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Credo che rientrino nella politica degli affari e che comunque non rappresentino
una vera eccezione rispetto a quella che è la prassi costante degli altri paesi dell’Unione
Europea. Abbiamo tutti la stessa politica commerciale, non possiamo fare una politica
commerciale diversa gli uni dagli altri, ma nulla nei trattati attuali vieta ai singoli stati
di promuovere la loro presenza economica in particolari Paesi con cui ritengono di
avere maggiori possibilità di successo. Dopo tutto non dimentichiamo che il governo
di Schröder, ma anche quello di Angela Merkel, in Germania hanno straordinariamente
coltivato i rapporti con la Russia. Quindi direi che le mosse di Berlusconi rientrano da
un lato nella tradizione, nella consuetudine italiana e non soltanto italiana, ma anche
un po’ nello stile di un presidente del Consiglio che ama la politica estera soprattutto
quando gli consente di dominare la scena con un accordo visibile, con un accordo che
ha o potrebbe avere delle ripercussioni positive. Questo fa parte non soltanto della
mentalità economico-aziendale di Berlusconi, fa parte anche del suo stile. La politica
estera multilaterale lo annoia, lo infastidisce, la diplomazia laboriosa e lenta che produce
risultati dopo un certo periodo di tempo non è nel suo stile, mentre invece questi in-
contri al vertice lo sono.
Innanzitutto credo che all’origine della politica di Berlusconi nei confronti di Israele
non vi fosse una vera scelta di politica estera italiana, voglio dire giustificabile con ar-
gomenti di politica estera. Berlusconi è stato motivato da due considerazioni comple-
mentari. La prima naturalmente attiene ai suoi rapporti con gli Stati Uniti: finché il
presidente era Bush, Berlusconi probabilmente sperava di fare dell’Italia il partner
privilegiato degli Stati Uniti nel continente europeo (non certamente al di là della Ma-
EURASIA
nica, ma sul continente sì). Naturalmente quando si vuole essere il più grande amico
di una grande potenza bisogna pur condividerne le grandi linee di politica estera. Israe-
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