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Antropologia della vocazione

Stefano Fontana
Non è mia intenzione presentare qui una compiuta antropologia. Mi interessa puntualizzare
alcuni temi relativi alla persona dai quali possa emergere la dialettica di attesa e vocazione.
Come diceva Buber, tutti noi siamo degli "appellati"1 e de Lubac scriveva che «È necessario
essere guardati, per essere rischiarati»2. Essere persona è «essere incaricati di un ufficio»3
interiore e quindi «l'appello alla vita personale è vocazione»4. Si è qualcuno perché si è stati
chiamati ad essere qualcuno da parte di qualcuno. Essere persona è un essere guardati, che
suscita a sua volta un guardare. Per questo la persona non è qualcosa, ma qualcuno. Il tema
della vocazione ha quindi un significato antropologico ineludibile. Qui ci accontentiamo di farlo
emergere dall'esame di tre problematiche relative alla persona: quella della sua natura, quella
della sua coscienza ed infine quella della relazione.

La natura umana come vocazione


Il concetto di natura umana, assieme a quello ad esso conseguente, di legge naturale, è in
difficoltà e viene considerato non più adeguato. Contemporaneamente la Chiesa cattolica non
cessa di riproporne validità ed importanza5. Date queste visioni contrastanti, viene da pensare
che quel concetto sia frainteso e che quindi convenga riprenderlo e chiarirlo. Penso che
intendere la natura umana in termini di vocazione possa contribuire ad una più serena
considerazione dell'intera problematica6.
Talvolta la natura umana è intesa in senso naturalistico e viene assimilata in qualche modo alla
natura fisica o animale. Così facendo se ne perde il carattere di vocazione. Anche la natura fisica
esprime un linguaggio, proclama una parola non pronunciata da noi. È un parola non originaria,
come è invece la Parola di Dio. È quindi, come acutamente sottolinea Buber, una parola di
risposta7. Anche la natura fisica, come insieme di forme, contiene una grammatica che diventa
discorso in quanto espressione dell'Intelligenza creatrice a cui a sua volta rimanda. Più difficile
intendere la natura come discorso non vedendola come espressione della Parola creatrice, dato
che in questo caso essa diventa il frutto del caso e della necessità, che non possono essere
produttori di senso. La natura fisica non ha in sé stessa la caratteristica del linguaggio e quindi
dell'esprimere una vocazione8, ma ce l'ha solo in dipendenza dalla persona, la Persona del
Creatore e la persona umana. Capita che quando cade il riferimento al Creatore, anche la natura
fisica perda il suo essere parola per ridursi a meccanismo e ciò si riflette anche sulla persona
umana che ad essa è assimilata. In questo caso il concetto di natura umana è qualcosa di molto
povero e le critiche che su di esso si concentrano sono condivisibili. Quando la natura umana
viene intesa in questo modo naturalistico, viene pensata come un codice che ci determina, come
un apparato oppressivo, come un insieme di regole prestabilite che limitano la nostra libertà.
Può nascere, quindi, l'atteggiamento opposto, ossia di liberare la persona dalla sua natura, in
modo che essa possa plasmarsi autonomamente, senza vincoli di tipo ontologico. Si sviluppano
così le tendenze a risolvere la natura in cultura, ritenendo di rendere possibile una maggiore
libertà e creatività soggettiva - essere veramente quello che vogliamo essere - senza accorgersi
che si finisce però o vittime delle leggi della storia oppure del proprio arbitrio soggettivo9. È per
questo che il rifiuto della natura umana intesa nel senso naturalistico visto sopra - in sé non
senza fondati motivi - diventa occasione di negare la natura in quanto tale. I due esiti che
abbiamo indicato sono ugualmente negativi. Quando la natura viene eliminata o si dà il caso che
essa venga plasmata dalla storia secondo regole ad essa immanenti - come nelle varie forme di
storicismo - oppure dall'arbitrio individualistico del superuomo. Gli esiti sono nichilistici in tutti e
due i casi.
Poste le cose in questi termini, la natura umana è stretta tra la natura naturalisticamente intesa
e la cultura e in questo scontro essa rimane schiacciata e diventa un concetto inservibile.
Possibili sviluppi diversi si possono ottenere se invece tra natura umana e cultura non si vede
questa contrapposizione come tra la costrizione e la libertà, ma si vede un rapporto circolare di
attesa e vocazione. La natura attende il suo coronamento o completamento nella cultura, ma
questo sviluppo è già presente nella natura stessa come attesa. La cultura, allora, trova nella
natura un suo quadro normativo di riferimento che la salva dall'arbitrio, mentre la natura si
riconosce pienamente man mano che la cultura ne sviluppa le caratteristiche.La natura umana
non deve essere intesa naturalisticamente come l'ultimo anello di una sequenza deterministica.
In questo caso essa non potrebbe essere una vocazione. Poiché la nostra natura di persone non
è frutto di una rigida sequenza causale, essa non è prodotta e quindi è un dono che eccede il
nostro io. Per questo siamo sempre più di quanto siamo. Se fossimo solo frutto di una catena
evolutiva di tipo deterministico saremmo sempre e solo quello che siamo, senza possibilità di
inoltrarci in quella parte eccedente di noi che permetta l'avventura della libertà. La natura
umana come vocazione ci rende liberi. L'emancipazione dalla natura può essere liberatoria ma
non liberatrice10.
Romano Guardini fornisce uno spunto di grande interesse quando afferma che il concetto di
natura umana non va collocato al'inizio ma alla fine. Si tratta di una osservazione che spiazza la
nostra abituale visione delle cose, ma che ha il merito di spiazzare anche le visioni naturalistiche
della natura umana, mentre illumina la caratteristica di vocazione. Scrive Guardini che «L'uomo
non è un essere naturale»11. La provocante affermazione non va intesa nel senso che l'uomo
non sia qualcuno, non abbia, come dice lo stesso Guardini, una "costituzione originaria", ma vuol
dire che la natura dell'uomo si realizza solo nell'incontro: «Solo in esso l'uomo diventa colui che
autenticamente è»12. È per questo, egli dice, che il concetto di natura va messo alla fine e non
all'inizio della comprensione dell'uomo. Ciò che è naturale è essenziale per l'uomo, ma non è
necessario, è "grazia" e quindi frutto di libertà13.
Quando parla di "incontro" Guardini si riferisce soprattutto all'incontro con Dio, ma ciò vale per
ogni incontro. Nell'incontro noi facciamo esperienza di qualcosa che sentiamo come
fondamentale per noi. Nell'incontro d'amore tra un uomo e una donna c'è qualcosa da cui
dipende il nostro essere, eppure eravamo questo uomo e questa donna anche prima, sicché ciò
che avviene nell'incontro non fa parte della mia "costituzione originaria", né può esser
considerato solo come una relazione accidentale. Nella metafisica greca, quella della relazione
era solo una categoria accidentale che esprimeva modi di essere con i quali o senza i quali la
natura della sostanza non mutava. Ma con il cristianesimo la relazione non può più essere un
accidente, ma un vero e proprio «nuovo piano dell'essere»14 non più esclusivamente
riconducibile alla categoria della sostanza. Ciò che avviene nell'incontro non era già contenuto
nella mia costituzione originaria, tuttavia non è inessenziale perché «Ne va di niente di meno che
del compimento del proprio essere, che si realizza solo in-rapporto-a ciò che gli è
autenticamente riservato»15. L'incontro "avviene" al di fuori di ogni possibile produzione nostra.
La natura della persona lo attende, ma siccome esso "avviene" non può scaturire come
conseguenza di una serie deterministica di fatti o di atti. Del resto, se la natura non lo
attendesse, esso non avrebbe significato; invece l'incontro ha addirittura un significato
essenziale, fa essere qualcosa di nuovo, colloca la persona su un piano di pienezza dell'essere.
Questo può avvenire perché la natura è ontologicamente protesa verso di esso ma non lo può
produrre, perché è un fatto di libertà.
C'è qualcosa, quindi, che non ci è dato come costitutivo del nostro essere, ma senza di cui il
nostro essere non trova compimento. C'è qualcosa che non ci è garantito per natura, ma esigito.
C'è qualcosa che ci è essenziale più di qualsiasi altra cosa, ma che ancora non possediamo per
"diritto di natura". C'è qualcosa che attendiamo,Nell'espressione "ciò che gli è autenticamente
riservato" trovo l'equivalente di quanto io chiamo "attesa". in quanto sentiamo che ci "è stato
autenticamente riservato", e nel suo avvento speriamo, perché non ci è stato garantito. Non si
dà quindi una esistenza puramente naturale dell'uomo16. Non che l'uomo non abbia una natura,
solo che non è solo natura ed egli attende un incontro che gli dia più di quanto gli è dovuto per
natura. Propriamente parlando, l'uomo è reso uomo dalla promessa di questo incontro contenuto
nella sua stessa natura.

Coscienza e vocazione
Le caratteristiche fenomenologiche della vocazione che abbiamo esposto nel primo capitolo -
l'irrompere, l'attendere, l'eccedere, il purificare - trovano un luogo molto appropriato nell'ambito
della costituzione e sviluppo della nostra coscienza17. Anche in questo caso si danno le due
possibilità già viste: o la nostra coscienza è nostra produzione soggettiva e noi disponiamo
completamente del nostro io, plasmandolo fin dalle origini con modalità pure, oppure la nostra
coscienza nasce dopo qualcos'altro, che la precede come una vocazione.
Nel primo caso la coscienza non è incontro ma soliloquio. In questo caso è facile comprendere
che la dialettica di attesa e vocazione viene meno alla radice, in quanto l'io ascolta solo se
stesso, è verbo a se stesso. Noi, però, abbiamo più volte riconosciuto che il senso non può mai
essere prodotto, esso è una incursione nella nostra vita in quanto esprime l'indisponibile. Un
senso disponibile non può essere vero e non suscita alcuna autentica libertà. Ecco perché se la
coscienza è nostra produzione, noi siamo anche prigionieri di essa in quanto niente mai di nuovo
potrà accadere. Se niente di nuovo potrà mai accadere, ciò significa che nulla c'è da attendere.
Come sempre le due dimensioni vanno insieme: la vocazione illumina l'attesa ma nello stesso
tempo vi corrisponde ed è da essa misurata; così quando non c'è vocazione è perché non c'è
attesa capace di riconoscerla. Non si può dire, nel senso stretto dei termini, che la vocazione non
ci sia, una cosa è però certa: che non abbiamo gli occhi per riconoscerla e le orecchie per
sentirla perché non attendiamo. La coscienza che produce se stessa non sa "rivolgersi", non può
ascoltare, non riesce a domandare né sa stupirsi, perché tutto è a sua portata di mano.
Ci sono molti elementi per sostenere che nella modernità la coscienza si sia ritratta in se stessa.
Si è pensato che la coscienza ponesse se stessa, si intuisse come coscienza soggettiva,
mediante un atto originario e assolutamente isolato: l'io e attorno il nulla. Si è poi pensato che
da ciò l'io cominciasse a "dedurre" tutto il resto che, quindi, sarebbe derivazione della coscienza
e sua produzione. Iniziava e si sviluppava così un percorso che Cornelio Fabro ha chiamato del
"principio di immanenza". Se, infatti, la coscienza soggettiva - l'io - è originariamente sola,
presso se stessa, niente la chiama esprimendo una sua vocazione e quindi fuori di essa non può
darsi nulla. Da qui l'ipertrofia della coscienza soggettiva pura. Essa diventa tutto. Man mano però
che cresce la consapevolezza di essere tutto, emerge il vuoto di continuare solo ad essere se
stessa e niente di più e di non poter attendere altro che se stessa. Il che è troppo poco. Man
mano che aumenta la dimensione trascendentale, ossia la consapevolezza della coscienza di
essere tutto perché tutto è sua proiezione, diminuisce la dimensione trascendente, ossia l'attesa
di una vocazione che non le appartiene. La coscienza è tutto, ma questo tutto altro non è che la
sola coscienza, ossia pressoché nulla. Nessuno si accontenta di essere "presso di sé", nessuno si
accontenta della coerenza con il proprio io, perché, come ha fatto notare Taylor, se niente è
importante in sé, anche il mio io non è importante in sé, ma solo per me18. La tendenza a
cercare di dimostrare che la coerenza con se stessi - l'autenticità - è qualcosa di importante in sé
è da un lato una contraddizione e dall'altro la spia che nessuno si accontenta della coerenza
soggettiva, tanto è vero che cerca di fondare il valore della autenticità su una piattaforma di
oggettività più solida.
Questo ultimo punto ci rivela che la coscienza pura dimostra una debolezza strutturale. Essa non
può non cercare una conferma in una vocazione e dimostrare la sua coerenza con essa. Nessuno
può dire "io" e basta. Chi dice "io" deve assegnare a questo suo dire un significato che eccede il
semplice io, non può voler dire il semplice dimorare presso di sé, ma intende anche sostenere
che questo ha un valore, che è un atteggiamento meritevole di considerazione e così facendo
non può non appellarsi ad un senso indisponibile all'io. Affermare l'io è già un "affermare"
qualcosa che non può già più essere ridotta all'io, è configurare oggettivamente l'io, è porre Fio
che quindi risulta essere posto: non più l'io che pone, ma l'io che viene posto. L'io-affermato è
già qualcosa di diverso dal semplice io. Nemmeno la coscienza soggettiva pura può rinunciare
fino in fondo alla vocazione, deve porsi essa stessa come vocazione di sé, deve porre il proprio io
in un certo senso come altro da sé. È una vocazione adulterata, autoprodotta e quindi
inautentica, ma ugualmente rivela che alla vocazione non si sfugge.
Alla coscienza soggettiva pura corrisponde per contrasto la coscienza che non si produce ma si
ri-trova o, meglio, si ri-conosce19. La coscienza non può essere coscienza di nulla e l'io non si
concepisce come puro io, ma come qualcosa che è, meglio come qualcuno-che-è, e tale
comprensione oggettiva è il fondamento dalla stessa soggettività. Io non mi conosco come un io
puro, ma come un io-che-è, come un essere-io che appartiene al mondo delle cose che sono,
ossia come un sé. Ecco perché ho preferito dire che la coscienza si ri-trova o si riconosce. Essa,
infatti, si trova davanti a sé, si accoglie, si guarda e può farlo perché è guardata20. Guardata da
chi? Il fatto di non produrmi e di trovarmi tra le mie braccia e dovermi accogliere, il fatto di
essere un io davanti ad un sé e quindi essere incontro già in me stesso mi induce ad essere
guardato da me e mi convince che sono guardato dal Creatore. Percepire il proprio io come un io-
che-è va di pari passo con il concepirsi come insufficiente e, quindi, come uno sguardo del
Creatore.
È vero che la natura della persona, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è attesa della
personalità che ne rappresenta la vocazione, ma è anche vero che la persona è sempre
personalità fin dall'inizio in quanto fin dall'inizio è incontro personalizzante. Infatti la vocazione
deve essere già presente nell'attesa e non aggiungersi in seguito, altrimenti non verrebbe
riconosciuta. La persona invece si ri-conosce, ossia conosce nel sé la vocazione dell'io. L'incontro
personalizzate è dell'io con il proprio sé, ma è soprattutto l'incontro dell'io con il Creatore.
Guardini afferma che «ciò che nell'uomo è definitivo si delinea soltanto nel suo rapporto con
Dio»21.
Tale incontro rappresenta veramente la sua vocazione, ma proprio perché esso è anche
all'origine della sua persona, il che fa sì che l'uomo attenda la compiutezza di quell'incontro che
ha già conosciuto. Come abbiamo più volte detto, si può cercare ed attendere solo ciò che in
qualche modo già si conosce. Se originariamente la coscienza conoscesse solo se stessa non
attenderebbe altro che se stessa, ma in questo caso la parola attesa come noi la intendiamo
sarebbe impropria. Solo se fin dall'inizio la coscienza è posta davanti a sé come altro dalla sua
pura soggettività, come il lato oggettivo di se stessa, essa si pone fin dall'inizio nella disposizione
dell'attesa. Il dialogo intimo a tre - l'io, il sé e Dio - libera così la coscienza dal semplice dimorare
presso di sé e la apre alla novità della vocazione, che nasce solo dall'irrompere dell'incontro e
dall'eccedere della relazione.

La relazione come vocazione


Ho già avuto modo di toccare nei due paragrafi precedenti il tema della relazione parlando ora
della natura umana ora della coscienza, quindi basteranno qui solo pochi accenni. Noi
solitamente abbiamo una concezione della relazione non come qualcosa che ci costituisce ma
come qualcosa che segue alla nostra decisione di entrare in relazione. La relazione sarebbe, in
altre parole, un risultato, un rapporto che viene istituito, il frutto di due o più soggetti che
decidono di interagire tra di loro, e per poterlo fare devono essere degli individui già pienamente
costituiti. Prima nasce il soggetto, la sostanza personale sussistente e poi questa si relaziona o
con le cose o con le altre persone. Intesa in questo modo, però, la relazione non è pienamente
tale, ma si riduce ad un semplice accostamento. Stare accanto non significa essere in relazione,
lavorare nella stessa stanza non vuol dire condividere un rapporto, due sposi anche distanti
migliaia di chilometri, notava don Sturzo, sono più vicini di due viaggiatore seduti nello stesso
scompartimento ferroviario. Non sarà mai quello che facciamo o lo spazio fisico che occupiamo a
porci in relazione veramente umana. Dalla relazione noi dobbiamo venire, altrimenti non la
riconosceremmo quando la incontrassimo. È uno degli errori del pensiero politico moderno
pensare che alla relazione si dà vita ad un certo punto, con una decisione volontaristica e
contrattuale. Se il "riconoscimento" reciproco non c'è fin dall'inizio non si potrà mai più
ricostruire e, come sosteneva Giovanni Gentile, una situazione iniziale di anarchia, come è quella
pensata da Hobbes, non è più risolvibile in società, al massimo essa rimarrà una "anarchia
mascherata" (Maritain).
Nella relazione la persona si trascende, ma a quale condizione questo trascendimento non è
immanentistico, ossia confluente in un tutto spersonalizzante? La condizione è che la persona
non sia costituita originariamente come sostanza individuale che poi si relaziona, ma che essa
sia già relazione. Ne consegue che la categoria di "sostanza" non si adatta pienamente alla
persona, pur essendo essa irrinunciabile. La persona è anche sostanza individuale, altrimenti non
avrebbe natura, non sarebbe qualcuno, non avrebbe un volto, ma essa non può essere solo
sostanza in quanto in questo caso non potrebbe essere storia né cultura. Non potendosi
relazionare se non in modo accidentale, la sua ontologia sarebbe già fissata una volta per tutte,
mentre sappiamo che la persona accede ad un di più di essere vivendo la propria storia
relazionale. Il conflitto tra natura e storia vive qui uno dei punti più intensi. La natura non ha
relazioni se non accidentali, ossia estrinseche, che non intervengono nell'essere delle sostanze
naturali, tra cui anche la persona umana. La prote ousìa, la sostanza prima, è l'individuo. La
storia ha relazioni o addirittura è relazione, ma come far sì che tale relazione non annulli la
natura e il superamento della naturalità della sostanza personale non comporti l'immanentismo
nella storia? La natura ha relazione, la storia è relazione. Nel primo caso la relazione è solo
accidentale, nel secondo è essenziale al punto da sostituire la natura. Non si esce da naturalismo
e storicismo se non intendendo in modo nuovo la relazione. Diciamo che la persona è già
relazione, e non solo ha relazione, anche nella sua dimensione naturale, in quanto già in questa
sua dimensione essa è chiamata, risponde e vive intimamente il dialogo tra l'io e il sé. Questo
dialogo tra l'io e il sé è reso possibile dal dialogo dell'uomo con Dio. L'uomo non è mai solo22.
Giovanni Paolo II parlava dell'uomo nella sua iniziale solitudine, prima di entrare in relazione con
gli altri, e diceva che in quella iniziale solitudine egli non era solo, ma posto davanti a Dio. Non
esiste, quindi, una dimensione puramente naturale per la persona, come abbiamo già avuto
modo di rilevare. Poiché essa è già relazione riesce poi a relazionarsi. Non ci si pone in relazione
da soli, ci si pone in relazione se si è posti in relazione. Per lo stesso motivo chi non riesce a porsi
in relazione soffre, dato che una attesa viene delusa. La rivelazione cristiana fonda questa
originaria relazione con la visione di un'unica figliolanza rispetto al Padre23 e la sviluppa poi
nella verità rivelata sulla vita e sulla famiglia.

NOTE
1 M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, p. 195 ss.2 H. DE LUBAC, Cattolicismo. Aspetti
sociali del dogma, p. 251.3 Ivi, p. 251.4 Ivi, p. 251.5 BENEDETTO XVI, La persona umana cuore
della pace, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007; ID., Discorso ai partecipanti al
Convegno internazionale sulla legge morale naturale promosso dalla Pontificia Università
Lateranense, 12 febbraio 2007; ID., Discorso ai membri della Commissione teologica
internazionale, 5 ottobre 2007; ID., Discorso alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi,
23 dicembre 2008; COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Alla ricerca di un'etica
universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, approvata il 6 dicembre 2008.6 Cf G. CREPALDI,
Dio o gli dèi. Dottrina sociale della Chiesa: percorsi, pp. 128-131.7 «Nella risposta a Dio, ogni
cosa, l'universo intero si rivela come linguaggio» (M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi
cit., p. 134).8 Dice infatti Guardini che «Il mondo non è natura ma creazione» (R. GUARDINI,
Mondo e Persona. Saggio di antropologia cristiana, Morcelliana, Brescia 2000, p. 40).9 Vittorio
Possenti insiste nel mantenere l'importanza del significato ontologico della natura personale
anche, ed anzi a maggior ragione, nell'epoca postmoderna: V POSSENTI, L'uomo postmoderno.
Tecnica, ragione, politica, Marietti 1820, Genova 2009.l0 «L'autosufficienza può essere
liberatoria, ma non liberatrice» (A. MODUGNO, Interiorità e trascendenza. La lezione di Sciacca
per il terzo millennio, Armando, Roma 2009, p. 60).11 R. GUARDINI, L'uomo. Fondamenti di una
antropologia cristiana, Opera Omnia III/2, Morcelliana, Brescia 2009, p. 341.12 Ibidem.13 «In tale
rapporto si realizza l'autentica potenzialità della natura dell'uomo (quello di "natura" è dunque
un concetto che va collocato alla fine, non all'inizio della comprensione dell'uomo!). Esso è
"essenziale" ma non necessario in senso naturale; è incontro, e come ogni incontro può anche
non verificarsi. Tale rapporto è un appello alla libertà, tanto di Dio quanto dell'uomo, ed infine à
"grazia"» (Ivi, p. 342). Bastino i termini "appello" e "grazia" per far rientrare l'incontro dentro
l'area della vocazione.14 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo
apostolico, p. 141.15 R. GUARDINI, L'uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana cit., p. 333.
16 Le considerazioni di Guardini che abbiamo qui adoperato si trovano all'interno della sua
trattazione del peccato originale. Secondo lui non era naturale la situazione edenica, non lo è
nemmeno quella dopo Adamo ed Eva. Riprenderò questi temi nel prossimo capitolo sul peccato
originale.17 Riprendo e sviluppo qui quanto già trattato in S. FONTANA, Per una politica dei
doveri dopo il fallimento della stagione dei diritti cit., pp. 52-67.18 CH. TAYLOR, II disagio della
modernità cit., pp. 37-49.19 Si veda a questo proposito A. MODUGNO, Interiorità e trascendenza.
La lezione di Sciacca per il terzo millennio cit., pp. 59-86. L'autrice mostra come per Sciacca sia
alla portata di ciascuno «scoprire la propria vocazione e impegnarsi a realizzarla» (p. 106) e
«conoscersi conosciuto» (p. 107). Di M. E SCIACCA si veda soprattutto L'interiorità oggettiva,
L'Epos, Palermo 2003.20 Importanti riflessioni sull'accogliersi in R. GUARDINI, Mondo e Persona.
Saggio di antropologia cristiana cit., pp. 49-50.21 R. GUARD/NI, L'uomo. Fondamenti di una
antropologia cristiana cit., p. 342.22 Cf D. SCHINDLER, Vita, famiglia, e sviluppo. L'unità
antropologica della Caritas in veritate, in "Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa", V (2009) 3,
pp. 93-97.23 «La rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione
metafisica dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale» (BENEDETTO XVI, Lettera
enciclica Caritas in veritate n. 55).

Fenomenologia della vocazione


Stefano Fontana

Uso qui la parola fenomenologia senza troppe preoccupazioni di precisione filosofica. Si tratta
semplicemente di vedere nelle manifestazioni della nostra vita le costanti esistenziali in cui è
presente la vocazione, modalità fondamentali dentro le quali sono possibili infinite variazioni.
Illustrare la fenomenologia della vocazione significa far emergere dalla varietà dell'esistenza
queste modalità ricorrenti nelle cui forme essa si esprime. La vocazione, in altre parole, non
potrà mancare di queste dimensioni fenomenologiche, le quali non la definiscono né la
costituiscono nella sua essenza, ma rappresentano sue caratteristiche insostituibili quando essa
voglia emergere nell'esistenza. Queste costanze trascendentali sono l'irrompere, l'attendere,
l'eccedere, il purificare. Esse si convertono l'una nell'altra, sono reciproche, come ogni
dimensione trascendentale.

L'irrompere
In un noto passo del Fedone 1 Platone, per bocca di Cebete, afferma che la ragione sente che ci
deve essere, oltre a sé, un altro "accadere" e che un altro incontro deve avvenire perché le sue
proprie esigenze trovino soddisfazione. È a quel punto, come noto, che Platone parla della
zattera della filosofia e della nave della fede. La prima è spinta qua e là dalle onde, la seconda è
stabile. Per avere questa stabilità e forse addirittura un approdo, dice il filosofo, ci sarebbe
bisogno di una qualche rivelazione. Se ci fosse un "accadere" radicalmente nuovo, una irruzione
di senso da oltre, allora le attese proprie della ragione troverebbero compimento. L'irrompere è
già realtà dentro la ragione perché la verità, di qualsiasi tipo essa sia, è un accadere. Ciò non
ostante la ragione attende il proprio compimento in una rivelazione ulteriore e trascendente.
Questo irrompere che Platone attendeva da parte di una rivelazione è in realtà presente anche
nella piccola dimensione della nostra esperienza e, come tale, è il primo aspetto fenomenologico
della vocazione. A questa fenomenologia appartengono le grandi irruzioni, come per esempio le
conversioni, che sono sempre anche delle vocazioni. L'incontro con Dio di André Frossard, in una
cappella del quartiere latino a Parigi dove era entrato per caso, è stata una irruzione nella sua
vita.2 Ma ci sono anche le irruzioni più modeste e quotidiane che noi scambiamo per frutto del
caso solo perché non le sappiamo leggere, anche se dobbiamo riconoscere che proprio da
queste piccole irruzioni dipendono notevoli aspetti della nostra esistenza, grandi incontri,
scoperte e svolte che non avevamo messo in preventivo. L'irrompere non richiede
necessariamente il rumore, la fragorosa entrata in scena, oppure l'inusualità. La semplice
presenza delle cose e delle persone, quando non vi vediamo solo cose e persone, è un
irrompere. È un rendersi presente e, così, un parlare.3 Ciò che qualifica l'irrompere come
irrompere non è né la subitaneità né il fragore - tutti elementi quantitativi - è la assoluta gratuità.
Nella tranquilla contemplazione della persona amata, o della bellezza di un volto non c'è rumore,
ma ugualmente si dà la visione di una presenza,4 da cui emana il messaggio delle creature.5 C'è
un irrompere nella normalità e c'è un irrompere della normalità. L'irrompere nella normalità è
l'avvenimento fragoroso che ci con-verte. Anche questa è irruzione, ma non solo questa. C'è
anche l'irrompere della normalità, le cose e i volti di sempre che ci parlano come mai avevano
fatto prima.
L'irrompere è una dimensione fondamentale della vocazione. La parola che ci chiama ed attrae e
che viene pronunciata da cose e persone che irrompono davanti a noi ci dice che non siamo
prigionieri del nostro io, né di strutture che ci determinano.
Ogni irruzione è portatrice di senso. Essa ci testimonia che il senso non è mai prodotto.6 Si può
dire che il senso irrompa sempre. Da qualunque parte si prendano i problemi, alla fine si ritorna
sempre a questo punto: se il senso sia una produzione - o nostra o di strutture anonime - oppure
se esso ci venga incontro. La costruzione (o produzione) si contrappone così alla vocazione,
come l'essere spinti da dietro all'essere attratti da davanti. L'uomo moderno ritiene spesso di
essere spinto da dietro, di essere il frutto della necessità, dei determinismi strutturali della
chimica o della psicologia o di un evoluzione biologica. Ma l'irrompere, come le altre
caratteristiche fenomenologiche della vocazione, sembra attestare il contrario.
Se il senso è prodotto si ha l'impressione attraente della libertà. Ma la libertà è possibile solo
dove irrompe la novità. Questa, se il senso è solo prodotto, non si dà mai; nulla può avvenire di
veramente nuovo, perché il nuovo non si produce. Un nuovo che sia prodotto è prevedibile. Si
può conoscere solo ciò che si produce, dicevano in diverso contesto Vico e Marx, ma così il nuovo
è solo il "successivo" ed infatti, laddove il senso è prodotto, la verità si riduce al cambiamento.
Un nuovo che sia prodotto è per forza anche una imposizione, di qualcuno o di strutture
anonime. Il costruttivismo sembra creativo, ma è impositivo oltre che illuso di far dipendere la
libertà da noi stessi. La libertà non si produce perché è attesa di qualcosa - o di qualcuno - che
deve venire. La libertà è gratuità e non necessità. Il gratuito avviene, non si produce, e rende
possibile la nostra libertà, che è causalità non causata, ossia fa essere qualcosa che, secondo la
produzione deterministica, non doveva essere, fa accadere il nuovo. Se nulla può avvenire, nulla
mai avviene. Il nuovo è impossibile e "tutto è già stato". La libertà comporta un essere liberati.
Se si presume di liberarsi senza essere liberati si finisce per accettare di non essere liberi. Ma
non si può essere liberati se nulla di nuovo può avvenire. L'irrompere è così condizione della
nostra libertà.
L'irrompere ci mette davanti all'avvenimento. Bisogna distinguere tra accadere ed avvenire, tra
accadimento e avvenimento. Accadere indica il semplice darsi di qualcosa, previsto,
programmato, determinato, prodotto. Avvenire indica invece il darsi gratuito di qualcosa che
svela un senso.7 L'avvenimento non è prodotto da niente e nessuno e quindi è veramente una
donazione di senso. L'avvenire non è il semplice futuro, ma un futuro portatore di novità di
senso. I fatti che accadono non aprono nessun futuro di senso, ma solo un futuro come serialità
che continua. Per l'avvenimento passa la vocazione, per l'accadimento no. L'accadimento è un
fatto che capita. L'avvenimento è un evento che avviene. Il divenire non è la storia. Il primo
conosce accadimenti, la storia vive avvenimenti. La natura ha divenire, ma non ha storia.
Come possiamo distinguere ciò che semplicemente accade da ciò che invece avviene? Come
distinguere l'accadimento dall'avvenimento? Per rispondere dobbiamo passare al secondo
aspetto fenomenologico della vocazione: l'attesa.

L'attendere
Se tutto è solo nostra produzione siamo perduti, perché è impossibile che veniamo liberati. Solo
se è possibile una vocazione, una parola che irrompe a nostra insaputa e ci interpella, allora è
possibile la salvezza e con essa la libertà. Però siamo perduti anche se tale vocazione è solo una
opinione, qualcosa di prodotto da altri. Non nostra produzione, ma comunque produzione.
Nessuna parola prodotta può rappresentare una vera vocazione. Quale sarà, allora, la parola che
potrà liberare? Sarà quella che corrisponde alla nostra attesa e, così facendo, mostrerà noi stessi
a noi stessi. Vocazione infatti è proprio questo: non aggiungersi al nostro essere, ma
corrispondere ad esso, chiamarlo e risvegliarlo nell'attesa. La vocazione ci dà un nome, ci mostra
in tutta la nostra vera identità. Infatti nessuno si dà da solo il proprio nome, «non ci si può fare
discepoli di sé».8 La vocazione può essere essa stessa opinione e non verità, ma se essa
risponde ad una attesa e si presenta con il "volto umano" e dice "sì" all'uomo,9 ecco che si
sottrae alle opinioni, mostra la propria verità e così facendo ci rivela anche la nostra. Nel mentre
ci svela cosa dobbiamo diventare ci mostra anche chi siamo. I due momenti non possono stare
separati: chi non sa dove andare non sa chi è e viceversa. La vocazione stabilisce questo nesso
tra il nostro essere e il nostro dover essere. Ma il nostro dover essere è già contenuto in modo
incompleto nel nostro essere. L'attesa è il criterio di verità della vocazione, ma è la vocazione a
risvegliarla. L'attesa è la vocazione implicita. La pretesa della vocazione di essere vera non sta
solo nell'irrompere, ma nel rispondere a quanto si attendeva.10
La struttura del senso ruota quindi attorno alle parole vocazione e attesa. Il senso deve
irrompere, ossia venire da oltre. Ogni briciola di senso è un avvenimento e un incontro. Il senso è
sempre inaspettato. Lo si scopre, lo si rileva sempre come dopo un svolta. Può essere però
inaspettato in sé oppure inaspettato per noi. Il primo è avvenimento, il secondo è accadimento.
Solo il primo è veramente vocazione. Il senso come avvenimento è realmente vocazione in
quanto risponde ad una attesa, se ci costituisce confermando il nostro essere, se non si appoggia
estrinsecamente a noi, ma rivela noi a noi stessi, se accetta di essere misurato dalla pienezza
dell'umano. Il senso come vocazione deve essere quindi "pienezza di vocazione" e manifestare
questa sua indisponibilità rivelando alla persona la sua propria indisponibilità. Se il senso non è
pieno non è vocazione ed è pieno quando rivela la pienezza della vocazione umana. La
vocazione è veramente tale quando non lascia fuori nulla della nostra attesa. C'è una condizione
di fondo da salvaguardare: l'incondizionatezza della vocazione come risposta
all'incondizionatezza dell'attesa.
La vocazione interviene da oltre, ma non dall'esterno. Oltre non significa semplicemente altro,
oppure estraneo. La vocazione comporta l'irrompere del senso e il suo interpellarci, ma per
essere compreso questo senso deve già essere atteso, deve già essere presente nella tensione
del nostro essere. Non può quindi essere altro o estraneo. Il nostro essere deve già essere attesa
di un compimento, discorso che ci parla di noi e della nostra vita e che chiede un
completamento. Viceversa la vocazione non sarebbe comprensibile e nemmeno riconoscibile
come tale. Quante parole su di noi non udiamo perché non le attendiamo! La vocazione è ciò che
cerchiamo, sapendola senza ancora conoscerla. Impossibile rivolgersi ad essa senza rivolgersi a
noi stessi, impossibile rivolgersi a noi stessi senza attendere essa.
Martin Buber spiega questo rapporto tra attesa e incontro. Riferendosi alla relazione tra un "io e
un "tu", egli dice che l'incontro non può essere programmato, esso semplicemente "avviene",
però non potrebbe avvenire se non fosse stato atteso. Io non ho che da fare il mio tratto di
strada, non devo preoccuparmi del cammino del "tu", però il mio tratto lo devo fare.11 Fare il
mio tratto di strada significa attendere l'evento, anche se poi esso sarà unicamente gratuità non
programmata, perché l'incontro «dal mistero appare».12
Attendere non vuol dire aspettare, aspettarsi, prevedere, auspicare. Si aspetta l'autobus che
deve arrivare. Ci si aspetta che la partita finisca in vantaggio. Si auspica che la squadra preferita
vinca il campionato. Tutte queste forme riguardano solo degli accadimenti che non sono donatori
di senso e sono surrogati della produzione. Quando si aspetta o ci si aspetta un qualche
accadimento già lo si fa rientrare nel dominio e nella organizzazione della realtà come fosse
prodotta da noi e ci si preclude ad una incursione della novità. Ogni incontro io-tu, invece, è una
vocazione, è un parlare non strumentale e, quindi, un dono di senso. Come tale può solo essere
atteso, nemmeno cercato. Quando sperimentiamo un "dono di senso" o un "senso in dono" - e
non può essere che così, dato che il senso non si produce, ma irrompe - siamo in presenza di una
vocazione, di una parola che ci viene rivolta da oltre e che tuttavia presuppone un nostro
"rivolgersi".13
L'attesa è quindi una fondamentale manifestazione della vocazione nella fenomenologia della
nostra vita. Se l'uomo fosse solo il frutto di una evoluzione materiale non attenderebbe. L'attesa
è il segno della presenza in noi del gratuito, ossia della nostra spiritualità, che è a sua volta
apertura a successive gratuità da ricevere.
Per comprendere bene la dinamica fenomenologica dell'attesa è utile distinguerla dal bisogno.14
Il bisogno nasce da noi o da strutture anonime che ci precedono. Anche gli animali inferiori
hanno bisogni, ma non attendono. Anche l'uomo ha bisogni che non sono attese, dato che anche
in lui è presente l'animalità. Se l'uomo fosse solo il frutto di una evoluzione materiale avrebbe
solo bisogni. Il bisogno è arbitrario, una semplice richiesta di soddisfazione. Arbitrario sia nel
caso che risponda a pulsioni soggettive sia nel caso che derivi da strutture impersonali. Una
pulsione può essere necessaria nella filiera delle causalità deterministiche, ma essere
ugualmente priva di senso se l'intera filiera è solo una catena di ciechi accadimenti, anche se
causali. L'attesa, invece, non dipende da noi. Essa coincide con il nostro essere e la consegna
che esso esprime. Il bisogno non attende la sua soddisfazione, la pretende. Il bisogno è esigenza
produttiva. È come un bussare che non cessa finché non venga aperto. L'attesa, invece, non
pretende il proprio compimento, è disponibilità ad accoglierlo, perché essa stessa nasce
dall'accoglienza. La persona non attende automaticamente, come automaticamente prova dei
bisogni. L'attesa va accolta e voluta - per questo è libera. Per questo nell'attesa è già presente la
vocazione e il compimento già è in qualche modo dentro l'attesa. Si attende qualcosa che deve
venire, ma per attenderlo questo deve essere anche già avvenuto. Chi attende lo ri-conosce,
perché si specchia in esso. Nel bisogno non è già presente la sua soddisfazione. Essa si aggiunge
dopo. Nell'attesa, invece, è già in atto la chiamata. L'attesa è vocazione, non solo ha una
vocazione, è capacità di vocazione. In questo consiste la sua gioia. Molti poeti hanno messo in
evidenza la gioia dell'attesa.15 Molti di loro hanno anche affermato l'inutilità e addirittura
l'assurdità dolorosa dell'attendere, ma è significativo che, anche nei casi di esito nichilistico della
loro poesia, all'attesa sia collegata la gioia. È segno che essa non è solo un aspettare, ma un
attendere che già in se stesso esprime una vocazione.
Nella persona umana bisogno e attesa non indicano una polarità contrastante, dato che l'uomo è
sintesi di materia e spirito. Nell'uomo ogni bisogno può essere trasformato in attesa ed ogni
attesa richiede anche di soddisfare un bisogno. Si può dire allora che l'attesa è la vocazione del
bisogno. La persona umana non ha mai solo bisogni, non esistono bisogni allo stato puro, non
umanizzati dall'attesa. Tutte le sue dimensioni sono all'interno della dinamica di attesa e
vocazione, perché tutte hanno carattere anche spirituale, compreso il mangiare, il bere, il
riposarsi, il ripararsi dal freddo o dal caldo. Ciò è particolarmente evidente nella dinamica
dell'eros e dell'agàpe.16 Nell'eros è già presente l'agàpe. Questa non gli si accosta dopo, ma
rappresenta la vocazione dell'eros, è una risposta ad una sua attesa. In un famoso passo del
Convivio, Platone afferma che gli amanti non cercano se stessi nel loro amore, ma qualcosa
d'altro.17 Nella persona umana non esistono bisogni completamente separati dall'attesa e la
trasformazione dei bisogni in attesa li rende veri bisogni umani.18 Ciò non vuol dire, come
vedremo in seguito, che i bisogni non vadano sempre "purificati". Significa solo che senza
l'attesa essi non sarebbero bisogni umani. Il bisogno umano non è solo bisogno, ma è già attesa
della sua vocazione. Ciò significa che l'uomo non è mai completamente immerso nei suoi
determinismi. In esso la cultura è vocazione della sua natura, la fede è vocazione della sua
ragione, la carità è vocazione della sua giustizia, lo spirito è vocazione della sua materia.
L'attesa è un sentire metafisico. Essa è attesa dell'oltre, di quanto non possiamo darci. È attesa
di senso, che può essere solo ricevuto in dono. La sua fenomenologia rivela che essa è
"capacità" dell'oltre già qui, in questa vita e, quindi, attesta la possibilità di una novità radicale
già nel finito. Una certa inibizione della capacità di attendere, dovuta ad una pianificazione
produttivistica della vita umana e sociale, rischia di ottundere in noi il sentimento dell'attesa. Se
la vita si produce in provetta, certo diventa psicologicamente più difficile il sentimento
dell'attesa di una nuova vita. I fenomeni di disincanto tipici della presunzione di pianificazione
della modernità distolgono dall'attesa a scapito della programmazione della soddisfazione dei
bisogni.
L'ottundimento di questo sentimento produce la cultura dell'equivalenza tra bisogni e diritti.19
Ciò rappresenta un notevole pericolo per la nostra convivenza sociale e politica. Se il figlio è
ridotto a bisogno da attesa che dovrebbe essere, allora si può parlare di un diritto al figlio. Ma se
una nuova vita è vista, come deve essere vista dato che in ogni caso non può essere nostra
produzione, nonostante le illusioni della tecnica, come un avvenimento che può solo essere
atteso, come un dono a noi indisponibile, allora su di esso non si possono vantare diritti. Per
tornare a Martin Buber, non esistono diritti alla relazione di un io con un tu. Un incontro si può
solo attendere; esso, infatti, irrompe. Come non esiste un diritto ad essere amati, non esiste un
diritto alla bellezza o a capire una poesia. La trasformazione del bisogno 20 in diritto è il segno
che non sappiamo più attendere e che non sappiamo più stupirci.
Nell'analisi dello stupore troviamo insieme sia l'irrompere che l'attendere, il che conferma che
l'irrompere è reso propriamente umano dalla sua corrispondenza con l'attendere. Lo stupore è fin
da Aristotele associato alla nascita della filosofia.21 Ed infatti la filosofia è appunto gratuità,
distacco da un utilizzo produttivo delle cose, come la poesia. Come ci si può stupire di quanto si
è programmato e, quindi, previsto? Se rimaniamo sul piano dei bisogni e della loro soddisfazione
tutto è prevedibile. Nessuno si stupisce della salivazione dei cani di Pavlov. Il mondo, così,
diviene una continua conferma, rassicurante ma opprimente. Il più grande pericolo della
diffusione dello spirito di tecnicità 22 è la riduzione della capacità di stupirci. L'attesa, invece, è
stupore perché ha a che fare con quello che non ci saremmo mai aspettati.
Dell'attendere fanno parte anche l'ascoltare e il domandare.
Lo stupore per la parola attesa che irrompe non potrebbe essere colto senza che l'uomo avesse
una disposizione trascendentale ad ascoltare, ad essere uditore della parola, senza della quale
l'irrompere del senso rimarrebbe senza eco. «L'intero messaggio dell'essere»23 ci raggiunge,
solo se ci poniamo in ascolto. Ascoltare non è solo sentire o udire. Possiamo deciderci e anche
obbligarci a sentire o ad udire, ma non possiamo obbligare nessuno, nemmeno noi stessi, ad
ascoltare. Ascoltare è una grazia; richiede un distacco da noi stessi, un mettere da parte
l'interesse per l'applicabilità delle cose, un rendersi disponibili che non può essere frutto di
meccanismi procedurali, ma espressione di gratuità. Ascoltare significa accogliere ed ambedue
sono espressioni dell'attendere.Lo stupore per la parola attesa non potrebbe essere colto senza
una disposizione trascendentale ad interrogare, a cominciare dalla primissima domanda circa
l'essere piuttosto che il nulla. Il mondo come insieme di cose ad un certo punto ci appare, lo
vediamo, ci si rivela, irrompe nel modo più originario e radicale. Si comincia con l'irrompere, non
con il semplice darsi, ma con il rivelarsi. Questo irrompere, però, non sarebbe tale se non fosse
atteso nella forma dell'ascoltare. Questa è la "problematicità dell'esperienza" per cui è possibile
la metafisica come un domandare radicale che nasce da uno stupore radicale dovuto ad un
irrompere radicale.24 I tre momenti non si possono separare. È per questo che il domandare non
coincide con il dubbio. La differenza è fondamentale. Il dubbio è il domandare che si pretende
originario. Il domandare invece presuppone già aver fatto esperienza di una risposta. Troppo in
fretta si tende a dire che prima viene il domandare e poi il rispondere. Da un certo punto in
avanti è così, ma non all'inizio. All'inizio la risposta precede il domandare ed è per questo che
solo grandi risposte suscitano grandi domande.25 La presenza dell'essere davanti a noi,
l'irrompere della realtà, compresa la realtà che noi stessi siamo, sono prima di tutto una risposta.
All'inizio c'è la risposta.26 Poi c'è lo stupore e quindi la domanda.

L'eccedere
L'attesa ci permette di accogliere - e riconoscere -in ogni nostra esperienza quanto viene dalla
vocazione. La logica del bisogno, invece, procede in modo retributivo:, ad ogni bisogno un
esaudimento. L'insperato eccede sempre l'esperienza nella quale fa capolino, è sempre un di-
più. Come non siamo più abituati a vedere il dono che ci viene incontro nelle nostre esperienze,
come non siamo più capaci di stupirci per quanto avviene, solo semmai per quanto di più
chiassoso accade, così non siamo più in grado di riconoscere che nella vita ci viene dato più di
quanto i processi da noi messi in atto ci meriterebbero. Ogni qual volta esperiamo una
eccedenza, siamo in presenza di una parola che ci viene rivolta.
Si noti che l'eccedere non viene nemmeno percepito senza l'attendere. Il di più non è solo un
dato quantitativo, richiede una interpretazione e una valutazione di tipo qualitativo. Si tratta di
riconoscere un di-più-di-senso, un meglio, un oltre, che non risultano ad una semplice
constatazione empirica. L'attesa è lo sguardo necessario per poterci sintonizzare sulle novità di
senso e sulle eccedenze dell'essere. Non tutti i rapporti sono incontri e relazioni. Una cosa, che
per molti è solo quella cosa, per un bambino o per un poeta, nei quali l'attesa si fa ingenuità,
rivela ben altro da sé. Non che l'attesa costruisca, ingannandoci, l'eccedenza della vocazione,
ma è certo che la novità di quest'ultima, ossia il suo essere un di più di quanto ci si sarebbe
aspettati, richiede di essere atteso. Attendere, infatti, non è un semplice aspettarsi qualcosa.
Uno degli ambiti in cui l'eccedenza è più evidente è quello della conoscenza che conduce alla
verità,27 in tutte le varie forme e livelli in cui questa si lascia esperire. Quanto conosciamo è
sempre di più di quello che ci saremmo aspettati in base ai processi attuati. La conoscenza è
sempre una rivelazione, una apparizione di qualcosa che non è il mero risultato materiale delle
tappe conoscitive percorse. Ad ogni tappa la conoscenza fa un salto in avanti non tanto sulla
spinta delle tappe precedenti, ma per attrazione della successiva, che si manifesta nella sua
libera novità. Ogni conoscenza è una epifania. Le macchine per insegnare e per imparare non
hanno mai prodotto granché. Conoscere e imparare non sono mai un travaso tecnico e nessun
metodo garantisce il risultato. Il conoscere è un vedere. Davanti alla stessa verità c'è chi la vede
e chi non la vede. La vede chi l'attende e le si rivolge. La ricerca stessa della verità ha pieno
senso dentro l'attesa, altrimenti diventa curiosità.28 La soluzione del problema è li, ma uno la
vede e l'altro no. Solo in una visione materialistica del conoscere umano, come nel caso
dell'associazionismo positivista, si può pensare di produrre la conoscenza attraverso percorsi
meccanici e deterministici. L'esperienza ci dice che così non è e che ogni passo in avanti è una
intuizione, una luce che ad un certo punto ci illumina senza che noi l'abbiamo accesa. Ogni
conoscenza è un avvenimento.
La parola intuizione è in disuso, mentre andrebbe rivalutata e riconsiderata nelle sue
potenzialità. Essa si colloca all'inizio del conoscere, nel primo istante in cui l'intelletto si apre
all'essere 29, ma non abbandona poi mai più la conoscenza, anche nelle sue forme
maggiormente dimostrative. Anche la conclusione di un sillogismo è frutto di intuizione e non
deriva mai automaticamente dalle premesse. Certamente ne deriva dal punto di vista logico. In
sé il sillogismo è necessario. Ma non ne deriva automaticamente dal punto di vista nostro. Per
chi percorre col pensiero i passaggi del sillogismo, la conclusione appare, come una rivelazione.
Infatti per alcuni, nonostante la connessione necessaria con le premesse, non appare. Per questo
la conoscenza è sempre un fatto di libertà.
Sant'Agostino ha approfondito la nozione di verità.30 Egli si è chiesto se essa sia inferiore alla
nostra mente e ha risposto di no perché in questo caso noi conosceremmo tutte le verità mentre
l'esperienza ci mette continuamente davanti a verità che non comprendiamo. Si è quindi chiesto
se essa sia uguale alla nostra mente ed ha risposto ancora di no in quanto in questo caso la
verità dovrebbe cambiare come cambia la nostra mente, mentre invece l'esperienza ci dice che
esistono verità che non mutano. Si è allora chiesto se la verità sia superiore alla nostra mente e
ha risposto di sì. La verità eccede sempre i nostri mezzi, essa è sempre quanto non ci
aspettavamo. Non la possiamo produrre, la possiamo trovare e mai tutta quanta. Ci si mostra,
pudicamente. Normalmente si adopera la parola rivelazione per indicare una comunicazione
divina proveniente da un mondo trascendente. Ma a ben vedere tutta la nostra conoscenza è
rivelazione. E non solo la conoscenza filosofica, bensì anche quella scientifica oppure quella
prefilosofica del senso comune. L'inserimento di una nuova conoscenza dentro un quadro
precedentemente acquisito non è mai un fatto automatico. La significatività di un fatto dovuta
alla luce di una precedente teoria non si dà mai in modo scontato, è qualcosa che può avvenire o
meno. Essa avviene, non è un accadimento. Se la mela fosse caduta in testa a me piuttosto che
a Newton io non avrei mai avuto l'intuizione della gravitazione universale, perché mi mancava il
contesto teorico per illuminare quel fatto, ma non è nemmeno stato automatico che l'abbia
avuta Newton, pur possedendo egli quel contesto teorico. L'avvenimento della verità deriva dalla
sua eccedenza. Siccome tutto quanto eccede è non dovuto, esso è anche dono. Per questo la
verità è sempre un dono.31 Non si ha il diritto alla verità, si ha il diritto di cercarla sulla base del
dovere di attenderla.32
L'elemento di eccedenza risulta poi in modo particolare se si analizza filosoficamente come la
conoscenza avviene. Lo spirito umano è capace di vedere nella realtà sempre molto di più di
quanto i suoi mezzi materiali gli permettano. La conoscenza sensibile, che si avvale degli organi
di senso materiali, non si riduce tuttavia ad essi, ma coglie la forma sensibile delle cose, che è
qualcosa di immateriale, pur non potendo essere appresa se non materialmente.33 I sensi sono
più degli organi di senso e se un occhio vede il colore rosso, il risultato è che si ha conoscenza
sensibile del colore rosso senza la materialità del colore rosso: il nostro occhio infatti non diventa
rosso, conoscendo il colore rosso. Il colore rosso non viene assimilato materialmente, ma solo
nella sua forma sensibile.
Lo stesso accade in forma superiore per la conoscenza intellettiva. L'intelletto astrae dalle cose
materiali la loro forma intelligibile, ormai totalmente estranea agli elementi materiali ed
individuanti con i quali si presentava in quel determinato ente. Tale forma è puramente
immateriale e viene colta mediante un atto conoscitivo altrettanto immateriale. Esso ha bisogno
dei sensi perché non ci è dato conoscere le forme intelligibili se non incarnate in una materia, ma
poi l'intelletto va oltre i sensi e coglie un oggetto puramente intelligibile e quindi universale. In
questo modo l'intelletto conosce nelle cose la loro dimensione immateriale e qualcuno ha detto
che esso spiritualizza il mondo. Ogni cosa e il mondo intero vengono scoperti come "discorso",
come un insieme che esprime una misura e un ordine, non come un mucchio di cose da
utilizzare per la soddisfazione dei nostri bisogni, ma come una prima risposta alla nostra attesa
di senso. Il mondo delle cose ci parla: ci dice che esiste, che è incontraddittorio, che noi stessi
siamo qualcosa (meglio qualcuno), che ha un ordine finalistico, che questo ordine è criterio per
la libertà, che è necessario un Fondamento. La metafisica è possibile in virtù dell'eccedenza di
senso contenuta nelle cose del mondo, o nel mondo come insieme di cose, sicché le cose
diventano parole. Lo spirito umano spiritualizza il mondo dando alle cose materiali un'esistenza
spirituale nel proprio intelletto, ma il mondo già attendeva questa spiritualizzazione, ne era
capace. La conoscenza umana è vocazione per le cose del mondo - le cose vanno cercate nella
loro verità, volute nel loro bene, godute nella loro bellezza, apprezzate nel loro valore -, ma
anche le cose del mondo ci parlano e rappresentano per noi una vocazione. L'abbandono della
metafisica comporta una riduzione o addirittura l'annullamento della nostra capacità di leggere
nelle cose una vocazione.
Alla crisi della metafisica si è accompagnata in ambito cattolico la crisi della teologia della
creazione. I due fenomeni si prestano ad un collegamento. Se sul piano della ragione si rinuncia
a cogliere nelle cose l'eccedenza di senso di cui sono portatrici, diventa poi difficile, se non
impossibile, costruire una teologia che le interpreti come "il Creato". Senza una teologia della
creazione, però, diventa difficile motivare la presenza pubblica della fede cristiana, cogliere nel
giusto senso la legge naturale, vedere nel matrimonio e nella famiglia l'origine della società e
così via. La non percezione dell'eccedenza di senso nel momento originario si ripercuote così
nella cultura e nella costruzione della società imponendo una cultura positivistica per cui le cose
e i fatti dicono solo se stessi. L'orizzonte di un senso donato viene meno.34
Un secondo ambito nel quale l'eccedenza è di grande evidenza è quello dell'amore. All'inizio
dell'amore sta un accadere «di altro», che ci si impone e di cui «gli amanti stessi non conoscono
pienamente il senso», sicché «nessuno è in grado di rendere se stesso pienamente amante»35.
Non solo l'amore non può essere programmato, in quanto è la forma più alta di relazione nel
senso che Buber dava a questo termine, e quindi, per usare una sua parola, è "grazia", ma
l'amore non può nemmeno essere mai pienamente corrisposto. Più che tensione esso va inteso
come continua attesa e continuo compimento, ossia come reciprocità donata di cui però i due
amanti non sono soggetti autosufficienti. La stessa visione platonica dell' eros come "mancanza"
non va tanto intesa come "bisogno" ma appunto come "attesa": attesa che l'amore venga,
attesa che l'amore continui a venire, attesa che l'amore si purifichi, nella consapevolezza che ciò
non dipende totalmente da noi, ma dalla "consegna di sé" all'amore dell'altro/a. Per questo
motivo l'amore non può essere che definitivo, altrimenti non si dà consegna di sé e l'attesa viene
di nuovo trasformata in bisogno. Per questo motivo deve essere anche aperto ad una nuova vita.
Nella prima parte dell'enciclica Deus caritas est Benedetto XVI ha spiegato questa dinamica
dell'amore, mettendo in evidenza come eros ed agape non siano contrapposti tra loro, ma siano
espressione di una stessa attesa nei confronti di un accadere che non dipende da noi.36 L'amore
è così dono e gratuità, autentica novità da accogliere, espressione di una dimensione
indisponibile e che sfugge alla logica del bisogno e della sua soddisfazione. In esso l'eccedenza è
molto evidente. Ognuno che sperimenti l'amore sa bene di non meritarlo. La persona amata
"appare", la relazione avviene al di fuori di ogni logica retributiva come un miracolo. Si
comprende allora perché Benedetto XVI abbia stabilito una relazione tra l'accoglienza del dono
che si verifica nel matrimonio e in famiglia e la costruzione di una società fraterna.37 Questa ha
bisogno di rapporti non solo retributivi, ha bisogno di fraternità, ossia di relazioni gratuite.38 Ora
se ciò si dà all'inizio del vivere sociale, ossia nella cellula familiare, è possibile che simili stili di
vita animino poi l'intera società, ma se l'incontro di un uomo e una donna è un semplice
accostamento motivato dal bisogno, allora l'intero corpo sociale non conoscerà rapporti di carità,
senza dei quali non può però vivere. Senza la categoria dell'eccedenza non si riesce a cogliere il
matrimonio e la famiglia come vocazione e di conseguenza non si riesce a cogliere la relazione
sociale con gli altri come vocazione.
Benedetto XVI ha messo insieme la verità e l'amore come esempi primari di eccedenza nella
nostra esperienza di vita: «In ogni verità c'è sempre di più di quanto noi stessi ci saremmo
aspettati, nell'amore che riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai
cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d'amore l'anima
dell'uomo sperimenta un "di più", che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un'altezza a cui ci
sentiamo elevati».39
Un altro ambito in cui l'eccedenza si fa evidente è la bellezza. Possiamo esaminare a questo
proposito quanto di essa dice Simone Weil: «Una cosa bella non contiene alcun bene al di fuori di
se stessa, nella sua interezza, quale ci appare. Noi le andiamo incontro senza sapere cosa
domandarle, ed essa ci offre la propria esistenza. Quando la possediamo non desideriamo altro;
ma allo stesso tempo desideriamo qualcosa di più, senza assolutamente sapere che cosa»40.
L'eccedenza appartiene a tutta l'esperienza, è una proprietà dell'essere, si evidenzia nel
conoscere, nell'agire, nel contemplare, nell'amare. Affermava infatti Romano Guardini che «Ogni
essere è più che se stesso; ogni avvenimento significa più che non il suo stretto compiersi. Tutto
si riferisce a qualcosa che sta al di sopra o al di là. E solo a partire da là riceve la sua pienezza.
Se esso scompare le cose e le situazioni si svuotano di senso».41 È fondamentale osservare che
se la cosa non rivela altro che se stessa o, meglio, se noi non sappiamo leggere in essa che la
sua datità, finisce che non solo perdiamo di vista il suo "al di sopra" o il suo "al di là", ma
perdiamo di vista anche essa nella sua datità, il cui significato si riduce sempre di più, man mano
si oscura per il venire meno, lento ma inesorabile, della luce che lo illumina.42 L'eccedenza non
è qualcosa di aggiunto e di superfluo.
Il purificare
Nella fenomenologia della vocazione c'è anche la purificazione. Una relazione continuamente
scade, come ancora direbbe Buber, dal piano del rapporto io-tu al piano del rapporto io-esso e
c'è un continuo bisogno di riportarla al livello propriamente spirituale del rapporto io-tu. Abbiamo
già visto come ogni bisogno debba continuamente essere purificato in attesa e ogni attesa in
vocazione. Il nostro agire continuamente deve essere purificato dagli interessi di parte e dalle
chiusure egoistiche. La nostra lotta per il bene ha continuamente bisogno di essere purificata
dalla speranza, che ci dà la forza di sopportare anche la sofferenza o di subire ingiustizia.43 Il
perdono, poi, è purificazione del rapporto di noi con noi stessi e con gli altri e, come direbbe
Simone Weil, consiste nell'amare le cose così come sono avvenute: amare il passato, che solo la
speranza nel futuro ci può dare.
La vocazione indica una purificazione e l'attesa è attesa di purificazione. Ogni livello dell'essere è
sì se stesso, ma non pienamente in quanto è misto a molte impurità e debolezze che non ne
permettono la piena espressione. Ogni livello della realtà ha bisogno di essere salvato anche al
suo stesso livello, semplicemente per essere se stesso. C'è una opacità, una densità che
appesantisce, in tutte le cose, in tutti gli ideali, in tutti i comportamenti: una forza oscura li
aggrava. Ogni cosa vuole essere se stessa ma non ci riesce da sola, ha bisogno di una vocazione
che le indichi la sua verità. Non ci può essere purificazione se la vocazione non viene da oltre e
se essa non risponde ad una attesa. Nessuno infatti si dà la propria verità e le mete che ci diamo
noi non ci soddisfano.
Possiamo fare una esemplificazione ricorrendo all'esempio del rapporto tra volontà, ragione e
speranza proposto dalla Spe salvi di Benedetto XVI.
La volontà ha una sua validità propria, ma contiene in sé anche molte incertezze e debolezze.
Per questo ha bisogno che la ragione le indichi la strada e ne corregga i possibili sbandamenti.
La volontà ha bisogno di volere il bene per essere volontà, ma non può essere essa a stabilirlo.
Però non c'è volontà se non come volontà di bene. Per questo essa non può darsi la propria
verità, non riesce a costituirsi da sola. La ragione, indicando alla volontà il bene, la aiuta ad
essere volontà, le permette di essere pienamente se stessa.
La volontà ha sì una propria autonomia, ma non assoluta, dato che non riesce ad essere
pienamente volontà senza la ragione, che rappresenta la sua vocazione e la purifica. La purifica
essendo la sua vocazione. La ragione non si aggiunge alla fine, dopo che la volontà ha espresso
se stessa, ma come sua vocazione deve essere presente fin da subito accanto ad essa, nel senso
che la volontà attende la ragione. Questo non comporta che la volontà non sia autonoma, come
prova il fatto che essa può anche rifiutare le indicazioni della ragione. Così facendo, però, essa
rinuncerebbe alla propria vocazione, si diminuirebbe anche come volontà, in quanto cesserebbe
di volere se stessa. La volontà, in altre parole, deve essere purificata dalla ragione per essere
pienamente volontà. Anzi è pienamente volontà solo attendendo continuamente la purificazione
della ragione. La ragione rappresenta la sua vocazione e mentre manifesta la propria verità
razionale illumina anche la volontà circa la sua propria verità.
Lo stesso capita tra la ragione e la speranza. Anche la ragione, come abbiamo visto per la
volontà, è autonoma, però non in modo assoluto. Anch'essa cede alle debolezze e al gioco degli
interessi di parte. Anche essa può autoridurre il proprio spazio e perdere fiducia nelle proprie
possibilità. Ecco perché ha bisogno della speranza, che la spinge ad andare avanti nella
conoscenza del reale e "a non fermarsi mai". La speranza rappresenta la vocazione della
ragione. Essa le sta davanti e la chiama ad essere pienamente se stessa. Non la spinge, la
attrae. Ancora una volta notiamo che la speranza non può svolgere questo compito
aggiungendosi dopo che la ragione ha compiuto il proprio tragitto, ma deve essere presente
dentro la ragione stessa per sostenerla, almeno come attesa. La ragione attende la propria
purificazione da parte della speranza e questo fa sì che la speranza sia già presente in essa per
attrarla in avanti. Ciò non nega l'autonomia della ragione in quanto essa può anche rifiutare la
speranza e costruire teorie nichiliste. Non va dimenticato che vocazione, attesa e purificazione
sono possibili nella libertà, anzi esse stesse fondano la libertà di cui si nutrono.
La purificazione va intesa come inveramento. Per continuare l'esempio ora adoperato, la volontà
ha bisogno della ragione per essere veramente se stessa. Quindi la ragione, abbiamo visto, deve
essere già presente nella dinamica della volontà fin dall'inizio. Questo comporta che, in fondo,
non si cominci mai dalla volontà, ma sempre da quanto è necessario affinché la volontà sia tale,
ossia, in questo caso, dalla ragione. Questo punto è molto importante e andrà ripreso
ripetutamente in seguito. Niente inizia solo da se stesso: questa è la grande legge che le quattro
caratteristiche fenomenologiche della vocazione ci insegnano e in particolare quest'ultima della
purificazione. Oppure si può anche dire: niente si dà la propria verità.
La circolarítà di attesa e vocazione
Ho concluso questo percorso dentro la fenomenologia della vocazione. Tenendo conto di tutte le
osservazioni fatte e cercando una sintesi ulteriore, possiamo chiederci se ci sia qualche aspetto
della nostra esperienza capace di esprimere al meglio le quattro caratteristiche interdipendenti
che abbiamo esaminato. Da parte mia risponderei indicando la verità e la carità. Tutte le altre
dimensioni dell'esistenza posseggono i quattro aspetti fenomenologici in grado inferiore o
comunque in dipendenza da verità e carità. Per esempio: il buono o il bello anche essi irrompono
e senz'altro esprimono un'eccedenza, anch'essi comunicano una vocazione e rispondono ad una
attesa. Tuttavia sono riconducibili al vero. Niente ha così pienamente le caratteristiche del dono
come la verità e la carità, niente è in grado di farci conoscere la gratuità come la verità e
l'amore. Davanti ad essi, l'idea di non meritarli, che siano un di-più e quindi rivelino un
supplemento di senso, appare con limpida chiarezza.
Ciò spiega anche un altro aspetto molto interessante dal punto dei vista fenomenologico. Ho più
volte detto che la vocazione ci costituisce perché è parola non pronunciata da noi, ma
pronunciata su di noi. Nessuno si dà il proprio nome, si diceva. Ora, proprio davanti alla verità e
all'amore sperimentiamo questo. La nostra identità e la percezione della nostra dignità si
configurano davanti ad esperienze che ci mettano in contatto con la verità e con l'amore.
È di grande interesse osservare che la dinamica circolare di attesa e vocazione è propria anche
della fede cristiana. Fenomenologia umana e fenomenologia cristiana si richiamano. Anche la
fede non può certo essere programmata, dato che avviene, proprio come una vocazione che
irrompe ed eccede ogni nostro atto.44 La fede cristiana è incontro, alleanza, ed è per questo che
ha un carattere storico ineludibile. È questa anche la sua principale differenza rispetto alla
mentalità greca. La salvezza, per i greci, era frutto di un cammino ascetico compiuto dal saggio,
era opera umana e perciò stesso non era per tutti. Per il cristiano, invece, la salvezza è una
iniziativa divina, è grazia e purissima irruzione e proprio per ciò non ha confini né limiti. Essa è
l'incontro con Cristo.45 Per lo stesso motivo la fede cristiana non può non essere religione. Essa
non coincide con una mistica privata ed a-storica, perché Dio ha fatto irruzione nella nostra
storia. Il cristianesimo non sarà mai una sètta. Proprio perché storico, esso è per tutti.
Queste osservazioni ci fanno anche comprendere meglio cosa significhi che Dio sia Verità e
Amore, come insistentemente insegna Benedetto XVI. Anche dall'esame fenomenologico della
nostra esperienza esistenziale emerge l'importanza, affinché la nostra vita abbia un senso, della
verità e dell'amore. Il Dio cristiano sembra confermarlo.Noi siamo soliti disporre le cose secondo
un certo ordine. Ma l'analisi fenomenologica che abbiamo condotto ci ha fatto capire che il vero
ordine è forse diverso e che noi dovremmo invertire certi nostri modi di pensare. Ciò che spesso
si pensa venga dopo, invece viene prima. È proprio questo che ora dobbiamo verificare sul piano
epistemologico.
(Parola e comunità politica. Saggio su vocazione e attesa, Cantagalli 2010, pp. 15-42)

NOTE
1 «Infatti, trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da
altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, tra i
ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera,
affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più
sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi ad una rivelazione divina» (PLATONE,
Fedone 85 C-D).
2 Nel racconto che ne fa Frossard troviamo tutti gli ingredienti esaminati in questo capitolo come
dinamiche fenomenologiche della vocazione. Troviamo l'irruzione («con lo sbalordimento di chi, girato il
solito angolo della solita strada di Parigi, si vedesse davanti agli occhi, invece della piazza o dell'incrocio di
tutti i giorni, un mare inaspettato che si estende all'infinito»); troviamo lo stupore («Un momento di
stupore che dura ancora. Non mi sono mai abituato all'esistenza di Dio»); troviamo l'eccedere («trascinato,
sollevato, ripreso, risucchiato dall'onda di una gioia inestinguibile»); e il purificare («I sentimenti, i
paesaggi interiori, le elucubrazioni intellettuali nelle quali mi ero ormai comodamente adagiato, non
esistevano più; le stesse abitudini erano scomparse, e mutati i gusti»); troviamo la vocazione che non
dipende da noi («non ho avuto parte alcuna nella mia conversione») (A. FROSSARD, Dio esiste. Io l'ho
incontrato, Sei, Torino 1969).
3 Viene in mente quanto scriveva Marino Gentile, uno dei miei maestri: »Può capitare talvolta che, magari
per una difficoltà imprevista, alziamo gli occhi verso un edificio che abbiamo incontrato infinite volte nel
nostro cammino quotidiano, e ci accorgiamo di scorgerlo per la prima volta e di non averlo mai visto
prima, perché ciò che percepivamo di esso erano le poche indicazioni sbiadite e distratte dei punti più
adatti per seguirlo o per evitarlo» (M. GENTILE, Trattato di filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli,
1987, p. 62. Il Breve trattato di filosofia, Liviana, Padova, era del 1974).
4 «Delle persone che amiamo ci basta l'esistenza» (N. GOMEZ DAVILA, In margine a un testo implicito,
Adelphi, Milano 1996, p. 56).
5 J. RATZINGER, L'elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009, p. 82:
«L'uomo non cerca più il messaggio proprio delle creature, cerca solo l'applicabilità delle cose per il proprio
sistema di vita».
6 Dice Frankl in linguaggio psicoterapeutico: «In realtà, il senso non può assolutamente esser dato, e men
che meno può essere il terapeuta a fornirlo. Il senso deve essere trovato, e ogni volta deve essere trovato
solo dal diretto interessato» (W. E. FRANKL, - E KREUZER, In principio era il senso. Dalla psicoanalisi alla
logoterapia, Queriniana, Brescia 1995).
7 Scrive Buber che «i sentimenti si hanno, l'amore accade» (M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi,
San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 69). Egli adopera quindi la parola accadere (accadimento) nel senso
che io do alla parola avvenire (avvenimento). La mia preferenza per questo termine deriva dal fatto che
accadimento è più anonimo, mentre avvenimento indica maggiormente uno scarto di senso. Come dirò in
seguito, l'accadimento capita e non mi interpella, l'avvenimento invece rappresenta un evento carico di
futuro. Ho trovato numerose osservazioni in sintonia con quanto dico in questo capitolo in J. PRADES,
Nostalgia di resurrezione. Ragione e fede in Occidente, Cantagalli, Siena 2007.
8 J. RATZINGER, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, p. 205.
9 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana, Verona 19
ottobre 2006.
10 «Israele aveva potuto far esperienza nel mondo pagano di ciò che gli annunciatori di Gesù Cristo
trovarono nuovamente confermato: la loro predicazione rispondeva ad una attesa» (J. RATZINGER, L'elogio
della coscienza. La verità interroga il cuore cit., p. 25). «L'anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno,
per così dire, di un aiuto dall'esterno per diventare cosciente di sé» (Ivi, p. 26)
11 «Quando andiamo per una strada e incontriamo un uomo che ci è venuto incontro e che andava anche
lui per quella strada, conosciamo solo il nostro tratto di strada, non il suo; del suo infatti veniamo a
conoscenza solo nell'incontro [...] ci accade nell'incontro» (M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi cit.,
p. 113).
12 Ivi, p. 85.
13 Con questa bella parola Buber esprime quanto io chiamo attesa (Ivi, p. 208). Anche l'ascoltare, di cui
farò cenno più avanti, è una forma del rivolgersi.
14 L'uso delle parole può essere diverso. Altri autori parlano del "bisogno" con un significato diverso da
quello che adopero io. Benedetto XVI dice per esempio che «L'uomo ha bisogno di Dio» ( Spe salvi n. 23). Il
bisogno in questo senso equivale al termine "attesa" da me adoperato. Si tratta di intendersi. l» parole
ruotano attorno a questo tema: bisogno, desiderio, attesa. Da parte mia tendo a contrapporre bisogno ed
attesa nel senso qui espresso, mentre tendo ad assimilare tra loro desiderio ed attesa, nel significato di
questo termine che si trova, per esempio, in E BOTTURI, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza
morale, Vita e Pensiero, Milano 2009, specialmente il capitolo I-IV. "Desiderio trascendentale", pp. 87-124.
Dello stesso autore vedi anche Desiderio e Verità. Per una antropologia cristiana nell'età secolarizzata,
Massimo, Milano 1995. Mi sembra tuttavia che la parola "attesa" sia preferibile a "desiderio", perché indica
meglio una tensione trascendentale in senso ontologico. Distinguere tra bisogno da un lato e
desiderio/attesa dall'altro è di notevole importanza. Anche la Caritas in veritate di Benedetto XVI dice che
l'uomo «ha bisogno di Dio» (n. 59). Qui il termine è adoperato nel senso del desiderio o, meglio,
dell'attesa. Del Noce riassume la posizione della psicanalisi dicendo che per Freud «L'uomo ha bisogno di
Dio, dunque Dio non esiste» [A. DEL NOCE, Il problema dell'ateismo (prima edizione Bologna 1964), Il
Mulino, Bologna 19904]. Qui la parola "bisogno" è intesa nel senso che anche io le attribuisco. Poiché la
stessa parola può indicare l'attesa di Dio nelle parole di un papa e la negazione dell'esistenza di Dio nella
penna di uno psicanalista, queste precisazioni terminologiche e concettuali non sono superflue.
15 «Ma in attendere è gioia più compita» (E. MONTALE, Ossi di seppia, in Tutte le poesie, a cura di Giorgio
Zampa, Arnoldo Mondadori, Milano 1984, p. 39).
16 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, prima parte.
17 PLATONE, Simposio 211 C.
18 "La difesa dell'amore come mistero è ultimamente anche una difesa del desiderio e perfino dal piacere"
(L. MELINA, Dall'Humanae vitae alla Deus caritas est: sviluppi del pensiero teologico sull'amore umano, in
"Antropothes" XXIV (2008) 1).
19 S. FONTANA, Per una politica dei doveri dopo il fallimento della stagione dei diritti, Cantagalli, Siena
2006.
20 Di fronte ai "nuovi diritti", oggi spesso si dice che non tutti i desideri sono diritti. Io preferisco dire che
non tutti i bisogni sono diritti perché, come precedentemente chiarito, assegno al termine desiderio un
significato equivalente alla parola attesa, quindi contrapposto a quello di bisogno.
21 Metafisica I, 3. San Tommaso parla dell'admiratio: S. Theol. I-II, q. 41, ad 5.
22 Prendo l'espressione "spirito di tecnicità" da Augusto Del Noce e la adopero nello stesso significato (A.
DEL NOCE, Il problema dell'ateismo cit., p. 306).
23 J. RATZINGER, L'elogio della coscienza. La verità interroga il cuore cit., p. 82.
24 Nel che c'è già la domanda del perché. M. GENTILE, Trattato di filosofia cit.; A. POPPI, L'intelligenza del
principio, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1989; E. BERTI, Introduzione alla metafisica, UTET, Torino
1993.
25 J. RATZINGER, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma,
Jaka Book, Milano 2005, pp. 20-22. La presenza dell'essere è certamente una risposta, come ho sostenuto,
alla quale segue la nostra domanda, che è resa possibile proprio dalla forza della risposta.
26 Non mi nascondo che avviene anche il contrario: la presenza dell'essere la quale non abbia in sé la
propria ragione è anche una domanda rivolta a noi ed è la nostra ragione che in questo caso deve dare
una risposta (Cf M. GENTILE, Trattato di filosofia cit., p. 54). Ritengo tuttavia che la presenza immediata
dell'essere davanti alla nostra intelligenza sia dapprima risposta, in quanto l'essere è, e poi domanda, in
quanto l'essere non ha in sé la propria ragione. In questo senso mi sento di dire che la risposta precede la
domanda. Certo, la risposta è complementare alla domanda, ma ha comunque una priorità.
27 «In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio,
ricevuta» (BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate n. 34); «Ogni nostra conoscenza, anche la
più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti
materiali che adoperiamo (Ivi, n. 72).
28 »La chiamata dovrà farsi sentire silenziosamente, inequivocabilmente, senza appiglio per la curiosità»
(M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1979, p. 329). Sulla curiosità vedi anche le acute
osservazioni fenomenologiche in Ivi pp. 215-218.
29 Cf A. LIVI, Filosofia del senso comune (Logica della scienza e della fede), Ares, Milano 1990.
30 De libero arbitrio II 3, 8, ss.
31 G. CREPALDI E S. FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa,
Cantagalli, Siena 2006, pp. 23-24: "Unità del sapere e la verità come dono".
32 Questo principio è stato applicato alla problematica del diritto alla libertà religiosa in G. CREPALDI, Il
diritto alla libertà religiosa fonte di tutti gli altri diritti in ID., Dio o gli dèi. Dottrina sociale della Chiesa:
percorsi, Cantagalli, Siena 2008, pp. 139-150.
33 E BERGAMINO, La struttura dell'essere umano. Elementi di antropologia filosofica, Edusc, Roma 2007,
pp. 83-121; J.J. SANGUINETI, Filosofia della mente. Una prospettiva ontologica e antropologica, Edusc,
Roma 2007.
34 Per una riflessione sulla teologia della creazione nell'insegnamento di Benedetto XVI, vedi G. CREPALDI,
Il magistero sociale di Benedetto XVI lungo l'anno 2008, in OSSERVATORIO INTERNAZIONALE CARDINALE
VAN THUAN SULLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA, Primo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa
nel mondo, a cura di G. CREPALDI E S. FONTANA, Cantagalli, Siena 2009, pp. 23-27.
35 G. MARENGO, "Amo perché amo, amo per amare". L "evidenza e il compito, Cantagalli, Siena 2007, p.
49.
36 «Non si ama per volontà propria» (S. WEIL, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, p. 11). n. 3.
37 BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 2008,
38 L. BRUNI, Gratuità, voce del Dizionario di Economia civile, a cura di L. BRUNI e S. ZAMAGNI, Città
Nuova, Roma 2009, pp. 279-291.
39 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in ventate n. 77.
40 S. WEIL, Attesa di Dio cit., p. 125.
41 R. GUARDINI, La fine dell'epoca moderna, Morcelliana, Brescia 19938, p. 97.
42 «Quando le cose ci sembrano essere solo quel che sembrano, presto ci sembreranno essere ancor
meno» (N. GOMEZ DAVILA, In margine a un testo implicito cit., p.16).
43 BENEDETTO XVI, Lett. enciclica Spe salvi n. 36.
44 «Non viene mai da quel che è nostro proprio. Irrompe dal di fuori. È sempre così. Nessuno nasce
cristiano e da genitori cristiani. Il cristianesimo può avvenire sempre solo come una nuova nascita ... la
fede cristiana non emerge dal proprio interno, ma viene a noi dal di fuori ... è un evento che ci viene
incontro dal di fuori. La fede poggia sul fatto che ci viene incontro qualcosa (o qualcuno) a cui la nostra
esperienza di per sé non riesce a giungere» (J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le
religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 91-92).
45 Cf R. GUARDINI, L'essenza del Cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1993.
L'oblio e il perdono
Paul Ricoeur
1. L'oblio
La questione dell'oblio è più ampia di quel che si possa pensare. Ci si accontenta comodamente
di considerare l'oblio come il contrario della memoria, il suo nemico: la memoria come dovere,
lotta contro l'oblio, e l'oblio come minaccia, dalla quale salvare il passato. E tuttavia
proclamiamo un giusto uso dell'oblio, ovvero tessiamo l'elogio dell'oblio. Come conciliare questi
orientamenti antagonisti?Mi sembra che sia anzitutto necessario distinguere due livelli di
profondità dell'oblio: al livello profondo, esso concerne la memoria in quanto inscrizione,
ritenzione, conservazione del ricordo. Al livello manifesto, concerne invece la memoria come
funzione di richiamo, di rimemorazione. Trattiamo questi due livelli in successione.
L'oblio profondo
Al livello profondo dell'inscrizione, l'oblio riveste già forme straordinariamente complesse,
riconducibili ai due poli antagonisti. Al primo di essi si incontra l'oblio inesorabile, che non si
limita a impedire (o amputare) il richiamo dei ricordi («Mi ricorda il suo nome?»), ma si adopera
anche nel cancellare la traccia di ciò che si è imparato, vissuto: erode l'inscrizione stessa del
ricordo, se la prende con ciò che le antiche metafore esprimono in termini di impronta (del sigillo
nella cera, come si legge già in Platone e Aristotele). Cancellare la traccia significa ricondurla alla
polvere, alla cenere. La metafora dell'usura riveste uno statuto meglio concettualizzabile, poiché
si pone sotto la metacategoria della phthorá (distruzione), abbinata a quella
dellaghénesis (nascita, genesi, divenire) nella Fisica di Aristotele, da cui passa anche nei
trattati de Anima e Parva naturalia, sulla memoria e l'oblio. Ancora più radicalmente, Aristotele
assegna all'effetto quasi malefico del Tempo il potere devastante dell'oblio. Così, nel bel mezzo
di una dotta analisi del Tempo, leggiamo questa stupefacente dichiarazione:
Ed (è necessario) anche che dal tempo sia prodotta qualche affezione (páschein), come pure
siamo soliti dire che il tempo consuma, e che tutto invecchia ad opera (diá) del tempo, e che
vien meno nella memoria a causa del tempo, ma non che (a causa del tempo) si è imparato, né
che si è divenuti giovani né belli. Ché, il tempo per se stesso è piuttosto causa di corruzione
(phthorâs). Infatti, è numero del movimento, e il movimento fa venir meno ciò che sussiste
(Arist., Phys., IV, 12, 221 a 30-221 b 2).
Entropia universale, diremmo noi nel nostro linguaggio mutuato dalla termodinamica: una
marcia verso la rovina di ogni conquista, di ogni acquisizione. Vista così, la lotta contro l'oblio – e
anche una certa cultura dell'oblio – si staglia su uno sfondo di inesorabile disfatta, come una
battaglia di ripiegamento.C'è però l'altro polo dell'oblio profondo, che sarebbe meglio
definire oblio dell'immemorabile; è l'oblio dei fondamenti – del loro darsi originario –che non sono
mai stati «avvenimenti» di cui sia possibile il ricordo; ciò che non abbiamo mai veramente
appreso, e che tuttavia ci fa essere ciò che siamo: forze di vita, forze creatrici di storia,
«origine», Ursprung. Sospetto che il comandamento ebraico Zakhor designasse un lavoro della
memoria molto particolare, che mirava a far accadere come «avvenimento» ciò che non lo è mai
stato, di così tanto ci precede. È in questi termini che Franz Rosenzweig, in La stella della
redenzione1, parla della Creazione. L'autore ha cura di sottotitolare: «Creazione o il fondamento
perpetuo delle cose». In questo senso la Creazione non cessa di essere dietro di noi, giacché il
cominciamento non è un inizio oltrepassato, ma un cominciamento incessantemente continuato.
Il passato immemorabile è in qualche modo sotto il presente della Rivelazione («tu, amami!») e,
se così possiamo dire, sotto il futuro dell'attesa del Regno, piuttosto che prima del presente
dell'una e del futuro dell'altro. Usciamo da ogni linearità narrativa, o, se si può ancora parlare di
narrazione, si deve intendere una narrazione che ha rotto con ogni cronologia. In questo senso
ogni origine, presa nella sua potenza originante irriducibile a un cominciamento datato, dipende
dallo stesso statuto dell'obliato fondatore.Con queste due figure dell'oblio profondo, primario,
tocchiamo un fondo mitico del filosofare: quello che ha fatto chiamare l'oblio Lethe; ma anche
quello che dà alla memoria la risorsa per combattere l'oblio: l'anamnesi platonica ha a che fare
con queste due figure dell'oblio. Essa procede dal secondo oblio: da ciò che la nascita non ha
potuto cancellare e di cui si nutre il ricordo. In questo modo è possibile imparare ciò che in un
certo senso non si è mai smesso di sapere. L'oblio che preserva contro l'oblio distruttore. Risiede
qui, forse, la spiegazione del paradosso di Heidegger – paradosso poco sottolineato – che l'oblio
è ciò che rende possibile la memoria:
Allo stesso modo che l'attesa è possibile solo sul fondamento dell'aspettarsi, così
il ricordo (Erinnerung) è possibile solo sul fondamento dell'oblio, e non viceversa. E infatti nel
modo dell'oblio che l'esser-stato «apre» primariamente l'orizzonte entro il quale l'Esserci,
perduto nell'«esteriorità» di ciò di cui si prende cura, ha la possibilità di ricordarsi ( Essere e
tempo, cit., p. 407).
Questo paradosso apparente si chiarisce considerando una decisione terminologica importante
di Heidegger, riguardante il passato; mentre per il futuro e il presente mantiene il vocabolario
corrente, Heidegger rompe con l'uso di definire Vergangenheit il passato e decide di designarlo
con il participio passato del verbo essere, gewesen: Gewesenheit. È una scelta capitale e marca
un'ambiguità, o piuttosto una duplicità grammaticale: noi diciamo infatti del passato che non è
più, ma che è stato. Con la prima espressione ne sottolineiamo la sparizione, l'assenza. Ma
assenza rispetto a cosa? Alla nostra pretesa di agire su di esso, di tenerlo «a portata di mano»
(Zuhanden). Con la seconda espressione sottolineiamo invece la sua piena anteriorità rispetto a
qualsiasi avvenimento datato, ricordato o dimenticato, anteriorità che lo sottrae alla nostra
presa, come nel caso del passato superato (Vergangenheit, passé dépassé): nessuno può far sì
che ciò che non è più non sia stato. È al passato in quanto essente-stato (Gewesenheit) che si
ricollega l'oblio di cui Heidegger dice che «condiziona il ricordo». Si comprende il paradosso
apparente, se si coglie l'oblio nel senso diimmemorabile risorsa, e non nel senso di inesorabile
distruzione. Confermando questa ipotesi di lettura, si può risalire di qualche riga, fino al passo in
cui Heidegger pone l'oblio in rapporto con la ripetizione (Wiederholung), nel senso di ripresa, che
consiste nell'«assumere l'ente che esso [l'Esserci] già è» (ibidem, 406). Si crea così una coppia
tra «precorrere» e «ritornare», come in Koselleck la coppia di «orizzonte di attesa» e «spazio di
esperienza», al livello, che Heidegger riterrebbe come derivato, della coscienza storica. Intorno
al «già», marca temporale comune alla gettatezza (Geworfenheit), alla colpa (Schuld), alla
deiezione (Verfallen), si organizza la catena delle espressioni imparentate: essente-stato
(Gewesenheit), oblio (Vergessen), poter essere il più proprio (eigenstes Seinkõnnen), ripetizione-
ripresa (Wiederholung).Riepilogando, l'oblio riveste un significato positivo nella misura in cui
l'«essente-stato» prevale sul «non essere più», nel significato legato all'idea del passato.
L'essente-stato fa dell'oblio la risorsa immemorabile offerta al lavoro della memoria2. La scelta
diGewesenheit, preferito a Vergangenheit, è sotto questo aspetto decisiva. Il problema sarà
capire in che senso essa può riguardare lo storico che si confronta con la questione del passato
storico: come si coniugano in esso «non essere più» ed «essere stato»?
L'oblio e il richiamare alla memoria
La memoria e la storia hanno un rapporto con l'oblio a un livello di profondità inferiore rispetto al
precedente: livello inferiore, nella misura in cui riguarda il richiamare alla memoria – ciò che
correntemente si definisce rimemorazione o semplice ricordo – e non l'iscrizione, la
conservazione, il mantenere nel ricordo. Dalla memoria che «conserva», dal ricordo che
«rimane», passiamo alla memoria che «evoca», al ricordo che «ritorna». Le nozioni di presenza e
di assenza del passato assumono a questo livello una tinta strettamente fenomenologica, in
contrasto con l'ontologia dell'oblio fondamentale: è il gioco del comparire-scomparire-
ricomparire al livello della coscienza riflessiva.
a. A questo proposito l'approccio psicanalitico presenta un enigma imbarazzante poiché,
trattando di un passato rimosso, non si attiene né al livello ontologico dell'immemorabile
fondatore, né al livello fenomenologico del dimenticato che la coscienza allontana
sistematicamente dal proprio campo. Questo livello intermedio è per noi della massima
importanza, nella misura in cui abbiamo considerato nel secondo saggio un fenomeno come
quello della «coazione a ripetere», di cui si è detto che ostacola il ricordo: «passaggio all'atto» al
posto del ricordo. Sarebbe compito di una rilettura post-heideggeriana della psicanalisi quello di
porre l'inconscio freudiano nelle vicinanze dell'«essere stato» (Gewesenheit), sostituito da
Heidegger al «passato che non è più» (Vergangenheit), il quale tende a confondersi con
l'«abolito», dal punto di vista inautentico della Zuhandenheit. Il rimosso è indisponibile in
maniera più grave, non manipolabile, rispetto a ciò che è stato semplicemente scartato, non-
considerato, per esempio nel modo del «fondo» non percepito su cui si staglia una «forma». Il
rimosso appartiene a un'economia profonda delle pulsioni, il cui venire alla coscienza esige
precisamente un lavoro. Una fenomenologia dell'attenzione e della disattenzione non è
all'altezza del fenomeno, in un senso del termine «inconscio» che lo apparenta al nascosto,
al dissimulato, in un senso più radicale rispetto al non-segnalato, al non-percepito per difetto di
attenzione. Forse si potrebbe trovare in Binswanger e nelle conferenze tenute tra Heidegger e i
rappresentanti della «psicanalisi esistenziale» il mezzo per porre in relazione l'inconscio e
la Gewesenheit: l'idea di Essere e tempo, secondo cui la Gewesenheit è una condizione dell'oblio
– e non l'inverso – assumerebbe allora un significato nuovo, interessante? Interessante anche per
la nostra ricerca sulla storia, nella misura in cui è la critica di una memoria malata, e la memoria
malata non si comprende se non entro categorie in cui íl lavoro della memoria si confronta con
forze che non possiamo dominare.
b. Progredendo dal fondamentale al derivato – o dal più profondo al più manifesto – incontriamo
una serie di forme di oblio classificabili dall'oblio passivo all'oblio attivo.Ciò che al livello
profondo delle pulsioni abbiamo appena considerato sotto la definizione di coazione a ripetere,
sul piano del sintomo è vissuto come oblio passivo. La resistenza è profonda, ma l'acting out di
cui Freud dice che sopraggiunge «al posto» del ricordo può essere classificato come oblio
passivo. Nel terzo studio abbiamo suggerito che la memoria collettiva dei gruppi, delle nazioni,
fosse preda di fenomeni patologici paragonabili a queste «scariche sostitutive» che equivalgono
all'oblio. Ci eravamo rassegnati a estendere qualche consiglio traslato dalla terapeutica analitica
a una terapia sociale e politica ancora male assicurata: anzitutto quelli riguardanti la pazienza
dei politici rispetto alle forme simboliche di queste scariche; e poi quelli che fanno appello al
coraggio, dei membri delle nostre comunità ferite, di riconoscere e assumere la loro condizione
patologica.c. Non meno interessante per la nostra ricerca si rivela essere la forma semi-
passiva e semi-attiva rivestita dall'oblio di fuga, espressione della cattiva fede, che consiste in
una strategia di evitamento, essa stessa motivata da una volontà oscura di non informarsi, di
non indagare sul male commesso nell'ambiente del cittadino: insomma, un voler-non-sapere.
L'Europa occidentale e il resto d'Europa hanno dato doloroso spettacolo di questa volontà
testarda. Vi abbiamo alluso, fin dall'introduzione a questi saggi, quando abbiamo lamentato
il troppo poco di memoria degli uni, di cui non si può dire che sia scusato dall'eccesso di
memoria degli altri. Questo «troppo poco» può essere classificato come oblio passivo, poiché
non se ne può parlare come di un deficit del lavoro della memoria. Ma, in quanto strategia di
evitamento, di elusione, di fuga, si tratta di una forma ambigua – tanto attiva quanto passiva – di
oblio. In quanto attivo, questo oblio implica la stessa specie di responsabilità di quella imputata
agli «atti» di negligenza, di omissione, in tutte le situazioni di in-azione, in cui a una coscienza
illuminata e onesta appare subito che si doveva e si poteva sapere, o perlomeno cercare di
sapere.
d. Si varca la soglia dell'oblio attivo con l'oblio selettivo. In un certo senso la selezione del ricordo
comincia al livello profondo dell'usura delle iscrizioni. A questo riguardo, l'oblio si rivela benefico
sul piano derivato del richiamare alla memoria e del rimemorare. Non ci si può ricordare di tutto.
Una memoria senza lacune sarebbe, per la coscienza desta, un fardello insopportabile. A questa
erosione, che Aristotele attribuiva, come si è detto sopra, al Tempo stesso, si aggiungono le
mutilazioni del rimosso al livello pulsionale inconscio. Su questo lavoro profondo o semi-profondo
dell'oblio si innestano a loro volta le modalità di selezione inerenti l'elaborazione di ciò che prima
abbiamo chiamato, con Dilthey, «coesione di una vita» (Lebenszusammenhang). Ed è su questi
strati impilati di oblio profondo e manifesto, passivo e attivo, che si spiegano le modalità
selettive dell'oblio inerenti al racconto e alla costituzione di una «coerenza narrativa». Tale oblio
è consustanziale all'operazione di composizione dell'intreccio: per raccontare è ovviamente
necessario omettere avvenimenti, peripezie, episodi, considerati non significativi, non
importanti, dal punto di vista dell'intreccio privilegiato. La possibilità di raccontare altrimenti
risulta da questa attività di selezione che integra l'oblio attivo al lavoro della memoria. A sua
volta la storia, in virtù dei propri legami con il racconto, ne assume su di sé l'attività selettiva.
Tale assunzione comincia già a livello dei documenti: non ogni traccia merita di essere seguita e,
prima ancora, di essere conservata, archiviata. L'istituzionalizzazione che presiede alla
costituzione di archivi di qualunque istituzione merita di essere interrogata relativamente alla
sua politica di selezione. Una critica ideologica, diretta contro le manovre ammesse od occulte
del potere interessato a preservare le tracce scritte della propria attività, ha qui un posto
legittimo. Essa si indirizza contro la tendenza di ogni storia, proprio in quanto funzione critica
della memoria, a organizzarsi in storia ufficiale, richiedendo una critica di secondo grado. Gli
«oblii» di questa operazione di archiviazione possono costituire l'oggetto di tale critica, che
equivale a una memoria di secondo grado: memoria dell'oblio e storia della memoria dell'oblio.
Tutti gli strati latenti dell'oblio che abbiamo appena attraversato si trovano ripresi e ricapitolati
nelle forme sottili e silenziose di ciò che potremmo chiamare oblio archivistico, ovvero oblio
archiviato. Rimane comunque il fatto che l'oblio conserva una funzione onesta e benefica,
inerente alla funzione di configurazione del racconto storico come del racconto letterario. Si
potrebbe estendere senza problemi questa riflessione ai due altri livelli dell'operazione storica:
quello della spiegazione e quello dell'interpretazione; quest'ultima impresa giustificherebbe,
come abbiamo detto nello studio precedente, il titolo distoriografia dato alla storia degli storici.
La «scrittura della storia» è sotto questo aspetto caratterizzata da un uso ragionato dell'oblio,
implicito nel lavoro della memoria.

L'oblio e la coscienza storica


Vorrei concludere questa parte del quarto saggio evocando laSeconda Inattuale di Nietzsche. Qui
il bersaglio dell'autore della Gaia scienza non è più l'epistemologia della storia, ma la coscienza
storica al livello della cultura di un popolo, nella fattispecie il popolo tedesco. È l'intera storia in
quanto fatto culturale a costituire qui l'oggetto di una considerazione «inattuale», intempestiva
quindi rispetto al momento storico stesso in cui il saggio fu scritto e pubblicato. La storia è
considerata qui al punto di giuntura in cui l'atto di «fare storia» si reinscrive in quello di «fare la
storia». Ecco perché la domanda qui rivolta alla storia non concerne né la fedeltà della memoria,
né la verità della storiografia, ma l'utilità (Nutzen) o il danno (Nachteil) della storia (Historie) «per
la vita» (für das Leben). E in gioco la vita stessa di un popolo «in quanto l'abuso della storia può
lederla». È un altro modo di parlare del «troppo di storia» da cui abbiamo preso avvio; ma non si
tratta più di coazione a ripetere, bensì di prostrazione causata da un sapere puramente
retrospettivo. Qui si ha di mira la cultura storica erudita in quanto «febbre storica divorante». Di
fronte a questo abuso – abuso piuttosto che eccesso – è bene cogliere il proposito «inattuale»
che pone un elogio dell'oblio alla testa del confronto tra storia monumentale, storia antiquaria e
storia critica, che ha reso famoso questo testo. Questo elogio di apertura dell'oblio collega il
seguito del proposito «inattuale» all'asse principale del nostro studio. All'opposto dell'oblio
bovino del ruminante, cui resta inaccessibile il «così era» che rappresenta il punto di svolta
dell'uomo, c'è l'oblio liberatore di chi accede alla fortuna di sentirsi per un po' di
tempo unhistorisch: «ad ogni agire appartiene l'oblio», è detto. «C'è un grado di insonnia, di
ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi
di un uomo, di un popolo o di una civiltà»3. Sarebbe un esercizio preciso di lettura quello di
discernere il contributo ogni volta diverso dell'oblio nelle forme (monumentale, antiquaria,
critica)4 della conoscenza storica: ciascuna di esse è considerata dal punto di vista
del torto fatto alla vita. Tuttavia non ne viene sacrificata la virtù di giustizia; è la giustizia che
interpreta; ma la forza del diritto di giudicare viene dall'energia del presente: «È solo in virtù
della forza suprema del presente che avete il diritto di interpretare il passato»5. Così la
sospensione dello storico – da parte dell'oblio e della rivendicazione dell'«antistorico» – non è
che l'inverso della forza del presente. A questo punto l'oblio ridiventa condizione
dell'interpretazione del passato.

2. Il perdono
In prima approssimazione, si può dire che il perdono è una forma di oblio attivo, ma con molta
cautela. Dopo una rapida ricognizione delle sue espressioni in ambito culturale, giuridico e
politico, sarà infatti necessario prendere in considerazione gli argomenti indirizzati contro
il perdono facile, che potranno essere affrontati con successo solo al termine di
un excursus sull'idea di dono, in cui si concentrano tutte le difficoltà opposte al perdono facile.
L'indagine si concluderà sull'idea di perdono difficile6.
Perdono e oblio
Il perdono è anzitutto il contrario dell'oblio passivo, tanto nella sua forma traumatica quanto in
quella astuta dell'oblio di fuga. Sotto questo aspetto esso richiede un sovrappiù di «lavoro della
memoria». Nondimeno, come abbiamo appena suggerito, esso si apparenta, in prima
approssimazione, a una sorta di oblio attivo, che però non verte sugli avvenimenti in se stessi, la
cui traccia deve al contrario essere accuratamente protetta, bensì sullacolpa, il cui peso
paralizza la memoria e, per estensione, la capacità di proiettarsi in modo creativo nel futuro.
L'oggetto di oblio non è l'avvenimento passato, l'atto criminale, ma il suosenso e il suo posto
nell'intera dialettica della coscienza storica. In più, a differenza dell'oblio di fuga, il perdono non
rimane chiuso entro un rapporto narcisistico tra sé e sé, poiché presuppone la mediazione di
un'altra coscienza, quella della vittima, la sola abilitata a perdonare. L'attore principale degli
avvenimenti che feriscono la memoria – l'autore dei torti – può soltanto chiedere perdono;
ancora, deve affrontare il rischio del rifiuto. In questa misura il perdono deve anzitutto essersi
scontrato con l'imperdonabile. Questa possibilità ci deve perciò mettere in guardia contro la
facilità del perdono: se esso deve contribuire alla guarigione della memoria ferita, è necessario
che sia passato attraverso la critica dell'oblio facile. Allo scopo di inquadrare queste forme
perverse di perdono, dobbiamo analizzare i contesti in cui si invoca il perdono.In primo luogo,
naturalmente, va considerata la sfera religiosa, in cui il «perdono dei peccati» può ridursi a una
formalità (non ha forse dato, in passato, occasione a un commercio, noto come «vendita delle
indulgenze»?). Ma ciò che il perdono esprime in termini di grazia, sul piano religioso e cultuale,
trova un'eco sul piano giudiziario e politico. Sul piano giudiziario si tratta essenzialmente
della riabilitazione, il cui effetto è, come recita il nuovo codice penale francese, quello di
«cancellare tutte le incapacità in decadimento», e di ristabilire così il condannato nella sua
capacità di ridiventare un cittadino a tutti gli effetti; lagrazia, in quanto prerogativa regia, si
autorizza della stessa finalità. Più discutibile è l'amnistia, pronunciata non più da una istanza
giudiziaria, ma da una istanza politica, nella misura in cui equivale a una amnesia istituzionale,
che invita a fare come se l'evento criminale non avesse avuto luogo. Si può capire la finalità di
tale istituzione, che è quella di contribuire alla riconciliazione nazionale. Ma in questa incredibile
pretesa di cancellare le tracce delle discordie pubbliche permangono i misfatti dell'oblio. Spetta
allora allo storico – il cui compito è reso d'altra parte singolarmente difficile dall'instaurazione
dell'oblio pubblico – in collegamento con l'opinione pubblica illuminata, di contrastare con il
proprio discorso il tentativo di cancellare i fatti stessi. Il suo compito prende così una piega
sovversiva, perché per suo tramite trova espressione la mimesis della traccia.Un interrogativo
paragonabile è sollevato dalle domande solenni di perdono, pronunciate da
uomini politici rispettabili e indirizzate alle vittime delle grandi barbarie novecentesche:
ricordiamo il cancelliere Brandt a Varsavia, il presidente Vklav Havel a proposito dei Sudeti, il re
di Spagna Juan Carlos e il presidente Soares in riparazione all'espulsione degli ebrei della
penisola iberica. Ma queste domande di perdono, per quanto siano onorevoli e coraggiose,
toccano davvero la radice delle sofferenze?Su questo punto bisogna mettersi in guardia contro
il perdono facile. La pretesa di esercitare il perdono come un potere, senza essere passati
attraverso la prova della richiesta di perdono e, peggio ancora, del rifiuto del perdono, innesca
una serie di trappole.C'è anzitutto il perdono di autocompiacimento, che non fa altro che
prolungare, idealizzandolo, l'oblio di fuga: esso vorrebbe fare economia del lavoro della memoria.
C'è anche il perdono di benevolenza, che vorrebbe fare economia della giustizia e cospira con la
ricerca d'impunità; in questo caso si dimentica che la riabilitazione del colpevole fa parte
dell'esecuzione della pena, e che c'è un prezzo da pagare per la riabilitazione. Più sottile è il
perdono di indulgenza, dalla cui parte sta un ramo della tradizione teologica, secondo la quale il
perdono significaassoluzione: il Padrenostro non parla forse di «rimettere i debiti»? È dunque in
causa il trattamento in profondità del concetto di debito-colpa. A un primo grado, la remissione
del debito suggerisce l'idea di un bilancio di debito e credito, come se sulla tabella degli acquisti
la colonna del debito venisse magicamente cancellata. Non solo non siamo usciti dalla logica
della retribuzione, peraltro intervenuta in occasione della problematica della sofferenza ingiusta,
come si legge nel libro di Giobbe, ma questa cancellazione, che abbiamo appena definito
magica, va nella stessa direzione dell'oblio peggiore, e cioè quella forma di oblio profondo
evocata all'inizio di questo capitolo, che consiste nell'usura delle impronte, nella distruzione da
parte del tempo stesso – dice Aristotele – delle iscrizioni antiche.Ciò di cui c'è bisogno è un
nuovo rapporto con la colpa, con laperdita, che introdurrebbe nuovamente il lavoro del lutto
accanto al lavoro della memoria. La ricerca di questo nuovo rapporto passa attraverso una
rivalutazione dell'idea di dono, che sta alla base dell'idea di perdono. Al termine di questa
rivalutazione, in cui saranno prese in considerazione a loro volta le trappole del dono, sarà
possibile parlare di perdono difficile.
Donare e perdonare
Non è un caso se il perdono è semanticamente accostato al dono in molte lingue: pardon,
Vergebung, forgiving, ma anche l'idea di dono ha le sue trappole. Dice il Robert: «Donare:
lasciare a qualcuno, con intenzione liberale o senza ricevere nulla in cambio, una cosa che si
possiede o di cui si gode». L'accento sembra posto sull'assenza di reciprocità. La dissimmetria
tra colui che dona e colui che riceve pare completa. In prima approssimazione, ciò non è falso7.
Mi sembra che il nodo critico stia nella questione di sapere se il dono si collochi al di fuori di ogni
scambio, oppure si opponga soltanto alla forma mercificata dello scambio. Mi pare che tutti i
paradossi e le trappole del dono e del perdono ruotino intorno a questa questione critica. Da
questo punto di vista, il libro classico di Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello
scambio nelle società arcaiche8, dovrebbe porci in allerta; Mauss non oppone il dono allo
scambio, bensì al calcolo, all'interesse. Ciò che valorizza è la competitività nella munificenza,
l'eccesso nel dono che suscita il contro-dono. Da parte sua, Georges Bataille ha, se così si può
dire, calcato anche di più sull'eccesso nel suo elogio del dispendio. L'economia del dono, per
riprendere una delle mie vecchie espressioni, rimane un'economia, perché il dono non esce dal
cerchio dello scambio.Solo questa disgiunzione tra scambio non commerciale e scambio
commerciale consente di confrontarsi con i sospetti – anche malevoli – che non cessano di
essere indirizzati contro i comportamenti pubblici o privati che si richiamano allo spirito di
generosità (volontariato, collette pubbliche, risposte alla mendicità), per non dire degli attacchi
di cui sono oggi vittime le organizzazioni non governative di intervento umanitario. Gli avversari
argomentano così:– donare costringe a dare in cambio (do ut des, io do perché tu dia);– donare
crea disuguaglianza, perché pone il donatore in posizione di superiorità condiscendente;– donare
lega il beneficiario trasformato in obbligato, obbligato alla riconoscenza;– donare schiaccia il
beneficiario sotto il peso di un debito che lo rende insolvente.Tuttavia la critica non è
necessariamente malevola; la troviamo in bocca a Gesù, proprio poco dopo il richiamo della
Regola d'Oro. Si legge: «Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori
fanno lo stesso. [...] Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare niente
in cambio» (Lc 6, 32-35). La critica precedente si trova così radicalizzata: l'amore dei nemici è la
misura assoluta del dono, alla quale è associata l'idea di prestito senza speranza di ritorno. Lungi
dallo smussarsi, la critica si radicalizza sotto la pressione di un comandamento (quasi
impossibile).Vorrei suggerire non soltanto che solo lo scambio commerciale cade sotto i colpi
della critica, ma che si mira qui a una forma superiore di scambio. Tutte le obiezioni, infatti,
presuppongono un interesse nascosto dietro la generosità, mantenendosi esse stesse quindi
entro lo spazio dei beni-merce, che ha, sì, la propria legittimità, ma precisamente in un ordine in
cui l'aspettativa della reciprocità assume la forma dell'esigenza di giustizia e dell'equivalenza
monetaria. Ma l'amore dei nemici non solo rompe con questo calcolo, bensì apre l'aspettativa di
un'altra specie di scambio, e cioè quella per cui il mio nemico divenga un giorno mio amico. Il
comandamento di amare i propri nemici comincia con lo spezzare la regola della reciprocità,
esigendo l'estremo: fedele alla retorica evangelica dell'iperbole, si vorrebbe che, solo, fosse
giustificato il dono al nemico, da cui, per ipotesi, non ci si attende niente in cambio. Ma, appunto,
l'ipotesi è falsa: ciò che ci si attende dall'amore è che converta il nemico in amico. Su questo
modello estremo gli atti privati o pubblici di generosità, sempre sospettati di conformarsi
segretamente alla logica commerciale, non troveranno la loro legittimazione ultima se non nella
ricostruzione di un legame di reciprocità, al di là della rinuncia alla riconoscenza e alla
restituzione, e questo a un livello non commerciale dello scambio. Il potlàc, celebrato da Marcel
Mauss, rompeva l'ordine commerciale dall'interno per il tramite della munificenza, così come fa a
suo modo il «dispendio» secondo Georges Bataille. Il Vangelo lo fa conferendo al dono una
misura «folle», che gli atti ordinari di generosità non avvicinano se non lontanamente. Mi
arrischierò a dire che ritrovo qualche cosa dell'iperbole evangelica nell'utopia politica dellapace
perpetua secondo Kant: utopia che conferisce a ogni uomo il diritto di essere ricevuto in ogni
paese straniero «come un ospite e non come un nemico». L'ospitalità universale costituisce in
realtà l'approssimazione politica all'amore evangelico dei nemici.Quale nome dare a questa
forma non commerciale del dono? Lo scambio tra ricevere e donare, tra donare e ricevere. Ciò
che veniva potenzialmente offeso nella generosità ancora tributaria dell'ordine commerciale era
la dignità del ricevere. Certamente bisogna imparare a ricevere: è la virtù della modestia. Più
ancora bisogna imparare a donare onorando il beneficiario: è la virtù della magnanimità. La
reciprocità del donare e del ricevere pone fine alla dissimmetria del dono senza spirito di ritorno,
per il tramite della figura singolare che conferisce alla riconoscenza. Rimane da mostrare in che
modo questa figura non commerciale del dono permetta di replicare ai sospetti indirizzati al
perdono, offrendo il proprio soccorso al perdono difficile.
Il perdono difficile
Il perdono difficile è quello che, prendendo sul serio il tragico dell'azione, punta alla radice degli
atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un
debito su una tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi.In
primo luogo c'è il nodo dei conflitti inestricabili, delle controversie insuperabili. Ricordiamo
ancora una volta Antigone: si intrecciano storie incommensurabili, si affrontano fedeltà al tempo
stesso assolute e limitate; la giustizia confina con la vendetta e il potere con la violenza; le ferite
sono curate come benedizioni. La tragedia greca, come dice eloquentemente Hegel
nell'Estetica9, non lascia alla «collisione» dei caratteri altro che l'esito della morte. In che cosa
consiste allora il perdono nelle situazioni estreme? È ancora Hegel che lo tratteggia, in questo
caso verso la fine della Fenomenologia dello spirito (al termine del capitolo VI, intitolato Lo
Spirito, alla chiusa del paragrafo Lo spirito «certo di se stesso»10): esso esigerebbe un
abbandono simmetrico e simultaneo delle unilateralità, mentre la «coscienza giudicante», erede
dell'«anima bella», riconosce il proprio altro, la «coscienza operante», che appartiene all'«eroe
dell'azione», e viceversa. È a questo punto che la parola «perdono» (Vergebung) è pronunciata
per la prima volta nellaFenomenologia, prima ancora del capitolo intitolato Religione (il VII): essa
significa «riconciliazione», intesa come «un riconoscere reciproco che è lo spirito assoluto».
«Scambio [con se stesso]» (Wechsel mit sich selbst), «equiparazione» (Ausgleichung) di
entrambe le parti, mutuo perdono11. Di questa dialettica tesa abbiamo un assaggio quando
accettiamo le controversie inespresse, nella ricerca modesta di compromessi, nell'ammissione di
«disaccordi ragionevoli» (Rawls), richieste dal con-vivere nelle società pluraliste contemporanee.
Poi c'è il nodo dei danni e dei torti irreparabili: bisogna allora rompere con la logica infernale
della vendetta perpetuata di generazione in generazione. In questo caso il ricorso al perdono fa
fronte alla spirale della vittimizzazione, che trasforma le ferite della storia in impietose
requisitorie. È qui che il perdono confina con l'oblio attivo: non con l'oblio dei fatti, in realtà
incancellabili, ma del loro senso per il presente e il futuro. Accettare il debito non pagato,
accettare di essere e rimanere un debitore insolvente, accettare che ci sia una perdita. Fare sulla
colpa stessa il lavoro del lutto. Ammettere che l'oblio di fuga e la persecuzione senza fine dei
debitori sono frutto della stessa problematica. Tracciare una linea sottile tra l'amnesia e il debito
infinito.l'economia del dono, alla logica di equivalenza dell'economia della giustizia, con i suoi
pesi e le sue misure. A questo proposito, dare più di quanto si deve forma una figura parallela al
dare senza ricevere niente in cambio.
(Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. Il Mulino 2004, pp. 99-119)
Note
1 E Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 19965, trad. it. La stella della
redenzione, Casale Monferrato, Marietti, 1985.2 Si possono seguire, lungo l'intero Essere e
tempo, le molteplici occorrenze del termine oblio. La prima – è il caso del non dimenticare –
compare già nelle prime linee della celebre opera: «Benché la rinascita della "metafisica" sia un
vanto del nostro tempo, il problema dell'essere è oggi caduto nell'oblio» (Essere e tempo, cit., p.
17). Quale oblio? L'inesorabile oblio? L'oblio dell'immemorabile? O semplicemente l'oblio della
negligenza e della fuga?3 Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 8.4
Ricoeur, Tempo e racconto III, cit., cap. VII, § 3.5 Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per
la vita, cit., p. 10.6 Parlando di perdono difficile ho in mente il bel titolo del libro di Domenico
Jervolino: Ricoeur. L'amore difficile, Roma, Studium, 1995.7 In Liebe und Gerechtigkeit / Amour
et justice, Tübingen, Mohr, 1990, trad. it. Amore e giustizia, Brescia, Morcelliana, 2000, per
esempio, avevo contrapposto la logica della sovrabbondanza, tipica dell'economia della giustizia,
con i suoi pesi e le sue misure. A questo proposito, dare più di quanto si deve forma una figura
parallela al dare senza ricevere niente in cambio.8 Essai sur le don, in «L'Année Sociologique», I,
n.s., 1923-1924, pp. 30-186, trad. it. in Id., Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1965,
pp. 135-292.9 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Asthetik III, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970,
pp. 474-488, trad. it. Estetica, Torino, Einaudi, 19972, vol. II, pp. 1360-1361.10
Id., Phänomenologie des Geistes, Hamburg, Meiner, 1988, pp. 466-472, trad. it. Fenomenologia
dello spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 391 ss.11 «Il sì della conciliazione, in cui i due Io
dimettono il loro opposto esserci, è l'esserci dell'Io esteso fino alla dualità, Io che quivi resta
eguale a sé e che nella sua completa alienazione e nel suo completo contrario ha la certezza di
se stesso; – è il Dio apparente in mezzo a loro che si sanno come il puro sapere»; ibidem, p. 415
(sono le ultime parole del cap. VI: Lo Spirito).

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