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L’oggetto di studio è un autore e una singola opera, La solitudine dell’uomo di fede di Soloveitchik:

è sconosciuto ma ha avuto un ruolo importantissimo nel giudaismo religioso nel XX secolo.


Quest’opera ci dà la possibilità di spaziare nel panorama della riflessione religiosa del XX secolo o
Maimonide nel XII secolo, ma tutto riportato nel contesto del discorso religioso di Soloveitchik.
Scrive per lo più in ebraico e non è facile accedere alle fonti.

Il titolo del corso coglie lo specifico di questo testo: tentativo di discorso fenomenologico.
Fenomenologico nel senso della filosofia contemporanea, cioè un tentativo di cogliere l’essenza per
mezzo di epochè, di alcune sospensione, messe in parentesi per poter meglio cogliere l’essenza e il
senso dell’essenza. Non appartiene a nessuna riflessione filosofica e questo testo mostra questa
vicinanza e lontananza dell’esistenzialismo per esempio piuttosto che la fenomenologia di Husserl.

Questo testo è complesso e ha visto la luce in inglese e non in ebraico, pur essendo l’autore che
normalmente insegnava e scriveva in ebraico. Lui si è spostato dall’Europa dell’Est alla Germania,
negli anni 20-30 e si è dottorato nel 32 su Hermann Cohen. Quando Hitler prende il potere, emigra in
America. Era Lituano: che ha prodotto il meglio dell’intelligenza ebraica. Il nonno fu importante
nell’innovazione degli studi ebraici tradizionali: maestro dell’ortodossia. L’yiddish era l’inglese degli
ebrei dell’Europa del Nord, i cosiddetti ebrei aschenaziti e avevano come loro lingua un misto di
antico tedesco ed ebraico: scritto con caratteri ebraici ma che non era l’ebraico della lingua sacra
perché era più tedesco che ebraico che era così radicato che ha tardivamento generato una vera e
propria letteratura. L’yiddish era non solo una lingua ma proprio una cultura: è stato coniato il termine
yddishkeit, l’yddishità che indica un insieme su base linguistica uno stile di vita, mentalità, un
umorismo etc. tipico. La grande letteratura è iniziata a fiorire quando ormai stava sparendo: è una
cultura orale. Ma è diventata una lingua culturale grazie alla letteratura: nel 1974-5 abbiamo un
premio nobel Singer, La famiglia Moskat. Questo autore scrive yiddish a New York. Il centro di
questa cultura è la Lituania, l’Europa dell’Est; quando Hitler distrugge questo mondo la letteratura
fiorisce: c’è stata una salvazione di questo mondo nell’uomo del nuovo mondo. Gli ebrei hanno
cominciato la grande migrazione in America nel 1871: ci sono state ondate massicce molti dei quali
scappavano dalle miserie e dalle vessazioni delle culture cristiane tradizionali, quelle polacche e
quelle ortodosse in quanto cultura russa: gli zar hanno messo in opera una serie di leggi per
l’assimilazione degli ebrei nella cultura russa. La resistenza è stata molto difficile: il grado di
assimilazione è stato molto alto ma fino ad certo punto: perdita della coscienza dell’ebraico e
dereligionizzazione e conversioni, ma il problema è che i metodi di questa russianizzazione erano
violenti e disumani, per esempio costringere i giovani a fare un servizio militare di 20 anni (totalmente
sradicati dalla comunità e famiglia che rischia di perdere la propria ebraicità). Nel 81 c’è stata la
morte dello Zar Nicola e ci sono state livelli di antisemitismo molto forti e così gli ebrei arrivano in
America: qui arriva un’altra storia: saranno ebrei americani? Inizia l’americazzione degli ebrei. C’è
anche l’incontro con gli ebrei sefardidi. Queste grandi ondate fanno sì che la presenza dei sefardidi
vada a ridursi numericamente e anch culturalmente. C’è un certo numero di ebrei che non si assimila
integralmente e quindi rimangono sacchi di cultura ebraica e quindi la cultura yiddish. Ecco perché
nel 900 abbiamo una fioritura di yiddish in America insieme a Israele. Si viene a creare una grande
lotta culturale perché a migrare non sono solo gli ebrei dell’est Europa ma anche dell’Europa centrale,
di Vienne e Berlino, Ungheria e Slovacchia, ma questi ebrei non parlavano yiddish ma tedesco (ligua
dell’impero); quindi quando si trasferiscono in Israele la lotta e per lingua: volevano il tedesco. Ci fu
un grande conflitto che fu il tedesco e l’ebraico: quale lingua doveva essere la lingua tradizionale.
Vinse l’ebraico anche se non fu facile battere i tedeschi (avevano giornali in tedesco, scrivevano in
tedesco…). In questa lotta in realtà l’yiddish era il terzo in comodo: i tedeschi li trattavano come una
cultura povera, gli ebrei come una perversione. Avevano in comune una fede forte, una fede nel
sionismo: abbandono dell’ebraismo della diaspora per un ebraismo nuovo. Quindi l’yiddish ha subito
questa doppia emarginazione in Palestina: non era nobile come le altre due lingue ed era considerata
come la lingua del ghetto, quindi le persone di questo mondo venivano completamente emarginate e
si vergognavano di parlare yiddish. Soloveitchik conosceva l‘yiddish, il tedesco e l’ebraico e in
America imparò l’inglese, ma viene con un piedigree: suo padre seguì il nonno che viene ricordato
come grande maestro, ma non scrive in yiddish. Il mondo scopre questa lingua quando oramai è
scomparso. Questa cultura con l’autore non ha nulla a che fare: la Lituania è una terra piena di
ebraismo, chi porta l’ebraismo in Lituania è Levinas (è mediato da un maestro Cahim di Volozhin di
cui traduce un’opera). Il maestro nel 1802 apre una scuola di studi con metodi tradizionali però
innovativa a suo modo: organizzata in modo innovativo. Fino all’800 l’ebraismo non ha avuto luogo:
solo casi in cui qualcuno emergeva ma mai scuole. Viene chiamata Yeshivah: scuola tradizionale
rabbinica; il benessere di una comunità dipende delle scuole. Il modello è di questo autore sulla base
di insegnamenti da Gaon di Vilna (Vilnius), il suo maestro: centro d’ebraismo distrutto dal nazismo.
Già negli anni 20 e 30 ci sono migrazioni di lituani in Francia, come Levinas: diaspora in Europa
centrale soprattutto in Francia perché era il “faro della civiltà”. L’autore del libro invece guarda
Berlino e non Parigi: perché dal punto di vista intellettuale Berlino aveva una tradizione di apertura
verso la società tedesca e nell’800 dal punto di accademico non c’è paragone. Si elabora la simbiosi
dell’ebraismo con la Germania che ha una piega enorme per l’intelligenza ortodossa: sono ortodossi
e quindi hanno un privilegio per lo studio e quindi non possono disprezzare l’Haskalah (illuminismo
ebraico) di cui l’esponente più famoso è Moses Mendelssohn. Soloveitchik è erede di una grande
famiglia di rabbini che è anche imparentata con il nuovo movimento che sconvolge la vita religiosa
ebraica: chassidismo. Questo movimento è un movimento di rinnovamento popolare che divulga la
mistica ebraica: fa proseliti diffondendo un ideale che era stato di elité: ogni ebreo può conseguire
l’ideale tipico del mistico. Come ogni movimento dopo la morte del padre, subito si fa una ortodossia:
il principale allievo che diventa l’organizzatore de movimento: sistema dinastico legato ai maestri
che passano il chaddismo da padre in figlio: anche Soloveitchik. Non è più la sapienza talmudica ma
la santità e il carisma di questa pietà: è il grado di pietà nel senso di religiosità, di devozione, di stile
di vita, dove lo studio è centrale e non la preghiera, ma pendono dal maestro che prendono il nome
di “giusti”. Gli ebrei che erano i maestri come percepiscono questo movimento? C’è lo scontro: in
Lituania che è la patria di questo ebraismo. Il capo di questa opposizione è il Gaon di Vilna: grande
erudito che non ha cariche pubbliche, un singolo maestro la cui fama lo pone ad un alto livello che
viene seguito. Agli occhi di questi maestri i chassidisti erano dei trasgressori: gli si accusa di non
seguire la tradizione e così entra in ballo lo scontro. Conoscevano la mistica ma adesso viene
divulgata. Tutto questo si spiega con una crisi oggettiva che ha radici nel XVII secolo: movimento
sabbatianismo fondato da Shabbetaj Zevi. Questo movimento si spiega anche con questa grande crisi:
raggiunge le comunità già stressante in termini economici. Questo personaggio dalla Turchia risale
dalle terre a Nord della Turchia e si fa conoscere come il messia. In Palestina trova un giovane che si
esalta e si dedica alla diffusione di questo messaggio. Intraprende questo viaggio e convincono che
questo personaggio sia il Messia: rappresenta un momento di stress perché le grandi persecuzioni del
tempo era vista come l’arrivo del messia. Questo significa che le popolazioni in massa vanno in
Palestino da questo. In pochi anni l’ebraismo si galvanizza con questo messaggio. Ma questo arriva
a Costantinopoli e il sultano lo fa arrestare e con lui tutti: il sultano non andava per il sottile ma sapeva
essere tollerante: gli pone la scelta di convertirsi o di lasciare lì la testa (esecuzioni davanti alla
Sublime Porta) e lui si converte: il messia che si converte, 1666-7. Crea un grande trauma: doveva
giustificare la messianicità e lo fa dicendo che la conversione era una prova perché il Messia deve
scendere attraverso il peccato. Modello che già si era ripresentato: deve giustificarsi da apparente
contraddizione, ma c’è questa teoria per cui se vuoi conoscere il peccatore lo devi diventare. Rafforza
questo i seguaci che a questo appunto si convertono tutti, salvo poi rimanere ebrei nell’intimo. Ma
molti se ne rendono conto che non fosse il messia: doppia delusione. In questo clima che nasce la
risposta del chassidismo: risposta spirituale destoricizzante. La Lituania si trova nel mezzo del
chassidismo e dell’ortodossia. Il Gaos di Vilma scomunica nel 1672 il chassimismo. Storicamente
questo scontro è durato poco: alla morte di Gaos di Vilma ci si rende conto che sono veramente ebrei
ma lo fanno solo con delle modalità diverse, non è quindi uno scisma anche se poteva esserlo. Non
diventa eretico come il sabbitianismo: questo lo diventa perché non seguiva più i precetti e le norme
dell’ebraismo. Diventa un movimento antinomico: quando viene il Messia non bisogna seguire i
concetti; questo antinomismo è il vero confine che segna l’appartenenza o la cessazione
dell’ebraismo. Nel chassidismo invece sono più scrupolosi degli altri e quindi non è eretico. La
mistica di solito è pericolosa perché è antinomica (guarda il cattolicesimo e l’islamismo). Quando si
capisce questo la guerra smette: nel 800 infatti Chaim tende a fondere la centralità dello studio tipico
dello studio lituano con quello di pietà che sono tipici del chassidismo. Soloveitchik viene dal mondo
tradizionale ma che si mischia con il chassidimo: quindi lo collochiamo a metà, come uno che non ha
mai rinunciato al rigore teologico del nonno (che era una versione particolare degli insegnamenti di
Gaos di Vilma, molto attento al testo). Il metodo tradizionale già lasciava spazio a dubbi di natura
testuale ma lasciavano spazio a un maggior rigore allo studio dei testi. L’autore è erede di questa
tradizione ma è imparentato anche con il mondo del chassidismo. È una sintesi di mondo ebraico con
metodo Lituano, chassidismo e filosofia moderna che si intende anche con l’apertura alla scienza:
sintesi di un ebreo che vuole rimanere fedele alla tradizione, vuole rimanere ortodosso. È un tentativo
di coniugare la fedeltà dell’ebraismo con la fedeltà degli studi profani. Aveva tentato una operazione
simile sulla scia del pensiero kantiano era Hermann Cohen: è un tentativo di ebraicizzare il
germanesimo e di germanizzare l’ebraismo scrivendo in tedesco; pagando però dei prezzi: si
lasciavano cadere delle cose che sembravano inconciliabili con la filosofia moderna. In Cohen vede
tutto il potenziale negativo e positivo di questa unione. Voleva questa apertura senza però pagare i
prezzi di Cohen: vuole una coniugazione fra fede e ragione (e guarda all’epoca d’ora di questo
rapporto: il medioevo: Maimonide diventa una figura chiave per Soloveitchik).
CAPITOLO 8

Pag. 73-79: sintesi del pensiero di Soloveitchik. La Bibbia ci comanda totale concentrazione nei
nostri doveri verso Dio, con piena attenzione e concentrazione, ci si chiude con il mondo (e si
chiudono gli occhi in modo concreto) e si segna una separazione fra santità di Dio e quella del mondo;
ma dall’altra parte ci chiede il movimento opposto: espanderci e di fare ritorno alla società
maiestatica: è una estroflessione. Sono due moti che sembrano opposti: concentrarsi e deconcentrarsi.
Dialettica che si viene a creare ma che è detta da Dio. La dialettica della Halakhah è la stessa della
bibbia: gestire una dialettica che permettere di essere nella seconda con le radici nella prima e nella
prima con la testa nella seconda. L’uomo dell’alleanza di fede è bipolare ma è uno con questo duplice
volto. C’è un rischio che diventi dualismo e non deve succedere. È strano proprio che Soloveitchik
parli della fenomenologia della religione che ha tratti di bipolarità che lui vede a più livelli (Mosè e
Aronne che hanno bisogno l’uno dell’altro e sono due principi importanti perché incarnano due valori
della stessa comunità dell’alleanza, mediazione sacerdotale e autorità) e qui dice che non ci sia una
dualità. Abbiamo un principio fondamentale filosofico: Halakhah ha un approccio monistico:
considera la realtà come l’unica realtà e non vuole che diventiamo schizofrenici e rigetta l’approccio
dualistico. Bisogna far superare l’approccio dualistico delle religioni con la realtà: necessità che
abbiamo oggi. La modernità si basa sulla divisione fra laicità e religiosità, ma a rigore dal punto di
vista ebraico la divisione non è fra sacro e non sacro ma il mondo è del tutto profano e quindi come
si articola l’idea della santità; la keddushà cosa separa quindi? Separa ciò che non è santo, ma è solo
simbolica e educativo per non essere idolatria e immorale? La categoria forte non è fra sacro e
profano, ma in settori permessi e settori proibiti (puro e impuro > Paolo Sacchi che cita il dualismo
nel NT che è sacrale, mette in discussione questa divisione, mette in discussione la distinzione stessa;
mentre nel mondo ebraico non è la stessa cosa parlare di sacro/profano e puro/impuro). Il compito
dell’uomo quindi non è impegnarsi nel contradditorio bensì nell’unificare le due comunità in una
sola: il messaggio non è solo destinato al mondo ebraico ma a tutti: tutta la comunità maiestatica deve
recuperare il rapporto con Dio. La Halakhah è uno strumento dell’etica che funge per l’unione di
queste due comunità; non sono una la spole dell’altra ma è pensare in modo circolare, un intra e un
extra, un interiore e un esteriore. Ribadisce l’idea che il primato della Halakhah è quello dell’etica
anche se non tutta l’etica è dicibile in termini halakhahici e Halakhah non si occupa solo di questo.
Riprende una immagine mistica: edera che sembra sospesa nell’aria e ricorda una immagine mistica
che pensa l’uomo come un albero le cui radici sono in cielo > l’uomo deve essere radicato nella
trascendenza e così può dare frutto nella terra (Albero sefirotico). Fra ebreo e il mondo ci sta
l’Halakhah: è la lente che permette ai due mondi di guardarsi e di rapportarsi. NOTA 7 Halakhah
abbraccia il mondo maiestatico e vuole abbracciare tutti gli aspetti del mondo profano. Da sempre
Halakhah è promossa dai rabbini che hanno competenze specifiche di questo mondo. L’arte medica
è sempre stata guardata dalla tradizione rabbinica come una occupazione che aiutava a comprendere
l’azione dell’Halakhah. L’ebraismo non ha mai pensato alla malattia come un castigo di Dio. L’arte
medica diventa la mano della volontà di Dio affinché l’uomo curi se stesso: non c’è fatalismo e nei
progressi della medicina si ritrova la gioia di Dio che vede l’uomo capace di sconfiggere il male fisico
che è inerente alla fragilità dell’uomo > Dio della vita. Infatti, non c’è una teoria della sofferenza:
l’unico modo che rimane è quello di sconfiggere il male. Infatti, non ci sono neanche autoflagellazioni
o mutilazioni sul corpo. C’è un grande amore per la ricerca che migliora la vita umana. Uno dei nomi
di Dio è “colui che guarisce”, ha rofé: tutta la miracolistica di Gesù che cura le persone è proprio
questo, lo scopo ultimo è che Dio è con lui perché sta guarendo le persone e quindi condivide lo
spirito di Dio. Lo spirito ebraico riconosce lo studio del “profano” anche se non c’è la divisione fra
sacro e profano; non ci può essere contraddizione ma integrazione. Si dice che chi si astiene
dall’andare dal medico è come suicidarsi. Il Primo Adamo e il Secondo Adamo sono una stessa
persona: il conflitto è interno e non esterno > violenza delle religioni: il vero jihad è quello interno e
non quello esterno perché facciamo male e non lo combattiamo. È un dialogo inter-egoico: dentro
l’io nostro. Per quanto le due dimensioni sembrano distanti tuttavia sono due aspetti dell’essere
umano. Non c’è uno superiore all’altro perché Dio si è compiaciuto di entrambi: sono coessenziali
nel momento in cui si integrano. La conclusione è che bisogna accettare una dialettica anche se
non quella dell’out-out ma dell’et-et. Anche la malattia come metafora dell’opportunità che
abbiamo nel riscoprire la vita; questo non vuol dire un attaccamento alla sofferenza, ma essa è un
segnale di vedere la vita. Positivo dell’inquietudine umana come spia di questa coappartenenza, è il
prezzo che si paga.

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