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Il Grillo

FORTE: Sono Bruno Forte, sono un teologo, un professore di Teologia e come vedete un
sacerdote. Ma chi sono veramente? Sono un "mendicante del cielo", vorrei dire con le parole
di Jacques Maritain, un uomo che ha un orecchio incollato alla terra per coglierne le
germinazioni nascoste e un orecchio in ascolto del cielo. E' un uomo che vive la fatica di
coniugare questi due ascolti, di essere fedeli a questa storia, a questa terra, che amiamo, e al
tempo stesso all'altro, allo sconosciuto, allo straniero, che è diventato il vivente nell'incontro,
che, nella fede, ho vissuto con lui. Sì, perché io sono un uomo che pensa, che sente
fortemente l'ansia della ricerca, la passione del domandare. Ma sono anche un uomo che è
stato raggiunto, in un certo momento della sua vita, dall'altro, dall'esperienza del Dio vivente.
E questo nulla ha tolto alla mia fatica di pensare, anzi,vorrei dire che l'ha accresciuta. C'è un
pensatore ortodosso, Paul Evdokimov, che dice: "Non è la conoscenza che illumina il mistero,
E' il mistero che illumina la consocenza". Chi è stato raggiunto dall'altro, chi si è aperto al
mistero di Dio, non è meno pensante, ma più pensate. Ecco, io credo che siamo qui insieme,
ragazzi, per pensare e cercare insieme, lasciandoci sfidare dall'altro, tutti, credenti e non
credenti, che in questo senso siamo compagni di strada, fratelli, sorelle, nell'unico viaggio,
che è quello che ci accomuna verso l'orizzonte ultimo, verso il mistero o così, soltanto
nell'evidenza della vita, verso l'oscurità e il silenzio della morte. Chi siamo noi? Cerchiamo di
capirlo insieme, cominciando dal filmato che è stato preparato per questa puntata, che ci aiuta
probabilmente non a trovare risposte, ma a porre, in maniera vera, le domande, che è poi la
cosa più difficile, ma è anche quella per cui vale più la pena di impegnarsi. Vediamo.
-Si visiona il filmato:
PRESENTATORE: Il credente è pensoso. Pellegrino nella notte della fede, non
dovrebbe mai dimenticare che ha a che fare con il Dio vivo. L'oggetto del suo
indagare, prima di essere qualcosa, deve essere riconosciuto come qualcuno, che,
rivelandosi, non si è soltanto detto, ma si è più altamente taciuto. Rivelandosi Dio si
vela, comunicadosi si nasconde. Lottare con questo Dio è, al tempo stesso, la
debolezza e la forza del credente, dove Dio inquieta, come l'assalitore notturno
dell'esperienza di Giacobbe al guado, lì l'uomo è veramente interrogante e vivo nella
sfida. Lungi dall'essere un'ideologia rassicurante, la fede è un continuo convertirsi a
Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando, ogni giorno, in modo nuovo, a
vivere la fatica di credere, di sperare, di amare e proprio per questo di esistere per gli
altri. Si può allora affermare che il credente non è che un ateo che ogni giorno si
sforza di cominciare a credere. E non sarà anche l'ateo un credente che ogni giorno
vive la lotta inversa di cominciare a non credere? Non certo l'ateo banale, volgare, ma
chi vive la lotta vera con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato,
patisce l'infinito dolore dell'assenza di Dio, non sarà l'altra parte di chi crede? E se c'è
una differenza da marcare, non sarà dunque quella tra credenti e non credenti, ma
l'altra, tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere
la sofferenza del pensiero, di continuare a cercare per credere, sperare ed amare e
uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentate
dell'orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia, al
pensiero dell'ultimo orizzonte e dell'ultima patria. Qualunque atto, anche il più
costoso, è degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della verità e il
coraggio di tendere ad essa fino alla fine, oltre la fine.
-Fine del filmato.
FORTE: Sì, sono pienamente d'accordo che il credente è un ateo, che ogni giorno si sforza di
cominciare a credere. Se così non fosse, la fede sarebbe qualcosa di scontato, un riposo
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tranquillo, una morta ideologia. Ma sono anche convinto che l'ateo - non il volgare ateo, che
in maniera disimpegnata e con nonchalance dice di non credere in Dio -, ma l'ateo che vive la
passione della lotta, l'ateo che pensa fino in fondo il dramma della fede, è in qualche modo un
credente, che si sforza di cominciare a non credere. Perciò credo che, credenti e non credenti,
pensosi, siano infinitamente più vicini di quanto si possa normalmente ritenere. L'uno è parte
viva dell'altro. Ecco perché ciò di cui parliamo oggi, ci tocca tutti, ci riguarda tutti. Si tratta di
mettere in discussione noi stessi nel più profondo del nostro cuore, delle nostre inquietudini,
delle domande che, almeno una volta nella vita, necessariamente ognuno si pone. Sono queste
le domande su cui si gioca il dialogo fra cristianesimo e ateismo, più in generale fra fede e
non fede, fra "credere"- secondo una curiosa etimologia latina "credere" significa "cordare",
dunque compromettersi totalmente per l'altro misterioso e assoluto - e non fede, non credere,
resistere in questa lotta dove, se la resistenza è frutto di una intelligenza viva e appassionata,
credo che abbia tutto una enorme dignità. Ecco sono i temi su cui oggi ci incontriamo e ci
incontriamo a partire dalle vostre domande, non certo dalle mie risposte. Cominciamo.
STUDENTESSA:Io volevo farLe una domanda.
FORTE: Come ti chiami?
STUDENTESSA: Marta. Qual'è la differenza tra ateo e agnostico?
FORTE: Ma di per sé l'agnostico è colui che ritiene di non poter conoscere, quindi di non
poter nulla dire sull'ultimo mistero, sull'ultimo silenzio. Di per sé l'ateismo implica una
negazione più radicale. Ecco perché io credo che l'ateismo, nel senso rigoroso del termine,
non possa esistere, perché l'ateismo implica una presunzione di totalità, che solo i mondi
delle ideologie, i grandi racconti delle ideologie potevano sognare di avere. Oggi in un'epoca
di pensiero debole, di ragione ferita, di "crisi delle ideologie", come si dice, io credo che
nessuno, seriamente pensante, oserebbe fare l'affermazione così totale e universale, che Dio
non c'è. Dunque credo che oggi la passione, la fatica sia piuttosto quella dell'agnosticismo,
cioè della fatica di conoscerlo, della fatica di aprirsi alla sfida del mistero. Ma anche il
credente in qualche modo è un agnostico, nel senso che anche nel credente c'è un dimensione
profonda di oscurità e di mistero. Guai se il credente pensasse di avere tutto chiaro e di avere
la risposta pronta per tutto. E allora ancora una volta le carte si rimescolano, le nostre
sicurezze si smobilitano, i bastioni cadono. Siamo tutti nella stessa barca, siamo tutti in
ricerca, avventurieri del pensiero, ma al tempo stesso navigatori verso un mistero che ci
sorpasssa. Un grande storico, Hans Blumenberg, definisce questa condizione nostra, di donne
e uomini del post-moderno, come si dice, "naufragio con spettatore". Sì tutti abbiamo fatto
naufragio rispetto ai grandi racconti delle ideologie, tutti siamo più poveri, tutti siamo in
ricerca. In tutti noi c'è una dimensione di agnosticismo, ma, grazie a Dio, tutti oggi possiamo
con libertà dire che di ateismo non se ne parla neanche, se si intende con ciò la banale
negazione di Dio. Non so se ti ho in qualche modo risposto, ma è quello che la tua domanda,
Marta, suscitava in me, come immediata reazione. Vediamo, c'è qualche altro?
STUDENTESSA: Buongiorno.
FORTE: Ciao, tu sei?
STUDENTESSA: Mi chiamo Flavia e volevo chiederLe come si spiega il fenomeno dei
credenti non praticanti e dei credenti praticanti, ma passivi?
FORTE: Ma io credo che, quando si ha a che fare col mistero, tutti quanti noi abbiamo una
reazione abbastanaza istintiva di difesa. Le cose che si vedono, le cose che si toccano sono
sempre più rassicuranti. Vi siete mai chiesti, ragazzi, perché le ideologie hanno fatta tanta
presa, per esempio, sulle donne e gli uomini del nostro secolo, il cosiddetto "secolo breve"?
Perché le ideologie rendono un gran servizio agli uomini. Non li fanno pensare. C'è un altro
che pensa per te, il capo, comunque questo capo si chiami. Il nostro secolo viene chiamato
ormai il "secolo breve" per questo motivo, perché si è svolto, fra il 1914, lo scoppio della
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Prima Guerra Modiale, e il 1989, con una enorme rapidità, ma questa rapidità era dovuta
esattamente al fatto che il secolo XX° è stato il secolo del grande trionfo dei miti ideologici,
ma anche della loro crisi, di tutti i miti ideologici, di destra e di sinistra, qui non facciamo
questione di una ideologia. Ora anche il credente spesso tende a rassicurarsi in una ideologia.
Allora l'ideologia ti fa comodo, ti tranquillizza, ti fa vivere la cosiddetta appartenenza
parziale, cioè io accetto della fede, tutto sommato, ciò che mi sta bene, ciò che non mi
compromette veramente. Io credo invece che, quando si ha a che fare con Dio, si ha a che
fare col fuoco. Dio ti prende tutto, ti brucia tutto, se no non lo hai veramete incontrato. Allora
quello che tu dicevi, riguardo ai credenti, diciamo, a mezzo impegno, credo che sia veramente
il segno di una resistenza ideologica, che tutti ci portiamo dentro. Io credo che come
nell'amore, così nella fede, la totalità, la radicalità della passione sia l'unica degna di essere
vissuta in una enorme paura, non di chi rifiuta Dio, ma di chi, nella indifferenza e nella
mediocrità del non pensare, credente o non credente che sia, non lo cerca con tutta la passione
della sua vita.
STUDENTE: Mi chiamo Davide. Volevo porre una domanda anche in base alla scheda che
abbiamo appena visto: dunque l'ateismo può essere considerato come una fede rovesciata?
FORTE: Ma guarda, in un certo senso sì, lì dove è vissuta con grande serietà e passione. Cioè
chi si dice "non credente" e lo fa, non per una ragione di comodo, ma per la fatica di
riconoscere il mistero più grande, di un Dio che si rivela nella storia, fa anche lui, anche lei
un grande atto di fede, la fede, come dire, nell'orizzonte penultimo. E io mi sento di rispettare
questo atto di fede enormemente, anche perché chi veramente è pensante, non può vivere la
condizione di non credenza come una condizione tranquilla. In altre parole: chi non crede
sente l'infinito dolore dell'assenza, se la sua non credenza non è un comodo bagaglio
dieologico. Per esempio, che ne è del senso della vita, che ne della morte, che ne è delle
ultime cose? Io credo che queste son domande che dobbiamo riprendere tutti e non importa il
fatto che queste domande sono una sorta di "pudendum", di qualcosa di cui quasi ci si
vergogna. Soprattutto quando si parla coi giovani, non si vuol parlare di questi grandi temi,
come la morte, il senso della vita. C'è una sorta di indifferenza, che è quasi una sorta di
parlare in maniera political corrected, come oggi si dice, quella correttezza del parlare. No,
noi dobbiamo trasgredire queste forme. E io credo che il non credente, a suo modo credente,
è colui che accetta questa trasgressione.
STUDENTE: Scusi professore, ma di chi ha cercato e non ha trovato?
FORTE: C'è una frase drammatica nella Bibbia, che si ripete nell'Antico e nel Nuovo Patto.
Vedete là c'è il Libro delle Scritture - in ebraico e in greco, che sono i testi originali -, ebbene
tanto nell'Antico che nel Nuovo Testamento, c'è una frase che dice: "Ho amato Giacobbe e ho
odiato Esaù". E' una frase sconcertante. Perché? Perché da una parte Giacobbe e Esaù sono
come noi, uomini in ricerca. Ogni uomo è in ricerca. Qua c'è un altro segno che vorrei
mostrarvi. C'è un quaderno - non so se tutti potete vederlo - con una penna. Che cosa
significa il quaderno con la penna? A me sembra che possa significare questo: il gesto col
quale l'uomo esce da sé, si oggettivizza in una scrittura. Ecco l'atto della scrittura è un atto di
trasgressione del tuo mondo assoluto. Tu ti esili da te, ti oggettivizzi e diventi fruibile per
tanti. Questo è segno - l'atto semplice dello scrivere -, è segno del fatto che noi siamo tutti dei
pellegrini in ricerca. Ora perché ad alcuni quei libri parlano come rivelazione di Dio e ad altri
no? Certo ci possono essere delle ragioni di nostra resistenza, di nostro non ascolto, ci
possiamo stordire anche nella superficialità, però è vero - sarebbe disonesto dire che non è
così -, che ci sono persone disposte radicalmente a lasciarsi mettere in questione, ma che
dicono: io non sono stato raggiunto, toccato dalla grazia. Che dire? Questo è un grande
mistero anche per me credente. E' una domanda che, tante volte, io, credente pensante, pongo
al mio Dio. E come vedi, pur essendo credente e teologo, per giunta, io non sono l'uomo che
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ha le risposte pronte su tutto. Ecco io rispetto il mistero di questo enigma, come lo ha
rispettato Paolo nella Lettera ai Romani. In altre parole io penso che, pur amando Dio tutti e
ciascuno, ha tempi e momenti diversi. Allora ciò che conta è non essere pigri nella ricerca e
non mascherarsi dietro presunte, false sicurezze, essere dei pellegrini della vita del pensiero,
che cercano. Poi, per alcuni verrà prima, per altri dopo, per altri misteriosamente, non
sappiamo quando, questo incontro che ti cambia il cuore e la vita. Questa è la grazia, che io
riconosco di averla ricevuta, ma nello stesso tempo capisco il dramma di chi dice: "Ma io non
sono stato toccato". E allora l'unica cosa che posso chiedergli: "Sei un cercatore vero, uno che
non si maschera? Se sei tale, credo che questo, davanti a Dio, sia la dignità più alta". Lo dico
in una battuta: io credo che, quando andremo davanti a lui, lui il Dio vivente in cui io credo,
non ci chiederà conto di averlo trovato, ci chiderà conto di averlo cercato. Poi, per molti,
spero per tutti, ci sia anche la gioia di averlo trovato.
STUDENTESSA: Sono Veronica. Le volevo chiedere: ma chi allora può essere considerato il
vero credente e quale cammino deve fare per essere considerato tale, cioè credente?
FORTE: Mi hai posto una domanda, coerente col tuo nome. Veronica è la "vera icona". Tu
cerchi la "vera icona", la "vera immagine" del lottatore con Dio. Bene, io credo che il
credente è esattamente Giacobbe, che lotta nella notte. Il credente non è chi vive della fede
come di un possesso scontato. La verità della fede non è qualcosa che si possiede, ma
qualcuno che ci possiede. Pensa che in ebraico, la lingua dell'Antico Testamento - perciò ho
voluto portare i testi originali - "verità", come parola, in un certo senso non esiste. "Verità" si
dice "emet", che significa "fedeltà". Cioè la verità per l'ebreo, per il mondo della Bibbia non è
un oggeto che si vede, come in greco, aletheia, tolgo il velo e vedo, posseggo. Verità è un
patto, un rapporto. Dunque il vero credente, la vera icona del credente è quella di chi è in
continuo rapporto dialettico di lotta, d'amore, di resa, d'abbandono, di conquista con il suo
Dio, non certamente di chi riposa sugli allori di certezze comode e scontate. Io vorrei, è
questa la passione che ho nel cuore, non tanto dare a voi delle risposte, quanto accendere in
me e in voi delle domande che ci facciano cercatori del Volto, cercatori di quell'icona vera,
del lottatore con Dio, dove - questo sì l'aggiungo da credente -, alla fine l'importante non è
che vinca tu, ma che vinca l'altro. Vince chi perde, cioè vince chi si arrende al mistero più
grande. Ecco questo mi sembra il vero credente, e in questo senso il non credente pensante è
vicino a lui, come prima Davide con la sua domanda in qualche modo ci faceva pensare.
STUDENTESSA: Padre, scusi, io sono Stefania. A questo punto però io continuo a chiedermi
se anche l'ateismo, come abbiamo detto, è una credenza, una credenza rovesciata, ecco.
Allora come definire l'ateo proprio?
FORTE: Ma guarda, tutto sta a capire quell'alpha privativa, che è davanti alla parola Dio. Se
per ateo si intende colui che presuntuosamete nega Dio, dice: "Dio non c'è", - beh, la Bibbia
ne ha dato la definizione - "è solo lo stolto che dice così". In altre aprole è un'affermazione di
troppo grande presunzione questa, per dire: "Io conosco talmente il tutto da poter dire che in
questo tutto non c'è spazio per l'alterità assoluta, la trascendenza assoluta". Chi di noi, in
un'epoca di ragione critica, può fare un'affermazione del genere? Allora l'idea di ateo, che
dobbioamo assumere e che mi sembra anche la più rispettosa per la dignità del cosiddetto
ateo, è l'idea di uno che non è che neghi Dio con sua presunzione, ma che sperimenta
dolorosamente perfino l'assenza di Dio. Cioè è il senza Dio non perché lui l'ha negato, ma
perché lui non si sente raggiunto, toccato, amato da quest'esperienza dell'altro, che gli cambia
il cuore e la vita. Paradossalmente l'ateo è colui che soffre l'assenza di Dio più del credente e
se non è così, la sua è un'ideologia volgare, a buon mercato, che non dice nulla alla vita. Ecco
io ho paura non dell'ateo vero, dell'ateo che soffre l'assenza di Dio. Io ho paura
dell'indifferente e,devo dirlo però, indifferente può essere anche un credente non pensante,
che dorme sugli allori di una fede scontata, di una fede ideologica. Io credo che la grande
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provocazione è di essere tutti pensanti. La frase che sentivamo nel filmato, mi sembra che sia
in origine di Bobbio, il quale dice che la grande differenza forse, oggi, non è fra credenti e
non credenti, ma fra pensanti e non pensanti. Che cosa vuol dire lui? Non che non ci sia una
differenza nel credere o non credere, ma che all'interno del credere o non credere ci sono due
possibili radicali atteggiamenti, cioè quello di chi pensa, di chi pone domande vere e vive la
sofferenza della ricerca e c'è quello di chi non pensa più. Ecco io credo che dobbiamo
incontrarci nel pensare. Io penserò la mia fede, penserò il mio Dio, quel Dio che mi ha rapito
il cuore e la vita e che nella sua parola si è pronunciato. Ecco, la mia ricerca, il quaderno, si è
incontrato con la sua parola. E allora il vero problema diventa, la vera grande domanda: ma
dove questo incontro si compie?
STUDENTESSA: Ma allora il non pensante, quello che non pensa più, non pensa per motivi,
ad esempio, per dolori che gli sono capitati? Allora come può ritornare al pensare?
FORTE: Ma Veronica, la tua domanda è molto bella, perché, in realtà, mi spiazza su un piano
decisivo. Cioè tu mi dici: "Ma non ti sembra che quello che stai dicendo è un po' troppo
teorico? Cioè non ti sembra che tanta gente non pensa non perché non voglia pensare, ma
perché pensare fa soffrire?". E' vero. Lo dicevo prima. La grande comodità delle ideologie è
che ti tolgono la fatica del pensare, ti fa essere come un cane che sta al guinzaglio del suo
padrone. Ma la fede non può essere così. La fede non può essere l'deologia di un cane al
guinzaglio. La fede deve essere ricerca e anche la fede di chi non crede, io credo, debba
essere ricerca. Per cui ancora una volta è questa forte provocazione alla ricerca del volto, alla
ricerca dell'incontro. Io ho voluto altri due segni, vedete qui: uno è molto noto, è l'immagine
di Madre Teresa, e l'altro è un segno che nella tradizione cristiana è pieno di singnificato
simbolico: un pane spezzato e un calice di vino. Sapete che è il simbolo, nella tradizione
biblica, ebraica della vita condivisa. Il pane spezzato e mangiato insieme è la vita condivisa,
il calice è il simbolo del destino sofferente, quindi chi beve allo stesso calice soffre insieme.
Sapete che il Gesù di Nazareth, il profeta galileo, il figlio di Dio, nel quale io credo come
cristiano, ha scelto questi due segni per il gesto supremo del suo amore, l'Eucarestia. Il pane
spezzato e il calice del vino sono diventati nell'Eucarestia il simbolo reale, efficace di una sua
condivisione con noi. Cioè noi condividiamo la vita e il dolore col nostro Dio. Ecco allora
due grandi simboli. Dove si incontra il Dio vivente con l'uomo vivente? Nella carità, cioè nel
destinare la propria vita all'altro, nel vivere questo esodo da sé senza ritorno, che è l'amore, e
in quel pane e in quel vino in cui Dio si compromette per noi. In America Latina mi hanno
insegnato un proverbio meraviglioso, che dice: "Colui che ama si sporca le mani fino in
fondo". Bene, questo pane spezzato, questo vino simbolo della condivisione, della
compromissione di Dio nel pane e nel vino dell'Eucarestia, ci dicono chi è il nostro Dio. Ecco
è il luogo dell'incontro, il vero, la vera sfida, il vero inquietante problema di chi sta cercando
il volto dell'altro.
STUDENTESSA: Professore l'ateo può diventare credente. Ma è possibile che si verifichi il
passaggio inverso, cioè che il credente diventi ateo?
FORTE: Certamente. Nessuno è garantito in maniera scontata nella sua fede. Ma cerchiamo
di capire i due passaggi. Quand'è che l'ateo diventa credente? Quando, nella sua lotta con
Dio, quella definizione alta dell'ateo come chi "lotta con Dio", accetta di arrendersi all'amore
dell'altro, più violento del fuoco della morte. E' quanto avviene nella scena di Giacobbe.
Deunamuno diceva: "La mia religione è lottare con Dio", dall'aurora fino al cadere delle
stelle, fino al cadere della notte. Dunque l'ateo che accetta questa capitolazione allora diventa
credente. E quand'è che il credente diventa ateo? Quando trasforma la sua fede in una comoda
ideologia, con la cui comincia a giudicare gli altri, quando non vive più la passione e
l'inquietudine sofferta, appassionata di una ricerca, di una lotta con Dio, che diventa esodo da
sé, uscita da sé nell'amore per gli altri, quando non si sporca più le mani per compromettere la
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sua vita, destinandosi a Dio, destinandosi al prossimo. E' allora che, anche se non lo dicesse
con le parole, con i fatti, con il cuore egli diventa un ateo volgare, un lontano da Dio. Bene, io
credo che il dramma si può sempre giocare. Ecco perché, credenti e non credenti, siamo
sempre sulla soglia. Ma questo rende la nostra vita bella; degna di essere vissuta. Ci rende
appassionati, ci rende, vorrei dire, giovani dentro. Si può esser giovani a ottant'anni e vecchi a
diciotto. Dipende dalla passione con cui tu cerchi il senso e il volto dell'altro nella tua vita.
STUDENTESSA: Ma l'istituzione ecclesiastica, la Chiesa, aiuta realmente i credenti nel
cammino verso Dio, verso la verità insomma?
FORTE: Ma dipende, nel senso che certamente per incontrare Dio non si può essere soli,
perché Dio ti proietta fuori di te. Dunque importante è che ci siano gli altri. Ma naturalemente
questi altri possono essere, al tempo stesso, quelli che ti testimoniano lui o quelli che in
qualche modo te lo nascondo. Certo, in ogni caso, nella comunità dei credenti si ha la parola
di Dio, si hanno quegli eventi della carità e dell'incontro con lui, che aiutano a cercarlo. In
questo senso io credo di averne profondamente bisogno. Ma ecco è un'esperienza da fare
vivendola, in qualche modo scoprendo, al di là anche dell'apparenza esterna, che qualche
volta può essere anche un po' imponente, la semplcità di un rapporto umano e fraterno, fra
quelli che credono. No?
STUDENTESSA: Mi scusi padre, secondo Lei la fede non è un aggrapparsi a un vincolo,
tramite il quale è possibile darsi delle risposte, che poi con la ragione non è possibile
arrivarci, quindi un cullarsi su questo?
FORTE: Ma può essere anche questo, qualche volta la fede può essere alienazione. Ma
normalmente è così quando tu pensi di avere risposte solari, luminose, dove tutto sia scontato.
C'è, mi sembra, un filmato che è stato preparato, di un uomo, di cui ero profondamente
amico, Sergio Quinzio, che mi sembra che ci testimoni esattamente l'opposto di questo, cioè
che la fede non è appunto un riposo scontato e tranquillo, ma l'incontro con Dio è sempre un
incontro con un mistero che ti inquieta, che ti provoca. Proviamo ad ascoltarlo, poi caso mai
lo commentiamo, se è possibile.
-Si visiona il filmato:
QUINZIO: Io continuo a dire che è continuamente prevalente nell'orizzonte ebraico
cristiano quest'idea del Dio, che come appunto, è stato scritto di Dio non si parla. Non
c'è, non c'è discorso tematico su Dio, perché, o Dio parla e ci rivela la sua volontà e ci
dà i suoi ordini, oppure a Dio si parla per pregarlo, per chiedergli qualcosa, per
adorarlo. Al di fuori di questo non c'è, non c'è nessuna possibilità. Ora questo,
insomma diciamo è un ruolo che ci apre sempre nei libri sapienzali dell'Antico
Testamento. Anche nei libri sapienziali si accoglie questa sapienza naturale. C'è il
Libro dei Proverbi: comportati, sta attento a non dispiacere il potente, perché il
potente ti potrà minacciare, guardati dalla pigrizia. Cioè c'è tutta un'area in cui
vengono assunte delle esperienze comunemente umane, tra le quali entrano appunto
anche queste, per esempio di dire: "Ma vi rendete pur conto che c'è un universo". Le
cose ci sono, ci sarà un creatore, ci sarà un'origine, però non direi che questo viene
mai imposto al centro, perché poi nell'orizzonte biblico prevale enormemente la
parola di Dio, anche quando contraddice totalmente tutte le regole che si possono
dedurre da un ordine naturale, diciamo così. Allora, perché in effetti, quando, quando
Dio ordina ad Abramo di uccidere il figlio, evidentemente va totalmente in una
direzione opposta, ma insomma totalmente opposta a quella che è la leggenda, tra
virgolette, "naturale", e va quando gli promette un figlio dal grembo sterile di Sara,
essendo lui centenario, eccetera. Cioè in definitva prevale sempre l'aspetto
paradossale.
Questi aspetti coesistono, cioè un aspetto in cui certi valori naturali sono riconoscibili
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e possono avvicinarci a Dio, però è anche vero che Dio, quando parla, trascende di
gran lunga, spezza questa logica naturale, questa logica mondana, per darci una verità
che sta al di là di quella. E mi pare questo molto più decisivo di quell'altro.
-Fine del filmato.
FORTE: Quello che è molto bello in Sergio Quinzio, come avete ascoltato, ed è stato il leit
motif di tutta la sua vita è che lui non è un credente che riposa nello scontato - dunque la fede
quasi come rassicurazione o alienazione -, ma che vive anzi il tormento, la passione
dell'incontro con Dio. Ecco questa è la risposta forse più evidente, più forte alla tua domanda.
Una fede che sia rassicurazione è una maschera; la fede è comunque e sempre inquietudine e
passione, com'è l'amore, com'è l'amore.
STUDENTE: Scusi professore, mi chiamo Luigi. Vorrei sapere: non pensa che il contesto
sociale, soprattutto con la presenza del papato, finisca per condizionare l'espressione del non
credente? Cioè non pensa che il non credente si senta come un peccatore e venga considerato
tale?
FORTE: Ma dunque, che venga considerato tale io penso proprio di no, perché, se no,
insomma, non ci sarebbe anche tanta e diffusa professione di agnosticismo, di dubbio, di
insicurezza. Anzi, in qualche modo mi sembra che, in certi momenti, oggi è più difficile dirsi
credenti e testimoniare una fede convinta che non il contrario. Convengo che i
condizionamenti culturali e storici nel nostro paese certamente ci sono, direi, come in ogni
cultura e in ogni contesto. Naturalmente questo non è un vantaggio per il cristianesimo. Cioè
il cristianesimo ha bisogno di grande libertà e qualche volta il fatto di essere un paese
tradizionalmente cattolico, potrebbe dar per scontato in qualche coscineza debole
l'appartenenza cristiana. Ecco mi sembra che però l'inquietudine su questo punto deve essere
certa, deve essere chiara, una fede comoda scontata, di appartenenza tranquilla. Non è la fede
del Dio biblico, non è la libertà a cui Gesù ci ha chiamato.
STUDENTE: Professore, scusi, volevo spostare l'ambito della discussione su un altro tema.
Volevo, chiederLe: ma un cristiano come deve porsi rispetto ad altre religioni? Deve cercare
di convertire, accettare?
FORTE: Ma, Davide, io sono convinto che chi crede sul serio nel Dio vivente sa che Dio è
comunque più grande di tutte le rappresentazioni che noi possiamo farci di lui. E allora nel
credente si combinano due atteggiamenti fondamentali - almeno mi sembra -: da una parte
quello di una profonda fede nel suo Dio, nel Dio vivo, che per un lato è in Cristo nel credente
cristiano, per cui lui sarà il testimone e l'annunciatore di questo Dio, però anche il profondo
rispetto dell'altro, nella convinzione che ci sono vie misteriose e spesso attraverso queste vie
Dio raggiunge il cuore dell'uomo. Dunque vorrei dire: al tempo stesso testimonianza, ma
anche dialogo, rispetto. E coniugare questi due atteggiamenti non è facile. Un credente che lo
voglia fare - e lo voglia fare sul serio - spesso vive delle tensioni e delle lacerazioni che sono
molto grandi e che sono sempre più frequenti in un contesto multietnico e multiculturale,
come il nostro. Ma bisogna vivere questa strada piuttosto che quella comoda di chiudersi
nella sicurezza oppure di aprirsi ad un relativismo, direi perfino ingenuo.
STUDENTE: Quindi Dio ha parlato a tutti praticamente.
FORTE: Ma io credo che Dio cerca le strade del cuore di tutti, del cuore di tutti. Come
credente cristiano penso che abbia parlato a noi, in modo molto forte e pieno, in Gesù di
Nazareth, Signore e Cristo. Ma proprio questa convinzione di un Dio che è amore, quale è
quello che Dio mi ha rivelato in Gesù, mi fa pensare che anche altri, che tutti anzi, sono in
qualche modo amati da lui e raggiunti per vie misteriose, anche se, anche se, ecco, cercare di
capire queste vie, di rispettarle, è una fatica sempre aperta. Non lo nascondo.
STUDENTESSA: Senta, padre, ma che cosa dovremmo pensare di Dio, cioè come un
qualcosa di giusto, di buono, oppure come un'entità crudele, come, per esempio, è stato
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interpetato precedentemente da persone che, comunque, in nome di Dio, uccidevano gli
eretici. Quindi che cos'è Dio, un'interpetazione? cioè come un uomo vede Dio allora quello è?
FORTE: Già il fatto che tu sia aperta alle possibilità, diverse dalla risposta, dà una risposta.
Cioè è chiaro che c'è un' interpretazione, cioè è chiaro che ognuno di noi sia prossimo al
mistero di Dio con delle sue domande, che in qualche modo orientano la sua ricerca.
L'importante allora è anche cercare dei riferimenti oggettivi, che vanno al di là della ricerca
soggettiva. Per il credente cristiano questi riferimenti sono la rivelazione di Dio, cioè appunto
quella parola dell'Antico, del Nuovo Patto, dove Dio si rivolge agli uomini, fino alla piena
comunicazione, nell'amore del Cristo, nella sua croce. Ecco, io credo che noi dobbiamo
misurarci, per sapere chi è Dio, non sui nostri desideri o sulle nostre proiezioni, ma forse
proprio su quei parametri oggettivi che molte volte ci turbano, ci inquietano, ma proprio per
questo sono salutari. Dobbiamo metterci in ascolto dell'altro, non voler catturare l'altro.
Perciò, vedi, il cristianesimo è una fede che rende pensanti, che non ti addormenta, perché
Dio ha parlato in modo tale da provocarti continuamente a trasgredire, a violare la sua parola,
per entrare in essa e oltre essa, verso l'abisso.
STUDENTESSA: Mi scusi, padre, ma allora un buon cristiano deve tener conto della fede o
della ragione o in tutte e due le cose insieme?
FORTE: Se fede e ragione vengono intese come due mondi totali non sono conciliabili. Ma se
la fede è indagante e la fede è una domanda aperta e non la presunzione di capire tutto, non
c'è nulla di più razionale che la fede, non c'è nulla di più credente che la ragione. Vorrei dire
si abitano l'una nell'altra. E in questo senso non si fanno concorrenza. "Credo ut intelligam et
intelligo ut credam". "Credo per pensare e penso per credere". Ed è questo che rende
possibile il dialogo fra tutti coloro che, credenti o non credenti, sono però pensanti, come
stiamo facendo noi in questo momento. No?
STUDENTESSA: Volevo domandarLe, ma che differenza c'è tra un Dio della religione, per
esempio cattolica e un Dio della religione buddhista. Cioè, non pensa che magari un budhista
chiama il proprio Dio Buddha e invece noi lo chiamiamo Dio? Però poi è unico? Ciò che fa il
nostro Dio, in effetti lo fa anche Buddha, soltanto che viene semplicemnte chiamato in altri
modi.
FORTE: Quello che tu dici ha una parte di verità, certamente, perché ognuno di noi proietta
nella sua esperienza di fede, in qualche modo, l'immagine che ha di Dio. Però se fosse solo
questo, se fosse solo questo, credere sarebbe semplicemente il prodotto di una azione umana,
di un orizzonte umano di senso. Io credo invece che credere è realmente il frutto di un
incontro fra questa ricerca dell'uomo, di cui è metafora e simbolo il quaderno e la penna,
questa parola di Dio di cui è simbolo e metafora la parola rivelata nella fede ebraico-cristiana,
che devono però intrecciarsi, incontrarsi. E ancora una volta il problema grande è se ci sono
dei luohi oggettivi di questo incontro e in che misura anche le varie religioni storiche
realizzano questi luoghi. Per esempio la carità. C'è differenza o no nel vivere la testimoniza
dell'amore fra i modelli delle grandi religioni storiche? Per esempio, questa forte
compromissione di Dio, che nel cristianesimo ci viene indicata addirittura nei segni dei
sacramenti. Il pane e il vino sono consacrati nell'Eucarestia, sono la compromissione di Dio
con la carne, la storia del mondo. Insomma ci sono dei riferimenti oggettivi su cui è possibile
stabilire un confronto e un dialogo; non per reciprocamente negarsi, ma per riconoscersi nella
verità reciproca e nella verità che ci trasende tutti. Dunque non un tutto va bene, ma un
cercare con passione la verità che ci trascende e che in qualche modo viene verso di noi. Mi
smebra che questa sia la fatica a cui tutti siamo chiamati. E non è facile.
STUDENTE: Professore il quesito che da sempre mi attanaglia, che molte persone mi hanno
chiesto, ma io non ho saputo dare risposta: "Ma il Dio cristiano è un Dio punitore?"
FORTE: Tu che immagine hai di lui?
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STUDENTE: Io credo che sia un Dio donatore, perché dona; cioè da come un uomo si
comporta nella vita, gli spetta qualcosa, diciamo, nel Regno dei Cieli. Ecco Dio gli dona ciò
che gli spetta.
FORTE: Ma guarda un Dio contabile non mi piace molto, a dire la verità, preferisco perfino
un Dio giudice al Dio contabile. Cioè al Dio che ti sta quasi a misurare il bene e il male che
hai fatto, per ricompensarti in rapporto a questo, io preferisco il Dio che ti scruta fino in
fondo e che ti dice veramente tu chi sei. In altre parole anche qui è faticoso, ma credo che sia
necessario, richiamare l'immagine di un Dio scomodo, cioè di un Dio che non si adatta a
quelle che potrebbero essere le nostre, le nostre attese, ma che le sconvolge, le sovverte. Non
lo so, ecco, un Dio che ci rende tutti inquieti.
STUDENTE: Professore io Le volevo fare una domanda che poi riguarda un altro ambito,
insomma: quali sono i limiti del Cristianesimo, secondo Lei, nella civiltà odierna? Ad
esempio il confronto che c'è tra scienza e religione rivelata, Lei come lo vede?
FORTE: Ma anzi tutto la domanda sui limiti del Cristianesimo, direi soprattutto i limiti che i
Cristiani hanno espresso nella storia, sono tanti. Mi sembra anzi importantissimo per chi
crede non negarli, riconoscerli, perché chi crede si senta in qualche modo solidale con un
popolo che è in cammino nel tempo. E quindi i limiti e le colpe dei padri sono un po' anche le
sue. Quindi la prima cosa è riconoscere che il fatto di credere non ti esime dalla colpa del
limite. Tutt'altro, molte volte te ne fa avere anzi una maggiore coscienza. Per quello che
riguarda invece il dialogo con la scienza, ma io credo che una scienza che presuma di
rispondere a tutto sia una falsa scienza. E questo modello scientifico, per molto tempo, si è
imposto alla cultura dell'Occidente. Il positivismo per dirla in termini molto, molto correnti.
Ecco, io credo che una scienza che sia tale ha anche il senso del suo limite, i limiti della
propria potenza, della propria capacità, quei limiti che la tecnica continuamente ci fa
sperimentare o che, per esempio, la crisi ecologica ha messo in luce in maniera molto
evidente. E allora vedi la tua domanda ci porta su grandi orizzonti: gli orizzonti della sfida
della tecnica, gli orizzonti della sfida di questa società che abbiamo costruito partendo da una
ragione strumentale, sicura di sé. Noi vogliamo tutti una società più umana, ma questa società
più umana non si costruisce sulla base delle nostre pretese, delle nostre presunzioni
ideologiche, si costruisce se tutti, credenti e non credenti, riusciamo a essere forse più umili,
più modesti, più in ascolto dell'altro. E in questo senso la Bibbia, questo Parola dove l'altro ci
ha raggiunto, ci ha parlato può essere per tutti un segnale forte, credenti e non credenti, a
riconoscere che noi non siamo tutto, che tutti abbiamo bisogno degli altri, che tutti abbiamo
bisogno del mistero più grande e quindi a costruire una società più rispettosa del diverso e
dell'altro. Voi siete studenti di una delle nostre scuole. Ecco io profitto qui per fare una
denuncia ben precisa: ritengo scandaloso che i nostri studenti possano conoscere tutto, o
quasi tutto, dei classici greci o anche dei grandi testi della nostra letteratura, il che
naturalmente va fatto, ma non conoscere, per esempio, uscire da liceo senza conoscere quasi
nulla del mondo della Bibbia, che è alla base della nostra storia, della nostra identità, della
nostra cultura. E questo non per una sorta di pervesità ideologica, ma per un'apertura a questa
radice inquietante e sempre viva che è e resta la tradizione biblica nella storia dell'Occidente
e non solo dell'Occidente.
STUDENTESSA: Professore, ma secondo Lei, perché coloro che credono in Dio sono molto
meno osservanti di un musulamno ad esempio? Cioè la religione cristiana, anzi i cristiani non
osservano tutte le regole, che magari dovrebbero osservare.
FORTE: Ma probabilmente perché il cristianesimo sottolinea molto la necessità della
convinzione interiore da cui le scelte devono partire. Gesù è stato molto duro contro il
formalismo, l'apparenza esteriore. Allora qualche volta nel cristianesimo si è talmente
accentuata l'importanza dell'interiorità da trascurare persino dei segni dell'esteriorità. Io credo
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che l'importante sia capire che ogni segno esteriore ha valore in quanto esprima una scelta
profonda del cuore e come tale chi ama veramente non può non porre dei segni e dei gesti,
chi crede veramente ha bisogno anche di questi segni e di questi gesti. Per cui si tratta di
ripensare in radice il tuo modo di credere e di essere impegnato o impegnata per l'altro, per
l'io e per gli altri. Ecco mi sembra che i segni della carità, i segni della compromissione, i
segni della fede, sono il lingauggio attraverso cui il credente può raccontare nella storia che il
Dio che lui ha incontrato non è una evasione o una fuga, ma è il Dio che gli ha cambiato la
vita, gli ha dato senso, gli ha dato un qualcosa, un messaggio, un dono, che lui sente il
bisogno di trasmettere agli altri

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