di tregua…
Finalmente il semaforo rosso le blocca, inquadriamo per la foto,
carichiamo la macchina.. Accidenti è finito il rullino. Giro la macchina
ripassando mentalmente la procedura di sostituzione, Maddalena me
la rigira e mi dice che devo prima riavvolgerlo, commetto un errore,
strattono e la manovella gira a vuoto: rotto il rullino. Abbiamo perso
tutte le foto fino ad ora. Maddalena è tristissima. Io fatalista. A voce
alta ripassiamo le foto perdute.

4° giorno - giovedì
Comincia il grande tour: prima tappa Atene/Olympia, dice la
guida che ci è stata fornita. Km 370. Sono tanti ma distribuiti in tutta
la giornata e con tante tappe di mezzo: sopportabile. Di fatto
attraverseremo orizzontalmente il Peloponneso, da est a ovest
Maddalena sta ancora un poco male per le mestruazioni.
Fortunatamente siamo riusciti a prendere i due posti a metà
pullmann vicino alla porta col tavolinetto di fronte che ci offre quindi
un po’ di spazio e di visibilità.
Uscendo dalla colata abitatizia di Atene, Ares indica verso nord
un quartiere del pari cementificato: è Colono, dove venne a morire
Edipo (Sofocle). Cieco, cacciato dal figlio Polinice, che a sua volta era
poi stato cacciato dal più giovane Eteocle, Edipo era stato guidato qui
dalla figlia Antigone; qui aveva chiesto ospitalità al re di questa terra
che era Tèseo, re di Atene; qui era poi giunta l’altra figlia Ismene, e
qui Polinice aveva rapito le sorelle per convincere Edipo a tornare ma
Teseo, rispettando i doveri dell’ospitalità, le aveva liberate; qui era
giunto Polinice a supplicare il padre di tornare con lui a Tebe dopo
che un oracolo aveva predetto che la vittoria sarebbe arrisa al
fratello che avesse avuto dalla sua parte il padre; qui Egeo aveva
maledetto entrambi i figli, vaticinando ad entrambi la morte per
mano del fratello e qui Polinice, ormai rassegnato a condurre sé
stesso alla morte nel condurre gli altri sei contro Tebe, aveva rifiutato
i consigli di Antigone di desistere dalla spedizione; qui, in un luogo
noto solo a Teseo e che mai egli avrebbe rivelato per garantire pace e
prosperità ad Atene, era morto finalmente in pace il vecchio Edipo.

Passiamo per Eleusi, ormai rinomata per le sue raffinerie. Qui si


danno rappresentazioni del teatro classico con alle spalle il fondale
delle ciminiere. Passando davanti ad una raffineria, Ares cita la
moglie di uno dei signori della raffinazione, la lady di ferro che ha
diretto l’organizzazione delle olimpiadi di Atene 2004.

Passiamo davanti al monastero bizantino di Dafnì: varrebbe la


pena di vederlo se non fosse chiuso per restauro, cosa che diminuisce
l’amarezza che il nostro viaggio non ne preveda la visita.
Imbocchiamo l’autostrada che costeggia il Golfo Saronico, il golfo
della città di Argo che prese il nome da Re Saron che non sapeva
nuotare e morì inseguendo nell’acqua il WWWWWWW che stava
cacciando.

Mègara, fondata dall’eroe Bisas, che poi fonderà anche Bisanzio


(e darà il nome all’attuale squadra di calcio di Megera)... I megaresi
fondarono in Sicilia la colonia di Megara Iblea. Di fronte a Mègara è
l’isola di Salamina dove la flotta di Temistocle sconfisse quella dei
Persiani nel 480 a.C.

Ogni sasso, ogni promontorio lungo l’autostrada è il luogo dove


Tèseo uccise un brigante o un mostro, garantendo ad Atene pace e
sicurezza. Teseo è come Ercole: questo con le sue 12 fatiche, quello
con le sue 12 imprese, essi riassumono in sé il mito ed il ciclo di
un’affermazione: Ercole quello dei Dori che occuparono il
Peloponneso, Tèseo quello di Atene che divenne regina dell’Argolide.
Teseo è Atene
Prima tappa è Corinto, dove facciamo sosta presso il ponte
sull’istmo. Dovrebbe essere un momento toccante, almeno per me:
quando a dieci anni raccoglievo le figurine di Bell’Europa rimasi
impressionato da quella dell’Istmo di Corinto, che lo ritraeva con il
ponte ferroviario, parallelo a quello stradale… Oggi, dopo quasi
trent’anni, sono sulla passerella pedonale a fianco della strada, nello
stesso punto da dove quella figurina era stata ritratta e sto per
fotografare la stessa immagine… Stiamo tutti facendo la stessa foto, è
la foto del rito Alpitour, la poesia della mia figurina di trent’anni fa è
andata a farsi friggere… All’orizzonte è il Golfo di Corinto, il Mar
Ionio, alle mia spalle il Golfo Saronico, il Mar Egeo… Nella figurina
c’era una nave che attraversava l’istmo, e tutto allora mi pareva
gigantesco… Abbandoniamo la postazione, attraversiamo la
trafficatissima strada, ci spostiamo sulla passerella opposta per
guardare l’estremità del canale verso il mar Egeo… Da quest’altra
parte sta giungendo effettivamente una nave (turistica!), ma non è
quella della figurina, questa occupa tutta la larghezza del canale e lo
fa sembrare più piccolo: per ragioni di sicurezza è trascinata a motori
spenti da un battello; nemmeno con la nave rispunta la poesia del
luogo, sopravvive solo quella dei miei dieci anni... Maddalena sta
sempre male; una vecchina ci offre delle spighe intrecciate e ci
assicura che “Porta fortuna!”, ma sarebbe meglio ci vendesse un
Moment.
Sull’autobus Ares racconta che ai tempi dello scavo del canale
(da parte di una ditta francese) si temeva che i livelli dei due mari
fossero assai differenti e l’apertura del canale avrebbe provocato
qualche catastrofe…

Di qui ci spostiamo verso Epidauro che tutti conosciamo per il


famoso teatro dall’acustica perfetta. Una strada abbastanza tortuosa
ci porta verso la città: ad ogni lampione, ai lati della strada, per
chilometri e chilometri, è attaccata una locandina di uno spettacolo
teatrale: è l’“Irene” (= pace) di Aristofane.
Ma Epidauro nell’antichità era soprattutto un centro medico
religioso, un luogo tranquillo, più accessibile dal mare che via terra.
Epidauro è la città di Asclepio, il figlio di Apollo e Coronis che nacque
dalla madre morta col primo parto cesareo della storia; e che poi
andò a studiare le proprietà delle erbe presso il centauro Chirone in
Tessaglia.
La scienza di Asclepio era divenuta talmente grande che egli
riusciva persino a risuscitare i morti: Zeus, inflessibile custode delle
eterne ed immutabili leggi della natura, fu costretto, per questo
motivo, ad ucciderlo con un fulmine, sollecitato anche dalle
lamentele di Ade, dio dei morti, per la scarsa affluenza di anime nel
suo Regno.
Ad Epidauro si veniva per curarsi e per pregare, per chiedere al
dio la grazia della guarigione: «qualcosa a metà tra Montecatini e
Loreto» dice Aris, che poi nel museo ci racconta di eventi miracolosi,
di un tale cui fu tagliata la testa malata, guarita, e riattaccata al
corpo; alle pareti gli ex-voto di terracotta, e dentro le teche i ferri del
mestiere di epoca più tarda, bisturi e coltellini, quando si cominciò a
fidarsi più della praxis e delle techne che delle orazioni. Nella grande
sala del museo ricostruzioni di parti dei tre templi di Epidauro e
copie di statue potate ad Atene.
Nelle varie statue Asclepio ha l’aspetto di un uomo maturo,
dall’espressione pensosa, mite e buona; il suo volto è incorniciato da
una lunga e folta barba bianca. Stringe tra le mani un bastone
attorno al quale è arrotolato un serpente, simbolo della guarigione
che lascia la pelle vecchia per la nuova; spesso ha vicino un gallo,
simbolo del giorno e della vita che rinascono. A volte è seduto sopra
un trono, a volte in piedi; a volte è solo, a volte in compagnia della
figlia Igea, la dea della Salute, una giovane donna sana e robusta
intenta ad abbeverare il serpente a una coppa.

A Epidauro, per sollevare l’umore dei malati (perché da sempre


il riso fa buon sangue) c’era un teatro, il famoso teatro di Epidauro,
ottimamente conservato. Maddalena sta male e si siede appena in
cima alla salita. Io invece voglio sperimentare la tanto famosa
acustica: ma coma faccio a recitare e ad ascoltarmi? Un gruppo di
signore canta il “Va pensiero”: seduto alla metà della cavea, devo dire
che si sente davvero bene.

Partiamo quindi per Micene. La prima cittadina che incontriamo


è Coroni ( = la madre di Asclepio): Ares indica i ristoranti dove
vengono a cenare i vip dopo le grandi rappresentazioni teatrali e
dove anche gli attori vengono a cenare per sentire i primi commenti
sulla loro prova…
Passiamo vicini e non visitiamo Nauplia, la città fondata da
Nauplio, figlio di Posidone e della danaide Amimone. Un Nauplio re
dell’Eubea, padre di Palamede, per vendicare l'uccisione del figlio da
parte di Ulisse, suscitò discordie fra le famiglie dei principi greci
parlando di adulteri; poi, al ritorno dei principi dall'assedio di Troia,
attirò le loro navi per mezzo di fuochi ingannatori tra gli scogli della
sua isola per farle naufragare e, quando seppe che Ulisse si era
salvato, si uccise. Nauplia conserva entrambi i miti: il primo col nome
della città, il secondo col nome della collina che sovrasta Nauplia,
l’unica cosa che vediamo dall’autobus: la collina di Palamede.
Gli Achei si insediarono in Nauplia nel 1600 a.C.; tra il 1400 e il
1200 essa conobbe un particolare sviluppo grazie all’influenza di
Creta. In seguito alla guerra di Troia (XIII-XII sec. a.C.) e
all’invasione dorica, il territorio fu frazionato in varie città rivali, tra
le quali la vicina Argo predominò tra il VII e il VI sec. Con l'arrivo dei
Bizantini la sua importanza rifiorì e nel XIII secolo venne conquistata
dai crociati guidati da Ottone de la Roche che ne fece un proprio
possedimento. Nel 1388 passò ai Veneziani che ricostruirono la
fortezza di Palamede sulla collina: due secoli dopo la dotarono di una
scala nella roccia che la univa rapidamente alla città: rivelata da un
francese traditore, divenne l’altrettanto rapida via di conquista da
parte dei Turchi.
Alla fine del 1822 fu conquistata dai patrioti greci che la
nominarono capitale della Grecia indipendente. Nel 1833, nella città,
i vescovi greci proclamarono l’indipendenza della loro chiesa dal
patriarcato di Costantinopoli. I resti archeologici testimoniano che il
luogo era abitato anche in epoca preistorica. Del periodo miceneo
rimangono alcuni blocchi delle mura antiche, in seguito inglobate
nelle fortificazioni medievali. Sono state scoperte varie camere
sepolcrali scavate nella roccia. Nel Museo cittadino sono conservati
reperti datati per la maggior parte dal XV secolo a.C. all’epoca
ellenistica e micenea, buona parte dei reperti ceramici sono
conservati presso il Museo nazionale di Atene.

Nell’Argolide, le città principali erano Argo e Tirinto, che


lottarono a lungo per la supremazia: secondo la leggenda i loro re,
Acrisio e Proteo rispettivamente, fratelli, avevano cominciato a
litigare ancora nel ventre della madre…
Tirinto fu spesso sottomessa ad Argo, e definitivamente distrutta
da Argo nella prima metà del V secolo a.C. e venne quindi
abbandonata. Abitata già dal III millennio a.C.; Tirinto raggiunse il
massimo splendore in epoca micenea (1400-1200 a.C.). Le
‘ciclopiche’ mura (costruite con massi giganteschi che solo i Ciclopi
avrebbe potuto costruirle) sono tutto ciò che rimane, di circa 7,5 m di
spessore: così le canta Omero nell’Iliade:

Seguìa l’eletta de’ guerrier, cui d’Argo


mandava la pianura e la superba
d’ardue mura Tirinto e le di cupo
golfo custodi Ermïone ed Asìne.

Nella parte sud dell’acropoli rimangono le rovine del palazzo,


situato, costruito nel XIV-XIII secolo a.C., simile a quello di Crosso: fu
ritrovato dal grande genio archeologico di Heinrich Schliemann negli
scavi del 1884-85.
Nella Teogonia di Esiodo Tirinto è descritta come santa. Alla città
è legato il mito di Bellerofonte, di Perseo, di Preto, di Eracle, di
Euristeo, di Anfitrione; parecchie le opere e le tragedie che hanno a
che vedere con Tirinto.
L’autobus passa anche oltre Argo, che non visiteremo perché non
c’è più nulla da vedere… Ma di cui ci sono un milione di cose da dire.
Argo risale all’età del Bronzo ed è ritenuto l'insediamento più
antico della Grecia. È la città natale di Policleto e fu un famoso centro
artistico in epoca arcaica e classica. Le principali vestigia dell’antica
città sono un tempio dedicato a Hera (Heraion) e un teatro del IV-III
secolo a.C. (uno dei più grandi dell'antichità.
Nel VII secolo a.C. divenne la città più potente del Peloponneso.
Fidone, tiranno di Argo, vissuto nel VII sec. a.C., che combatté
contro Sparta e la vinse a Isie nel 669 a.C., fu il primo a coniare
monete nella Grecia e a stabilire norme sui pesi e sulle misure.
Ma nel VI secolo a.C. il potere di Argo venne drammaticamente
ridotto da Sparta.
Nel V secolo a.C. Argo si risollevò distruggendo Micene e Tirinto
(468 a.C.).
Nel IV secolo a.C. partecipò alla guerra del Peloponneso a fianco
di Atene e delle città alleate contro Sparta. Da questo momento in poi
la storia di Argo diviene un inarrestabile declino: viene sottomessa
dalla Macedonia nel 229 a.C. Poi Argo entra nella Lega achea, ma
nel 146 a.C. diviene parte della provincia romana dell'Acaia.
Unita all'impero bizantino, viene occupata dai turchi dal 1460 al
1830.
Verso il 1820, durante la lotta per l'indipendenza della Grecia,
Argo fu per pochissimo tempo sede dell’Assemblea nazionale
ellenica; nel 1825 viene terribilmente saccheggiata dall'esercito
turco.

Questa la storia: ma Argo è di importanza fondamentale per la


mitologia.
Primo re di Argo fu Inaco, figlio di Oceano e di Teti, padre di
Pelasgo, Argo e Io. E di Foroneo. Io, ninfa bellissima, fu amata da
Zeus. Ma Hera venne a conoscenza del fatto e si mise a
perseguitarla. Per nasconderla, Zeus la mutò in vacca; ma, Hera
seppe anche questo, si fece regalare da Zeus la giovenca, e, legatala
a un albero, le diede per guardiano Argo dai cento occhi. Impietosito
dai lamenti di Io, Zeus mandò Hermes a uccidere Argo. Allora Hera
fece tormentare la giovenca da un tafano che non le lasciò più un
istante di tregua, Io sempre in forma di giovenca, si diede alla fuga.
Attraversò il mare cui diede il suo nome (Ionio), quindi il Bosforo (=
“Il bue porta”) dove Zeus aveva rapito la sua bisnonna Europa, poi
l'Asia Minore e finalmente arrivò in Egitto, dove Zeus le ridiede
forma umana e la rese madre di Epafo, primo re egiziano, fondatore
di Menfi.
Inaco maledisse Zeus, reo di avere sedotto Io, ma non sfuggì alla
sua ira: per sottrarsi alla furia delle Erinni si gettò nel fiume Aliacmo,
nell’Argolide, che da allora prese il nome di Inaco.
Foroneo, primo uomo della stirpe pelasgica, figlio di Inaco e
fratello di Io, rappresentante del territorio di Argo, insegnò agli
uomini l'uso del fuoco, come aveva fatto Prometeo, e venne venerato
come l’iniziatore della cultura di quel paese e dell'ordinamento civile
e religioso degli Argivi. Fu fondatore del culto di Hera sul monte
Eubea.

Hera, venerata ad Argo come divinità lunare, venne più tardi, ma


molto prima di Omero, considerata regina del cielo. Come tale la si
ritenne figlia di Crono e di Rea, sorella quindi di Zeus di cui divenne
sposa. Fu madre di Ares, di Efesto, di Ebe. Di matronale bellezza, di
impeccabili costumi, proteggeva la castità del matrimonio e la santità
del parto. Nemica acerrima dei Troiani a causa del giudizio di Paride
(v.). Le erano sacri il pavone (sulla cui coda erano finiti i cento occhi
di Argo), la cornacchia e la melagrana; suoi messaggeri erano Iride e
le Ore. Ebbe culto molto speciale ad Argo (“Era Argiva”), soprattutto
sul promontorio Lacinio (“Era Lacinia”).
Anche Zeus aveva i suoi epiteti ad Argo: “Stenio” (“il Forte”) nelle
feste in suo onore; e poi “Liceo” – già epiteto di Apollo con significato
di «liberatore da lupi» – perché si diceva vi fosse apparso una volta
sotto aspetto di lupo.
Re di Argo fu Danao che ebbe 50 figlie, che uccisero per ordine
del padre – tutte meno una, Ipermestra – i loro mariti figli di Egitto,
loro cugino, e furono perciò condannate da Zeus al Tartaro, dove
scontano la loro colpa versando acqua in eterno in un vaso senza
fondo.
Re di Argo fu il litigioso Acrisio, padre di Danae, che fu amata da
Zeus, che per possederla (avendola il padre rinchiusa in una torre
perché gli era stato predetto che il figlio di lei lo avrebbe ucciso) si
trasformò in pioggia d'oro. Ne nacque Perseo. Acrisio allora fece
chiudere in un’arca e gettare in mare la figlia ed il nipotino. Ma
Perseo, scampato alla furia dell'oceano, tornò ad Argo e si presentò al
nonno, che rimase pietrificato guardando la testa di Medusa che il
nipote portava come trofeo. Poi Megapente (‘Megapénthés’), avrebbe
dato il proprio regno in cambio di quello del cugino Perseo,
diventando re di Argo.
Re di Argo fu Anfiarao. Sua moglie Erìfile, attratta dalla collana di
Armonia, indusse il marito, pur sapendo che egli vi avrebbe trovato la
morte, a seguire il fratello di lei, nella guerra contro Tebe. Fu uccisa
dal figlio Alcmeone per vendicare il padre. Secondo altri sarebbe
stata uccisa per aver rivelato a Polinice il nascondiglio di Anfiarao, in
cui egli si era rifugiato per non partecipare alla guerra contro Tebe.
Dante la ricorda nel Purgatorio XII, 49.
Re di Argo fu Diomede (non il Diomede dei cavalli cannibali), uno
dei principali eroi dell'Iliade, figlio di Tideo e di Deipile, che con la
protezione di Atena ferì lo stesso Ares, partecipò ad imprese rischiose
e insieme a Ulisse, uccise Reso re dei Traci e s’impadronì delle frecce
letali di Filottete. Tornato in patria e insidiato dalla infedele moglie
Egialea, riprese il mare, approdò nelle coste dell'Italia meridionale,
divenne re della Daunia fondandovi Argos, Hippios e altre città.
Argo è anche associata anche al ciclo di Oreste che inizia con
Agamennone, il più famoso re di Argo e Micene, figlio di Atreo e
fratello di Menelao, citato nell'Iliade e nell'Odissea. Ebbe in sposa
Clitennestra, figlia del re di Tebe Tindaro, che gli diede i figli Ifigenia,
Elettra, Crisotemi ed Oreste. Condottiero degli eroi greci che
assediarono Troia, sacrificò la figlia Ifigenia per ottenere la vittoria.
Nell'Iliade è il responsabile dell'affronto fatto ad Achille e delle
sconfitte greche. Al ritorno in patria fu ucciso da Clitennestra e
dall'amante di questa, Egisto, secondo la predizione di Cassandra.
Suo figlio Oreste ne fece vendetta.
Tisamenós (o Teisamenós), figlio di Oreste ed Ermione, fu re di
Sparta, Micene e Argo. Detronizzato dagli Eraclidi (i Dori), si rifugiò
in Acaia.

Argo è la patria di Agelada, scultore del sec.VI-V a.C., maestro di


Fidia, Policleto e Mirone che produsse bronzi nello stile severo (lo
stile che si diffuse in Grecia dopo la calata dei Dori), dei quali ci è
giunta notizia attraverso le fonti letterarie (Zeus di Egio, atleti di
Olimpia).
Di Argo era Telesilla, poetessa greca dei secc. VI-V a.C., di cui
rimangono pochi frammenti, dei quali uno dedicato alla Gran Madre.
In suo onore prese il nome il verso telesilleo.
Ad Argo si celebravano le feste Ibristiche durante le quali uomini
e donne indossavano le reciproche vesti. Le feste sono forse da
collegare al culto di divinità androgine.

E arriviamo finalmente a Micene. È appena passato


mezzogiorno: per prima cosa si va a mangiare da “Homer”.
Maddalena sta male, malissimo. Ci sediamo ad un tavolo vuoto. Un
istante dopo il cameriere fa sedere con noi l’alta coppia giovane della
comitiva: lui ha barba e capelli rossi e l’aria da buono, lei fatica a
dialogare con gli estranei… ha strani tatuaggi, sulla spalla, sulla
schiena… Sono di Forlì. La sera prima hanno partecipato alla serata
greca… e non l’hanno trovata per nulla interessane. Come
supponevo. Meno male che ci siamo evitati il momento Alpitour.
Qui l’acqua, seppure in bottiglia, è gratis. Alla fine del pranzo mi
faccio portare un’altra bottiglia d’acqua e rubo le due arance dal
cestino della frutta: torneranno buone sotto il sole di Micene. Subito
dopo il pranzo si va infatti a vedere il museo; qui è rimasto poco, il
grosso della ‘roba’ (tra cui la maschera detta di Agamennone) è finito
ad Atene, qui ci sono solo le copie.

Micene «ricca d’oro» dà nome alla più importante civiltà greca


dell’età del Bronzo, la civiltà micenea.
Micene sorge su una collina (278 m slm), stretta e protetta da
due cime elevate e scoscese (il Sara e il Prophitis Ilias). Secondo la
tradizione la città fu fondata da Perseo figlio di Zeus e di Danae.
Successore di Perseo fu Atreo figlio di Pelope e di Ippodamia.
Atreo e Tieste, istigati dalla madre Ippodamia, avevano ucciso il
fratellastro Crisippo, che il padre Pèlope aveva avuto da un'altra
donna; poi, per sottrarsi alla persecuzione di Pèlope, erano riparati
ripararono con la madre alla corte di Euristèo, re di Micene. Alla
morte di lui, Atrèo s’era impossessato del trono, suscitando le ire
invidiose di Tieste, che si vendicò seducendogli la moglie Erope, e
portando con sé nella fuga un figlioletto del fratello, al quale, diede
l’incarico di uccidere Atrèo. L’attentato fallì; Atreo, ignaro che
l'attentatore alla sua vita fosse suo figlio, lo fece morire; ma quando
venne a conoscenza della scelleratezza di Tieste, giurò di farne
atroce vendetta: e, simulando di voler riconciliarsi con lui, lo accolse
festosamente a Micene, dove fatti segretamente pigliare due
figlioletti di lui, Tàntalo e Plistène, li imbandì a mensa al fratello,
attirando così su di lui e su tutti i discendenti la maledizione degli déi
e di Tieste
Accecato dalla sete di vendetta, Tieste, avendo intanto appreso
dall’Oracolo che il figlio che sarebbe nato dalla sua propria figlia
Pelopèa, avrebbe ucciso Atreo, una notte, al buio senza farsi
riconoscere, si accoppiò con lei, e il mostruoso figlio di quell’incesto
fu Egisto. Per placare la maledizione degli dèi Atrèo corse a chiedere
consiglio all’amico re Tesproto; e, vista presso di lui Pelopèa,
credendola figlia di lui, la sposò e la condusse con sé a Micene, dove
ella fece allevare, coi due figli di Atrèo, Agamènnone e Menelào,
anche il suo Egisto, al quale Atrèo, diede l’incarico d’uccidere Tieste.
Egisto, non si fece troppo pregare, ed avuta dalla madre la spada da
lei sottratta al proprio ignoto seduttore, con quella assalì Tieste il
quale, riconosciutala sua, si spiegò col figliolo e lo persuase a
vendicarlo: ciò che Egisto fece senza esitazione.

I micenei, chiamati achei da Omero, possono identificarsi con le


tribù che giunsero in Grecia verso il 2000 a.C. a seguito della grande
migrazione indoeuropea.
L’alfabeto in uso a Micene era il lineare B. Verso al 1400 a.C. i
micenei conquistano il centro della civiltà minoica, Cnosso, e nel
1200 a.C., guidati da Agamennone della dinastia degli Atridi, figurano
tra gli eserciti greci che combatterono nella guerra di Troia, narrata
da Omero nell’Iliade.
Molto presto la supremazia di Micene ebbe fine, a causa delle
rivalità tra le varie città stato, aggravata, nel tardo XII secolo a.C.,
dall'invasione di un’altra popolazione, i dori, provenienti dal nord.
Durante le guerre persiane Micene inviò un contingente di 80 uomini
alla battaglia delle Termopili e insieme a quelli di Tirinto 400 uomini
a Platea. Per questo gesto ebbero l’onore di vedere il proprio nome
scritto sul tripode che dedicarono a Delfi le città che avevano
partecipato alla battaglia. Gli Argivi non tollerarono tale distinzione
onorifica e nel 468 a.C. conquistarono l’acropoli e distrussero le
mura: Micene non riconquistò più il suo originario splendore e mai
più fu ricostruita.

Usciamo dal museo: ecco davanti a noi le rovine di Micene che


comprendono, le grandiose fortificazioni (che raggiungono i 6-8 m di
spessore), in cui si apre il monumentale passaggio di nord-ovest: la
celebre Porta dei Leoni.
Appena oltre, a destra, vi sta il Granaio, edificio in uso fino alla
distruzione dell'acropoli. Subito dopo il Granaio si erge il Circolo
Funerario A con 6 tombe reali, dalle quali furono rinvenuti diversi
oggetti quali: le maschere d'oro (tra cui la famosa «detta di
Agamennone»), spade in bronzo con impugnature in oro e avorio,
pugnali decorati in oro, vasi e gioielli aurei, insomma i famosi “15
chili d’oro” ora finiti al Museo Archeologico di Atene. L’oro i Micenei
avevano imparato a lavorarlo in Egitto e forse da lì l’avevano
importato perché non c’era oro nei dintorni di Micene.
Qui sulla collina fu acceso l’ultimo fuoco che annunciò ad Atreo la
fine della guerra di Troia.

Oltre alle rovine del Palazzo Reale, straordinarie appaiono le


testimonianze funerarie, come la tomba di Agamennone, la tomba di
Clitennestra, la tomba di Egisto ecc.ecc. portate alla luce nel 1876 e
nel 1878 ancora una volta da Heinrich Schliemann. Risaliamo in
autobus per fare i 300 metri che ci separano dalla prima, la più
famosa, l’unica con camerino annesso. Vuota. Da sempre. Svuotata
chissà quando.

Un lungo tragitto ci aspetta ora per arrivare ad Olympia poiché


dovremo attraversare tutto il Peloponneso da est a ovest.
Ed io ne approfitto per parlare di Pausania, uno scrittore del II
secolo già diverse volte citato da Ares in questi giorni. Non è un caso,
perché “senza Pausania, le rovine della Grecia sarebbero, per la
maggior parte, un labirinto senza uscita, un enigma senza
risposta” (James G. Frazer)
Di Pausania abbiamo pochissime notizie, ricostruibili
dubitativamente dagli accenni che egli dà, nella sua opera, a diversi
imperatori del cui regno sembra esser stato testimone: sembrerebbe
che sia vissuto sotto gli Antonini, visto che cita ed esalta le opere
urbanistiche in Grecia di Adriano (117-138) e, con parole che
indicano un testimone preciso, sotto i regni di Antonino Pio (138-161)
e Marc’Aurelio (161-180).
Pausania, quindi, sarebbe nato intorno al 110, raggiungendo la
piena maturità sotto i due successori di Adriano: il che spiegherebbe
i termini altamente elogiativi con cui riferisce del riassetto
monumentale dato da Adriano alla Grecia e, in particolare, ad Atene.
Tali parole indurrebbero a pensare che si riferisca a questo
imperatore come già divinizzato. Altro cenno per la datazione
dell'autore è dato dall’invasione dei barbari Costoboci, situata intorno
al 166, che distrussero il tempio di Demetra ad Eleusi, perno centrale
della restaurazione filellenica degli Antonini.
Per quanto concerne la provenienza, si è pensato
all'identificazione di Pausania con un omonimo sofista di Magnesia, in
Lidia (Habicht), ma senza prove inoppugnabili: che però Pausania
fosse di origine micrasiatica provano l'ammirazione tributata ad
Erodoto e l'attenzione per la storia delle colonie greche d'Asia
Minore.
Poiché non fa alcun accenno a Commodo, cosa impossibile dopo
l'ascesa al trono di questo sovrano dispotico, si ritiene che Pausania
sia morto nel 180 o poco prima.

Pausania è autore della Periegesi della Grecia, un trattato storico-


geografico in 10 libri che copre, in senso orario, quasi tutte le regioni
greche: cominciando dall’Attica (I), passa poi a descrivere Corinto e
l’Argolide (II), per concentrarsi sul Peloponneso: vengono, così,
trattate Laconia e Messenia (III-IV), l'Elide, con un’ampia trattazione
sulle Olimpiadi e sull'area del santuario di Zeus Olimpio (V-VI),
l’Acaia, con un lungo excursus sulla colonizzazione greca arcaica
(VII), e l'Arcadia (VIII). È il giro che faremo noi… Chiuso in un
cerchio il Peloponneso, Pausania torna al nord-est della Grecia
continentale, con la Beozia (IX) e, infine, con l’ampia trattazione della
Focide e della zona di Delfi, per i greci ‘ombelico del mondo’ (X).
Ad un primo esame, l’opera di Pausania sembra una sorta di
guida turistica, che condensa una descrizione accurata di monumenti
e miti ad essi legati, con brevi excursus di tipo storico e antiquario:
tale ibrida mescolanza di storia ed erudizione, dichiaratamente
ispirata ad Erodoto, era già patrimonio comune della letteratura
geografica e periegetica, fin dall’ellenismo, con autori come
Polemone di Ilio (III-II a.C.) e, più vicino nel tempo, Strabone.
In realtà, inserendosi pienamente nel clima di recupero culturale
della grecità attuato nell’età antonina (e forse per questo l’opera
ebbe una limitata fortuna, essendo legata ad un contesto troppo
specifico), Pausania intende riprendere la grande tradizione culturale
della Grecia, facendo, dal versante periegetico, opera simile a quella
di Plutarco per la biografia. Pausania esprime il momento di pace
socio-culturale antonina, in cui il grande passato greco è ricostruito
con il ricorso a fonti svariate, sia in prosa che in poesia, specie per
notizie rare, di cui spesso è fonte insostituibile.
La sua opera, in passato relegata a ruolo di modesta
compilazione, può invece essere intesa come una delle ultime storie
greche, in cui la lettura storica del paesaggio (Musti) è attuata con la
ricostruzione non solo dell'arte e della cultura, in special modo della
mitologia (con le dettagliate descrizioni di opere altrimenti perdute,
come, ad esempio, lo Zeus e l’Atena di Fidia, o anche l’arca di
Cipselo) ma anche dei passaggi storici a cui la regione in questione è
stata esposta.

Abbiamo attraversato le montagne fastidiose al centro del


Peloponneso, tornanti su tornanti, ma il nostro autista è bravo, li
prende dolcemente, nessuno sta male e finalmente discendiamo
verso la Messenia. Il paesaggio è già più verde: qui non ci sono i
problemi di siccità che affliggono l’Attica, l’Argolide, la Laconia:
piove il triplo.
Attraversiamo il fiume Alfeo. Che inseguì Aretusa fino in Sicilia
e lì con lei si congiunse
Sulla costa è la città di Cyparissia. I cipressi striano il paesaggio,
un misto di colline toscane e vegetazione padana. Cyparisso, amato
da Apollo,…
Siamo quasi arrivati a Olympia. A un certo punto, l’autista prende
una scorciatoia: sembra strada per motorini, nemmeno per auto… e
difatti l’autobus sfiora recinzioni di casupole modeste, cancelletti,
cornicioni di tetti, finché arriviamo a Olympia, all’Hotel Nera. La cena
è prevista sulla splendida terrazza dell’hotel da cui si domina tutta la
città (un paesino di 2000 abitanti!).

Ci laviamo e ci presentiamo in terrazza per la cena. Con noi


siedono Simona e Stefania. Poco dopo anche una coppia di… quale
età? Mezza, terza… sui sessant’anni. Il panorama è splendido, si
vedono tutte le montagne intorno a Olympia, così piccola da
concentrarsi sotto l’orizzonte della terrazza. Il discorso finisce sui
cellulari e il signore racconta di quel suo amico avvocato che rispose
al telefonino anche appeso alla parete di roccia: con una mano sulle
corde e col telefonino nell’altra… «Del resto non può mai staccare, è
uno egli avvocati che seguono Berloni… » spiega orgoglioso.
«Lei ha amici avvocati? – chiedo io, che ho voglia di rompere le
palle – Come si fa ad avere amici avvocati? Non ne ho mai conosciuto
uno che volesse veramente la risoluzione di una causa, che lavorasse
per la verità…» Il signore dovrebbe rispondermi male e invece
rimane in silenzio: a una certa età è obbligatorio pensare che la vita è
dei furbi. La conversazione diventa improvvisamente di pietra.
Lunghi silenzi inframmezzati a bocconi di conversazione dai quali
veniamo a sapere che Stefania insegna in una scuola materna,
mentre Simona lavora in un supermercato. Sono cugine. La signora
probabilmente deve lavorare in una radiologia dato che cita con aria
saccente colleghi medici e prassi ospedaliere. Quando sente che
anch’io insegno concorda con me che faccio la bella vita dato che
lavoro 18 ore alla settimana e posso fare tutto quello che mi piace…
Da quel momento la conversazione diviene inesistente.
Simona la ravviva con la foto della tavolata: sembra ossessionata
dall’idea di conservare ogni immagine, ogni momento… E forse fa
bene: i ricordi che rimangono vivi sono quelli che si possono
rinnovare…
Alla fine della cena io e Maddalena scendiamo a fare un giro per
la cittadina. Visitiamo per mezz’ora un negozio di vasi, belli e troppo
cari, quindi in un altro negozio lei compra della pietra pomice per sua
madre; infine entriamo nell’unico negozio culturale di Olympia: libri
in tutte le lingue, opere d’arte molto particolari… Maddalena mi
regala due libri, poi compra cartoline e francobolli e una calamita per
sua nonna Dima… Al momento di pagare scopriamo che l’uomo che
da un pezzo sta chiacchierando col titolare è Aris, la nostra guida.

5° giorno - venerdì
Prima colazione in albergo, ancora con Simona e Stefania. Per
non perdere la bella abitudine Simona fotografa anche il tavolino
della colazione.
La mattinata sarà dedicata alla visita di Olympia, il grande
santuario panellenico, sede degli antichi giochi olimpici.
Olympia, posta nell’Elide (Peloponneso) sulla riva destra
dell’Alfeo, a ovest di Pisa, capitale dell’Elide. Vi sorgevano numerosi
templi, tra cui celebre l’Olimpieion dedicato a Zeus e al suo culto, in
un recinto sacro denominato Altis. Il tempio di Zeus, quello di Hera,
Heraion, e altri edifici monumentali dell’Altis, i più antichi datati a
partire dal sec. VIII a.C., furono frequentati fino al IV sec. a.C. Nello
stadio e nell'ippodromo di Olimpia si svolgevano ogni 4 anni i celebri
Giochi Olimpici (Olimpiadi). Questo centro non assunse mai la
configurazione di città vera e propria, rimanendo sempre un
agglomerato di templi, boschi, terreni sacri, centro religioso anche
dei popoli che nel tempo la occuparono e che vi istituirono i propri
culti. Gli scavi archeologici iniziarono nella seconda metà del XVIII
sec. e furono ripresi nel 1875. Conseguenza degli scavi, fu la
riesumazione dei Giochi Olimpici dell'era moderna, che si svolsero la
prima volta ad Atene nel 1896.
Nel corso delle esplorazioni sono stati messi in luce resti che dal
medio e tardo elladico arrivano all'età romana tardo-imperiale. I
giochi olimpici venivano celebrati ogni quattro anni in onore di Zeus
a Olimpia, sede del più importante santuario della divinità. Nel 776
a.C. fu compilato per la prima volta l’elenco dei vincitori, conservato
sino al 217 d.C. , nelle opere di Eusebio di Cesarea. Eccetto la
sacerdotessa di Demetra, nessuna donna poteva assistere ai giochi.
I giochi olimpici venivano celebrati in estate. All’inizio dell’anno
in cui avrebbero avuto luogo venivano inviati emissari per invitare le
diverse città-stato a partecipare al versamento del tributo pagato a
Zeus; queste mandavano quindi le proprie delegazioni, rivaleggiando
l’una con l’altra nell’esibizione dell’equipaggiamento e nelle imprese
atletiche. La durata dei giochi olimpici venne ampliata notevolmente:
inizialmente erano concentrati in un giorno, con gare di atletica e di
lotta; successivamente – forse per opera del tiranno di Argo Fidone
(VII secolo a.C.) – vennero introdotte le corse ippiche; a partire dal
472 a.C. gli agoni furono portati a cinque giorni. Anche se non è nota
con esattezza la loro sequenza, sappiamo che il primo giorno era
dedicato ai sacrifici; nel secondo si svolgeva la più importante
competizione dei giochi, la gara di corsa, che si disputava nello
stadio. Negli altri giorni avevano luogo la lotta, il pugilato e il
pancrazio (una specialità che combinava insieme le due discipline
precedenti). Nella lotta l’obiettivo era mettere a terra l’avversario tre
volte. Il pugilato divenne sempre più brutale con il tempo: all’inizio i
pugili si avvolgevano cinghie di morbido cuoio intorno alle dita della
mano, allo scopo di attutire i colpi, mentre in epoca posteriore
usavano cuoio più duro, a volte reso più pesante dall'inserimento di
parti di metallo. Nel pancrazio, lo sport certamente più violento, il
combattimento proseguiva fino a che uno dei contendenti non
soccombeva ammettendo la sconfitta. Le corse dei cavalli, nelle quali
ogni concorrente doveva essere proprietario del cavallo, erano
riservate ai più abbienti. Dopo le corse ippiche si svolgeva la gara del
pentathlon, competizione che univa cinque specialità (la corsa veloce,
il salto in lungo, il lancio del giavellotto, il lancio del disco e la lotta).
I vincitori a Olimpia ricevevano corone di ulivo selvatico e onori, il
più ambito dei quali era l’erezione di una statua nel recinto del
santuario di Zeus; per il lustro che davano alla loro città spesso
venivano celebrati dai versi dei poeti con gli epinici (celebri quelli di
Pindaro) e per il resto della vita erano mantenuti dalla comunità.

Entriamo nell’area sacra. Ci fermiamo davanti all’Heraion, il


tempio dedicato ad Hera. Passiamo davanti alla fontana semicircolare
di Erode Attico (ancora lui) e ai tempietti votivi delle tante città
greche
Alla nostra destra un tumulo di pietre: la tomba di Pelope, l’unico
mortale che ebbe l’onore di essere sepolto nel santuario di Olympia.
Pelope, lo straniero ch’era venuto a conquistare Ippodamia… Ma
forse è bene cominciare dall’inizio.

Enomao, Re di Pisa, nell’Elide, aveva una figlia, Ippodamia,


domatrice di cavalli. E tra i cavalli c’era probabilmente lo stesso
Enomao di cui una seconda versione narra le usanze incestuose.
Enomao, avendo appreso dall’oracolo che sarebbe stato ucciso dal
genero, a tutti gli aspiranti alla mano della figlia imponeva come
condizione di misurarsi prima con lui nella corsa delle bighe, nella
quale, sotto la guida del celebre auriga Mirtilo, si riteneva invincibile.
Dava al pretendente un piccolo vantaggio, ma se l’avesse raggiunto e
superato, l’avrebbe decapitato: faceva però sedere sulla loro biga la
bella Ippodamia, che menomava la velocità e la stessa attenzione del
conduttore. Ben quindici pretendenti avevano tentato inutilmente la
prova, e avevano pagato a caro prezzo la propria temerità. Pèlope,
figlio di Tantalo, non si lasciò intimorire dalla sorte dei suoi
predecessori e volle rischiare la prova, sia confidando nella bontà dei
propri cavalli, dono di Nettuno, sia contando sul fatto che Ippodamia,
innamorata di lui, l’avrebbe aiutato; ma soprattutto corrompendo con
larghissime promesse l’auriga Mirtilo (anche lui segretamente
innamorato di Ippodamia) che sostituì i perni delle ruote del carro
reale con altri di cera, in modo che, durante la corsa, si rompesse in
due pezzi, come accadde infatti: Enomao, piombato a terra, fu
travolto dai cavalli imbizzarriti per l’incidente imprevisto, e morì.
I tre complici fuggirono per sottrarsi alla vendetta della
popolazione; e, come in ogni malavita che si rispetti, i due innamorati
eliminarono per primo il traditore che aveva consentito loro di
eliminare Enomao. L’occasione gliela fornì lo stesso Mirtilo che,
innamorato di Ippodamia, aveva approfittato di una breve assenza di
Pelope per possedere la fanciulla; Pelope l’aveva quindi spinto da un
precipizio in mare… ma prima di morire Mirtilo scagliò una
maledizione contro Pelope e suoi discendenti che puntualmente si
verificherà: è la storia dei re di Micene. Da Pelope e Ippodamia
nasceranno Atreo e Tieste, da Atreo nasceranno Menelao e
Agamennone, da Tieste nascerà Pelopèa e da entrambi Egisto… e la
maledizione sulla casa di Micene si accanirà realmente. Ma l’abbiamo
già raccontata.
Pelope ed Ippodamia ritornarono ad Olympia. E Mirtilo?

Qualche dio pietoso portò in cielo Mirtilo che divenne la


costellazione dell’Auriga. La costellazione viene immaginata come un
auriga con in braccio una capra (Capella, cioè in latino appunto
‘piccola capra’) e due capretti (stelle Headi, zeta ed eta Aurigae). I
mitoastronomi greci seppero spiegare la presenza di questi animali
narrando che le due ninfe Aix ed Elice, le balie di Zeus, non avevano
latte, sicché dovettero dargli come nutrice una capra, Amaltea, che lo
svezzò. L’animale aveva partorito proprio in quel periodo due
caprettini. Quando Zeus divenne adulto, volle per gratitudine rendere
eterni nel cielo la madre insieme ai i due figli. Ma perché la capretta
sta in braccio a Mirtilo?
Pelope però ritornò ad Olympia e fu sepolto dentro il santuario di
Olimpia, unico tra i mortali, Un tumulo ne ricordava la tomba, ma
quale ne fosse la collocazione precisa oggi non si sa. È stato
ricostruito di fantasia.

Autore del tempio di Zeus fu Libone, architetto greco citato da


Pausania (V sec. a.C.).
Al suo interno la statua di Zeus, di Fidia: una delle sette
meraviglie dell’antichità.
Fidia, il più grande scultore della Grecia, l’espressione più
completa e più alta del mondo ellenico, nacque ad Atene agli inizi del
V sec., fu scolaro di Egia, scultore del Peloponneso, e sentì anche
l’influsso del sommo Polignoto. Con ogni probabilità, in gioventú fu
anche pittore, certo fu espertissimo in tutte le tecniche: marmo,
bronzo, tecnica crisoelefantina, cesello e intarsio. Al primo periodo
della sua attività appartengono le due statue di Athena: quella di
Pellene in Acaia e la Areia di Platea. Tra il 465 e il 460 ebbe l’incarico
di eseguire per Delfi un gruppo votivo dedicato agli eroi di Maratona.
Dal 452 al 448, nella pienezza della maturità, scolpì il primo
capolavoro: lo Zeus di Olimpia, in quella particolare tecnica detta
crisoelefantina, che proveniva da tipi arcaici e voleva in avorio le
parti ignude, e in lamina d’oro le vesti, la barba e i capelli. La figura
di Zeus, che in piedi sarebbe stata alta 15 metri, era rappresentata
seduta su un trono. Dice Pausania che “se si fosse alzata in piedi
avrebbe sfondato il tetto”.
Chiesto a Zeus un commento sull’opera, il dio approvò con un
terribile fulmine.
Poi il genio di Fidia rifulse in tutto il suo splendore nella grande
statua di Athena Parthenos e nei marmi del Partenone… ma di questo
abbiamo già detto.

Molte altre erano le meraviglie del santuario di Olympia:


Prima fra tutte l’Arca di Cipselo, cassa di legno di cedro, oggi
perduta, scolpita con scene mitologiche. Mandata da Cipselo come
dono votivo al santuario di Olimpia, viene descritta dagli antichi
letterati come una meraviglia.

Leonide, architetto greco attivo nella seconda metà del IV sec.,


realizzò il Leonidaion, edificio di forma quadrangolare con un cortile
all'interno e un ingresso imponente circondato esternamente da un
portico colonnato, che serviva ad ospitare i pellegrini di rango.

Iamo, figura mitologica, figlio di Apollo ed Evadne e allevato da


Epito, signore dell’Arcadia. Capostipite della famiglia sacerdotale
degli Iamidi, esercitò l’arte della profezia a Olimpia.

Paiono, scultore greco della metà del V sec. a.C., scolpì la celebre
“Nike” (oggi nel Museo Archeologico a Olimpia), eseguita per
celebrare la vittoria dell'ateniese Sfacteria nella guerra del
Peloponneso del 425 a.C. Venne posta davanti al tempio di Zeus a
Olimpia.
Secondo la tradizione Paiono scolpì un’altra Nike per la storia
degli ateniesi a Delfi e collaborò probabilmente all'esecuzione del
fregio del Partenone.

Kairòs, personificazione del momento opportuno, veniva


rappresentato come un giovanetto con le ali ai piedi e talvolta agli
omeri, con un ciuffo di capelli sulla fronte e la nuca quasi rasa. Un
altare a lui dedicato era ad Olimpia.

Indispensabile quindi la visita al museo di Olympia, dove


ammiriamo le magnifiche ricomposizione dei due frontoni del tempio
di Zeus.
Eccoci di fronte alla statua di Hermes con Dioniso bambino. È del
340-330 a.C., marmo alto 215 cm., Questa statua di Prassitele è uno
dei massimi vertici raggiunti dalla statuaria greca. Siamo ormai in
periodo ellenistico: la figura si muove, acquista vita. Hermes tiene in
braccio il piccolo Dioniso (che strano vederlo piccolo, abituati come
siamo ad immaginarlo sbevazzante) mentre nell’altra mano solleva un
grappolo d’uva verso il quale il piccolo si slancia. Non vi è certezza se
questa statua sia l’originale o una copia. Certo la sua fattura è di
altissima qualità che potrebbe far ritenere che si tratti proprio
dell’originale scolpito da Prassitele.
Anche in questo caso l’artista riesce a coniugare perfezione
formale con una rappresentazione non eroica ma quotidiana. Le due
figure trasmettono sentimenti molto umani, in questo atteggiamento
di gioco che è soprattutto partecipazione affettiva tra i due. Anche in
questo caso Prassitele fa entrare nella composizione un elemento
verticale: un tronco sul quale Hermes appoggia il braccio che sta
sostenendo il bambino. Il molle abbandono di Hermes, in questo caso,
accentua il sentimento di tenerezza ispirato dai bambini.
Tutto si è detto dell’Hermes: D’Annunzio, che in Grecia era
venuto in cerca di strabilianti reportage, vedendolo esclamò
sconsolato: “Ah, se si potesse dirne qualcosa di nuovo…”

Pranziamo
Nel pomeriggio proseguimento per Delfi (250 km dice la guida
Alpitour) dove arriveremo in serata. Durante il lungo tragitto in
autobus tocchiamo Patrasso, la città dove fu martirizzato l’apostolo
Andrea. Il suo corpo fu però trafugato dagli Amalfitani (mi ricordo di
averlo visto nella chiesa di Sant’Andrea ad Amalfi…): Aris ci dice che
la Chiesa Cattolica, come gesto di distensione nei confronti della
Chiesa Ortodossa, ha restituito alcuni anni fa la testa dell’apostolo,
che ora riposa nella chiesa di Patrasso. Mi torna in mente il grido il
Pio II, che nel nome di sant’Andrea da Patrasso cercò invano di
organizzare la sua ormai anacronistica crociata (doveva essergli caro
questo santo se poi volle farsi seppellire nella chiesa di Sant’Andrea
della Valle).

Arriviamo a Rio, il promontorio che assieme al gemello Antirio sul


continente costituisce l’imbocco del golfo di Corinto. Li chiamano I
Piccoli Dardanelli, il Golfo di Corinto come il Mar di Marmara…Un
tempo si andava da qui a là in traghetto (ci si va ancora, sono tre
chilometri) e si risparmiava di dover arrivare fino a Corinto, ma nei
giorni di mare mosso occorreva arrivarci…. Ora c’è il ponte: una
meraviglia

Il ponte di Rio e Antirio


Era da quando Harilaos Trikoupis divenne Primo Ministro della
Grecia nel 1880 che si coltivava il sogno di un ponte che
attraversasse i 3 km dello stretto di Rio e Antirio che costituisce
l’imboccatura del Golfo di Corintho.
Anche noi a San Donà e a Musile da cinquant’anni coltiviamo il
sogno di un nuovo ponte sul Piave… un ponte più modesto…
Trikoupis, nato a Messolonghi, una delle principali città della
costa nord del Golfo di Corinto, sognava un ponte che unisse le genti
dell’Achaia (il Peloponneso) a quelle dell’Etolia (Grecia
nordoccidentale). Se ne discusse in parlamento alla fine del XIX
secolo, ma il ponte era allora tecnicamente realizzabile, e lo rimase
per un secolo… fino a quando, nel ’91, lo Stato Greco lanciò il bando
per la sua costruzione. Come si poteva realizzarlo?
Il ponte doveva attraversare una striscia d’acqua di 2500 metri.
La profondità media dell’acqua era di 65 metri. Bisognava tener
conto dell’assenza di un solido fondale sotto il fondale sabbioso, della
forte attività sismica e di possibili movimenti tettonici.
Il profilo del fondo del mare presenta ripide pendici da ambo I
lati e un lungo fondale orizzontale a 60 metri sotto il livello del mare.
Non fu rilevato un letto di roccia durante le esplorazioni fino a 100
metri sotto il fondale sabbioso. Basandosi sugli studi geologici, si
ipotizzò che lo spessore del sedime costituito di spessi strati di argilla
mescolati in certi punti a sabbia fine e melma fosse maggiore di 500
metri.
Nel definire le specifiche del ponte, lo Stato Greco impose
stringenti criteri antisismici: “a peak ground acceleration equal a
0.48 g and a maximum spectral acceleration equal to 1.20 g between
0.2 and 1.0 second”. Per fare un esempio, queste specifiche sono
molto più severe delle accelerazioni registrate durante il terremoto di
grado 7.4 Richter che ha colpito Izmit il 17 agosto del 1999.
Si riteneva inoltre che i movimenti tettonici, che generano
l’attuale attività sismica nell’area, facessero sì che la costa sud di Rio
si allontanasse da quella nord di Antirio di parecchi millimetri
all’anno.
L’esito del Concorso nel dicembre 1993 portò il 3 gennaio 1994
(ottavo compleanno di Maddalena) alla firma del Contratto di
Concessione (per il progetto, la costruzione, il finanziamento, il
mantenimento e l’operatività del ponte) tra la Repubblica Ellenica e
la compagnia franco-greca Gefyra S.A..
Come per la maggior parte dei contratti di concessione, l’accordo
non sarebbe entrato in vigore finché non fosse stato raggiunto il
finanziamento completo dell’opera, e ci vollero due anni per chiudere
quella pratica.
La ‘Data Effettiva’ di partenza dei lavori, come da progetto, fu
pertanto il 24 dicembre 1997. Il 19 luglio 1998, Costas Simitis,
Primo Ministro di Grecia, alla presenza di Constantinos
Stephanopoulos, Presidente della Grecia, pose la prima pietra del
ponte di Rio-Antirio
I 7 anni del periodo di costruzione comprendevano un periodo
preparatorio di 2 anni (1998-1999) per completare il progetto finale e
installare le piattaforme preparatorie; e un periodo di costruzione di
5 anni (2000-2004) in cui il ponte è stato effettivamente costruito.
L’8 agosto 2004 l’antico sogno è divenuto realtà: addirittura in
anticipo sui tempi previsti, il ponte tra Rio ed Antirio è stato
inaugurato da uno dei tedofori che portavano la fiaccola delle
Olimpiadi. È stato intitolato a Harilaos Trikoup, ovviamente, che lo
immaginò già nel XIX secolo.
È il ponte più lungo al mondo a reggersi su soli quattro piloni. È
lungo infatti più di 2.250 metri e largo 27 metri.
È stato concepito per resistere a un terremoto del 7° grado della
Scala Richter, o all’impatto di una nave di 180.000 tonnellate. È stato
costruito in maniera tale da poter resistere a raffiche di vento fino a
250 chilometri orari, e resterebbe in piedi anche se uno dei quattro
piloni si spostasse di due metri. I piloni, con le loro fondamenta
larghe (hanno un diametro di 90 metri!) e poco profonde, assicurano
una grande sicurezza. Fu molto difficile piantare i piloni 60 metri
sotto la superficie del mare, spiega Ares, che ne ha seguito le vicende
per ragioni personali: per lavoro doveva cuccarsi ogni volta il
traghetto Rio-Antirio e sempre con il timore che qualcosa non
andasse per il verso giusto… Una volta che ci fu lo sciopero dei
traghetti dovettero arrivare fino a Corinto, e giunsero a Delfi alle 11
di sera. Già: Olimpia-Delfi, come noi… da quanti anni Aris fa sempre
lo stesso giro?
La società francese Vinci, che detiene più del 50% delle azioni, fa
pagare un pedaggio di 9 € alle auto, di € 1,5 alle moto, 50 € agli
autobus e 35 € ai TIR. Non vi è proporzione, quindi significa che ci
passano soprattutto auto.
Ogni giorno attraversano il ponte 10.000 auto, con punte di
25.000 nei giorni di particolare traffico. Un veicolo lo attraversa in 4
minuti, contro i 30-40 che ci volevano per attraversare il braccio di
mare con il traghetto. Il ponte Rio-Antirio fa parte dell’autostrada
ionica, destinata a facilitare il traffico verso Igoumenitsa, da dove
partono le navi dirette in Italia. I traghetti ci sono ancora, ad un
autobus chiedono 16 euri, ma gli autobus ovviamente preferiscono
pagarne 50
Il Contratto di Concessione stabilisce i pedaggi massimi
imponibili, che però possono essere diminuiti per ragioni commerciali
dalla Società Concessionaria, interamente responsabile di fare il
proprio gioco e di venire incontro al traffico locale o stagionale con
biglietti stagionali o abbonamenti speciali.
The Operation Period shall end no later than 42 years from the
Effective Date (24 December 2039). The bridge shall then be handed
over to the Greek State for its own operation.

Giunti di là è obbligata la sosta per la foto turistica di rito. Ma è


una posizione infelice, non si riesce ad ammirare la sagoma del
ponte. È buffo notare che circa 500.000 anni fa il Golfo di Corinto era
probabilmente un mare, e il Peloponneso legato al continente da due
istmi: a est quello di Corinto e a ovest quello di Rio. Quello che
rimase lo tagliarono i francesi, quello scomparso è sostituito oggi da
un ponte costruito dai francesi.

Costeggiamo il Golfo di Corinto lasciando alla nostra destra le


cittadine balneari con nomi che abbiamo già udito perché le
etimologie sono sempre quelle: Monastiraki, Glifada… collegate da
una stradina parallela più bassa che corre al livello del mare.
Seguendo la costa del Golfo di Itea attraversiamo Galaxidi, oggi
centro balneare rinomato, ma venuto in auge dopo che vi fu girato “Il
ragazzo sul delfino”: il film l’aveva suggerito il ritrovamento della
statua bronzea del fanciullo che si pensava legato al mito di Apollo, al
delfino di Apollo; oggi al Museo di Atene il ragazzino di bronzo non
sta sopra un delfino ma sopra un cavallo: è il suo, ci sono i segni degli
incastri.
Giunti a Itea ci spostiamo verso l’interno, attraversiamo
campagne di ulivi e ci alziamo sulla montagna rossa di rocce di
bauxite, tutt’intorno gli impianti di scavo e di trasporto, di fronte a
noi il Parnaso.
Attraversiamo una striscia d’acqua zigzagante che costeggia la
catena del Parnaso: è l’acquedotto che porta l’acqua ad Atene.

Eccoci, siamo a Delfi, nella Focide, a ridosso dell’altopiano


meridionale della catena del Parnaso, a 500 metri di altitudine ma
non troppo lontano dal mare: il golfo di Corinto dista infatti solo 8
chilometri e lo vediamo alle nostra spalle, oltre il “mare di Ulivi” in
fondo alla valle.
La Delfi moderna è un paesino di montagna con due strade
strette a senso unico, una che va e una che viene, una più a monte e
una più a valle, collegate tra loro da scalinate. L’autobus, fermandosi
davanti al nostro albergo, l’Hotel Hermes, bloccherà la strada:
dovremo scendere in fretta e altrettanto in fretta recuperare i nostri
bagagli. Aris chiede a me e Maddalena il cognome con cui siamo
registrati, ha già in mente altre tre coppie, evidentemente, e adesso
cerca anche la quinta per assegnare loro le cinque stanze che
purtroppo hanno solo il letto matrimoniale. Ci capita la stanza 56, al
secondo piano: non c’è l’ascensore, ci porterà su le borse il ragazzo
tuttofare dell’hotel… La stanza si rivela piccola e buia, con un letto
che sembra da una piazza e mezza più che matrimoniale, addossato
alla parete… una piccola finestrella in alto raggiungibile solo con lo
sgabello dà sulla strada… accidenti… Ancor più accidenti quando
scopriamo che la quasi totalità delle altre stanze, sia quelle dei due
piani superiori sia quelle dei due piani inferiori (l’albergo è sulle
pendici della montagna) dà sulla splendida vallata, il mare di olivi.
Dato che non c’è il ristorante, ceneremo nel vicino ristorante
“Epicuro”. Prima di cena facciamo una passeggiata per il micropaese
(2000 abitanti), sperimentiamo una delle scalinate che uniscono le
due strade, quindi c’incamminiamo verso il ristorante. Ci portano
l’acqua in bottiglia, con noi si siede la coppia di Pisa che ha una figlia
dell’età di Maddalena.
Chiediamo alla ragazzina che ci porti altra acqua, dopo un bel po’
di attesa la richiediamo anche al cameriere… Quando arriva la
ragazzina con la caraffa le porgiamo la bottiglia di plastica vuota
perché liberi un poco il tavolo, ma lei non prende: «You have to pay
it» ci spiega. In quella arriva il cameriere con un’altra bottiglia di
plastica, gli diciamo che non serve più, e lui se ne torna contrariato,
ma contrariati lo siamo un poco anche noi perché non capiamo mai se
le cose sono a pagamento oppure comprese nel prezzo. Dopo qualche
minuto prendo la bottiglia di plastica e la faccio sparire dietro di me
vicino al vaso della pianta. Tutti ridono.

6° giorno - sabato
Preparate le valigie saliamo in autobus. Riesco a prendere il
nostro bel posto col tavolinetto vicino alla porta posteriore. Vi lascerò
il cappello o lo zaino e sarà nostro per tutto il giorno.
Ora ci aspetta il santuario di Delfi, una delle più importanti
zone archeologiche del mondo, «uno dei principali luoghi di culto
della Grecia: anticamente qui c’era per tutto il mondo ellenico
l’oracolo del Dio Apollo» dice Alpitour.
Il santuario risale molto probabilmente all’età micenea, ma in
origine non era adibito al culto di Apollo: prima di lui si erano infatti
succeduti a Delfi la Terra, Temi e Febe, come alcuni miti eziologici
lasciano presumere. Resta quindi aperto il problema circa la
collocazione cronologica della attribuzione dell’oracolo ad Apollo.
Omero chiama il santuario col nome di Pito. Stando a quanto dice
l’inno omerico ad Apollo, “Pito” deriva da pythesthai, che in greco
significa “marcire”. Per comprendere il perché dobbiamo,
ovviamente, far riferimento al mito; esso narra che Apollo, una volta
accolto sull’Olimpo, ne discese in cerca della sua dimora sulla terra
per erigervi un santuario; dapprima si diresse alla fonte Telfusa (o
Tilfussa), ma l’incauta sorgente lo convinse a dirigersi alle pendici del
Parnaso dove vi era un’altra sorgente, la fonte Castalia; questa però
era protetta dalla Dracena, un drago femmina; Dracena non era solo
la custode della fonte, visto che le fu affidato anche il mostro Tifone,
generato autonomamente da Hera per rivalersi contro il marito Zeus
dopo che questi, altrettanto autonomamente, generò Atena dalla
propria testa… Apollo, che non desiderava evidentemente la sua
compagnia, uccise Dracena con una potente freccia «…e da allora
Pito ha tale nome, e chiamano il dio con l’epiteto di Pizio, perché in
quel luogo la forza del Sole ardente fece marcire il mostro» (Inno
omerico ad Apollo).
Ma le origini dell’oracolo di Delfi risalgono all’epoca stessa in cui
gli dei emergevano dal caos e la prima dea a possedere il suolo
delfico fu la Terra; essa lo passò poi alla figlia Themis, la quale a sua
volta lo cedette alla titanide Febe che successivamente lo offerse
come dono di nascita ad Apollo, che da lei prese anche l’epiteto di
Febo Apollo. Tutto ciò ce lo racconta Eschilo nelle Eumenidi…
Ma abbiamo anche una versione meno ‘divina’ dell’oracolo di
Delfi. Infatti secondo altre fonti, tra cui Diodoro, fu Coreta, un
pastore del luogo, a scoprire le virtù profetiche di Delfi. Questi notò
che le sue capre, avvicinandosi a un particolare crepaccio del suolo
andavano in eccitazione, quindi, per capirne il motivo, andò a
guardare nel crepaccio e immediatamente iniziò a profetizzare. Su
quello stesso crepaccio fu collocato il famoso tripode, dove da allora
in poi si sarebbe seduta la profetessa Pizia, per assorbire meglio i
vapori emessi ed essere più vicina al dio.
Il mito spiega anche l’origine del nome Delfi: Apollo, fondato il
santuario, andò alla ricerca dei sacerdoti a cui affidarlo, e la scelta,
per oscuri motivi, ricadde sui mercanti di una nave cretese; il dio non
tentò neanche di convincerli a divenire suoi sacerdoti, ma si tramutò
in un’enorme delfino e li trascinò con tutta la nave fino al porto di
Crisa, quindi si trasformò in un bel giovane e spiegò ai mercanti
cretesi la vita che aveva scelto per loro, rassicurandoli che avrebbero
avuto tutto da guadagnarci; li condusse al santuario e decretò che
quel luogo si chiamasse Delfi, in quanto sotto forma di delfino era
apparso per la prima volta ai suoi devoti.
Tornando alla Dracena, vi è da dire che questa era considerata un
essere primordiale e quindi sacro, per questo motivo Apollo dovette
purificarsi per averla uccisa; a tale scopo egli fece da mandriano a
Admeto, re di Fere in Tessaglia, il quale si guadagnò l’amicizia e la
protezione del dio. Per questo motivo a Delfi ogni otto anni si
svolgeva la Septerione, una festa che celebrava l’espiazione del
delitto di Apollo e di cui tralasciamo il rituale per amore di sintesi.

Delfi fu sicuramente il più importante centro religioso


dell’antichità: nessuna decisione importante, sia di carattere
personale che di interesse generale, veniva presa senza consultare il
dio profetico Apollo; questi parlava per bocca della sua sacerdotessa,
la famosa Pizia, la quale, con un ramoscello di alloro in mano e una
foglia di alloro in bocca (e forse masticando anche altri vegetali
allucinogeni), seduta sul sacro tripode, cadeva in estasi aspirando il
vapore che usciva da una fessura nel suolo, presso l’omphalos,
l’ombelico del mondo; quindi compiva movimenti ed emetteva suoni
che i sacerdoti interpretavano seguendo i canoni della propria
dottrina, traducendoli in forma comprensibile e mettendoli per
iscritto in prosa o versi (esametri), indicando in tal modo a quale dio
dovessero farsi sacrifici affinché un'impresa fosse coronata dal
successo, cosa si sarebbe dovuto fare per superare determinati
ostacoli, eventuali riti con cui espiare colpe, etc.
La Pizia veniva scelta a vita tra le donne di Delfi, senza limite
d’età e aveva come unici obblighi la purezza rituale e la continenza.
Ci potevano essere anche più pizie contemporaneamente. Gli oracoli,
formulati dai sacerdoti interpretando i gemiti disarticolati della Pizia,
erano di tre tipi: prescrizioni religiose, in genere istruzioni circa i
sacrifici, l’arredo dei templi, la fondazione di nuovi luoghi di culto;
sanzioni religiose alle leggi o addirittura alle costituzioni delle città;
altri casi, dove la risposta dell’oracolo è molto ambigua e, lasciando
ampio spazio di interpretazione, non risultava compromettente per la
fama di credibilità dell’oracolo stesso.
L’autorevolezza dell’oracolo e, dunque, l’influenza politica dello
stesso, erano tuttavia tali che alcuni storici hanno parlato di ‘politica
delfica’, contrassegnata da uno spirito di moderazione. Per la verità
le profezie del dio, anche se scritte, proprio perché poste in forma
non facilmente erano soggette alle “riletture” dei sacerdoti… E hanno
dato comunque luogo a numerosissimi miti, alcuni dei quali
tratteggiati sopra.
Non tutti sanno che Delfi era sacra anche a un altro dio: Dioniso.
Sul Parnaso infatti le Tiadi, donne sacre a Dioniso come le Baccanti,
celebravano le orge sacre, e il Parnaso, con le sue due vette, secondo
Lucano «cerca il cielo con due vette, essendo sacra a Febo e Bromo»,
gli epiteti di Apollo e Dioniso. A Delfi si sosteneva che, nei tre mesi
invernali, Apollo rendeva visita al popolo degli Iperborei a lui caro e
in quei tre mesi il santuario passasse in gestione a Dioniso.
In quanto sede di Apollo, dio della poesia, il territorio di Delfi era
anche indicato come dimora delle muse. A tal proposito vogliamo
ricordare un’altra montagna non lontana dal Parnaso, spesso citata
dai poeti: l’Elicona. Lì Esiodo racconta, nella Teogonia, di averle viste
e di essere stato da loro iniziato al canto. Dall’Elicona sgorgava
anche la sorgente prediletta dalle muse, l’Ippocrene; il mito narra
che le muse quando giunsero sull’Elicona, iniziarono a cantare cosi
divinamente che il monte per vanità, orgoglio o entusiasmo, si gonfiò
fino quasi a sfiorare il cielo; intervenne quindi Poseidone, il quale
fece sferrare un potentissimo calcio al cavallo alato Pegaso, a questo
punto il monte iniziò a sgonfiarsi e dal punto dove venne colpito
sgorgò la fonte Ippocrene, ossia “fonte del cavallo”.

L’amministrazione del santuario era affidata alla città di Delfi, ma


il controllo sull’area sacra e sui riti era esercitato per lo più dalla
cosiddetta anfizionia pilaio-delfica, associazione di dodici popoli e
città risiedenti nelle vicinanze di Delfi e del santuario di Demetra ad
Antela, presso le Termopili. Il fatto che l’anfizionia dovesse
proteggere l’oracolo da ingerenze esterne non impedì comunque lo
scoppio di numerose guerre sacre.
Delfi era infatti considerato un santuario panellenico, cioè
frequentato da tutti i Greci, specialmente nella forma delle theoriai,
le ambascerie religiose inviate dalle città-stato a consultare il dio per
chiedere pareri su problemi di vitale importanza politica, come la
fondazione di una colonia o la nomina di magistrato. In particolare
l’oracolo di Delfi prescriveva rituali di purificazione attraverso i quali
un individuo o una comunità che avevano infranto qualche tabù
pensavano di allontanare la contaminazione dalla quale si sentivano
perseguitati (miasma). Nei secoli VIII-IX a.C. non si fondò alcuna
colonia senza aver consultato l’oracolo.
L’oracolo di Apollo a Delfi è forse il più famoso tra quelli della
Grecia antica, dove era diffusa la pratica della divinazione per
entrare in contatto con gli dei e conoscerne, almeno parzialmente, la
volontà. Nel mondo greco esistevano due diversi tipi di divinazione:
quella attraverso i segni (volo degli uccelli, visceri degli animali
sacrificati, fiamma dell’altare...) e quella orale, che però necessitava
comunque di una interpretazione. All’inizio a Delfi le consultazioni
avvenivano una sola volta all’anno, ma in età classica esse assunsero
scadenza mensile, salvo la possibilità di consultazioni straordinarie.
Nella consultazione i Greci hanno la precedenza sui barbari e tra i
Greci i primi sono i cittadini di Delfi, poi gli altri membri
dell’anfizionia delfica.
Prima della consultazione era necessario fare delle offerte: in
primo luogo il pelanos, in origine in natura, che poi divenne una
tassa, variabile a seconda della consultazione, destinata agli abitanti
di Delfi per le spese del culto. Vi è poi un sacrificio preliminare detto
prothysis, la cui vittima, generalmente una capra, deve essere fatta
tremare con l'aspersione di acqua fredda come segno di assenso. Le
offerte servivano anche al mantenimento del personale permanente
del santuario: i profeti, che vigilano sull'oracolo, gli Hosioi, che si
occupano del rispetto dei riti, ma soprattutto la Pizia, incaricata di
trasmettere la parola del dio.
Delfi era incluso tra i santuari della periodos, che organizzavano
ogni quattro anni competizioni di vario genere adattando il naturale
spirito agonale dei Greci alle loro esigenze religiose. Delfi allestiva le
gare pitiche, esattamente come Olimpia le olimpiadi, Nemea le gare
nemee, il santuario di Poseidone a Corinto i giochi istmici; tutto
questo spiega la presenza di alcuni edifici sportivi entro il recinto
sacro del santuario.
Le gare Pitiche, prima di trasformarsi nei giochi pitici, secondi
solo a quelli di Olimpa, furono originariamente concepite come
concorso per citaredi, in quanto si sosteneva che Apollo avesse
celebrato la vittoria sulla Dracena suonando un inno con la cetra. A
tal proposito un mito narrato da Clemente di Alessandria, ci narra di
tale Eunomo di Locri, il quale, durante una di queste gare per
citaredi, ruppe una corda della sua cetra mentre eseguiva l’inno
dell’uccisione della Dracena; fu a questo punto che una cicala,
animale sacro alle muse, prese il posto della corda interpretando
perfettamente ciò che Eunomo suonava e grazie a ciò egli riuscì a
vincere la gara che gli valse, tra l’altro, una statua di bronzo insieme
alla sua preziosa amica.
Le competizioni organizzate a Delfi erano pressoché identiche a
quelle che si svolgevano negli altri santuari della periodos: corsa
semplice, doppia e lunga, lotta, pugilato, pancrazio e pentathlon per
quanto riguarda le prove ginniche, corse di cavalli e anche prove
musicali, tra cui l’esecuzione del nomo citarodico (canto con la cetra)
e del nomo pitico (esecuzione di brani di flauto sul soggetto della
lotta di Apollo contro il Pitone). In occasione delle gare veniva indetta
una tregua di un anno, che permetteva ai pellegrini di recarsi senza
rischi al santuario. Sono molte le testimonianze della partecipazione
degli antichi alle gare: l’auriga di Delfi, parte di un gruppo donato al
santuario dopo una vittoria equestre, ma anche le liriche corali
composte da Pindaro e Simonide per i vincitori. Chi vinceva a Delfi
otteneva una corona di alloro (la pianta di Apollo), chi vinceva a
Olimpia una corona di ulivo, chi vinceva a Nemea una corona di (?
non ricordo), chi vinceva a Corinto una corona di sedano (? non ne
sono sicuro).

Il declino. Gli storici antichi parlano di un declino dell’oracolo sin


dalla fine dell’epoca classica; in realtà sembrerebbe che solo la
domanda di consultazioni circa gli affari pubblici calò nel corso del
tempo. Si trattò di un fenomeno abbastanza plausibile, se si tiene
presente il cambiamento nella natura del potere politico delle città a
cui si assiste da Alessandro Magno in poi; inoltre, era
tradizionalmente l’oracolo di Delfi a fornire la sanzione religiosa,
necessaria a conferire autorità, ai risultati della evoluzione delle
poleis: quando tale evoluzione cessò di esistere, venuta meno
l’autonomia cittadina, una delle ragioni d’essere dell’oracolo svanì.
Poi venne la fine. L’imperatore Teodosio, nell’anno 393 d.C., con
un editto decretò la fine dei giochi di Olimpia e l’anno dopo, nel 394
d.C., la chiusura del santuario di Delfi. Nel 363 d.C., trentuno anni
prima, l’imperatore Giuliano l’Apostata, che cercò di conservare
l’antica religione minacciata dal Cristianesimo ormai imperante,
aveva ricevuto l’ultimo oracolo del santuario di Delfi, che rivelò
all’imperatore: “vai e riferisci al re che il bell’edificio è a terra, Apollo
non ha più né capanna né alloro, la fonte è disseccata e l’acqua
gorgogliante è muta”. Mai profezia fu più esatta.
L’area archeologica si divide in due zone principali, al centro
delle quali si trova la fonte Castalia, «l’acqua gorgogliante» ritenuta
sacra dagli antichi greci.
La zona posta più in basso si trova alle pendici della Fedriade
orientale e comprende i resti di un ginnasio con palestra e bagni;
poco più in basso troviamo il santuario di Atena Pronaia, che si
riteneva fosse nata lì, ed una Tholos rotonda parzialmente ricostruita,
con un peristilio di venti colonne doriche. Lì vengono parcheggiati gli
autobus e la vedremo per ultime.
La zona più alta, invece, si trova sulle pendici della Fedriade
occidentale ed è da qui che cominciamo la nostra visita.

Nel sacro recinto, detto temenos, si aprivano alcune porte; una di


esse costituiva l'imbocco della Via sacra, che si snodava tra gli edifici
del santuario. Lungo la Via sacra incontriamo monumenti votivi,
esedre e basamenti di statue, quindi la serie dei Tesori delle varie
città elleniche e magnogreche: dei Sicioni, dei Sifni, degli Ateniesi,
dei Cnidi, degli Spartani e altri ancora. I Tesori sono piccoli edifici
ove conservare offerte ed ex voto, secondo l’uso di consacrare agli
dei la decima parte del bottino delle battaglie.
Alla prima curva incontriamo il tesoro degli Ateniesi, l’unico
rimesso in piedi.
Poco prima della curva era la base del tesoro dei Sifni, che
doveva essere bellissimo, come si evince dalla ricostruzione che Ares
non manca di mostrarci. I Sifni erano gli abitanti di Sifno, un’isoletta
senza importanza ma che possedeva una miniera d’argento: pertanto
i suoi abitanti erano ricchissimi e potevano competere in sfarzo con
gli ateniesi. Molti resti del tesoro dei Sifni sono al museo e sono
importanti perché mostrano le pitture sui fregi.
Due sono le componenti emotive alla base del santuario: da un
lato il sentimento panellenico, espresso nella donazione del tripode
dopo la vittoria a Platea contro i Persiani (479) (che dovettero essere
stati per loro uno spauracchio tremendo se è vero che non fecero
altro che ricordarlo ovunque); dall’altro il particolarismo orgoglioso
delle singole poleis.
Proseguendo troviamo il luogo del tripode appena nominato e il
Bouleuterion (Parlamento), la colonna ionica che sorreggeva la sfinge
dei Nassi e la “roccia della Sibilla” con la tomba del serpente Pitone,
fino ad arrivare al tempio di Apollo, la divinità delfica per eccellenza.
Il tempio di Apollo fu ricostruito due volte, dopo un incendio nel
548 e dopo un terremoto nel 505 a.C., ma l’ultima riedificazione fu
terminata solo in epoca ellenistica, nel 325, quando ormai era iniziato
il declino del santuario. I resti a noi pervenuti sono quelli di un
tempio periptero esastilo con alto crepidoma a tre gradoni, dotato di
pronao, cella e opistodomo.
Su una parete del tempio di Apollo a Delfi è incisa una famosa
frase che Socrate adottò come principio del suo pensiero: “Conosci te
stesso”… ma io non l’ho vista.
In un incavo del pavimento del tempio bruciava perennemente un
fuoco alimentato da rami di alloro che era l’albero sacro al Dio; lì
viveva la Pizia Delfica che a quei fumi andava probabilmente in
estasi, entrava in trance e profetizzava vaticini.
Lì si venerava il cosiddetto ombelico (in greco omphalos,
“l'ombelico del mondo”), un masso bianco avente forma di semicono
(probabilmente una pietra magnetica) che si pensava fosse caduta
dal cielo. Il mito racconta che Zeus, volendo accertare quale fosse il
centro della terra, fece partire contemporaneamente due aquile (o
due cigni) dai suoi limiti estremi e i due volatili si incontrarono a
Delfi.
Continuando a salire troviamo l’antico teatro; qui Aris ci lascia
una mezz’ora: ancora più su ci sarebbe lo stadio dove si svolgevano i
celebri giochi pitici, ma Maddalena ed io siamo troppo stanchi per
proseguire e ci godiamo l’ombra di un albero, prima di discendere
per farci alcune foto lungo la Via Sacra e tornare all’ingresso, posto
di ritrovo.
Usciti dalla zona del santuario ci dirigiamo verso la Fonte
Castalia, la fonte dell’acqua parlante o gorgogliante: è fresca e ne
riempiamo le borracce, e più o meno tutti ci esibiamo in battute sulle
proprietà dell’acqua. Aris ci mostra una stampa di come appariva la
zona ai visitatori dell’Ottocento, una pozza irregolare, prima che gli
scavi moderni riportassero alla luce le sue forme regolari.
Di qui verso il tempio di Athena Pronaia, il primo per chi
giungeva da Athena: qui si facevano le prime abluzioni sacre. Tre
colonne di una tholos circolare sono state rimesse in piedi con i pezzi
rimasti, ma Aris ci rivela che gli archeologi hanno fatto un errore
ricostruendole un poco più alte di com’erano. Cerco di capire come
sia possibile: se i blocchi che le compongono sono uguali per tutte le
colonne a parità di posizione, non vi è alternativa. Se invece la
colonna veniva pensata in toto indipendentemente dall’altezza dei
suoi tagli orizzontali, che quindi possono variare in altezza da
colonna a colonna, allora il tempio potrebbe anche essere più basso.
Chiedo ad Aris se il motivo dell’errore possa essere questo, ma non
mi sa rispondere e appare un po’ irritato.
Risaliamo alla strada dove sta l’autobus per dirigerci a pranzo
Pranziamo da Antonio, dove ci rimpinzano di tanti buoni
antipastini. Ho di fronte Maddalena, Simona a destra e di fronte a lei
Stefania, Giusy a sinistra e di fronte a lei Dora: un bel tavolo
femminile. Uno dei camerieri scrive sulla carta del coperto i nomi dei
piatti che ci viene via via portando, e Simona, seduta alla mia destra
lo sollecita in quel gioco e conserva le sue scritture per quella sua
mania di accumulo; durante il pranzo ovviamente ci scatta anche le
foto di rito.

Nel pomeriggio partenza per Kalambaka: ci aspettano 300 km di


strada.
Lungo l’autostrada, una delle poche della Grecia, passiamo vicino
a Volos.
Aris ci ricorda che a Volos (il 10 luglio 1888) nacque Giorgio De
Chirico, da genitori italiani. Il padre Evaristo, ingegnere, aveva
ricevuto l’incarico di progettare la costruzione della ferrovia in
Tessaglia e i trenini che compaiono nei quadri di Giorgio adulto sono
quelli che lui vedeva da bambino in Tessaglia.
Aris cita Giorgio e a me corre il pensiero al fratello Andrea, che
nel 1912 adottò lo pseudonimo di Alberto Savinio: Alberto non è
pittore, è anche pittore, ma è musicista, scenografo scrittore,
un’anima poliedrica e sensibile… come me. È alle descrizioni
saviniane di Capri e di Milano che mi sono ispirato per questa
cronaca del mio viaggio nella Grecia Classica. Ma per essere Savinio
occorrerebbe aver ricevuto la sua stessa approfondita istruzione a
base di storia antica, lingue e mitologia greca; occorrerebbe aver
avuto la stessa madre ambiziosa (Gemma Cervetto) che, alla morte
del marito nel 1905 guidò con altrettanta decisione la formazione dei
figli. Il trenino di Giorgio, il trenino del padre di Giorgio, dal 1895 al
1971 rappresentò l’unico mezzo di trasporto di massa e contribuì allo
sviluppo della la zona: ai giorni nostri lo stesso antico trenino a
carbone, da poco ripristinato, fischia lungo un itinerario che si snoda
tra le variegate spiagge e colline ai piedi del monte Pilion, il Pelio (…
quando Giason dal Pelio…): parte da Volos, ricco di siti archeologici e
centri d'arte, e scivola lungo la spiaggia del pittoresco villaggio di
Agrià e più in là a Platanidia, ove sono state rinvenute basiliche
paleocristiane, e subito dopo sulle splendide spiagge di
Chataivangheli, Malàkì, Kala Nera; in questo momento non c’è
nessun trenino all’orizzonte, ma io lo vedo ugualmente… in un
mentale quadro di De Chirico

Mentre arriviamo a Kalabaka, tra le montagne del Pindo e degli


Hassia, dove la calma e fertile pianura della Tessaglia confina con le
prime alture della Grecia centrale, svettano le Meteore. Le abbiamo
riconosciute dalle immagini delle guide: enormi rocce di colore scuro
che si innalzano all'estremità della pianura tessalica e creano un
quadro grandioso che fa pensare a combattimenti di mitici giganti. È
qui che combatterono i Ciclopi contro i…?

Ma prima di giungere in centro a Kalambaka l’autobus fa sosta in


un laboratorio dove si fabbricano icone: i titolari ci accolgono con
caramelle gommose e bicchieri di bibita: gratis, specifica il ragazzo
che parla italiano: apprezziamo, ma è chiaro qui che siamo di nuovo
alle vendita delle pentole! Il ragazzo greco dalla parlantina svelta in
italiano ci racconta e ci mostra di come vengano dipinte le icone, di
come siano da intendere non tanto come oggetti d’arte quanto come
oggetti devozionali… gli sconti sono del 30%… Maddalena ed io ne
acquistiamo una piccolina, tra le più economiche di quelle fatte a
mano. Tutti abbiamo un numero quando saliamo in autobus. Ares
estrae due numeri: i due premi sono una miniguida di Kalabaka e
un’icona: proprio le cose che abbiamo acquistato noi… Ma
un’occhiata ormai divenuta esperta gettata all’icona vinta dalla
signora di Pontedera rivela che è solo una di quelle a stampa da 3 €.

A Kalambaka alloggeremo all’Hotel Antoniadis ed è di fronte alla


sua hall che ci scarica l’autobus poco dopo; proprio di fronte a noi, di
là della strada, è il Divani Hotel, quello dei ricchi che hanno scelto il
tour Confort. La nostra camera non è malvagia, certamente meglio di
quella di Delfi, solo che in bagno, per sedersi sul vaso, bisogna aprire
le porte del box doccia e allungare la gamba sinistra sul piatto della
doccia: decisamente non confort e non conform, ma in fondo… è una
cagata.
Sull’ascensore sta scritto che all’ultimo piano, probabilmente sul
tetto come ad Atene, c’è la piscina e appena sistemati i bagagli in
camera saliamo proprio a goderci la vista delle Meteore nuotando. In
piscina ci sono già altri turisti, paiono greci; in quella arrivano la
toscanaccia coppia di Pontederea, i due bevitori d’acqua, la Simona e
la Stefania e la famigliola simpatica con la figliola di 28 anni… È
l’occasione per qualche foto… Maddalena ha freddo e ce ne torniamo
in camera. Il ristorante si trova stranamente al secondo piano e
quando vi andiamo capiamo il perché: l’hotel è costruito su un
pendio: la hall è nella parte più bassa, ma all’hotel si può accedere
anche dalla strada più a monte, all’altezza appunto del secondo
piano.

7° giorno – domenica Kalambaka/Atene km 400


Prima colazione in hotel. Per la giornata di oggi la guida Alpitour
dice: “Mattinata dedicata alla visita di due dei famosi monasteri
costruiti con indiscusso ardire a partire dal XIV secolo: sono
incastonati sulla sommità di rocce originariamente accessibili solo
mediante mulattiere, scale ed argani. Il loro nome deriva proprio
dalla posizione in cui si trovano, ‘tà meteora monastiria’, monasteri
sospesi nell’aria.
Obbligo per i maschi di pantaloni lunghi e per le donne di gonne
lunghe e spalle coperte: alle seconde però vengono fornite
gratuitamente in loco, io devo indossare un paio di pantaloni lunghi.
Ce n’erano tanti di monasteri in passato, ora ne sono rimasti sei.
Un tempo tutti maschili, ora due sono gestiti da donne, notoriamente
migliori econome.
Noi visiteremo quello di Santo Stefano e quello di Varlaam.
Kalabaka è a 200 metri s.l.m., saliremo per altri 400 fino ad arrivare
all’altezza di 600. Ares ripete più volte i dati per evitare le domande
più ripetitive e per fissare i concetti chiave.
L’autobus ci scarica davanti al monastero di Santo Stefano.
Davanti al monastero svettano la bandiera greca e bandiera gialla
con l’aquila bicipite blu dell’impero bizantino che abbiamo visto
vicino a tante chiese. Ares durante il viaggio ha ricordato che l’aquila
è bicite perché guarda a Occidente e a Oriente; altrove ho letto che è
bicipite per significare la doppia potestà degli imperatori d’Oriente,
civile e religiosa.
Da quassù, vicino ai monasteri si percepisce ancora meglio la
difficoltà della costruzione: Le guide dicono “Il visitatore che guarda
questi elementi di pietra si sente investire da strani sentimenti, misti
di timore ed ammirazione, e dalla netta impressione della vanità
dell’esistenza umana in mezzo all’Universo infinito.
Le Meteore fanno nascere nel visitatore sentimenti di timore e
venerazione: sembra aleggiare nel paesaggio qualcosa della lotta
intima dell’anima di un asceta, con i suoi momenti di sconforto, ma
anche di sublime elevazione spirituale”. A me sinceramente sembra
tutto più turistico. Bisognerebbe venire qui quando non c’è nessuno.

Non esistono leggende sulle Meteore e la mitologia non si è


occupata di questo fenomeno straordinario. La loro esistenza si perde
nella notte dei tempi, ma solo nell’ultimo millennio gli storici hanno
cominciato a occuparsene.
Questo imponente fenomeno geologico, unico al mondo, è stato
studiato a più riprese da geologi greci e stranieri, senza tuttavia che
essi siano potuti arrivare a una conclusione concorde per quanto
riguarda l’origine di queste rocce giganti. Sembra che la teoria più
vicina alla realtà sia quella del geologo tedesco Philipson, venuto in
Grecia verso la fine del secolo scorso. A suo avviso queste enormi
masse di roccia sono state create da un conoide di deiezione, cioè dai
detriti (ciottoli fluviali e pietre calcaree) depositati da un grande
fiume che, milioni di anni fa, si versava in un golfo profondo nel mare
che allora copriva la Tessaglia.
Nel corso delle età geologiche questo deposito si modificò in una
massa solida e compatta di conglomerato calcareo che fu quindi
sottoposta a una intensa opera di dilavamento quando le acque si
ritirarono attraverso la valle di Tempe nell’attuale Mare Egeo. Più
tardi, durante l’era terziaria, si formò il ripiegamento alpino della
catena del Pindo, provocando una frattura tra queste rocce e
formando tra loro la valle del fiume Peneo.
La natura inaccessibile e selvaggia del luogo assicurò agli
abitanti, nel corso dei tempi, una valida protezione contro le
incursioni degli invasori che a più riprese entrarono in Tessaglia.
Queste rocce furono all’inizio un asilo sicuro per gli eremiti e più
tardi per i monaci che, rinunciando al mondo, si sentivano più vicini a
Dio, tendendo a raggiungere la perfezione della vita cristiana con la
carità e le privazioni, nella pace celeste di queste rocce.
Questi asceti, all’inizio eremiti isolati, pregavano in piccole
cappelle che si chiamavano «oratori». In seguito, poco a poco, si
unirono a formare delle comunità religiose, per vivere più
compiutamente il loro impegno cristiano.
Non si sa quando le Meteore siano state abitate per la prima
volta. Tutte le fonti scritte esistenti risalgono a epoche in cui la vita
monastica era già organizzata. Alcuni bizantinologi sostengono che
esistessero dei monaci organizzati in conventi già prima del secondo
millennio d.C. Secondo altri il primo asceta fu un certo Barnaba, che
nel 950- 970 fondò l'antichissimo convento di S. Spirito. Il monastero
della Trasfigurazione fu fondato poco dopo da parte di un monaco
cretese, Andronico, intorno all'anno 1020, mentre nel 1160 altri
eremiti fondarono il convento di Stagon sulla roccia di Dupiani. Circa
200 anni dopo l’eremita Varlaam fondò il monastero dei Tre Ierarchi
e di Tutti i Santi. Ancora più tardi sconosciuti religiosi fondarono altri
conventi: S. Trinità, S. Stefano, Presentazione al Tempio, Russanos o
Arsanos, S. Giorgio di Mandila, S. Nicola Anapafsa, Vergine di
Mecani, Santi Teodori, S. Nicola di Bantova, SS. Apostoli, S. Gregorio,
S. Antonio, Pantokrator, Santa Solitudine, S. Giovanni, Battista,
Ipsilotera o dei Calligrafi, S. Modesto, Alysis, Apostolo Pietro, S.
Demetrio, Callistrato, Arcangeli, S. Giovanni di Bunila.
Questa città monastica si organizzò nel corso dei tempi e fu
sostenuta con numerosi doni e privilegi da potenti famiglie cristiane.
Al culmine della sua prosperità, nel XVII secolo, ospitò un numero
veramente grande di monaci e asceti. Successivamente la sua fortuna
declinò e oggi sono ancora in uso solo 6 monasteri: della
Trasfigurazione, di Varlaam, di S. Nicola Anapafsa, di Russano, della
Santa Trinità, di S. Stefano (e parti di uno o due altri). I resti degli
altri conventi una volta esistenti sono completamente spariti.
Rimangono chiusi al pubblico un giorno a testa, a rotazione, e la
domenica son tutti aperti.

Attraversiamo dunque il ponticello di pietra lungo 8 metri (un


tempo ponte levatoio) che ci introduce nel Monastero di Santo
Stefano. Il fossato è tremendo e tuttavia qui la roccia non è
particolarmente scoscesa e quindi poté essere abitata probabilmente
già prima del 1200.
All’ingresso le donne un po’ sgambate si legano in vita una gonna
a portafoglio lunga fino alle caviglie. Maddalena si sceglie la più
bella: sta davvero bene. Chi ha le spalle scoperte si prende anche un
pareo che fa da scialle. Indosso una gonna anch’io, suscitando
l’ilarità delle bambine più giovani.
Delle due chiese che ora si possono vedere nel monastero la più
antica, quella di Santo Stefano Protomartire, si dice sia stata
costruita nel 1300 dal monaco Geremia. È piccola, buia, con il tetto
ed il nartece in legno. Possiede degli splendidi affreschi, di cui però
numerose figure sono state rovinate dalle lance dei vandali invasori.
La chiesa più recente, dedicata a S. Charalambos fu costruita dai
padri Theofanes e Ambrosio nel 1798. È una costruzione imponente,
con tre eleganti cupole. L'interno di quella centrale, la più grande, è
decorato con affreschi (Il Pantocrator con i quattro Evangelisti).
L’iconostasi e il ciborio che ricopre l’altare sono in legno
splendidamente traforato.
Il monastero è considerato fondazione Reale e Patriarcale da
quando vi soggiornò brevemente nel 1333 l’imperatore bizantino
Andronikos III Paleologo. Il risultato fu che il convento da allora fu
fatto segno di doni generosi, sia di soldi che di terreni, divenendo
cosi il più ricco delle Meteore.
Il suo tesoro comprende ancora parecchi oggetti preziosi:
reliquie di numerosi Santi, conservate in eleganti reliquiari
d’argento, un codice con miniature, soprammaniche ricamate in oro
di Gabriele, vescovo di Demetriade, una cintura ornata d’oro del
1778, e altri oggetti preziosi di inestimabile valore.
Nel cortile interno è il momento della foto del gruppo delle donne
con le lunghe gonne. Mariti e accompagnatori sono tutti all’angolo
opposto a fare foto (io no, sono snob) e questo genera una situazione
un poco comica che genera l’ilarità del gruppo femminile che
vorrebbe a sua volta fotografare il gruppo dei fotografi. Risate e
richiesta di foto si fanno sguaiate e dal negozietto di souvenir che ho
appena visitato esce un’accigliata monaca nasuta che ricorda a tutti
che “It’s a monastery!!”

Ora ci attende il monastero di Varlaam.


I primi asceti scalavano le rocce delle Meteore per mezzo di una
serie di impalcature, che venivano sostenute da travi fissate nella
roccia. Questa sistemazione (di cui si possono distinguere ancora le
tracce) fu rimpiazzata più tardi da lunghissime e vertiginose scale di
corda. Quelli che non osavano servirsene venivano tirati su per mezzo
di una rete. La salita durava circa mezz’ora: mezz’ora di angoscia e di
terrore. Un sudore freddo imperlava la fronte di colui che si
accingeva alla salita quando, staccatasi dal suolo, la rete si metteva a
girare in cerchio nel vuoto, mentre la corda strideva sul verricello,
minacciando da un momento all'altro di mandare il visitatore in fondo
all'abisso. Dal 1922 (una lapide incastonata sulla roccia lo ricorda)
delle scale tagliate nella roccia permettono di accedere al monastero
in modo sicuro e facile. La rete è ancora usata per il trasporto degli
alimenti e di altri generi di prima necessità.
Saliamo le scale. Un soffitto di legno moderno decorato a rombi
mi ricorda i lavori di Don Primo, il parroco della mia parrocchia, che
era solito decorare a quel modo tutti i rinnovamenti da lui operati
nella canonica vecchia e nella sala giochi.
Intorno al 1350 il monaco Varlaam, considerato il primo
fondatore del monastero, ha costruito sulla roccia la piccola chiesa
dei Tre lerarchi e alcune celle. Dopo la sua morte il luogo fu
abbandonato per circa 200 anni e le costruzioni caddero in rovina.
Appena nel 1518 due fratelli appartenenti a una delle famiglie
signorili di loànnina, Nektarios e Theophanes Apsaras, salirono di
nuovo sulla roccia, ricostruirono la chiesa dei Tre lerarchi sopra le
rovine dell’antica costruzione e, un po’ più tardi, aggiunsero le chiese
di Tutti i Santi e di S. Giovanni Battista.
La chiesa di Tutti i Santi è stata costruita nello stile
dell’architettura agioritica (stile del Monte Athos). È a forma di croce
con una cupola sulla navata centrale ed una sul nartece. Le pareti
della navata centrale e quelle della parte absidale (lero Vima) furono
dipinte nel 1548 da Franco Katelanos, artista della scuola cretese, e
quelle del nartece nel 1566 da un sacerdote di Tebe, Giorgio.
La chiesa dei Tre lerarchi fu ricostruita nel 1627 e decorata dieci
anni più tardi dai monaci Cirillo e Sergio. Il tesoro del monastero
contiene reliquie di Santi, vesti sacerdotali, diversi oggetti sacri, una
cintura di ferro che apparteneva ai superiori del convento, un
«epitafio» (cioè una sacra sindone usata nelle cerimonie del Venerdì
Santo) splendidamente ricamato in oro, diversi vangeli e manoscritti
su pergamena e altri oggetti preziosi, oltre ad una ricca biblioteca.
Ora ci porteremo sulla sommità del monastero, dove sta la
carrucola che un tempo issava i monaci e oggi solo alcune merci.
Entriamo nella minuscola stanzetta.
Vediamo l’antica botte di notevoli dimensioni.
Qui Aris coglie l’occasione per parlarci della religione ortodossa e
del ruolo fondamentale che ha nella vita dei Greci. Tra i cristiani vige
molta confusione: si sentono spesso tra i Cattolici espressioni del tipo
«Cristiani e ortodossi» o viceversa, tra gli Ortodossi, «Cristiani e
Cattolici» …
La religione Ortodossa non è più religione di stato ma il 95% dei
Greci si dichiara ortodosso. Il matrimonio civile è stato istituito di
recente e forse per questo la chiesa ortodossa appare più permissiva
di quella cattolica rispetto al matrimonio consentendone lo
scioglimento: «essa benedice il primo, accetta il secondo, tollera il
terzo» spiega Aris.
Il prete ortodosso ovviamente si può sposare, ma solo se non
intende “fare carriera”.

Scendendo di nuovo a Kalabaka, Ares ci ricorda che questo


straordinario scenario è stato il set di alcune scene del James Bond di
“For your eyes only”, con Roger Moore (ma non era stato girato a
Cortina?).

Il pranzo è all’hotel. Mi cambio i pantaloni. Durante il pranzo


passa il bevitore d’acqua a raccogliere 5 € a testa per Ares e per
l’autista. Io e Maddalena troviamo la cifra un poco eccessiva, tanto
più che entrambi sono già pagati per il loro lavoro. Ma effettivamente
quello di Ares è stato apprezzabile.

Partiamo nel primo pomeriggio per tornare ad Atene. Ci


aspettano 400 km.
Ares ringrazia il gruppo per la gentilezza e per la puntualità che
ha dimostrato in questi giorni; ma come dividere il gruzzoletto con
l’autista saranno rogne sue: Maddalena ed io proviamo ad ipotizzare
un’equa divisione dei 192 € raccolti: ad Ares dovrebbero andarne di
più… ma anche l’autista, burbero perché non capisce l’italiano, ha in
realtà guidato molto bene per quelle strade quasi tutte di montagna,
tanto che nessuno è stato male… Boh, si arrangino.

Lungo la strada Aris ci parla di una cosa che abbiamo


abbondantemente notato durante tutto il viaggio: la maggior parte
delle case è da finire. Di molte esiste solo il primo piano che si
eleva sulle colonne del piano terra che funge quindi da garage e
ripostiglio. Sembrano seguire le idee di Le Courbusier, che costruiva
tutto su pilotis… In futuro, quando ce ne sarà necessità, quando ci
saranno soldi, il piano terra verrà chiuso e diventerà l’appartamento
del figlio, della figlia. È comodo abitare al primo piano: isola dal
freddo in inverno, perché qui in inverno fa anche freddo, ma
soprattutto permette di elevarsi sopra l’altezza degli olivi che
circondano quasi tutte le case: è bello avere un panorama che guarda
lontano.
Poche sono rifinite nella parte alta, hanno cioè un tetto: la
maggior parte un tetto non ce l’ha, perché non serve, ma soprattutto
perché gli abitanti sperano di salire di un piano: moltissimi solai
hanno infatti i ferri a vista, le chiamate, e quando ci saranno i soldi…
È in queste cose che la Grecia mi ricorda il nostro Meridione. Si
comincia con quel che si ha, con quel che si può, l’estetica verrà.
Da noi (al Nord, in Veneto, a San Donà… a dire il vero non so
cosa significa questo noi) se al momento del matrimonio non si ha la
casetta bell’e finita, la cucina da venti milioni non ci si sposa
nemmeno.

Poiché stiamo passando vicino a Tebe, Aris ci racconta con


dovizia di aneddoti e di riferimenti la storia di Edipo: di come le
profezie sul bambino dicessero che da grande avrebbe ucciso il
padre, di come il servo incaricato di sopprimerlo non ebbe il coraggio
d farlo e lo abbandonò a Corinto; di come, ormai cresciuto, Edipo
volle tornare a Tebe e di come, lungo la via, uccise uno sconosciuto
maleducato – il padre – che non voleva dargli strada; della famosa
risposta che diede alla Sfinge condannandola al suicidio e della
conseguente sua accoglienza trionfale in città, del suo matrimonio
con la regina Giocasta ormai rimasta vedova, dei figli nati da lei e
della maledizione che derivò alla famiglia; del suo accecamento e del
volontario esilio, a Colono; e del testamento che imponeva ai due figli
maschi di regnare un anno per uno; di come, dopo il suo anno,
Eteocle non volle cedere lo scettro a Polinice il quale quindi si alleò
con altri sei principi e marciò contro le sette porte di Tebe; di come a
Polinice toccò in sorte quella difesa da Eteocle e di come, secondo la
profezia del padre, i due fratelli si uccisero a vicenda; di come fu
impedita la sepoltura di Polinice in città in quanto traditore e di come
Antigone, mossa da pietà, obbedì alle non scritte leggi degli dèi
contravvenendo quelle umane…

Stiamo per giungere alle Termopili, le porte dell’acqua calda, lo


stretto (un tempo!) passo tra il monte Eta e il mare che custodiva il
transito tra la Tessaglia e la Grecia centrale. Ares ci racconta
qualcosa delle guerre persiane e alcune frasi memorabili.

La battaglia delle Termopili (19 agosto del 480 a.C.)


Dopo la sconfitta a Maratona i persiani non avevano perso le loro
mire espansionistiche: Serse, figlio di Dario, re dei re di Persia,
organizzò un esercito enorme formato da tutti i popoli a lui
sottomessi, stimabile intorno ai due milioni di uomini (secondo lo
storico Erodoto), seguito, via mare da una flotta di milleduecento
navi; l’esercito più grande che il mondo avesse visto fino a quel
momento. Gli Spartani avrebbero voluto fermare i Persiani sul ben
difeso istmo di Corinto ma gli ateniesi decisero che il punto migliore
per opporsi all’invasore “barbaro” fosse il passo delle Termopili,
l’unica via agevole per giungere alla Grecia vera e propria dalla
Tessaglia (e questo è logico se guardiamo la posizione geografica e di
Sparta e di Atene). Gli spartani inviarono 300 uomini al comando del
loro re Leonida, tra i 4000 del Peloponneso giunti da Tegea,
Mantinea, Orcomeno, Corinto, Fliunte, Micene, Tebe, e dalle città
dell’Arcadia e della Beozia (3900 opliti seguiti dai rispettivi scudieri
che fungevano da fanteria leggera). In totale c’erano 6000 greci ad
occupare il passo delle Termopili prima dell’arrivo di Serse.
Per prima cosa gli spartani e i loro alleati ricostruirono il vecchio
muro di difesa al passo, caduto in rovina, e attesero l’arrivo
dell’esercito persiano. Quando gli esploratori riferirono a Serse il
numero dei greci che presidiavano il passo, il re scoppiò a ridere e
piuttosto perplesso si chiese cosa stessero aspettando: non aveva
capito che i greci si preparavano alla morte per dar tempo alle altre
città di prepararsi.
Serse attese quattro giorni convinto che il solo numero sarebbe
bastato a far fuggire gli alleati. Ma intanto la sua flotta non riusciva
ad avanzare, bloccata dalle veloci navi ateniesi al comando di
Temistocle. Al quinto giorno Serse spazientito ordinò l’attacco sicuro
che il numero stesso sarebbe bastato ad annientare i greci. Quando
alcuni disertori dell’esercito persiano (perlopiù greci arruolati con la
forza) avevano dichiarato che i Medi erano così tanti da oscurare il
sole con le loro frecce, gli spartani risposero molto laconicamente
«bene, almeno combatteremo all’ombra». Mi tornano alla mente le
campane di Pier Capponi.
Nello stretto passo dove il numero non aveva significato i Greci
fecero strage di Persiani che con le loro armature leggere e le lance
corte nulla potevano contro il pesante equipaggiamento oplita. Il
giorno successivo Serse schierò in campo i diecimila Immortali
comandati da Idarne che non ebbero maggior fortuna. I greci
combattevano a turno concedendosi un po’ di riposo da quel
massacro, si accasciavano a terra sudati e sporchi di sangue per poi
rialzarsi e tornare a combattere.
Ma il terzo giorno, pel tradimento di un greco, i Persiani fecero
passare gli immortali di Idarne attraverso un sentiero che aggirava il
passo. Leonida venuto a conoscenza del tradimento fece tornare a
casa gli alleati per risparmiarli in prospettiva delle future battaglie.
Lui e i suoi spartani sarebbero rimasti per coprire la ritirata e morire
sul posto perché le leggi di Sparta non contemplavano la ritirata.
Rimasero anche 700 tespiesi. Quando i persiani chiesero di
consegnare le armi, laconicamente - e come altrimenti? - Leonida
gridò: «venite a prenderle!»
Gli spartani combatterono con le aste delle lance ormai spezzate
e con le spade, poi con i pugni e i calci lasciando sul campo più di
ventimila persiani compresi due fratelli di Serse, e alla fine si
rifugiarono sul colle che sovrastava le Termopili per proteggere il
corpo del loro re caduto. Serse ordinò che fossero finiti con gli archi
per non perdere altri uomini.
Il sacrificio dei trecento spartani permise agli ateniesi di
prepararsi allo scontro navale di Salamina e agli altri greci di
rimandare il confronto con i persiani un anno dopo a Platea. Dopo la
vittoria alle Termopili l’esercito persiano giunge poi in Attica, devasta
Atene abbandonata dalla popolazione rifugiatasi nell’isola di
Salamina. Intanto la flotta greca, in cui prevalgono le navi ateniesi,
dopo aver impegnato quella persiana al capo Artemisio, si ritira nel
golfo Saronico: a Salamina il 23 settembre si svolge lo scontro
definitivo tra le due flotte, che termina con la completa sconfitta dei
Persiani. L’esercito di Serse è così costretto ad abbandonare l’Attica e
a rifugiarsi nell’amica Beozia.
Ma sul racconto di Erodoto ci sono molti dubbi.
Eccoci, siamo arrivati. Ci fermiamo sulla destra per il rito
turistico della foto. Ares ci prega di non attraversare la
trafficatissima strada, di là della quale è ugualmente visibile il
monumento a Leonida, alto in bronzo e con la lancia, e ai suoi 300
spartiati.
Sul monumento a Leonida, è riportata la risposta che il re diede
alla richiesta di Serse di consegnare le armi: «Venite a prendervele».
Ares ricorda che alle Termopili morirono anche 700 Tespiesi, ai quali
pure, in epoca più recente, è stato dedicato un monumento, a sinistra
del più noto: più sobrio, meno pomposo… Mentre quasi tutti
scendono, io e Maddalena guardiamo dall’autobus i due monumenti,
così diversi, e un pensiero va a tutti i Tespiesi della storia. Maddalena
mi ricorda che vi è un secondo monumento a Leonida, qui alle
Termopili: quello antico, una semplice pietra senza ornamenti con
incise le parole del poeta… Archiloco (?) (in realtà è Simonide),
probabilmente l’epitaffio più famoso che sia mai stato scritto per un
soldato:

Va’ o passeggero,
narra a Sparta
che noi qui morimmo
in obbedienza alle sue leggi

Si riparte per Atene. Vediamo l’isola di Eubea, e Maratona in


lontananza. Battaglia di Maratona: 480 a.C.
L’autostrada è fortunatamente scorrevole. E quando l’autostrada
termina affrontiamo la comoda strada che segue tutto il golfo di
Lamìa, nel quale si inserisce l’estremità dell’isola di Eubèa. S’era
pensato di accorciare la strada di 40 minuti con un ponte che,
appoggiandosi all’isola, tagliasse il golfo, ma ultimamente i lavori di
allargamento della vecchia litoranea testimoniano che quel progetto
è stato accantonato. Peccato. Mi piacciono i grandi ponti che tagliano
lunghi peripli.

Arriviamo ad Atene alle sette passate, al nostro Oscar Hotel. Ci


sistemiamo, ci laviamo, poi scendiamo a cena, fissata per le otto: ci
sediamo con le due famigliole quattro-più-quattro ma stranamente
registrate negli appelli come sei-più-due (questione di risparmi,
forse)… Scambiamo le prime chiacchiere con loro dall’inizio del
viaggio. Sono di Terni… Giunge in quella il bevitore d’acqua con la
morosa: aveva protestato per il poco tempo concesso e si sorprende
passando vicino a me e Maddalena perché constata che siamo anche
riusciti a fare la doccia (abbiamo entrambi i capelli umidi) e a
giungere alla cena in orario. Maddalena ed io sorridiamo perché in
realtà… abbiamo avuto anche il tempo per una bellissima …
Durante la cena viene fuori la notizia che insegno, una delle due
mamme chiede a Maddalena se insegna anche lei e lei rivela che sta
preparando l’esame di ammissione a medicina… Un attimo
d’imbarazzo, le loro figlie maggiori hanno uno e due anni meno di
Maddalena; ognuno fa per proprio conto i calcoli della possibile
differenza d’età tra lei e me: solo la figlia più piccola sembra
approvare e sorridere: del resto ha sempre riso di gusto alle cazzate
che ho detto o mimato durante il tour.
La sera, sulla terrazza della piscina, facciamo un po’ di conti: di
quanto visto, di quanto bello, di quanto speso. Le mancano 50 euri e
non sa dove li ha spesi, ma è certa di non averli persi: è da questo
che si vede che non li guadagna, faccio io antipaticamente. Lei si
rattrista. Li ha spesi, ma dove? Un po’ alla volta emergono le spese
dimenticate. Alla fine mancano all’appello solo 15 euri.

8° giorno - lunedì 25
Dopo la prima colazione, torniamo in camera a preparare le
valigie. Le portiamo giù nella hall, un fattorino ce le sistema in una
stanzetta. Prima di uscire saliamo all’ultimo piano dove c’è la piscina
per salutare Simona e Stefania che hanno deciso di concedersi un
bagno. Con loro c’è la ventottenne “un po’ in ritardo” che altresì
salutiamo, ovviamente con meno trasporto. Loro partiranno alle 11,
noi alla sera. Abbiamo l’ultimo giorno da trascorrere ad Atene.
Vogliamo rifare alcune delle foto che abbiamo perduto. Ci restano
due coupon nel gran biglietto e vogliamo tornare all’Acropoli e
all’Agorà.
Col metrò scendiamo ad Acropoli ed entriamo presso quello che
crediamo uno degli accessi all’area del Partenone. Poi scopriamo che
stiamo visitando l’area del teatro di Dioniso: certo, vederlo da sotto è
bello… ma l’avevamo già visto dall’alto, non volevamo sprecare un
tagliando qui…stiamo quasi per tornare indietro e farcelo restituire…
ma è ridicolo. Rinunceremo all’Agorà… Ci portiamo quindi all’accesso
all’Acropoli, ma scopriamo che non ci vuole un tagliandino
qualunque, bensì il tagliandone che ci è stato strappato il primo
giorno. Rifare un biglietto da 12 € solo per rifare le foto perdute? Non
ci pare conveniente. Ritorna in gioco l’Agorà. Ci dirigiamo quindi
verso l’Odeion di Erode Attico, saliamo all’Areopago per rifare la foto
con la tetta fuori andata perduta. Ma due birrazzati continuano a
guardare Maddalena e non vogliamo scatenare i loro bassi e
imprevedibili istinti. Scendiamo quindi con cautela dalla collina
rocciosa, troviamo una zona dove le foto le possiamo fare, e ci
riportiamo all’ingresso dell’Agora.
Pranziamo in un ristorante dove ci portano un vassoio con dieci
vassoietti di pietanze diverse: possiamo sceglierne cinque, con acqua
vino pane e dessert, per 10 € a testa.
Chiacchieriamo con una slava in inglese e con una famiglia di
francesi in francese. O meglio: ci proviamo.
Attraversiamo la Plaka, passiamo davanti al monumento di
Lisicrate. Dalla Porta di Adriano ammiriamo il Tempio di Zeus
Olimpico. Sfruttiamo le fontanelle che bagnano l’erba per rinfrascarci
collo e piedi… e sandali.
Giriamo attorno al monumento a Byron e cerchiamo una
panchina nei giardini del Zappio; mentre Maddalena si distende sulla
panchina, io a una fontanella tiepida lavo accuratamente i miei
sandali, che dopo l’ultima innaffiata hanno il colore del fango.
Maddalena deve andare in bagno. Assolutamente.
Ci portiamo in Piazza Sindagma dove ci sono dei bagni pubblici.
Ci beviamo una Coca Cola mentre un signore recupera dai sacchetti
delle immondizie tutte le lattine che trova. Maddalena e io
commentiamo i fisici delle ragazze e delle donne che attraversano la
piazza.

Attendiamo in albergo il tassista che deve venirci a prendere alle


sei. In anticipo di cinque minuti.
TAXI, parola greca che in greco si legge tachi (=veloce) per la
sua lettura storpiata è tornata in Grecia nella veste TAΞI (che si legge
taxi): è il pedaggio che l’alfabeto greco paga alla sua originalità. Ma i
taxi più nuovi, come quello su cu stiamo per salire, si sono ripresi la
storia e l’etimologia e la loro targhetta riporta “TAXI”.
Attraversiamo Atene. Ad un certo punto l’autista si ferma davanti
ad un negozio (di alimentari?) e va a parlare con il titolare. Dopo due
minuti è di nuovo in macchina con un pacchetto: un viaggio e due
servizi.
Svoltiamo a un incrocio che ha nel mezzo una grande scultura di
vetro (una Nike); quindi davanti al lussuosissimo Divani Palace, dove
avremmo alloggiato scegliendo il circuito “Confort”, magari meno
comodo per via di metropolitane…
Per una specie di autostrada seguiamo le indicazioni per
l’aeroporto ‘Marco Polo’. Sì, anche qui ad Atene c’è un ‘Marco Polo’…
Magari il nostro autista si è inteso male con le signorine dell’Alpitour
che gli hanno detto che dovevamo arrivare al ‘Marco Polo’ e lui ha
capito che dovevamo partire dal ‘Marco Polo’ di Atene… No, non ha
senso: perché le signorino Alpitour avrebbero dovuto specificargli
dove eravamo diretti? Forse hanno letto la riga sbagliata del biglietto
aereo… Mi diverto (mi diverto? Di più Maddalena, che prende per il
culo i miei “timori”…) a ipotizzare possibili catastrofi dell’ultima ora,
ora che tutto è andato bene. È scaramanzia. Poco dopo Maddalena
vede anche le indicazioni per l’aeroporto ‘Eleftherios Venizelos’ e mi
rassicura definitivamente: ora può solo cadere l’aereo.
Appena scesi dal “TAXI” ci viene incontro una signorina Alpitour.
Siamo i signori Qfwfq? Sì (!), siamo noi. Salutiamo il tassista sul cui
viso si dipinge un moto di disappunto perché minimamente
accenniamo a dargli una mancia, e seguiamo la signorina che si
appresta a fornire per noi le carte d’imbarco. Un’altra signorina poco
più in là accompagna una coppia più anziana di Trieste che come noi
sta partendo per Venezia. Le signorine recitano la cortesia che il loro
lavoro richiede, ma è facile far uscire la loro stanchezza per un lavoro
sempre uguale; soprattutto la ragazza calabrese palesa con smorfie
della bocca e degli occhi quanto sia difficile fare la signorina
Alpitour: loro conoscono solo stazioni ed aeroporto, un giro simile al
nostro non l’hanno mai fatto…
L’aereo parte fra un’ora: abbiamo tutto il tempo di ammirare
l’aeroporto e di leggere tutti i cartelli. La mia attenzione è attirata da
una serie di pannelli che raccontano la vita dell’eroe eponimo
dell’aeroporto, il padre delle democrazia greca, il quale si ribellò al re
per combattere a fianco dell’Intesa nella I Guerra Mondiale. In una
stanza vicina è una raccolta di reperti e altri pannelli che raccontano
la costruzione dell’aeroporto ‘Eleftherios Venizelos’ costruito apposta
per i giochi olimpici e inaugurato il 29 marzo del 2001. Per piazzarlo
lì, trenta chilometri ad Est di Atene, hanno dovuto spostare una
chiesa ortodossa del XV secolo.
Scendiamo al nostro cancello.
L’aereo è in ritardo. Incontro Barbara che vive ad Atene e lavora
all’Istituto di Cultura Italiano, lo stesso dove studiò Aris: il motivo è
semplice e comune alle sue colleghe: hanno un moroso o un marito
greco.
Un’ora e dieci di ritardo. Si parte, si torna a casa.

Das könnte Ihnen auch gefallen