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SPUNTI E RIFLESSIONI CRISTIANE…

“A Gesù nel Vangelo di oggi arrivano in sequenza due giudizi. Il primo dice: "è pazzo!". Il secondo "è
posseduto!". Ma come mai queste reazioni? Ammettere che Gesù non è né pazzo né indemoniato
costringerebbe le persone che lo circondano a prendere tremendamente sul serio l'ipotesi che Egli abbia
ragione. E quando tu incontri qualcuno che ti dice la Verità non puoi tornartene a casa uguale, senza
decidere nulla, senza cambiare nulla. Così per difenderci dal cambiamento e dalle decisioni che contano
preferiamo dire a chi ci mette davanti all'evidenza di una cosa vera: "Sei fuori di testa!" o "probabilmente è
il male che ti suggerisce cose simili". La verità però è un'altra”.

“Dio nasce povero invece che ricco. Nasce in periferia invece che al centro. Nasce figlio di
nessuno invece che figlio di qualcuno notabile. Nasce in una stalla invece che in un tempio.
Rivela agli inaffidabili pastori la notizia della sua venuta invece che ai comunicati stampa dei
dottori e dei profeti. Deve scappare pur essendo onnipotente. Si sottomette alla cronaca
degli esuli invece che imporre nuove giustizie sociali. Da grande avrà cura dei peccatori
invece che dei giusti. Toccherà i malati invece che i sani. Dirà pace quando tutti vorranno la
guerra. E dirà fuoco quando tutti vorranno acqua. Predicherà ad alta voce quando nessuno
dei grandi lo vorrà sentire. E rimarrà in silenzio quando tutti loro, invece, si aspetteranno
spiegazioni e parole per coglierlo in fallo. Morirà in croce per mano dei romani, invece che
mettere in croce i romani oppressori. E alla fine risorgerà quando tutti, invece, pensavano di
tenerlo morto in un sepolcro. Compresi i suoi. Gesù è la messa in discussione del nostro
banale immaginario di Dio, Punto”. (L.M.Epicoco) Solo i malati… 77-78

Domenica della Trinità – Deuteronomio

“Chiedi pure in giro, informati, spargi la voce.


Tutti hanno un’idea di Dio. per crederci, o per rifiutarlo.
Alcuni fingono di non pensarci, altri lo accusano delle storture che viviamo continuamente.
Altri lo pregano e lo invocano.
Chiedi in giro, però.

Mai si è sentito dire di un Dio che si è scelto un popolo, che lo ha stanato, salvato, seguito, che lo ha fatto uscire dalla
schiavitù. Chiedi se sia mai successo che un Dio abbia indicato ad un popolo il segreto della felicità. Che gli abbia
consegnato la mappa per cercarla. Chiedi pure.

Così l’autore del Deuteronomio, stupito, ripensa all’esperienza di Israele, il popolo di nomadi che si è visto scegliere fra
le nazioni per diventare sentinella, per raccontare ad ogni uomo chi è veramente Dio.

Non un Dio qualunque.


Non una delle proiezioni delle nostre paure, dei nostri bisogni inconsci, non il garante dell’ordine costituito.
Un Dio che parla, che dice, che si racconta.
Il nostro Dio.

Figli non schiavi

Un Dio, dice Paolo, che attraverso lo Spirito si rivela come un Padre e che ci permette di fare esperienza di lui,
diventando suoi figli in Gesù. Una scoperta che non passa più solamente per la liberazione da tutte le schiavitù che
portiamo nel cuore, ma dall’essere discepoli di Cristo che è morto per svelarci il vero volto di Dio.

Una conoscenza sofferta, che richiede un percorso, un cambiamento, una crescita interiore.
Dio si accoglie, non si conquista.
Si ama quando ci si scopre amati, bene amati.

Ma questa conoscenza passa necessariamente attraverso la croce che non è, che non è mai stata!, esaltazione del
dolore, anche quello santo e devoto, ma manifestazione della misura dell’amore con cui siamo amati.

Ma non bastava.

Andate

Gesù si avvicina ai suoi discepoli.


Ha qualcosa di importante da dire, una missione da affidare.
Si avvicina a loro anche se dubitano. Non vuole i migliori, non sa che farsene dei puri. Vuole figli, non giusti. E ai
dubbiosi chiede di andare fra i popoli, non di chiudersi in un recinto sacro e rassicurante, autoreferenziale e stanziale.
Di battezzare ogni uomo nel mistero della Trinità.

Un Dio che, finalmente, manifesta la sua sorprendente natura.

Un Dio che è comunione, relazione, comunicazione, dono di sé, danza, festa.

Non un Dio solitario, sommo egoista bastante a se stesso, immobile nella sua perfezione, statico e distratto.

Dio genera amore che dilaga, si diffonde, contagia.

Questo dobbiamo raccontare.

Che Dio non è un bastardo. Né un cinico. O un sadico.

E che noi siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Che in me c’è la Trinità. Siamo costruiti a sua immagine, Dio si è
guardato allo specchio per crearci.

Inutile negarci la relazione. Inutile fuggire la comunione. Assurdo negare l’amore.

È faticoso e crocifiggente relazionarsi, certo.

L’enfer c’est les autres, l’inferno sono gli altri diceva Sartre.

Amatevi dell’amore con cui siete stati amati, chiede Gesù.

Ma non si tratta di operare una scelta di vita, più o meno conveniente.

Ma di assecondare ciò che siamo veramente, nel nostro profondo. Di fiorire.

Insegnando ad osservare

Siamo chiamati ad insegnare. Cosa? Il comandamento dell’amore?

No, siamo chiamati ad insegnare come osservare quel comandamento.

Non siamo né siamo chiamati ad essere degli insopportabili e saccenti primi della classe che dall’altro calano le loro
prospettive. Siamo chiamati noi per primi ad amarci dell’amore del Dio Trinità e a raccontare quanto ci sta cambiando
la vita, anche nella fatica, nella contraddizione, al di là di ogni limite, di ogni peccato.

Non siamo soli in questo compito.


Ci è stato ripetuto in queste ultime domeniche, con insistenza.

Lui è con noi, per sempre.

Ci è accanto, conferma le nostre parole, se le viviamo.

Ci usa come strumento.

Questo è il Dio in cui crediamo.

Il Dio che ci ribalta.

Chiedete pure in giro se avete mai sentito niente del genere. (P. Curtaz, per la Trinità)

“La Bibbia è un libro pieno di vento e di strade. E così sono i racconti della Pentecoste, pieni di strade
che partono Gerusalemme e di vento, leggero come un respiro e impetuoso come un uragano. Un vento
che scuote la casa, la riempie e passa oltre; che porta pollini di primavera e disperde la polvere; che
porta fecondità e dinamismo dentro le cose immobili, “quel Vento che fa nascere i cercatori d’oro” (G.
Vannucci).
Riempì la casa dove i discepoli erano insieme. Lo Spirito non si lascia sequestrare in certi luoghi che
noi diciamo sacri. Ora sacra diventa la casa. La mia, la tua, e tutte le case sono il cielo di Dio. Venne
d’improvviso, e sono colti di sorpresa, non erano preparati, non era programmato. Lo Spirito non
sopporta schemi, è un vento di libertà, fonte di libere vite.
Apparvero lingue di fuoco che si posavano su ciascuno. Su ciascuno, nessuno escluso, nessuna
distinzione da fare. Lo Spirito tocca ogni vita, le diversifica tutte, fa nascere creatori. Le lingue di fuoco
si dividono e ognuna illumina una persona diversa, una interiorità irriducibile. Ognuna sposa una
libertà, afferma una vocazione, rinnova una esistenza unica. Abbiamo bisogno dello Spirito, ne ha
bisogno questo nostro piccolo mondo stagnante, senza slanci. Per una chiesa che sia custode di libertà
e di speranza. Lo Spirito con i suoi doni dà a ogni cristiano una genialità che gli è propria. E abbiamo
bisogno estremo di discepoli geniali. Abbiamo bisogno cioè che ciascuno creda al proprio dono, alla
propria unicità e che metta a servizio della vita la propria creatività e il proprio coraggio. La chiesa
come pentecoste continua vuole il rischio, l’invenzione, la poesia creatrice, la battaglia della coscienza.
Dopo aver creato ogni uomo, Dio ne spezza la forma e la butta via. Lo Spirito ti fa unico nel tuo modo di
amare, nel tuo modo di dare speranza. Unico, nel modo di consolare e di incontrare; unico, nel modo di
gustare la dolcezza delle cose e la bellezza delle persone. Nessuno sa voler bene come lo sai fare tu;
nessuno ha quella gioia di vivere che hai tu; e nessuno ha il dono di capire i fatti come li comprendi tu.
Questa è proprio l’opera dello Spirito: quando verrà lo Spirito vi guiderà a tutta la verità. Gesù che non
ha la pretesa di dire tutto, come invece troppe volte l’abbiamo noi, che ha l’umiltà di affermare: la
verità è avanti, è un percorso da fare, un divenire. Ecco allora la gioia di sentire che i discepoli dello
Spirito appartengono ad un progetto aperto, non ad un sistema chiuso, dove tutto è già prestabilito e
definito. Che in Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga. E che non mancherà mai il vento al
mio veliero (E. Ronchi, Pentecoste 2018)”.

“Carissimi fratelli,
è veramente cosa buona e giusta che il vostro Vescovo a Pentecoste vi dica qualcosa sul dono dello
Spirito Santo, sulla novità che egli è capace di introdurre nella nostra vecchiaia, sugli orientamenti
che egli è solito provocare nella vita degli uomini.
Se avessi spazio e tempo, vi parlerei dello Spirito Santo come ospite dell’uomo. E mi attarderei
sulla riscoperta che nella Chiesa si va facendo di lui. E vi annuncerei le meraviglie che egli opera in
tante anime, nelle quali dorme, o freme, o urla, o riposa gemendo.
Oggi, però, voglio parlarvi della Pentecoste come «festa difficile».
Sì la Pentecoste è una festa difficile. Ma non perché lo Spirito Santo, anche per molti battezzati e
cresimati, è un illustre sconociuto. E’ difficile, perché provoca l’uomo a liberarsi dai suoi
complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così.
Il complesso dell’ostrica
Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci
piace la tana. Ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le
vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno.
Di qui, la predilezione per la ripetitività, l’atrofia per l’avventura, il calo della fantasia.
Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci.
C’è poi il complesso dell’una tantum
E’ difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione
permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada.
Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini dei
nostri comodi. E diventiamo borghesi.
Il cammino come costume ci terrorizza. Il sottoporci alla costanza di una revisione critica ci
sgomenta. Affrontare il rischio di una itineranza faticosa e imprevedibile ci rattrista.
Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per
metterci sulla strada subendone i pericoli. Ci obbliga a pagare, senza comodità forfettarie, il prezzo
delle piccole numerosissime rate di un impegno duro, scomodo, ma rinnovatore.
E c’è, infine, il complesso della serialità
Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I
gesti promossi in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l’esasperazione dello schema, l’asfissia
dell’etichetta. C’è un livellamento che fa paura. L’originalità insospettisce. L’estro provoca
scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non
si omogeneizza col sistema non merita credibilità. Di qui, la crisi della protesta nei giovani, e
l’estinguersi della ribellione.
Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all’accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al
rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifica e compone le ricchezze della
diversità.
Cari fratelli, la Pentecoste di questo anno vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro.(Don T.
Bello, Pentecoste, festa difficile).

“Eccolo

Lo aveva promesso, lo aveva invocato, lo aveva chiesto.

Lo Spirito. Il fuoco ardente dell’amore di Dio.

La fiamma di Ja. La passione travolgente con cui Dio ha creato il mondo e ricreato la relazione perduta con gli uomini.

La vibrazione del suo battito d’amore.

Primo dono ai credenti dall’altro della croce dove l’appeso attira tutti a sé.

Lo aveva promesso.

Eccolo.
Non è un soffio. È un vento. No, nemmeno un vento. Una bufera.

Scuote, strappa, smuove.

Fa uscire l’apostolo dai pavidi discepoli rintanati nelle catacombe per paura dei giudei.

Come un terremoto. Come un incendio. Come l’irruzione del divino nella Storia.

Una luce che ridona la capacità di intendersi, di parlarsi, di capirsi.

L’anti Babele. La confusione ricondotta a linguaggio unitario.

Pentecoste, infine.

La festa della Torà

Era una festa di origine contadina, poi diventata anniversario che ricordava al popolo di Israele il dono della Torà, il
dono della Legge ad Israele, le istruzioni per l’uso verso la felicità e la pienezza affidata al piccolo popolo di liberati che
avrebbe liberato ogni uomo dalla schiavitù del giudizio e della colpa.

Ma gli uomini, purtroppo, avevano ridotto quelle parole a nuove regole, a nuove leggi, ad uno strumento di paura e di
dominio. No, così non andava bene. La Legge era stata stravolta, offesa, inaridita, pietrificata.

Gesù la libera. Le ridona verità.

Un solo comandamento. Ama dell’amore con cui sei amato.

Ora la Pentecoste, quella nuova, quella inattesa, fa terra bruciata di tutto il resto.

Incendia. Divora.

Nessuna norma scolpita nella pietra. Ma una forza interiore capace di scolpire l’amore nel cuore.

Quella distanza infinita tra il poter essere e l’essere.

Fra il seme che fatica a crescere e il fiorire.

Lo Spirito, finalmente.

Quando verrà

Profetizza il Maestro, nel lungo discorso di addio che Giovanni pone sulle sue labbra prima di consegnarsi alla morte.

Quando verrà, dice.

Mi darà testimonianza. È lo Spirito che ci fa passare da curiosi osservatori del fenomeno Gesù a discepoli travolti
dall’amore per lui. Dalla fede come sana abitudine alla fede come fuoco che divampa. Lui, lo Spirito, che in noi fa
prorompere il grido di fede: è lui il Signore, il rivelatore del Padre, Dio stesso!

È lui, lo Spirito, che ci aiuta a portare il peso della verità.

Perché pesa, la verità. A volte è talmente insostenibile da nasconderci dietro un cumulo di menzogne perché ne
abbiamo sacro timore. Abituati come siamo a credere che a verità ci smascheri, ci annienti, ci giudichi, preferiamo
restare nella penombra per non essere giudicati.
Lo Spirito porta il peso e ci permette di vedere che la verità, invece, è altro.

La verità di chi siamo, di chi è Dio, di cosa siamo chiamati a diventare, di qual è la nostra missione, ci conduce alla
libertà interiore, non al giudizio.

E lo Spirito, se accolto, ci prende per mano e ci porta alla verità tutta intera, a quella intimità con Dio che da soli non
siamo in grado di ottenere.

Intimità che non è solo conoscenza, o (santo) sforzo, o preghiera e meditazione, o carità diffusa.

Lo Spirito diventa maestro per conoscere il Maestro. Per superare la soglia del mistero.

Per entrare nella profondità di noi stessi dove ospitiamo la tenerezza infinita di Dio.

Là dove abita la luce. La scintilla. Là dove germoglia la nostra anima che si innalza e vede le cose con lo sguardo di Dio.

Lasciati guidare

Paolo esorta noi discepoli a cedere le redini.

A lasciare che sia lo Spirito a condurre la nostra vita. A smetterla di volere dirigere la nostra vita, a definirla, ad
orientarla.

Ad arrenderci al corteggiamento di Dio.

A cedere. Ad alzare bandiera bianca.

La nostra vita resta la stessa, inevitabilmente fatta di ombre e di luci.

Eppure altra. Eppure densificata intorno alla comprensione profonda di chi siamo.

E ce ne accorgiamo da quanto accade.

Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé;
contro queste cose non c’è Legge.

Contro l’azione dello Spirito, ad ostacolare la sua dilagante azione, non c’è regola o norma o senso di colpa o giudizio
che ci possa fermare.

Siamo avvisati. Se prendiamo sul serio lo Spirito, lui arriva e sovverte”. (P. Curtaz, Pentecoste 2018)

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