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Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia

Introduzione Prima parte. Nell'ampia varietà di significati assunti dal termine “nazione”, è
rimasta prevalente la definizione di Nazione Moderna, ossia illuministica e postrivoluzione
francese, ossia di una comunità di individui che abbiano la volontà di condividere un comune
destino civile e politico in uno Stato sovrano che tenda a riconoscere a tutti la piena
cittadinanza di uno Stato di diritto, anche, al limite, a prescindere dall'omogeneità religiosa,
linguistica, culturale o di altro genere. Non che lingua, cultura, costumi, religione, fattori
geografici o territoriali non concorrano ad essere Nazione come fattori identitari di popoli e
comunità. Ma certo è che senza la coscienza e volontà di condividere un comune destino
politico, quelle identità non fanno Nazione moderna, fanno nazionalità. Può anche esistere
una Nazione senza uno Stato, purché però il suo popolo esprima la volontà di crearlo e operi
concretamente a tal fine. L'Italia e la Germania furono per secoli grandi Nazioni (o
nazionalità) linguistiche e culturali, senza che tuttavia nascesse in esse il bisogno e si
operasse per creare uno Stato unificante. Il movimento nazionale italiano quindi divenne
Nazione moderna ancora prima che nel 1861 nascesse lo Stato unitario nel quale si realizzò
l'unità della Nazione politico-istituzionale con quella linguistico-culturale della maggior parte
della penisola. E ciò avvenne per la prima volta con il movimento giacobino e la Repubblica
italiana napoleonica. La Nazione moderna teorizzata dall'illuminismo è quella che tende a
includere tutti i cittadini nell'esercizio dei pubblici poteri, abbattendo le barriere del privilegio
sociale e dell'esclusivismo politico-istituzionale. Per quanto concerne il Risorgimento, ci sono
alcuni punti da tenere a mente. Questo si svolse dal 1796 al 1815 in virtù della spinta di
natura ideologico-politica di un movimento nazionale che si rivelò uno dei maggiori del
continente europeo per forza ideale. Inoltre, lo Stato nazionale unitario ebbe una classe
politica e dirigente molto avanzata, sulla strada della modernizzazione e tendente
all'autoritarismo; non per questo però si deve pensare a una linea di semplice sviluppo tra
idea e realtà di Nazione ottocentesca e nazionalismo novecentesco, tra Risorgimento e
fascismo. In ogni caso, è innegabile lo stacco netto di crescita che il Risorgimento e l'Italia
liberale realizzarono rispetto alla realtà degli Stati preunitari.

Seconda parte​. Si analizzano poi i maggiori aspetti di forza e debolezza della storia
nazionale dell'Italia unita. Quindi lo sviluppo economico, la trasformazione sociale e la
modernizzazione complessiva del Paese. Ovviamente, nei primo 100/120 anni di vita l'Italia
unita non era stata quella potenza politica che i padri del Risorgimento avevano sognato; ma
è stata una potenza invece a livello di sviluppo economico. Si è concordi nel ritenere che il
ruolo dello Stato sia stato in questo periodo il fattore più importante dell'avvio del processo di
industrializzazione in Italia, più importante di quello delle banche e di quello del capitale
straniero, che pure giocarono un ruolo, specie le banche, non certo trascurabile. A ciò si
collega la politica economica del paese. Nella storia dell'Italia unita liberismo e
protezionismo non furono mai adottati per la pura prevalenza di convinzioni dottrinarie, ma
sempre in seguito alla considerazione attenta dell'andamento dei valori delle merci nei
mercati internazionali in rapporto alle condizioni strutturali dell'economia nazionale, alla
competitività della sua offerta e al costo dei suoi bisogni. Il liberismo adottato nel 1861 fu il

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frutto non solo delle convinzioni dottrinarie di Cavour e di Francesco Ferrara, ma anche della
congiuntura dei prezzi agricoli internazionali in continua ascesa che continuò fino agli anni
Ottanta, assicurando all'Italia un andamento commerciale con l'estero tra i più positivi di tutta
la sua storia. Il protezionismo del 1887 fu il frutto della presa d'atto del fatto che
l'industrializzazione italiana non stava decollando.

Parte I. Nazione e Risorgimento

I. Nazione e Stato nella storia d'Italia Nel corso degli anni Ottanta del XX secolo, da un lato i
rivolgimenti politici nell'Europa dell'Est culminati nella dissoluzione dell'URSS, dall'altro la
messa in discussione degli assetti istituzionali di alcuni dei maggiori Stati nazionali,
contribuirono a riaccendere in Italia una forte attenzione per i problemi della Nazione dopo
una fase di disimpegno, fiorita nel secondo dopoguerra. In Italia la sconfitta militare e il
crollo del regime fascista, la caduta della monarchia e l'avvento del regime repubblicano, la
crisi dei partiti risorgimentali e la vittoria della forze che erano rimaste estranee al
Risorgimento avevano impresso una svolta epocale nella vita del Paese. Successivamente, nel
corso degli anni Sessanta e Settanta, col consolidarsi della nuova democrazia industriale, col
progredire del processo di integrazione economica europea, l'affermazione degli ideali
europeisti divenne molto estesa; di conseguenza, gli ideali nazionali registrarono una pesante
perdita. Nella ricerca delle cause della crisi dei valori nazionali e dell'attuale debole
sentimento da parte degli italiani della propria identità collettiva sul piano nazionale e dello
Stato, Pietro Scoppola ha chiamato in causa alcuni connotati della storia dello Stato Liberale
(questione romana, caratteri del movimento operaio e del nazionalismo), la natura non libera
dell'appartenenza di massa realizzata dal fascismo, il carattere di religione politica assunto nel
dopoguerra dal comunismo e dall'appartenenza cattolica. I risultati di queste riflessioni hanno
portato ad alcune conclusioni. La principale è che, se si intende per storia d'Italia la storia
della Nazione italiana e se per Nazione si intende quella comunità che si sia dotata di un
organismo statuale all'interno del quale vivere un comune destino politico, allora la storia
d'Italia inizia, come sostenne Benedetto Croce, solo con lo creazione dello Stato unitario, o al
massimo quando fu formulato un programma politico finalizzato alla sua creazione. In Italia
ciò avvenne per la prima volta durante il triennio giacobino ed è da allora che si può far
datare l'origine del Risorgimento e l'inizio stesso della storia della Nazione italiana. In realtà
per i secoli precedenti si può parlare di storia d'Italia in molti altri sensi, ma se per Italia si
intende la Nazione Italiana, e se per Nazione si intende non una cosa fisica,, ma morale,
allora la storia d'Italia come Nazione ebbe inizio nel Risorgimento. La storiografia più recente
è venuta sempre più avvalorando il fatto che non vi fu mai, dopo il 568 d.c. e prima
dell'Unità, una realtà politico-istituzionale italiana stesa all'intera penisola, ideologicamente
autonoma, voluta e sentita dal popolo, e quindi non vi fu mai Nazione italiana nel senso
moderno del termine. La già ricordata esistenza di uno “spazio politico italiano” come
sistema di rapporti statali interrelati nella penisola si dal basso medioevo fu tutt'altro che
aspirazione unitaria italiana. E neppure fu qualcosa di equivalente a quanto accadde in altri
Paesi europei e segnatamente nelle grandi monarchie di Francia e Inghilterra, ossia la
creazione di uno Stato moderno tendenzialmente unitario e centralizzatore. In Italia col

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fallimento del tentativo prima di Gian Galeazzo e poi di Filippo Maria Visconti, risultarono
bruciate le maggiori possibilità in tal senso, in un contesto in cui il particolarismo politico e la
dimensione regionale degli Stati si radicava come uno dei suoi principali caratteri distintivi. È
per questo che appaiono giustificate le conclusioni di quanti non hanno individuato neppure
nel movimento riformatore settecentesco l'origine del Risorgimento, se non nel senso che,
all'interno dei singoli Stati crebbe un movimento testo a recuperare lo svantaggio accumulato
nei confronti dell'Europa. Ma nessuno di essi si propose di unificare politicamente la
penisola. Nell'area italiana quindi, come nell'area tedesca, Nazione culturale e Nazione
politica rimasero a lungo non coincidenti e indifferenti l'uno all'altra. Fino alla creazione dello
Stato unitario sopravvisse all'interno della più vasta Nazione culturale italiana una pluralità di
Stati indipendenti, non di rado in contrasto reciproco tra loro. Su un altro punto la storiografia
è sembrata convergere, e cioè sul fatto che le piccole Nazioni

politiche preunitarie furono anche in Italia delle Adelsnationen, Nazioni aristocratiche, alla
cui vita partecipava solo una parte ristretta della popolazione. La maggior parte degli
individui non godeva invece pienamente dei diritti. Il Risorgimento, proponendosi di creare
uno Stato nazionale unitario, tese ad eliminare le maggiori limitazioni. Da un lato, infatti,
cercava di creare uno Stato unico. Indipendente e di dimensioni territoriali, rilevanza politica
forza militare paragonabili a quelle degli altri Stati europei; contestualmente progettava di
conferire a tale Stato caratteri che ne facessero un qualcosa di diverso, cercando di far
coincidere i confini territoriali con quelli linguistici e culturali, ed estendendo i livelli di
partecipazione della popolazione alla vita pubblica. Sulla natura dei risultati raggiunti, i
giudizi sono divergenti. 1) Gran parte della storiografia nazionalista vi ha visto un'operazione
politico-diplomatica concepita dall'alto da Cavour e dai Savoia, piuttosto che la realizzazione
di un movimento nazional popolare. Quindi, da un lato, la sottolineatura dell'incompleto
raggiungimento da parte dello Stato Italiano degli stessi confini territoriali della Nazione
linguistico-culturale e la sue debolezza militare e politica su scala nazionale, e all'altro la
denuncia del suo carattere elitario e conservatore e del limitato respiro della sua vita politica e
civile. 2) Al contrario, la storiografia liberale ha mantenuto ferma la visione di quel processo
come prevalentemente originato dall'aspirazione alla piena affermazione politica di una
Nazione Culturale da tempo preesistente. Rosario Romeo scrisse che in Italia si realizzò forse
il più tipico e compiuto dei movimenti nazionali e anche che l'unificazione italiana si pose
come il primo e più macroscopico caso di Nazione culturale che, contro l'asseto
politico-istituzionale esistente, rivendicò il diritto di avere un proprio autonomo ordinamento
politico. Indubbiamente, vi furono territori di lingue e cultura italiane che non entrarono mai
a far parte dello Stato Nazionale (Corsica...) e, per quel che riguarda i caratteri dello Stato,
per vari decenni larga parte della popolazione non godette integralmente dei diritti politici.
Inoltre, l'opinione pubblica meridionale si sentiva solo parzialmente partecipe dei frutti della
vita comunitaria e quindi della vita stessa della Nazione. Patria e libertà, il binomio
all'insegna del quale Mazzini e Cavour avevano guidato il Risorgimento, non furono di tutti.
A ciò si aggiungeva il persistere di particolarismi locali che misero in ombra lo svolgimento
di un regime politico a cui non a torto si è potuto attribuire l'appellativo di democrazia latina.

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È indubbiamente la vita della Nazione Italiana è consistita soprattutto nella difficile ricerca di
un suo pieno svolgimento attraverso l'eliminazione di quei suoi limiti originari, in alcuni casi
riuscendovi del tutto, in altri riuscendovi solo in parte, in altri ancora, come per la questione
del Mezzogiorno, non riuscendovi per la maggior parte. Tuttavia, non sarebbe proficuo
dimenticare i grandi progressi, culturali e materiali, che l'Italia unita ha realizzato rispetto alla
situazioni da cui mosse a metà Ottocento. Al riguardo va osservato che, per quel che concerne
il problema della coincidenza dei confini della Nazione etnolinguistica con quella politica, se
è vero che questa non fu mai completamente raggiunta, è anche vero che questo non è
avvenuto quasi mai nella storia degli Stati nazionali europei e che, anzi, lo Stato Italiano è fra
quelli che più si sono avvicinati alla piena corrispondenza tra confini politico-territoriali e
confini della comunità linguistica. Inoltre, come diceva D'Azeglio all'indomani dell'Unità, gli
italiani “bisognava ancora farli”. Si trattava di una condizione comune a diversi Stati europei;
tuttavia, una fattore di debolezza esclusivo della compagine nazionale italiana fu
l'autoesclusione dalla vita del nuovo Stato della maggior parte del mondo cattolico e delle
gerarchie ecclesiastiche, con tutto quello che ne conseguì in materia di respiro della vita
politica e parlamentare. E specifica della situazione italiana fu anche la persistenza, e anzi
l'aggravamento del divario territoriale Nord-Sud. Questi limiti comunque non furono mai tali
durante tutto il periodo liberale e anche durante il periodo fascista da aprire il varco a
tentazioni e tentativi separatisti. Basterà ricordare le condizioni di grave arretratezza
economica in cui versava il Paese a metà Ottocento, quando era ancora diviso

politicamente; lo sviluppo realizzato nei cinquanta anni successivi e i livelli di benessere


toccati nel secondo dopoguerra; e basterà considerare il ruolo che lo Stato ebbe nell'avvio
dell'industrializzazione del Paese. Movimenti e conati sparatisi insorsero sono all'indomani
della Seconda guerra mondiale e negli ultimi decenni del XX secolo, paradossalmente
quando i motivi di debolezza iniziale della Nazione sembravano ormai superati. È per questo
che tra i fattori di indebolimento del senso di appartenenza alla comunità nazionale ad avere
un ruolo essenziale ad oggi vi sono non quelli originari del Regno d'Italia, ma quelli assai più
recenti dell'Italia Repubblicana: dall'incapacità della classe dirigente degli anni Sessanta-
Settanta di perseguire i grandi obiettivi riformistici, alla radicalizzazione della lotta politica
per opera delle ideologie estremistiche, al disastro di una finanza pubblica messa in ginocchio
da corruzione e assistenzialismo, demagogico e clientelare. In definitiva, l'Italia nacque come
organismo storico vivo e autonomo dall'incontro tra Nazione culturale e Nazione politica, e
nacque in virtù di un atto di volontà politica di straordinaria energia che riuscì a rimuovere
ostacoli che mai nei secoli precedenti erano stati superati. Senza un'identità nazionale
naturale e culturale quell'azione politica non avrebbe avuto materia su cui applicarsi e
probabilmente non sarebbe neppure nata. Tuttavia fu la dimensione statuale a imprimere
l'alito di autentica vita nazionale agli elementi identitaria preesistenti e a far sì che essi
divenissero parte di un organismo che ha poi realizzato le aspirazioni di una potenza media,
afflitta da problemi e fragilità provenienti da secoli di divisione di subordinazione anche
economica, oltre che politica. Se così sono andate le cose, allora è presumibile che il futuro
dell'Italia in quanto Nazione si giocherà sulle capacità dello Stato nazionale di trovare forma

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ed energie sufficienti a recuperare, in veste aggiornata alle esigenze dei nostri tempi, quel
ruolo direttivo e propulsivo che esso fu capace di svolgere sin sale sue origini e che sembra
avere smarrito in misura assai particolarità negli ultimi decenni.

II. Il Risorgimento​: realtà storica e tradizione etico-politica Rosario Romeo, negli anni
Ottanta, a conclusione della sua riflessione sulla nascita della Nazione Italiana, affermò che
l'Unità nazionale raggiunta nel 1861 era stato l'evento di maggior rilievo della storia d'Italia
dalla caduta dell'Impero romano in poi. Prima della nascita del movimento separatista
siciliano e dei disconoscimenti delle istituzioni unitarie da parte della Lega, solo pochi
avevano negato il valore storico dello Stato unitario rispetto alla situazione preunitaria. Negli
ultimi decenni vi è poi stata un'ondata di sentimenti catto-integralisti e neoborbonici da un
lato e leghisti dall'altro. La prospettiva dei rapporti di potenza europei nei quali la partita
dell'unificazione italiana venne a giocarsi è stata progressivamente persa di vista dalla
storiografia italiana, sulla spinta crescente delle dispute sulla natura dello Stato unitario e la
sua storia interna. In realtà la fondazione del Regno d'Italia di Vittorio Emanuele II fu prima
di ogni altra cosa un evento di grande portata nella storia politico-territoriale d'Europa perché
alterò non solo l'equilibrio tra le maggiori potenze continentali raggiunto a Vienna nel 1815,
ma anche il presupposto fondamentale delle guerre per l'egemonia europea dalla fine del XV
secolo in poi: quello della frammentazione politica e militare dell'Italia e della Germania.
Basta ricordare che la storia d'Europa si era sempre svolta nel quadro di una costante assenza
di uno Stato nazionale unitario sia in Germania sia in Italia, dove peraltro esistevano due
Nazioni linguistiche e culturali chiare e forti. La frammentazione politico-militare dell'area
tedesca e di quella italiana era stata la condizione di base di una storia aveva lasciato per
secoli l'egemonia sull'Europa continentale nelle mani della Francia, della Spagna e
dell'Impero asburgico. Dalla discesa di Carlo VIII (seconda metà 1400) in poi l'Italia era stata
controllata dalle maggiori potenze europee. Il peso degli stati italiani nella storia d'Italia e del
mondo era declinato così progressivamente. Col Congresso di Vienna (1815), confermata
anche la fine della repubblica di Venezia, già entrata col

trattato di Campoformio a far parte dei domini della dinastia asburgica, quel peso era
divenuto di terzo e quart'ordine. Non molto diversa la situazione della Germania, che rimase
frammentata in una miriade di Stati contro ogni tentativo centralizzatore degli Asburgo. La
pace di Westfalia del 1648 aveva consacrato a livello del neonato concerto delle potenze
europee la suddivisione di fatto della Germania in oltre 300 Stati autonomi. A fronteggiare la
forza egemonica della Francia di Richelieu e Mazzarino così, maggiore vincitrice della
Guerra dei trent'anni, erano rimaste le armate degli Asburgo d'Austria e quelle degli Asburgo
di Spagna. Le paci Utrecht e Rastad (1713-1714) che segnarono l'ingresso degli Asburgo
d'Austria nella penisola italiana, sancirono anche la fine della Spagna come potenza in lizza
per l'egemonia sul continente europeo. Per tutto il settecento, e fino alla sconfitta di
Napoleone I, l'egemonia continentale era stata quindi contesa tra Francia e Austria. Per
raggiungere l'unità politica in Italia furono inevitabili tre guerre d'Indipendenza, senza
considerare la Prima guerra mondiale, e in Germania due. E non per caso furono combattute
contro le due potenze che dal Settecento in poi si erano contese l'egemonia continentale:

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l'Austria e la Francia. Per quanto riguarda l'Italia, nell'Ottocento nessuna grande potenza
europea era veramente interessata alla sua unità politica, neppure la Francia di Napoleone III,
che pure nel 1859 scese in guerra a fianco del Piemonte contro l'Austria e diede il via agli
eventi che si conclusero con la formazione dello Stato unitario. In realtà il disegno del
sovrano bonapartista, prospettato in via informale a Cavour nell'incontro di Plombières del
1858, era volto ben altro che a creare uno Stato nazionale unitario in Italia; esso tendeva in
realtà a rilanciare in Italia e in Europa l'imperialismo bonapartista battuto nel 1815 a
Waterloo. Napoleone III mirava alla creazione di un regno dell'Italia centrale formato dal
Granducato di Toscana, dai ducati padani e dalla parte settentrionale dello Stato pontificio,
lasciando al papa un limitato territorio intorno a Roma. Il nuovo regno si sarebbe potuto
assegnare a un principe bonapartista, al cugino Gerolamo Napoleone che sposò la principessa
Clotilde figlia di Vittorio Emanuele II. L'uomo di Plombières quindi non mirava alla
creazione di uno Stato nazionale italiano, ma all'estromissione dell'Austria dall'Italia e alla
riorganizzazione della penisola in quattro stati protetti dalla Francia. Il che significava per
l'appunto la fine dell'egemonia austriaca nella penisola, sostituita da quella francese. Il
rilancio dell'imperialismo francese nella penisola era del resto la sola cosa che più di tutte
temeva il governo inglese, il quale non appoggiò mai concretamente la causa italiana, se on a
spedizione dei Mille conclusa, proprio perché temeva un cambiamento degli equilibri stabiliti
a Vienna. L'Unità d'Italia, oltre che da parte dei sovrani degli antichi Stati della penisola, fu
osteggiata anche dal contesto europeo. Ciò avvenne anche per un'altra ragione, oltre a quella
dell'interesse delle grandi potenze a conservare i propri domini. Tale ragione stava nell'ostilità
che le tre maggiori potenze conservatrici dell'Europa continentale, con l'Austria in testa,
avevano verso la forma di ordinamento politico che il movimento nazionale italiano si
prefiggeva di adottare, fosse quello democratico-repubblicano di Mazzini o quello
liberal-costituzionale di Cavour. Era quindi l'Europa dei sovrani assoluti che si sentiva
mortalmente minacciata. Se poi in Italia avesse avuto successo il disegno mazziniano di
un'Europa dei popoli basata sull'indipendenza politica della nazionalità etnico-culturali, allora
sarebbe stato a serio rischio di deflagrazione lo stesso Impero asburgico e la Russia avrebbe
potuto essere privata del dominio sulla Polonia. Lo scontro, insomma, del movimento
nazionale italiano con la superpotenza austriaca e con l'Europa assolutistica fu si estrema
durezza, e la realizzazione dell'Unità d'Italia fu il risultato di un concorso straordinario di
forze politiche e correnti ideali, anche in contrasto tra loro, ma confluenti per autonome
strade nell'obiettivo dell'indipendenza e dell'Unità di una Patria dotata di uno Stato
costituzionale, liberale, o democratico che fosse. Cavour, dal canto suo, seppe
strumentalizzare la spinta dal basso del movimento nazionale in tutte le sue componenti,
soprattutto quella democratico-mazziniana, presentando alle grandi potenze europee la
situazione italiana come un

potenziale pericolo di sovversione politico-sociale nell'intera Europa. Nel realizzarsi di


questo capolavoro un ruolo fondamentale giocarono le superiori capacità
politico-diplomatiche del conte di Cavour; tuttavia, senza la spinta del movimento nazionale
galvanizzato della diffusione degli ideali di para e libertà a opera di Giuseppe Mazzini e le

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aspirazioni di casa Savoia, l'abilità diplomatica del Conte non avrebbe avuto spazio nel quale
muoversi e materia sulla quale operare. Fu invece in nome di quegli ideali, alla costruzione
dei quali lo stesso Cavour contribuì, che gli italiani, dopo secoli di indifferenza e subalternità
politica, trovarono il coraggio di battersi e morire per la propria Nazione. Allo Stato molte
critiche furono rivolte sin dall'indomani dell'Unità per via del carattere elitario e conservatore
dei suoi ceti dirigenti e per via dell'esclusione dalla vita politica della maggior parte delle
masse popolari, in forza di un sistema elettorale nel quale aveva diritto al voto solo il 2%
della popolazione. A metà Ottocento, il Regno d'Italia, pur con il suo sistema elettorale
censitario, offriva uno dei pochi esempi di ordinamento politico-costituzionale e
rappresentativo del continente europeo e realizzava un regime di libertà di opinione e di
espressione che negli stati preunitari non esisteva affatto. Nell'Italia preunitaria solo il Regno
di Sardegna ebbe un regime monarchico-costituzionale dal 1848. Tutti gli altri Stati rimasero
fino alla fine retti da regimi politici assoluti. Fra questi, quello borbonico, assieme a quello
pontificio, era ritenuto dall'opinione pubblica europea il più chiuso e reazionario. Il Regno
d'Italia nato nel 1861 dunque dava corpo, nell'unica forma allora possibile, alla tradizione
etico-politica, del Risorgimento, realizzando anche il nucleo di base dell'ideologia mazziniana
di uno Stato nazionale unitario che prima non esisteva. Il progresso realizzato nel 1881 non fu
peraltro limitato al solo aspetto politico-istituzionale, ma si estese a tutti i più importanti
aspetti della vita sociale ed economica. In seguito all'avvento dello Stato unitario l'intera
realtà storica della penisola registrò un cambiamento profondo nel ritmo dello sviluppo
economico e della trasformazione sociale grazie all'avvento di nuovi e più moderni istituti
giuridici ed economici e all'affermarsi dell'ideologia della libera impresa, favorita dal uno
Stato che era sorto nel nome della libertà politica, della modernizzazione sociale e civile e del
progresso economico. In particolare con la nascita del nuovo Stato furono poste le premesse
istituzionali, giuridiche e materiali, per avviare anche nella penisola quel processo di
industrializzazione che nella prima metà dell'Ottocento stava cambiando la storia economica
e sociale dell'Europa e difronte al quale gli stati preunitari erano rimasti inerti. Nella penisola,
nel Nord come nel Mezzogiorno, esistevano nel 1861 un certo numero di singole industrie e
stabilimenti e una rete diffusa di lavoranti a domicilio di prodotti tessili e di artigianato per il
fabbisogno familiare e per le rete di mercanti imprenditori che mediava con i mercati cittadini
interni ed esteri. Non esisteva però in nessuna regione un sistema industriale nell'accezione
autentica del termine; in Italia era l'agricoltura ad avere tra il 60 e il 70% del totale degli
occupati. Gli addetti all'industria in senso stretto in tutta Italia, ancora nel 1874, non
raggiungevano le 400.00 unità su una popolazione vicina ai 28milioni. Ma esistono altri dati;
in Italia intorno al 1861 erano istallati 450.000 fusi per la filatura del cotone. Nello stesso
tempo in Inghilterra ce n'erano 30milioni. Nella produzione siderurgica, 20mila tonnellate di
ferro prodotte annualmente dall'Italia avevano in Inghilterra un corrispettivo di 3.700.000
tonnellate. L'irrilevanza dell'industria in senso stretto in tutta Italia era chiara, al Nord non
meno che al Sud. Mentre il Piemonte costruiva una rete ferroviaria di livello europeo, in
Abruzzo, i Puglia, in Basilicata e in Sicilia non c'era un solo chilometro di ferrovia. I pochi
binari esistenti nel Mezzogiorno erano tutti a Napoli. All'alba dell'Unità, in Italia solo il
Piemonte manteneva dei ritmi europei, e il Regno delle due Sicilie restava indietro, con poco

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più di 100km di binari, contro i quasi 700 del Piemonte, gli oltre 9mila della Francia e i
14mila dell'Inghilterra. Inoltre, mentre in Italia nel 1861 l'analfabetismo raggiungeva il 75%
della popolazione in età scolare, in Inghilterra e in Galles era solo del 30%, in Francia del
40%, i Scozia del 20% e in Svezia solo del 10%.

Sia la politica interna, specie in tema di tenuta dell'ordine pubblico, sia a quella economica
attuata all'indomani dell'Unità, furono mosse critiche molto aspre dalle forze di opposizione.
Il Mezzogiorno fu trattenuto nello Stato unitario solo grazie alla dura azione repressiva della
gigantesca ondata di brigantaggio che impegnò per anni l'esercito piemontese. Fu una
repressione durissima, si parla di oltre 100mila morti, vittime di una guerra civile combattuta
tra meridionali e piemontesi. In realtà fu uno Stato chiamato a fronteggiare una sollevazione
che metteva in pericolo la sua stessa esistenza e per ragioni che solo per la minor parte
potevano essere addebitate all'unificazione. Certo tra le cause del brigantaggio vi furono
ragioni economiche e politiche recenti (soprattutto l'insofferenza per la leva militare
obbligatoria e per un sistema fiscale molto più oneroso di quello del regime borbonico).
Quasi per nulla però vi incise la crisi delle produzioni artigianali e manifatturiere colpite dalla
concorrenza estera in seguito all'adozione del liberismo commerciale. Il brigantaggio fu
fenomeno rurale e contadino che nasceva da problemi antichi nei rapporti sociali nelle
campagne e che anzi sulle prime fu esso a rendere la vita difficile alle attività manifatturiere e
artigianali per le gravi difficoltà che creò alle comunicazioni e ai traffici di merci e prodotti di
ogni genere. La ragione prima del brigantaggio che si presentò subito come guerra civile
combattuta da meridionali contro altri meridionali, fu il grande malessere generato dalla
miseria di una popolazione in rapida crescita e affamata di terra, che, nel passaggio da un
regime all'altro ritenne di poter attaccare il ceto dei galantuomini, colpevoli di aver usurpato
per decenni le terre. La prima e più potente causa del brigantaggio non fu quindi politica e
antiunitaria, ma sociale, figlia di un malessere che veniva da lontano. Era un problema
risalente almeno all'epoca dell'abolizione della feudalità, realizzata a Giuseppe Bonaparte nel
1806 e poi confermata dal governo borbonico. Da allora si era sviluppata una pervicace
azione della borghesia terriera volta all'accaparramento di terre a danno di contadini poveri.
Ne era scaturito nella campagne un odio feroce tra cafoni e galantuomini. I reati commessi ai
briganti nel solo 186 dicono di furto o abbattimento di quasi 11mila e nel 1864 di quasi
12mila capi di bestiame; questi non appartenevano all'esercito italiano, ma a proprietari e
agricoltori meridionali i quali chiedevano di ristabilire l'ordine pubblico al nuovo Stato e non
più alla dinastia borbonica nella quale avevano smesso da tempo di credere. È questo il punto
decisivo nella valutazione storica del brigantaggio. Esso fu un movimento di ribellione
sociale che a livello di obiettivi politici, fin quando ne espresse, ossia fin verso la fine del
1861, proponeva puramente la restaurazione della dinastia borbonica, ossia quella dinastia
che aveva relegato in Regno delle Due Sicilie nelle condizioni politiche, sociali ed
economiche poc'anzi analizzate. E non c'è alcun dubbio che al Mezzogiorno non convenisse
tornare a quello stato di cose. Sarebbe impossibile negare che il superamento dell'arretratezza
e della miseria della maggior parte della popolazione richiese in tutta la penisola tempi
lunghi. La lotta all'analfabetismo nel Mezzogiorno si dimostrò molto più difficile di qual che

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avevano creduto coloro che, durante il Risorgimento, avevano visto il fenomeno soprattutto
come il prodotto della volontà dei ceti privilegiati e delle classi dirigenti preunitarie di
mantenere nell'ignoranza le plebi per meglio sfruttarle. Lo Stato unitario si dimostrò
incapace, tanto che la differenze di percentuale degli analfabeti tra Mezzogiorno continentale
e Settentrione nel 1921 era ancora di 31.8 punti percentuali contro i 24.8 del 1861. E tuttavia
non si può dimenticare che, in assoluto, nello stesso arco di tempo gli analfabeti nell'Italia
intera scesero dal 75% al 29% della popolazione in età scolare, e che lo stesso Mezzogiorno
continentale vide la propria quota percentuale diminuire dall'86% del 1861 al 46% del 1921.
Lo squilibrio territoriale tra Nord e Sud in termini di reddito pro capite e di importi indicatori
della vita civile risulta ancora oggi più ampio di quello esistente al momento dell'Unità. Se le
antiche tradizioni comunali e contadine si sono dimostrate per un verso un punto di forza
nella nostra storia nazionale, per un altro verso i localismi hanno costituito anche un punto di
fragilità.

E tuttavia la maggior parte della storiografia riconosce che le scelte di politica economica
adottate dallo Stato si dall'indomani dell'Unità furono decisive per l'avvio di un processo di
industrializzazione e di complessiva modernizzazione che comunque fu più rapido di quello
realizzato dai regimi preunitari. L'assoluta mancanza di carbone fossile a elevato tenore
calorico costituì almeno fino alla fine del XIX secolo un handicap energetico formidabile per
l'Italia, e tuttavia la politica agricola e commerciale della Destra Storica fu in grado di
favorire in agricoltura grandi profitti che furono impiegati nel più grande sforzo di
infrastrutturazione che l'Italia ricordi: nel giro di un trentennio fu costruita l'intera rete
ferroviaria nazionale a binario unico. E alla vigilia della Prima guerra mondiale nel
Mezzogiorno c'era lo stesso numero di km di ferrovie per abitante esistente nel Nord; la sola
differenza era di tipo qualitativo, non quantitativo. Le ferrovie furono non solo il principale
mezzo di trasporto dell'intera economia nazionale, ma anche uno dei prerequisiti
fondamentali per l'industrializzazione. Fu uno sviluppo industriale che rimase a lungo
concentrato nelle regioni più attrezzate e avanzate; il Mezzogiorno invece rimase
sostanzialmente emarginato. Va tenuto nel debito conto che nell'insieme l'industrializzazione
italiana non risparmiò alla popolazione dell'intera penisola l'imponente ondata migratoria
dell'età giolittiana e a quella meridionale anche l'esodo del secondo dopoguerra. Quanto alle
regioni settentrionali, non va dimenticato che esse riuscirono ad avviare un processo di
industrializzazione solo dopo essere entrate a far parte in posizione egemone di un grande
mercato nazionale comprendente il Mezzogiorno. La verità è che lo Stato unitario anche sul
piano economico e sociale, e sia pure in modo territorialmente disuguale, segnò per tutti una
svolta fondamentale nella vita economica e sociale. Le Nazioni sono organismi viventi che
nascono, crescono e possono anche morire, e cominciano a morire quando perdono l'esatta
cognizione delle ragioni e dei valori ideali e materiali per i quali nacquero.

III​. Una “protonazione” monarco-artistocratica: la Nazione napoletana La storia del Regno di


Napoli è stata un'autentica storia nazionale o soltanto la storia dei sovrani nella parte
meridionale della penisola italica dall'età normanno-sveva fino all'Unità? Tra le risposte
fornite, quelle incisive sono due: quella di Benedetto Croce del 1925 in “Storia del Regno di

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Napoli” e quella di Giuseppe Galasso in una serie di studi. Le due posizioni interpretative, se
pur divergenti tra loro, concordavano tuttavia nell'assunto fondamentale che una Nazione
napoletana era esistita. La risposta di Croce parte dal presupposto che una nazione non è una
cosa fisica, ma una personalità morale, una coscienza, e questa volontà e coscienza non si
formarono davvero nell'Italia meridionale se non nel moto spirituale del quale Giannone
(filosofo illuminista a cavallo tra 1600 e 1700) fu tra i primi e principali autori; tutto ciò ce
era avvenuto prima non poteva, dunque, essere inteso come autentica storia nazionale. Solo
nel Settecento quindi il ceto intellettuale, rivendicando, a partire proprio da Pietro Giannone,
la piena sovranità dello Stato rispetto alla Chiesa, aveva assunto una funzione di questo tipo,
avviando un processo di aggregazione delle forze più vive e consapevoli del Regno intorno a
un grande obiettivo di carattere nazionale. Carattere nazionale che a Croce sembrava
connotare l'intera opera dell'intellettualità riformatrice meridionale, non solo per l'altezza dei
valori culturali ed etico- politici di cui essa era portatrice al cospetto dell'Europa, ma anche
per aver dato avvio alla definizione dei caratteri della propria identità nazionale e la premessa
indispensabile per qualunque azione di riscatto delle proprie debolezze. Non mancarono
manifestazioni di dissenso dalle pagine crociane. D'altro canto le critiche più avvedute e
incisive non ebbero mai l'intenzione di porre in dubbio l'enorme portata del salto di qualità
che l'opera di Croce aveva compiuto rispetto alla precedente storiografia sul Mezzogiorno in
Italia. Organizzando la storia meridionale dall'età normanno-sveva alla sua confluenza nella

storia dell'Italia unita intorno a un polo di riferimento forte e univoco, il filosofo abruzzese le
aveva conferito una lettura mai conosciuta prima. Tra le riflessioni storiografiche
postcrociane di carattere generale quelle di Giuseppe Galasso si collocano tra i livelli più alti.
La posizione di Galasso fu infatti diversa da quella di Croce. Riconosciuta la grande portata
metodologica dell'assunzione del concetto di storia nazionale quale chiave di lettura della
storia meridionale e grande e il grande avanzamento così realizzato rispetto alle precedenti
letture, Galasso trovava però problematico accettare tutte le conclusioni di Croce era
pervenuto, soprattutto quella centrale, che identificava nel ceto intellettuale settecentesco
l'unica forza attiva capace di qualificare come autenticamente nazionale la storia del Regno.
Per quanto la vicenda storica meridionale precedente il movimento illuministico si
presentasse priva di un centro egemonico indiscusso, a Galasso appariva però impossibile
accettare una riduzione di quei cinque secoli di storia a poco più che un lungo prologo
all'avvento di quel ceto intellettuale. Esaminando i caratteri e il ruolo politico svolto da quel
ceto, a Galasso sembrava che in realtà esso non avesse avuto una posizione egemone come
quella attribuitagli da Croce. Del resto, una volta realizzata l'unità d'Italia, quel ceto non si era
dimostrato capace di conservare sul piano della cocreta azione politica quel ruolo di forza
egemone della società meridionale avuto nel riformismo settecentesco e nel Risorgimento.
Gli stessi successi del periodo bonapartista e dell'unificazione furono ottenuti con l'apporto
non secondario di forze esterne. In definitiva Galasso riconosceva che il ceto intellettuale
indicato da Croce aveva effettivamente svolto un ruolo di primo piano; tuttavia, non gli
sembrava che avesse avuto caratteri sufficienti per egemonizzare quello stesso processo, al
punto da costituirne l'unica chiave interpretativa. Ma soprattutto, secondo Galasso, la storia

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presettecentesca del Regno, a partire dall'età normanno-sveva, non poteva essere vista, come
proponeva Croce, come estranea agli interessi e ai sentimenti della popolazione meridionale.
Quindi la storia meridionale nei sette o otto secoli di unità che precedettero il 1860 andava
giudicata non sol piano di una storia regionale, ma con il metro di una vera e propria storia
nazionale. Le osservazioni mosse da Galasso alla tesi di Croce apparvero fondate e trovarono
largo consenso, meno concorde fu invece il giudizio sulla parte propositiva delle
“Considerazioni”, quella relativa all'esistenza di una Nazione e di una storia napoletana
propriamente nazionale. Lo stesso Rosario Romeo, che pure condivise le osservazioni mosse
a Croce, trovò non del tutto coerente il recupero del carattere nazionale della storia del
Mezzogiorno fatto da Galasso a conclusione del suo saggio, priorio in virtù di tutti gli
elementi di fragilità della storia meridionale ricordati dallo storico stesso. Romeo quindi
affermò che allo stato delle conoscenze allora disponibili non si poteva parlare per l'Italia
meridionale preunitaria né di Nazione politica nel senso moderno, né di Nazione culturale.
Per la verità nelle “Considerazioni” di Galasso l'affermata esistenza di una Nazione
napoletana veniva presentata con una serie di distinguo da non sottovalutare. Nel
Mezzogiorno, dove una nazione non era mai maturata, ma aveva sempre rappresentato una
possibilità, la nazione si era venuta atteggiando attraverso il tempo come una realtà
composita. È quindi evidente che Galasso utilizzava un concetto di Nazione a metà strada tra
quello di matrice ottocentesca basato su una componente etico-politica e quello regionalistico
basato su fattori naturalistici e culturali, che costituiva il fattore essenziale del concetto di
Nazione di Croce o Romeo. Un concetto, quello di Galasso, che cercava di ricomprendere le
molte peculiarità e i paradossi della storia di un organismo statuale sorto per opera di
conquistatori stranieri, e quindi da uno stato di debolezza interna e disgregazione delle sue
componenti regionali e politiche singolarmente prese. Questo concetto di Nazione e la storia
del suo svolgimento configurati da Galasso potrebbero essere qualificati con l'aggettivo di
protonazionalistici. Scrive infatti Galasso che «di nazione si parla, in questo caso, nello stesso
senso in cui se ne parla e se ne può parlare per l'intera Europa

prima del secolo XIX. Se ne parla cioè come di una realtà etico-politica, alla quale soltanto
gli svolgimenti posteriori avrebbero conferito l'autentico carattere nazionale proprio
dell'Europa post- illuministica, ma della quale la stessa posteriore storia nazionale avrebbe
utilizzato a fondo i ben radicati e molteplici elementi». Sino ad ora, però, non si era mai avuta
una sintesi di storia del Regno di Napoli che, muovendo dai presupposti concettuali formulati
da Galasso, costituisse un profilo storico se non alternativo, certo diverso e più inclusivo di
fattori costitutivi nazionali rispetto alla sintesi di Benedetto Croce. Tuttavia, nel 1992 con un
volume sul Regno di Napoli in età angioiana e aragonese, inserito nell'ambito della “Storia
d'Italia” da lui stesso diretta per la casa editrice UTET, lo storico Galasso cominciò a
rispondere a tale esigenza. Si tratta di un'opera che si riallaccia senza circonlocuzioni alla
parte più significativa del discorso aperto a suo tempo nelle “Considerazioni” e sviluppato
nell”Italia come problema storiografico”, e propone una lettura della storia del Regno che
tenta di verificare quanto la storia della Nazione meridionale intesa in tutta la sua complessa
articolazione di caratteri possa dirsi autentica storia nazionale. Si tratta di un grande spazio di

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riflessione, informato all'idea centrale che la lenta gestazione della nazione napoletana sia il
soggetto effettivo della storia del Regno nei due secoli che seguirono il Vespro siciliano. Una
posizione quindi radicalmente diversa da quella di Croce. La diversa dimensione dell'opera di
Galasso da quella di Croce deriva soprattutto dai criteri interpretativi adottati da Galasso,
criteri che, rigettando l'ipotesi della centralità degli intellettuali settecenteschi e rivendicando
un carattere per diversi aspetti nazionale già alla monarchia normanno-sveva, implicavano
un'analisi articolata dell'intreccio di fattori da cui scaturì la storia delle regioni del
Mezzogiorno d'Italia dal momento in cui esse furono inserite in un unico Stato, da sempre
visto da Galasso come la conditio sine qua non ​dell'esistenza di una comunità nazionale. Alla
domanda di fondo se si possa parlare di una Nazione napoletana in epoca angioina la risposta
di Galasso è positiva. È sostanzialmente rivisto il giudizio di Croce, per il quale si era trattato
invece di un'esperienza storia durane la quale nessuna forza aveva assunto il ruolo di fattore
traente di una politica nazionale e si era anzi registrato un decadimento dell'autorità della
monarchia, al punto da poter parlare di una storia dei sovrani e del Regno in quanto istituto
politico, distinta da quella civile degli abitanti. L'analisi degli istituti dell'amministrazione
centrale e periferica, della configurazione e della dialettica di gruppi di potere, classi sociali,
istituti locali, dell'evolversi della struttura economica del Regno, porta Galasso a concludere
che in età angioina si consolidano nella dimensione napoletana tutti glieli elementi di
carattere unitario e nazionale che erano stati avviati dalla monarchia normanno-sveva. Da ciò
conseguiva la correzione del tradizionale giudizio fortemente negativo sull'età angioina,
intesa come periodo di decadenza specie dopo il passaggio da Roberto a Giovanna; secondo
Galasso invece fu proprio con Giovanna che la dinastia si napoletanizzò, e si instaurò una
dialettica con il popolo che in seguito costituì una base di aggregazione di lavori. La
formazione di una vita nazionale del Mezzogiorno prese quindi le mosse; inoltre, non si può
non concordare con Galasso sul fatto che a partire dall'età angioina si cominciò a parlare, nel
linguaggio corrente, di Regno di Napoli, e non più di Sicilia, e che questa nuova
denominazione corrispose non solo a un assetto politico-istituzionale, ma anche a una
configurazione di rapporti sociali e una qualità della vita civile in gran parte rinnovata. Non
regge per Galasso lo stereotipo di una amministrazione angioina inefficiente. Né si può
negare che sempre in questo periodo assunse per la prima volta consistenza quel ceto forense,
civile, che fu uno dei cardini della successiva stria dello Stato e della società meridionale.
Inoltre, la monarchia angioina restava sempre una monarchia feudale. Fattore determinante
nella storia del Regno rimase quindi il baronaggio, anche quando sembrò aver subito sconfitte
gravi come quelle del periodo aragonese. In teoria esso avrebbe potuto

costituire un polo di aggregazione nazionale in concorso o in alternativa con altri soggetti


politico- sociali della storia del Regno. Croce non ci aveva visto che un fattore di turbolenza
anarcoide, di instabilità dell'ordine pubblico. Lo stesso Galasso rileva che il gioco politico
attorno alla corte finiva per ridursi alla perenne messa in discussione delle legittimità e delle
prospettive della dinastia e dei sovrani regnanti. Lo stesso avviene sul piano economico, sul
quale proprio in età angioina e aragonese prese corpo quel rapporto di sudditanza nei
confronti dell'Italia settentrionale che avrebbe visto consolidarsi la vocazione

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agricolo-commerciale del Regno in rapporto allo sviluppo manifatturiero del Nord.
L'economia del Regno ne sarebbe risultata alla lunga indebolita rispetto a quella del Nord,
tuttavia il suo sviluppo agricolo-commerciale costituì un fattore di potente integrazione di
strutture produttive e di estese aggregazioni di interessi che si sarebbero rivelate di
lunghissimo periodo nella storia del Mezzogiorno e d'Italia. Il discorso di Galasso sulla
gestazione della Nazione napoletana trova dunque elementi di supporto sufficienti per poter
riconoscere la nascita con angioini e aragonesi di una Nazione Napoletana (meridionale,
senza la Sicilia) con i carattere di una Nazione di privilegiati, fondata però da una monarchia
di origine straniera. Fu una Nazione che rimase afflitta da grosse debolezze e fragilità interne
che non la portarono mai ad assumere la coesione e la forza politica e militare internazionale
a cui assunsero le grandi Adelsnationen europee, e soprattutto fu una Nazione che non si aprì
al respiro della modernità. Sono queste le coordinate entro le quali Galasso guarda alla
Nazione napoletana come a uno dei mosaici minori del più grande mosaico della nazionalità
italiana, le cui vicende non vanno concepite come un lungo prologo a una inevitabile unità
successiva. E in effetti l'Unità d'Italia era tutt'altro che scontata in un contesto peninsulare in
cui l'autonomia politico-militare degli antichi Stati rimase completa fino alla fine e in un
contesto internazionale in cui nessuna potenza europea era interessata alla nascita di uno
Stato nazionale italiano. Proprio per questo riesce difficile seguire Galasso nel ritenere che
quei mosaici minori nel più grande mosaico della nazione italiana configurino una storia
comune degli Italiani attraversi i secoli, che è qualcosa in più della semplice “storia di una
comunanza di lingua, di cultura, di arte, o più in generale della civiltà”. Difficile se per quel
qualcosa di più si volesse intendere una qualche forma sia pure parziale di volontà
politico-istituzionale comune negli abitanti della penisola prima della fine del Settecento e
della nascita del movimento giacobino. Il piano delle Nazioni preunitarie e quello della
moderna Nazione non sembra che trovino possibili punti di contiguità politica. I tratti di
contiguità non possono che restare linguistici, culturali artistici, peraltro potenti fattori
costitutivi dell'identità nazionale italiana anche se patrimonio di solo ristrette élites a fronte di
una frammentazione dialettale di massa che si sarebbe rivelata assai dura a morire.
L'integrazione economica costituì a sua volta nel Due-Trecento un terreno di scambio di
valori materiali e professionali consistenti, anche se fu un'integrazione che avveniva nel
contesto di un sistema di scambi controllato dalle città italiane dl Nord e che comprendeva
l'intero Mediterraneo. Un'integrazione che peraltro a partire dalla fine del Cinquecento
cominciò a rompersi, e non diede mai origine a spinte unitarie. Ma se parliamo invece di
Nazione politica, sia pure nel senso di protonazione di privilegiati, come quella napoletana,
con una sua spiccata individualità rivendicata, allora non è possibile individuare come essa
sia stata politicamente legata a quella veneziana o fiorentina o milanese, più che a quella
francese, aragonese o austriaca.

Parte II – Sviluppo economico e Mezzogiorno

I. Il dibattito sullo sviluppo economico dell'Italia liberale nel secondo dopoguerra La


pubblicazione del “Capitalismo nelle campagne” di Emilio Sereni e quella del
“Risorgimento” di Antonio Gramsci impressero nella storiografia italiana del secondo

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dopoguerra una svolta di fondamentale importanza. Quegli scritti avevano ripreso il filone dei
processi al Risorgimento avviati dai democratici nell'Ottocento a processo unitario appena
concluso. La tesi di Gramsci è nota: il Risorgimento aveva rappresentato una grande
occasione storica er la democrazia italiana, che avrebbe potuto allora realizzare la sua
rivoluzione attuando i Italia una strategia politica ispirata a quella dei giacobini francesi che
nella Grande Rivoluzione avevano coinvolto i contadini assegnando ad essi le terre confiscate
ai nobili, creando così una struttura della proprietà fondiaria basata sulla piccola proprietà su
scala familiare. La forza politica che nel Risorgimento avrebbe dovuto realizzare una simile
operazione era la sinistra democratica e i particolare il Partito d'azione mazziniano. Secondo
Gramsci con la rivoluzione agraria si sarebbe evitata la vittoria liberalconservatrice di
Cavour, chiuso il contrasto tra città e campagna che aveva caratterizzato l'intera storia
dell'Italia dal Medioevo in poi, e fatto dell'Italia nascente una democrazia. Anche Gobetti
aveva parlato di rivoluzione liberale assente o irrilevante sul piano degli ordinamenti politici
e civili e su quello dei rapporti con la religione e la Chiesa, e quindi di un Risorgimento senza
eroi. Tuttavia, Gramsci indicava assai più nel dettaglio la strategia politica alternativa (la
rivoluzione agraria) e le forze sociali coinvolgibili in quel disegno (piccola borghesia,
intellettuali, contadini); e Sereni sviluppava a sua volta un'analisi estesa e articolata delle
strutture economiche e sociali delle campagne italiane, mettendo in luce la loro persistente
arcaicità con l'estesa sopravvivenza di residui feudali, la loro povertà e situazione stagnante:
tutte cose che nel 1860-1861 si sarebbero potute superare con la creazione di una struttura
sociale basata sulla piccola proprietà contadina, la quale avrebbe riscattato il Mezzogiorno
dalla piaga del latifondo e dei residui feudali. La storiografia liberale aveva liquidato, con
Croce, l'ipotesi gramsciana come un'operazione metastorica con la quale si giudicava il
Risorgimento italiano alla luce di un astratto ideale politico e istituzionale, e finalizzata
strumentalmente alle esigenze di lotta del partito comunista. Nessuno però aveva affrontato il
problema dell'ipotetica superiorità funzionale dell'economia agricola su base familiare ai fini
dello sviluppo capitalistico dell'Italia, tema che in Sereni più che Gramsci aveva sviluppato.
La conseguenza di tale atteggiamento della storiografia liberale era stata che la linea di
pensiero gramsciana era divenuta un fiume i piena e che non incontrava ostacoli nella cultura
dell'Italia del dopoguerra. Nell'Italia del secondo dopoguerra la validità politica di un'alleanza
tra operai e contadini appariva a molti come il rimedio più efficace per far recuperare alla
storia del nostro Paese tutto il terreno perduto sulla strada dello sviluppo politico istituzionale
ed economico a causa del peccato di origine della mancata rivoluzione agraria del
Risorgimento. A Romeo non sfuggì né l'importanza culturale né quella ideologica-politica
dell'offensiva marxista. Non ultima lo spingeva l'esigenza sempre meno procrastinabile di
definire nel quadro della nascente democrazia industriale una strategia politica
meridionalistica da contrapporre a quella rivoluzionaria marxista, sia a quella
populistico-qualunquista delle destre laurine, sia a quella dei tempi lunghi della destra
liberale. Per questi motivi a metà degli anni Cinquanta Romeo decise di affrontare le tesi
gramsciane con tutta l'attenzione che esse meritavano, sia sul piano della storia politico sia su
quello della storia economica. Furono cioè motivazioni di difesa di una realtà storica e di un
patrimonio etico-politico a fargli pubblicare nel 1956 nella rivista “Nord e Sud” la nota

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rassegna della storiografia marxista italiana del secondo dopoguerra, nella quale egli effettuò
una disamina puntuale dei più importanti lavori storici di quella scuola e sottopose a critica
sistematica la validità interpretativa dell'ipotesi rivoluzionaria di Gramsci e Sereni.

La riflessione di Romeo sullo sviluppo economico italiano ebbe inizio quindi nel fuoco di una
polemica storiografica al cui sviluppo e conclusione l'analisi economica poteva are un
apporto decisivo. È significativo al riguardo che Romeo nel saggio del 1956 riferisse la sua
confutazione di fondo anzitutto a Gramsci, e questo perché l'aspetto più significativo di tutta
la questione per Romeo restò sempre quello politico, e sul piano della valenza politica gl
iscritti di Gramsci facevano tendenza ben più di quelli di Sereni. Nel saggio del 1956
riguardo l'attuabilità politica della rivoluzione agraria Romeo non negò he nel 1859-60 le
masse contadine della penisola fossero effettivamente attratte dall'obiettivo di una spartizione
delle terre. Aggiunse però che tale mobilitazione avrebbe trovato l'opposizione non solo dei
latifondisti e della borghesia agraria, ma anche e soprattutto quella centrosettentrionale che
costituiva la parte più avanzata e importante del Paese. Quel che sembrava sicuro a Romeo
era che il concerto delle potenze europee e in primo luogo la Francia non avrebbero accettato
un'unificazione politica dell'Italia contestualmente alla quale si fosse realizzata una
rivoluzione sociale di tipo giacobino. La dimensione politica internazionale del Risorgimento
fu poi analizzata d Romeo nella biografia di Cavour in modo dettagliato. Quindi, se il Partito
d'azione mazziniano avesse scatenato una rivoluzione sociale nelle campagne ed
egemonizzato il processo unitario, un esercito francese nel 1859 non sarebbe sceso in Italia a
fianco del Piemonte e del movimento nazionale si sarebbe trovato di nuovo in una situazione
simile a quella del 1848-49, quando era stato ben chiaro che l'Austria era il maggiore ostacolo
sulla via dell'Unità, che l'Unita d'Italia non si poteva fare senza affrontare una guerra contro
di essa e che quella guerra l'Italia senza alleati esteri non era in grado di vincerla. La parte più
innovativa del saggio di Romeo fu quella dedicata alla verifica degli effetti economici che
l'ipotetica rivoluzione agraria di tipo giacobino e il conseguente avvento di un'economia
rurale basata sullo sviluppo capitalistico italiano postunitario. Gramsci e Sereni avevano
sostenuto che la piccola proprietà contadina avrebbe consentito allo sviluppo del capitalismo
italiano un corso più rapido di quello storicamente avvenuto. Romeo, per criticare questa
affermazione, fece ricorso a quanto sostenuto da Marx (III libro del Capitale), laddove si
sottolineava che il passaggio del feudalesimo al capitalismo era avvenuto con la liquidazione
di tutti i vincoli e oneri extraeconomici che la proprietà feudale contemplava e con
l'affermazione della piena e libera proprietà privata della terra. Era stata questa secondo Marx
la via principe dell'accumulazione primitiva del capitale nelle campagne inglesi e del trionfo
del capitalismo sul feudalesimo e sulla sua economia stagnante. Era stata la grande azienda
capitalistica a realizzare gli incrementi i produttività che avevano consentito di alimentare le
masse e il proletariato. Sulla scorta di ciò Romeo sostenne che in Italia nelle aree agricole più
progredite del Centro e del Nord la creazione di una rete di piccole proprietà contadine
autosufficienti avrebbe bloccato la formazione del mercato, perpetuando forme di
organizzazione produttiva poco efficienti ai fini del soddisfacimento della domanda della
popolazione extra agricola in crescita e frenando la liberazione di manodopera per l'industria.

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Una riprova degli effetti ritardanti della piccola proprietà contadina sullo sviluppo
capitalistico era stata riscontrata proprio in Francia nelle aree dove la rivoluzione giacobina
era stata realizzata. Da parte marxista non vi fu alcuna rilevante ribattuta alle argomentazioni
di Romeo riguardo l'irrealizzabilità politica della rivoluzione gramsciana a causa del contesto
politico-militare dell'Europa di metà Ottocento. Si ebbe invece un intervento di Giuseppe
Galasso su “Gramsci e i problemi della storia italiana”. Galasso precisò le differenze della
posizione gramsciana rispetto a quelle dei precedenti processi al Risorgimento, sottolineando
la considerazione di Gramsci per la capacità dei moderati di egemonizzare le forze a essi
avverse nel processo risorgimentale e la piena consapevolezza di Gramsci dell'incompatibilità
del contesto internazionale nei confronti di un'eventuale rivoluzione sociale nella penisola. Il
che significava argomentare l'affermazione di Romeo secondo cui il pensiero di Gramsci
sulle conseguenze da trarre dalle sue stesse

considerazioni sulla situazione europea dopo il 1815 appariva particolarmente travagliato. Tra
fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta vi furono invece numerosi tentativi di replica sul
tema della funzionalità della rivoluzione agraria ai fini dello sviluppo capitalistico italiano. Si
trattò tuttavia di risposte abbastanza fuori bersaglio, perché on puntavano a confutare le
argomentazioni portate da Romeo sull'inferiore capacità propulsiva della piccola proprietà
contadina rispetto all'azienda capitalistica. Questo era infatti il fulcro delle argomentazioni di
Romeo contro Sereni e Gramsci. D'altro canto agli autori stranieri citati da Romeo in
“Risorgimento e Capitalismo” successivamente se ne aggiunsero altri, a sottolineare le
particolari lentezze dello sviluppo industriale ed economico francese. Tra essi, Barbara
Solow, che constatava che la sottrazione delle terre ai latifondisti nell'Irlanda di fine
Ottocento e la loro assegnazione agli affittuari non aveva prodotto alcuna radicale
trasformazione dell'agricoltura irlandese e on aveva fatto nell'Irlanda una grande potenza
industriale. Neppure in Irlanda, cioè, l'assegnazione di terre ai diretti coltivatori si tradusse in
un potenziamento della domanda per il mercato industriale né in un aumento significativo del
livello della produttività e quindi si surplus di capitale da destinare al risparmio. L'ipotesi di
una rivoluzione contadina, del resto, non fu accolta da altri esponenti della storiografia
economica più accreditata come termine di paragone per giudicare le vicende economiche
post- unitarie. In ogni caso, la presa d'atto culturalmente più significativa della validità delle
obiezioni mosse da Romeo a Gramsci e Sereni venne dal massimo esponente della
storiografia marxista italiana del secondo dopoguerra, Giorgio Candeloro, nell'ultimo volume
del suo “Storia dell'Italia moderna”. Candeloro a proposito del problema della rivoluzione
agraria mancata, dopo aver riportato il passo dei “Quaderni” in cui Gramsci aveva sostenuto
che la rivoluzione contadina sarebbe stata auspicabile e possibile, concluse osservando che, al
contrario, l'azione sui contadini sarebbe stata se non proprio impossibile, certamente tale da
dare scarsi risultati per i contadini stessi. Mancava ogni riferimento a Romeo, che per primo
aveva cofutato il passo di Gramsci, ma la critica era del tutto analoga. Prima che Candeloro
giungesse a queste conclusioni, il dibattito si era però spostato dalla discussione dell'ipotesi
rivoluzione agraria all'analisi dello sviluppo economico postunitario e al ruolo in esso avuto
dalla politica economica dello stato liberale. A stimolare il dibattito era stato ancora Romeo,

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che passò dalla critica dall'ipotesi della rivoluzione agraria alla proposta di un inquadramento
storico dello sviluppo economico postunitario che, a prescindere dalla critica a Gramsci,
segnò una svolta. Tale inquadramento si basava sull'uso di alcuni concetti fondamentali della
teoria economica anglosassone sul sottosviluppo. Un ruolo fondamentale nella ostruzione
della proposta interpretativa di Romeo avevano il concetto di accumulazione, originaria o
primitiva del capitale nell'ambito delle teorie dello sviluppo elaborate da autori come
Robinson, Gerschenkrom e Lewis. In base a queste ultime, Romeo aveva osservato che,
contrariamente da quanto sostenuto da Sereni, problema fondamentale per un Paese come
l'Italia, che si trovava alle soglie dell'industrializzazione, non era quello di espandere la
domanda di beni secondari, bensì quello di realizzare un processo di accumulazione di
capitale da impiegare nella creazione dei requisiti infrastrutturali e strutturali indispensabili
alla nascita di un moderno apparato industriale. Bisognava quindi, come sostenuto da
Gerschenkron, colmare il divario realizzando un'industrializzazione tanto più intensa e rapida
quanto maggiore era il ritardo accumulato. Per far ciò, occorreva forzare i tempi avvalendosi
di agenti surrogatori: tra essi, Stato, banche e capitale straniero. Secondo Romeo, nell'Italia
postunitaria questi tre fattori erano stati tutti ben presenti. Grazie all'introduzione di una
moderna legislazione relativa al diritto di proprietà e all'adozione del libero scambio
commerciale, lo Stato italiano aveva favorito nel primo ventennio postunitario una
espansione della produzione agraria in termini sia fisici sia monetari. Questa aveva facilitato
il reperimento di risorse che sarebbero poi slittate verso impiaghi produttivi, che avevano
costituito i

prerequisiti fondamentali al primo decollo dell'industria italiana avvenuto negli anni


1880-1888. In tale processo ebbero un ruolo importante anche le banche, ma tale ruolo restò,
secondo Romeo, inferiore a quello assunto dallo Stato. Una funzione di rilievo ebbe anche il
capitale straniero, in particolare inglese e francese, pur rimanendo inferiore rispetto al peso
del capitale nazionale. Lo Stato peraltro non ebbe secondo Romeo un ruolo preminente solo
nel promuovere l'accumulazione indispensabile alla creazione dei prerequisiti in capitale fisso
sociale, ma lo ebbe anche nella fase dell'industrializzazione vera e propria. Dal 1878-80 si
verificò un cambiamento notevole nella dinamica del processo di sviluppo del Paese; lo Stato
estese quindi il suo intervento nell'economia, con la continuazione e intensificazione dei
processi di infrastrutturazione ferroviaria e stradale, sovvenzioni alla marina mercantile,
commesse per gli armamenti, abbandono del liberismo doganale adottato nel 1861 e
passaggio nel 1887 al protezionismo cerealicolo e industriale. All'ombra di tutto questo si
realizzò lo sviluppo dell'industria italiana, che visse in regime di protezione doganale fino alla
liberalizzazione degli scambi del secondo dopoguerra. Per quanto circoscritta
geograficamente all'area del triangolo Milano-Torino-Genova, l'industrializzazione dell'Italia
cominciò allora a rompere i tradizionali ritmi del modello di sviluppo agricolo-commerciale
con quella che Romeo definì “nascita della grande industria”. Successivamente, in età
giolittiana, grazie anche alla scoperta di nuove fonti energetiche all'avvento di una nuova
organizzazione della struttura creditizia e a una nuova congiuntura economica internazionale,
il processo avviato negli anni Ottanta si consolidò in una vera e propria rivoluzione

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industriale. Ma per Romeo il boom dell'età giolittiana trovava le sue premesse tra il 1861 e il
1887 e in tutto quanto era stato allora realizzato in materia di modernizzazione delle strutture
civili grazie all'azione di stimoli e al concreto spostamento di risorse verso impieghi
produttivi promossi dallo Stato. Sereni rispose a Romeo sostenendo che le statistiche da lui
usate a sostegno delle sue tesi erano inattendibili. Per Sereni non c'era stata alcuna crescita
significativa della produzione agraria nel primo ventennio, e quindi non c'era stata alcuna
accumulazione originaria e quindi l'Italia non era cresciuta economicamente come altri Paesi.
Successivamente una critica basata sull'inattendibilità delle statistiche ufficiali fu riproposta
dalla storiografia cattolica con Mario Romani, il quale rilanciò anche il discorso di Sereni sul
nesso stretto di causa-effetto stabilito da Romeo tra aumento della produzione agraria e
accumulazione di capitale. Romani sostenne che non essendosi verificata la prima, tutta
l'interpretazione di Romeno perdeva il suo presupposto basilare. Studi successivi hanno poi
dimostrato che i realtà l'aumento della produzione c'è stata, e che comunque anche se non vi
fosse stata il modello di Romeno avrebbe funzionato ugualmente. Critiche furono mosse a
Romeo da Alexander Gerschenkron, la cui teoria sull'industrializzazione dei Paesi second
comer come l'Italia e il cui indice della produzione industriale Romeno aveva utilizzato per
costruire la sua proposta interpretativa. Il discorso del Gerschenkron non aveva finalità di
ordine ideologico o politico, ma esclusivamente scientifiche. Egli si disse quindi d'accorso
con Romeo nel respingere l'ipotesi gramsciana di una rivoluzione agraria come strumento
adatto a realizzare condizioni sociali ed economiche più funzionali allo sviluppo del
capitalismo industriali rispetto a quelle storicamente create dalla soluzione unitaria
cavouriana. A Romeo Gerschenkron mosse invece due obiezioni: la prima relativa
all'intensità del processo di accumulazione di capitale nel primo ventennio postunitario; la
seconda attinente all'entità di espansione industriale realizzata in Italia nel corso degli anni
Ottanta. Entrambi questi processi, secondo Gerschenkron, non avevano avuto la rilevanza a
ssi attribuita da Romeo. Gerschenkron portò invece l'attenzione sui saggi del risparmio e
degli investimenti realizzati all'indomani dell'Unità, sottolineando che il dato riportato del 4%
era troppo basso per dare vita a un decollo industriale. Per quel che riguardava poi il big sprut
industriale, Gerschenkron sostenne che esso non poteva essere avvenuto, al contrario di
quanto affermava Romeo, negli anni Ottanta, quando

si era avuto un saggio di sviluppo medio annuo della produzione industriale del +4,6%, bensì
in età giolittiana e precisamente dal 1896 al 1908, quando il saggio era di due punti più
elevato. In definitiva per Gerschenkron quello dell'età depretisiana era stato un decollo
abortito e lo Stato non avrebbe esercitato un ruolo decisivo per l'avvio dell'industrializzazione
in Italia neppure in epoca giolittiana. Lo Stato, con una politica protezionistica errata tesa a
proteggere l'industria siderurgica invece della meccanica e della chimica, avrebbe più frenato
che spinto l'avvio dell'industrializzazione. Quindi, il vero fattore determinante
dell'industrializzazione italiana sarebbe stato invece la banca mista, nata nel 1894-1895 con la
fondazione della Banca commerciale e del Credito italiano. Questa non solo avrebbe facilitato
l'accesso alle imprese industriali al credito, ma avrebbe avuto un ruolo di vera e propria
levatrice di una filosofia dell'industrializzazione e di una capacità imprenditoriale fino allora

18
in Italia pressoché inesistenti. Insomma, la banca mista e non lo Stato, sarebbe stata di gran
lunga l'agente surrogatore decisivo del decollo industriale italiano. A proposto della banca
mista Romeo obiettò a Gerschenkron che sicuramente la nuova situazione creditizia aveva
avuto un ruolo importante, ma che restava pur sempre da piegare come si erano creati i
capitali ricevuti in deposito dalle banche miste e da esse investite nell'industria. Gerschenkron
aveva ribattuto che le eccedenze di capitale sarebbero esistite già dalla prima metà
dell'Ottocento e che la vera strozzatura sarebbe stata solo quella tecnica di una loro mancata
attivazione da parte delle banche. Il dibattito, nel corso degli anni Sessanta, volse più a favore
di Gerschenkron che di Romeo. Un cambiamento di direzione si ebbe all'inizio degli anni
Settanta, quando uscirono nuovi contributi. Tra essi, quello di Stefano Fenoaltea, che negò il
ruolo decisivo attribuito dal Gerschenkron alla banca mista nel decollo dell'età giolittiana,
anzi negò che si potesse parlare in assoluto di decollo nell'industrializzazione italiana. Questa
si sarebbe invece realizzata con un graduale susseguirsi di cicli tecnici espansivi dell'industria
pesate e di base, senza alcuna macroscopica rottura rispetto alla fase preindustriale. A
sostegno di ciò pubblico dei dati che presentavano un saggio di espansione della produzione
industriale italiana che dal 1880 al 1887 sfiorava l'8%. Era un tasso che Gerschenkron
avrebbe ritenuto un big sprut, ma che essendosi registrato prima dell'avvento della banca
mista del 1894 toglieva qualunque validità alla tesi di Gerschenkron che assegnava invece
alla banca mista un'importanza decisiva nel decollo dell'industria italiana. Un ulteriore colpo
all'interpretazione di Gerschenkron fu inferto nel 1974 da Antonio Confalonieri con la sua
ricerca sulle origini della banca mista. Confalonieri constatò che né la banca mista né il
capitalismo tedesco che all'inizio la sosteneva avevano avuto l'intenzione di effettuare in
Italia investimenti in misura predominante nell'industria, ma che il loro intento primario era
stato quello di fare buoni affari con lo Stato italiano. E se le banche miste abbandonarono poi
la loro iniziale intenzione fu perché mutarono le condizioni generali nelle quali esse si
trovarono ad operare. Il ruolo della banca mista usciva dunque drasticamente ridimensionato
e con esso anche il nucleo principale della proposta interpretativa di Gerschenkron. D'altro
canto, anche la minimizzazione dell'intensità del processo di accumulazione del primo
ventennio sostenuto da Gerschenkron fu messa in discussione da alcuni studi che sostennero
l'idea delle consistenti dimensioni dell'accumulazione originaria realizzata secondo lo
scherma di Romeo. Il confronto più corretto per individuare la portata del salto nei livelli di
accumulazione del capitale nel ventennio postunitario era con il periodo precedente e non
quello seguente l'Unità. Da un confronto così impostato il primo ventennio postunitario
risultava un periodo in cui era stato realizzato un grande salto rispetto al ventennio
precedente. Quanto all'inizio dell'industrializzazione negli anni Ottanta, la lettura di Romeo
ha trovato conferma nelle proposte interpretative di Fenoaltea, di Cafagna e di Bonelli.

Luciano Cafagna sostenne, in accordo con Fenoaltea e in disaccordo con Gerschenkron e


Romeo,

che il passaggio a un'economia industriale avvenne non attraverso un decollo o big sprout ma
attraverso una lunga permanenza sulle soglie della trasformazione sostanziatasi in quattro
cicli espansivi, susseguitisi dal 1880 al 1929. in particolare Cafagna negò che

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nell'industrializzazione del Nord avesse avuto un peso significativo l'intervento dello Stato e
il mercato meridionale; anzi, il Nord se non si fosse unito all'Italia avrebbe avuto uno
sviluppo più rapido di quello che ebbe. Il modello di Cafagna era più descrittivo che
esplicativo, e sul piano dei fattori non indicava con precisione una gerarchia tra questi.
Cafagna chiamava i vari fattori un po' tutti a raccolta e tuttavia affermava che il primo ciclo, o
impennata, si registrò negli anni Ottanta, come aveva detto Romeo. Bonelli invece propose
un inquadramento dello sviluppo capitalistico molto simile a quello di Romeo. Ritenne che il
periodo della formazione di surplus di capitale in agricoltura fosse più ampio del ventennio
postunitario e che se ne dovesse estendere il periodo almeno agli anni Quaranta
dell'Ottocento. Richiamò l'attenzione su una fonte di accumulazione scarsamente considerata
coe le rimesse degli immigrati divenute importanti in età giolittiana, ma enfatizzò la
comparsa nella scena economica dello Stato come massimo operatore finanziario. Inoltre
nessuna sottovalutazione da parte di Bonelli, a differenza soprattutto di Cafagna,
dell'importanza del mercato meridionale per lo sviluppo dell'industria del Nord. Nelle pagine
finali di “Risorgimento e capitalismo” Romeo concludeva che lo sviluppo capitalistico
italiano aveva preso il suo avvio grazie al Risorgimento e alla politica economica dello Stato
unitario e che quel processo no nera stato certo indolore, specialmente nel Sud. Era questa
una chiusura in chiave meridionalistica del suo “Risorgimento e capitalismo”, in fiducioso
supporto politico alla strategia dell'intervento straordinario inaugurato con l'istituzione della
Cassa per il Mezzogiorno e in contrasto con le proposte rivoluzionarie della storiografia
marxista e con il lassaix faire e i conseguenti tempi lunghi della destra liberista einaudiana.
Sembra che, nonostante i numerosi studi settoriali successivi, dal punto di vista delle
alternative di interpretaizone non si sia andati molto al di là di quelle sopracitate.

II​. Una società immobile? Sviluppo preunitario e questione meridionale L'immagine di


un'economia e di una società meridionale completamente immobile nei decenni preunitari è
stato da tempo rivista dalla storiografia. Agli inizi degli anni Settanta del Novecento
cominciano ad apparire studi che rovesciano lo schema immobilista preesistenti, che si
connotava per intenti chiaramente denigratori della politica dello Stato unitario, il quale
avrebbe saccheggiato le ricchezze del Mezzogiorno borbonico, interrompendo uno sviluppo
industriale ormai avviato. A questo tipo di lettura si contrappose una risposta energica della
storiografia meridionalistica; essa richiamò l'attenzione sull'arretrata situazione del
Mezzogiorno al momento dell'Unità e ribadì che, pur in presenza di dinamismi non ignorabili
sia prima che dopo l'Unità, il peso del latifondo e della sua economia avevano condizionato
l'assetto sociale ed economico del Mezzogiorno. Tuttavia, a partire dalla seconda metà degli
anni Settanta, la rappresentazione di un Mezzogiorno immobile cominciò ad essere vista alla
luce di studi volti ad approfondire le dinamiche sociali, economiche, territoriali ed
istituzionali del Sud preunitario. I risultati più impostanti di questi studi furono un richiamo
all'attenzione sulla rottura operatasi sin dalla metà del Settecento nel circolo vizioso della
stagnazione di popolazione, consumi, prezzi, produzione e redditi, che perdurava dalla prima
metà del Seicento, e l'individuazione di precise dinamiche di sviluppo che rendevano suprata
la categoria dell'immobilismo quale chiave di lettura della storia del Mezzogiorno preunitario.

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In particolare furono individuati modi e tempi di una crescita produttiva dell'agricoltura
meridionale la cui consistenza era comprovata dal fatto che essa era stato quanto meno tale da
far fronte all'accresciuto fabbisogno alimentare di una popolazione in netta crescita. Una serie
di ricerche mise poi in luce come non solo nella cerealicultura, ma anche in altri settori come
quelli olivicolo, vitivinicolo, agrumicolo e gelsi-bachicolo l'aumento produttivo era iniziato

già nel periodo pre-unitario. Fu al contempo documentata una ascesa di lungo periodo dei
prezzi, che per altro ripeteva una dinamica estesa in pratica all'intera Europa; ciò permise un
incremento dei redditi. L'aumento della produzione e dei redditi era stato per altro
accompagnato da un esteso cambiamento delle forme giuridiche di possesso della terra e da
modifiche della distribuzione della proprietà fondiaria e dei rapporti di produzione. Dopo la
liquidazione settecentesca del patrimonio di enti ecclesiastici soppressi, nell'Ottocento, con
l'abolizione del feudalesimo, si era formata una massa di nuova proprietà borghese. Tale
processo non aveva trovato però una corrispondenza nella distribuzione della proprietà
fondiaria. In base alla legge eversiva del 1806 il grande baronaggio meridionale era infatti
riuscito a salvare la maggior parte degli antichi latifondi feudali, mantenendo in tale modo il
possesso di un'estensione ancora enorme di terreni ex feudali, ora detenuti in proprietà piena
e libera. Si era inoltre fatto avanti un nuovo ceto di grandi proprietari borghesi, formato da
grandi affittuari e da una parte del ceto civile cittadino. In definitiva, se la proprietà feudale
era giuridicamente scompara, la crescita della media e piccola proprietà coltivatrice era
rimasta ridotta e la polarizzazione della proprietà fondiaria, tipica del Mezzogiorno, non era
stata particolarmente scossa. La figura del grande affittuario di latifondi emergeva ancora
come perno intorno al quale ruotava la vita economica della società rurale. Oltre a ciò le
masse rurali avevano subito, lungo l'arco della prima metà dell'Ottocento, l'estesa usurpazione
di terre demaniali da parte di nuovi proprietari borghesi . Fu questa l'origine
dell'aggravamento di quella frattura tra galantuomini e contadini accentuata dai processi di
evoluzione in senso capitalistico-borghese dell'economia e della società meridionale, i cui
effetti contribuirono all'insorgere del brigantaggio dall'indomani del 1861. Un brigantaggio
da vedere come frutto di un odio covato a lungo da parte dei contadini meridionali contro i
grandi possidenti e il ceto civile. Bisogna poi aggiungere che se nella struttura sociale del
Mezzogiorno persistevano ancora molti elementi di arretratezza rispetto a quella del Centro
Nord, in termini di prodotto pro capite il divario si manteneva entro dimensioni molto
contenute. Se infatti abbandoniamo la categoria di immobilismo e ci rifacciamo a quella
molto più efficace di arretratezza in termini moderni, allora si deve parlare per il
Mezzogiorno rispetto al Nord Italia al momento dell'Unità di una evidente arretratezza a
causa non tanto del prodotto dei principali rami dell'attività e del reddito pro capite, quanto
della pochezza del capitale fisso sociale, della fragilità ed eterogeneità del sistema creditizio,
del basso sviluppo dei livelli di alfabetizzazione. Per quel che concerne il divario agricolo tra
Nord e Sud, questo intorno al 1861 non era generalizzato e profondo come le visioni dualiste
più radicali attestavano. E questo valeva anche per le attività secondarie: anche nel
Mezzogiorno erano sorte manifatture, per lo più tessili e alimentari, ma anche siderurgiche,
meccaniche e cartarie. Sul finire del Settecento queste iniziative erano state frutto quasi

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esclusivo della sovvenzione pubblica, poi erano state alimentate dalla omana attivata dalle
guerre, dal blocco continentale e dalle politiche economiche francesi durante il periodo
napoleonico. Infine negli anni Quaranta e Cinquanta erano state realizzate da imprenditori
stranieri, affiancati anche da imprenditori meridionali. Tuttavia, al momento dell'Unità i
nuclei industriali esistenti nel Mezzogiorno non costituivano un vero sistema industriale
autopropulsivo. Essi erano rimasti immersi nelle maglie della rete dei lavoratori a domicilio,
che in parte producevano per se stessi e la propria famiglia e in parte lavorava su
commissione. La plurattività della manodopera rurale era ancora elevata al Nord come al Sud.
Il processo di separazione dell'attività industriali da quelle agricole e i livelli di
specializzazione produttiva erano ancora molto arretrati ovunque. Ma la disparità con
l'Europa continuava ad aumentare. Nel 1861 il rapporto tra la produzione siderurgica inglese
e quella italiana era divenuto di circa 120 a 1 dopo che alla fine del Settecento era di solo 3 a
1. All'indomani dell'Unità la composizione dei consumi energetici italiani era ancora

quasi interamente basata sulla legna da ardere o sulla forza idrica, mentre quella dei paesi
nordici e centroeuropei era ormai spostata sul carbone. Alla luce di questo confronto su scala
europea il divario interno Nord-Sud nell'apparato industriale italiano perdeva del tutto
consistenza in un insieme di arretratezza poco differenziata. Nell'insieme il divario Nord-Sud
al momento dell'Unità era diversificato a seconda dei vari indicatori dello sviluppo
economico e civile, e i fattori che ponevano il Sud in una condizione di inferiorità netta
rispetto al Nord e in particolare rispetto a Piemonte, Liguria e Lombardia non erano
riscontrabili nel prodotto interno lordo pro capite né agricolo né industriali, ma nel marcato
dislivello dei sistemi creditizi, delle infrastrutture e del capitale fisso sociale e dello sviluppo
civile in genere. Nonostante fosse evidente che la modernizzazione dei trasporti era la
premessa necessaria ala creazione di mercati, l'Italia contromeridionale nel 1861 aveva un
sistema di viabilità interna che ancora rendeva preferibile l'attraversamento della penisola via
mare. La spinta alla costruzione di vie di comunicazione terrestri evidenziata da numerosi
studi anche nel Sud era stata non solo più debole di quella estera, ma per di più tutta interna ai
diversi ambiti regionali. L'aspetto più preoccupante di tutta la problematica relativa alle vie di
comunicazione terrestri del Mezzogiorno stava comunque nell'inferiorità accumulata
nell'ambito delle costruzioni ferroviarie; nel 1861 il Mezzogiorno aveva solo il 5-6% della
rete ferroviaria nazionale. Sono questi i parametri che inducono a ritenere il divario Nord-Sud
al momento dell'Unità di una consistenza superiore a quella denunciata dalla differenza nel
reddito pro-capite, che alcune stime più recenti valutavano addirittura vicino allo zero. Sarà
stato un caso, ma la prima base industriale che si formò in Italia a partire dagli anni Ottanta
dell'Ottocento, prese piede nelle tre regioni che già nel 1861 erano maggiormente dotate di
ferrovie (Piemonte, Liguria e Lombardia), che erano poi le stesse che nel 1861 avevano solo
il 50-54% di analfabeti, contro gli 87% del Mezzogiorno continentale. Nell'ambito dello Stato
unitario l'economia e la società meridionale furono sottoposte a sollecitazioni enormemente
più volenti che in passato. Nell'immediato esse provocarono un malessere che si aggiunse a
quello già preesistente nelle campagne a causa della povertà e delle tensioni sociali. Il
brigantaggio fu la prima e più drammatica manifestazione di quell'insieme di problemi che

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negli anni Settanta dell'Ottocento i primi meridionalisti definirono “questione meridionale”.
Questione anche politica per la minaccia di restaurazione borbonica di cui fu all'inizio
portatore, il brigantaggio fu soprattutto questione sociale sfociata in guerra civile , che
obbligò di fatto il potere costituito a una repressione la cui posta in gioco era la
sopravvivenza stessa dell'Unità. E se della sollevazione violenta lo Stato ebbe ragione nel
giro di un decennio, non riuscì invece mai ad avere ragione di altri aspetti legati al
problematico inserimento dell'economia e della società meridionale nello Stato unitario e nel
meccanismo di sviluppo capitalistico nazionale: problemi che nascevano dalla necessità di
risolvere quelli ereditati dallo Stato borbonico e di costruire una nuova economia e una nuova
società. Già dal gennaio 1861 si ebbero le proteste e le resistenze generate dall'applicazione
dall'oggi al domani alle regioni meridionali della tariffa liberista piemontese. Non fu un caso
che l'unica voce contraria in Parlamento all'introduzione di quella tariffa fosse quella del
meridionale Giuseppe Polsinelli. Proteste vigorose si ebbero anche per le dimensioni senza
precedenti del carico fiscale che fu rovesciato sul Mezzogiorno, mentre le problematiche
della corruzione delle amministrazioni pubbliche meridionali e delle condizioni di vita quasi
inumane dei contadini, andarono ad alimentare la parte più cospicua della letteratura
meridionale. A distanza di oltre 150 anni va confermato che indubbiamente nel 1861
l'industria del Mezzogiorno fu colpita più duramente di quella del Nord dalla concorrenza
franco-inglese e che in alcuni settori fu chiaramente svantaggiata dalle scelte effettuate in
materia di commesse statali. Va però anche ricordato che la storiografia recente ha
ridimensionato la portata dell'impatto negativo della

politica liberista sull'industria meridionale. Non c'è dubbio tuttavia che iniziò allora quella
progressiva divaricazione tra un Sud a vocazione sempre più agricolo-commerciale e un Nord
in cui vi furono forze che non abbandonarono mai le speranze di pervenire a un cambiamento
delle politica economica statale a favore delle attività non agricole. All'appuntamento con la
nuova congiuntura che si aprì nella storia economica e sociale italiana con gli anni Ottanta
dell'Ottocento, il Mezzogiorno arrivò con una pattuglia di imprenditori che non era
abbastanza forte economicamente, né abbastanza coesa e determinata ideologicamente per
avere un peso politico equivalente a quello dell'imprenditoria settentrionale. E fu così che
infine rimase soprattutto nelle mani di imprenditori del Nord l'iniziativa della battaglia per il
cambiamento della politica doganale e di tutta la politica economica dello Stato in tema di
attività industriali e di modello di sviluppo. Per meglio comprendere, vano considerati non
solo la posizione di favore che alcune scelte di politica economia conferirono a imprese
settentrionali, ma anche il fatto che la politica liberista assicurò all'agricoltura meridionale
una crescita senza precedenti delle esportazioni e della produzione, che compensò fino al
1887 le perdite subite sul fronte delle industrie. In tale crescita è da ricercare la ragione del
forte radicamento nella cultura meridionale della convinzione che l'avvenire economico e
sociale del Sud risiedesse in uno sviluppo di tipo prevalentemente agricolo- commerciale. Nel
corso degli anni Ottanta, mentre nel Nord si aveva un primo avvio dell'industrializzazione,
nel Mezzogiorno le colture specializzate destinate a mercati esteri ebbero una grande
espansione. Alla maggiore pressione fiscale rispetto all'età borbonica corrispose un impegno

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dello Stato unitario nel processo di modernizzazione. Il Mezzogiorno nel 1887 risultava aver
rimosso una parte dei fattori di ritardo che accusava nel 1861. Il caso più eclatante era nella
dotazione di ferrovie, strade, servizi civili, che era nettamente migliorata. Fu per queste
ragioni che, nonostante il brigantaggio, la diserzione dalla leva, la crescita della protesta per il
carico fiscale, i maggiori esponenti del pensiero meridionalista non sostennero mai che
convenisse separarsi dallo Stato italiano e tanto meno, chiuso il brigantaggio, pensarono a
una restaurazione borbonica solo all'interno dello Stato Unitario il Mezzogiorno avrebbe
potuto avere un futuro migliore; d'altro canto neppure il Nord pensava allora a una secessione
dallo Stato unitario. E infatti solo quando ebbe la disponibilità esclusiva del mercato
meridionale, garantita dalla tariffa protezionistica del 1887, l'industria settentrionale iniziò il
recupero rispetto alle aree europee più avanzate, fino a divenire nel secondo dopoguerra uno
dei Parsi più sviluppati del mondo.

III​. Liberismo e protezionismo in Italia dall'Unità all'UE Il protezionismo doganale si


affermò per la prima volta nell'Italia unita nel 1887; nello stesso anno ebbe termine la prima
fase liberoscambista della storia italiana, iniziata al momento dell'Unità, quando era stata
estesa all'intero territorio nazionale la tariffa adottata dal governo sardo nel 1851, auspice
Cavour, ed erano stati sottoscritti una serie di trattati commerciali di impronta ancora più
liberista della stessa tariffa generale. Fra questi ebbero un'importanza fondamentale quelli
stipulati nel 1863 con l'Inghilterra e la Francia. Prima del 1887 e il 1878 il libero scambio era
stato indirettamente attenuato con l'introduzione nel 1867 del corso forzoso della
cartamonete, che aveva avuto come effetto secondario un leggero incremento dei prezzi
all'importazione. Di sola attenuazione del regime liberoscambista si deve parlare anche
riguardo alla stessa tariffa generale introdotta nel 1878. Essa, pur istituendo dazi
all'importazione su alcuni principali prodotti manufatti, ebbe un carattere prevalentemente
fiscale e la protezione eretta fu del tutto insufficiente a incidere sugli orientamenti economici
generali del mercato interno. Peraltro il rinnovo nel 1881 del trattato commerciale con la
Francia limitò il già debole carattere protettivo della revisione tariffaria del 1878. Un effetto
parzialmente protettivo

dell'industria nazionale ebbero poi, negli anni Ottanta, le misure varate dal governo a favore
dell'industria pesante e degli armamenti, nonché la legge Borselli sulla marina mercantile.
Tuttavia proprio i limitati effetti di tali provvedimenti confermarono che la vera svolta si ebbe
solo nel 1887 con un intervento di carattere non più settoriale, ma generale e di assai forte
intensità. Nessuno pone in dubbio che quella politica fu l'asse portante di una concezione
eminentemente agricolturista dello sviluppo economico italiano, secondo la quale il ruolo che
più si confaceva e conveniva all'Italia era quello di Paese esportatore di materie prime,
prodotti agricoli e zootecnici, semilavorati e importatore di prodotti manufatti. E infatti
l'apertura del mercato italiano alla libera penetrazione di prodotti industriali mise a dura priva
il già gracile sistema manifatturiero della penisola, e bloccò almeno per un ventennio
qualsiasi possibilità di significativo decollo industriale. Resistettero meglio le manifatture
piemontesi e liguri, che nel corso degli anni Cinquanta erano già state esposte alla
concorrenza straniera, ma nel resto della penisola la liberalizzazione degli scambi causò una

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dura selezione dei nuclei industriali. In particolare ciò avvenne nel Mezzogiorno. Con l'Unità,
i prodotti delle altre regioni italiane ebbero libero accesso al mercato meridionale e l'adozione
della tariffa piemontese comportò dall'oggi al domani una riduzione media di circa l'80%
della barriera protettiva a suo tempo eretta dal regime borbonico. Durante il primo ventennio
postunitario il rapporto con i Parsi guida dello sviluppo industriale europeo peggiorò
sensibilmente. Su questi dati di fatto c'è consenso unanime. La storiografia si è invece divisa
tra chi, come Giuseppe Are, ha ritenuto che si sarebbe potuta adottare subito una strategia
protezionista per favorire un'industrializzazione concorrenziale con quella dei Paesi guida e
che il periodo liberista vada quindi considerato come inutilmente perso dal punto di vista
industriale; e chi invece, come Romeo, ha sostenuto che quel periodo non debba essere
considerato tale, visti i vantaggi procurati dal liberoscambismo alle esportazioni italiane di
prodotti agricoli in una fase di prezzi crescenti durata dagli anni Quaranta agli anni Settanta
del XIX secolo. Ne derivarono stimoli energici all'incremento della produzione agricola, alla
formazione di capitali e agli investimenti di infrastrutture, che costituirono i prerequisiti
essenziali per lo sviluppo industriale. La stessa valutazione dei danni provocati al sistema
manifatturiero meridionale assume, in questa corrente storiografica, una connotazione meno
drammatica in considerazione delle dimensioni dell'apparato industriale della penisola al
momento dell'Unità. E se il Mezzogiorno accusò la perdita di attività manifatturiere anche di
tradizione plurisecolare, come il lanificio, nel contempo guadagnò terreno sul fronte della
produzione agricola, soprattutto nei settori delle colture specializzate: olio, vino, agrumi,
frutta secca, per cui a fronte di un'indubbia accentuazione del carattere agricolo della sua
economia, sicuramente in termini di reddito il divario rispetto al Nord, fino al 1887, non
aumentò. Nel 1861 a sostegno della scelta liberoscambista erano dunque schierati non solo la
cultura economica, accademica e non, la maggior parte della rappresentanza parlamentare,
ma tutto il mondo agricolo. Di fronte a questo blocco i filo-protezionisti non poterono che
perdere tutti gli scontri, fino a quando non intervennero radicali modifiche alla congiuntura
economica internazionale. E questo accadde a partire dalla fine degli anni Settanta. Tuttavia,
finché la crisi agraria non esplose in tutta la sua virulenza anche in Italia, finché la crescita
delle attività industriali non assunse dimensioni decisamente più consistenti, qualunque
tentativo di dar corso a una revisione radicale della politica doganale andò sistematicamente a
vuoto. Le condizioni cominciarono a cambiare in modo significativo solo quando, all'inizio
degli anni Ottanta, si fecero sentire anche in Italia gli effetti della concorrenza dei grani
americani che, favorita dall'abbassamento dei noli marittimi, aveva messo in crisi sin
dall'inizio degli anni Settanta strutture agrarie come quelle francesi e inglesi. In Italia gli
effetti della concorrenza

americana erano stati ritardati in parte dalla debolezza dei collegamenti con i mercati
internazionali, in parte dalla già ricordata azione protettiva svolta indirettamente dal corso
forzoso. Ben presto dunque anche in Italia si ebbe una marcata flessione dei prezzi di tutti i
cereali e in particolare del grano, le cui importazioni ebbero una crescita impressionante. A
questo cedimento del settore cerealicolo non fecero riscontro crolli della stessa dimensione
dell'export agricolo, anzi le esportazioni di formaggi, seta, agrumi e vino crebbero in misura

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rilevante. Nel Mezzogiorno l'estensione delle colture specializzate toccò allora vertici mai
raggiunti in seguito. Tuttavia, furono successi che non bilanciarono nell'insieme il disastro
prodotto in termini commerciali e sociali dalla crisi della cerealicoltura. I cerealicoltori
perdevano rapidamente qualunque interesse al mantenimento del regime di libero scambio e
la cerealicoltura, nonostante la perdita di valore della sua produzione lorda vendibile,
continuava a essere il settore economico di gran lunga più importante del Paese. Quando si
dice cerealicoltura, però, non ci si riferisce soltanto a quella praticata nel latifondo
meridionale. Di fronte alla concorrenza americana le difficoltà della grande azienda
capitalistica dell'Italia settentrionale furono superiori a quelle dell'economia del latifondo. Nel
Nord la più alta presenza di popolazione urbana, la maggior estensione del bracciantato e il
più elevato livello di mercantilizzaizone complessiva dell'economia ponevano i produttori
cerealicoli in una posizione di più elevata vulnerabilità. Peraltro nel Mezzogiorno la forte
espansione delle colture specializzate creava una situazione in cui la gerarchi degli interessi e
dei settori predominanti dell'economia si veniva sensibilmente modificando a favore
dell'agricoltura specializzata, a scapito di quella del latifondo e di quelle dell'economia di
mera sussistenza; ma le masse contadine escluse dai dinamismi di questa novità continuavano
a prevalere numericamente anche nel Sud. Con l'introduzione del dazio sul grano del 1887 si
ebbe dunque non solo e non tanto una vittoria dei latifondisti meridionali, quanto anche una
vittoria indiretta dei contadini meridionali dell'interno e di proprietari e imprenditori agricoli
del Centro-Nord e di un proletariato rurale interessato alla salvaguardia di una cerealicoltura
capitalistica. E fu per questa grande estensione degli interessi colpiti dalla crisi agraria che il
protezionismo agrario ebbe partita vinta. Il diverso orientamento delle forze legate alla
cerealicoltura nazionale non fu comunque l'unico fattore nella formazione del nuovo blocco
protezionista che si venne aggregando durante gli anni di Depretis e si consolidò con i
governi Crispi. Con l'inizio degli anni Ottanta si ebbe una svolta dell'intera vita economica
del Paese. Si realizzò allora per la prima volta un avvio dello sviluppo industriale che costituì
comunque un evento di rande portata ai fini dell'affermazione di una nuova geografia delle
interconnssioni tra interessi economici, forse sociali e rappresentanza politica. I fattori di quel
primo esordio industriale furono, come è noto, molteplici. La flessione del prezzo delle
materie prime, unita alla disponibilità di tecnologie giocò a favore dell'avvio di produzioni un
tempo precluse. La costruzione di buona parte della rete ferroviaria nazionale eil
potenziamento generale del sistema dei trasporti realizzato durante il primo ventennio
postunitario cominciarono a favorire anche le industrie nazionali. La migliorata situazione
delle finanze statali dopo il 1876 consentì l'abolizione del corso forzoso che si tradusse in un
aumento della liquidità e in una più larga disponibilità creditizia, che concorse a creare un
clima di grande euforia finanziaria. Euforia che fu poi pagata a caro prezzo negli anni finali
del decennio,quando esplose la crisi del settore edilizio dell'industria pesante, ma che intanto
spinse i maggiori istituti di credito a finanziare la grande espansione urbana in città come
Roma o Napoli, e il decollo di alcuni settori dell'industria collegata alle costruzioni edili.
Maturarono, soprattutto al Nord, nuove forze imprenditoriali che seppero fruttare i nuovi
indirizzi della politica estera statale. Infatti, in seguito al Congresso di Berlino del 1878 e
all'inevitabile presa d'atto dell'isolamento internazionale dell'Italia e della sua debolezza

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militare, fu decisa l'adesione alla Triplice. Da ciò derivava una necessità di rafforzamento
militare e di autonoma capacità di armamento impossibile senza una forte siderurgia
nazionale, irrealizzabile senza una buona protezione doganale.

Il risultato di questo insieme di spinte fu uno sviluppo senza precedenti dell'apparato


industriale del triangolo Milano-Torino-Genova; qui crebbe per la prima volta la produzione
delle industrie meccaniche, chimiche e metallurgiche, ma non furono irrilevanti neppure i
progressi dell'industria del cotone e laniera. Contro questa situazione si rivolsero gli strali più
acuminati della polemica liberista e meridionalista, che indicarono nel protezionismo uno
strumento di politica economica volto a difendere non settori produttivi di importanza
nazionale ma forse economiche settoriali. E se ciò da una parte è vero, non è però per questo
che si può ricondurre la svolta del 1887 al prevalere di interessi settoriali minori. A orientare
la maggioranza parlamentare verso il varo di una nuova tariffa generale concorse la
situazione di estrema precarietà in cui venne a trovarsi la nostra bilancia commerciale. Da un
lato la flessione del valore di mercato di molti prodotti agricoli esportati e dall'altro l'enorme
aumento delle importazioni di frumento degli Stati Uniti e delle materie prime e macchinari
connessa all'espansione industriale, fecero infatti peggiorare il rapporto export-import: ciò
fece registrare il più forte deficit mai registrato prima.

III.2. ​Protezionismo, industrializzazione e questione meridionale ​La nuova tariffa istituita


con la legge del 14 luglio 1887 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1888 indusse quindi dazi
doganali molto alti; la sua natura fu protezionista e dirigista. Una serie di trattati commerciali
successivi mitigò solo in parte l'asprezza di alcuni dazi, e lo sviluppo economico italiano sino
alla liberalizzazione del secondo dopoguerra avvenne all'interno della cornice protezionista
eretta nel 1887. Principale artefice della svolta fu Luigi Luttazzi. Vicepresidente della
Commissione parlamentare d'inchiesta per la recisione della tariffa doganale istituita nel
1883, fu poi relatore per la Commissione della Camera dei Deputati che decise il livello e i
caratteri definitivi della tariffa. La coalizione di forze che si saldò a sostegno della nuova
stagione politica economica era compatta sull'obiettivo immediato di battere il fronte liberista
per arginare il deficit. Essa tuttavia recava al proprio interno un potenziale conflitto tra agrari
e industriali circa gli effetti al rialzo che il dazio sul grano poteva avere sul prezzo del pane e
quindi sul potere d'acquisto dei salari. Ma, soprattutto, la componente agraria on riteneva che
l'adozione della nuova tariffa costituisse il primo atto di un cambiamento radicale del modello
di sviluppo e di un processo storico che si sarebbe concluso quasi un secolo dopo con la
scomparsa della società rurale. Contro la tariffa e la sua politica economica si espresse non
solo la polemica liberista ma anche quella meridionalista. Le argomentazione di ordine
generale dei liberisti si saldarono con quelle sui gravi danni arrecati all'agricoltura
meridionale dalla guerra commerciale con la Francia e sulla riduzione del Mezzogiorno a
mercato coloniale dell'industria settentrionale. Il protezionismo attuato dallo Stato italiano
sarebbe stato errato non in linea di principio, ma perché protesse l'industria siderurgica, per la
quale l'Italia soffriva troppi svantaggi di partenza, mente non avrebbe protetto la meccanica e
la chimica per le quali vi era maggiore probabilità di successo. Il ruolo del protezionismo
sarebbe stato quindi il freno anziché lo stimolo al decollo dell'industria italiana. Nelle

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argomentazioni dei meridionalisti c'era molta verità, perché essi denunciavano i sacrifici che
quella politica aveva imposto all'economia meridionale e facevano un'analisi del modello di
sviluppo dualista dell'economia italiana. In effetti, la tariffa conseguì abbastanza
tempestivamente gli obiettivi a breve termine. La riduzione del deficit commerciale fu rapida,
il disavanzo diminuì. Non si può comunque non dare atto alla politica commerciale del
Luttazzi di essere riuscita sino al 1908 a contenere il deficit del commercio speciale in modo
da garantire stabilità alla Lira. Ma anche la cerealicoltura venne salvata dall'incombente
rovina dei primi anni Ottanta e dei due decenni successivi al 1887 riuscì a realizzare
ammodernamenti tecnici di notevole portata.

Gli obiettivi a medio e lungo termine furono raggiunti, ovviamente ad un prezzo, il più
immediato e doloroso, specialmente per il Mezzogiorno, fu la guerra commerciale con la
Francia, e la conseguente drastica contrazione del volume complessivo degli scambi. Ciò
avvenne soprattutto a scapito di prodotti meridionali in quanto nel 1885-1887 il mercato
francese aveva assorbito il 41% delle esportazioni italiane. Queste erano costituite per lo più
da prodotti come seta, vino, olio e agrumi. Tuttavia, ben presto i francesi trovarono dei validi
sostituti ai prodotti italiani, mentre il Mezzogiorno era costretto dal protezionismo doganale
ad acquistare dall'industria settentrionale i prodotti manufatti che avrebbe potuto avere a
prezzi più bassi dall'industria straniera. Quindi, nonostante non si possa sostenere che la
mancata industrializzazione del Mezzogiorno sia dovuta la protezionismo, è invece
impossibile negare che l'agricoltura del Sud ricevette duri colpi dalla politica doganale;
inoltre, non si può disconoscere la funzione che il Sud svolse come mercato importante per
l'industria settentrionale, la quale finché era rimasta confinata entro i suoi spazi regionali non
aveva imboccato alcuna via di recupero rispetto alle posizioni raggiunte nei Paesi europei
industrializzati. D'altro canto parte degli stessi meridionalisti riconosceva che, in funzione
dell'industrializzazione, non esistevano per l'Italia alternative al protezionismo. Gli
aggiustamenti successivi alla tariffa del 1887 modificarono l'intensità dell'intervento, i suoi
obiettivi settoriali, le modalità tecniche della sua attuazione, ma non abbandonarono mai il
principio generale che lo sviluppo industriale di un paese ​second comer ​potesse avvenire solo
se protetto da una preordinata politica di intervento statale. Il carattere protezionista della
politica economica italiana quindi non fu alterato né dal trattato di commercio con l'Austria
(1887), né da quello con la Svizzera del 1889, e neppure con quello con la Germania già
sottoscritto nel 1883. Con i nuovi trattati si prendeva infatti atto della recente ondata di
protezionismo agrario promossa dagli Stati europei, del ridimensionamento complessivo del
ruolo della seta e dei vini nella formazione dell'export italiano a favore di altri prodotti
agricoli (agrumi, frutta) e, soprattutto, a favore dei prodotti industriali, che per la prima volta
proponevano l'Italia come concorrente sui mercati internazionali.

III.3. Da guerra a guerra ​Dalla Grande guerra scaturì una situazione interna e internazionale
nella quale le spinte al protezionismo avevano assunto una forza enorme e la nuova tariffa
generale tradotta in legge solo nel 1925, fu il frutto di tale clima, poiché manteneva in
prevalenza il sistema dei dazi specifici e introduceva inasprimenti. Né i trattati commerciali
che furono sottoscritti a parziale attenuazione di queste condizioni incisero in misura pari a

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quelli dell'anteguerra. Nel 1925 fu reintrodotto il dazio sul grano, fu maggiorato quello sullo
zucchero, fu estesa la protezione anche sulla carta, alla sera, al riso, al bestiame e alla canapa.
Tuttavia, il sistema protezionista, dopo l'esperienza bellica, cominciò a valorizzare sempre di
più gli strumenti di intervento diretto sul volume delle importazioni a scapito di quelli
indiretti dei dazi. La strumentazione alternativa a quella daziaria si affermò anche in Italia.
Essa trionfò poi con l'attuazione del regime autarchico. Gli effetti sulla bilancia commerciale
furono consistenti e rapidi; il deficit si dimezzò tra 1930 e 1932; poi tr ail '32 e il '34 vi fu una
nuova ondata di inasprimenti doganali, seguita dall'introduzione nel 1935 della licenza
ministeriale per l'importazione di tutte le merci. L'istituzionalizzazione della difesa delle
produzioni nazionali approdò con il programma di autarchia economica al pieno controllo da
parte dello Stato di tutte le operazioni con l'estero. Tale controllo non venne più meno sino al
termine del secondo conflitto mondiale.

III.4​. Dal protezionismo al liberismo del MEC e della UE ​Dopo i primi passi per smantellare
l'intricatissimo sistema di divieti sopravvissuto alla guerra e ritornare ai soli dazi della tariffa
del 1921, l'Italia aderì agli accordi di Ginevra del 1947 e di Annecy del 1949. Eliminò quindi
il diritto di licenza, introdusse dazi ad valorem per una lista di prodotti e infine varò nel 1950
una nuova tariffa generale che sostituiva quella del '21. Comunque non si trattava ancora di
un abbandono del protezionismo. Si eliminavano gli strumenti di controllo non daziari eretti
dopo il '21, ma restava in vigore il sistema dei dazi doganali. Il percorso imboccato aveva
tuttavia una direzione inequivocabile, anche se non poche erano le resistenze. Le tappe
fondamentali di questo processo sono note: alla fine del '46 l'Italia fu ammessa nel Fondo
Monetario Internazionale e alla Baca Mondiale, nel 1947 aderì al GATT, nel '49 all'OECE,
NEL '50 all'Unione Europea dei Pagamenti, nel 1951 alla CECA; nel 1957 al Mercato
Comune Europeo. I successivi passaggi dell'integrazione europea, con l'entrata in vigore
dell'Atto Unico Europeo, la creazione dell'EU, l'adesione all'Organizzazione Mondale del
Commercio (1995), l'adozione dell'Euro, hanno consolidato e completato una strategia di
progressiva liquidazione del protezionismo che fu ideata e avviata nei sui primi capisaldi
essenziali alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso in poi, senza inversione di tendenza.
Il protezionismo doganale su scala nazionale per l'Italia fu del tutto tramontato a partire dagli
anni della ricostruzione postbellica. Il passaggio definitivo all'economia industriale avvenuto
nel secondo dopoguerra fu realizzato nel segno della progressiva liberalizzazione degli
scambi su scala europea. La precedente fase liberista del 1861-1887 era stata teatro della
creazione delle premesse dell'industrializzazione. Il processo di industrializzazione era potuto
avvenire solo in un contesto di mercato nazionale garantito dal protezionismo. Va precisato
quindi che queste diverse stagioni della politica commerciale non vanno viste solo negli
elementi di constato, ma anche nei nessi di continuità che le legano e che si spiegano alla luce
di ragioni storiche, interne e internazionali che furono alla radice del loro succedersi. Non
sarà del tutto inutile ricordare infine che lo sviluppo industriale del dopoguerra ha visto
l'industria italiana attestarsi per decenni sul pilatro portante delle produzioni tradizionali a
lungo protette dalla politica di fine Ottocento (tessili e metalmeccaniche), e su quello degli
assaetti tecnici, geografici e sociali creatisi nel corso degli anni Trenta, senza mai riuscire a

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entrare veramente in competizione nei settori della ricerca avanzata, salvo nei tempi più
recenti. Ma le ragioni di tutto ciò non sono più addebitabili in misura decisiva al liberismo,
bensì a condizioni di operatività dei fattori produttivi che in Italia chiamano in causa tutt'altre
componenti che quelle della libera circolazione delle merci su scala internazionale.

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