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2016
Indice
Premessa 3
All’Italia 5
Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica 11
Bruto minore 21
Alla primavera, o delle favole antiche 30
Ultimo canto di Saffo 36
Il primo amore 42
Il passero solitario 47
L’infinito 53
La sera del dì di festa 63
Alla luna 67
Il sogno 70
La vita solitaria 77
Alla sua donna 83
Il risorgimento 87
A Silvia 95
Le ricordanze 103
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia 115
La quiete dopo la tempesta 126
Il sabato del villaggio 131
Il pensiero dominante 138
Amore e morte 147
A se stesso 153
Aspasia 155
Palinodia al marchese Gino Capponi 164
Il tramonto della luna 176
La ginestra o il fiore del deserto 180
Bibliografia 197
Premessa
Queste riflessioni sui Canti di Giacomo Leopardi non hanno
pretese di scientificità, né intendono porsi quale meditato e maturo
contributo critico. Esse nascono da una mia personale lettura dei
Canti (o meglio, di alcuni di essi), e si pongono perciò come
contributo individuale, ma sentito, alla conoscenza di questo
autore. È un tentativo di dar voce a Leopardi stesso, sia leggendo
le sue poesie, sia le sue opere, tra le quali spicca lo Zibaldone, che
è il contraltare degli altri scritti da lui composti. Per questo, alla
riflessione sui Canti accompagnerò spesso ampi stralci dello
Zibaldone e, in misura minore, delle Operette morali; non si
tratterà di citazioni estrinseche, bensì della volontà di dar conto del
continuo gioco di rimandi tra i testi in versi e quelli in prosa.
Sovente, infatti, le pagine del “diario” di Giacomo contengono, in
forma più ampia ed esaustiva, temi e pensieri che sono alla base
delle sue composizioni poetiche.
Naturalmente ho cercato di tenere presenti alcuni contributi
critici di rilievo, per evitare il rischio di “lanciarmi” in
interpretazioni azzardate e senza senso. Credo infatti sia
impossibile trascurare del tutto tali studi, peraltro sterminati,
sulla poesia e sul pensiero di Leopardi. Tuttavia, come ho
accennato all’inizio, non sarebbe stata possibile, né era mia
intenzione condurla a termine, una ricognizione di tale immensa
mole di analisi letterarie.
Spero che chi leggerà potrà gradire la genuinità delle parole,
l’abbondanza di citazioni in versi e il continuo gioco di rimandi
con lo Zibaldone. Qualunque inesattezza e imprecisione non sarà
dovuta alla volontà di affermare qualcosa di inedito sulla poesia
di Leopardi, bensì solo a disattenzione e umana distrazione.
Non ho commentato tutti i Canti, ma ho cercato di scegliere
quelli che, per tradizione e conoscenza consolidata, risultano i più
rappresentativi della sua produzione poetica. Si tratta perciò di
una scelta personale, tesa a mostrare quale sia stata l’evoluzione
della poesia di Leopardi, sia in relazione alla sua autobiografia,
3
sia alla progressione del suo pensiero. Al di là di un giudizio di
valore che rischierebbe di apparire arbitrario e, in generale, anti-
letterario, i brani selezionati svelano il faticoso percorso di
conoscenza di sé e del destino umano compiuto da Giacomo,
all’interno di una biografia di per sé assai problematica, sia per
ragioni esistenziali, sia per motivi prettamente fisici. La scelta,
come si vedrà, è stata comunque ampia, proprio per non mutilare
l’amplissima produzione poetica di Leopardi, stabilendo divisioni
senza fondamento critico e letterario. D’altra parte, Giacomo fu
poeta eccelso e filosofo disperato. E l’amore per la poesia non
l’abbandonò mai, come si legge nello Zibaldone a p. 4302 (15
aprile 1828): “Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero
da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore
della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche
reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per
conservarla e darle durata, quasi in deposito”.
In ultimo un’avvertenza. I brani tratti dalla poesie di Giacomo
Leopardi o dai suoi scritti in prosa, sono ovviamente citati sic et
simpliciter, ossia senza alcun intervento di “correzione”
ortografico. Giacomo utilizzava sempre l’accento grave, dunque
scriveva “perchè” e non “perché”, “nè” e non “né” e così via.
Inoltre, non accentava il “se” quando veniva impiegato come
pronome. La medesima cosa accadeva nelle edizioni a stampa
delle sue opere. Ecco, in tutti questi casi non sono intervenuto,
salvaguardando la genuinità e spontaneità del dettato
leopardiano.
4
All’Italia
1
Cfr. G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati-
Boringhieri, Torino 1998, 2 voll. Tutte le lettere verranno citate da questa
edizione.
5
imitatrice della natura, al sentimentale, come se la natura non
si potesse imitare altrimenti che in maniera patetica; come se
tutte le cose rispetto agli animi nostri fossero sempre
patetiche; come se il poeta non fosse più spinto a poetare da
nessuna cosa, eccetto la sensibilità, o per lo meno senza
questa”2.
La canzone possiede due caratteri: il primo, rievocativo dei
grandi quadri della storia italiana; il secondo più personale,
concretizzantesi in un affetto “che accompagna e commenta
quelle rievocazioni, esaltando la presenza di un soggetto lirico
in prima persona coi suoi movimenti concitati o accorati, il
quale finisce col porsi come il vero protagonista poetico delle
due canzoni”3.
Il primo verso contiene un’allocuzione, mentre la prima
strofa descrive il rimpianto per la perduta gloria d’Italia,
nazione “le genti a vincer nata/ e nella fausta sorte e nella ria”
(vv. 19-20): Scrive Leopardi nell’Argomento di una canzone
sullo stato presente dell’Italia: “Nata l’Italia a vincer tutte le
genti così nella felicità come nella miseria”. Il poeta si
6
domanda chi abbia vilipeso e sconfitto l’Italia, facendo
scomparire la gloria di cui godevano gli antichi italiani4:
4 Cfr. i versi 7-10 della canzone Sopra il monumento di Dante: “O Italia, a cor ti
stia/ Far ai passati onor; che d’altrettali/ Oggi vedove son le tue contrade,/ Nè v’è
chi d’onorar ti si convegna”.
5 W. Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, Il Ponte, Firenze 2004, p. 78.
7
dammi, o ciel, che sia foco
agl’italici petti il sangue mio (vv. 36-40).
8
Come sì lieta, o figli,
l’ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta (vv. 91-97)
Ecco io mi prostro,
o benedetti, al suolo,
e bacio questi sassi e queste zolle,
che fien lodate e chiare eternamente
dall’uno all’altro polo.
Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
fosse del sangue mio quest’alma terra.
che se il fato è diverso, e non consente
ch’io per la Grecia i moribondi lumi
9
chiuda prostrato in guerra,
così la vereconda
fama del vostro vate appo i futuri
possa, volendo i numi,
tanto durar quanto la vostra duri (vv. 121-130).
10
Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di
Cicerone della Repubblica
7 Nella lettera del 23 febbraio 1820, Pietro Giordani scrive a Giacomo: “Avrai
inteso de’ frammenti della repubblica di Cicerone, trovati dal nostro Mai in un
palimpsesto bobbiese della Vaticana; ma la stampa appena uscirà entro
quest’anno”. Leopardi sapeva già della scoperta.
8 A partire dal 1820, Pietro Brighenti (1775-1858) divenne spia della polizia
11
Con questa canzone, Leopardi celebra l’antico passato
dell’Italia senza esplicite professioni di patriottismo: rispetto
alla poesia All’Italia, non c’è un attivismo combattivo, bensì
“l’atteggiamento di un uomo di cultura e di un poeta che
propone una ripresa di attività, attraverso un risveglio più
generale di attenzione alla voce di una antica gloriosa civiltà e
a tutta una concezione della vita illuminata dal contatto con
la natura e con le generose e poetiche illusioni”9. Come scrive
ancora Binni: “La canzone può dividersi in due parti
fondamentali: la prima, formata dalle prime quattro strofe,
più direttamente legata all’occasione del componimento e al
suo alto significato, e sostanzialmente più faticosa, e la
seconda sino alla fine, più densa di poesia e di movimento
interno”10.
Le prime strofe esaltano la scoperta del Mai, “Italo
ardito”, il quale, grazie alla filologia, restituisce agli italiani
d’oggi le immortali opere dei loro avi latini; ciò significa che il
cielo vuole ancora bene all’Italia, consentendo che, tramite un
suo cittadino, i suoi abitanti possano leggere le opere degli
autori classici e seguire gli esempi delle loro gesta:
… Ancora è pio
dunque all’Italia il cielo; anco si cura
di noi qualche immortale:
12
ch’essendo questa o nessun’altra poi
l’ora da ripor mano alla virtude
rugginosa dell’itala natura,
veggiam che tanto e tale
è il clamor de’ sepolti, e che gli eroi
dimenticati il suol quasi dischiude,
a ricercar s’a questa età sì tarda
anco ti giovi, o patria, esser codarda (vv. 20-30)
Io son distrutto
nè schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
m’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno
è tal che sogno e fola
fa parer la speranza (vv. 34-38).
13
Il seguito della strofa riprende argomenti più generali,
ribadendo che non c’è speranza che gli italiani d’oggi imparino
dagli antichi; anzi, ogni valore saldo, onorato dagli antichi,
ogni parola solenne, è nel tempo presente sprezzato, dileggiato.
Si legge nello Zibaldone, p. 877: “Osservate i nostri tempi. Non
solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria. Anzi neppur
famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla
solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua
società” (30 marzo – 4 aprile 1821). Leopardi per questo si
rivolge agli antichi, raccontando loro che la loro progenie è una
“immonda plebe”, che spregia le virtù d’un tempo:
Anime prodi,
ai tetti vostri inonorata, immonda
plebe successe; al vostro sangue è scherno
e d’opra e di parola
ogni valor; di vostre eterne lodi
nè rossor più nè invidia; ozio circonda
i monumenti vostri; e di viltade
siam fatti esempio alla futura etade (vv. 38-45).
14
72). Si legge in proposito nello Zibaldone, p. 72: “Anche il
dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle
cose è più tollerabile assai della stessa noia”.
Successivamente vengono ricordati altri italiani che
condussero a termine imprese notevoli, in campo artistico e
civile. Cristoforo Colombo (personaggio che tornerà nelle
Operette morali), per esempio, scoprì un nuovo mondo, con
coraggio, ampliando le conoscenze umane. Tuttavia,
argomenta Leopardi, la conoscenza razionale, in un certo
senso, “restringe” il mondo, perché toglie materia alla fantasia
e all’immaginazione, facoltà assai vive invece nei popoli
antichi:
15
ricorrendo alla fantasia e all’immaginazione (cfr. il Saggio sugli
errori popolari degli antichi); al contrario, nell’epoca a lui
contemporanea, il mondo è tutto figurato in “breve carta” e
ogni spiegazione viene affidata alla scienza e alla razionalità.
Questo non significa che quel che gli antichi credessero fosse
vero, naturalmente; ciò che il poeta rimpiange, in realtà, è la
loro capacità di illudersi, di inventare storie, capacità che li
avvicina ai fanciulli:
Nostri sogni leggiadri ove son giti
dell’ignoto ricetto
d’ignoti abitatori, o del diurno
degli astri albergo, e del rimoto letto
della giovane Aurora, e del notturno
occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco tutto è simile, e discoprendo,
solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
il vero appena è giunto,
o caro immaginar; da te s’apparta
nostra mente in eterno; allo stupendo
poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
e il conforto perì de’ nostri affanni. (vv. 91-105).
16
parte per Giacomo la poesia deve muovere l’animo, non
lasciarlo inerte né a riposo: “per il Leopardi la poesia [era] una
potente integrazione dell’attività, dell’eroismo, un incentivo
delle generose illusioni, entro una visione ardentemente
vagheggiata della vita in cui attività e fantasia si integrano
(Colombo e Ariosto) e ben lontana da una pura
contemplazione ‘idillica’ da ‘ultimo pastorello di Arcadia”11.
Nella strofa seguente questo omaggio all’alta poesia si
sublima nella rievocazione di Torquato Tasso, che Leopardi
avvertiva assai vicino a sé per come si svolse la sua vita12.
Perché il Tasso, “misero”, fu un grande poeta che soffrì per
“l’immondo/ livor privato e de’ tiranni” (vv. 127-128), fu
ingannato da Amore, credette nel “nulla”, nel quale vide
sciogliersi il mondo e, durante la sua esistenza, non ricevette la
gloria che avrebbe meritato. Il parallelo che Leopardi sentiva
con la vita del Tasso può apparire azzardato in un giovane
ventunenne, ma Giacomo già prefigurava davanti a sé una
condizione esistenziale ardua, caratterizzata da uno “smodato”
desiderio di gloria, giudicato però impossibile da soddisfare13,
da un desiderio d’amore destinato a non essere mai esaudito, e
dalla consapevolezza della nullità di tutte le cose:
17
non valse a consolarti o a sciorre il gelo
onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,
cinta l’odio e l’immondo
livor privato e de’ tiranni. Amore,
amor, di nostra vita ultimo inganno,
t’abbandonava. Ombra reale e salda
ti parve il nulla, e il mondo
inabitata piaggia. Al tardo onore
non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
l’ora estrema ti fu. Morte domanda
chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda (vv. 121-135).
18
e morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
età nè suolo. Altri anni ed altro seggio
conviene agli alti ingegni. Or di riposo
paghi viviamo, e scorti
da mediocrità: sceso il sapiente
e salita è la turba a un sol confine,
che il mondo agguaglia (vv. 163-174).
19
sostanza poi, e nell’importante, o in quel punto in cui giova
l’unità della nazione, erano in fatti tutta una persona, per
l’amor patrio, le virtù, le illusioni ec. che riunivano tutti
gl’individui a far causa comune, e ad essere i membri di un sol
corpo (Zibaldone, pp. 148-149, 3 luglio 1820).
O scopritor famoso,
segui; risveglia i morti,
poi che dormono i vivi; arma le spente
lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
questo secol di fango o vita agogni
e sorga ad atti illustri, o si vergogni (vv. 175-180).
20
Bruto minore
21
o su le nubi) a voi ludibrio e scherno
e la prole infelice
a cui templi chiedeste, e frodolenta
legge al mortale insulta.
dunque tanto i celesti odii commove
la terrena pietà? dunque degli empi
siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
per l’aere il nembo, e quando
il tuon rapido spingi,
ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi (vv. 16-30)
22
È vero che Bruto fu l’assassino di Cesare, ma fu anche
colui che denunciò il declino di un intero mondo di valori e che
tentò, attraverso il suicidio, di lanciare una protesta contro
tale decadenza. In una lettera a Pietro Giordani del 26 aprile
1819 questa idea appare ben definita, allorché Giacomo scrive:
“Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi
strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto
moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la
sua virtù, quand’io veggo per esperienza e mi persuado che sia
la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor
suo”. La protesta di Bruto è una rivolta contro l’insensatezza
del vivere, contro le vacue consolazioni di una religione che
non consola: “Leopardi … si muove in una sfera notevolmente
più alta, quella cioè che fa della maledizione di Bruto, della
sconfitta patita e della sua decisione di levarsi la vita, l’unica
forma che all’uomo rimane di ribellarsi all’insensatezza del
vivere, di protestare contro il destino … e di liberarsi da una
‘condizione’ che, ormai svelata, riesce insopportabile a
un’anima davvero grande”17.
La condizione dell’uomo è tale perché egli è stato tradito
da se stesso, dalle leggi che hanno soffocato la sua natura
primigenia, autentica. La sua libertà è stata cancellata dalla
civilizzazione. Ma non solo: anche la divinità trascendente è
lontana dall’uomo: non è infatti possibile cercare consolazione
in una divinità lontana e inconoscibile.
della vanità di quelle stesse virtù, insomma tener viva l’ammirazione per
l’antica sapienza e insieme sentire la vanità di ogni sapienza”.
23
o nel dissimularla. Ma non era così presso gli antichi, abituati,
secondo gli insegnamenti della natura, a credere che le cose
fossero delle realtà e non delle ombre, e che la vita umana era
destinata a qualcosa di meglio che la sofferenza18.
24
dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma
gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi,
nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità
di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli
stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi
e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e
bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del
cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma
non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più
desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era
maggiore (15 gennaio 1821).
25
gl’impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati
dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene
spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e
calcolato rimedio delle nostre infelicità”). In tale condizione
risiedono, al contempo, la grandezza e la piccolezza dell’uomo.
Il tema del suicidio viene qui trattato poeticamente: in
Leopardi esso è un argomento frequente, spesso messo in
relazione con la speranza: “La speranza, cioè una scintilla, una
goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli
la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza,
e la più decisiva” (Zibaldone, 18 ottobre 1820, p. 285). Inoltre,
nella nota del 23 giugno 1822 (p. 2492) Leopardi aggiunge:
26
L’atto del suicidio è contro natura, se per “natura”
s’intende un’entità benevola. Tuttavia, già all’epoca della
composizione del Bruto minore, in Leopardi l’opinione sulla
natura stava cambiando per volgersi verso l’immagine di una
natura indifferente, se non ostile, verso l’umanità. Per Bruto è
sin troppo facile, scorgendo il tramonto dell’antica virtù,
preconizzare i tempi bui che sorgeranno durante il lungo
tramonto dell’epoca romana, quando il popolo italico sarà
progressivamente assoggettato al “barbaro piede” (v. 89). Vi è
un parallelismo con la condizione politica dell’Italia dell’inizio
del XIX secolo, l’epoca della Restaurazione: la conclusione di
Bruto appare perciò una profezia funesta e amara.
27
ingegno’ … nemico degli uomini e della loro liberazione
suicida, osteggiata dalla stessa maligna natura, gelosa del
proprio potere di carnefice e persecutrice delle sue creature” 19.
La battaglia di Filippi simboleggia quindi la fine, senza
appello né possibilità di recupero, non solo di un’epoca, ma di
una concezione del mondo, che tramonta perché
l’immaginazione inizia a cedere il passo alla ragionevolezza: da
quel momento il dolore per l’infelicità dell’uomo non viene più
virilmente affrontato, bensì sfuggito, additando all’individuo
come unico conforto una fede trascendente, che per Leopardi
non può offrire nessuna consolazione, oppure costruendo
sistemi filosofici razionali aridi: “lo sviluppo del sentimento e
della melanconia, è venuto soprattutto dal progresso della
filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, e della
vanità delle cose, e della infelicità umana, cognizione che
produce appunto questa infelicità, che in natura non
dovevamo mai conoscere” (Zibaldone, pp. 78-79). Si legge nella
Comparazione:
28
Il Bruto minore non è un componimento secondario nella
produzione leopardiana. Benché non possieda una tensione
poetica uniforme, esso restituisce un’immagine del poeta quale
pensatore maturo, avviato sulla strada della elaborazione della
teoria del piacere e della concezione negativa del ruolo della
natura. Non è caso che dieci anni dopo, avendo saputo che in
Germania (e non solo in quel paese), molti giustificavano la
sua produzione letteraria non ricorrendo ad argomentazioni
filosofiche bensì alle sole sue malattie, Leopardi, nella lettera a
Louis De Sinnier il 24 maggio 1832, scriveva: “Le mie
convinzioni nei confronti del destino sono sempre rimaste
quelle che ho espresso nel Bruto minore. È stato col coraggio
conseguente a quelle mie ricerche che mi hanno condotto a una
filosofia senza speranza, che io non ho esitato ad abbracciare
nella sua interezza”.
In conclusione, si può affermare che questa canzone:
“rappresenta […] l’atteggiamento definitivo di Leopardi verso
il destino ed esalta, nel suo nero sorriso, la prerogativa umana
del suicidio fino all’aperta blasfemia (non fora/ tanto valor ne’
molli petti eterni)”, dal momento che, secondo il poeta, “Non
resta … all’anima nobile e forte altra possibilità che quella di
ergersi contro la ‘ferrata Necessità’, vincendo la ‘terribile e
quasi barbara allegrezza’ del suicidio (Zibaldone, p. 87) – tema
già alfieriano e foscoliano ma che, in Leopardi, al di là di ogni
motivazione etico-politica, acquista il significato di un puro
dramma metafisico”20.
29
Alla primavera, o delle favole antiche
30
sacra unità, palpitante di una vita insieme materiale e
arcana”21.
La prima strofa, caratterizzata da un insieme di
quattordici proposizioni subordinate, celebra il ritorno della
primavera: tuttavia, il risveglio degli animali, dei boschi, dei
fiori, non consola l’uomo, cui un rimane solo un destino di
infelicità: “Ottenebrati e spenti/ di febo i raggi al misero non
sono/ in sempiterno?” (vv. 14-16). Non vi è dunque
consolazione nella primavera per un cuore “gelido” che, anche
in gioventù, è infelice e immagina un futuro senza speranza né
gioia:
… ed anco,
primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara
nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? (vv. 16-19).
La seconda strofa pone l’interrogativo che sta alla base del
componimento, chiedendo alla natura se oggi, come un tempo,
essa sia in comunione con l’uomo, oppure se viva per sé,
indifferente all’uomo:
21 Ibidem, p. 931.
31
sonar d’agresti Pani
udì lungo le ripe; e tremar l’onda
vide, e stupì, che non palese al guardo
la faretrata Diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia (vv. 20-38)22
Nè dell’umano affanno,
rigide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferìr mentre le vostre
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
22 Cfr. Zibaldone, 63-64: “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva
secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di
esseri uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che
abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e
vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati
dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra
le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come
appunto i fanciulli”.
32
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno (vv. 58-76).
33
poeta, almeno in questa canzone, non sembra perdere la
speranza. Egli infatti chiede alla natura di restituire all’uomo
quelle antiche favole, domandandole di nuovo se essa sia
quantomeno spettatrice delle vicende e degli affanni umani,
dato che è chiaro che non ne prova compassione:
… e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno (vv. 90-95).
La natura non risponde alle domande. Essa tace, come
tacerà la luna di fronte alle domande del pastore errante
dell’Asia. In questa poesia Giacomo non appare ancora del
tutto convinto della indifferenza della natura verso il destino
umano. Questa incertezza si riverbera sul componimenti, assai
inferiore per stile e tensioni poetica a quelli che lo precedono e
lo seguono immediatamente. L’idea dell’indifferenza della
natura, peraltro, appariva già assodata nel Bruto minore, e
sarà ancor più definita nell’Ultimo canto di Saffo, inserita, lo si
ripete, all’interno di un componimento ben più efficace ed
eccelso di Alla primavera.
In conclusione, si può aggiungere che l’argomento della
poesia è presente, in diverse parti dello Zibaldone. Uno dei
“Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu
il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e
partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle
credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il
vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi,
ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata
nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo
accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli,
interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e
abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi
beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio…”.
34
passi più interessanti in proposito è questo del 22 dicembre
1820 (pp. 441-442):
35
Ultimo canto di Saffo
26Cfr. la lettera scritta al fratello Carlo, a fine luglio 1819, al momento della
fuga (poi fallita) da Recanati.
36
giovani eroi di questa epoca, tra cui Saffo, spendono il loro
tempo. La poetessa usa il pronome “noi” per rimarcare la sua
appartenenza alla schiera di giovani. Ma la sola e infelice
protagonista della canzone è lei, che subito afferma che
“ignote mi fur l’erinni e il fato” (v. 5), tratteggiando in un
verso rapido ed eloquente la sua infelicità, descrivendola come
una condizione decisa per lei dal fato sin dalla nascita.
Nella seconda strofa si comprende in modo più chiaro
l’amaro destino di Saffo. La poetessa infatti contrappone la
sua bruttezza al fascino della natura, che è bella anche quando
è distruttrice27. Ella supplica la natura di donarle bellezza, ma
invano: a Saffo le spiagge non sorridono, né il sole al mattino
la bacia, né gli uccelli cantano per lei, e l’erba e i salici
sembrano scostarsi al passaggio del suo “lubrico piè” (v. 34):
37
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge (vv. 19-36).
38
che la sofferenza coinvolge tutta l’umanità è una conquista
fondamentale per Saffo. L’umanità dunque è una “negletta
prole” nata “al pianto”, e né gli dei, né la natura paiono
curarsi della sua sofferenza. Il padre Giove ha donato a Saffo
grandi virtù ma un “disadorno ammanto”, ossia un corpo
senza bellezza, tradendo le sue speranze giovanili e
condannandola a un destino senza gioia, dal momento che una
virtù senza ornamento esteriore non colpisce quasi mai gli
animi altrui.
Il destino tragico dell’eroina appare qui in tutta la sua
crudezza: in un animo nobile, colmo di virtù, l’infelicità è
maggiore perché s’accompagna a una più elevata coscienza di
sé e del mondo. Per questo la sofferenza di Saffo è più acuta:
ella non solo si rende conto della sua triste condizione di donna
che ama non riamata, ma capisce altresì che tale modo
d’essere, sebbene comune a tutti gli uomini, non viene
percepito dagli altri alla stessa maniera. Gli altri, dotati di una
minore sensibilità e profondità d’animo, soffrono meno di lei,
avendo una minor consapevolezza del loro stato. Nello
Zibaldone, alle pp. 2410-2411, si legge:
Dalla mia teoria del piacere segue che per essenza naturale e
immutabile delle cose, quanto è maggiore e più viva la forza, il
sentimento, e l’azione e attività interna dell’amor proprio, tanto
è necessariamente maggiore l’infelicità del vivente, o tanto più
difficile il conseguimento d’una tal quale felicità. Ora la forza e il
sentimento dell’amor proprio è tanto maggiore quanto è
maggiore la vita, o il sentimento vitale in ciascun essere; e
specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia l’attività
dell’anima, cioè della sostanza sensitiva, e concettiva (2 maggio
1822).
39
esiste) o brutto e infelice. E Saffo augura a colui che non
l’amò, ossia a Faone, di essere felice: “se felice in terra/ visse
nato mortal” (vv. 61-62). Lei non ha potuto mai godere della
felicità perché le illusioni della sua fanciullezza sono state
presto tradite. I giorni lieti della giovinezza, dice Leopardi
esprimendo un concetto che tornerà in altre poesie, passano in
fretta, portano via con sé le illusioni. Gli ultimi sei versi (vv.
66-71), in poche battute, raffigurano con forza e immediatezza
l’inesorabile correre del tempo, la malattia, il decadimento, la
vecchiaia cui va incontro ogni corpo, fino a giungere nel
Tartaro, alla morte:
40
che la “protesta” di Saffo è svolta in modo più delicato e tenue
rispetto a quanto accade nel Bruto minore, laddove si trattava
di un lamento per la fine di una grande civiltà; qui Saffo
suggerisce con delicatezza e rassegnazione che la natura è
indifferente ai destini umani:
41
Il primo amore
42
continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e così vegliai
sino al tardissimo e addormentatomi, sognai sempre come un
febbricitante, le carte il giuoco la Signora…30.
43
altri aspetti, possibilità di una maggiore conoscenza di sé:
“l’amore, vissuto come occasione per assimilare impressioni su
se stesso, come contemplazione dilungata su quel ‘caro dolore’
lentamente svaporato, passione cui manca la fiamma per
essere sostenuta e così perde il suo primitivo vigore” 32.
La poesia Il primo amore è vivificata da suggestioni
petrarchesche sin dall’incipit (cfr. Petrarca, Rime,
CCCXXXVI, 1), sia nella forma metrica, sia nell’uso delle
espressioni per descrivere il travaglio d’amore. Essa dimostra
che, in età giovanissima, Leopardi ha già stabilito il legame tra
amore e sofferenza, connesso a sua volta all’idea dell’amore
come sentimento irraggiungibile nella sua pienezza. Nella
poesia Leopardi è in grado di descrivere con dovizia di
particolari la gamma delle sofferenze d’amore: l’atteggiamento
dell’amante che non ha coraggio di guardare la donna amata
(“Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,/ io mirava colei
ch’a questo core / primiera il varco ed innocente aprissi”, vv.
4-6), il desiderio e il dolore causati dal sentimento (“Perchè
seco dovea sì dolce affetto / recar tanto desio, tanto dolore? /
e non sereno, e non intero e schietto, / anzi pien di travaglio e
di lamento / al cor mi discendea tanto diletto?”, vv. 8-12); il
travaglio notturno, l’insonnia, la sofferenza, fisica e spirituale
assieme, come esperienza totalizzante:
170.
44
la contemplavan sotto alle palpebre!
Oh come soavissimi diffusi
moti per l’ossa mi serpeano, oh come
mille nell’alma instabili, confusi
pensieri si volgean! qual tra le chiome
d’antica selva zefiro scorrendo,
un lungo, incerto mormorar ne prome (vv. 19-33).
45
alla guardia seder del mio dolore (vv. 67-84).
46
Il passero solitario
34 Per le questioni relative alla datazione della poesia cfr. W. Binni, Scritti
leopardiani 1964-1969, cit., pp. 409-410 nonché l’introduzione al canto curata
da F. Bandini, nella già citata edizione dei Canti, pp. 109-110.
35 W. Binni, Scritti leopardiani 1964-1969, cit., p. 410.
47
parole. Credo però nondimeno che non vi sia giovane,
qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo
modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo
quelle stesse parole” (p. 4422).
A differenza delle canzoni, gli idilli scritti nei primi anni
mostrano una diversa cifra stilistica e tematica. Gli argomenti
degli idilli sono infatti più intimi e personali, e vengono
affrontati attraverso l’uso di un linguaggio poetico meno
arcaicizzante e solenne, in genere privo di metafore ardite ed
oscure. Il testo degli idilli è più scorrevole e leggibile, mentre
nelle canzoni predomina l’ipotassi, la subordinazione delle
proposizioni, talvolta a discapito della agilità di lettura. Questi
caratteri sono invece più sfumati ne Il passero solitario, il quale
presenta una raffinatezza di meditazioni e una maturità
poetica che lo rendono affine ai grandi idilli composti tra il
1828 e il 1830.
Il passero solitario è una che istituisce un confronto tra
l’animo schivo e solitario del poeta e l’atteggiamento del
passero che non partecipa ai “giochi” e ai “canti” dei suoi
simili, preferendo starsene in disparte: “D’in su la vetta della
torre antica” (v. 1). In questo verso vi è un’eco petrarchesca, si
vedano i versi: “Passer mai solitario in alcun tetto / non fu
quant’io”, Rime, CCXXVI, vv. 1-2, nei quali l’autore toscano
accennava sia alla somiglianza tra il poeta e il passero sia alla
loro differenza. Inoltre, nell’Elogio degli uccelli, Leopardi,
riprendendo idee del naturalista francese Buffon, nota che il
canto degli uccelli dona gioia a chi l’ascolta: “sapientemente
[la natura] operò che la terra e l’aria fossero sparse di animali
che tutto dì, mettendo voci di gioia risonanti e solenni, quasi
applaudissero alla vita universale, e incitassero gli altri viventi
ad allegrezza, facendo continue testimonianze, ancorché false,
della felicità delle cose”. Il mondo allegro e spensierato degli
uccelli rappresenta, per Leopardi, la natura nella sua forma
incontaminata e allegra:
48
Nell’orrore del mondo e nel male che impregna le cose che
sono, c’era l’eccezione: il regno degli uccelli. Lì c’era felicità,
gioia, riso, volo, leggerezza, velocità, vita, sguardo: il suo dovere
di scrittore era quello di esplorare anche questa eccezione, di
raccontarla e portarla alla luce. Nessuno aveva stabilito che egli
fosse, per decreto divino, pessimista e materialista. Nessuno
poteva soffocare in lui la forza irresistibile del riso e della
leggerezza36.
49
costruita secondo il procedimento della doppia vista che
ritrova nel dileguarsi luminoso e malinconico del sole il venir
meno della giovinezza”37.
50
Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro (vv. 45-59).
51
amara parte che possa trovarsi in qualunque abituale o attuale
infelicità o sventura o privazione ec. e il colmo dell’infelicità
(Zibaldone, p. 3841, 5 novembre 1823).
52
L’infinito
Il più celebre degli Idilli leopardiani venne composto a
Recanati quasi sicuramente nel settembre 1819, alla
conclusione di un periodo assai travagliato per il poeta,
culminato nel fallito tentativo di fuga avvenuto in estate e
nella frustrazione che seguì questo tentativo, esemplificata
dalle lettere scritte tra fine luglio e agosto 1819. La sensazione
di essere stato ingannato da chi avrebbe dovuto aiutarlo (il
padre), la coscienza della propria solitudine, dell’impossibilità
di evadere dal “carcere” di Recanati38 (così viene definita la
cittadina marchigiana in una lettera a Pietro Giordani del 27
novembre 1818), unitamente al desiderio di libertà, sono alcuni
dei motivi alla base di questo componimento mirabile per
forma e contenuto. Si tratta di una poesia che possiede una
valenza poetica assai più alta delle altre composte da
Leopardi: in quel periodo “tutto concorre a dare l’impressione
che L’infinito sia sorto imprevedibilmente da un altrove della
parola, che sia emerso ad un tratto dall’oscura maturazione
poetica dell’adolescenza, come riconoscimento di una voce e,
altrettanto radicalmente, estranea”39.
Il 1819, oltre a essere un anno di travagli sia morali che
fisici (tra cui la comparsa di una malattia agli occhi che negli
anni a venire angustierà sovente Giacomo), è altresì l’anno
della cosiddetta “conversione filosofica”, ovvero del passaggio
dalla rappresentazione del “bello” al “vero”, come si legge in
un passo dello Zibaldone del 1 luglio 1820:
53
La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico
al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove
privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della
lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere
profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un
anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e
mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra
natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di
letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era),
a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e
questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più
mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni.
54
Alla base de L’infinito c’è una duplice ispirazione. Una
puramente poetica, nutrita da un’immaginazione molto
sviluppata e dalla sete di indefinitezza, l’altra più filosofica,
connessa a considerazioni, peraltro molto attuali, sulla “teoria
del piacere” e sul ruolo dell’immaginazione stessa. Alcuni passi
dello Zibaldone, in particolare quelli delle pp. 165-66 sulla
teoria del piacere e quelli della p. 171 sul ruolo
dell’immaginazione, possono essere considerati affini alla
tematica trattata in questo idillio. Queste pagine sono state
scritte nel luglio 1820, e rappresentano un affinamento e una
esplicazione filosofica delle idee alla base de L’infinito. È come
se nella poesia Leopardi avesse dato un assaggio delle idee che
stava maturando in quel periodo e che avrebbe chiarito a se
stesso nei mesi successivi.
A fondamento della poesia, in primo luogo, vi è il
desiderio dell’infinito che nasce, nell’uomo, della sua innata
tendenza a ricercare un piacere e una felicità che non può
raggiungere:
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza
di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso
un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione
semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e
così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e
mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla
felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo
desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o
congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o
quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina
colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione42.
42Zibaldone, p. 141: “Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni
e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile
all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di
tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla
immensità del vuoto che si sente nell’anima. Le sventure o d’immaginazione o
reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma
55
Non si tratta solo di una privazione di piacere, bensì
dello scarto tra piacere e dolore: “non è dunque la privazione
… a costituire la condizione del rapporto tra piacere e dolore:
il dolore è iscritto nella condizione stessa del piacere. Una
condizione nella quale il piacere non può mai fare esperienza di
se stesso, della sua ‘pienezza’, e si scopre sempre in scarto con il
desiderio”43.
In secondo luogo, come a supplire a questo impedimento
al raggiungimento della felicità, impossibilità che la ragione
mostra chiaramente, esiste nell’anima la facoltà
dell’immaginazione, che è per essenza illimitata ed estesa
all’infinito:
La cagione è la stessa [dello sviluppo dell’immaginazione],
cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista,
lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima
s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe,
quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio
immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si
estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe
l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da
fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una
finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al
contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta
moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec.
Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità
delle sensazioni, confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i
19.
56
confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere,
la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare
nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere
infinito.
44L. Blasucci, Quattro modi di approccio allo “Zibaldone”, in: I tempi dei
“Canti”. Nuovi studi leopardiani, cit., p. 234.
57
L’incipit tratteggia una situazione spaziale definita: il
colle Tabor a Recanati, presso il quale Giacomo si recava di
frequente: ecco perché il poeta usa l’avverbio “sempre”. Il
colle è quindi “caro” al poeta, familiare, ed è “ermo”, ossia
solitario, perciò adatto a uno spirito appartato e riflessivo. La
siepe che chiude l’orizzonte è un simbolo della reclusione nel
carcere di Recanati. La siepe è un ostacolo reale, chiudendo la
vista dell’orizzonte e spingendo lo sguardo del poeta oltre lei,
ma è anche un ostacolo simbolico, perché diviene vestigia di
quel che non permette a Giacomo di abbandonare Recanati.
Egli non ama il luogo natio: vorrebbe abbandonarlo per
osservare il mondo, conoscere i letterati con cui è in contatto
epistolare e poter, almeno nella sua immaginazione, soddisfare
il desiderio di gloria.
Si tratta di temi ampiamente trattati nelle lettere degli
anni 1817-1819, in particolare in quelle scambiate con Pietro
Giordani. Se in estate il tentativo di fuga era stato vanificato
con il raggiro, ora, nella finzione poetica, nulla può opporsi alla
mente libera del poeta che è in grado, grazie
all’immaginazione, di superare qualunque ostacolo.
Nondimeno, L’infinito non è una poesia di evasione; al
contrario, essa è intessuta di dolce sofferenza e profonde
riflessioni. Infatti, tutto quel che il poeta s’immagina oltre
quell’ostacolo che chiude l’orizzonte (gli “interminati spazi”, i
“sovrumani silenzi”, “la profondissima quiete”) non dona
sollievo alle sue angustie, dato che gli trasmette l’idea della
vastità incommensurabile del mondo. Il mondo è allora
qualcosa di indefinito, oltre che infinito, un luogo immenso
dove l’uomo può smarrirsi, perdere la propria persona, e
divenire un essere anonimo. Ecco perché il “cor si spaura” di
fronte al pensiero dell’infinito, similmente a quel che Pascal
sostiene nel pensiero 206: “Il silenzio degli spazi infiniti mi
58
sgomenta”45. Per Giacomo la brama di fuggire, finché rimane
irrealizzata, nutre la fantasia e nutre se stessa, non esaurendosi
mai; tuttavia, la prospettiva di attuare effettivamente il
proposito reca con sé sia il timore di perdersi nel mondo, sia la
consapevolezza che spesso le cose appaiono più attraenti
quando non le possediamo, dal momento che, una volta
raggiunte, possono rivelarsi deludenti e inferiori alle attese.
In questi versi si esplica una “dialettica” tra indefinito e
infinito poiché, come s’è detto, l’infinito è inconoscibile in
quanto indefinito: e l’uomo si smarrisce di fronte a esso, come
di fronte al desiderio della felicità, altro luogo irraggiungibile
eppure agognato da chi possiede una sensibilità sviluppata.
59
non intende muoversi in questo modo, perché l’infinito, come
detto, non raffigura una dimensione della realtà, benché
inattingibile; esso è una suggestione purissima e sublime, una
pura essenza, una quiddità rarefatta e quasi assoluta: “C’è
qualcosa di tremendo in questo tentativo, come se uno di noi
cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni
tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e
invisibile nel cielo”47.
Non è facile seguire questo tentativo, e il poeta stesso,
forse, se ne accorge, giacché a metà del verso ottavo egli
introduce, grazie alle parole : “E come…”, un elemento
terreno, il vento, che, materialmente, fa muovere le foglie e i
rami delle piante: “vera e propria chiave di volta dello
svolgimento della lirica, per cui il motivo dell’infinito spaziale
… trapassa in quello dell’infinito temporale”48. L’infinità
possiede al contempo una dimensione spaziale e temporale:
come Leopardi scrive nei versi successivi, il poeta si raffigura
tutte le “morte stagioni” del mondo, tutte le età passate,
persino l’eternità stessa, come qualcosa di assolutamente
indefinito e irraggiungibile, come qualcosa che attrae e
atterrisce al tempo stesso. Torna un riferimento temporale
concreto, un “qui” che interrompe il sogno dell’infinito a cui il
poeta si era abbandonato. Ma poiché la poesia è intessuta da
un continuo gioco di rimandi, subito torna nella mente del
poeta la forza della pulsione verso l’infinito, già sperimentata
prima e adesso paragonata alla voce del vento, come a voler,
disperatamente, ancorare la tensione verso l’indefinito a un
elemento terreno e naturale.
Quel che accade in seguito è quasi sorprendente: questa
comparazione apre al poeta le porte della memoria, ma a un
livello superiore rispetto alla dimensione personale. Si tratta
60
infatti di una visione rarefatta (“mi sovvien”) di tutte le età
passate, perfino dell’eternità, di tutte le “stagioni” della vita
umana che un tempo furono presenti e vivide e che ora,
inevitabilmente, sono “morte”. Infine, si tratta del “suon”
della stagione in cui il poeta vive, del presente destinato presto
a scomparire anch’esso, morendo e svanendo come tutto quel
che appare al mondo. In questo modo il poeta sperimenta
un’ulteriore impossibilità: quella di poter rammentare ogni
cosa, anche le epoche che non ha vissuto, e quella di poter
rivivere realmente i suoi stessi ricordi, raffigurandoseli come
vividi. Questa cosa non può accadere: la memoria inganna, sia
perché è labile, sia poiché talvolta fa credere come realmente
esistite cose ed epoche mai vissute nel modo con cui sono
ricordate. Le età passate sono, appunto, “passate” e il poeta
non può far altro che provare una nostalgia vaga e indefinita
per cose che non ha vissuto direttamente, ma solo conosciuto
leggendo o studiando i libri. Tuttavia, a differenza di altre
poesie, non pare esserci qui dolore nella constatazione
dell’inevitabile spegnersi del proprio tempo. In questa poesia
infatti domina il tempo passato, mentre manca qualsiasi
riferimento all’avvenire.
Con echi che si potrebbero pensare tratti dai Pensieri di
Pascal, il poeta chiude il componimento descrivendo ancora
una volta il proprio smarrimento di fronte alla percezione di
questa immensità, contrapposta alla sua piccolezza in quanto
uomo. Ma non c’è amarezza in questa sensazione di
inadeguatezza: l’uomo, infatti, possiede, unico tra gli esseri
viventi, la possibilità di percepirsi piccolo e incapace di
raggiungere l’infinito. Naturalmente, questa capacità
percettiva così sviluppata è allo stesso tempo fonte di grande
infelicità, stante l’inevitabile scacco della sua ricerca del
piacere. E Leopardi ha scritto nello Zibaldone che quando in
un uomo la sensibilità è più marcata, o le facoltà intellettuali
sono più affinate, egli avvertirà con maggior forza degli altri
61
sia l’impulso verso il piacere, sia la frustrazione per la
lampante impossibilità di ottenerlo.
La celebre chiusa de L’infinito, nella sua bellezza soffusa
di pace, sembra suggerire che vi sono momenti in cui è quasi
bello, anzi “dolce” abbandonarsi alla percezione di tale
vacuità, di questo “mare” infinito, come a voler scordarsi di
tutte le sofferenze e le tristezze del momento, e naufragare
nella percezione della propria piccolezza a fronte
dell’incoscienza di stare al mondo che alberga in tutti gli altri
esseri viventi. Non è questo un abbandono mistico, nota
Bandini, bensì un lasciarsi andare tra le braccia della fantasia,
immaginando “un piacere che l’anima non possa abbracciare,
cagione vera per cui l’infinito le piace (Zibaldone, p. 180, 12-23
luglio 1820).
62
La sera del dì di festa
63
dovuta alla natura (“l’antica natura onnipossente”) che lo
condannò a patire e a ricercare un piacere irraggiungibile:
… Intanto io chieggio
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! (vv. 24-27).
64
apparvero e scomparvero le grandi civiltà antiche, e di loro
rimangono labili tracce, pronte anch’esse un giorno a svanire:
“Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / il mondo, e più di loro
non si ragiona” (vv. 38-39). Questi due versi sono amari nella
loro immediatezza, e paragonano il silenzio della notte festiva
al silenzio caduto sulle vicende, eroiche o vili, di quegli antichi
popoli. Si avverte qui un’eco delle “morte stagioni” di cui
Leopardi parla ne L’infinito, anche se allora tale espressione
era declinata in forme più vaghe. Parole simili sono espresse
nello Zibaldone, alle pp. 50-51: “Dolor mio nel sentire a tarda
notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’
villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente,
ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti
avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con
quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere
del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco”.
Questo motivo viene riproposto nel finale del canto,
attraverso versi più dimessi e teneri, per mezzo dei quali
Leopardi ricorda quando, fanciullo, attendeva con
trepidazione il giorno festivo. Scrivendo versi che torneranno
in altra forma ne Il sabato del villaggio, il poeta ricorda come le
aspettative di cui si caricava il dì festivo venivano
prontamente disattese, e come, passata la festa, egli si trovasse
“doloroso” a letto, conscio di non essersi divertito e di aver
sprecato il giorno tanto atteso. La malinconia era resa più
acuta dall’avvertire, nella notte, un canto per i sentieri, canto
che pian piano si affievoliva e scompariva nel buio. Nel
dissolversi lento di questo canto, il poeta vede il destino di
tutte le cose umane, che è quello di scomparire a poco a poco.
E la percezione di questo destino così crudo lo riempie di
tristezza, stringendogli il cuore in una morsa di malinconia
inconsolabile:
65
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core (vv. 40-46)
66
Alla luna
Questo breve idillio è stato composto nel 1819 ed è
dedicato a un corpo celeste molto amato dal poeta. È una
poesia della “rimembranza”, come altre che seguiranno in anni
successivi, nella quale il ricordo diviene materia per una
riflessione esistenziale. D’altra parte, prima di intitolarsi Alla
luna, la poesia s’intitolava significativamente La ricordanza. Il
titolo venne mutato per l’edizione fiorentina dei canti del 1831.
Tra i diversi passi che nello Zibaldone Leopardi dedica al
valore della “rimembranza” e del ricordo, si può citare la
riflessione del 25 ottobre 1821, che, alle pp. 1987-1988, recita
così:
Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono
piacevolissime e poeticissime tutte le imagini che tengono del
fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie,
pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il primo luogo gli
antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le
ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che
quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza,
anche le ricordanze d’immagini e di cose che nella fanciullezza ci
erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è
piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene
la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza
lo cagioni o l’accresca, come nella morte de’ nostri cari, il
ricordarsi del passato ec.
67
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, nè cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri! (vv. 1-16)
L’incipit rappresenta una situazione temporale e
geografica definita. Il poeta rammenta che un anno prima (“or
volge l’anno”), egli saliva sul colle (probabile lo stesso de
L’infinito) ad ammirare la luna. Ora si rivolge direttamente
all’astro, come fosse qualcosa di familiare, poiché ad esso
allora affidava i lamenti per la sua infelice condizione e le
speranze in una esistenza migliore. Ma dopo dodici mesi non è
cambiato nulla: le lacrime che il poeta versava in quel tempo,
pensando alla sua vita infelice, non sono cessate: “travagliosa /
era mia vita: ed è, nè cangia stile, / o mia diletta luna” (vv. 9-
11). Tuttavia, nei versi successivi, quasi ad anticipare il
pensiero espresso nello Zibaldone il 25 ottobre 1821, Leopardi
afferma che ricordare il tempo trascorso, per esempio quello
della fanciullezza, non è sbagliato, perché di quel tempo si
rammenta in genere l’entusiasmo, i giochi, la spensieratezza:
“Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un
suono ec. un racconto, una descrizione, una favola,
un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere
e quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta è
68
sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni
piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi
anche ogni concezione) di quell’età tien sempre all’infinito: e ci
pasce e ci riempie l’anima indicibilmente, anche mediante i
minimi oggetti” (Zibaldone, p. 514, 16 gen. 1821). Sappiamo
peraltro che la fanciullezza di Giacomo ebbe lampi di letizia,
grazie ai giochi con i fratelli Carlo e Paolina49. Durante la
giovinezza, “quando ancor lungo / la speme e breve ha la
memoria il corso” (vv. 13-14), il ricordo delle sensazioni
provate nella fanciullezza dona sollievo perché accende la
speranza che esse possano tornare oppure fa pensare che, in un
tempo ormai lontano e passato, la felicità sia stata vicina.
I versi “nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la
speme e breve ha la memoria il corso” furono aggiunti da
Giacomo poco prima della sua morte, ed apparvero
nell’edizione dei Canti che Antonio Ranieri curò nel 1845. Essi
conferiscono uno spessore più marcato a una poesia che non
raggiunge le vette di rarefazione, di perfezione e di intensità
drammatica de L’infinito: “Ma anche con l’aggiunta tarda
l’idillio ha in sé una forza più gracile, inerente del resto allo
stesso tema centrale ben leopardiano, ma più esiguo, non così
centrale e assoluto come è quello della grande scoperta e del
possesso del sentimento dell’infinito nella poesia omonima”50.
49 Cfr. R. Minore, Leopardi. L’infanzia, le città, gli amori, cit., pp. 45 e sgg. Cfr.
altresì R. Urraro, “Questa maledetta vita”. Il romanzo autobiografico di Giacomo
Leopardi, cit., p. 9, che cita le parole di Carlo Leopardi, pubblicate
nell’appendice all’Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di P. Viani, Le
Monnier, Firenze 1925, III, p. 478: “la fanciullezza di Giacomo passò fra
giuochi e capriole e studj; studj, per la sua straordinaria apprensiva, incredibili
in quell’età […]. Nei giuochi e nelle finte battaglie romane, che noi fratelli
facevamo nel giardino, egli si metteva sempre per primo. Ricordo ancora i
pugni sonori che mi dava”.
50 W. Binni, Scritti leopardiani 1964-1969, cit., p. 96.
69
Il sogno
70
stettemi allato e riguardommi in viso
il simulacro di colei che amore
prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
degl’infelici è la sembianza. Al capo
appressommi la destra, e sospirando,
vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
serbi di noi? Donde, risposi, e come
vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
di te mi dolse e duol: nè mi credea
che risaper tu lo dovessi; e questo
facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?
Io n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne?
Sei tu quella di prima? E che ti strugge
internamente? Obblivione ingombra
i tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno (vv. 1-22).
71
simulacro non compare con le fattezze di una donna
scomparsa, bensì nelle sembianze di una infelice, come a voler
dire che il vero dramma dell’esistenza non è la morte, bensì il
vivere nella tristezza e nel dolore. Il poeta è ancora vivo, e la
donna gli chiede se si ricorda di lei, se rammenta che è esistita
e che poi è scomparsa. Il poeta appare stupito dal lamento
della donna. Allora ella sapeva del suo amore per lei? E lui
rammenta quanto dolore provò per non aver potuto esternare
un sentimento che credeva destinato alla sconfitta. E adesso,
chiede con angoscia, “sei tu per lasciarmi un’altra volta?/ Io
n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne?” (vv. 18-19). Non
c’è dunque pace in amore: in vita ella non amò il poeta, né
seppe mai d’essere amata da lui, e ciò provocò in Giacomo un
gran dolore. Ora, nella morte, ella torna brevemente a
visitarlo, giacché presto scomparirà di nuovo. E la donna
rimprovera il poeta, vittima dell’“obblivione”, perché ha
scordato non solo lei, bensì anche la sua immagine: “Leopardi
sapeva che la donna era morta: aveva sofferto e soffriva per
lei: ma ignorava se era morta anche l’immagine che, sognando,
gli parlava”51.
La giovane del sogno rivela a Leopardi quanto sia fugace
la giovinezza, quanto la morte sia in agguato, pronta a
spegnere per sempre ogni speranza di felicità: “ma sconsolata
arriva/ la morte ai giovanetti, e duro è il fato/ di quella speme
che sotterra è spenta” (vv. 31-33). La morte dei giovani appare
un controsenso solo a chi crede che la natura e il fato siano
benevoli con gli uomini. Questa credenza si rivela infondata,
ma è difficile accettarla, perché la morte di una persona
giovane è più sconvolgente rispetto alla necessità di accettare
la gratuità totale del nostro esistere:
72
Vano è saper quel che natura asconde
agl’inesperti della vita, e molto
all’immatura sapienza il cieco
dolor prevale (vv. 34-36).
73
umano, sono accomunati dal destino di “nascere al pianto” e di
non essere amati dalla natura, né dal cielo, né dal fato. Eppure
Giacomo ha già detto che preferirebbe non avere così chiara in
mente la consapevolezza dell’infelice condizione umana e
godere della bellezza della gioventù: l’eccessiva sapienza
sottrae fascino alle illusioni, mentre i giovani preferiscono
credere ai romanzi:
Dimmi: d’amore
favilla alcuna, o di pietà, giammai
verso il misero amante il cor t’assalse
mentre vivesti? Io disperando allora
e sperando traea le notti e i giorni;
oggi nel vano dubitar si stanca
la mente mia” (vv. 61-67).
74
degli uomini, che il poeta condivide, condizione che ora,
essendo morta, lei ha potuto conoscere appieno. Il desiderio
che il poeta mostra nella chiusa, quello di poter baciare la
mano destra della donna, è molto terreno, in parte tenero e in
parte ingenuo, come a voler trattenere il tempo che scorre
inesorabile. Non è possibile però toccare un fantasma:
75
un’immagine assai vaga, indefinita, destinata a sparire dalla
sua mente con il progredire del giorno.
76
La vita solitaria
…. Alcuna
benchè scarsa pietà pur mi dimostra
natura in questi lochi, un giorno oh quanto
77
verso me più cortese! E tu pur volgi
dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
le sciagure e gli affanni, alla reina
felicità servi, o natura. In cielo,
in terra amico agl’infelici alcuno
e rifugio non resta altro che il ferro (v. 14-22).
78
L’infinito. Immerso nella natura, il poeta sembra sciogliersi
nell’immota quiete del luogo, fino a confondersi con il silenzio.
Tuttavia il risultato poetico, in questo componimento, è
inferiore a quello ottenuto nell’idillio. Infatti, allora il
“naufragare” era l’epilogo, mentre qui è una parentesi tra i
diversi tormenti, com’è chiaro dall’attacco della strofa
successiva. In questa seconda strofa Leopardi afferma che
solitudine diventa una salvezza per l’uomo d’oggi perché lo
ritempra donandogli la carezza delle illusioni. Di contro, la
ragione e la conoscenza del vero sono fonte di infelicità. Manca
dunque il placido abbandono de L’infinito, la volontà di
perdere se stesso, ed è ugualmente assente l’emozione
spontanea presente nell’idillio del 1819. In questa poesia,
invece, l’amore per la solitudine è accostabile alla riflessione
che si può leggere alle pagine 681-682 dello Zibaldone:
79
d’ingegno, e sventuratissimo. Come questo? forse per la
cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel
diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già
sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e
dall’intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e
quindi abbellirsi (20 febbraio 1821).
80
qualcosa che l’ha toccato un tempo e che di certo non lo
toccherà più.
81
donava al componimento un carattere palpitante e genuino.
L’idea di una consolazione dai tormenti dell’esistenza e
dell’amore da ritrovarsi nell’abbandono alla natura benigna
rende La vita solitaria un componimento debole, retorico,
anche perché questa fiducia nella natura non appare affatto un
modo per trovare sollievo. La stessa chiusa della poesia, con
l’accenno alla luce lunare che per molti è nefasta, mentre per il
poeta è segno benefico, appare ammantata di retorica e poco
convincente.
82
Alla sua donna
83
ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme, assai men bella (vv. 19-22)
84
Se dell’eterne idee
l’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t’irraggia, e più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi.
85
distrutto avvicinandosi alla realtà. Nello stesso tempo pensavo
sempre a questo oggetto, ma non lo consideravo se non come era;
lo contemplavo nella mia immaginazione così come mi era
apparso nel mio sogno.
86
Il risorgimento
Nel 1828, durante il lieto soggiorno a Pisa, Leopardi
torna alla poesia. Dal 1824 aveva scritto in versi solo l’epistola
al conte Pepoli, dedicandosi invece alla composizione delle
Operette morali. Nel frattempo, nel 1822 e soprattutto dal 1825
in poi, aveva viaggiato (Milano, Bologna, Firenze, Pisa),
conoscendo i suoi amici letterati, allontanandosi da Recanati,
ma scoprendo altresì che la sua inquietudine, le sue infelicità, i
suoi guai fisici non lo abbandonavano mai. A Pisa però
Giacomo trovò un’atmosfera di quiete che sembrava giovargli.
Per questo, nella calma effimera del soggiorno pisano,
compose, tra il 7 e il 13 aprile 1828, Il risorgimento, poesia che,
già nel titolo, indica una rinascita poetica dell’autore. A questo
componimento seguiranno altre celebri poesie, ossia i grandi
idilli del biennio 1828-1830. Per molti critici tali poesie
rappresentano i vertici della poetica leopardiana, sia perché in
essi il poeta inserisce inediti ed efficaci elementi di prosaicità,
sia perché in essi egli riesce a creare un tono esistenziale che lo
rende molto affine alla moderna sensibilità. Inoltre, come
scrive Bandini: “Leopardi [in essi] è riuscito a sconfiggere la
lucida consapevolezza dell’impossibilità della poesia nel mondo
moderno affidandosi al calore della memoria, rivivendo le
speranze e le illusioni che nascono sul limitar di gioventù,
sentimenti nei quali si configura, per tratti intermittenti, la
capacità di sogni e di entusiasmo degli antichi”55.
In particolare, Il risorgimento è una poesia che opera una
sorta di “bilancio” sugli anni trascorsi, sui travagli patiti, e che
analizza altresì la nuova condizione di precario e temporaneo
sollievo che Giacomo avvertiva dentro sé. In una lettera alla
sorella Paolina del 2 maggio 1828 si legge: “dopo due anni, ho
fatto dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e
87
con quel mio cuore d’una volta”. Nello Zibaldone, in data 19
gennaio 1828, egli aveva scritto: “La privazione di ogni
speranza succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco
appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora,
per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella
strana situazione di avere molto più speranza che desiderio, e
più speranze che desiderii” (p. 2416). In questo periodo,
sempre nello Zibaldone (in data 15 aprile 1828), vi è un altro
pensiero molto significativo in relazione a quel che Leopardi
pensa sul ruolo della poesia nella sua vita:
88
i dolci affanni”, che rimanda al Petrarca, Rime, LXI, 5: “et
benedetto il primo dolce affanno”), grazie alla quale Giacomo
“non si concilia con il mondo o con la natura … ma con se
stesso, con la sua vita fantastica, col suo cuore”57. Nelle prime
strofe la vita di un cuore viene esposta ricordando come, sin da
fanciullo, a lui sono mancati i “moti del cor profondo /
qualunque cosa al mondo / grato il sentir ci fa” (vv. 7-8). In
gioventù il suo cuore si è raffreddato presto perché orfano
dell’amore e delle gioie (per quanto illusorie) giovanili, finché il
periodo di sofferenza acuta vissuto in gioventù (il periodo
1819-1821 circa) non ha spento del tutto l’atmosfera da idillio
presente nei primi componimenti.
89
immaginare, è rimasta presente nell’animo del poeta quale
retaggio della fanciullezza; nondimeno, a poco a poco, durante
i travagliati anni della scoperta dell’infelicità umana,
dell’elaborazione della teoria del piacere, anch’essa si spense:
90
io conduceva l’aprile
degli anni miei così:
così quegl’ineffabili
giorni, o mio cor traevi,
che sì fugaci e brevi
il cielo a noi sortì (vv. 73-80).
91
dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
cangiato il mondo appar? (vv. 97-104).
L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della
vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che
gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto
alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario
esso è tutto per la vita. - Spaventevole, ma vera proposizione e
92
conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per
l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, nè il bene dell’esistente;
se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è
per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine
reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l’individuo esistente
nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l’esistenza si
conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che
il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e
non la conservazione nè la felicità degl’individui; la qual felicità
non esiste neppur punto al mondo, nè per gl’individui nè per la
specie (Zibaldone, p. 4169, Bologna, 11 marzo 1826).
93
Leopardi torna a sentire battere in sé sono “gl’inganni aperti e
noti” (v. 146), i quali ora sono riconosciuti come tali, ossia
come illusioni che dimostrano che il suo cuore non sa stare
spento, dovendo invece continuare a sentire, e sentendo a
soffrire. E sebbene il cuore sopravviva, se la rammemorazione
del passato diventi ponte per un futuro diverso, ma non lieto,
Giacomo non ha paura: benché alla sua anima manchino la
fortuna (sebbene essa sia “alta, gentile e pura”, v. 154), il
favore della natura, la bellezza, la conoscenza del mondo, egli
non chiamerà “spietato” chi (persone o cose) causerà in lui i
sospiri, i moti del cuore di certo dolorosi perché colmi di
infelicità ma che, in qualche modo, lo fanno sentire vivo:
94
A Silvia
una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti,
nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può
agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o
malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore
purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza
vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel
guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza,
d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti;
quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste
cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in
voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che
voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che
95
più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un
altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di
felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza
muoverci desiderio di posseder quell’oggetto (30 giugno 1828).
96
sperando come fanno tutti i giovani, senza pensieri gravi: “i
giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente
delle infelicità, le considerano quasi come illusioni, o certo
come accidenti d’un altro mondo, perchè essi non hanno negli
occhi che felicità” (Zibaldone, p. 4287, 23 luglio 1827).
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno (vv. 7-14).
97
guardare attraverso una finestra (“i veroni del paterno
ostello”, v. 19) la piazza antistante palazzo Leopardi, verso il
lato dove si trovava l’abitazione della ragazza:
98
del componimento) che allora muovevano i cuori giovani del
poeta e della donna. Ma le rimpiange non tanto perché esse
non si sono realizzate (dato che non vi erano dubbi su questo
fatto), bensì perché allora i loro cuori avevano quantomeno
qualcosa cui aspirare. Entrambi non hanno avuto nulla di quel
che sognavano: la ragazza è morta di tisi, il poeta soffre
ancora, sempre più consapevole della infelicità umana e non
più sorretto dalla fede nella natura benefica. È dunque ormai
assodata la convinzione del ruolo nefasto che la natura svolge
nel determina la vita umana. Questa consapevolezza, afferma
già nelle poesie giovanili e nelle Operette morali (celebre da
questo punto di vista è il Dialogo tra la Natura e un Islandese),
è mostrata, tra gli altri passi, da quel che si legge nello
Zibaldone, p. 4133 (nota del 9 aprile 1825): “La natura tutta, e
l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla
felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi
contrario”.
Nel Dialogo citato, l’Islandese incalza la Natura,
chiedendole perché ella faccia soffrire gli uomini, perché li
faccia nascere al dolore; ma la Natura risponde mostrando che
per lei tali questioni non sussistono, dato che è indifferente al
destino dell’uomo: “Tu mostri di non aver posto a mente che la
vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione
distruzione, collegato ambedue tra se di maniera, che
ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o
l’altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione”62.
In A Silvia vi è una eco più sfumata di queste riflessioni
99
filosofiche, che si manifesta nella pacata, ma non meno aspra,
invettiva contro la natura cattiva e indifferente:
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? Perché di tanto
inganni i figli tuoi? (vv. 35-39).
100
Il poeta e la giovane donna tornano a essere accomunati non
più dalla condizione giovanile (allorché Silvia era per Leopardi
“cara compagna dell’età mia nova” v. 54), bensì da un comune
destino di morte e sofferenza. La speranza ha da tempo
abbandonato il poeta: a lui il fato ha negato le gioie della
giovinezza; non è stata la morte fisica a precludergli tali gioie,
bensì una morte morale, rappresentata dalla reclusione nel
carcere di Recanati, tra i suoi studi intensi e difficili. Forse la
ragazza è stata più “fortunata” perché non ha dovuto subire
l’onta della disillusione, il dolore nel rendersi conto della totale
vanità d’ogni speranza. “All’apparir del vero”, cioè di fronte
alla consapevolezza della reale condizione dell’uomo, tutte le
aspirazioni, le gioie sognate, si sono rivelate cosa vana, pronta
a dileguarsi in breve tempo senza quasi lasciare traccia di sé.
Il poeta si domanda infine se questo sia il mondo, se
tanto infelice sia la sorte “dell’umane genti”, se così doloroso
sia il destino dei “diletti, l’amor, l’opre, gli eventi/ onde
cotanto ragionammo insieme” (vv. 58-59). A questa domanda
non c’è risposta, o forse la sola risposta, amarissima, è la mano
della ragazza morta che, da lontano, mostra una tomba
“ignuda”, simbolo e destino dell’umanità intera, delle sue
aspirazioni vane, della sua vita misera:
101
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano (vv.48-63).
102
Le ricordanze
103
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono
vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il
mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli
occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono
d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà
un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo
secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle
cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che
non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli
soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la
sensazione.
104
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato (vv. 14-27).
105
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di se, ma perchè tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l’allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore (vv. 28-49).
106
la sua età verde, la giovinezza, giungendo per questo a divenire
“sprezzator degli uomini”; e non si è reso conto, ma non per
colpa sua, che nel frattempo la giovinezza, l’età delle speranze,
l’unico fiore dell’arida vita, se ne andava “senza un diletto,
inutilmente, in questo / soggiorno disumano, intra gli affanni”
(vv. 47-48). Perché il fiore della vita è qualcosa che gli è più
caro di qualsiasi gloria poetica: “più caro/ che la fama e l’allor”
(vv. 44-45).
Dal verso successivo avviene uno stacco temporale: il
poeta non è più al tramonto o all’inizio della sera, come nella
prima strofa, ma in piena notte: “Viene il vento recando il
suon dell’ora / dalla torre del borgo…” (vv. 50-51). E questo
suono reca con sé il ricordo delle notti in cui egli, bambino,
attendeva il mattino con trepidazione, stretto da “assidui
terrori”. Come si legge nello Zibaldone a p. 36: “Sento dal mio
letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di
quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in
letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la pura e il
coraggio sentiva battere tale orologio”. Da questo ricordo
sonoro prende piede, nella poesia, una rievocazione dolente del
tempo fanciullo, che si palesa nella consapevolezza che il
desiderio e le aspirazioni d’allora oggi non ci sono più. Scrive
infatti il poeta: “io fui”.
Egli ricorda il palazzo paterno, i momenti trascorsi in
esso, il vento che sibilava alle finestre, la neve che copriva il
paesaggio, il “Sol che nasce/ su romita campagna” (vv. 63-64),
che facevano da corollario al suo “possente errore”, ovvero alla
sua capacità di creare illusioni, come accade al “garzoncel,
come inesperto amante,/ la sua vita ingannevole vagheggia,/ e
celeste beltà fingendo ammira” (vv. 74-76), ossia che ammira
una bellezza che è solo frutto della sua fantasia. Ora il poeta
invece sa che quelle immaginazioni, quell’ineffabile che
andava cercando, non esistevano né allora, quando intatta era
la capacità di provare desideri, né esistono nel tempo presente,
107
allorché egli è divenuto un uomo maturo, che ha conosciuto gli
uomini, il mondo e la vita:
108
secondo ragione, egli non dovrebbe più rimpiangere le cose
sognate e non raggiunte, perché esse non potevano essere
ghermite. Ma il sentimento del poeta si ribella a questo
destino, e la speranza non lo abbandona del tutto, benché la
ragione dimostri l’infondatezza di certe aspirazioni. Sembra
riecheggiare nei versi vv. 88-90 un passo dello Zibaldone
risalente al giugno 1820, nel quale Giacomo accennava al
contrasto tra sentimento e ragione: “rivedendo a caso le mie
carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i
pensieri e i desideri e le belle viste e le occupazioni
dell’adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch’io non
sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava?
non già come morte, ma come annullatrice di tutta la bella
aspettativa passata” (p. 137, 2).
Egli dunque pensa ancora a quelle speranze, che oggi non
esistono più e afferma, riprendendo in parte un verso di
Petrarca (Rime, CCLXVIII), che “la morte è quello/ che di
cotanta speme oggi m’avanza” (vv. 91-92). Eppure egli sa che,
quando la morte giungerà,
quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenire” (vv. 98-99)
Il ricordo di quelle speranze lo farà ancora sospirare,
aumentando il rimpianto per “l’esser vissuto indarno”,
turbando perciò la dolcezza “del dì fatal”:
109
accresce l’angoscia65.
110
strada, scusare perfino i suoi errori66, ma quei giorni lieti
passano in un lampo, recando dopo sé dolore e disillusione:
111
questo rimpiange il tempo trascorso in un lampo, quando
Nerina era felice, o almeno pensava di esser tale perché
Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato, e giacevi (vv. 153-157).
Quel “confidente immaginar”, quelle speranze in un
futuro lieto, è trascorso, perché, come scrive il poeta rivolto a
Nerina con una parola che si staglia solenne nella strofa:
“Passasti”. I suoi giorni sono trascorsi: “Ma rapida passasti; e
come un sogno/ fu la tua vita” (vv. 151-152). Il verbo,
“passasti”, simboleggia qualcosa di definitivo, doloroso; la
donna, suo amore d’allora, oggi non si acconcia più per le feste
di paese, né, nel mese di maggio, per lei alcun giovane reca
ramoscelli in segno d’amore. Il ricordo di quel tempo lieto è
crudo e per questo, nell’ultimo verso, il poeta dice che “la
rimembranza è acerba” (v. 173). Perché egli sa che per ogni
giorno di sole, di pioggia che lui trascorre, Nerina non vive più.
L’immagine di lei accompagna, dolorosamente, il suo “vago
immaginar”. Non c’è più speranza, né illusione, solo un ricordo
amaro, una malinconia senza fine:
112
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba (vv. 164-173).
“In tutta l’ultima e più lunga lassa del Canto, insistita
variazione elegiaca su questo tema struggente, Leopardi
proietta in realtà la figura stessa del congedo, del sipario che,
inavvertito e fatale, cala sulla sua e su ogni esperienza”68.
Le ricordanze rappresenta il congedo di Leopardi da una
stagione lunga e dolorosa della sua vita, culminata con
l’acquisizione piena della consapevolezza dell’infelicità
costitutiva del genere umano e la maturazione dell’idea della
natura matrigna. Queste idee non nascono dai libri, bensì dalle
esperienze di vita che lui ha avuto. La conoscenza diretta degli
uomini ha confermato in Giacomo le sue idee sull’infelicità
della specie umana, sull’assenza del piacere, sul predominio,
nei rapporti umani, dell’invidia e dell’ipocrisia, e sulla generale
indifferenza degli uomini verso le idee brillanti. Leopardi si
sente sempre più inattuale, distaccato rispetto a un secolo
dove predominano le idee di vacuo progresso, dove impera la
scienza statistica, dove si pensa che la felicità dell’uomo possa
essere garantita da un (presunto) miglioramento delle
condizioni materiali di vita.
La sua filosofia prescinde dalla sua sfortunata condizione
individuale, come si legge nel Dialogo di Plotino e di Porfirio,
allorché Porfirio non sa spiegare perché desideri la morte: “ti
dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna
113
sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi
sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io
provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo;
da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare,
toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata”.
La poesia testimonia l’abbandono definitivo delle
speranze e delle illusioni giovanili, oltre al distacco da
Recanati, cittadina che Leopardi lascerà il 29 aprile 1830 per
non tornarvi mai più. A differenza de Il risorgimento, dove il
cuore continuava a mostrarsi palpitante benché disilluso, qui
appare un distacco più amaro rispetto agli anni trascorsi.
Rispetto ad A Silvia vi è un atteggiamento più radicale nei
confronti del rapporto con i ricordi, poiché in Giacomo c’è un
adesso un rimpianto inconsolabile: “Ora il ricordo non giunge
gradito ma crudele, perché non si separa dalla disperata
coscienza dell’oggi, senza luce di speranza, e proprio il
radicamento ineludibile all’infelicità attuale colora d’inedita
suggestione la rievocazione del passato e ne acuisce il
rimpianto”69. Le differenze più evidenti con A Silvia sono
dunque sia di ordine contenutistico che formale: “Una di esse è
certamente il carattere consolatorio che la nuova poesia vuole
consapevolmente produrre: la celebrazione cioè della memoria
come risarcimento delle sofferenze della vita; una seconda è
data dalla scelta del metro, l’endecasillabo sciolto adagiato in
sette strofe di diversa lunghezza – ossia una struttura, non solo
metrica ma sintattica, che non presuppone un’ispirazione
subitanea tutta raccolta attorno a un’immagine-simbolo come
avveniva in A Silvia, ma una struttura, per così dire, che si
prolunga nel tempo”70.
114
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
La poesia ha avuto una lunga gestazione, essendo stata
composta a Recanati tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830. È
l’ultima poesia prima della definitiva partenza dal luogo
natale, che avverrà il 29 aprile 1830: essa trabocca di
“filosofia” leopardiana, della sua concezione della vita
dell’uomo, del suo destino e del rapporto con la natura.
Questa poesia appartiene alla fase matura del pensiero di
Leopardi, ponendo, con maggior nettezza e ampiezza che nelle
Operette morali (cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese),
l’atto di accusa contro la natura che, perduta qualsiasi
parvenza di bontà, è ormai apertamente accusata d’essere
indifferente non solo ai destini dell’uomo, bensì a quelli di
tutte le specie viventi. Già nel 1829, nello Zibaldone, p. 4512,
Leopardi scrive: “Ma che epiteto dare a quella ragione e
potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel
male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario,
mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene,
esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario?
dico, in un ordine ove il male è essenziale?” (9 maggio 1829).
Il Canto notturno conclude la stagione creativa dei canti
“pisano-recanatesi”, quella che aperta con Il risorgimento; la
conclude, s’è detto, con la consapevolezza dell’infelicità umana
e della indifferenza della natura verso tutte le specie viventi:
115
Le figure del poeta e del filosofo coincidono nella persona
del pastore che, nella sua apparente semplicità, pone domande
esistenziali profonde: “Il filosofo sa quanto il pastore, e
potremmo dire, capovolgendo la frase, il pastore sa ed esprime
le stesse amare verità cui perviene il filosofo”72.
In questa poesia torna protagonista un elemento
naturale amato da Leopardi: la luna, a cui il pastore rivolge
interrogativi che non avranno risposta. Non solo perché la
luna è un oggetto inanimato, ma soprattutto perché essa,
appartenendo alla natura, non può interessarsi alle vicende
dell’uomo73. La predilezione per l’astro lunare si può motivare
con la riflessione dello Zibaldone del 20 settembre 1821 (pp.
1744-1745):
Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra
come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci
destino idee indefinite, si spiega perchè piaccia la luce del sole o
della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra
la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da
essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne
derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga
incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un
canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce
veduta in luogo oggetto ec. dov’ella non entri e non percota
dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo
od oggetto ec. dov’ella venga a battere74.
116
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale? (vv. 1-21)
Il primo verso itera il “che fai” rivolto alla luna: sarà una
caratteristica stilistica del brano la presenza di tali iterazioni.
Nella prima strofa del Canto notturno vi è un paragone tra la
vita del pastore e la luna: (“Somiglia alla tua vita/ la vita del
pastore/ . Sorge in sul primo albore,/ move la greggia oltre del
campo, e vede/ greggi, fontane ed erbe;/ poi stanco si riposa in
su la sera:/ altro mai non ispera” vv. 9-15). L’uomo ha una
117
vita sempre uguale a se stessa, poiché che percorre le stesse
strade seguendo il gregge e compie le stesse azioni. Ma egli è al
contempo un uomo che pensa, spera, che si pone domande e
interrogativi. La luna invece segue un corso immutabile, ma
solo perché è un astro naturale che non prova sentimenti o
speranze: la differenza tra la luna e il pastore è quindi
rilevante: mentre l’uomo è mortale, ha una vita breve e
“vaga” (aggettivo centrale nella poetica leopardiana), ossia
incerta e senza una direzione definita, la luna è immortale, e il
suo corso lo è altrettanto perché regolato dalle immutabili
leggi dell’universo.
La seconda strofa descrive con termini crudi l’esistenza
umana: Leopardi paragona la vita dell’uomo alla traversata di
luoghi impervi e difficili, che si conclude, dopo sofferenze
fisiche e dolori dell’animo, con la morte, che sembra dunque
essere una specie di salvezza. Questa idea si può far risalire a
un pensiero dello Zibaldone scritto a Bologna il 17 gennaio
1826: “Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che
con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e
luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo,
alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai
riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a
un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere”
(pp. 4162-63).
dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni
luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec.” (p. 1745).
118
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale (vv. 21-37)
119
Il pastore però presto s’accorge che non otterrà risposta;
la luna infatti è “intatta”, ossia non toccata dalla miseria
umana, poiché non vive nello “stato mortale”. Perciò, di
fronte al silenzio dell’astro celeste, la conclusione è amara,
inevitabile, appena mitigata da un “forse”:
120
pastore pensa invece che la luna possieda tali conoscenze, ma
sa altresì che egli è solo un uomo e non potrà mai veder
dissipati i suoi dubbi. Una cosa soltanto gli appare certa,
incontrovertibile: la sofferenza umana che non smette mai,
come è chiaro dal verso 104:
… Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male (vv. 98-104).
121
disposto e così formato le sue parti, nella cognizione delle quali
cose dee consistere lo scopo del filosofo, e intorno alle quali si
aggirano insomma tutte le verità generali veramente grandi e
importanti, queste cose, dico, è impossibile il ritrovarle e
l’intenderle a chiunque colla sola ragione analizza ed esamina la
natura” (pp. 3338-3339, 23 agosto 1823).
75“Il vocativo si trasferisce dalla luna al gregge con una transizione lirica che
sottende però un passaggio argomentativo. La luna rappresenta una
conoscenza delle cose del mondo priva di angoscia, vergine di souffrance; il
gregge costituisce un’altra ipotesi di felicità, quella della non-conoscenza,
dell’incoscienza beata; ad ambedue le entità, la luna e il gregge, il pastore
oppone il proprio stato di infelicità” (F. Baldini, commento al canto, in G.
Leopardi, Canti, cit., p. 211).
122
uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti
ordinariamente dalla ragione e dall’immaginativa; le quali creano
mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire.
123
noia non meno che dei desiderii (15 maggio 1828).
124
Forse s’avess’iol’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale (vv. 133-143).
125
La quiete dopo la tempesta
Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
con l’opra in man, cantando,
fassi in su l’uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
cella novella piova;
e l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
126
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passegger che il suo cammin ripiglia (vv. 1-25).
127
risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e
la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni non
sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non
essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la
sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar
lungo tempo ec (7 agosto 1822).
128
pensiero del 27 maggio 1829 affine a questi versi: “La natura
non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il
bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perchè chi non
possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi,
patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la
possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità
nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir
meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno” (p. 4517).
Nell’ultima strofa vi è un’accusa diretta alla natura,
ossia a colei che condanna gli uomini a un destino tanto
amaro, reso ancora più crudele dalla innata tendenza
dell’uomo a desiderare la felicità. La natura sparge a piene
mani pene e dolori, e il piacere è una breve parentesi, figlia
come detto della momentanea cessazione della sofferenza. Solo
il dolore possiede esistenza autonoma, mentre il piacere
possiede un’esistenza accidentale. Soltanto la morte, conclude
il poeta, può porre fine a questa dialettica crudele:
129
quiete a Il sabato del villaggio, W. Binni scrive: “non manca ai
due canti più ‘idillici’ un severo nesso con le verità essenziali
giunte a conclusioni essenziali, e la loro poesia pur nasce
sempre da una dialettica di rappresentazione e di conoscenza
inseparabili, e non da un momento di intuizione felice e di
sopraggiunta riflessione intellettualistica, che il quadro e
simbolo concreto della verità e questa sgorga, con la stessa
voce poetica, dal sottile attrito della rappresentazione iniziale
e dalla sua interna rappresentazione”78.
130
Il sabato del villaggio
131
“tornan l’ombre/ giù da’ colli e da’ tetti”, e la campana dà il
segno dell’arrivo della festa. I ragazzini si raccolgono sulla
piazza “in frotta”: il loro baccano è tuttavia “lieto”. Infine, lo
zappatore torna a casa fischiettando, pensando che l’indomani
potrà riposare e smettere il suo duro lavoro. Questa serie di
personaggi e di immagini crea un quadro di lietezza e
tranquillità raramente presente nelle poesie di Leopardi. Ecco
la strofa per intero:
132
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo (vv. 1-30).
133
come per molti altri poeti, “il problema era duplice: da una
parte la sua educazione classicista lo indirizzava verso lo
stereotipo letterario, dall’altra come tradurre quei fiori nella
linea della tradizione, occhiutamente vigilata dai gendarmi
cruscanti?”80. Leopardi tenta di risolvere il problema cercando
un arduo connubio tra la capacità di osservare la realtà hic et
nunc, riproducendola nella sua immediatezza, e il ricorso a un
linguaggio “alto”, classico, spesso petrarchesco, nella
convinzione dello stacco necessario tra il linguaggio poetico e
la lingua quotidiana. Questo “iato” tra i due registri era
giustificato dalla necessità di affrancarsi da una poesia
romantica giudicata non autentica, e dalla volontà di ribadire
l’importanza dello scrivere poetico in uno scorcio di secolo
tutto volto alla ricerca dell’utile, al trionfo della scienza e
dell’economia. Inoltre nello Zibaldone, p. 2304, Giacomo nota
che “I diminutivi sogliono esser sempre graziosi, e recar grazia
e leggiadria ed eleganza al discorso, alla frase ec. Riferite
quest’osservazione alla grazia che nasce dalla piccolezza” (29.
Dic. 1821), intendendo sostenere che la creazione poetica può
ben prescindere dalla precisione scientifica. Nella poesia del
Pascoli vi è invece una forte attenzione ai nomi di erbe e
uccelli.
Tornando alla poesia di Leopardi, si può dire che nella
seconda strofa c’è la descrizione degli ultimi preparativi per la
festa: dopo il crepuscolo, nel silenzio della sera, c’è chi si
affretta a terminare i lavori in sospeso (il fabbro, il falegname)
per finirli prima dell’alba e poter godere del giorno festivo.
Anche queste due figure appartengono al mondo del lavoro, e
sono quelle che, più di altre, potranno godere del sospirato
riposo, che viene a essere una sorta di ricompensa per la fatica
spesa durante la settimana. Anch’esse, tuttavia, si illudono,
134
perché quasi certamente la domenica non recherà rilassamento
e riposo. Nel mettere in risalto queste figure “umili”, Leopardi
intende promuovere un profondo senso di solidarietà, inteso a
superare la concezione di una società basata su una classe
privilegiata che aveva il dominio sugli altri; dal punto di vista
esistenziale, tutti gli uomini, infatti, sono accomunati dallo
stesso destino, che è quello di vivere una vita caratterizzata
dal fatto che “è funesto a chi nasce il dì natale”; l’unico piacere
che l’uomo prova è figlio dell’affanno passato, ovvero il piacere
non è mai raggiunto se non per fugaci attimi nelle temporanee
sospensione della sofferenza.
135
centro della riflessione leopardiana, l’assunto filosofico su cui si
regge l’intera poesia.
Il giorno festivo non farà altro che acuire gli usuali mali
dell’uomo: “tristezza” e “noia”; man mano che le ore
passeranno e che la fine del giorno di riposo si avvicinerà, gli
uomini avvertiranno la labilità e la sconfitta delle speranze
nutrite il giorno prima, l’inevitabilità della tristezza, della
sofferenza e del ritorno della fatica. Per questo il “sabato” è il
giorno più gradito della settimana, dal momento che è “pien di
speme e di gioia”, colmo di promesse e di illusioni; per questo si
può affermare, come si diceva all’inizio, che il sabato è
paragonabile alla giovinezza della vita umana, dal momento
che è di solito l’età delle speranze, delle aspettative, della
illusioni, della felicità promessa. Tale paragone, che percorre
sottotraccia l’intero canto, si esplicita nei versi successivi, nei
quali il poeta si rivolge al giovane che vive lieto, appellandolo
“garzoncello scherzoso” (v. 37), rammentandogli che la sua
giovinezza è simile a “un giorno d’allegrezza pieno, giorno
chiaro e sereno” (vv. 39-40) che lo condurrà alla pienezza della
sua vita, o almeno a ciò che egli si illude possa essere tale
pienezze.
L’ultima strofa conclude il percorso ricordando al
fanciullo di “godere” il più possibile la sua giovinezza, la lieta
stagione della vita, poiché è probabile, se non certo, che sarà
l’unico momento di letizia della sua esistenza. Ma in questa
poesia, a differenza di altre, il momento della disillusione non è
drammaticamente accentuato. Il poeta, infatti, si limita ad
136
avvertire il giovane, senza dirgli esplicitamente che il piacere
non esiste.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave (vv. 43-51)
Infatti, in questo canto è presente pure il momento
positivo dell’illusione, tanto che l’attimo del disvelamento del
vero è più conciso e pacato, meno amaro del solito, e dona a
questo canto una sorprendente unità musicale. “L’io non ha
fatto sentire la propria voce, ma i modi della sua figurazione
pittorica, mentre esprimono il sentimento aereo e fiabesco
della speranza, comunicano anche, per via allusiva, il
sentimento della sua labilità”81. Naturalmente, la strofa
conclusiva è connessa alla teoria del piacere sviluppata da
Leopardi; in particolare, tra le tante, si può citare questa
riflessione contenuta nello Zibaldone (p. 2629, 2), vergata il 2
ottobre 1822: “Da quello che altrove ho detto e provato, che il
piacere non è mai presente, ma sempre solamente futuro, segue
che propriamente parlando, il piacere è un ente (o una qualità)
di ragione, e immaginario”.
137
Il pensiero dominante
138
impostazione frontale delle strofe, nella risoluta forza delle parole
che rilevano e staccano continuamente un presente più sicuro e
pieno, un senso di certezza del proprio valore e della propria
persuasione, vivi nell’inseparabile unita semantica, figurativa e
fonica della parola83.
Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente;
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lúgubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni
di tua natura arcana
chi non favella? il suo poter fra noi
chi non sentì? Pur sempre
che in dir gli effetti suoi
le umane lingue il sentir proprio sprona,
par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona84. (vv. 1-12)
139
continuo, né sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo se non di
rado”. L’amore si presenta subito come un sentimento
possente, capace di allontanare ogni pensiero dalla mente di
chi lo prova: dell’amore si parla sempre, da secoli, e se ne parla
ogni giorno. Chi lo sperimenta non solo dismette ogni altro
pensiero, ma giudica come meno importanti le attività
quotidiane, gli svaghi, la compagnia delle altre persone.
mi par novo”, e l’incipit di una canzone del Convivio “Amor che ne la mente mi
ragiona”.
140
egli si bea della sola contemplazione della passione, della
visione della sua forza, della sua pervasività, della sua capacità
di sconvolgere la vita di una persona, stravolgendo il suo modo
di giudicare il mondo e la realtà:
141
mondo quotidiano, popolato da “codardi” e “alme/
ingenerose” (vv. 53-54), da “questa età superba,/ che di vote
speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtù nemica” (vv. 59-
60). Nulla sembra poterlo turbare, né invidia, né falsità, né
un’epoca tutta volta alla ricerca dell’utile, incapace di rendersi
conto quanto la vita divenga scarna e vuota, e decisa a
disprezzare la poesia, decretandone la morte nell’epoca
dell’industria. Il poeta, rafforzato dal sentimento, disprezza
questo giudizio umano, limitato, e “calpesta” il volgo, nemico
dei pensieri nobili e leggiadri:
142
non è alla portata di tutti: è necessario che la persona non sia
“stolta” e che abbia un “cor non vile”:
143
nessuna verità logica o argomento razionale può spegnere
l’amore:
144
donna è presente in maniera più solida perché il poeta le
rivolge una serie di interrogativi, quasi incalzandola; ma non
sono domande poste per sapere qualcosa, perché la risposta il
poeta la conosce già: essa è implicita in quel che il
componimento ha descritto:
La donna amata è vera: rivederla accresce in lui il piacere e
il delirio, la mania platonica che 1o fa esistere; e dunque la realtà
non incrina e non indebolisce in nessun modo la sua
immaginazione amorosa. Anzi, la trasforma (quasi) in un’idea. Se
Leopardi vede altre donne, gli sembrano immagini dipinte, che
imitano il volto della donna amata, copie di una realtà insieme
reale e trascendente, copie di un modello86.
145
pensiero della donna amata:
87 Ivi, p. 82.
146
Amore e morte
147
frutto”, vv. 80-84). L’amore è pure la fonte del coraggio e della
saggezza (“Né cor fu mai più saggio/ che percosso d’amor, né
mai più forte/ spezzò l’infausta vita, né per altro signore/ come
per questo a perigliar fu pronto”, Amore e morte, vv. 17-21),
ma sa essere anche terribile, generare grande sofferenza e
condurre alla morte: ecco allora che la morte è benefica
allorché “annulla” il dolore dovuto al sentimento non
corrisposto.
La strofa successiva contiene una mirabile
rappresentazione degli effetti dell’amore e della sua
connessione indissolubile con la morte. Un’anticipazione di
tale descrizione può essere rintracciata in un passo giovanile
dello Zibaldone, allorché si legge:
148
Quando novellamente
nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente:
come, non so: ma tale
d’amor vero e possente è il primo effetto (vv. 27-33).
149
desiderio intenso”, arrivando talvolta a invidiare i defunti, chi
muore e “tra gli spenti ad abitar sen giva” (v. 61). Questa
connessione tra il desiderio d’amore e la morte è diffusa tra
tutti gli uomini: infatti, anche “l’uom della villa”, che non
conosce di certo la sapienza, “la donzelletta timidetta e
schiva” (v. 64), può pensare a suicidarsi di fronte a una
delusione d’amore. Per questo, dice Leopardi, “Tanto alla
morte inclina/ d’amor la disciplina” (vv. 74-75). E in effetti,
quando non si può più resistere al dolore causato dall’amore,
sia il “villanello ignaro” che “la tenera donzella” ricorrono al
suicidio, cercando così di porre fine alla sofferenza d’amore ed
evitando il lento decadimento che conduce l’uomo alla
vecchiaia: “Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a
se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo
corpo, dell’appassimento del fiori de’ suoi giorni, della fuga e
della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù”
(Zibaldone, p. 4287,1, 23 luglio 1827).
150
Nei versi 88-95 vi è un’invocazione all’amore e alla
morte, “dolci signori, amici/ all’umana famiglia”, affinché il
fato conceda l’uno o l’altro “Ai fervidi, ai felici,/ agli animosi
ingegni” (vv. 88-89); perché l’amore e la morte hanno un
potere immenso nell’universo, inferiore solo a quello del
destino. Per questo l’autore invoca la morte, chiedendole di
chiudere “alla luce omai/ questi occhi tristi, o dell’età reina”
(vv. 106-107), dal momento che Giacomo sa che per lui la
dolcezza dell’amore è irraggiungibile. Egli tuttavia ama, ma
evidentemente l’amore per Fanny si è già rivelato impossibile,
ed ecco perché c’è questa richiesta alla Morte, che è definita
“bella”, e alla quale Leopardi ricorda d’aver reso un servizio,
rammentandole di averla difesa dalla fama cattiva che il volgo
le attribuisce (“se celebrata mai/ fosti da me, s’al tuo divino
stato/ l’onte del volgo ingrato/ di compensar tentai” vv. 100-
103). Il poeta assicura che si farà trovare pronto
all’appuntamento con la morte, non mostrerà viltà, né
cercherà alcun vano conforto, dato che è solo la morte che
desidera, come unico modo per porre fine alle proprie
sofferenze: “null’altro in alcun tempo/ sperar, se non te sola;/
solo aspettar sereno/ quel dì ch’io pieghi addormentato il
volto/ nel tuo virgineo seno” (vv. 121-124).
L’atteggiamento di Giacomo non è dovuto solo alla
delusione d’amore, ma soprattutto alla stanchezza che
provava per le continue sofferenze fisiche a cui il suo corpo era
sottoposto da anni e che, durante l’ultimo soggiorno fiorentino
si erano acuite: “L’ultimo soggiorno fiorentino del Leopardi fu
una lunga e penosa sofferenza. Il suo corpo, come al solito, e
più del solito, non rispondeva alle sollecitazioni della mente
che, anzi, veniva tormentata, mortificata, avvilita, diremmo
anche umiliata, da un organismo troppo sofferente che ne
151
condizionava il normale lavoro intellettuale”88. La sofferenza
fisica (Leopardi soffrì di oftalmia e di febbri reumatiche) non è
un dramma solo in sé e per sé, ma lo è anche perché priva
Giacomo della possibilità di studiare, di scrivere, di meditare,
di dedicarsi alle relazioni sociali. Perciò la morte viene quasi
attesa, invocata, e Giacomo si prepara ad affrontarla con
coraggio, almeno nelle intenzioni, creando in sé un
atteggiamento filosofico doloroso ma sincero, come scrive nella
coeva operetta Dialogo di Tristano e di un amico: “so che,
malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto
ogni consolazione e ogn’ignanno puerile, ed ho il coraggio di
sostenere la privazione di ogni speranza, mirare
intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna
parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze
fisiche di una filosofia dolorosa, ma vera”.
152
A se stesso
È stata scritta a Firenze prima del settembre 1833 e
pubblicata nell’edizione napoletana dei Canti del 1835: fa
parte del ciclo di Aspasia, rappresentando la fine dell’illusione
d’amore verso Fanny. La poesia, molto breve, è intessuta di
considerazioni amare sul destino dell’uomo, sulla sua assoluta
infelicità, condensate nei versi “Amaro e noia/ la vita, altro
mai nulla; e fango è il mondo” (vv. 10-11), versi terribili e
definitivi, più chiari di tante riflessioni filosofiche elaborate.
La poesia ha una grande tensione esistenziale e non
rappresenta solo la delusione d’amore, ma pure il commiato da
una vita di sofferenza e tedio. È una canzone commovente,
nella quale la retorica lascia il posto al cuore sofferente,
all’uomo deluso, disilluso e pronto alla morte.
153
vanamente e senza requie. Anche la capacità di desiderare
sembra ormai spenta, fiaccata dalla delusione: ma non c’è
alcuna cosa in terra, nemmeno l’amore, ormai, che valga i
palpiti del cuore né i sussulti del desiderio. Il destino dell’uomo
è amaro e nulla si può fare perché esso non sia tale: “Al gener
nostro il fato/ non donò che il morire”, scrive Leopardi. È
tempo di disprezzare tutto: sia se stesso, sia la natura, che è
chiaramente matrigna, sia, infine, il “brutto poter”, quello che
nell’operetta Dialogo di Tristano e di un Amico è definito come
“la misteriosa e coperta crudeltà del destino”.
Questa poesia pare un epitaffio posto sul sepolcro di
Leopardi, come dice Citati, il quale aggiunge: “Di tutto quello
in cui Leopardi aveva creduto – o immaginato di credere –
negli ultimi anni fiorentini non resta più niente. Aveva
immaginato l’amore, il quale perisce. Aveva creduto nella
morte, quella bellissima fanciulla che consolava, sorvolava la
vita terrena, nasceva languidamente in petto … Ora, la morte
non è che l’unico dono del fato: un dono insignificante”89.
Dunque nemmeno la morte è qualcosa che consola. Assieme
all’amore, la stessa speranza della morte consolatrice si è
infranta sugli scogli di un’amara realtà. La conclusione è
amara e non è una novità. Si legge nello Zibaldone a p. 4174:
“Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna
cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male;
l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il
male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale
dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al
male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di
buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose
sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi
che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in
metafisica” (22 aprile 1826).
154
Aspasia
155
ancora viva, poiché il poeta rammenta bene l’atmosfera
primaverile di quel giorno, e l’associazione che subito si stabilì,
nella sua mente, tra quella stagione e l’incontro con Fanny.
Mentre la primavera esprime un’atmosfera quieta e allegra,
legata alla rinascita, l’amante avverte esplodere dentro di sé il
grande tumulto della passione:
156
Così nel fianco
non punto inerme a viva forza impresse
il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
ululando portai finch’a quel giorno
si fu due volte ricondotto il sole (vv. 28-32).
157
della sua mente, l’amorosa idea,
che gran parte d’Olimpo in se racchiude,
tutta al volto ai costumi alla favella
pari alla donna che il rapito amante
vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
nei corporali amplessi, inchina ed ama (vv. 33-45).
158
né di comprendere che l’amato possa sentirsi ingannato dal
raffronto tra la beltà immaginata e quella reale, quella che la
donna gli offre quotidianamente. A questo proposito si legga,
nei Pensieri, la riflessione LXV: “Nessuna compagnia è
piacevole al lungo andare, se non di persone dalle quali importi
o piaccia a noi d’essere sempre più stimati. Perciò le donne,
volendo che la loro compagnia non cessi di piacere dopo breve
tempo, dovrebbero studiare di rendersi tali, che potesse essere
desiderata durevolmente la loro stima”.
159
Nè tu finor giammai quel che tu stessa
inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
che smisurato amor, che affanni intensi,
che indicibili moti e che deliri
movesti in me (vv. 61-66).
Or quell’Aspasia è morta
che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
della mia vita un dì: se non se quanto,
pur come cara larva, ad ora ad ora
tornar costuma e disparir (vv. 70-74)
160
Aspasia è una donna da amare solo perché riflette la bellezza
della donna ideale, di colei che viene vagheggiata. Giacomo la
guardava con desiderio non perché ingannato dalle malie della
donna terrena, bensì perché affascinato da quella “dolce
somiglianza” (v. 87) con la figura celeste dell’amata.
161
volerla più vedere nella realtà, poiché se ne rimarrebbe delusi:
‘Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se
non che questo può qualche volta essere molto più bello e più
dolce, che in quello non può mai’”.
L’ultima strofa della poesia è composta da due temi. Nei
versi 89-112 il poeta riepiloga le fasi del suo amore, ricordando
quanto il suo sentimento fosse totalizzante, tanto da indurlo a
porgere il suo cuore all’amata, a rivolgersi a lei quasi come un
supplice, a tremare di fronte a lei, a spiare con trepidazione
ogni suo gesto e parola, impallidendo o arrossendo
ogniqualvolta ella gli rivolgeva la parola, sempre aspettando
un cenno che potesse ricambiare il suo amore. In questi versi i
patimenti d’amore sono descritti con efficacia, esponendo la
natura ambivalente del sentimento d’amore, il suo essere sia
fonte di piacere immenso sia di totale prostrazione.
162
orba la vita, e di gentili errori,
è notte senza stelle a mezzo il verno,
già del fato mortale a me bastante
e conforto e vendetta è che su l’erba
qui neghittoso immobile giacendo,
il mar la terra e il ciel miro e sorrido (vv. 89-112).
163
Palinodia al marchese Gino Capponi
164
radicali differenze tra le sue idee e quelle di Leopardi ma,
appunto, non tace nemmeno la sua convinzione sulla
mancanza di felicità nel mondo, nonché la sua scarsa fede sulla
sua perfettibilità dell’uomo. Il Capponi non cerca il consenso
di Leopardi, ma “vuole […] confermare un habitus interiore,
un costume di vita, un’attitudine di pensiero che gli sono
abituali e lo distinguono dall’orgoglioso ottimismo che,
nell’ambiente fiorentino, s’accompagna al mito del progresso
liberale”93.
Sin dalla prima strofa il tono della Palinodia è
ironicamente amaro, perché Leopardi dichiara
immediatamente di aver sbagliato: “Errai, candido Gino; assai
gran tempo,/ e di gran lunga errai”, (vv. 1-2): la sua idea che la
vita sia infelice, vana, e che l’età presente sia insulsa, era
quindi scorretta. Avevano ragione i suoi detrattori “dall’Eden
odorato in cui soggiorna”: non è la vita a essere priva di
piaceri, né il secolo XIX a essere insulso, ma è lui, Giacomo, a
essere incapace di provare i piaceri e a pretendere di
trasformare la sua sofferenza personale in qualcosa che
riguarda tutti:
165
rise l’alta progenie, e me negletto
disse, o mal venturoso, e di piaceri
o incapace o inesperto, il proprio fato
creder comune, e del mio mal consorte
l’umana specie (vv. 7-13).
166
fiducia dell’uomo dell’ottocento nel progresso umano, nella
promessa di vivere meglio grazie alla ferrovia, alla fine delle
malattie, ai commerci e all’amore universale. Non solo, dice
Giacomo in chiave ironica: di certo questo secolo prepara
l’avvento di una nuova età dell’oro, nella quale gli alberi
daranno latte e miele mentre l’umanità si divertirà danzando il
valzer:
Universale amore,
ferrate vie, moltiplici commerci,
vapor, tipi e choléra i più divisi
popoli e climi stringeranno insieme:
nè maraviglia fia se pino o quercia
suderà latte e mele, o s’anco al suono
d’un walser danzerà (vv. 42-48).
167
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
in arme tutti congiurati i mondi
fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
il debole, cultor de’ ricchi e servo
il digiuno mendico, in ogni forma
di comun reggimento, o presso o lungi
sien l’eclittica o i poli, eternamente
sarà, se al gener nostro il proprio albergo
e la face del dì non vengon meno. (vv. 85-96)
168
Nonostante ciò, il secolo XIX crede che il semplice
progresso materiale, il raffinamento dei vestiti, l’avvento della
moda, le invenzioni di nuove macchine per viaggiare, se non
addirittura per volare, potrà sollevare l’uomo dalla sua
sofferenza.
169
Leopardi scrive: “Ma viva la statistica! vivano le scienze
economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i
manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva
sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma
ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno
ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei
anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni”.
Ma la fallacia di queste idee di progresso è dimostrata
dall’inesorabile potere della natura, che è definita al verso 170
della Palinodia “crudel”, poiché “il suo capriccio adempie, e
senza posa/ distruggendo e formando si trastulla” (vv. 171-
172). La natura è paragonata a un fanciullo che costruisce, con
“fogliolini e fuscelli” (v. 155) una torre e un palazzo e poi, a
suo capriccio, lo distrugge: com’è possibile, davanti a una
natura siffatta, pensare che l’uomo possa cancellare il male e la
sofferenza, dal momento che questo male non dipende da lui,
ma appunto da una natura malvagia e crudele? Una riflessione
analoga si legge nello Zibaldone (p. 4452):
170
si fa invece un preciso dovere di occultare o di manipolare
sotto pretestuosi sofismi”95. L’uomo spesso si comporta nei
confronti della natura come fa con i fanciulli, ovvero, tende a
togliere di mano alla natura il suo “trastullo”, cercando di
prolungare l’esistenza sua propria o delle cose che gli stanno a
cuore, ottenendo però spesso l’effetto opposto e dando così
involontariamente una mano alla natura (cfr. i vv. 167-172 e
Zibaldone, sempre p. 4452).
Come corollario a questa riflessione la strofa prosegue
con versi intensi, che riprendono in parte gli argomenti de Il
canto notturno di un pastore errante dell’Asia:
171
dell’uomo, il fatto che egli cominci a morire sin quando nasce,
non possono essere emendati dal secolo XIX, né da qualsiasi
altra epoca. Appena giunto al mondo, l’uomo è atteso da una
“infinita famiglia/ di mali immendicabili e di pene” (vv. 174-
176), e sarà “oppresso e spento” dall’“empia madre”, ovvero
dalla natura. Leopardi qui riafferma la sua convinzione
secondo cui l’infelicità è qualcosa che appartiene all’uomo in
modo essenziale; tale verità, benché scomoda, dovrebbe essere
accettata da tutti con coraggio. Ma ovviamente ciò non
accade, perché tale verità sarebbe insopportabile, gettando
nello sconforto l’umanità: per questo gli intelletti del secolo
XIX, “non potendo/ felice in terra far persona alcuna” (vv.
199-200), attraverso i pamphlets e i giornali sbandierano la
possibilità di una felicità comune grazie alla scienza e alla
tecnica. Essi così però ottengono solo uno scopo: ingannare il
popolo e occultare il tragico destino dell’uomo. È qui pungente
l’attacco rivolto agli “eccelsi / spirti del secol mio” (v. 198-
199) i quali “non potendo / felice in terra far persona alcuna, /
l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felicitade”
(199-202). Riprendendo un’espressione che Voltaire aveva
impiegato (bonheur général) scrivendo del terremoto di Lisbona
del 1755, Giacomo sostiene che è impossibile che dal male degli
individui singoli possa risultare un bene universale:
Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per
tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile
il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e
più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des
malheurs de chaque être un bonheur général […]. Non si comprende
come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa
risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal
complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene.)
Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al lor modo patiscono
necessariamente, e necessariamente non godono, perchè il piacere
non esiste esattamente parlando (Zibaldone, p. 4175, 22 aprile
1826).
172
La colpa di questa svalutazione e non accettazione della
condizione umana va addebitata alla filosofia, la quale, nel
secolo XIX, sembra riproporre argomenti e idee che nel secolo
precedente aborriva: quale garanzia può dare una conoscenza
che, quasi da un anno all’altro, muta concetti e opinioni? Lo
stesso sarcasmo si abbatte su un sodale del Capponi (il
Tommaseo, opposto a Leopardi da una antipatia reciproca), il
quale avrebbe consigliato al poeta di abbandonare la
riflessione sui suoi “affetti”, suggerendo di cantare i bisogni
“del secol nostro, e la matura speme” (v. 238). Leopardi non
può che dedicare versi di taglienti a questo consiglio:
173
le meditate e profonde riflessioni di Leopardi sulla gioventù e
sulla vecchiaia, queste considerazioni appaiono di certo come
una totale confutazione della fede in un progresso all’infinito
verso la felicità:
174
laddove il Tristano è un testo satirico solo in parte, la
Palinodia è interamente giocata su quella finzione di base. La
stessa rappresentazione di una natura crudele, che, simile a un
fanciullo capriccioso, crea e distrugge senza posa le sue opere
[…], è recuperata alla struttura satirica dell’epistola con l’ironico
richiamo finale a una ‘comun felicitate’, escogitata dagli ‘eccelsi
spirti’ del secolo per rimediare all’infelicità dei singoli97.
175
Il tramonto della luna
176
che dianzi gli fu duce,
saluta il carrettier dalla sua via; (vv. 12-19)
177
37), ma dal fatto che la decadenza dell’individuo comincia
subito dopo la giovinezza, e che la vecchiaia è “della terribil
morte assai più dura” (v. 43). Il vero male dell’uomo, dunque,
non è la morte, bensì la vecchiaia, perché in essa i desideri si
generano ugualmente, ma è venuta meno la speranza, si sono
disseccate le fonti del piacere e sono aumentate le pene. Nei
Pensieri Leopardi ha scritto queste parole, ponendo tra
vecchiaia e morte un contrasto assai netto: “La morte non è
male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli
toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva
l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta
seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e
desiderano la vecchiezza” (VI). In altre parole, il dramma della
“vecchiezza” consiste in questo: in essa l’uomo avverte di
provare desideri, ma di non essere più considerato come
qualcuno che possa ispirare interessi o sentimenti. Se invece
“fosse/ incolume il desio, la speme estinta,/ secche le fonti del
piacer, le pene/ maggiori sempre, e non più il dato bene” (vv.
47-50), l’età anziana non sarebbe così drammatica.
L’ultima strofa presenta uno spiraglio di luce, ma non
per l’uomo: il poeta infatti sa che le “collinette e le piagge”,
dopo il tramonto della luna e dopo l’alba, verranno illuminate
dal sole che sorgerà: “di lucidi torrenti/ inonderà con voi gli
eterei campi” (vv. 61-62). Questa possibilità, che si ripete ogni
giorno, di ritrovare la luce dopo le tenebre, vale anche per
l’uomo, ma solo per i pochi anni che gli restano da vivere; al
contrario, i colli, i boschi, il mare, la luna, godono di questo
privilegio all’infinito poiché immortali. Per l’uomo invece
arriva presto il momento del buio eterno, della sera a cui non
seguirà nessuna alba. Il destino dell’uomo, dopo la decadenza,
è la morte:
178
d’altra luce giammai, né d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l’altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura (vv. 63-68)
179
La ginestra o il fiore del deserto
180
veduto la ginestra nella campagna romana, città che “fu
donna dei mortali un tempo/ e del perduto impero” (vv. 10-
11), e che ora è decaduta. Ma anche sulle pendici del vulcano la
ginestra, che spicca solitaria nel deserto di lava, è simbolo di
un passato glorioso (quello delle “città famose”, ossia
Ercolano, Pompei e Stabia, distrutte dall’eruzione del 79 d.C.),
perché ora ella spicca in una landa dove un tempo v’era un
biondeggiar di spiche, e risonaro
di muggiti d’armenti;
fur giardini a palagi
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose… (vv. 25-29).
181
Leopardi, serve al poeta per un’amara meditazione sulla forza
selvaggia della natura, tanto da indurlo ad affermare che colui
che è solito esaltare la condizione umana dovrebbe osservare
quelle “piagge” e la potenza della natura che, abbattendosi su
di esse, le ha distrutte. Nel La ginestra Leopardi mette in burla
un verso del cugino Tommaso Mamiani (1799-1855) che, nella
Dedica agli Inni sacri, pubblicati nel 1832, vantava le
magnifiche sorti e progressive del genere umano. Leopardi
oppone a tale vacuo ottimismo lo spettacolo naturale della
distruzione di città un tempo ritenute immortali:
A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla 45
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive. (vv. 37-51)
182
esistenziale; d’altra parte, in questa poesia l’obiettivo politico,
se proprio lo si vuol trovare, non è la Restaurazione, bensì
l’ideologia liberale. Quest’ultima infatti, pur avendo avuto il
merito di opporsi alla restaurazione, ne aveva ereditato
un’ideologia spiritualistica che Giacomo non poteva non
aborrire. Per questo, proprio a causa del recupero dello
spiritualismo, il XIX secolo si mostra, oltre che epoca
sprovveduta, anche incapace d’accorgersi che coloro che a
parole lo lodano, se ne fanno beffe in privato:
183
tentativo di porre l’essere umano al vertice del creato, come
creatura privilegiata, doveva apparire folle a Giacomo.
Traspare qui in modo evidente sia la polemica di Leopardi
contro l’ottimismo romantico, che esaltava la grandezza
dell’uomo, sia la difesa accorata del proprio pessimismo e in
particolare delle teorie sensiste. Egli non ha mai creduto nella
perfettibilità dell’essere umano, nemmeno in gioventù:
184
alla natura che si legge nell’operetta Dialogo della Natura e di
un Islandese: “sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi
propri figlioli”:
185
misantropia, né disprezzo verso gli uomini, ma solo
compassione per il comune destino tragico che li accomuna.
“Ma chi accusava … Leopardi … di misantropia? Erano i
‘nuovi credenti’ … erano non i filantropi del razionalismo
settecentesco, ma gli uomini del nuovo spiritualismo, i filosofi
della nuova filosofia, della filosofia dell’apriori … e ci cattolici
liberali o i liberali cattolici … Erano coloro che avevano
conciliato, o avevano creduto di conciliare, il pio
‘spiritualismo’ e il suo ottimismo provvidenziale con
l’affarismo del mondo moderno”102.
Leopardi stesso afferma che la sua filosofia non è affatto
misantropia, al contrario:
186
nei versi citati sopra, ovvero alla spiegazione del motivo per
cui gli uomini si fanno così spesso male l’un con l’altro. È bene
precisare che, accennando alla fratellanza tra gli uomini,
Leopardi non mostra alcuna velleità politica, ma intende
tratteggiare una condizione che sarebbe oggi ottimale, ossia
quella nella quale gli uomini fossero uniti contro la loro
nemica, ossia la natura, e non danneggiassero invece se stessi.
L’epoca in cui gli uomini erano uniti fu una vera e propria età
dell’oro:
187
loro sfortunata condizione; in tal modo, alleandosi, essi
potrebbero difendersi meglio dagli strali della loro potente
avversaria. L’uomo nobile, perciò, è colui che “costei [la
natura] chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser
pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana
compagnia, / tutti fra se confederati estima / gli uomini” (vv.
126-130)104.
Qualora queste idee fossero recuperate e si diffondessero,
sarebbe di nuovo introdotto fra gli uomini, per mezzo di una
veritiera filosofia, quell’orrore della spietata natura che
anticamente li strinse in un civile sodalizio; solo in questo caso
gli onesti e retti rapporti tra i cittadini (il “conversar
cittadino” = consorzio civile), la giustizia e la pietà avrebbero
basi ben più solide basi che non quelle orgogliose favole che
ipotizzano la superiorità dell’uomo rispetto al creato. Può
essere ricondotto a questa idea il pensiero dello Zibaldone del
13 aprile 1827 che così recita:
188
intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del 20° secolo
(pp. 4279-4280).
angusti destini materiali, da quale soltanto può scaturire una diversa ideologia
per un suo progettato futuro”.
189
argomento si conchiude che l’essenza e natura della società,
massime umana, contiene contraddizione in se stessa; perocchè
la società umana naturalmente distrugge il più necessario
elemento, mezzo, nodo, vincolo della società, ch’è
l’uguaglianza e parità scambievole degl’individui che l’hanno a
comporre” (Zibaldone, pp. 3809-3810, 25-30 ottobre 1823).
Dopo questi versi così carichi di suggestioni, la canzone
prosegue, un po’ stancamente, tornando a evidenziare la
pochezza dell’uomo, la vanità delle sue aspirazioni. Le stesse
espressioni linguistiche impiegate da Leopardi mettono in
rilievo questa idea: “… questo/ globo dove l’uomo è nulla” (v.
171-172), “questo oscuro/ granel di sabbia” ai vv. 190-191 per
definire il mondo, “mortal prole infelice” al v. 199. Tali
immagini negative sono dettate dall’osservazione della landa
da secoli coperta dalla lava, dove ondeggia la ginestra; dalla
visione notturna del mare in lontananza, dalla vista delle stelle
“cui di lontan fa specchio/ il mare, e tutto di scintille in giro,/
per lo voto seren brillare il mondo” (vv. 163-166). Comparato
con l’immensità degli spazi celesti, delle stelle che si
raggruppano nelle nebulose (“nodi quasi di stelle”, v. 176)105 e
che non potranno mai essere conosciute tutte, cosa è l’uomo?
Un nulla appunto, come ugualmente inconsistente è la terra su
cui poggia i piedi, che è paragonata a un granello di sabbia
errante nello spazio. Questa dimostrazione della piccolezza
dell’uomo e del suo mondo è condotta in polemica contro le
narrazioni che cercano invece di porre l’uomo al centro
dell’universo, come fosse l’essere più importante. Benché non
nominata esplicitamente, qui è messa in discussione la stessa
190
religione, come se Leopardi volesse smentire “le assurde
pretese imposte dalla religione per colmare un divario che il
pensiero ‘scientifico’ ha svelato nella sua inconciliabilità con i
bisogni dell’uomo”106. Di fronte a questi pensieri, alla
constatazione della piccolezza e dell’insignificanza dell’uomo a
paragone con l’immensità degli spazi siderali, la “prole”
umana perde valore:
al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo?
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale (vv. 183-201).
191
guardare la realtà senza mistificazioni. Di fronte alla
presunzione dell’uomo d’oggi, il poeta non sa se sorridere,
come si fa di fronte alle idee balzane di un fanciullo o di un
folle, oppure se provare pietà, compatendo la pretesa di porsi
al centro dell’universo e all’apice del creato.
Leggendo questi versi, appaiono lontane le riflessioni
presenti nello Zibaldone scritte il 12 agosto 1823, laddove
Leopardi afferma che il fatto che una creatura come l’uomo,
così piccola e insignificante, sia potuta pervenire a una
conoscenza tanto alta e sviluppata, sia una prova “della
nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente”
(p. 3172). Alla conclusione della sua vita, prevale in Giacomo
l’idea della infinita piccolezza dell’uomo, le cui capacità
conoscitive, benché assai sviluppate a paragone di quelle degli
altri animali, non sono state altro che una condanna, perché
gli hanno rivelato in tutta la sua crudezza e desolazione il
proprio triste e amaro destino. Vengono in mente le
considerazioni scritte il 1 settembre 1826 a Bologna: “Il detto
del Bayle, che la ragione è piuttosto uno strumento di
distruzione che di costruzione, si applica molto bene, anzi
ritorna a quello che mi par di avere osservato altrove, che il
progresso dello spirito umano dal risorgimento in poi, e
massime in questi ultimi tempi, è consistito, e consiste tutto
giorno principalmente, non nella scoperta di verità positive,
ma negative in sostanza” (Zibaldone, p. 4192).
Più avanti, al termine della penultima strofa, ci sono
versi che insistono nel mettere in rilievo la piccolezza
dell’uomo, il suo ruolo marginale nel sistema della natura:
192
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde (vv. 231-236).
193
progresso, l’uomo può essere annientato in un istante dalla
natura, la quale non ha cura di lui più che non ne abbia degli
insetti.
Questa piccolezza dell’uomo è mostrata dalle stesse
rovine di Pompei portate alla luce. La visione della grandezza
passata e delle rovine attuali, la vista verso il Vesuvio e il
Monte Somma (“il bipartito giogo”), fa comprendere all’uomo
la propria vacuità. La conclusione sull’indifferenza e
malvagità della natura non può essere più netta:
194
creato, in quanto creatura capace di guardare con gli occhi il
cielo e le stelle in virtù della stazione eretta. Questa idea era
sostenuta adducendo la differenza esistente tra l’uomo (che ha
la stazione eretta e può ammirare il cielo e le stelle) e gli altri
animali, obbligati dalla natura a guardare solo la terra.
Secondo Leopardi questa convinzione è del tutto fallace, colma
peraltro di arroganza e di vacuo orgoglio, anzi “forsennato”,
come scrive al v. 309. In questa affermazione il poeta sembra
voler contraddire anche la celebre asserzione di Pascal
sull’uomo quale “fuscello pensante”, contrapposto alla
potenza cieca dell’universo.
La ginestra non ha l’orgoglio dell’uomo, la sua fallace
sapienza, la sua arroganza. Per questo è “più saggia, ma tanto/
meno inferma dell’uom”, perché non si è mai illusa che la sua
stirpe fosse destinata a essere immortale, non ritenendo se
stessa creata a immagine e somiglianza di qualche divinità.
195
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
nè sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali (vv. 297-317).
196
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