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Moreno Migliorati

PRO O CONTRO CRISTO.


F E D E E AT E I S M O N E " L A L E G G E N D A D E L G R A N D E
INQUISITORE "
D I F. M . D O S T O E V S K I J .
L ' I N T E R P R E TA Z I O N E D I R O M A N O G U A R D I N I .
INTRODUZIONE

E' stato osservato che "se la Russia non ci avesse dato che Dostoevskij, avrebbe con ciò stesso
offerto un contributo insostituibile nello sviluppo del pensiero universale" (1). Anche per questo, il
grande scrittore non é considerato oggi solo alla stregua di un letterato, ma anche un autentico filosofo
e teologo il quale, partendo dall'esistenza concreta dell'uomo, vuole comprendere il senso autentico
della sua vita, del suo rapporto con gli altri uomini, con Dio. Dostoevskij voleva insomma soprattutto
essere "un ricostruttore religioso che aveva sperimentato, dentro e fuori di se, la decostruzione religiosa
del suo tempo più in profondità e vastità degli atei suoi contemporanei e successivi"(2). Per mettere
mano ad una tale opera di ricostruzione religiosa, dopo aver esplorato "l'avventura dell'occidente
moderno la sua ricerca, il suo nichilismo, la sua esigenza nascosta"(3), non era tuttavia sufficiente la
fede in un generico deismo e nel suo Essere supremo, bensì la fede nel Cristo quale autentico salvatore
e liberatore degli uomini.

C'é un episodio della vita di Dostoevskij, raccontato dalla moglie Griegorev'na, che esprime, forse
meglio di qualunque altro, quale fosse il suo atteggiamento di fronte alla figura di Cristo. Nel 1867 egli
si recò a Basilea per visitare il locale museo in cui si trovava un quadro di cui aveva sentito parlare. "Si
trattava di una tela di Hans Holbein, raffigurante Cristo dopo il martirio inumano, già staccato dalla
croce e in via di decomposizione. La vista di quel viso tumefatto, pieno di ferite sanguinanti era
terribile. (...). Quando ritornai, dopo circa venti minuti, trovai ancora mio marito davanti al quadro
come se fosse incatenato. Nel suo viso pieno di spavento lessi la stessa espressione che avevo già
notato più d'una volta all'avvicinarsi delle crisi di epilessia. Allora lo presi delicatamente per il braccio
lo allontanai dalla sala e lo feci sedere su una panca, aspettando da un momento all'altro la crisi che per
fortuna non venne. F.M. si calmò un poco; ma, uscendo dal museo, insistette per tornare a rivedere
ancora una volta il quadro"(4).
In quel quadro Cristo é veramente morto e la decomposizione sta realmente aggredendo il suo
cadavere. E' proprio questa morte reale che Dostoevskij vuole prendere del tutto sul serio perché essa
rappresenta per lui il simbolo della morte di Cristo nei cuori e nella vita degli uomini. "Questo
cadavere, sotto gli occhi di coloro che avevano creduto nel Cristo, fa nascere un interrogativo terribile,
di fronte al quale la fede non può non vacillare"(5) e tuttavia, di fronte ad esso, egli vuole ripetere l'atto
di fede pura e cieca compiuto dai discepoli di Cristo. Ma la fede cieca e pura di Dostoevskij non é
quella del fideismo: se per lui "questo quadro é il punto simbolico diacritico tra fede e miscredenza,
cristianesimo e ateismo" (6).
La sua fede é piuttosto quella dei discepoli dopo la crocifissione quando, apparentemente, le potenze
del male sembravano avere avuto la meglio sulla natura umana del Figlio di Dio. Del resto la fede, per
lo scrittore russo, non é mai stata un qualcosa di scontato o, tantomeno, di banale: se é vero che egli, fin
dall'infanzia, "conosce benissimo il Vangelo, ha familiarità con la letteratura agiografica"(7) , é
altrettanto vero che quella stessa fede fu smarrita ben presto sotto l'influsso delle idee liberali del suo
tempo. Arrestato nel 1849 per aver frequentato un circolo di intellettuali socialisti, lo scrittore viene
condannato a morte e proprio davanti al plotone di esecuzione arriva la grazia dello zar; la condanna gli
viene mutata in quattro anni di deportazione in Siberia, una prova durissima che si rifletterà in tutta la
sua successiva produzione letteraria. Fu proprio durante il viaggio verso la lontana regione russa che
Dostoevskij ricevette in regalo dalle mogli degli altri condannati il libro che lo accompagnerà per il
resto della sua esistenza: "Esse ci benedissero sulla nostra nuova via e con un segno di croce regalarono
ad ognuno di noi un Vangelo, l'unico libro permesso nella prigione. Durante quattro anni esso rimase
sotto il mio cuscino in galera"(8).
E' ha contatto con le dure sofferenze di cui fu costellata la sua vita che lo scrittore ritrovò dunque
quella fede che non lo abbandonerà più per tutto il corso della sua esistenza; ed é per questo che egli
poté affermare: "Non dunque alla stregua di un bimbo io credo nel Cristo e lo professo, ma il mio
osanna é passato attraverso il grande crogiuolo dei dubbi"(9); ed é per lo stesso motivo che "i suoi
argomenti non sono argomenti, bensì esistenze" (10). La fede ritrovata non fu, per Dostoevskij, un
qualcosa di posseduto in modo definitivo, bensì qualcosa da riconquistare continuamente. Del resto egli
"sa, accetta, di essere in combattimento spirituale, per tutta la vita, con la miscredenza da cui é stato
prima toccato é che é il male del secolo di cui egli é figlio" (11) . Nondimeno, dal momento in cui la
figura del Cristo tornò a risplendere nella sua vita, fu essa il suo unico metro di giudizio e la sua
autentica guida, non riguardo alla sola moralità ma all'intera esistenza dell'uomo: "Molti pensano che
sia sufficiente credere nella moralità di Cristo, per essere cristiano. Non la morale di Cristo né
l'insegnamento di Cristo salveranno il mondo, ma precisamente la fede in ciò, che il Verbo si é fatto
carne" (12). E' proprio per questa sua alta concezione del Figlio di Dio che Dostoevskij poté affermare
che "se mi si dimostrasse che Cristo é fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità é fuori
di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità" (13). Il senso di questa affermazione,
paradossale solo in apparenza, é che se la verità esiste e se qualcuno l'ha mai posseduta, questi non
poteva essere altri che Cristo stesso perché se anch'egli fosse fuori della verità, questa non potrebbe
esistere affatto ed il nostro mondo sarebbe per ciò stesso invivibile. Non sembra esagerato affermare,
quindi, che "nel mondo di Dostoevskij la persona di Cristo costituisce un centro di gravità. Tutto ad
essa converge, in essa si spiega e si illumina"(14); e se pur egli non scrisse una vita di Cristo (genere
letterario che in quell'ottocento di cui fu figlio era molto in voga e impresa da cui fu in verità tentato) é
altresì vero che "se si raccogliessero le definizioni e gli appellativi dostoevskiani che riguardano Cristo,
ne verrebbe fuori una litania lunga e appassionata" (15). Il maggior rimprovero che il grande russo
muoverà alla società occidentale é precisamente questo: di aver rimosso la figura di Cristo dalle menti
e dai cuori degli uomini credendo con ciò stesso di renderli più liberi ed emancipati senza accorgersi,
invece, che questa rimozione é la causa prima se non unica dello smarrimento e del senso di vuoto che
accompagnano l'uomo contemporaneo. Il cristianesimo non rappresenta per Dostoevskij una via tra le
altre o semplicemente un'opzione da scegliere o tralasciare: esso é l'autentica "conditio sine qua non
dell'essere e dell'esistere, individuale e sociale, temporale ed eterno"(16) che gli fece affermare che "se
non prendiamo la nostra autorità dalla fede e dal Cristo smarriremo sempre la retta via"(17). Come per
tutti i grandi scrittori, anche per Dostoevskij "vi é di più, o altrettanto, nella sua opera che nella sua
biografia"(18) ma nella trama dei molti suoi scritti, Cristo personalmente non appare che una volta
soltanto. Ciò avviene in quello che é quasi unanimemente considerato il suo capolavoro, I fratelli
Karamazov, e precisamente nelle dense pagine che formano il poema noto sotto il titolo di "Leggenda
del Grande Inquisitore". Sarà quindi estremamente interessante verificare quale immagine del Cristo la
"Leggenda" ci presenti e come le tematiche maggiormente care allo scrittore (la necessità di
un'autentica fede e le conseguenze teoriche e pratiche dell'ateismo) emergano da questo testo che,
scritto l'anno precedente la morte, si potrebbe quasi considerare una sorta di testamento spirituale. Ci
accingiamo a fare ciò con la guida eccezionale di un grande pensatore che ha applicato la sua
intelligenza allo studio di queste tematiche con una profondità che, nel suo genere, non ha ancora
trovato eguali: il filosofo e teologo tedesco Romano Guardini.
Nella conclusione del suo studio dedicato a Dostoevskij, Guardini non nega le difficoltà che ha
dovuto superare nell'interpretazione dell'opera e, specificatamente, dei personaggi creati dalla fantasia
dello scrittore russo: "Appena si crede -egli afferma- di aver capito che cosa significhi un tratto
particolare nel carattere di un personaggio o una determinata azione nel complesso della sua vita, subito
ci si accorge che la spiegazione potrebbe anche essere diversa"(19). E' dunque necessario, a parere
dello studioso tedesco, un filo conduttore per non smarrirsi nell'universo dostoevskiano ed egli afferma
di aver trovato ciò "nel rapporto dei personaggi con la terra, col popolo e con le potenze fondamentali
dell'esistenza"(20). Ma, preliminarmente, Guardini ha avuto cura di chiedersi quale sia stata la
concezione antropologica dostoevskiana giungendo alla conclusione che i suoi personaggi "sono
animati da motivi e da potenze religiose; le loro decisioni più profonde vengono di là"(21). Rilevante, a
questo riguardo, é il fatto che i personaggi di Dostoevskij "non hanno alcuna occupazione precisa ma,
invece, sono occupati interamente dal problema del significato dell'esistenza"(22). Guardini nota
efficacemente come, in un simile mondo, "i veri elementi di difesa e di sostegno dell'esistenza
quotidiana, a cominciare dal lavoro, sembrano ignorati"(23). Questi personaggi, dunque (specie quelli
negativi) vivono in un universo irreale, presi totalmente dai loro problemi e dalle loro passioni
ignorando che proprio il fatto di essersi staccati dall'esistenza reale é la principale fonte di quegli stessi
problemi e che "solo il normale complesso delle attività esterne sembra mettere un certo ordine"(24)
nella loro vita. La lettura guardiniana dell'opera dello scrittore russo non ha di mira tanto
un'interpretazione orientata su linee esclusivamente filosofiche o teologiche: essa ha come obiettivo,
piuttosto, la possibilità di un incontro esistenziale con lo stesso, tenendo presente che, in tutte le sue
interpretazioni, Guardini "ha adempiuto il compito che egli assegnava all'università, quando dice
ch'essa é la sede in cui le cose umane sono misurate sul metro di un grande passato"(25). Notevole é,
del resto, la sintonia tra la sua visione della figura del Cristo e quella dello scrittore russo oggetto della
sua interpretazione: anche per Guardini, infatti, "per il cristiano tutto dipende dal fatto se la figura di
Cristo viva in lui nella sua originaria schiettezza e nella pienezza della sua potenza, o se vi si delinei,
invece, sbiadita e confusa"(26); ed é sempre stato lui a mostrare "all'uomo moderno come soltanto
nell'incontro religioso con Dio la persona umana possa raggiungere il massimo della sua perfezione e
dischiudere tutte le sue possibilità vitali"(27). Ha osservato uno dei massimi conoscitori del pensiero
guardiniano come per il pensatore tedesco "solo Cristo possiede una visione completa e autentica del
mondo e lo sguardo rivelativo sul mondo é lo sguardo di Cristo"(28) ed in ciò sembra di sentir
riecheggiare il Dostoevskij che afferma che "non basta definire la moralità con la fedeltà alle proprie
convinzioni. Bisogna continuamente tornare a chiedersi: sono vere le mie convinzioni? La loro unica
verifica é Cristo"(29).
E' stato in un certo senso quasi naturale, perciò, che questi due autentici giganti del pensiero si
incontrassero, se pure a distanza, per un dialogo che, date le premesse, non può che preannunciarsi
quanto mai stimolante.

1 Gino Piovesana, Storia del pensiero filosofico russo, Cinisello Balsamo (MI), Edizioni Paoline,
1992, p. 197.

2 Guido Sommavilla, Dostoevskij cristologo e demonologo, in "Letture", XXXVI (1981), pp. 645.

3 Olivier Clement, Il volto interiore, Milano, Jaca Book, 1978, p. 238.

4 Anna Grigorev'na Dostevskaja, Dostoevskij mio marito, Milano, Bompiani, 1977, pp. 115-116.

5 Xavier Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, Brescia, Editrice Queriniana, 1989, p. 303.

6 Hans Urs Von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, Vol. 5, Nello spazio della metafisica: l'epoca
moderna, Milano, Jaca Book, 1978, p. 177.

7 Eugenio Vaghin, Dostoèvskij e la cultura russa del XIX secolo, in: Eugenio Vaghin (et al.),
Dostoèvskij: il mistero dell'uomo, Assisi, Cittadella editrice, 1985, p. 13.

8 Fedor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, a cura di Ettore Lo Gatto, Firenze, Sansoni, 1963, p. 14.

9 Lucio dal Santo (a cura di), Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini. 1860-1881, Firenze, Vallecchi,
1981, p. 424.

10 Guido Sommavilla, Il problema religioso in Dostoèvskij, in: E. Vaghin (et al.), cit., p. 85.

11 Giovanni Casoli, Presenza e assenza di Dio nella letteratura contemporanea, Roma, Città Nuova
Editrice, 1995, p. 35.

12 Fedor Dostoevskij, I Demoni. Taccuini per i Demoni, Firenze, Sansoni, 1958, p. 1027.

13 Id, Epistolario, a cura di Ettore Lo Gatto, vol. II, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1951, pp.
168-169. Lo stesso concetto si ritrova espresso anche sulla bocca di un protagonista di uno dei suoi
maggiori romanzi: cfr. Id, I Demoni, vol. I, undicesima edizione, Milano, Garzanti, 1993, p. 263 .

14 Ferdinando Castelli, Volti di Gesù nella letteratura moderna, vol. I, seconda edizione, Cinisello
Balsamo (MI), Edizioni Paoline, 1990, p. 23.

15 Ivi. p. 34.
16 Cfr: Dostoevskij, Epistolario, cit., p. 310.

17 F. Castelli, cit. p. 64.

18 L. Dal Santo, cit. p. 424.

19 X. Tilliette, cit. p. 294.

20 Romano Guardini, Dostojevskij. Il mondo religioso, quinta edizione, Brescia, Morcelliana, 1995, p.
331.

21 Ivi, p. 10.

22 Ivi, p. 7.

23 Paul Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, Roma, Città Nuova Editrice, 1972, p. 94.

24 R. Guardini, Cit., p. 9.

25 Ettore Lo gatto, Storia della letteratura russa, Firenze, Sansoni, 1943, p. 297

26 Karl Rahner, Romano Guardini (omaggio per l'ottantesimo compleanno), in "Humanitas", XX


(1965), p. 390.

27 Romano Guardini, La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, Brescia, Morcelliana, 1950, p.
11.

28 Giovanni Bortolaso, L'uomo moderno e il cristianesimo in Romano Guardini, in "Civiltà Cattolica",


CXVI (1965), pp. 133-141.

29Silvano Zucal, postfazione a: Romano Guardini, La visione cattolica del mondo, Brescia,
Morcelliana, 1994, p. 83.

30 L. Dal Santo, cit., p. 408.

I. IL CRISTO DELLA "LEGGENDA"

La "Leggenda del Grande Inquisitore" é sufficientemente conosciuta


ma non sarà inutile, in questa sede, richiamarne brevemente lo
svolgimento. Si tratta di un poema narrato da Ivàn Karamazov al fratello
Alesa nel corso di un colloquio fra i due che verte sull'esistenza di Dio e sul
perché, nel mondo, esistano il dolore e la sofferenza. L'azione si svolge
nella Siviglia del XVI secolo, dominata dal potere dell'Inquisizione; Cristo,
per la prima volta dopo millecinquecento anni, ritorna sulla terra. Compie
una serie di miracoli: ridà la vista ad un cieco, risuscita una bambina morta;
la folla lo acclama. Ma questo ritorno trionfale é ben presto turbato: il
cardinale Grande Inquisitore in persona si fa largo tra la folla ed ordina alle
guardie di impadronirsi di Cristo e di condurlo in carcere. Nella notte,
l'Inquisitore si reca a trovare il prigioniero ed inizia così il suo delirante
monologo: "'Sei tu? Sei proprio tu?' Ma senza aspettare la risposta,
aggiunge subito: 'Non rispondere taci. E poi che cosa potresti dirmi? Lo so
già quello che mi diresti. (...) Perché sei venuto a disturbarci? Giacché tu
sei venuto per disturbarci e lo sai bene'" 1 . Il vecchio muove nei confronti di
Cristo diverse accuse, ma la principale (e quella che tutte le riassume) é "di
aver preteso di dare all'uomo la libertà e la responsabilità delle sue azioni,
di aver rifiutato la teocrazia e di esigere una vita secondo il Vangelo" 2 .
Questi ideali, a parere dell'Inquisitore, sono per l'uomo troppo elevati e se
egli cercherà di perseguirli sarà destinato a sicura sconfitta. Cristo ha avuto
troppa fiducia nell'uomo, una fiducia immeritata, ed in più si é lasciata
sfuggire l'unica occasione che gli é stata offerta di renderlo felice: ha
respinto le tre tentazioni di cui é stato oggetto nel deserto.
Con la prima, Satana chiede a Cristo di cambiare le pietre in pane;
quest'ultimo rifiuta per non privare l'uomo della libertà ma, secondo
l'Inquisitore, "non c'é mai stato nulla di più insopportabile per l'uomo e per
la società umana della libertà" 3 . Scegliendo la libertà invece del pane Cristo
ha commesso ancora un altro errore: non ha permesso all'uomo di inchinarsi
di fronte ad una realtà più grande di lui, dal momento che "la
preoccupazione più assillante e tormentosa per l'uomo, fintanto che rimane
libero, é quella di trovare al più presto qualcuno da venerare" 4 . Rifiutando
di gettarsi dal pinnacolo del tempio, Cristo avrebbe compiuto un altro
sbaglio: si sarebbe rifiutato di compiere miracoli preferendo, anche in
questo caso, l'amore libero ai servilismi ma senza considerare che "nel
momento in cui l'uomo avesse rifiutato il miracolo, immediatamente
avrebbe rifiutato anche Dio, giacché l'uomo cerca non tanto Dio quanto i
miracoli" 5 . La terza offerta del tentatore é stata l'occasione dell'ultimo
errore: Cristo non ha voluto accettare i regni di questo mondo e la spada

1 FEDOR M. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, vol. primo, seconda edizione, Milano, Garzanti, 1992, p. 346.
2 F. CASTELLI, Cit., p. 44.
3 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov,..., cit. p. 350.
4 Ivi, p. 352.
5 Ivi, p. 355.
dei Cesari privando così l'umanità di quell'esigenza di unione universale
che é da sempre insita nei cuori di tutti.
Egli avrebbe dunque fallito su tutta la linea e l'Inquisitore stesso si
sarebbe accollato l'onere di correggerne l'opera: "L'abbiamo fondata sul
miracolo, il mistero e l'autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere
guidati nuovamente come un gregge, si sono rallegrati che qualcuno avesse
finalmente tolto dal loro cuore un dono così terribile che aveva causato loro
tanto tormento" 6 . La felicità consisterebbe quindi (per essere autentica)
nell'affidare completamente le proprie capacità decisionali ad un potere
esterno e nell'identificarsi completamente con le norme di condotta
suggerite da questo potere. Solo agendo in tal modo l'uomo potrà evitare
l'angoscia di dover mettere continuamente in discussione le proprie scelte
con tutto ciò che ne consegue. Quando tutto sembrava andare per il meglio e
gli uomini si lasciavano guidare docili come agnelli, ecco che Cristo viene a
disturbare; perciò, afferma l'Inquisitore, "se mai c'é stato qualcuno che
meritasse più di tutti il nostro rogo, quello sei tu. Domani ti farò bruciare.
Dixi." 7 .
Di fronte a queste accuse, il Cristo non risponde nulla: tace soltanto e
bacia l'Inquisitore prima di essere da questi, inspiegabilmente, rilasciato. Il
motivo di questo silenzio (che ricorda quello analogo di fronte a Pilato)
può essere variamente interpretato: o nel senso che Cristo si rifiuta di
esercitare a sua volta un potere, quello della parola, o che "il positivo non
parla perché gli basta essere" 8 o, infine, che egli si renderebbe conto che
"anche la razionalizzazione dell'esistenza umana costituirebbe una
tentazione" 9 .

6 Ivi, p. 357.
7 Ivi. p. 361.
8 LUIGI PAREYSON, La sofferenza inutile in Dostoevskij, in "Giornale di Metafisica" (Nuova Serie), IV (1982), p.153.
9 PAVEL EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, Roma, Città Nuova Editrice, 1995, p. 197.
I.1. LE INT E R P R E TA Z I O N I D E L L A "L EG G E ND A "

Di fronte alla vastità delle problematiche sollevate da questo autentico


capolavoro della letteratura e del pensiero universali, é certamente lecito
chiedersi in che rapporto esso stia con il resto del romanzo e se sia
possibile e lecita una sua autonoma lettura. Se da un lato, per alcuni
commentatori, "non si può 'leggere' il romanzo senza la Leggenda mentre é
possibile una separata lettura inversa" 1 0 , per altri una simile operazione
equivarrebbe ad "estirparla dal suo terreno e privarla della linfa vitale" 11 .
Anche Romano Guardini la pensa allo stesso modo quando afferma che "tra
la leggenda e tutto il resto dell'opera (vi é) un legame molto stretto e
l'abitudine di considerarla come qualcosa di conchiuso in sé porta a
fraintenderne il significato, oltre che l'intenzione di chi l'ha scritta, e a
distruggere l'unità del romanzo" 1 2 .
Il primo fraintendimento porta a considerare la "Leggenda" unicamente
come un feroce atto di accusa contro la Chiesa cattolica. Ora, se appare
esagerato affermare che, nello scritto che andiamo considerando, "lo
scrittore russo accusa la Chiesa romana in modo così inesorabile e severo
come non si era mai fatto fino allora nella letteratura" 1 3 , é altrettanto
indubitabile che "Dostoevskij, grande cristiano ortodosso russo, si portava
dentro da sempre un complesso molto compatto di sentimenti e di idee anti
romane" 1 4 arrivando ad accusare la Chiesa cattolica di avere venduto Cristo
per il potere temporale 1 5 . La componente anti-cattolica, nella "Leggenda", é
quindi senza dubbio presente, ed anche molto forte, ma una sua
interpretazione che andasse unicamente in questa direzione rischierebbe di
non colpire nel segno e di falsare l'intera lettura del romanzo. Del resto,
non bisogna dimenticare che Dostoevskij accomunava spesso le accuse al

10 VITTORIO STRADA, Introduzione a: VASILJ ROZANOV, La leggenda del Grande Inquisitore, Genova, Marietti, 1989, p.
XII.
11 L. PAREYSON, cit., p. 142.
12 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 124.
13 JOSEF IMBACH, Dio nella letteratura contemporanea, Roma, Città Nuova Editrice, 1975, p. 45.
14 G. SOMMAVILLA, Dostoevskij cristologo..., cit., p. 646.
15 Cfr. F. DOSTOEVSKIJ, Diario..., cit., p. 334-335. In un altro passo del medesimo Diario affermerà che "il cattolicesimo, in
verità, non é già più cristianesimo e si va trasformando in idolatria...". (p. 1285).
cattolicesimo con quelle rivolte nei confronti del socialismo, dato che per
lui "di diverso tra imperialismo cattolico e socialismo materialista c'é
soltanto che il primo manteneva ancora la finzione delle speranze
ultraterrene e il secondo non più" 1 6 . Accuse, come si può vedere,
profondamente ingiuste, ma che bisogna leggere nel particolare contesto
storico in cui furono formulate e considerando che provenivano da un uomo
profondamente radicato nella cultura del suo tempo tanto che, é stato
efficacemente notato, "come la circoncisione per gli antichi cristiani
giudaizzanti, così la nazionalità russa é per Dostoevskij un passaggio
obbligato al cristianesimo" 1 7 . Piuttosto che il cattolicesimo, bersaglio dello
scrittore sarebbe piuttosto "il principio autenticamente 'cattolico' -cioè
universale- della Tentazione, quel principio che é insito in tutte le forme
della coscienza religiosa come pure in quella atea" 1 8 . Del resto, se
l'interpretazione della "Leggenda" fosse solo quella che vi vede unicamente
una polemica nei confronti del cattolicesimo, "rivendicheremmo il diritto di
interpretare Dostoevskij nonostante Dostoevskij. Poiché le creazioni di un
grande scrittore non gli ubbidiscono ma seguono le proprie leggi e sono più
profonde di lui" 1 9 .
Un'altra interpretazione vede nella figura del Grande Inquisitore una
prefigurazione del moderno dittatore, di colui che assomma su di se il
controllo del potere politico e delle scelte morali in nome di una verità
conosciuta solo da lui e che é sua cura dispensare al popolo nelle forme
determinate da egli stesso. Secondo questa interpretazione, l'Inquisitore
potrebbe, come Hitler, affermare: "Io libero l'uomo dalla costrizione di uno
spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche e umilianti autoafflizioni
di una chimera chiamata coscienza e morale e dalle pretese di una libertà e
autodeterminazione personale, di cui ben pochi possono essere
all'altezza" 2 0 . Per venire ad un altro tipo di dittatura, é senza dubbio
16 G. SOMMAVILLA, Dostoevskij cristologo..., cit., p. 648.
17 FRANCO ZOPPO, Il 'Cristo russo' di Dostoevskij, in "Humanitas", XIV (1959), p. 630. Nel suo Diario, cit., Dostoevskij
affermerà che "la perduta immagine di Cristo si é conservata in tutta la luce della sua purezza nell'ortodossia". (p. 1175).
18 P. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema..., cit., p. 210.
19 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 131.
20 Cit. in: JOSEPH RATZINGER, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Cinisello Balsamo (Mi),
Edizioni Paoline 1987, p. 159.
limitativo affermare che "Dostoevskij colla Leggenda ha voluto presentarci
un quadro di quella che avrebbe dovuto essere la società comunista,
costruita sulle premesse dell'ateismo" 2 1 , anche se non si può negare che é
quanto meno impressionante constatare i riscontri che questa
interpretazione ha avuto, soprattutto alla luce dei fatti del 1989 nei Paesi
dell'Est europeo. Già un acuto osservatore come il De Lubac, fra l'altro,
osservava come il progetto illustrato dal Grande Inquisitore altro non fosse
che una forma di socialismo ateo 2 2 .
Simile a questa é l'interpretazione che vede nel Grande Inquisitore
l'autentico anti-Cristo che "personifica tutte le forme dell'ateismo
moderno" 2 3 , non più, quindi, solo quello derivante dal socialismo scientifico
(oggi tra l'altro pressoché inesistente nei nostri paesi occidentali) ma anche
quello che trae la sua linfa vitale dalla moderna società dei consumi.
Un'altra linea di lettura propone un'interpretazione di taglio più
esistenziale: l'Inquisitore "rappresenterebbe l'uomo nel suo sforzo immane,
ambivalente e contraddittorio, di trasformazione antropologica e di
controllo in senso morale e politico dei suoi impulsi vitali" 2 4 . Si tratta di
una proposta interessante in quanto, tenendosi lontana dalle troppo facili
schematizzazioni e semplificazioni, si propone di scavare nell'animo di
colui che, con tanta implacabilità, accusa Cristo per individuare le
autentiche ragioni di questa requisitoria.
Senza dubbio, tuttavia, l'interpretazione che ha avuto maggior corso
riguardo alla "Leggenda" é quella che vede nel suo Cristo nient'altro che la
più alta rappresentazione del Figlio di Dio uscita dalla penna di
Dostoevskij 2 5 . Secondo questa chiave di lettura, "il Cristo muto della
leggenda rappresenta il più bel ritratto di Cristo che lo scrittore abbia
tracciato, questo Cristo en abime nella requisitoria dell'Inquisitore" 2 6 . E'
forse in conformità a questa chiave di lettura che molti preferiscono leggere
21 GIUSEPPE CAMPORA, Comunismo e cristianesimo in Dostoevskij, in "Humanitas", VI (1951), p. 783.
22 Cfr.: HENRI DE LUBAC, Il dramma dell'umanesimo ateo, Milano, Jaca Book, 1992, p. 262.
23 GIUSEPPE MANZONI, La spiritualità della Chiesa ortodossa russa, in: L. Boujer, E. Ancilli, B. Secondin (a cura di),
Storia della spiritualità, vol. 9\B, Bologna, EDB, 1993, p. 453.
24 GIUSEPPE TRENTIN, Attualità di Dostoevskij per la teologia morale, in "Rivista di teologia morale", XIV (1982), p. 363.
25 Cfr.: NIKOLAJ BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1977, pp. 65ss.
26 X. TILLETTE, cit., p. 309.
la "Leggenda" come opera a sé stante e fare del Cristo che vi é
rappresentato quasi un oggetto di meditazione. Si tratta di una
interpretazione, vale forse la pena ricordarlo, la quale, se per certi versi
risulta affascinante, é più adatta ad una lettura separata del poema dal resto
dell'opera e che, al contempo, rischia di sviare l'attenzione ed il giudizio
dall'autentico centro del problema.
I.2. L' INT E R P R E TA Z I O N E DI R OM ANO G UA RDI NI

Di fronte a tutte queste linee interpretative (senza dubbio estremamente


interessanti, ma limitative in quanto prendono in esame solo aspetti
particolari senza considerare l'insieme), la chiave di lettura proposta da
Romano Guardini appare come la più convincente. Lo studioso tedesco,
infatti, non si limita a considerare i vari aspetti della "Leggenda"
singolarmente ma inquadra la stessa nell'economia complessiva del romanzo
e ciò gli permette di restare ancorato all'intero senza perdere di vista i
particolari. Considerata, perciò, da questa prospettiva, "la leggenda é in
relazione alla visione che Ivàn ha del diavolo e ai suoi discorsi sul mondo e
su Dio. Vista in questo insieme, e proprio in quanto Ivàn se ne serve per
giustificarsi, essa é la rivelazione della sua anima e della sua particolare
esperienza religiosa" 2 7 .
Guardini non nega che la tentazione di considerare il Cristo della
"Leggenda" come quello autentico é stata in lui molto forte ma, in un
secondo momento, egli ha cominciato a chiedersi, e la domanda é
paradossale solo in apparenza ma in realtà gravida di conseguenze, se non
avesse ragione il Grande Inquisitore nel ritenere il Cristo che gli si presenta
davanti come un autentico eretico. Impressione rafforzata dal fatto che "in
questa figura l'elemento cristiano é staccato dai piani e dagli ordini ai quali
é per essenza riferito" 2 8 . La figura di Cristo quale emerge dalla "Leggenda",
infatti, chiama sì alla responsabilità e alla libertà ma questi due valori sono
proposti in maniera così avulsa dalla vita e dall'esistenza reale degli uomini
da renderli pressoché impraticabili. Manca, dunque, quella "zona intermedia
ove pur vive l'uomo e si svolge la sua esistenza quotidiana" e, di
conseguenza, "una vita priva di questa zona intermedia diventa irreale
poiché qui é il luogo dell'attuazione pratica, qui il campo e l'officina
dell'esistenza" 2 9 .

27 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 132.


28 Ivi, p., 133.
29 l.c.
Abbiamo già osservato 3 0 come i personaggi di Dostoevskij, tutti presi
dai problemi della loro esistenza, in pratica non lavorino mai; ma non é
questo l'unico motivo per cui essi si estraniano dalla realtà circostante: ciò
che loro manca é anche la dimensione della realtà storica: incapaci di
pensare storicamente essi sono di conseguenza incapaci di assumere dei dati
positivi come materia del loro pensare e, quindi, di porsi nel centro della
storia per interpretarla e trasformarla 3 1 . Manca in essi anche qualsiasi
rapporto con un'altra realtà: la Chiesa come "portatrice storica dello
sguardo plenario di Cristo sul mondo" 3 2 . A personaggi che hanno un simile
rapporto con il mondo e con la realtà storica, cosa viene a proporre il Cristo
della "Leggenda"? Porta loro sì la responsabilità e la libertà ma sembra poi
incapace di toglierli dall'angoscia che consegue il non sapersi avvalere di
questi stessi doni e non fa nulla per venire in loro aiuto.
Ma bisogna ancora chiedersi (ed é forse la domanda fondamentale): é
proprio vero che tutta la grazia di Cristo e tutta la sua missione consistono
nell'avere portato unicamente la libertà? e, se sì, di quale libertà si tratta?
Questo valore, unitamente alla giustizia ed alla solidarietà, é senz'altro
avvertito dall'uomo come uno dei costitutivi dell'esistenza, sia individuale
che collettiva. Il cristianesimo ha in un certo senso portato ad un
inveramento di questo anelito alla libertà che é da sempre nel cuore
dell'uomo; quando Gesù afferma: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete
davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv
8.31), dichiara senza ombra di dubbio che per l'uomo l'essere libero é
possibile ma questa possibilità ha come unica condizione il restare a lui
uniti. Non con questo che si voglia affermare che la fede sarebbe da sola
sufficiente a fondare la libertà: anzi "essa deve in un certo senso
presupporla e sfidarla, al di là dei condizionamenti che alla libertà vengono

30 Cfr. sopra, Introduzione p. 4.


31 Cfr.: BRUNO FORTE, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia. Saggio di una cristologia come storia, sesta
edizione, Cinisello Balsamo (MI), Edizioni Paoline, 1989, p. 8.
32 R. GUARDINI, La visione cattolica..., cit., p. 44.
posti dall'ambiente, dalla storia, dalla struttura psicologica, dalla
situazione" 3 3 .
Guardini nota, in una delle sue opere maggiori, che "l'uomo può
industriarsi quanto vuole per sottrarsi alla libertà, può contestarla
teoricamente, agire praticamente come se essa non esistesse, abbandonarsi
all'istinto o all'abitudine, essa gli si imporrà sempre" 3 4 . Il motivo di questo
imporsi é proprio che la libertà cristiana si caratterizza per il suo
strettissimo legame con il Cristo. Tutta la riflessione neotestamentaria
dimostra chiaramente che la libertà non può essere conquistata dall'uomo
con le sole sue forze ma é dono di Dio e che "il passaggio dal regno della
legge (AT) al regno della grazia (NT), é 'cristologico'. Cristo é il
completamento, l'inveramento, e dunque la 'fine' della legge" 3 5 . Non c'é
bisogno di molte parole per dimostrare che egli, in tutta la sua esistenza, ma
in particolar modo nell'episodio delle tentazioni e della passione
volontariamente accettata, si é dimostrato un uomo autenticamente libero ed
ha in un certo qual senso fondato anche la libertà umana. Si può quindi
affermare che, da allora, "l'uomo é libero perché é spirito e di conseguenza
capace di storia; egli sta nel contesto delle cose, dello spazio e del tempo
perché é incarnato in un corpo e perciò storicamente vincolato" 3 6 . Usando
una terminologia forse abusata, ma sempre suggestiva, si potrebbe
affermare che Cristo non é stato solo libero "da" ma anche libero "per";
oppure, più precisamente, che é stato libero "per" in quanto libero "da".
Anche il nostro scrittore ha una tale visione del problema:
"Schematicamente possiamo dire che la libertà si rivela in Dostoevskij sotto
questi aspetti: é illimitata, irrazionale, sovrumana, demoniaca e
cristologica, escatologica, purificata dalla sofferenza" 3 7 .
La libertà che il Cristo della "Leggenda" consegna all'uomo non sembra
però di tal genere: essa sembra piuttosto unicamente di ordine

33 GIORGIO CAMPANINI, "Libertà cristiana", in Nuovo dizionario di spiritualità, a cura di S. De Fiores e Tullo Goffi, quinta
edizione, Cinisello Balsamo (MI), 1989, p. 848.
34 R. GUARDINI, Libertà - grazia - destino, Brescia, Morcelliana, 1956, p. 58.
35 G. CAMPANINI, cit., p. 851
36 R. GUARDINI, Ansia per l'uomo, t. II, Brescia, Morcelliana, 1969, p. 121.
37 TOMAS SPIDLÌK, Il cammino dello Spirito, Roma, Lipa, 1996, p. 74.
esclusivamente morale, nel senso più restrittivo del termine, vale a dire che
consiste unicamente nella sola possibilità di scelta tra bene e male.
Guardini afferma, nella sua opera più celebre, che esistono due specie di
libertà: la seconda (che é quella autentica) consiste nell'essere liberi nella
verità in modo tale che, una volta conosciuto Dio, non si possa fare altro
che donarsi a Lui. Questa libertà, tuttavia, per essere autentica, presuppone
la prima, la quale consiste nel fatto che a Dio si possa dire tanto sì quanto
no: "é una tremenda possibilità, sulla quale però matura la serietà
dell'esistenza umana. Dio non poteva fare a meno di dotarne l'uomo" 3 8 . Il
Cristo della "Leggenda" consegna sì la libertà all'uomo ma essa é
esclusivamente della prima specie nel senso indicato sopra mancandole la
"tremenda possibilità". Ne consegue che "se l'uomo é ricolmo della libertà
annunciata da Cristo e incarnatasi nella sua persona, a maggior ragione egli
sarà impotente ad adempiere le esigenze di imperativi morali impersonali
privi di qualsiasi immagine concreta" 3 9 .
Guardini intravede pure nel cristianesimo della "Leggenda" una larvata
forma di catarismo in quanto il fatto cristiano sarebbe identificato con
l'ideale cristiano e verrebbero respinte tutte le gradazioni e le
approssimazioni. Cristo ha sì dichiarato che "Molti sono i chiamati ma
pochi gli eletti" (Mt 22.14) ma é sempre lui che ha dichiarato: "Venite a me
voi tutti" (Mt 11.18). I due aspetti non sono inconciliabili: "il primo é
comprensibile solo se assunto illuminato e risolto nel secondo, e in questo
anche superato, nel senso almeno che se é impossibile agli uomini non é
impossibile a Dio" 4 0 . La compassione (nel senso etimologico di comune
soffrire) che il Cristo della "Leggenda" sembra nutrire nei confronti
dell'uomo é quindi più apparente che reale. Si tratta in realtà di "un Cristo
distaccato. Un Cristo che esiste solo per sé. (...) Egli ci scuote ma per
lasciarci nell'incertezza della Sua provenienza e della Sua meta. Il
turbamento che suscita in noi ci rende perplessi e toglie in ultimo ogni

38 R. GUARDINI, Il Signore, Milano, Vita e Pensiero, quarta edizione, 1962, p. 264.


39 EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema..., cit., p., 169-170.
40 G. SOMMAVILLA, Dostoevskij cristologo..., cit., p. 651.
speranza" 4 1 . Di fronte a ciò, l'Inquisitore "ristabilisce il diseredato nei suoi
diritti. Riconosce che l'uomo é quello che é e gli dà un segno d'amore
affermando che l'esigenza cristiana deve partire da quello che l'uomo é, non
da ciò che dovrebbe essere" 4 2 .
Non si creda, con ciò, che Guardini abbia in tal modo in mente una sorta
di "riabilitazione" della figura dell'Inquisitore; in realtà, se questa
impressione é possibile, essa é solo la dimostrazione delle insormontabili
aporie cui porta un'interpretazione della "Leggenda" unicamente nel senso
di una lode incondizionata a Cristo. Uno dei grandi meriti dello studioso
tedesco é stato proprio quello di dimostrare che questa presunta lode
finisce presto per trasformarsi (come una specie di eterogenesi dei fini) in
un plauso al suo implacabile avversario. Sarà dunque altrove che bisognerà
volgere l'attenzione per interpretare il nostro poema; in particolare, sarà
indispensabile interrogarsi sul suo autore letterario, Ivàn Karamazov,
perché proprio qui, a parere di Guardini, sta la radice del problema.
Quella di Ivàn é una delle figure meglio riuscite di tutto il romanzo e
dell'intera produzione letteraria di Dostoevskij e proprio per questo la sua
personalità risulta di una complessità tale che sarebbe vano anche solo
cercare di riassumerne i tratti. Quello che, in questa sede, é possibile é
unicamente il cercare di individuare i motivi che lo spingono a raccontare al
giovane fratello Alesa il poema dell'Inquisitore e a fornire la conseguente
immagine di Cristo. Ciò che risulterà sarà che "il Grande Inquisitore é Ivàn
stesso in quanto si rifiuta di riconoscere questo mondo e vuole strapparlo
dalle mani di Dio per dargli un ordine diverso e migliore..." 4 3 . Il rapporto
con il mondo, inteso come realtà esteriore, é estremamente importante
nell'opera letteraria e nella vita di Dostoevskij: i personaggi dei suoi
romanzi si salvano o si perdono a seconda che riescano o meno a trovare
nella loro vita un punto fermo che li salvi dal degrado morale in cui la loro
vita rischia spesso di precipitare; punto fermo che é in pratica identificato

41 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p., 136-137.


42 Ivi, p. 138.
43 Ivi, p. 140.
con la fede o, quanto meno, con il suo sincero desiderio e la sua costante
ricerca.
Nella visione di Dostoevskij, l'umile popolo credente riesce quasi
sempre a mantenere questo punto fermo in quanto (a differenza che nel
nostro mondo occidentale) ha tenuto fermo l'equilibrio tra il Dio creatore ed
il Dio provvidente: non si sente in altre parole abbandonato dopo la
creazione in un mondo compiuto e autodeterminato ma riesce ad
intravvedere in ogni avvenimento la volontà di Dio senza che ciò scada in
sterile fideismo o fatalistica rassegnazione. Nello scrittore russo questa
visione é sempre stata molto netta tanto da poter affermare che "a differenza
del Manzoni, non fu lo studio della teologia, ma forse, prima di tutto, il suo
amore per l'umile popolo credente che lo ricondusse alla Chiesa" 4 4 . Per lui
"il popolo é ancora l'uomo immediato, in cui l'unità non si é spezzata. Non
riflette; accetta l'esistenza come gli é data (...) mentre l'uomo colto
l''occidentalista' che ha voluto emanciparsi, ha perso ogni naturale appoggio
e vive in un clima artificioso e malato" 4 5 . Questo modo di vivere la fede non
deriva tuttavia da un sapere di tipo intellettualistico ma da un autentico
rapporto vitale: "Si dice che il popolo russo conosca male il Vangelo, non
conosca i precetti fondamentali della fede. Certo é così, ma esso conosce
Cristo e lo porta nel cuore da tempo immemorabile" 4 6 . Il caso della Sonia
di Delitto e castigo é, al riguardo, esemplare: ella é stata costretta a darsi
alla prostituzione per aiutare economicamente la propria famiglia ma,
mentre vende il proprio corpo, il suo animo é rimasto tuttavia puro in
quanto sente che Dio le é vicino. Sonia non tenta, quindi, di giustificarsi o
di far passare il male per bene e proprio per questo "la sua grandezza sta nel
subire soffrendo ciò che ella aborrisce" 4 7 . Proprio perché ella si é
conservata pura, pur vivendo immersa nel fango, riesce a perdonare chi é
stato causa della sua rovina ed il suo amore sarà la causa prima della
conversione del protagonista del romanzo, Raskolnikof. Dopo aver trovato

44 DIVO BARSOTTI, Cristianesimo e Chiesa in Dostoevskij, in "Rivista di ascetica e mistica", LXIII (1994), p. 342.
45 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 13-14.
46 F. DOSTOEVSKIJ, Diario..., cit., p. 52.
47 R. GUARDINI, Dostojevskij... cit., p. 55.
il proprio punto fermo, ella può quindi divenire, a sua volta, un punto fermo
per gli altri. Si può quindi a ben ragione affermare che quella di Sonia "é la
più soave tra le figure femminili di Dostojevskij. (...) Ella é creatura di Dio
in un senso del tutto particolare, in quanto cioè su di lei sta insondabile il
mistero della divina Provvidenza. In questo mondo ella é indifesa, eppure é
avvolta nella sollecita protezione del Padre" 4 8 .
In mezzo a questa folla semi-anonima che popola il mondo dei romanzi
dostoevskiani, ad un certo punto sembrano emergere delle figure: sono
coloro che Guardini ama definire come "uomini spirituali". La differenza
consiste nel fatto che "anche nella vita degli altri personaggi di
Dostojevskij prevale il fatto religioso, ma questo non si traduce in precisi
atti spirituali, opera piuttosto nel complesso dell'esistenza e l'orienta a Dio.
(...) Questi uomini, invece, esprimono direttamente il momento religioso. In
loro, esso appare in se stesso e domina su tutto il resto" 4 9 . Il più conosciuto
di questi "uomini spirituali" é senza dubbio lo starec Zosima de I fratelli
Karamazov. Costui non é stato sempre cristiano, ha anzi vissuto una
giovinezza dissoluta quando era arruolato come ufficiale nell'esercito ma,
una volta ritrovata la fede, decide di viverla nel modo più radicale possibile
facendosi monaco. Da quel momento, l'intera sua esistenza diventa una
splendida icona del Dio vivente che ha conosciuto ed in punto di morte
ripercorrerà i tratti fondamentali della sua vita e della sua spiritualità
fondata sulla compassione verso tutti gli uomini, sulla preghiera e sulla
Sacra Scrittura.
Un ulteriore passo avanti rispetto allo starec Zosima viene individuato
da Dostoevskij nella figura di Alesa Karamazov, la cui grandezza "non é
soltanto una qualità umana; ivi si esprime anche qualcosa di sovrumano, la
natura angelica" 5 0 . Ciò che nello starec risulta essere frutto di una lunga
ascesi, in questa figura appare piuttosto come una qualità originale e tutti
coloro che gravitano intorno a lui sembrano avvertire che dalla sua persona
promana una forza che va al di là dell'umano. Egli non giudica mai nessuno

48 Ivi, p. 48.
49 Ivi, p. 66-67.
50 Ivi, p. 110.
e mai nessuno condanna ma "vi é chiarezza in lui che porta la distinzione
tra il bene e il male su un piano di consapevolezza, sicché in presenza sua
questa differenza s'impone" 5 1 e la verità stessa sembra parlare con la sua
stessa bocca.
Guardini insiste molto sulla grandezza spirituale di Alesa in quanto
questo personaggio gli richiama alla mente quella che é da lui considerata la
figura più alta uscita dalla penna di Dostoevskij: il principe Myskin de
L'idiota , questo "figlio inquieto e beniamino dell'autore" 5 2 . Costui, nel
romanzo, giunge a Pietroburgo dopo un lungo ricovero in una clinica
svizzera e si trova al centro di una serie di intrighi. Rifiutandosi di
parteggiare per una fazione contro un'altra, il principe si mette piuttosto al
servizio di ciò che di buono riesce ad intravvedere in ogni uomo. Il suo
modo di agire risulta in tal modo disarmante: rifiuta di assumere un
atteggiamento calcolatore ed egoista, non si basa sulle apparenze nel suo
rapporto con gli altri, si dedica al prossimo con una dedizione totale. Allo
sguardo di Myskin il mondo appare come un miscuglio di potenzialità
positive e negative e ritiene suo preciso dovere fare tutto il possibile perché
le prime prevalgano sulle seconde. E' proprio perché, nel suo atteggiamento,
egli si differenzia da tanta parte dell'umanità che si vede affibbiata la
qualifica di "idiota", nel senso etimologico di "diverso", "straniero". La sua
grandezza consiste nel fatto che "a differenza di tanti che comprendono
l'errore, il peccato e perdonano perché comprendono, il principe Myskin
perdona non solo perché comprende la debolezza umana, ma perché ama, a
somiglianza di Cristo" 5 3 .
E' quindi perfettamente lecito chiedersi se il protagonista de L'idiota
non rappresenti che un cristiano (sia pure di un tipo tale che sia riuscito a
vivere la propria fede in maniera eminente) o non piuttosto qualcosa di
diverso e di maggiore. Per Guardini non sembrano esserci dubbi in quanto
"se cerchiamo di penetrare nell'intimo di questa esistenza, procedendo di
episodio in episodio, di avvenimento in avvenimento, avvertiamo subito che

51 Ivi, p. 103.
52 H. U. VON BALTHASAR, cit., p., 174.
53 G. MANZONI, cit., p. 445.
tutto -certe corrispondenze interiori, l'atmosfera, e così pure molti
particolari- sembra indicare qualcosa che trascende l'umano" 5 4 . Il principe
Myskin é dunque sì solamente un uomo ma, attraverso la sua figura,
Dostoevskij sembra spingere il lettore ad andare al di là delle apparenze
per contemplare l'immagine dell'Uomo per eccellenza: Gesù Cristo.
Impresa quanto mai ardua in quanto "si tratta di far passare la luce di Cristo
in un vaso d'argilla" 5 5 ma che allo scrittore sembra perfettamente riuscita.
Non che esista un parallelismo diretto in quanto "l'immagine dell'esistenza
di Cristo é qui tradotta nell'esistenza di quest'uomo, il che é forse possibile
solo se, da un punto di vista puramente umano, essa rimane una
'impossibilità'" 5 6 . Né bisogna lasciarsi fuorviare dal fatto che, in ultima
analisi, il principe, a differenza del Cristo, non salvi in definitiva nessuno
di coloro per i quali ha speso la propria esistenza. Dopo essersi infatti
messo al servizio del mondo corrotto in cui vive, senza chiedere nulla per sé
ed accettando sofferenze ed incomprensioni, la sua impresa fallisce ed egli
ricade nella sua malattia, apparentemente sconfitto. La spiegazione di tutto
ciò é nel fatto che "la perfezione del simbolo sta appunto in questo: che
nulla esso 'mima' di ciò che é divino" 5 7 , senza considerare che "non sono le
anime tortuose e perfette a dare il senso della presenza di Cristo; sono le
anime disordinate, il cui passaggio scompagina le nostre norme e
interrompe il nostro sonno teologico" 5 8 .
Questa rapida carrellata nel mondo dei personaggi dostoevskiani ci ha
permesso di appurare che "crede davvero solo colui che si colloca come
persona vivente sul quel punto fermo soprannaturale dove sta Cristo" 5 9 .
Questi stessi personaggi hanno trovato il loro punto fermo e lo sono a loro
volta diventati per coloro che gravitano intorno a loro. Appare evidente

54 GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 283.


55 X. TILLETTE, cit., p. 315.
56 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 319.
57 Ivi. p. 323.
58 X. TILLETTE, cit., p.316. La lettura della figura del principe Myskin come simbolo di Cristo non é pacificamente
accettata da tutti i commentatori. Cfr., ad esempio, O. CLEMENT, cit.: "Non bisogna ingannarsi: é unicamente in uno dei
progetti non realizzati del romanzo che 'l'idiota' simboleggi l'Innocente per eccellenza, il Cristo" (p. 198). Una buona sintesi
delle varie posizioni si trova in: ANGELA DIOLETTA SICLARI, Il mistero del bene nella riflessione di Dostoevskij, in: E.
VAGHIN (et al.), cit., p. 70, n.23.
59 R. GUARDINI, Visione cattolica..., cit., p. 34.
come in Ivàn Karamazov questo stesso punto fermo appaia completamente
assente; non che egli non ammetta l'esistenza di Dio: ciò che é peggio é che
egli neghi la sua stessa creazione appellandosi al fatto che la realtà umana
appare intrisa di male e di dolore. Un mondo creato da un Dio, che dovrebbe
essere bontà assoluta, e l'esistenza del dolore gli appaiono perciò come due
realtà inconciliabili ed egli vorrebbe sì che giustizia fosse fatta ma subito,
su questa terra. Il rifiuto di appellarsi ad ogni realtà "altra" é per ciò stesso
assoluto e definitivo.
La prospettiva cristiana sulla sofferenza é totalmente opposta a questa
visione: Gesù Cristo non ha dato una risposta teorica ma ha redento l'uomo
con la sua incarnazione percorrendo il suo cammino fino in fondo al punto
di assumere la condizione di servo e divenire simile agli uomini (Cfr. Fil
2.7). In questa prospettiva, "il soffrire é espressione di una verità suprema
dell'esistenza umana, che conduce fino alla profondità del divino" 6 0 . Se,
dunque, Cristo ha dato valore salvifico alla sofferenza, bisognerà diffidare
di coloro che, da essa scandalizzati, vorrebbero eliminarla con le sole
proprie forze dal momento che "l'esperienza degli ultimi decenni ci ha
avvertiti con quanta facilità la volontà di eliminare il dolore si trasformi in
quella di eliminare gli uomini che soffrono e la cui sofferenza non può più
essere superata o lo può essere solo con sincero disinteresse" 6 1 . Nella
visione cristiana, dolore e sofferenza non sono voluti direttamente da Dio
ed esiste una stretta correlazione tra queste realtà ed il peccato anche se non
si può affermare che esso sia l'unica causa della sofferenza e della morte. Se
l'uomo (ed Ivàn ne é una perfetta esemplificazione ) tende a misconoscere
queste realtà in quanto non riesce a spiegarle, Cristo ha agito in tutt'altro
modo: "Egli non ha girato al largo di fronte al dolore, come sempre é solito
fare l'uomo. Non lo ha guardato dall'alto. Non se ne é premunito. L'ha preso
a cuore. Ha accolto gli uomini come sofferenti, come realmente sono; nel
loro vero stato" 6 2 ; non é entrato nel mondo per proclamare una teoria
riguardante la soluzione del problema della sofferenza, del dolore, della

60 ID, Ansia per l'uomo, cit., p. 93.


61 Ivi. p. 94.
62 ID, Il Signore, cit., p. 72.
malattia. Specialmente i vangeli mostrano come Gesù fosse personalmente
vicino all'uomo sofferente in una condivisione molto profonda e come la
realtà del dolore non fosse da lui vista come una tragica fatalità: le
narrazioni dei miracoli di guarigione (Cfr. Mt 8.16) sono di ciò la prova
più evidente. Anche per Dostoevskij il dolore é "un prezioso dono di Dio.
L'uomo che non si é perfettamente identificato con Cristo realizza la sua
libertà in maniera errata. Ma, per grazia di Cristo, soffre, e così ritrova la
sua identità" 6 3 .
A fronte di questa armonica visione che, ben lungi dal voler
razionalizzare quanto resta pur sempre un mistero, ha almeno il vantaggio
di aprire l'uomo alla speranza, non solo Ivàn rimprovera a Dio di non avere
creato un mondo privo delle realtà del male e del dolore, la sua requisitoria
si spinge oltre: a Dio sarebbe stato impossibile creare un mondo perfetto,
ma "affermare questo significa però voler umiliare Dio, dichiarare la sua
impotenza, accusarlo di debolezza, di ingiustizia e forse qualcosa di più
terribile ancora" 6 4 . Nella visione di Dostoevskij, al contrario, dolore e
sofferenza acquistano un loro significato in ordine all'economia salvifica:
egli accoglie pienamente la tradizionale visione cristiana con in più una sua
specifica connotazione: "La sofferenza é per lui non soltanto l'inevitabile
punizione d'un delitto particolare, ma anche l'inevitabile espiazione d'un
destino di colpa che grava sull'umanità intera. Votato al dolore é non
soltanto il singolo criminale (...) ma l'uomo in generale, dato che tutti gli
uomini sono peccatori e nessun uomo é giusto e tutti ospitiamo il male nel
nostro cuore" 6 5 . Non solo la sofferenza subita ma anche quella cercata
assume nel pensiero di Dostoevskij un'importanza eccezionale: molti suoi
personaggi trovano il loro riscatto nel dolore tanto che si potrebbe
affermare che "il desiderio di soffrire é dunque una confutazione vivente
dell'ateismo nell'atto stesso che manifesta la sua straordinaria forza
redentiva: la potenza della sofferenza riesce a riscattare la sofferenza" 6 6 .

63 T. SPIDLÌK, cit., p. 75.


64 R. GUARDINI, Dostojevskij... cit., p. 152.
65 L. PAREYSON, cit., p. 171.
66 Ivi, p.156.
Tanto più che non esistono per lo scrittore creature totalmente buone o
totalmente cattive: in ognuno il bene ed il male coesistono e sono in eterno
conflitto.
Collegato a questo é un tema che a Dostoevskij sta molto a cuore: quello
della comune responsabilità nella colpa. Questo concetto é espresso in
maniera mirabile dallo starec Zosima: "C'é un solo modo per salvarsi:
renditi responsabile di tutti i peccati degli uomini. E' proprio così, amico
mio, giacché non appena ti considererai sinceramente colpevole di tutto e
per tutti, ti accorgerai immediatamente che quella é la verità: tu sei davvero
colpevole per tutti e per tutto. Invece, riversando la tua indolenza e la tua
impotenza sugli altri, finirai per condividere l'orgoglio di Satana e
mormorerai contro Dio" 6 7 : "Tutto questo non é una figura retorica che
diventerebbe insopportabile, ma l'espressione d'una grazia essenziale per il
cammino del pentimento: la grazia di saper vedere l'unità ontologica di
tutta l'umanità" 6 8 . L'umile popolo credente, a parere di Dostoevskij, ha
perfettamente compreso questo e quindi "in ciò che é e accade é veduto il
Cristo, in ogni avvenimento é riconosciuta la volontà di Dio ed in questo
spirito di volontaria sottomissione é vissuto il dolore, sostrato permanente
della nostra vita" 6 9 . E' per questo che nei personaggi che siamo venuti
esaminando, l'esistenza appare come unificata attorno ad un centro sicuro e
la loro vita (pur svolgendosi spesso nelle ristrettezze sia materiali che
morali) appare, nel complesso, serena e rassicurante.
Alla luce di queste considerazioni, la ribellione di Ivàn appare in tutta
la sua forza; egli detesta e non accetta la creazione perché non riesce ad
integrare in essa il male che vi é connaturato aspirando ad un'esistenza in
cui regni solo la felicità ed in ciò sembra mosso da nobile intenzione:
"Come pensare, senza bestemmiare, che poiché esiste quella felicità, sia
indispensabile che venga messo alla tortura un solo essere, ch'essa debba e
possa fondarsi sulle lacrime d'un bambino?" 7 0 . E' evidente, infatti, che "se

67 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov..., cit., p. 444.


68 OLIVIER CLÉMENT, Il canto delle lacrime. Saggio sul pentimento, Milano, Editrice Ancora, 1983, p. 49
69 GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 35.
70 CHARLES JOURNET, Il male. Saggio teologico, Torino, Borla, 1963, p.220.
già per i credenti la sofferenza degli innocenti può diventare una delle più
gravi tentazioni, per i non credenti essa deve necessariamente diventare
l'argomento principe contro l'esistenza di Dio". Inoltre, "poiché creatore e
creato sono strettissimamente l'uno all'altro, e siccome Ivàn non riconosce
giustificazione alcuna dell'esistente ordine del mondo, nessuna cosmodicea,
per lui non può esserci nemmeno una teodicea" 7 1 . Questa compassione é, a
ben vedere, più apparente che reale in quanto "le sofferenze altrui lo
tormentano e tuttavia questo tormento egli lo cerca e ne gode" 7 2 . E' proprio
per sanare la frattura che Ivàn sente dentro di se (l'anelito ad un mondo più
giusto e la consapevolezza di non riuscire a realizzarlo) che egli tenta di
autogiustificarsi; la "Leggenda" non rappresenterebbe quindi che "una
giustificazione che Ivàn da di se stesso; nello stesso tempo rappresenta un
tentativo nascosto di neutralizzare il cristianesimo assumendolo nella sua
'purezza' assoluta, staccato dal dato reale" 7 3 . Un cristianesimo concepito in
tal modo ha tuttavia poco da dire all'uomo nella sua esistenza concreta. Per
chi é davvero alla ricerca di Cristo "cercare il suo volto significa lasciarsi
disturbare, uscire dalle tranquille certezze degli equilibri che non
compromettono, fare una scelta di campo, dare e provare scandalo" 7 4 . Ivàn
rifiuta invece questi aspetti tragici del bene rimanendo come imprigionato
nella dialettica del male al punto che lo si é potuto giustamente definire
come "un Giobbe definitivamente ribellatosi" 7 5 .
Quanto questa lettura guardiniana sia metodologicamente corretta, é
dimostrato, tra l'altro, dal celebre episodio del colloquio tra Ivàn ed il
diavolo, in quello che "costituisce il capitolo più raffinato, arcano e
indimenticabile del grande romanzo" 7 6 . Quest'ultimo si presenta sotto le
sembianze di un gentiluomo decaduto che trae la forza delle sue convinzioni
proprio dal suo modo di porgersi e di parlare: non afferma ma insinua, é
persuasivo e cinico nello stesso tempo e "parla di Dio e dell'aldilà con il

71 J. IMBACH, cit., p. 61.


72 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 147.
73 Ivi, p. 141.
74 B. FORTE, cit., p. 161.
75 CLÉMENT, cit., p. 193.
76 G. SOMMAVILLA, Il problema religioso..., cit. p. 93.
tono di un romantico scettico ma anche in maniera la lasciar supporre in sé
un desiderio di credere" 7 7 . Nel corso del colloquio, il diavolo si sofferma a
lungo su questioni apparentemente banali, come i suoi acciacchi fisici o il
suo desiderio di vivere un'esistenza normale, ma questa banalizzazione "non
é una sua menomazione o estenuazione, bensì la sua completa inserzione
nella realtà, e quindi il suo trionfo" 7 8 .
Questo diavolo ha molto in comune con Ivàn: anche lui é scisso al suo
interno e non riesce a superare la propria intima contraddizione; percepisce
nettamente che, essendosi allontanato da Dio, é destinato a vivere per
sempre nell'irrealtà, per cui cerca la realtà concreta sognando di incarnarsi
"ma in maniera definitiva, irrevocabile, nelle sembianze di una grassa
mercantessa sul quintale e credere in tutto quello in cui crede lei" 7 9
raggiungendo così, tra l'altro, quello che é da sempre il suo più grande
scopo: il far credere che non esiste. Fin dal primo istante della sua
apparizione, Ivàn concepisce il diavolo solo come un'allucinazione della sua
mente malata e ciò é pienamente comprensibile in quanto "tutto ciò che ha
rapporto con Satana é di per sé insostenibile e la difesa qui é un atto
istintivo" 8 0 . Ma in lui c'é anche il desiderio della fede e soprattutto questo
pensiero: "Se l'ospite é soltanto una mia allucinazione, vuol dire che tutto
l'orrore di quella visione viene da me; sono io allora che relativizzo il bene
e il male, che mi chiudo nella mia disperazione con la mia volontà cattiva,
satanico io stesso" 8 1 . Il grande sforzo del diavolo, durante tutto il colloquio,
sarà allora quello di fare in modo che Ivàn non creda in lui in maniera tale
da farlo cadere completamente in proprio potere costringendolo ad
ammettere, contro la sua stessa volontà, che la sorgente del male é lui
stesso.
Il fratello Alesa ha invece perfettamente compreso che il male, escluso
nettamente dall'ambito divino, non é riconducibile totalmente alla libertà
concreta dell'uomo e che Satana é una realtà non immediatamente

77 R. GUARDINI Dostojevskij... cit., p. 164.


78 L PAREYSON, cit., p. 146.
79 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, cit. p. 875.
80 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 171.
81 l.c.
antropologica e, come tale, aggiunta alla libertà dell'uomo. Per questo,
quando Ivàn decide di accusarsi del delitto del padre (che non ha in realtà
commesso), il fratello lo invita a riconoscere la realtà del diavolo come
altro da lui: "Ma non l'hai ucciso tu, non commettere questo errore, non sei
tu l'assassino, dammi ascolto, non sei stato tu! Dio mi ha mandato a dirti
questo" 8 2 . Ivàn si rifiuta di riconoscere il male come altro da sé e di
accettare che la scelta é tra Dio e l'alternativo di Dio e non riesce a
concepire che la libertà dell'uomo si attua non nella relazione con gli altri
uomini ma in quella con Dio. Così, egli non fa altro che "demonizzarsi"
riducendo il male al livello antropologico non riuscendo a capire che l'uomo
non può mai diventare immagine del demonio ma porta semplicemente i
segni del vecchio e del nuovo Adamo. Alesa sembra dunque dire ad Ivàn che
egli non é il Grande Inquisitore, "il bestemmiatore di Dio che si é arrogato
il diritto di decidere del bene e del male ed ha permesso agli altri il delitto.
(...) E' stato Satana, Satana esiste. Ma non é te e tu non sei lui. Tu sei
soltanto un uomo che egli ha tentato" 8 3 ed egli potrà ancora sperare di
redimersi "solo se vorrà essere un uomo come tutti gli altri, rinunciando a
porsi ad di sopra del bene e del male e sottomettendosi a questa distinzione
in spirito di ubbidienza al volere divino" 8 4 , vale a dire proprio ciò che Ivàn
si rifiuta di fare con tutte le proprie forze in quanto gli manca una
dimensione fondamentale dell'esistenza: quella dell'alterità.
In base alle considerazioni fin qui svolte, sarà, crediamo, perfettamente
comprensibile perché Guardini si rifiuti di considerare la "Leggenda del
Grande Inquisitore" unicamente come una lode a Cristo od un attacco alla
Roma cattolica. Il suo significato é in realtà molto più profondo: attraverso
di essa, svelando l'esistenza di Ivàn e quella dei fratelli, Dostoevskij
avrebbe inteso fornirci un ritratto dell'intera umanità, tanto che "in ognuna
di quelle figure é l'uomo con la sua grandezza e la sua miseria, i suoi lati
luminosi e quelli oscuri, i lati oscuri soprattutto. Ciò che succede a costoro,

82 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, cit., p., 825.


83 R. GUARDINI, Dostojevskij... cit., p. 114.
84 Ivi, p. 115.
succede in verità a tutti" 8 5 . E' dunque nella trama di rapporti all'interno
della famiglia Karamazov che bisogna individuare l'autentico significato del
poema ed in questa stessa trama di rapporti la figura di Ivàn é centrale. Egli
non é stato in grado di trovare nella sua vita quel punto fermo
indispensabile perché l'esistenza acquisti un senso ed un valore; in tal modo
" é ormai incapace di attuare, come fa il popolo, l'immediatezza del
rapporto con Dio ma d'altra parte si rifiuta di crearne uno nuovo su un piano
diverso dell'esistenza con la buona volontà, il lavoro, l'abnegazione, il
sacrificio" 8 6 . In aggiunta a ciò ci si può domandare: quale inno può mai
uscire dalla bocca di chi "aspira nella sua coscienza tormentata ad
un'esistenza d'eccezione (che) consisterebbe nel porsi, come il Grande
Inquisitore, al di sopra del bene e del male e nell'arrogarsi il diritto di fare
il male e, dunque anche di permetterlo" 8 7 ? Che cristianesimo é quello che
affida all'uomo la libertà ma non gli consegna anche i mezzi per attuarla?
Per Guardini, Cristo "é la grande alzata di sipario per cui il mondo mostra il
suo vero volto. (...) E' essenzialmente Giudice e Giudizio del mondo. Ma
nello stesso tempo Egli lo ama con un amore assolutamente forte,
onnicomprensivo, creatore, un amore affatto diverso dal nostro" 8 8 . Il Cristo
algido presentato da Ivàn Karamazov nella "Leggenda" non é di questo tipo
e non é neanche quello che fece affermare a Dostoevskij che egli é
"l'irraggiungibile ideale del bello e del bene" 8 9 .

II. L'ATEISMO E LE SUE CONSEGUENZE


II.1. L'ATEISMO NEL PENSIERO DI R. GUARDINI

Al tema dell'ateismo, Romano Guardini ha dedicato alcune fra le sue


pagine più dense. Nella sua visione del problema, per tutta l'antichità ed il
medioevo il mondo era sì considerato come finito ma secondo la figura

85 Ivi. p. 175.
86 Ivi. p. 177.
87 Ivi, p. 113.
88 ID, La visione cattolica..., cit., p. 32.
89 DOSTOEVSKIJ, I demoni. Taccuini per i demoni. cit., p. 954.
perfetta della sfera. Il risultato di questo modo di vedere era che l'uomo
avvertiva nettamente che il mondo, pur essendo in se stesso finito, era una
creazione di Dio la cui influenza era avvertibile ovunque. La partecipazione
all'eterno era così possibile in quanto l'uomo si sentiva ordinato al suo
centro come un raggio rispetto alla sfera ed in tal senso egli era
autenticamente "somma, centro, culmine del creato, sacerdote della
creazione di fronte a Dio" 9 0 .
Le cose cambiano con l'inizio dell'età moderna quando, anche per
effetto della scoperta di nuove terre, si comincia a comprendere chiaramente
che la sola esperienza é impossibilitata a conoscere la totalità della realtà
mondana. Quel senso della presenza di Dio che, fino a tutto il medioevo, era
stato avvertito così nettamente, comincia a venir meno e, visto che il mondo
agli occhi umani diventa praticamente illimitato, in seguito a ciò le cose
vengono avvertite come finite in se stesse. Le conseguenze di ciò sono di
una portata incalcolabile in quanto "la consapevolezza che il mondo sia
senza limiti crea le prime condizioni psicologiche per il suo distacco da
Dio" 9 1 ed il mondo stesso comincia a sviluppare il senso della propria
autosufficienza.
Le cose non sono così semplici in quanto il sentire umano avverte
l'autosufficienza mondana come un'impossibilità e trova quindi come un
elemento compromissorio nella "'falsa infinità della continuità, indefinita,
unita alla 'falsa assolutezza' del matematicamente necessario nella scienza e
nella logica" 9 2 . Sentendosi in questo modo come abbandonato da Dio,
l'uomo si sente minacciato nel suo esistere e comincia a difendersi ma
avverte che la difesa, nella sua realtà finita, sarebbe vana e perciò
"incomincia con l'arrogarsi gli attributi di Dio, ponendo anzitutto se stesso
come 'assoluto'" 9 3 e a razionalizzare la finitezza sulla misura
dell'assolutezza. Da questo momento, tutta l'esistenza umana é vista come
valore autonomo e le conseguenze di ciò sono di così vasta portata che solo

90 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 213.


91 l.c.
92 Ivi, p. 214.
93 l.c.
nel nostro tempo si può cominciare a coglierle in tutta la loro ampiezza.
L'uomo ha cominciato a scoprire proprio nel suo essere finito delle
potenzialità di cui fino allora non conosceva nemmeno l'esistenza come la
possibilità di fondare un'etica su base esclusivamente antropologica. Il
dibattito ricorrente in questi ultimi anni sulla possibile esistenza di una
morale "laica", vale a dire che prescinda da qualsiasi riferimento al fatto
religioso, é dimostrazione chiara di quanto Guardini, in tempi non sospetti,
avesse visto giusto. Fino a questo momento, tuttavia, il finito si era
sviluppato sotto la protezione di una assolutezza, anche se quest'ultima non
era di tipo trascendentale ma esclusivamente etica e culturale. Lo sviluppo
decisivo si compie negando anche questo tipo di assolutezza: "Appena il
finito non abbia più bisogno di legittimarsi mediante quella pseudo-
assolutezza e osi sentire e affermare questa nuova verità: il finito come tale
basta; l'assoluto non esiste" 9 4 . Per specificare ulteriormente, bisognerebbe
aggiungere che non tanto l'assoluto viene visto come inesistente ma esso
non é altro che un attributo del finito e quest'ultimo finisce così per
sacralizzarsi cercando di scalzare dal suo posto l'autentico Dio della
Rivelazione. Siamo, così, agli esiti finali: "Il finito entra in rivolta, il
rapporto religioso naturale é avvelenato e si allea, per liberarsi,
all'esaltazione del finito: 'Dio' deve scomparire e il finito esser dichiarato
unica realtà, nella speranza che l'angoscia esistenziale si plachi e si
risvegli l'umanità vera, degna di questo nome" 9 5 .
I postulatori dell'ateismo hanno creduto di rendere un servizio all'uomo
liberandolo dalla presunta schiavitù del soprannaturale e cercando di
spiegare tutto in termini di razionalità. In realtà, "quando viene dimostrato
che in un certo fenomeno, dietro non c'é nulla', nessun mistero, nessun
bisogno di particolare reverenziale timore, ma invece che tutto é
logicamente comprensibile, 'naturale', appartenente all'autointelligenza
dell'esistenza, allora restano certamente eliminati parecchi aggravi della
vita; ma nel risultato finale va perduto un momento originario ed

94 Ivi, p. 215.
95 Ivi, p. 217.
esistenzialmente importante, e l'esistenza diventa banale" 9 6 . Guardini ha
anche individuato in maniera quanto mai lucida gli esiti pratici di tale
ateismo teorico: "Nella misura in cui svanisce la fede in Dio, il rapporto
con Lui, sentito in modo reale e vivo, decade la vera autorità. Subentrano
insensibilmente, dapprima forme attenuate che poi trapassano sempre più in
funzioni di carattere razionale e scompaiono concetti di reverenza, dovere,
colpa, punizione, espiazione e così via" 9 7 .
Preso atto che la nostra epoca vive oramai in maniera irreversibile in un
tale contesto culturale, quale sarà, di conseguenza, il compito della fede nei
suoi confronti? Proprio a tale riguardo, Guardini individua uno di quello
che é, a suo avviso, uno dei limiti del pensiero dostoevskiano. Abbiamo
notato sopra 9 8 come, nel pensiero dello scrittore russo, l'unica possibilità
che é data all'uomo per non allontanarsi da Dio stia nel mantenere vivo il
legame con la terra e con il popolo; spezzare questo legame significherebbe
anche spezzarlo con Dio stesso. Il limite di tale pensiero starebbe nel fatto
che "una fede che sopravviva a questa rovina, sorretta solo dalla grazia e
dalla semplice forza della persona dopo il dissolversi di ogni sostegno e
legame organico -quella fede che é il compito dell'epoca moderna e di
quella che la segue- non sembra esser stata intuita da Dostojevskij. In
questo egli resta un romantico" 9 9 . Su questo specifico problema, un altro
grande interprete dostoevskiano, Luigi Pareyson, la pensa in maniera
diametralmente opposta: a suo modo di vedere, nel pensiero dello scrittore
russo l'ateismo avrebbe invece il senso (e raggiungerebbe lo scopo) di
purificazione della fede stessa e non sarebbe che l'altra faccia dello stesso
problema. Senza l'ateismo, quindi, "l'affermazione dell'esistenza di Dio
sarebbe piatta e consolatoria; senza l'affermazione dell'esistenza di Dio
l'ateismo si risolverebbe in una mera negazione e distruzione" 1 0 0 . Differenti
interpretazioni che hanno almeno il merito di dimostrare quanto sia
profondo il pensiero dello scrittore russo.

96 ID, Ansia per l'uomo, cit., p. 166.


97 Ivi, p. 104.
98 Cfr sopra, p. 15.
99 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 179.
100 L. PAREYSON, cit., p. 154.
II.2. L' AT E I SM O N E L PE N SI E R O DI F.M. D O STO E VSK IJ

Le diverse valutazioni emerse appena sopra, sono la dimostrazione di


come il tema dell'ateismo sia presente in maniera pregnante nel pensiero e
nell'opera di Dostoevskij. Forse nessun altro scrittore o filosofo ha scrutato
con tanta intensità le tenebre in cui si perde l'uomo che, credendo con ciò di
emanciparsi, si allontana da Dio. Il caso del personaggio di Ivàn
Karamazov, che abbiamo esaminato nel capitolo precedente, é al riguardo,
esemplare: egli "non sente neanche il bisogno di insistere sull'inesistenza di
Dio, ben sapendo che essa é tutt'uno con l'assurdità del mondo"; ciò gli
permette addirittura di accettare "pieno di rispetto le idee tradizionali, ma
solo per distruggerle, anzi per mostrare come esse si distruggono da se" 1 0 1 .
Ciò costituisce per Dostoevskij un tipo di ateismo nelle sue forme allo
stesso tempo più raffinate e radicali in quanto ciò che é qui negata é la
stessa rivelazione divina. Non più, dunque, l'ateo di tipo tradizionale che si
limita a negare l'esistenza di Dio: quello che ora si osa é di porsi al
medesimo livello di Dio per sfidarlo con le sue stesse armi.
Lo scrittore russo sembra nutrire nei confronti degli atei che popolano i
suoi romanzi una sorta di compassione in quanto avverte che "l'uomo non si
sente a proprio agio nell'immersione nel male; un'angoscia mortale afferra
lo spirito del peccatore e lo trascina alla ricerca di una via di salvezza: o
alla pazzia, o al suicidio, o all'abbrutimento, o alla conversione" 1 0 2 ; allo
stesso tempo, é altrettanto constatabile come "gli assertori del ' tutto é
permesso poiché Dio non esiste, che costellano l'opera dostoevskiana sono
dei falliti" 1 0 3 che potranno riscattarsi solo aprendosi con umiltà e fiducia
alla luce di Cristo.
Se il superuomo di Nietzsche gioisce proprio per la lontananza e
l'uccisione di Dio, molti personaggi dostoevskiani da questa stessa assenza
sono invece tormentati: emblematico é il caso del protagonista di Delitto e
castigo. Raskolnikof commette i più atroci delitti ma é tormentato da Dio,

101 L. PAREYSON, cit. pp. 150-151.


102 CARLO CAPPELLO, Letteratura e filosofia in Dostojevskij, in "Humanitas", VI (1951) p. 797
103 F. CASTELLI, cit. p. 65.
che sente presente come un incubo proprio nella sua assenza. L'inizio del
male in cui precipita é la convinzione che ormai Dio é morto, e per questo
tutto é lecito e si é oramai al di là del bene e del male. Dostoevskij e
Nietzsche hanno avuto molto in comune, in particolare il giudizio da loro
pronunciato sul secolo in cui si sono trovati a vivere: "Stessa critica del
razionalismo e dell'umanesimo occidentale, stessa condanna dell'ideologia
del progresso, stessa insofferenza del regno scientista e delle prospettive
stoltamente idilliche che, in molti, lo prolungano, stesso disprezzo per una
società tutta superficiale di cui fanno cadere la vernice, stesso
presentimento della catastrofe che presto la inghiottirà" 1 0 4 ; li accomuna
inoltre il fatto che "l'idea fondamentale non é che 'Dio' non esista ma che
debba essere soppresso affinché l'uomo possa vivere" 1 0 5 . L'uomo nuovo di
Nietzsche, rappresentato da Dostoevskij in alcuni dei suoi personaggi, vuole
diventare e farsi lui stesso Dio. Lo scrittore russo vuole dimostrare,
mediante queste raffigurazioni, che Cristo, Dio fatto uomo, é stato bandito e
ucciso nel cuore dell'uomo moderno perché, orgogliosamente, ha voluto
farsi lui stesso Dio.
Il superuomo, come antitesi di Cristo, sa persino accettare la sofferenza
pur di arrivare al suo scopo. Il personaggio maggiormente rappresentativo, a
questo riguardo, più ancora di Ivàn Karamazov, che nega Dio con apparente
leggerezza, é uno dei protagonisti del romanzo I demoni: Kirillov. Per
costui, l'uomo potrà oltrepassare i propri limiti solo eliminando ogni
riferimento ed ogni subordinazione a Dio. Per conferire all'uomo tutte le
proprie potenzialità é quindi necessario "uccidere Dio" in quanto egli si
realizza veramente solo se Dio non esiste; ma l'inesistenza di Dio non può
essere oggetto di prova: si può rendere credibile ciò solamente con
un'affermazione al massimo grado arbitraria della libertà umana. "Chiunque
voglia la libertà essenziale -afferma Kirillov- deve avere il coraggio di
uccidersi. Chi ha il coraggio di uccidersi ha scoperto il segreto
dell'inganno. Oltre non c'é libertà; tutto é qui e più in là non c'é nulla. Chi
ha il coraggio di uccidersi quello é Dio. Oggi ognuno può far sì che Dio non
104 H. DE LUBAC, cit., p. 229 .
105 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 211.
ci sia più e che non ci sia più nulla. Ma nessuno l'ha ancora fatto" 1 0 6 . Nel
dialogo con un altro protagonista del romanzo, Kirillov giustifica il proprio
suicidio come l'inizio di un nuovo modo di essere uomini: attraverso la
propria uccisione, infatti, egli non ha di mira che di uccidere Dio facendo
valere al massimo grado il proprio libero arbitrio. Si può quindi affermare
che "quella del personaggio de I demoni appare l'escogitazione più raffinata
con cui una razionalità spinta all'estremo architetta un riscatto dall'enigma
dell'esistenza", ma anche qui la contraddizione appare evidente: "il progetto
di autoemancipazione dell'uomo può realizzarsi solo eliminando colui che
vorrebbe liberare. In questo modo Dostoevskij mette in luce l'inquietante
coincidenza tra nascita presunta dell'oltre uomo e morte effettiva dell'uomo
e registra un ulteriore fallimento della ragione umana nel tentativo di
riscattare le contraddizioni della storia" 1 0 7 . Kirillov é il nuovo uomo-dio,
senza morale né legge, perché Dio é legge a sé stesso; diviene così un
anticristo in senso nietzschano e Dostoevskij vuol raffigurare in lui il
demoniaco di cui é vittima l'uomo-dio senza Dio. Succede infatti, in questo
personaggio, che " poiché l'abbandono confidente é ardentemente desiderato
ma non concesso, il suo oggetto, con tutta la sua immensa forza
d'attrazione, si trasforma in un principio ostile che minaccia di inghiottire
l'uomo" 1 0 8 . Kirillov mostra anche simpatia per la figura di Cristo ma un
"Cristo che insegna 'che tutti sono buoni' é irreale come quello di Ivàn.
Quello vero non ha mai insegnato questo ma ha detto: 'voi che siete
malvagi'" 1 0 9
Per Dostoevskij il dio-uomo dei tempi moderni prende forma nella
figura dei nichilisti e, più in generale, di tutti quei rivoluzionari i quali, nel
nome della loro giustizia, sono pronti ad uccidere chiunque e a sacrificare
tutto ciò che era stato finora ritenuto "morale". Se l'uomo diventa dio a se
stesso, la conseguenza é che la sua giustizia deve essere imposta in modo
assoluto, come una legge divina che non tollera ostacoli per la sua

106 F. DOSTOEVSKIJ, I demoni, vol. primo, undicesima edizione, Milano, Garzanti, 1993, pp. 120-121.
107 MARIANO VEZZALI, Le due vie della ragione in Dostoevskij, in "Vita e Pensiero", LXXII (1989), p. 119.
108 R. GUARDINI, Dostojevskij..., cit., p. 196.
109 Ivi, p. 194.
attuazione. La rivoluzione descritta ne I demoni mostra come il tentativo di
attuare una giustizia senza Dio si tramuta precisamente nel proprio
contrario. Paradossalmente, infatti, per Dostoevskij i "demoni" non sono
tanto coloro che vogliono il male, ma coloro che vogliono il bene, ossia
coloro che prima stabiliscono cosa é bene e cosa é male e quindi perseguono
l'attuazione del bene inesorabilmente ed in modo spietato; anche la figura
del Grande Inquisitore é una chiara dimostrazione di come ciò sia possibile.
Al fondo di tutte le rappresentazioni di Dostoevskij vi é la scelta che l'uomo
fa per la luce o per le tenebre, per Cristo o per tutto ciò che, direttamente o
indirettamente, lo combatte. Fuori di Cristo, nella sua visione, non c'é
salvezza e tutta la sua profetica condanna della vita anti-evangelica e della
cultura anticristiana dell'occidente si spiega a partire da qui, dalla
consapevolezza che "gli uomini trovano la pace non col progresso della
scienza e della necessità ma col riconoscimento morale di una superiore
bellezza, capace di servire da ideale a tutti, dinanzi alla quale tutti si
inchinino e trovino pace" 11 0 . Il grande Inquisitore ha quindi avuto ragione
quando ha affermato che uno dei più grandi desideri dell'uomo é quello di
trovare una realtà davanti alla quale inchinarsi; si é invece sbagliato
nell'individuare questa stessa realtà: essa può essere solo il Dio
trascendente del cristianesimo e non già una qualunque altra realtà creata
dall'uomo dal momento che quando egli "tradisce la sua naturale
inclinazione, ovvero smarrisce il sentimento immediato del bene (...) perde
ogni capacità di costruire un mondo a sua misura" 111 . E' per questo che
Dostoevskij (dopo le giovanili infatuazioni) combatterà sempre in maniera
netta il socialismo; per lui, infatti, esso " non é soltanto dottrina sociale, é
specialmente dottrina religiosa: della religione dell'uomo-dio, della scienza,
del nichilismo, della torre di Babele, dell'innocenza naturale" 11 2 e per ciò
stesso pericoloso come tutto ciò che, promettendo il paradiso in terra, non
riesce a fare di meglio che a trasformare la stessa in un inferno.

110 L. DAL SANTO, cit., p. 283.


111 A. SICLARI, cit., p. 50.
112 F. CASTELLI, cit., p. 69
Esemplificando al massimo, si può affermare che esistono due tipi di
atei nella visione di Dostoevskij. Quelli del primo tipo sono coloro che, pur
nell'abiezione della loro vita, sono ancora capaci di amare: per costoro la
salvezza non é preclusa in quanto il vero demoniaco é "la sofferenza di non
essere più capaci di amare" 11 3 . Gli atei del secondo tipo sono invece coloro
che si pongono fariseicamente in antitesi a Cristo perché non ne tollerano il
messaggio di liberazione e di amore e non vogliono che gli uomini
conoscano la sua redenzione: vale a dire quelli che si propongono di
liberare l'uomo senza Cristo e lo rendono schiavo, dal socialista ateo, al
rivoluzionario terrorista al superuomo nietzschano. In questi atei c'é
"l'orgoglio demoniaco che non sopporta che vi sia un Dio, l'aspirazione alla
gratuità delle azioni, perfino l'idea che l'uomo potrebbe ancora di più il
giorno in cui l'orizzonte fosse liberato dallo spettro divino" 11 4 . Verso
costoro Dostoevskij mostra una durezza fuori del comune anche se, anche in
questo caso, non si tratta di una condanna senza appello.
Dostoevskij si é interrogato a lungo sulle possibili cause della
miscredenza. Affrontò per l'ultima volta questo tema nel 1880 (l'anno prima
della morte) rispondendo ad una studentessa che gli aveva scritto
confidandogli la propria sofferenza per aver perduto la fede: "Voi scrivete
che hanno distrutto in voi la fede in Cristo. Ma come mai non vi siete prima
di tutto posta la domanda: chi sono costoro che negano Cristo come
Salvatore? Io non domando se sono buoni o cattivi ma se conoscono Cristo
nella loro sostanza. Credetemi, non lo conoscono. (...) In secondo luogo,
tutti costoro sono di peso così leggero che non hanno neppure una
preparazione scientifica per conoscere ciò che negano. Essi negano con la
mente. Ma é pura la loro mente e sereno il loro cuore?" 11 5 . Ciò che va
anzitutto notato é che per Dostoevskij "non si é credenti perché si é buoni o
atei perché si é cattivi. Fede e miscredenza hanno altre radici, anche se
bontà e cattiveria sono elementi che dispongono l'anima ad accogliere o

113 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov..., cit., p. 447.


114 H. DE LUBAC, cit., p. 239.
115 F. DOSTOEVSKIJ, Epistolario, cit., p. 543.
respingere la fede" 11 6 . Ciò che emerge da questa lettera é che l'ateismo ha
principalmente tre cause. La prima é l'ignoranza relativamente alla
"sostanza" di Cristo. Non lo si conoscerebbe cioè in profondità in quanto, se
ciò avvenisse, non si potrebbe fare a meno di amarlo. La seconda é la
superficialità, tema quanto mai attuale specialmente in un'epoca come la
nostra in cui si ama discutere di argomenti riguardanti la religione con
un'approssimazione che sarebbe difficilmente tollerata per qualsiasi altro
argomento, anche se più futile. La terza ed ultima causa della miscredenza é
l'impurità della mente e del cuore, vale a dire, principalmente, il peccato. Si
può quindi tranquillamente affermare che "l'esperienza della vuotezza e
della inanità dell'uomo senza il divino, esperienza che attraversa le opere e
i personaggi di Dostoevskij, assume quindi il valore di un particolare
preambulum fidei : Dostoevskij vuole offrire una 'dimostrazione per assurdo'
della necessità della fede a partire dall'inconsistenza, razionalmente
evidenziata, della vita senza di essa" 11 7 .
Pur con tutto l'orrore che Dostoevskij provava per l'ateismo, egli
riteneva che tale dottrina fosse preferibile a quello che oggi si usa definire
agnosticismo o, peggio ancora, indifferenza: "L'ateismo assoluto -afferma
un suo personaggio- é più rispettabile dell'indifferenza mondana", per poi
proseguire: "Il perfetto ateo sta sul penultimo gradino in alto prima della
fede più perfetta (che la varchi o no) mentre l'indifferente non ha nessuna
fede all'infuori di una paura nera" 11 8 . C'é, in queste affermazioni, anche la
consapevolezza che il credente ed il non credente si mescolano all'interno
della stessa persona e che nessuno può mai considerarsi un arrivato in
materia di fede.
Dostoevskij e Guardini hanno svolto un'analisi del fenomeno
dell'ateismo per molti versi convergente. Comune ad entrambi é l'idea che
"l'epoca moderna o, più esattamente, i tempi che seguiranno l''epoca
moderna', sembrano chiamati a decidere se introdurre il finito, ormai maturo
e responsabile, nel rapporto divino oppure emanciparlo da questo rapporto,

116 Perché non si crede? La risposta di Dostoevskij (Editoriale), in "La Civiltà Cattolica", CXL (1993), p. 212.
117 M. VEZZALI, cit., p. 123.
118 F. DOSTOEVSKIJ, I demoni,cit., p. 732.
dichiarandone l'autarchia, l'autonomia" 11 9 . Molti personaggi dostoevskiani
hanno optato per la seconda ipotesi e la loro esistenza é perciò diventata un
assurdo angosciante da cui hanno cercato di liberarsi togliendosi la vita.
Coloro che hanno cercato di sottrarsi a questo assurdo, hanno trovato la
forza per farlo solo a partire dalla luce di Cristo dal momento che "l'unica
via possibile per il superamento della menzogna in se stessi e nel mondo é
l'umiltà di fronte alla Verità" 1 2 0 .
Considerata la vastità delle problematiche sollevate dall'ateismo, sarà
ora comprensibile perché il Cristo tratteggiato da Ivàn Karamazov nella
"Leggenda" sia, di fatto, impossibilitato ad essere di alcun aiuto all'uomo.
Egli non é il Figlio di Dio (la compassione che nutre per gli uomini sembra
piuttosto condiscendenza) ma, parto della mente malata di un ateo, può
essere considerato al massimo un'aspirazione verso di Lui.

CONCLUSIONE

Ciò che é sin qui emerso avrà speriamo permesso di appurare chi era
veramente Cristo per Dostoevskij e qual é il senso autentico de "La
Leggenda del Grande Inquisitore". Soprattutto nella sua maturità, lo
scrittore russo era giunto alla piena consapevolezza che il Dio cristiano non
é il Dio della spada o del miracolo fine a se stesso, ma della comprensione
e della misericordia e che non é venuto ad eliminare il male ma ad
assumerlo su di sé. Il Dio in cui credeva era quello della Rivelazione
cristiana e non già il Grande Architetto di massonica memoria e per questo
"si ribella sia ad ogni forma di monofisismo che al monismo dell'idealismo
tedesco e, alla luce del dogma, scrive una grandiosa apologia dell'uomo e
del cosmo" 1 2 1 . Questa apologia ha avuto dei meriti grandissimi: soprattutto
l'aver dimostrato "che il problema dell'esistenza di Dio é una questione
fondamentale per ogni uomo, se ne renda conto o no" ed inoltre "l'aver

119 R. GUARDINI, Dostoevskij..., cit., p. 256.


120 E. VAGHIN, cit., p. 20.
121 PAUL EVDOKIMOV, L'Ortodossia, terza edizione, Bologna, EDB, 1981, p. 51.
introdotto nella coscienza sociale del suo tempo la problematica filosofico-
religiosa mostrandone l'importanza vitale" 1 2 2 .
O Dio esiste o non esiste, in questo dilemma si gioca tutta la vita
dell'uomo: se egli opta per la fede in Dio, la sua esistenza (la vita dello
stesso scrittore ne é testimonianza) sarà sempre illuminata da una luce
superiore, anche nei momenti in cui l'oscurità sembra vincere. Se,
viceversa, l'uomo si chiude alla luce della Rivelazione la sua vita é
condannata all'autodistruzione. Non si tratta, come potrebbe
superficialmente apparire, di manicheismo: Dostoevskij ha invece
fortemente creduto che solo la fede nel Cristo può far si che nella battaglia
tra la Luce e le Tenebre le prime abbiano la meglio. Né si può definirlo,
sbrigativamente, come "un romanziere problematico senza efficace
risoluzione, sempre in dolorosa contraddizione" 1 2 3 : il grande scrittore russo
ha piuttosto svelato le contraddizioni insite in coloro che vogliono costruire
un mondo che prescinda dalla fede in Dio ed il confronto con le sue opere é
così essenziale che non pare esagerato affermare che "nessuno oggi può
essere cristiano in modo attuale se non tiene conto di Dostoevskij" 1 2 4 .
Romano Guardini, pienamente consapevole dell'importanza della fede e
della figura di Cristo nell'opera dostoevskiana, con la sua opera di
interpretazione ha conseguentemente cercato di preservare la purezza di
questa stessa fede da quelle che egli giudicava delle contaminazioni.
Avendo dimostrato che la "Leggenda" non presenta una reale figura di
Cristo ma solo una sua caricatura, lo studioso tedesco ha così reso un
immenso servizio a Dostoevskij: gli ha permesso di esprimere la propria
fede nel Figlio di Dio in maniera autentica.
Infine, sarebbe contro la verità negare che lo scrittore non ci offre
risposte preconfezionate ma, all'opposto, stimola nei suoi lettori un ardente
desiderio di ricerca. Ma ciò, lungi dall'essere una carenza, é piuttosto uno

122 PIMEN - ALCESTE SANTINI, Il Patriarca risponde. Mille anni di fede in Russia, Cinisello Balsamo (MI), Edizioni
Paoline, pp. 38-39.
123 A. CALVET - G. AULETTA - B. MATTEUCCI, Il Cristo nella letteratura, in G. BARDY - A. TRICOT (a cura di),
Enciclopedia cristologica, seconda edizione, Alba-Roma, Edizioni Paoline, 1960, p. 1114.
124 L. PAREYSON, cit., p. 169.
dei suoi punti di forza. Del resto, "chi vuole soprattutto essere rassicurato,
non prenderà Dostoevskij per confidente" 1 2 5 .

125 H. DE LUBAC, cit, p. 242.


BIBLIOGRAFIA:

-CASTELLI, Ferdinando, Volti di Gesù nella letteratura moderna, vol. I, Introduzione di

I.A. Chiusano, seconda edizione, Cinisello Balsamo, (Mi), Edizioni Paoline, 1990, pagine

584.

-DOSTOEVSKIJ, Fedor M., Epistolario, a cura di E. Lo Gatto, Napoli, Edizioni

Scientifiche Italiane, 1951, pagine 861.

-DOSTOEVSKIJ, Fedor M., Dostoevskij inedito, Quaderni e taccuini. 1860 - 1881, a cura

di L. Dal Santo, Firenze, Sansoni, 1981, pagine 1530.

-DOSTOEVSKIJ, Fedor M., I fratelli Karamazov, due volumi, Introduzione di F.

Malcovati, Traduzione di M. R. Fasanelli, seconda edizione, Milano, Garzanti, 1992,

pagine. 1070.

-DOSTOEVSKAJA, Anna G., Dostoevskij mio marito, Milano, Bompiani, 1977, pagine

300.

-GUARDINI, Romano, Dostojevskij. Il mondo religioso, quarta edizione, Brescia,

Morcelliana, 1995, pagine. 336.

-GUARDINI, Romano, La visione cattolica del mondo, a cura di S. Zucal, Brescia,

Morcelliana, 1994, pagine 104.

-VAGHIN, Eugenio (et al.), Fedor Dostoevskij: il mistero dell'uomo, Assisi, Cittadella

Editrice, 1985, pagine 120.


INDICE

Introduzione.............................................................................
Cap. I. Il Cristo della "Leggenda"......................................
I.1. Le interpretazioni della "Leggenda"...........................
I.2. L'interpretazione di Romano Guardini.......................
Cap. II. L'ateismo e le sue conseguenze................................
II.1. L'ateismo nel pensiero di R. Guardini........................
II.2. L'ateismo nel pensiero di F.M. Dostoevskij................

Conclusione...............................................................................

Bibliografia...............................................................................

Leggendo questo libro, non si ha solo l'impressione, ma la certezza, che la fase dell'allarmismo sia altamente
superata: ormai la situazione è grave.

Nel "conto ecologico" che ci sottopone l'autore, il "rigo" più preoccupante è quello del settore alimentare: la
domanda mondiale di risorse si è moltiplicata per effetto della crescita della popolazione e dell'aumento del reddito.
Qualche numero? Nel 1950 eravamo 2, 5 miliardi di persone, nel 2000 la popolazione mondiale aveva raggiunto 6,1
miliardi di unità: in 50 anni l'incremento demografico ha di gran lunga superato quello dei 4 milioni di anni legati
alla nostra specie. Ma ancora più inquietante sono gli aspetti legati al reddito pro-capite che, su scala mondiale, si è
triplicato. Questo fattore, legato al precedente, ha comportato un aumento impressionante dei consumi di cereali,
con una produzione che per stare al passo sta "consumando" la Terra.

Paesi come la Cina non hanno più risorse interne sufficienti per soddisfare il proprio fabbisogno e stanno per
rivolgersi alle riserve di cereali di Paesi terzi e l'effetto immediato sarà un rilevante aumento dei prezzi. Questo è
solo uno dei tanti esempi che vengono trattati in questo libro. Allora quale soluzione?L'autore ironicamente inserisce
l'espressione "Piano B" all'interno di una parte del titolo del libro per sottolineare il fatto che il "Piano A" è risultato
fallimentare (Lester intitola un suo capitolo "Piano A: far finta di niente"). Soccombere ai problemi non può essere
considerata una soluzione neanche in un'ottica estremamente egoistica del problema: lo stato attuale delle cose
non può essere considerato in un'ottica di quanto lasciare alle generazioni future, perché il problema è già presente.
Dopo una prima parte, in cui l'autore sottolinea la situazione in cui ci troviamo, capace di togliere il sonno anche ai
più distratti, il libro continua illustrando un Piano B che può essere la soluzione ai problemi.Il Piano B "èuna
massiccia mobilitazione tesa a sgonfiare la bolla economica internazionale prima che esploda", dove serve un livello
di cooperazione internazionale senza precedenti. Le scelte non devono essere dei miracoli o ricette visionarie, ma
una rilettura pragmatica dell´economia e dei dati della scienza. Già perché occorre inserire la variabile ambientale
fra le priorità delle scelte economiche politiche e aziendali: Lester ricorda che non è l'ambiente a essere una parte
dell'economia, ma viceversa. Accettando questo concetto, allora si diventa consapevoli che l'economia deve essere
programmata in modo compatibile con l'ecosistema in cui è inserita.

Altri sistemi suggeriti dal libro sono quelli di ridurre il numero e la grandezza delle
infrastrutture come le autostrade, per consentire più spazio al terreno coltivabile,
nonché a ubna riduzione dell'utilizzo di automobili. Per l'energia, è suggerito
caldamente un passaggio dall'energia a petrolio a quella eolica e solare. Questi
accorgimenti, insieme ai molti altri suggeriti dal libro che davvero consiglio caldamente,
potrebbero condurre, qualora applicati, a una riduzione dello sfruttamento del pianeta
e a una migliore razionalizzazione delle risorse e potrebbero consentirci di gestire
l'aumento della popolazione. La riduzione degli abitanti aiuta di sicuro. Ma con l'attuale
sistema economico, almeno secondo Lester Brown, faremo comunque una brutta fine,
anche rimanendo lo stesso numero di adesso. E dal suo libro non sembra che la colpa
specifica sia da addebitare alla sola Cina.
In ogni caso, quando il petrolio andrà alle stelle sul serio (e probabilmente ciò avverrà,
secondo lo studioso, entro il 2030) nessuno potrà più
permettersi un'automobile come noi la intendiamo oggi. Questo potrebbe comunque
influire in un modo drastico sul nostro modo di vivere e di pensare. Forse ci sono i
margini per evitare un'apocalisse, ma senza dubbio i nostri figli e nipoti vivranno in un
mondo i cui equilibri saranno molto diversi da adesso.

At 2/05/2008 6:57 PM, Cesare Santucci said...

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