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MATERIALI DI LETTERATURE NORDICHE

A.A. 2007-08

Prof. Massimo Ciaravolo

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Le letterature scandinave nel Novecento, con commenti alla selezione antologica dei testi
(fotocopie).

INTRODUZIONE

Questa parte storico-letteraria è intesa come continuazione e conclusione del percorso introduttivo alle
letterature scandinave, svolto nel primo anno fino alla grande stagione di fine Ottocento. Cercheremo di
fare fronte a un triplice impegno: 1) considerare i nessi tra l’evoluzione dei sistemi letterari e gli
sviluppi storici, sociali e politici attraverso poche linee, essenziali ma chiare; 2) essere consapevoli,
della pluralità dei sistemi letterari – e linguistico-culturali – che andremo a trattare; avremo sviluppi
non sempre (anzi, raramente) coincidenti o paralleli nelle diverse letterature nazionali delle quali ci
occuperemo, la danese, la norvegese, la svedese e la svedese di Finlandia (già da ora potremmo ad
esempio iniziare a domandarci fino a che punto la letteratura finlandssvensk sia inclusa nel canone
della letteratura svedese e fino a che punto invece rappresenti un canone a sé stante; la domanda non ha
ovviamente una risposta univoca e semplice). A fronte di questo parziale sfasamento tra narratives
nazionali, il nostro sforzo andrà in direzione unitaria, comparatista e scandinavista. Faremo un esercizio
che richiede una consapevolezza anche un po’ ironica delle difficoltà del compito. È infatti vero che
facciamo di necessità virtù: la nostra disciplina nell’università italiana si chiama lingue e letterature
nordiche. Il fatto però che in Italia (come del resto in Germania, nazione guida della scandinavistica, e
altrove) la nostra disciplina includa diverse lingue e diversi sistemi letterari, non comporta solo
complicazioni e perdite ma anche guadagni. Ognuno di noi si specializza giustamente in una lingua e
cultura scandinava. Qui praticheremo un esercizio di confronto, scambio, parallelismo e
contaminazione, cercando di capire come, e fino a che punto, le singole culture contribuiscano a
formare una più vasta unità culturale scandinava e nordica. In questo senso perseguiamo lo stesso
obiettivo del primo anno. 3) Infine il nostro sguardo dovrà abbracciare i tre generi letterari
fondamentali: la prosa, la poesia e il teatro. Un filo conduttore sarà il testo poetico. Appoggiandoci alle
poesie raccolte nelle fotocopie, una piccola antologia, cercheremo di definire un canone della poesia
scandinava nel Novecento, raccontando il decisivo passaggio modernista. Vedremo nella poesia
modernista il superamento delle forme chiuse del verso (rima, regolare disegno strofico e metrico) e
l’affermarsi del verso libero. Nelle lingue scandinave si usa a tale proposito la distinzione tra verso
“legato” e “libero” (s. bunden vers – fri vers; d./n. bundne vers – frie vers). Il verso libero è un
passaggio formale fondamentale. Si tratta tuttavia di un passaggio non sempre radicale e rivoluzionario
ma a volte graduale e progressivo, con sfumature intermedie; soprattutto, il passaggio è sfasato
temporalmente nelle varie letterature nazionali (nell’ordine: svedese di Finlandia, svedese, danese e
norvegese; ci ritorneremo).
Il modernismo sarà un concetto ricorrente anche a proposito del romanzo e della prosa in genere. In
che modo la narrativa scandinava è influenzata ad esempio dalla psicologia del profondo? E dalla
lezione modernista dei grandi maestri europei come Proust, Joyce, Kafka e altri? Vedremo come
neanche i romanzi scandinavi più modernisti e sperimentali abbandonano quella passione per il grande
racconto che risale, come sapeva bene Borges, alle saghe islandesi del medioevo. Ci soffermeremo
2

(sinteticamente) sui grandi romanzieri e sulle principali tendenze di quello che nel corso del XX secolo
diventa indubbiamente il genere letterario più fruito dal pubblico. Molti sono gli autori validi e
interessanti; per chi ama la grande tradizione narrativa scandinava qui ci sono tesori da scoprire. La
nostra analisi del canone del romanzo e del racconto culminerà nella lettura integrale di alcuni classici,
inseriti nel programma d’esame.
Un po’ più in ombra risulterà il teatro. La Scandinavia vive nel Novecento della grande drammaturgia
di Ibsen e Strindberg, un’eredità importante per la letteratura universale. La Scandinavia è ovviamente
all’avanguardia nello sviluppare tale eredità dal punto di vista scenico e recitativo, ma non produce, se
non forse negli ultimi 20-30 anni con lo svedese Lars Norén e il norvegese Jon Fosse, testi teatrali di
livello internazionale. Molti sono comunque i validi autori di teatro, dall’inizio del Novecento a oggi;
cercheremo almeno di menzionarli. Dal teatro, e in intima connessione con il teatro, si sviluppa nel XX
secolo anche la grande arte cinematografica scandinava. Due grandi classici emergono su tutti: il
danese Carl Theodor Dreyer e lo svedese Ingmar Bergman. Del cinema non potremo occuparci, se non
attraverso menzioni sporadiche.
Vista la ricchezza di voci ed esperienze artistiche, correremo il rischio della carrellata di nomi, quella
che menziona senza spiegare troppo. Questa dispensa non è esaustiva ma vuole fornire un primo
assaggio, e uno spunto per approfondimenti e percorsi personali.

GLI SVILUPPI SOCIALI E POLITICI NEI PRIMI DUE DECENNI DEL SECOLO

Il primo Novecento eredita dalla fine dell’Ottocento l’emergere possente dal basso dei movimenti
popolari,1 che chiedono pieni diritti di cittadinanza e di partecipazione democratica alla vita sociale. Lo
spettro è ampio: movimento operaio e femminile, movimenti cristiani e contadini, movimento delle
cooperative, movimento per la temperanza (astinenza dall’alcol), boy-scout e movimenti sportivi.
Questi movimenti diventano un fattore sociale di primaria importanza e, a volte, si organizzano in
partito politico.
In particolare il movimento operaio, in politica la socialdemocrazia, cresce con grande forza e forma
un’alleanza strategica con la borghesia liberale illuminata più o meno radicale (i grandi autori
scandinavi tra fine Ottocento e inizio Novecento sono un’espressione della borghesia radicale: Ibsen,
Bjørnson, Brandes, Strindberg ecc.), e anche con i vasti ambienti cristiani filantropici e progressisti
(una grande rappresentante è Selma Lagerlöf) e con i contadini. L’alleanza tra borghesia progressista e
classi popolari (la classe operaia di recente formazione e i contadini) procede verso la democrazia. Il
principio del parlamentarismo (ossia che il governo, potere esecutivo, debba reggersi su una
maggioranza dell’assemblea legislativa, espressione del popolo), assieme al suffragio veramente
universale, per uomini e donne senza distinzione di reddito, si affermano progressivamente in un arco
di anni che va all’incirca dal 1884 al 1921 (con vari passaggi e scarti temporali per, nell’ordine,
Norvegia, Danimarca e Svezia). Il suffragio universale è un dato acquisito per tutta la Scandinavia dopo
la prima guerra mondiale.2
I paesi nordici conoscono un grande impulso economico, l’industrializzazione, l’urbanizzazione e la
modernizzazione. Si compiono grandi passi in avanti dal punto di vista del benessere e della qualità
della vita individuale e sociale. La modernità è tuttavia anche portatrice di inquietudine; si colgono in
Scandinavia i chiari segnali europei e mondiali che vanno verso la prima grande catastrofe bellica, che
metterà fine tragicamente a quella diffusa euforia progressista (anche nevrotica e cieca) che va sotto il
nome di belle époque. Svezia, Norvegia e Danimarca si tengono fuori dal conflitto, restando
1
Sv. folkrörelser, att röra sig; d. folkbevægelser, at bevæge sig; n. folkbevegelser, å bevege seg; cfr. ted. sich rühren o sich
bewegen per “muoversi”.
2
Per approfondimenti cfr. la dispensa storica di Culture Scandinave, nell’archivio del sito; file denominati “kung-ting”.
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concordemente neutrali. Oltre all’inquietudine, la guerra porta arricchimento e capitali in Scandinavia,


la quale può produrre ed esportare in abbondanza per il conflitto. Svezia, Norvegia e Danimarca si
tengono lontani anche dalla rivoluzione bolscevica russa del 1917. Va detto che la tradizione socialista
nordica è, dalla sua fondazione, pragmatica, riformista e democratica. Il parlamentarismo è una sua
premessa irrinunciabile; i conflitti, che pure non mancano, sono risolti attraverso la mediazione e il
compromesso tra le parti sociali. Anche per questo, oltre che per la tradizionale, secolare ostilità verso
il “Gigante dell’Est”, la Russia, il movimento operaio scandinavo è antibolscevico.
Sul piano legislativo comincia già a delinearsi in questi anni quell’organizzazione dello stato sociale,
rivolta alla garanzia dei diritti collettivi (lavoro, malattia, pensione, infanzia, maternità, istruzione…).
Già prima che i socialdemocratici raggiungano l’egemonia politica (avverrà nella prima metà degli anni
Trenta), essi collaborano, all’interno di governi di coalizione con i liberali e i contadini, all’iniziale
costruzione di quel sistema di capillari tutele sociali che, poi, diventerà il “modello scandinavo”.
Tutto questo non avviene inizialmente in Finlandia; le differenze e i conflitti tra la borghesia e le
classi non abbienti sono troppo profonde per arrivare a una mediazione democratica e parlamentare. La
rivoluzione russa si propaga più facilmente in Finlandia, che conosce il caos e la devastazione di una
guerra civile combattuta nell’inverno tra il 1917 e il 1918 dai Bianchi e dai Rossi. Con la vittoria dei
Bianchi, il paese nasce come repubblica finalmente indipendente (già proclamata nel 1917) e si avvia,
recuperando il ritardo ed rimarginando più profonde ferite, sulla strada del modello sociale scandinavo
già segnata dagli altri paesi. In Finlandia la socialdemocrazia è presente e forte, ma decisamente meno
egemonica che negli altri tre paesi; governa spesso in coalizione con il partito contadino.
La nascita di due nuovi stati nazionali è dunque un dato centrale di questi anni: la Norvegia si stacca
più o meno pacificamente dalla Svezia nel 1905, scegliendo di diventare monarchia, mentre la
Finlandia è una repubblica, finalmente “solo” finlandese, dopo secoli di dipendenza dalla Svezia e un
secolo di sottomissione alla Russia. L’impegno per la costruzione dell’identità nazionale, coinvolgerà
in pieno, come è ovvio, la cultura e la letteratura di questi paesi.

SVILUPPI NELLE LETTERATURE NAZIONALI

Legata ai nuovi sviluppi politici e sociali è una circostanza di carattere culturale: diminuisce nei primi
decenni del Novecento la grande comunicazione interscandinava tra intellettuali e scrittori che aveva
caratterizzato l’età di Brandes, Ibsen e Strindberg. Si manifesta, specialmente in Norvegia e Danimarca,
un bisogno di “consolidamento nazionale”, di ripiegamento su se stessi e le proprie tradizioni. La
Finlandia – terra di confine, di passaggio, di congiunzione e di incontro tra lingue e civiltà diverse –
risulterà invece il luogo più aperto e cosmopolita. Questo sarà decisivo negli anni delle cosiddette
avanguardie storiche, come vedremo.
Intanto possiamo chiederci quale sia l’effettiva presenza dei grandi scrittori scandinavi della fine
dell’Ottocento nella letteratura del nuovo secolo (fot. 1). evidente la presenza di buona parte di quegli
autori sulla scena letteraria del Novecento. Mentre nuove tendenze si affacciano, dunque, la grande
generazione che debuttò nell’ultima parte dell’Ottocento continua ad agire e ad essere compresente nel
sistema letterario. Il norvegese Knut Hamsun e il danese Johannes V. Jensen sono i casi più
emblematici; entrambi vinceranno il premio Nobel (rispettivamente 1920 e 1944). La loro opera
appartiene così sia all’ultimo decennio dell’Ottocento sia ai primi decenni del Novecento. E se la
migliore fase creativa di Jensen termina attorno al 1910, quella di Hamsun, sbalorditiva, continua fino
alla vecchiaia. Il suo ultimo, controverso capolavoro è il diario På gjengrodde stier (Sui sentieri dove
cresce l’erba, 1949), che tocca il fondamentale trauma norvegese del Novecento: i cinque anni di
occupazione nazista (1940-45) e l’adesione al nazismo del più grande autore norvegese vivente. Su
Jensen e Hamsun avremo modo di ritornare.
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Quello che si è definito “consolidamento nazionale” tocca tutti i generi letterari: si rivolge lo sguardo
alla storia nazionale, all’identità e al carattere nazionali, ai paesaggi, alla natura, alle tradizioni, alla
cultura della provincia. Il disagio verso la modernità gioca un ruolo in tutto questo; si teme di perdere i
legami preziosi con il proprio passato, custode dell’identità. Le forme letterarie di questo “ritorno al
passato” sono, tendenzialmente, più tradizionali che innovative.
Intrecciato a questa tendenza, vi è l’emergere delle nuove classi popolari non più solo come oggetto
della rappresentazione letteraria. Se durante il naturalismo di fine Ottocento gli scrittori borghesi
potevano rappresentare il proletariato, più o meno ben disposti verso di esso, la novità del Novecento è
che dalle file del proletariato cominciano ad arrivare numerosi scrittori: scrittori proletari appunto,
autodidatti, senza il tradizionale curriculum accademico, formatisi ai corsi serali del sindacato o nelle
folkhögskolor (n. folkehøyskoler, d. folkehøjskoler), ma soprattutto cresciuti – come dicono loro – alla
grande “scuola della vita”, attraverso il lavoro manuale e fisico, dal quale si emancipano poi per
conquistarsi una funzione intellettuale. anche questa una conseguenza, all’interno del sistema
letterario, dei movimenti popolari sopra descritti, quelli che dal basso cambiano il volto delle società
scandinave del corso del secolo.
Hamsun riassume in parte questi fattori. Il ripiegamento sui valori della terra e della norvegesità pura
(in lui segnale di un percorso conservatore in arte e in politica) trova la sua massima espressione in
Markens grøde (Germogli della terra, 1917). Anche lui, poi, è di origine proletaria e autodidatta, se non
che, a differenza degli scrittori proletari scandinavi (una corrente fondamentale, soprattutto in Svezia a
partire dagli anni Venti/Trenta), egli non ha e non vuole avere coscienza di classe; non rappresenta una
collettività in ascesa ma solo se stesso. il grande individualista, reazionario e geniale, della letteratura
nordica.
Dobbiamo – detto questo – applicare una dose di relativismo. Il “consolidamento nazionale” non vuol
dire la fine di punto in bianco di una cultura cosmopolita. La grande letteratura sa comunque fare
interagire la dimensione locale e provinciale con temi universali (una cosa non esclude necessariamente
l’altra); e la passione nazionale per le radici e la terra può essere conservatrice, ma anche progressista o
“ecologista”. Di fatto, la grande maggioranza degli scrittori scandinavi del Novecento continua a essere
interprete di un umanesimo illuminato e progressista, sia laico sia cristiano. La dimensione nazionale
può combinarsi a un’acuta consapevolezza del mondo moderno, e può persino accostarsi a
un’espressione artistica di tipo modernista, un’espressione ovvero che sente il bisogno di rinnovare o
rivoluzionare le forme della rappresentazione letteraria, il piano dell’espressione, alla luce di un piano
del contenuto che parla di caos, trasformazione radicale, sfaldamento degli antichi valori, rivolgimento
e (anche) distruzione e guerra.

In Danimarca l’opera di Johannes V. Jensen (1873-1950) riassume alcuni elementi che abbiamo
esposto. Unisce la passione per la terra e la povera regione d’origine dello Himmerland, nello Jylland,
rievocata nei racconti Himmerlandshistorier (1898-1910), all’esperienza del viaggio nel mondo e
all’incontro con una realtà moderna senza più apparente senso e direzione (si veda la straordinaria
poesia På Memphis Station, in Digte del 1906). Jensen scrive anche un notevole romanzo storico che è
diventato un classico della letteratura danese moderna, Kongens fald (La caduta del re, 1900-01): nella
caduta di re Cristiano II di Danimarca, colui che deve subire la sollevazione della Svezia attorno al
1520 e la sua uscita dall’unione di Kalmar, e che poi sarà cacciato dal trono danese, l’autore interpreta
il proprio pessimismo storico novecentesco, oltre che la sua passione per la storia, la terra e il carattere
danese. Un bel romanzo purtroppo ancora non tradotto in italiano.
Come l’amico Hamsun, Jensen è un conservatore. Diversamente da Hamsun, esalta la modernità e le
macchine. La tecnologia diventa per lui il segno della superiorità dell’uomo bianco, destinato a
sottomettere le razze inferiori e a governare il mondo. Se la potenza sprigionata dalle macchine e
dall’industria è – nel mondo moderno in cui “dio è morto” – fuori dal controllo dell’uomo, non resta
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che adorare misticamente la macchina, sottomettersi e fare di lei una sorta di nuova provvidenza.
questa la visione che Jensen espone nei suoi saggi e racconti di viaggio in Den gotiske Renaissance del
1901.
Un’etichetta che definisce la letteratura danese nei primi decenni del Novecento è det folkelige
gennembrud, calco di det moderne gennembrud di brandesiana memoria; il termine indica appunto
l’affermarsi di tematiche e di scrittori della provincia, popolari. Si afferma ad esempio tutto un gruppo
di scrittori dello Jylland, come lo stesso Jensen. Non menzioniamo nessuno di questi autori; ma è
importante tenere presente la tendenza. Va anche detto che lo Jylland rappresenta, nell’identità e
nell’immaginario danese, la parte più contadina della nazione e, anche, quella a contatto con la natura
più selvaggia (specie lungo la costa occidentale).
Danese è anche il primo grande scrittore proletario scandinavo, capostipite di un indirizzo che si
affermerà nei decenni successivi, soprattutto in Svezia. Martin Andersen Nexø (1869-1954). Il suo
capolavoro è la tetralogia romanzesca Pelle Erobreren, I-IV (P. il conquistatore, 1906-10). Solo in un
certo senso Nexø fa parte di det folkelige gennembrud, perché quest’ultima tendenza è caratterizzata da
ambientazioni e temi per lo più agresti, provinciali e (anche) antiurbani. La storia di Pelle “il
conquistatore” è invece la vittoriosa storia di emancipazione dell’immigrato dalla campagna che
diventa operaio a Copenaghen: la nuova classe sociale del proletariato industriale è dunque
protagonista del romanzo. Si tratta di un grande epos popolare, realistico e di tendenza radicale.
L’autore aderisce al comunismo e le sue opere avranno fama nei paesi dell’Europa dell’est.

In Norvegia si vive, dopo il 1905, una lunga fase di consolidamento culturale nazionale. In letteratura
questo vuol dire un carattere più ripiegato e meno innovativo. Nel romanzo dominano un realismo
psicologico abbastanza tradizionale e l’interesse per la ricostruzione del passato e degli ambienti
popolari e locali. Nella lirica, come vedremo, si afferma più che altrove un verso tradizionale e
“cantabile”, molto lontano dal modernismo. Un altro importante veicolo di consolidamento nazionale è
il progressivo allontanamento dell’istituzione letteraria norvegese dalla sua base linguistica danese. Se
Ibsen e i suoi contemporanei scrivevano ancora in un dano-norvegese molto prossimo al danese, le
riforme ortografiche del 1907 e 1917 tendono a distinguere il bokmål dal danese attraverso una
maggiore aderenza al sistema fonetico norvegese. Questo processo di affrancamento avverrà, come
vedremo, anche in ambito editoriale, nel corso degli anni Venti..
Nel 1907 debuttano i tre principali romanzieri di questa fase: Sigrid Undset (1882-1949), Olav Duun
(1876-1939) e Johan Falkberget (1869-1967). Undset e Falkberget scrivono in bokmål mentre Duun
scrive in nynorsk. Anche la vitalità letteraria del neonorvegese – in linea con quanto abbiamo visto per
l’Ottocento – è un aspetto importante del consolidamento nazionale.
La Undset, premio Nobel nel 1928, è una scrittrice tradotta e letta in tutto il mondo, anche in Italia.
Oggi la sua opera appare forse un po’ appannata ma è senz’altro meritevole di essere letta e apprezzata.
La Undset è importante perché dà centralità al punto di vista e al vissuto femminile nei suoi romanzi.
Lei stessa madre di famiglia, scrive ritagliandosi spazi “impossibili”, sacrificando le ore di sonno.
Sebbene non sia di idee radicali, quanto più interprete di un umanesimo cristiano (nel 1925 si converte
al cattolicesimo), la sua opera è importante anche dal punto di vista femminista. Comincia scrivendo
romanzi e racconti realistici e psicologici di vita contemporanea. Le giovani donne sono al centro: si
tratta di persone che vivono in pieno la moderna crisi dei valori, donne smarrite tra sogno d’amore e di
famiglia, necessità di lavorare (la nuova realtà sociale delle impiegate urbane, spesso donne sole) e
aspirazioni artistiche. Una raccolta di novelle di questa fase porta il titolo ironico di Den lykkelige alder
(L’età felice, 1908); un romanzo, ambientato a Roma, è Jenny (1911). La scrittrice risponde poi alla
crisi attraverso un percorso che la porta al romanzo storico e alla fede cristiana. Figlia di un archeologo,
la Undset mostra una grande capacità di ricostruzione storica nel suo capolavoro, la trilogia Kristin
Lavransdatter, I-III (1920-22) e nel successivo Olav Audunsson, I-IV (1925-27). Qui è raffigurata una
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Norvegia medievale cristiana del XIII e del XIV secolo (dunque prima della riforma protestante). Su
questo sfondo storico il personaggio di Kristin è, ovviamente, una proiezione moderna, novecentesca.
Sono raffigurati la crisi, il conflitto tra eros e fede, le vicissitudini matrimoniali e poi l’approdo più
sereno grazie alla fede. Dal suo punto di vista cristiano e umanista, la Undset vivrà in esilio durante
l’occupazione nazista ed entrerà in polemica con Hamsun, il collaborazionista.
Duun è considerato da diversi critici norvegesi alla pari di Undset e Hamsun. Questi critici si
rammaricano del fatto che l’autore sia sconosciuto all’estero. possibile che il nynorsk abbia reso più
difficili la mediazione e la traduzione. Il suo capolavoro è l’epos storico e popolare in sei parti
Juvikfolket (1918-23), storia di una famiglia contadina attraverso sei generazioni, dalla fine del
Settecento alla prima guerra mondiale. un’espressione della tendenza paesana nella letteratura
norvegese: la storia locale si unisce alla prospettiva popolare e collettiva, dal basso.
Falkberget, ex minatore e scrittore autodidatta, conquista alla letteratura le battaglie della sua gente e
dei minatori, visti anche qui attraverso la lente del romanzo storico. La sua regione di riferimento è il
Røros, dove è ambientato il suo ciclo romanzesco più famoso, Christianus Sextus, I-VI (1927-35).
Anche qui si esprime solidarietà verso chi viene dal basso, sulla base di un umanesimo cristiano e
socialista.

Per la Svezia nominiamo un solo, grande romanziere, Hjalmar Bergman (1883-1931), un classico della
letteratura svedese moderna che attende ancora di essere pienamente apprezzato e scoperto all’estero.
La sua opera si sviluppa, come quella di molti altri minori a lui contemporanei, dal realismo borghese
ottocentesco, che egli supera in senso grottesco e caricaturale, diventando una straordinaria e acuta
espressione delle inquietudini del primo Novecento. Bergman scrive romanzi e racconti, ma è anche un
importante drammaturgo, che raccoglie e sviluppa l’eredità del teatro del secondo Strindberg, quello
più simbolista ed espressionista. Nel romanzo, Bergman parla di “caricatura” come procedimento per
opporsi al realismo di impianto tradizionale. La caricatura mira a rappresentare una realtà incoerente,
sfaccettata, frutto del capriccio insondabile del caso. L’autore ambienta i suoi romanzi in un personale
universo fictional da cittadina svedese di provincia. Ne risulta un piccolo mondo surreale e grottesco,
trattato con grande stile, ironia, superiore saggezza e anche umorismo. Di fondo c’è però una
concezione tragica della vita: la vita è un capriccio incomprensibile, dove domina una casualità crudele
e beffarda. Il suo romanzo più famoso – finora l’unico tradotto in italiano – è Markurells i Wadköping
(I Markurell, 1919), apparso da noi con una significativa introduzione dello scrittore Carlo Emilio
Gadda, che ne riconosce la grandezza. Bergman scrive altre opere notevoli, come il sorridente racconto
Flickan i frack (La ragazza in frac, 1925) e i romanzi Farmor och Vår Herre (Nonna e nostro Signore,
1921) e Clownen Jac (1930). Amante dell’Italia, residente a lungo a Firenze, Bergman scrisse in
gioventù il romanzo storico Savonarola (1906). Bergman, benestante, ebbe una vita tormentata.
Personaggio difficile, cercò negli ultimi anni di “sfondare” a Hollywood come sceneggiatore per il
cinema, ma fallì.

Anche i giovani scrittori di lingua svedese di Helsinki, in Finlandia, si ispirano al modello della prosa
borghese e aspirano a creare quel “grande romanzo moderno” che manca alla letteratura
finlandssvensk. Questi autori vivono a inizio Novecento diversi fattori di crisi che li fanno sentire
outsider. In primo luogo la minoranza finlandssvensk si sente sempre più schiacciata dall’egemone
cultura finnica; inoltre la Finlandia tutta è oppressa dal regime zarista, particolarmente duro durante i
decenni della “russificazione” (a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento); infine i conflitti sociali tra
borghesia e proletariato sono aspri. Gli scrittori cosiddetti dagdrivare (perdigiorno) assumono una
posizione scettica e, appunto, da outsider. L’idolo letterario che imitano, a volte in modo scoperto e
ingenuo, è lo stoccolmese Hjalmar Söderberg, grande classico della prosa svedese tra fine Ottocento e
inizio Novecento, flâneur, passeggiatore urbano, osservatore disincanto e critico del costume borghese.
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Tra questi scrittori, che operano tra il 1907 e il 1917, si distingue e si emancipa per profondità e
originalità Runar Schildt (1888-1925), che impronta la sua arte alla coscienza della crisi di Söderberg
ma anche a quella del primo Thomas Mann. Proprio del conflitto tra arte e vita, classico tema di Mann,
parla la novella più bella di Schildt, Häxskogen (Il bosco stregato, 1920). Schildt sa rappresentare nelle
sue intense novelle lunghe (a volte quasi dei romanzi brevi) sia la città di Helsinki sia la vita contadina,
anche – con notevoli esiti artistici – negli anni crudeli e caotici della guerra civile. Schildt è sconosciuto
in Italia e piuttosto dimenticato anche in Svezia. O meglio: in quanto scrittore finlandssvensk non è
normalmente incluso nel canone letterario svedese, mentre è un classico della letteratura degli svedesi
di Finlandia.
In questo senso è opportuno riflettere sulla posizione particolare della letteratura finlandssvensk, e
tentare una risposta a quella domanda “lanciata” all’inizio del capitolo. Tra Svezia e Finlandia – intese
come nazionalità, lingue e culture relativamente omogenee e distinte, la cultura degli svedesi di
Finlandia occupa uno “spazio stretto”: condivide elementi con la sfera svedese (la lingua in primo
luogo) ma anche con quella finlandese (la cultura nazionale). E infine ha anche aspetti specifici. Pochi
scrittori svedesi di Finlandia entrano a pieno titolo nel canone della letteratura svedese, i più rimangono
in una posizione di marginalità. Nell’Ottocento Runeberg e Topelius sono centrali anche in Svezia,
come abbiamo visto. Nel Novecento saranno soprattutto due donne a conquistare una posizione
centrale anche nella letteratura svedese: la pioniera della poesia modernista Edith Södergran, che
vedremo tra poco, e la scrittrice di libri per l’infanzia e non, oltre che illustratrice, Tove Jansson. Anche
qui, però, le sfumature sono molteplici. Questa posizione a cavallo tra due semiosfere3 può essere
scomoda ma anche offrire opportunità: chi sta in mezzo, in quello spazio stretto, al margine tra due
culture maggiori ed egemoni, conosce meglio l’arte della mediazione culturale e della contaminazione
reciproca. la lezione, ad esempio, di Bo Carpelan, svedese di Finlandia, poeta, romanziere e traduttore
della seconda metà del Novecento, ancora attivo.

3
un termine del semiotico russo Jurij Lotman: “sfera di segni”, concetto spaziale inteso come insieme di sistemi di segni e
alfabeti condivisi da una comunità. Tipicamente (e semplificando) una lingua e una cultura nazionale sono una semiosfera.
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POESIA NON MODERNISTA NEI PRIMI DECENNI DEL NOVECENTO

La prima fase del modernismo scandinavo si colloca durante gli anni della prima guerra mondiale. Gli
impulsi decisivi provengono, nella Finlandia di lingua svedese, da Edith Södergran e dal gruppo di
poeti e scrittori che si forma sulla sua scia, e dal percorso piuttosto solitario di Pär Lagerkvist in Svezia.
Se gli sconvolgimenti e la grande carneficina di inizio Novecento “mandano in frantumi” l’immagine
del mondo borghese ottocentesco, le avanguardie artistiche europee, con i loro molti ismi (un po’
sintetizzati da “modernismo” in Scandinavia) tentano una risposta sul piano formale. Non si tratta cioè
solo di rappresentare nuovi contenuti e nuove visioni del mondo derivati dalla nuova condizione di vita;
si tratta anche, in modo decisivo, di traslare tale mutamento di prospettiva anche sul piano
dell’espressione: per quel contenuto oggettivamente nuovo sono necessarie anche forme nuove. La
disarticolazione della forma poetica tradizionale – attraverso l’infrazione e il superamento delle norme
tradizionali su rima, metro e strofa, attraverso nuove immagini, un nuovo procedimento associativo più
che logico-discorsivo, una nuova commistione di alto e basso, un attingere dalla psicologia profonda
che proprio la scienza novecentesca metteva in risalto (con la psicanalisi) – doveva servire a
interpretare meglio la condizione dell’uomo nel mondo. Tutto questo va inteso in termini generali,
perché prima, durante e dopo tale rivolgimento modernista continua a vivere in Scandinavia una lirica,
anche di altissimo valore, che, pur accogliendo esperienze e contenuti novecenteschi, resta ancorata alle
forme ereditate dalla tradizione; oppure che attua il passaggio formale in modo graduale e sfumato. Nel
sistema letterario (in ogni sistema letterario) tradizione e innovazione sono dialetticamente
compresenti. Inoltre non sempre tutti gli elementi sopra riassunti vengono accolti nella poetica
modernista dei singoli autori. Per quanto riguarda la psicanalisi ad esempio, essa giocherà un ruolo
importante in Scandinavia solo a partire dagli anni Trenta; non Freud ma Nietzsche è decisivo per la
Södergran, e Lagerkvist rifiuterà la nuova psicologia del profondo, interpretandola (a mio parere in
modo errato) come disciplina fredda che mette gratuitamente a nudo ciò che di più sacro e recondito
vive nell’intimità dell’uomo, piuttosto che come strumento di nuovo umanesimo, teso a restituire
autenticità e integrità a una personalità novecentesca profondamente segnata dal disagio (das
Unbehagen, come lo chiamava Freud).
Quello che cominciamo a presentare ora è dunque un narrative di questo passaggio – a volte graduale
a volte brusco e rivoluzionario. Cercheremo continuamente di mettere in luce il tipo di rapporto che si
instaura, nei testi poetici analizzati, tra il piano del contenuto e quello dell’espressione.
La breve poesia Stadsbarn dello svedese Bo Bergman, tratta dalla sua raccolta di esordio
Marionetterna (1903), presenta due strofe ugualmente rimate (abaaab), di uguale lunghezza. La rima in
posizione a è caratterizzata in entrambe le strofe dal suono å (abbiamo åt e å), che così dà un tono
uniforme a tutta la poesia. Il metro è abbastanza regolare, scandito per lo più da piedi di giambi e
anapesti, e dunque ascendente; tuttavia una nota decisamente prosaica (che appartiene anche al piano
del contenuto) caratterizza il ritmo, rompendone ogni tanto la regolarità. Un procedimento (in uso
almeno dal Cinquecento) per “spezzare” la regolarità ritmica e la scansione del verso è l’enjambement,
detta anche spezzatura in italiano. Quando il poeta scrive “Jag älskar novemberdagens grå / förtvivlan”,
egli infrange quella regola della poesia per cui all’unità del verso corrisponde un’unità sintattica e di
senso; il senso “scavalca” dunque la pausa indotta dal nuovo verso (e infatti enjambement vuol dire
“scavalcamento” in francese, e si dice anche överklivning in svedese). Come sappiamo, il nesso
aggettivo–sostantivo è uno dei più forti nelle lingue germaniche, e grå / förtvivlan, grigia /
disperazione, sono dal punto di vista semantico tra le parole più cariche della poesia. Sta ovviamente
solo al lettore e alla sua personale esecuzione del testo (a voce alta o con la lettura muta) decidere se
collocare la pausa al cambio di verso o alla fine dell’unità di senso; e proprio in questa voluta tensione
sta il gioco della spezzatura. Se osserviamo attentamente la poesia rileggendola, notiamo che il gioco
dell’enjambement è ripetuto. Questo dà una certa dinamicità al testo, che pure sembra cogliere un
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momento prosaico e dimesso, notturno e quasi immobile del paesaggio urbano. La città infatti è
apparentemente immobile: la nebbia notturna si trascina, una nave scivola sull’acqua, il cuore delle
fabbriche batte, la carrozza a cavallo va, le foglie stanno cadendo (è novembre), turbinando come in
una danza. Diverse parole caratterizzano l’atmosfera come grigia, notturna, malinconica, triste, persino
angosciante e spettrale. Eppure compare nella poesia un soggetto lirico che per due volte apre la strofa
con Jag älskar; egli ama quel luogo, è il suo; lì si sente a casa, non è alienato o spaesato. Il toponimo
Mälarn ci dice anche che non stiamo parlando di una città qualsiasi ma di Stoccolma, posizionata allo
sbocco del lago Mälaren nel Mar Baltico. Le parole che descrivono la città colgono un momento di
passaggio di Stoccolma, tipico degli anni a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento. Stoccolma
era una piccola capitale che si avviava a diventare grande città: ci sono già le fabbriche, con il loro
cuore che non si ferma mai, ma non sono ancora scomparse le carrozze a cavallo, simbolo dell’idillio
urbano preindustriale. E chi è quel “solitario brandello di uomo” su cui si chiude il componimento,
attraverso la movenza delle foglie che cadono? Forse lo stesso io lirico, colto nel suo spleen?
Bo Bergman (1869-1967) scrive poesie dal 1903 fino a oltre la metà del secolo. È amico di Hjalmar
Söderberg e vicino alla sua poetica urbana; per entrambi la città di Stoccolma è al centro, osservata con
uno sguardo spesso malinconico, scettico e disincantato, che riprende le movenze del flâneur
baudelairiano, il passeggiatore parigino. Questo tono fin du siècle è mantenuto da Bergman fino alle
ultime poesie. Il titolo della sua raccolta di esordio, “le marionette”, si riferisce a una condizione
esistenziale dell’uomo interpretata alla luce del crollo delle illusioni metafisiche, del nichilismo e dello
scetticismo. Il determinismo darwiniano suscita crisi e sospensione. La grande città in versi vuole
anche dire l’ingresso di una realtà prosaica, umile e nuova in poesia (è la straordinaria lezione di
Charles Baudelaire); implicitamente, all’interno del canone svedese, ciò costituisce un “controcanto”
rispetto alla tradizione agreste dei maggiori poeti della fine dell’Ottocento (Fröding, Karlfeldt e
Heidenstam). La poesia della natura continuerà a essere un canone fondamentale della poesia
scandinava del Novecento, ma Bo Bergman segna, con la sua Stoccolma, una novità.
Una simile relazione tra percezione della modernità a fronte di una forma non ancora modernista4 si
percepisce nella poesia Gaden dell’autore danese Emil Bønnelykke. La poesia consiste di un’unica
strofa rimata (aabbccc). Qui il movimento urbano, a differenza di Stadsbarn, è vorticoso e diurno. Il
tram ha sostituito la carrozza a cavallo. Tale movimento non dissolve tuttavia, sul piano formale,
l’impianto metrico-ritmico tradizionale, costruito a volte su un ritmo discendente, con trochei e dattili
(come nel primo verso), a volte su un ritmo ascendente, con giambi e anapesti (come nel secondo). I
sostantivi e i verbi usati ci suggeriscono comunque un’atmosfera “futurista”; sembra di vedere il grande
meccanismo in movimento della città moderna così come viene magicamente evocato dal cinema muto
di quegli anni (la poesia è del 1917). Tutto è un vortice (osservare nel terzo verso il participio presente
in funzione di aggettivo hvirvlende e il participio passato, pure in funzione di aggettivo, omhvirvlede).
Il ritmo incessante della grande città è suggerito alla fine dalla triplice allitterazione in k: kl- / kl- / ki-.
Anche la ripresa quasi identica del primo verso nell’ultimo sta a suggerire l’incessante circolarità del
movimento urbano. Come in Stadsbarn, anche in Gaden la città, col suo movimento moderno, è
profondamente amata: den elskede Gade, som gennem mig gaar… L’io lirico, attraverso la cui
percezione ci viene presentata la città in movimento, appare tre volte: gennem mig, mit Hjerte, mit
Mæle; la città attraversa dunque il soggetto, percorre il suo essere e determina anche la natura della sua
lingua e della sua voce: la molteplicità, la simultaneità, la compresenza della massa riempiono il cuore
del soggetto poetico e gli forniscono nuove parole che, assolutamente prosaiche, diventano poesia e
ritmo poetico: Folk og Butikker, Markiser, og Fodtrin paa Fliser. Questa musica e questo ritmo, che

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Si osservi la distinzione tra i due termini che, per altro, hanno un vasto spettro semantico e non sono univoci. Qui
intendiamo modernità come un processo storico-sociale, indotto dall’età delle macchine e dell’industria, e modernismo
come la risposta diretta o indiretta a tale processo sul piano delle forme artistiche e delle modalità espressive.
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appartengono indissolubilmente alla sostanza dell’espressione danese, si perdono ovviamente nella


traduzione italiana – una traduzione “di servizio” e solo semantica.
Emil Bønnelykke (1893-1953) è uno tra i primi poeti danesi che recepiscono le suggestioni delle
avanguardie europee, in particolar modo del futurismo, nella sua esaltazione della velocità, della
tecnica e della macchina. La sua prima raccolta del 1917, da cui è tratta Gaden, si intitola
eloquentemente Ild og Ungdom, fuoco e giovinezza. Dopo la prima grande guerra Bønnelykke
partecipa alla rivista d’arte e letteratura Klingen (la lama), che raccoglie e divulga in Danimarca i
messaggi e le forme espressive delle avanguardie (futurismo, espressionismo, cubismo). Bønnelykke
conosce il suo periodo migliore come poeta in questi anni (1917-22), ma la sua poesia è, come abbiamo
visto, caratterizzata da forme ancora tradizionali. La modernità riguarda più i contenuti.
Un esempio di come l’ambiente urbano moderno, e la strada quale spazio collettivo e sociale, abbiano
conquistato la poesia viene anche da Kommunismen kommer til Danmark del danese Jens August
Schade (1903-78). Anche questa poesia segue forme ancora “legate” e chiuse: in primo luogo legate
dalla rima, che nelle due strofe è abab cddee. Anche qui, come nella poesia di Bo Bergman, un
toponimo – Vimmelskaftet – ci indica indirettamente il luogo: siamo nel centro di Copenaghen. Anche
le rivoluzioni (nella fattispecie la rivoluzione bolscevica) furono, con le guerre, un fattore di
sconvolgimento nella percezione del mondo del primo Novecento. Schade tratta la cosa con umorismo
e (auto)ironia; in Danimarca tutto è fortunatamente più civile e attutito, e il massimo del disordine è un
po’ di traffico. Rolig (tranquillo) nell’ultimo verso è un aggettivo che connota tipicamente la danskhed
(la danesità, il carattere danese) e il suo modo di vedersi (selvforståelse). Come si è detto, la
socialdemocrazia dei paesi scandinavi prese le distanze dai metodi rivoluzionari del bolscevismo.
Schade debutta nel 1926 ed è scrittore prolifico, autore di poesie, romanzi e drammi. Sorridente,
irriverente e bohemien, canta l’amore universale e l’eros anche nel suo aspetto trasgressivo e
liberatorio. In tal senso anche il surrealismo e la psicanalisi entrano nella sua poesia nel corso del
Novecento, portando a esperimenti formali che si allontanano dalle forme tradizionali. Qui troviamo
una poesia politica sui generis, che mette in evidenza la musa sorridente e canzonatoria di questo
classico della poesia danese.
Dopo tre poesie che rappresentano la realtà moderna e prosaica del marciapiede urbano, passiamo ora
a una lirica di inizio Novecento che ritorna volutamente a una forma classica e a una dizione alta,
tendenzialmente “difficile” e per pochi: Beredelse di Vilhelm Ekelund (1880-1949). Abbiamo una
poesia apparentemente senza tempo, nella forma classica del sonetto, con due quartine e due terzine
rimate di cinque piedi giambici (normalmente) – o, in italiano, di endecasillabi. Qui il disegno della
rima è abba cddc eef ggf. Leggendo il testo nell’originale (la traduzione è di servizio e solo del piano
semantico) riconosciamo quasi istintivamente, per eco e reminiscenza, una forma poetica centrale nella
lirica italiana, da Dante all’Ottocento. La cosa particolare è che il sonetto è una forma insolita ed
“esotica” nella lirica svedese, sebbene il metro giambico ben si adatti anche a quella lingua. Ekelund
mostra la sua perizia nel sapere adattare, piegare il suo idioma a quella forma eletta; la poesia in
questione è dunque molto metapoetica, parla appunto (anche) della capacità del poeta di costringere la
sua lingua, per costringere il suo spirito: la disciplina formale è correlativo oggettivo della disciplina
spirituale anelata.
Ekelund, proveniente dalla Scania, è figura grande e solitaria della letteratura svedese. Scrive tutte le
sue raccolte di poesia in pochi anni (1902-06). Qui introduce tra l’altro il verso libero, ad esempio con
belle poesie sulla natura di casa, ma riprende anche, come in questo caso, forme chiuse e classiche. Poi
abbandona del tutto la poesia per dedicarsi a straordinari, intensi libri di saggi poetici e aforismi.
Cultore della poesia italiana, scrive tra l’altro un bel saggio su Leopardi, un’anima affine. Ekelund vive
il disagio della modernità, anzi, il disgusto verso un mondo moderno secondo lui sempre più degradato
e orribile. Vive per dieci anni a Berlino, “orgia del cattivo gusto”, “congresso di macellai”. Ma la
bruttura metropolitana gli serve come “trampolino di lancio” per il suo culto della bellezza salvifica.
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Poesia, saggi e aforismi sono per Ekelund un esercizio stoico. Egli comunica con i grandi spiriti poetici
e filosofici del passato a lui affini; il suo atteggiamento stoico-tragico ricorda il superuomo di
Nietzsche, e infatti la lettura di Nietzsche e della poesia simbolista europea sono importanti per lui. La
dimensione colta e aulica si ritrova in Beredelse: la poesia è un esercizio spirituale quasi religioso
(andakt). La solitudine è musa, l’elevazione dal vardagsgrått l’obiettivo. L’idealismo trapela dalla
quantità di parole che indicano spirito, anima, elevazione. C’è un’idea di rinascita attraverso la poesia
(osservare gli avverbi che indicano rinnovamento). Anche le immagini acquatiche (acqua, fonti,
rugiada) stanno a indicare la rigenerazione. La poesia è un inno alla solitudine, all’elevazione come
liberazione e purificazione dal dolore. Il fascino della lirica di Ekelund è la sua natura aristocratica ma
anche autentica, vissuta e sofferta. Notiamo anche che il paesaggio naturale (le fonti) è totalmente
interiorizzato, diventa – come spesso in poesia – “paesaggio dell’anima”. Questo procedimento sarà
importante anche nella lirica modernista (ad esempio nella Södergran, che vedremo tra breve). “Till
hymn du åter lösta anden tvingar”: lo spirito liberato – questo ci mostra la poesia – deve essere
nuovamente disciplinato e costretto. Per Ekelund è importante il dominio del dolore e della disarmonia
attraverso la disciplina formale, che si tratti, come qui, di sonetto o di verso libero.

La lirica norvegese dei primi decenni del Novecento è quella più impermeabile a forme e contenuti
moderni. In parte la circostanza è spiegabile con il cosiddetto “consolidamento nazionale”: bisognava
trovare un proprio tono lirico, una propria voce; e questo avviene in forme e contenuti molto
tradizionali. Paradossalmente, proprio la Norvegia aveva dato alla Scandinavia il precursore del verso
libero e della poesia modernista, Sigbjørn Obstfelder. Ma il suo cosmopolitismo, la sua sensibilità verso
lo spazio urbano, la sua visione piena di sbigottimento (come in Jeg ser, dove un’umanità “caduta” a
terra, è priva di punti di riferimento), il suo verso libero non rimato, il ricorso all’anafora non diventano
un’eredità viva, se non dopo che il primo vero teorico del modernismo poetico norvegese (nonché
poeta), Jan Erik Vold, lo riprende negli anni Sessanta, considerando lui il vero padre della moderna
poesia norvegese. Il canone della poesia norvegese, quale si definisce nella prima metà del Novecento,
è tuttavia un altro e i suoi rappresentanti sono Herman Wildenvey (1886-1959), Olaf Bull (1883-1933)
e Arnulf Øverland (1889-1968).
Wildenvey debutta nel 1907 e scrive fino agli anni Cinquanta poesie molto popolari, leggere,
cantabili e tradizionali nella forma e nei contenuti. Bull, considerato il maggiore poeta norvegese della
prima metà del secolo, debutta nel 1909. In Mot solen, come nella poesia di Ekelund, troviamo una
forma chiusa e un tono alto ma, a mio parere, espressi in termini molto più convenzionali e senza la
maestria di Ekelund. Le terzine, rimate aba, si susseguono con ritmo regolare; l’unità del verso
corrisponde per lo più a un’unità sintattica, tranne qualche caso di enjambement; eppure il
componimento si avvicina, anche nelle sue immagini “poetiche”, alla logicità discorsiva della prosa.
Viene presentato il motivo eterno della poesia che eleva dai dolori della vita, fornendo una sorta di
ricompensa superiore, una sublimazione, ad esempio delle infelici passioni amorose. Lo schema
idealistico e romantico vede il volo, l’elevazione e la leggerezza contrapposti alla gravità, lo spirito
contrapposto al corpo. Tale elevazione indica ancora, metapoeticamente, la poesia stessa: et dikt, su cui
il componimento si chiude.
Da questa poesia di Bull appare chiaro come il canone poetico norvegese della prima metà del
Novecento sia il più lontano dal modernismo. Anche Øverland e Hagerup, che vedremo più avanti con
le loro poesie scritte durante l’occupazione nazista del paese (1940-45), confermano il carattere
tradizionale, per quanto corale e cantabile, della poesia norvegese.
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LO SCARTO DALLA NORMA DELLA POESIA SVEDESE DI FINLANDIA

Tra le avanguardie artistiche del Novecento figurò come è noto anche il futurismo russo. Nello stesso
fecondo clima culturale si svilupparono le teorie sulla poesia e la letteratura dei cosiddetti formalisti
russi. Complessivamente si trattò di un fermento culturale contestuale alla rivoluzione d’ottobre; esso
durò per un quindicennio circa, dal 1914 fino alla fine degli anni Venti. La fine di tale creatività nella
poesia e nella teoria letteraria ebbe a che fare con l’irrigidimento della rivoluzione russa in dittatura
totalitaria; le cose cominciarono a farsi difficili già da quando Stalin, nel 1924, conquistò il potere.
Concetti ricorrenti nella teoria dei formalisti sono lo “scarto dalla norma” e lo “straniamento”. Il
compito della poesia è, secondo questa prospettiva, quello di opporsi ai procedimenti discorsivi che,
con i loro automatismi derivati dall’uso, tendono a logorare e appiattire la lingua. La poesia invece
deve innovare, turbare e sorprendere; è questo il suo compito. Si tratta evidentemente di una poetica
vicina alla poesia futurista che contemporaneamente si sperimenta.
La poesia finlandese di lingua svedese di quegli stessi anni accolse, per quanto in modo indiretto,
questi stimoli. Dico in modo indiretto, perché la cultura nordica tendeva e tende a distanziarsi dalla
cultura russa, piuttosto che cercare dei legami con essa. Eppure la Finlandia e il Baltico orientale
furono anche un gran crogiolo di lingue e razze e San Pietroburgo era davvero poco distante.
Edith Södergran (1892-1923), la madre del modernismo poetico in Scandinavia, può essere
considerata un esempio di “scarto dalla norma” del tutto naturale, persino involontario, dato dalle
circostanze. La sua formazione culturale è un frutto del crogiolo baltico di cui si è detto. È finlandese di
lingua svedese e vive in Carelia, poco distante da San Pietroburgo (con la seconda guerra mondiale
quella regione della Finlandia orientale passa all’URSS/alla Russia). Frequenta la scuola tedesca di
San Pietroburgo e in quella lingua scrive buona parte delle sue poesie giovanili. L’esperienza del
plurilinguismo è dunque centrale: oltre allo svedese e al tedesco, Edith parla il finnico, il russo, il
francese e anche un po’ d’italiano. Altro dato di fatto è l’obbiettivo decentramento linguistico-culturale
rispetto alla Svezia.
La vicenda personale della Södergran è dolorosa. A scuola, a San Pietroburgo, percepisce i fermenti
della vita culturale (nonostante legami piuttosto deboli con la cultura russa); ma a 16 anni si ammala di
tubercolosi. Trascorre così periodi nei sanatori svizzeri, ma lei e la madre perdono tutti i loro averi con
la rivoluzione. Sull’orlo dell’indigenza, Edith vive isolata con la madre a Raivola, un piccolo paese
della Carelia, dal 1918 al 1923, quando muore a trentun anni.
La Södergran rivoluziona la poesia di lingua svedese con cinque raccolte, tra il 1916 e il 1925
(l’ultima raccolta, Landet som icke är, esce postuma). Ella arriva allo svedese, la sua lingua madre,
quale suo idioma poetico dopo avere scritto poesia in altre lingue: tedesco, francese e russo. Dagen
svalnar del 1916 è la sua poesia più nota. È una lirica forte, di notevole impatto emotivo, scandita in
quattro sequenze staccate, che raccontano di un amore tra uomo e donna, o meglio del vissuto
soggettivo di un io lirico donna di fronte a un tipo – dominante – di amore e di posizione maschile. Il
verso è libero e senza rima. Le strofe hanno forma e misura differente, irregolare. Non c’è nessuna
apparente regolarità neanche nella metrica e nella lunghezza dei versi. Tuttavia non manca il ritmo, e
questo ritmo cadenzato e ripetuto si concentra nell’ultima strofa, quella emotivamente più incisiva.
Ricorre nella poesia il contrasto tra freddo e caldo. Fa freddo quando scende la sera, eppure le
emozioni coinvolte sono cocenti e vibranti. La prima strofa segnala da parte della donna un’offerta di
avvicinamento, di vicinanza all’amato. Nella seconda strofa la vicinanza diventa già dominio maschile,
oppressione e gesto violento (du kastade). La testa (huvud), che nella prima strofa figurava in un
contesto affettivo e intimo, subisce nella seconda strofa il peso dell’oppressione maschile del
dominatore e signore (härskare più avanti herre), piegandosi. Nella terza strofa la vicinanza diventa
distanza e abisso incolmabile: dalla seconda persona l’interlocutore maschile passa alla terza. Il
contrasto tra pesantezza e leggerezza ritorna ancora alla testa, che il soggetto femminile sente di volere
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rialzare. Il fragile sogno si infrange contro la dura realtà dei rapporti. La quarta strofa, che pure
mantiene apparentemente un tono trattenuto, pacato e oggettivo, come di una constatazione, è un forte
atto d’accusa: tu, uomo, non hai saputo vedere l’anima (själ); la vastità del mio mare, della mia
dimensione interiore, ti ha spaventato e “deluso”.
È il racconto di un vissuto tipico e perfino convenzionale in poesia: la fine dell’illusione d’amore.
Ciò che non è convenzionale è la prospettiva femminile e lo “scarto dalla norma” rispetto a quanto era
considerato comunemente lecito in poesia. Frasi come ad esempio Drick värmen ur min hand / min
hand har samma blod som våren sono ardite e non convenzionali. Oppure il procedimento di
straniamento della Södergran può passare attraverso immagini ultraconvenzionali – come din kärleks
röda ros – inserite in un contesto che le “strania”, rendendole inconsuete e poetiche: du kastade din
kärleks röda ros / i mitt vita sköte. Così come inconsueto e poetico, per le implicazioni emotive, risulta
l’ultimo verso, che invece è, nella lettera, un enunciato assolutamente prosaico e standard (du är
besviken). Ecco come la Södergran realizza lo scarto dalla norma e lo straniamento teorizzato dai non
lontani formalisti russi: a volte crea immagini nuove, a volte rende “inaudite” frasi e immagini note e
logorate dall’uso. Dagen svalnar concentra così alcuni procedimenti importanti del modernismo
poetico scandinavo, che riassumiamo: infranta o assente la regolarità metrica e strofica; ritmo libero;
assenza di rima; nuove immagini (o vecchie immagini straniate); nuovo vocabolario (il prosaico in
poesia); ampliamento dei motivi verso la soggettività, il profondo e la psiche; procedimento per libere
associazioni più che per un ordine logico-discorsivo. I “salti” da una strofa all’altra danno quasi l’idea
di immagini oniriche.
La novità che disorientò e scandalizzò i contemporanei e la dominante cultura maschile fu anche
questo tuffo della Södergran nella dimensione soggettiva e profonda e la rivendicazione di una
soggettività specificamente femminile. Tale posizione ha fatto scuola nella lirica nordica del
Novecento, dove la voce femminile diventa sempre più importante e forte (noi vedremo alcune di
queste voci).
L’altra poesia della Södergran, Förhoppning, è scritta nel 1918 e pubblicata nella raccolta postuma
del 1925. Se è vero che la nota dominante della sua lirica è malinconica e anche disperata, la Södergran
è anche uno spirito indomito, capace di allegria e irriverenza beffarda. In entrambi questi atteggiamenti
è importante per lei la conferma di Nietzsche, la cui lettura sostanzia in modo decisivo la sua poesia;
Nietzsche le dà la forza di affrontare con coraggio ed eroismo stoico un destino tragico (e anche per
questo motivo la Södergran sente una certa vicinanza con la poesia di Ekelund). In questa poesia
l’immagine inconsueta della poesia come lievito riesce a veicolare tanto gli aspetti concreti e prosaici
(impastare il pane) sia quelli più idealistici e spirituali (salire, sfidare la materia e la gravità). Il
“concretismo” sarà per altro uno dei procedimenti tipici del modernismo scandinavo più recente, quello
degli anni Sessanta. Osserviamo la sfida ai “nobili stili” della tradizione che la poetessa affronta in
maniche di camicia, come una brava fornaia. L’impasto-cattedrale è così concretissimo e nel contempo
indice di un’ambizione spirituale che vuole tendere al cielo. Lo spirito è il lievito della nostra
materialità; ciò che ci permette di tendere in alto. Eppure lo spirito della Södergran non ha un guscio
adatto; lo spirito sfida e oltrepassa la materia e la morte (innan jag dör): la sfida alla morte ricorre
spesso nella poesia della Södergran. Appare evidente il legame della poetessa con l’idealismo
filosofico tedesco e la sua tensione all’assoluto; ma è altrettanto evidente l’abito modernista di questa
disposizione: la massaia che fa il pane.

Il modernismo finlandssvensk diventa movimento perché sulla scia della Södergran, la pioniera che
lancia il segnale, si forma un gruppo. Dobbiamo ricordare alcuni autori importanti – anche se qui non
potremo approfondire molto il discorso sulla loro opera. Hagar Olsson (1893-1978) è l’altra donna, il
critico e la divulgatrice delle idee della nuova poesia, oltre che autrice di prose e romanzi. Ha un
legame personale con la Södergran, pubblica l’epistolario tra loro due, che è una fonte importante per
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conoscere l’opera e la personalità della poetessa careliana. Elmer Diktonius (1896-1961), è il poeta che
assieme alla Olsson cura la rivista Ultra (1922), scritta in svedese e finnico, il primo organo della
poesia modernista. Gli altri due poeti sono Gunnar Björling (1887-1960) e Rabbe Enckell (1903-1974).
Mentre il modernista che più ha contatti con la cultura russa e il formalismo è Henry Parland (1908-
1930), di madrelingua svedese ma di origine baltica. Diktonius, Björling, Enckell e Parland lavorano
anche per la seconda rivista Quosego (1928/29), scritta solo in svedese. La Södergran, isolata e malata,
ha contatti sporadici con i suoi seguaci, che comunque la fanno sentire meno sola. I modernisti sono
osteggiati dall’istituzione letteraria dominante ma dagli anni Trenta cominciano a entrare nel canone
letterario svedese, sia in Finlandia tra i finlandssvenskar sia in Svezia. Le novità per una cultura, come
sottolinea giustamente Lotman, arrivano spesso dalle aree periferiche, le più instabili e aperte al nuovo
e al contatto con l’altro; da qui, esse muovono per conquistare il centro. I modernisti daranno
un’impronta imprescindibile a tutta la lirica finlandssvensk; nell’ultima parte del corso leggeremo Tua
Forsström, poetessa svedese di Finlandia che rappresenta oggi lo sviluppo di quell’eredità poetica.
Anche in Svezia compaiono dagli anni Trenta diverse generazioni di poeti modernisti, che si rifaranno
sempre, più o meno direttamente, a questo primo nucleo.
Vediamo un paio di brevi poesie di Björling, il più sperimentale e dadaista dei modernisti. Björling
arriva a scardinare le regole della grammatica e della sintassi svedese. Per questo viene considerato a
lungo “pazzo” e “incomprensibile”. Ma è così incomprensibile Hela världen längar fred? Il messaggio
è chiaro: scritta nel pieno della devastazione bellica, la poesia è una preghiera di pace, esprime un
desiderio universale di pace. La poesia comprende lo sguardo su ciò che è stato, il momento presente e
ciò che potrà essere in futuro. Noi auspichiamo la pace ma non dobbiamo dimenticare chi è morto o chi
sta morendo ora. La memoria è un valore ma gli uomini, purtroppo, dimenticano presto. L’esplosione e
la frammentazione linguistica rendono sul piano dell’espressione, forse meglio di ogni contenuto, il
senso di distruzione di quegli anni. Anche l’uso transitivo del verbo längta (längtar fred) è uno scarto
dalla norma grammaticale, poiché in svedese si dovrebbe dire längtar efter fred. Oppure si può
interpretare la sintassi aperta e incompiuta di Björling come un atteggiamento vigile e sempre pieno di
stupore e curiosità verso il mondo. Il “balbettio” diventa così una poesia d’amore in Och att dig… C’è
un’apertura (anche sintattica) al giorno nuovo, al tu (amato?) (un “tu” che implica per forza un “io”,
anche se non è nominato) e al succedersi dei giorni (insieme?).
La musa di Björling è spesso aperta, fiduciosa e curiosa della vita e delle sue espressioni sensibili. I
suoi “testi aperti” richiedono e prevedono una cooperazione interpretativa del lettore, impegnato a
“riempire i buchi”. Più il testo presenta buchi più il lettore è invitato a riempirli attraverso
l’interpretazione.
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IL MODERNISMO E L’OPERA DI PÄR LAGERKVIST

Pär Lagerkvist (1891-1974) è forse il maggiore autore svedese del Novecento. La sua opera copre un
cinquantennio circa (1913-1967) e comprende tutti i generi: poesia, teatro e prosa. Vince il Nobel per la
letteratura nel 1951, dopo la pubblicazione l’anno prima del suo capolavoro, il romanzo Barabbas.
Lagerkvist esprime presto, a 22 anni, la sua idea di letteratura con il manifesto personale Ordkonst
och bildkonst (1913). Traendo suggestioni dalle avanguardie in campo figurativo (cubismo,
primitivismo, espressionismo), si pronuncia per il superamento del realismo di stampo ottocentesco
(analisi psicologica dei personaggi, ambienti borghesi…). A ciò contrappone l’idea di una scrittura
scarna, nuda e grandiosa, a suo modo primitiva, che tragga spunto dai modelli antichi (Edda, saghe) e
dai testi delle grandi religioni (Bibbia, Corano, tradizione sanscrita e persiana). Si tratta di creare uno
stile capace di esprimere “pensieri semplici e sentimenti elementari di fronte all’eterne forze della
vita”: la semplicità è dunque apparente, perché tutta la scrittura di Lagerkvist è proiettata
nell’interrogazione esistenziale.
Nel 1918 pubblica l’altro manifesto Modern teater: synpunkter och angrepp. Qui attacca il
naturalismo isbseniano, a suo modo di vedere piatto e incapace di esprimere la percezione moderna, e
si pronuncia a favore del teatro “post-inferno” di Strindberg, soggettivo e visionario ma capace di
interpretare la vita moderna, piena di angoscia, violenza e inquietudine. Il giovane Lagerkvist scrive
durante il primo conflitto mondiale, una guerra dalle proporzioni devastanti e, per i contemporanei,
inaudite; la vita di prima, la società ottocentesca con la sua illusione di progresso infinito, saranno
spazzate via. Quella guerra rappresenta per Lagerkvist un’esperienza psicologica centrale, che frantuma
e lacera. La sua poesia modernista cerca di articolare questa condizione moderna lacerata e angosciata
sul piano sia del contenuto sia dell’espressione, come possiamo vedere nella poesia Ångest, ångest är
min arvedel, dalla raccolta Ångest del 1916. Lo scarto dalla norma e lo straniamento avvengono,
volutamente, anche rispetto alla più nota tradizione lirica svedese; il “richiamo a” è anche “rottura da”.
Due richiami intertestuali molto scoperti vanno alla poesia dei nittiotalister, gli scrittori di fine
Ottocento, più in particolare alla poesia patriottica di Verner von Heidenstam:

Sverige, Sverige, Sverige, fosterland


Vår längtans bygd, vårt hem på jorden!
Nu spela skällorna, där härar lysts av brand (...)

E alla nostalgia neoromantica di Erik Axel Karlfeldt:

Längtan heter min arvedel (…)

Dove Heidenstam esalta il nazionalismo patriottico e le gesta eroiche in guerra, dove entrambi i poeti
sottolineano la nostalgia (längtan), Lagerkvist urla la sua angoscia (ångest); la guerra non è fonte di
eroismo ma di distruzione e angoscia. Vediamo un cielo plumbeo, ferro, fuoco e sangue, l’irrigidimento
della morte. Lagerkvist non visse per sua fortuna l’esperienza della trincea; questa poesia però ce la fa
sentire come esperienza spirituale, individuale ed esistenziale da parte di uno dei più vigili intellettuali
europei.
Scarto dalla norma vuole anche dire che i versi tradizionali ci sono, ma vengono infranti. Il
componimento consta di quattro strofe irregolari, con versi di varia lunghezza e senza rima; il verso
libero di Lagerkvist “contiene” però in sé la tradizione (violata). “Min strupes sår, / mitt hjärtas skri i
världen”, diviso su due versi, è ad esempio una pentapodia giambica (o un endecasillabo che dir si
voglia). C’è una voluta violenza espressionistica, fatta anche di suoni aspri e stridenti (e
inevitabilmente nella traduzione italiana “cambia la musica”); le immagini crude richiamano
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l’espressionismo in poesia e in pittura. Lo straniamento rinnova ciò che è convenzionale e logoro:


sarebbe più “normale” e logico dire min strupes skri (l’urlo della mia gola) e mitt hjärtas sår (la ferita
del mio cuore); ma il poeta, invertendo i termini, strania: la gola è lacerata (e per metonimia la lingua),
e l’urlo viene dal cuore.
Dopo la sua solitaria rivoluzione modernista, che non forma alcun gruppo in Svezia, Lagerkvist
percorre una lunga strada tutta sua, una ricerca personale che lo rende scrittore unico. Possiamo dire
che in poesia egli tenda a superare le asprezze angoscianti del trauma bellico per arrivare a una forma
di classicismo, costruito a volte sul verso libero a volte sul bunden vers di ascendenza più tradizionale.
C’è insomma un percorso di ricomposizione formale. E si delinea intanto la tematica esistenziale e
metafisica che percorre l’opera di Lagerkvist.
Det är vackrast när det skymmer consta di due strofe di lunghezza diversa; nei dieci versi della
prima strofa le rime formano lo schema aabcb ddefe. Pur senza regolarità assoluta, i versi si richiamano
anche metricamente: “Allt är givet / människan som lån” è metricamente analogo a “Jag skall vandra - /
ensam, utan spår”, anche nella forza espressiva dell’enjambement. Le due strofe sono comunque
diverse l’una dall’altra; il modernismo è “entrato in circolo”, cambiando l’aspetto della poesia
scandinava per sempre; la regolarità di una volta non è più una norma. La bellezza della terra al
tramonto, il momento che unisce terra e cielo è la “classica” quiete della sera che dispone alla
contemplazione esistenziale. Il mondo sembra governato da una forza buona e di amore (ömhet, smekt);
che il “Signore” cancelli le rive lontane può avere un senso concreto (il crepuscolo cancella i confini
netti) o metafisico (c’è un approdo oltre, a noi sconosciuto). Comunque Herren è presente come
movente e intenzione nella percezione dell’universo. In tale prospettiva universale la vita umana appare
per ciò che è: un dono provvisiorio, che ci predispone a interrogarci sul suo senso e sul suo valore; il
senso dell’io, del possesso e del soggetto – pur imprescindibile nella condizione umana – lascia spazio
a una consapevolezza (malinconica?) che l’uomo dovrà lasciare andare ogni cosa. La seconda strofa,
dove skall, il futuro, è ripetuto tre volte, veicola la domanda sull’enigma della vita e su ciò che ci
attende dopo: una solitudine, un’assenza di impronte che indica la fine di tutto? Il Signore di prima
dov’è ora? Il trattino del penultimo verso ci indica una pausa, forse un modo di pronunciare anche la
poesia; la pausa ci invita al raccoglimento e al senso conclusivo, che però rivela assenza di risposte,
incertezza metafisica.
Det kom ett brev è ancora più regolare nelle strofe, nei versi e nelle rime (aabb per ogni strofa); il
metro è regolarmente giambico: scandito, pacato, quasi ondeggiante. Questa forma evoca anche un
contenuto: il sereno, armonioso ritmo della vita agreste, “il mondo antico” vissuto nella certezza della
fede. La lettera della madre raggiunge il poeta, risvegliando visioni e ricordi di pace e armonia; la
regolarità metrico-ritmica rafforza ovviamente tale percezione. Ma osserviamo che il poeta è “lontano”
(långt borta); è lontano fisicamente dalla terra natia e materna; è lontano simbolicamente da quella
pace e quell’armonia sotto la protezione del Signore, una pace che emana da Dio e dall’eterno, per chi
ci crede. Nonostante tutta la sua nostalgia, il poeta è tagliato fuori. Quell’armonia della fede, questo
suggerisce la poesia, non appartiene più a lui.
Queste due poesie concentrano la tematica esistenziale e metafisica di tutta la produzione di
Lagerkvist, anche dei suoi numerosi romanzi. Lagerkvist veniva dalla campagna dello Småland, da una
famiglia dove vigeva una fervida religiosità pietistica, fondata sulla lettura della Bibbia. L’autore ha
raccontato la sua giovinezza e il suo ambiente famigliare nel romanzo autobiografico Gäst hos
verkligheten (1925). Ma già da ragazzino sente di non credere più; il darwinismo spazza via le antiche
certezze ed egli stesso sente di volere fuggire da quella religiosità, che è buona, carica di calore
materno e valori affettivi, ma anche oppressiva. Vive dunque la sua vita tra la negazione razionale della
fede e un insaziabile anelito di assoluto e di divino. Questo lo mantiene in una condizione di costante
interrogazione. Si definisce dunque, con un ossimoro (una “contraddizione in termini”) en troende utan
tro, en religiös ateist, un credente senza fede, un ateo religioso.
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Tale tensione verso Dio che non trova mai il suo oggetto percorre i suoi romanzi maggiori. Anche il
problema storico del bene e del male (il male storico quale si esprime, ad esempio, nei totalitarsmi che
Lagerkvist combatte) viene letto attraverso questa particolare lente esistenziale. La tensione etica e
politica di Lagerkvist si lega alla sua ricerca esistenziale e del divino. Nel romanzo del 1933 Bödeln il
boia è simbolo di colui che si macchia di sangue, agisce il male; in questo diventa una specie di “Cristo
al contrario”: anche lui si carica di tutte le colpe dell’uomo, di tutto il male che l’uomo commette,
liberandolo dalle responsabilità. Col nazismo il boia è adorato, diventa il simbolo della nuova umanità
del Reich, ciò che tutti vorrebbero diventare; così nell’ultima parte il romanzo diventa uno sferzante
atto d’accusa contro la nuova barbarie, formulato, si badi bene, quando tutto il peggio doveva ancora
avvenire. In questa sua denuncia Lagerkvist fu uno tra i più coraggiosi scrittori svedesi. Nel romanzo
Dvärgen (1944) il personaggio e io narrante è un nano di una corte rinascimentale italiana che sa
vedere e capire solo il male (le guerre, gli intrighi del Principe, le lotte di potere) mai il bello (il corpo
umano, l’arte) e il buono (l’amore, la fede) che pure la vita umana esprime in quel contesto storico. Il
disgusto per il corpo e le sue espressioni è sintomo della negazione dell’umanità da parte del nano.
Molti romanzi di Lagerkvist sono ambientati in aspri scenari biblici; così l’autore ritorna anche alla
sua prima estetica modernista: lingua aspra e nuda (“pietrosa” potremmo dire noi italiani ricordando
Dante), semplicità grandiosa. Non possiamo qui analizzare i maggiori romanzi, ma almeno nominarli:
Barabbas (1950), Sibyllan (1956), Ahasverus död (1960), Pilgrim på havet (1962), Det heliga landet
(1964) e Mariamne (1967). Due parole solo su Barabba, che da ladrone diventa figura dell’ateo che
vuole credere e non ci riesce. Da quando è stato liberato al posto di Cristo, Barabba non è più lo stesso.
È folgorato dalla presenza di quel poveraccio esile morto in croce, quel folle che credeva di essere
figlio di Dio. Barabba è perseguitato dal ricordo. La sua vita di prima, la sua frequentazione di briganti
e puttane, non gli dice più niente. E’ elevato dalla sua condizione bestiale di una volta; inizia a porsi
domande e a cercare qualcosa che non trova; una scintilla spirituale – un’anima possiamo forse anche
dire – si è risvegliata in lui. Cerca di capire i primi cristiani, li osserva, entra in contatto con loro; vede
un mondo povero di purezza e dedizione, che desidera giustizia (è il cristianesimo della donna col
labbro leporino), ma vede anche che i cristiani già “fanno chiesa”, gruppo chiuso regolato da logiche di
potere. La vicenda di Barabba sarà tutta sbagliata. Non arriverà mai alla fede anche se in qualche
momento si illude. Anche il finale appare aperto a più interpretazioni.
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AUTORI E TENDENZE TRA LE DUE GUERRE

Come abbiamo visto nel caso di Lagerkvist, possono convivere nell’opera dello stesso poeta il verso
libero modernista e le forme più composte e regolari della tradizione. È un fatto da tenere presente: il
modernismo con le sue forme è, come si è detto, “entrato in circolo”, ma questo non vuol dire che le
forme precedenti scompaiano. Spesso anzi tradizione e innovazione dialogano e si contaminano in
modo fecondo, convivendo nella stessa letteratura e anche nello stesso autore. Così come i migliori
autori fedeli a forme tradizionali esprimono comunque una sensibilità moderna e novecentesca.
Che si tratti di verso libero o di forma chiusa, stiamo cominciando a riconoscere – e continueremo a
trovare – alcune caratteristiche ricorrenti e dominanti della voce poetica scandinava nel Novecento. È
una poesia spesso concentrata e nitida, con una lingua persino scarna e laconica. L’esperienza del
soggetto lirico combina lo sguardo introspettivo ed esistenziale con l’esperienza della natura, quella
natura del Grande Nord che è e rimane, nonostante la modernità, qualcosa con cui non è possibile non
confrontarsi, una dimensione in parte ancora non toccata dalla mano dell’uomo (specialmente in
Norvegia, Svezia e Finlandia, meno in Danimarca). La natura della naturlyrik è spesso molto concreta;
nella sua concretezza può però diventare cifra, simbolo, “specchio” del vissuto soggettivo, “paesaggio
dell’anima”. Questa lirica concentrata sul vissuto del soggetto, e posta spesso dinanzi alla natura, viene
detta in svedese centrallyrik e in norvegese sentrallyrik, un concetto ricorrente in quelle tradizioni
poetiche. Altra caratteristica ricorrente della poesia scandinava nel Novecento è infine la tensione etica
e politica, l’”impegno” e lo sguardo sociale, a volte di denuncia – un atteggiamento che in verità fa
parte di tutta la letteratura scandinava moderna, anche nella prosa e nel teatro.

La lirica norvegese dagli anni ’20 agli anni ’40 è quella in cui più dominano le forme tradizionali. Il
maggiore poeta, già nominato, è Arnulf Øverland, che esordisce negli anni Dieci con un tipo di poesia
ancora “borghese”, per affermarsi negli anni Venti, quando si converte al socialismo e al vangelo
(laico) della solidarietà con gli sfruttati. Con gli altri scrittori Helge Krog e Sigurd Hoel, egli è
l’esponente più in vista del radicalismo politico nella letteratura norvegese tra le due guerre. La voce
radicale e antiborghese di Øverland diventa però nazionale e patrimonio di tutta la Norvegia durante
l’occupazione nazista, quando la sua poesia di resistenza circola clandestinamente. Vedremo le
caratteristiche formali e di contenuto di questa poesia quando tratteremo del periodo della seconda
guerra. Anche dopo la guerra Øverland, assurto quasi alla posizione di nasjonalskald, scriverà poesia e
di poesia, esprimendo una posizione molto conservatrice, contro ogni forma di modernismo a suo
parere “incomprensibile” (ubegripelig) e anche contro le forme linguistiche norvegesi che si
allontanano dal riksmål/bokmål più tradizionale.
Un interessante autore norvegese, che coniuga lo spirito e la visione moderna con forme poetiche più
tradizionali è Nordahl Grieg (1902-43). Grieg morì giovane, in un’azione di guerra contro i tedeschi, ed
appare nella sua opera un poeta giovane e della gioventù. Sia in Øverland sia in Grieg sono molto
importanti la dimensione politica e lo sguardo sociale. Ritorneremo a loro quando parleremo dell’ala
radicale e marxista della letteratura norvegese tra le due guerre.

In Danimarca cominciano a operare dagli anni Venti due scrittori importanti, due spiriti moderni segnati
dal “senso della crisi”, che se da una parte entrano in contatto con le avanguardie artistiche europee e
introducono idee e procedimenti del modernismo, dall’altra continuano a preferire una forma poetica
tradizionale e composta. Si tratta di Paul La Cour (1902-1956) e Tom Kristensen (1893-1974). La Cour
– danese a dispetto del nome – vive a Parigi durante gli anni Venti; come saggista e critico media tra la
cultura europea delle avanguardie e la Danimarca. Ha contatti importanti con il mondo della poesia,
della pittura e della filosofia. Come poeta è una figura centrale della tradizione moderna danese,
soprattutto grazie alla sua ultima produzione, a partire dagli anni Quaranta. Al moderno senso della
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crisi risponde la sua fiducia nella forza salvifica e rigeneratrice della poesia, anche come risposta alle
ideologie politiche che, con i totalitarismi e la guerra, hanno mostrato la loro inadeguatezza. È di La
Cour il saggio di poetica più influente per i giovani poeti danesi che debuttano nel secondo dopoguerra:
Fragmenter af en dagbog (1948). Il valore estetico e morale della poesia è un bene-rifugio per lo spirito
dopo i fallimenti delle ideologie politiche, del materialismo e del positivismo. La Cour non fugge dalla
realtà; diverse sue poesie contengono anche uno sguardo sociale. È un intellettuale umanista di sinistra
e non dogmatico. Nella migliore tradizione romantica egli conferisce però alla poesia un valore sommo,
di conoscenza profonda, di unione tra spirito e natura, di elevazione. Spesso nelle sue poesie troviamo
la “natura specchio dell’anima” di cui parlavo. In Det Uforudsete del 1946 la breve esperienza del
vento che passa tra le foglie degli alberi è sufficiente a creare una rivelazione, un’epifania per il
soggetto: qualcosa di fondamentale torna all’anima (Sjælen è ripetuto due volte, oltre a Sind). Il sogno e
la fantasia – ciò che “infrange i limiti” – danno nutrimento e visione all’anima. L’imprevisto – ciò che
non è visto prima – permette all’anima di non essere cieca. In questa breve poesia, dove compare la
rima ma dove tre enjambement creano tensione tra la misura del verso e l’ordine semantico-sintattico,
c’è un tipico procedimento di concentrazione e interiorizzazione; c’è l’interazione profonda tra
soggetto e natura; c’è una riflessione estetica che è anche esistenziale: per La Cour il bello della poesia
è qualcosa di vitale. La dimensione del ricordo e dell’oblio è evocata dal gioco dei tempi verbali al
presente e al passato: il poeta sta forse parlando di un’esperienza passata e perduta che cerca di
recuperare nel presente? Anche recuperare il ricordo è un modo per ascoltare la propria interiorità.
Kristensen debutta negli anni Venti sulla scia dell’espressionismo e delle avanguardie. Collabora alla
rivista Klingen ed è amico di Bønnelykke. Come Lagerkvist, cerca di dare espressione al senso di caos
e angoscia, scrivendo poesie e romanzi dal carattere sperimentale. È anche un importante critico e
traduttore; introduce così in Danimarca l’opera di Kafka, Joyce, Lawrence ed Eliot. Intuisce (tra i primi
in Danimarca) il genio particolare di Karen Blixen. Il suo capolavoro è il romanzo urbano Hærverk
(1930), ambientato a Copenaghen. Si può tradurre il titolo con caos, rovina o devastazione. La città
moderna è lo scenario dell’angoscia esistenziale del personaggio, un alcolizzato. Il modello joyciano
dello stream of consciousness, il “flusso di coscienza”, non è estraneo a questo romanzo. Anche
Kristensen è così interprete di una scrittura esistenziale, moderna, che sente la crisi. Qui vediamo in
realtà una poesia tarda, Stilleben del 1954, che tratta del problema del vuoto creativo e della mancanza
d’ispirazione – ciò che comporta la paralisi e la morte per uno scrittore. È vero che la migliore fase
creativa di Kristensen terminò con Hærverk. Il contenuto di Stilleben parla di mancanza di senso, di
vuoto; l’atmosfera è di amara rassegnazione. Osserviamo però come la forma è assolutamente
composta e tradizionale: cinque distici a rima baciata; un metro regolare, discendente, con quattro
dattili e un trocheo per 14 sillabe. Volendo sintetizzare: il contenuto è moderno ma la forma poetica non
è modernista.

Anche in Svezia troviamo in questa fase dei poeti centrali per il canone novecentesco, moderni nei temi
e nella visione del mondo, anche se non necessariamente modernisti. Il più noto e amato di questi è
Hjalmar Gullberg (1898-1961), che coltiva con bravura le forme della tradizione, perfino la terzina
dantesca (una sua significativa raccolta si chiama Terziner i okonstens tid, 1958), ma che esprime nella
sua visione tutto lo smacco dell’uomo novecentesco, la tensione all’assoluto e il dubbio, la perdita della
totalità.
Una poetessa che usa sia il verso “legato” sia il verso libero è Karin Boye (1900-1941). Lo vediamo
bene in una sua famosa, bella poesia, I rörelse del 1927. La poesia interpreta l’idealismo fiducioso e le
speranza di molta gioventù e di molto umanesimo scandinavo ed europeo che, tra le due guerre
mondiali e i totalitarismi, sognava un mondo migliore. Il testo esprime fiducia e apertura alla vita,
strutturandosi sulle metafore dell’accampamento, del movimento e del viaggio a piedi (che evocano
esperienze giovanili). Il breve e incisivo componimento ha una lära, una filosofia di vita: è importante
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muoversi, mettersi in movimento, evolvere (dal punto di vista sociale possiamo anche ricordare che
questa era in Scandinavia l’età delle conquiste democratiche e dei movimenti di massa e popolari, i
folkrörelser). Ma “mettersi in movimento” è anche un atto individuale profondamente esistenziale: più
ancora che il raggiungimento di qualsiasi obiettivo – sottolinea la Boye – è la strada, il processo,
l’evoluzione che contano (l’anelito, avrebbero detto i romantici). Tutto questo è espresso attraverso il
bunden vers: 5 distici a rima baciata di 5 piedi giambici; il metro regolare (il “piede”) è qui evocativo
dell’andatura, del cammino descritto anche sul piano del contenuto.
Bisogna integrare la visione fiduciosa, la speranza di un mondo migliore della Boye, per
comprendere veramente l’incubo futuro che ella rappresenta nel suo romanzo Kallocain (1940), uno dei
classici del Novecento svedese. È un romanzo che appartiene al genere della cosiddetta “distopia” o
antiutopia: cioè la visione di un mondo futuro da incubo, quale versione abnorme della negatività
presente, con la forza dell’esagerazione ma anche della preveggenza. La Boye si può basare su modelli
europei già sperimentati, come Noi del russo Zamjatin (1924) o Brave New World di Huxley (1932);
ma anticipa anche di nove anni il più famoso 1984 di Orwell. La kallocaina è un siero chimico della
verità, prodotto un tempo dall’io narrante del romanzo, Leo Kall, il quale era al servizio di uno dei due
stati totalitari che, perennemente in guerra l’uno contro l’altro, si spartiscono il mondo. La vita è
sottoposta a regime totalitario: tutto è militarizzato, collettivizzato, in funzione dello Stato;
l’individualità personale e la sfera privata sono bandite. Iniettando il siero, lo Stato può arrivare allo
stadio definitivo del controllo e della disciplina: può addirittura leggere il pensiero, la sfera più intima e
nascosta di ognuno, gli strati profondi del desiderio e della visione. L’uso della droga fa emergere
qualcosa di paradossalmente liberatorio: per quanto “intruppati”, tutti nel profondo sognano un mondo
libero, fatto di concordia, amore e creatività (utopia nella distopia, si potrebbe dire). Dal punto di vista
compositivo il romanzo è interessante perché l’io narrante rievoca il suo passato mentre è ormai
prigioniero nelle carceri dello stato nemico. Non c’è coincidenza tra io narrante e io narrato, nel senso
che chi scrive e racconta rappresenta se stesso ai tempi della sua fiducia cieca nel potere totalitario,
aderendo inizialmente al linguaggio burocratico e morto e alla visione del mondo di allora, svelando
però a poco a poco – man mano che l’azione procede – una presa di coscienza autocritica: la
liberazione (e paradossalmente egli è in cella) dalla precedente prigione mentale e dalla propria paura.
Questo processo di maturazione passa attraverso la relazione a tre con sua moglie Linda e con il collega
di lavoro Rissen, e attraverso il tradimento che Leo compie nei loro confronti. La voce autentica e
profonda è quella con cui Linda, “liberata” dalla kallocaina e priva di ogni difesa o maschera, si rivolge
a Leo. Il femminismo e la psicanalisi sono esperienze importanti per la Boye, e come tali entrano nel
suo romanzo.
La Boye fu impegnata nel movimento pacifista di sinistra Clarté dopo la prima grande guerra. Visitò,
con turbamento, l’URSS di Stalin (1928) e la Germania poco prima della presa del potere di Hitler
(1932). Vide infine (1938) l’agognata Grecia, simbolo di umanesimo e dei valori profondi della civiltà
occidentale. Morì suicida nel 1941, lo stesso giorno in cui i nazisti invadevano la Grecia. A questo
nesso tra privato e storico dedica una bella poesia commemorativa proprio il collega Hjalmar Gullberg:
Död amazon. La Boye riassume nella sua opera alcuni momenti e orizzonti culturali delle letterature
scandinave tra gli anni Venti e Quaranta: il modernismo e i contatti con le avanguardie europee; la
scoperta della psicanalisi come nuova chiave di interpretazione dell’individuo nelle sue dimensioni
profonde e irrisolte; la battaglia femminista; le speranze di libertà ed emancipazione, individuale e
collettiva, che si devono confrontare con i mali del tempo: i totalitarismi e le guerre. La Scandinavia di
questi anni percorre una strada diversa rispetto a tali mali: va verso la democrazia; eppure sarebbe
limitativo vederla come “isola felice”; anche la Scandinavia vive e percepisce le inquietudini
dell’Europa e la migliore cultura scandinava sente questi segnali di malessere molto da vicino.
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In Norvegia un importante fattore di rinnovamento e rottura rispetto alla cultura borghese è


rappresentato da un gruppo di scrittori radicali. Alcuni di questi collaborano con una rivista della
sinistra radicale (in pratica a sinistra dell’Arbeiderpartiet, il partito laburista o socialdemocratico),
chiamata Mot Dag e diretta da un carismatico giornalista e politico, Erling Falk, attiva dai primi anni
Venti. Di questo gruppo fanno parte Øverland, poeta, che aderisce in questi anni al marxismo, il
romanziere Sigurd Hoel (1890-1960), influenzato dal marxismo e dalla psicanalisi, e il drammaturgo
Helge Krog (1889-1962), che prosegue la tradizione ibseniana nel senso della critica al costume
borghese. Sono scrittori radicali nei contenuti ma piuttosto tradizionali nelle forme espressive. Hoel
scrive il romanzo Syndere i sommersol (1927), storia di alcuni giovani, 4 ragazze e 4 ragazzi, che
sognano la liberazione da tutti i legami tradizionali, partendo per un’estate che nelle intenzioni deve
essere di natura e libero amore. L’ironia è che ricadono negli errori dei padri (legami, gelosie, paure...).
L’orizzonte della psicanalisi compare dunque in modo anche ironico; i protagonisti sono tutti
appassionati, un po’ ingenuamente, di psicanalisi. Un altro romanzo noto di questo autore è Veien til
verdens ende (1932), che assume il punto di vista e l’immaginazione di un bambino contadino,
coniugando lo sguardo sulla psicologia infantile con quello sulla grande natura norvegese.
Anche Nordahl Grieg, autore di poesie, testi teatrali e diari di viaggio, può essere incluso in questo
gruppo di “radicali”. Egli aderì al comunismo dopo un viaggio in URSS; qui non vide il totalitarismo
ma solo la speranza di liberazione degli oppressi. E non si staccò dal comunismo (come fecero gli altri)
né quando si seppe delle purghe staliniane, durante gli anni Trenta, né quando l’URSS firmò con la
Germania di Hitler il patto di non aggressione nel 1939. Grieg fuggì in Inghilterra durante
l’occupazione nazista della Norvegia, come fecero il parlamento e il governo con il re; parlava ai
norvegesi dalla BBC incitandoli a resistere. Morì in un’azione aerea di guerra sopra i cieli di Berlino.
Questi scrittori norvegesi, assieme agli altri più grandi che vediamo tra poco, passano per
l’esperienza imprescindibile della guerra e dell’occupazione, che segna in un modo o nell’altro la loro
opera letteraria. Tutti vivono il problema del “tradimento” di Hamsun, che dal 1933 comincia a scrivere
i suoi articoli di convinta adesione al nazismo. Per tutti Hamsun era stato il grande maestro della prosa
moderna, lo scrittore della gioventù inquieta e ribelle (ricordiamo Sult, Mysterier e Pan), e anche colui
che aveva già indicato la strada dell’irrazionale, della “vita psichica inconscia”. Hamsun diventa così
un problema difficile, una personalità amata e odiata. È Nordahl Grieg – in un lucido articolo critico del
1936 – a mettere in evidenza il dilemma di un’intera generazione, analizzando la non facile
contraddizione: tutti amano la grande prosa di Hamsun e continuano ad amarla, nonostante si debba
essere consapevoli della sua visione politica reazionaria.
I grandi prosatori norvegesi che esordiscono tra gli anni Venti e Quaranta, tutte figure centrali e vive
del canone novecentesco norvegese, sono: Cora Sandel (1880-1974), Johan Borgen (1902-1979), Aksel
Sandemose (1899-1965) e Tarjei Vesaas (1897-1970). Anche per loro l’opposizione al nazismo e
l’esilio o la prigionia furono passaggi obbligati.
La Sandel è autrice di romanzi e novelle, famosa per una trilogia romanzesca incentrata sulla figura
femminile di Alberte (1926, 1931 e 1939), che possiamo definire romanzo femminile di formazione. La
trilogia rappresenta il percorso di una donna per emanciparsi, come donna e come artista, nella società
del Novecento osservata criticamente, nei suoi pregiudizi. La Sandel vive a Parigi ed entra in contatto
con i suoi fermenti culturali; è una scrittrice importante per lo sguardo “al femminile”, importante
anche per le scrittrici femministe norvegesi degli anni Settanta e Ottanta. La sua scrittura si caratterizza
per acume psicologico e sguardo ironico-critico. Un altro motivo del suo sguardo sociale è la
solidarietà con gli anonimi e gli esclusi, i deboli della società.
Come per Hoel, anche per Borgen, Sandemose e Vesaas è importante lo sguardo sull’infanzia. Il
pensiero psico-pedagogico si evolve nel corso del Novecento. Questo si manifesta in Scandinavia con
una straordinaria fioritura della letteratura per bambini e ragazzi – cui accennerò brevemente più avanti
– ma anche con il tema dell’infanzia nella letteratura “per adulti”. Borgen proviene da un ambiente
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alto-borghese urbano, e tale ambiente ritorna nelle sue novelle e nei suoi romanzi; anche Borgen offre
uno sguardo critico sul proprio mondo e le sue convenzioni. Il problema dell’identità e dei ruoli sociali
passa attraverso un recupero critico dell’infanzia, il momento decisivo per la formazione dell’identità e
dei ruoli, attraverso una serie di passaggi critici. Il difficile recupero dell’autenticità si mostra nei tanti
ruoli impersonati dal protagonista della trilogia di romanzi su Lillelord (1955-57), caratterizzata da un
realismo psicologico in cui si sente la lezione modernista di Woolf, Joyce e Proust, attraverso il
monologo interiore e la dimensione del ricordo.
Sandemose nasce in Danimarca da padre danese e madre norvegese. Debutta come scrittore danese
ed è amico di Tom Kristensen; poi si trasferisce in Norvegia, adottando il bokmål e diventando scrittore
norvegese. Politicamente radicale e anarchico, scrive il suo capolavoro nel 1933, il romanzo En
flykting krysser sit spor, innovativo dal punto di vista compositivo, molto “psicoanalitico”. I brevi
capitoli si susseguono senza costituire apparentemente una trama unitaria ma cercando, attraverso il
recupero dei frammenti di memoria dell’io narrante, di avvicinarsi al trauma della sua vita: l’omicidio
di un collega di lavoro più grande che lo maltrattava quando, a 16 anni, era emigrato in America. Il
romanzo contiene un momento saggistico ferocemente critico contro una certa mentalità omologante da
piccolo paese scandinavo, che l’autore chiama Janteloven, la legge di Jante, dal nome inventato del
villaggio dove il personaggio è nato e cresciuto. Si tratta della versione primitiva e repressiva
dell’egualitarismo scandinavo: è l’ordine di non mettersi mai in evidenza, non credere mai di essere
qualcuno, non emergere mai; è lo stigma contro qualsiasi forma di originalità e diversità. L’omicidio si
configura allora, poco a poco, come la violenta ribellione contro queste strutture mentali opprimenti.
L’io narrante è anche qui diverso dall’io narrato: ora è adulto, ha avuto dei figli e cerca di avere con
loro un rapporto diverso e meno repressivo. È un romanzo psicoanalitico nel senso più autentico del
termine: recuperare il proprio passato, l’infanzia, per integrarlo nella propria personalità adulta;
ascoltare l’anima per farla vivere. L’ossessiva presenza del controllo sociale che tende a omologare i
comportamenti è diventato un concetto autocritico della mentalità scandinava, un atto autocritico di
selvforståelse/självförståelse. Infatti nelle tre lingue l’espressione jantelov/jantelag è assolutamente
diffusa e ovvia, anche se molte persone la usano senza sapere che deriva dal romanzo di Sandemose. Di
Sandemose è tradotto in italiano solo il “poliziesco” Tjærehandleren (1945), anch’esso costruito sulla
ricostruzione psicologica del passato.
Tarjej Vesaas (1897-1970) scrive in nynorsk e proviene dal Telemark (la stessa regione montuosa di
Vinje, primo importante scrittore in landsmål degli anni Sessanta dell’Ottocento). Vesaas è di
estrazione proletaria e si forma alle università popolari. Quando non fa lo scrittore, vive da contadino;
risiede per tutta la vita nella sua regione di origine. Nel romanzo capolavoro Fuglane (1957)
riconosciamo l’ambientazione esotica del grande Nord, l’atmosfera lontana e rarefatta della natura
norvegese, quella che abbiamo imparato ad amare leggendo Hamsun (che infatti è un maestro per
Vesaas). Con lui per la prima volta il nynorsk diventa linguaggio della letteratura universale; la sua
“letteratura paesana” trascende la dimensione locale (la cultura, il paesaggio) in cui pure è radicata.
Come altri grandi prosatori scandinavi contemporanei, Vesaas è legato alla propria terrra ma capace di
contaminare la sua arte con le tendenze vitali e moderne del romanzo europeo (Dostoevskij, Hamsun,
Kafka, Lagerkvist). Esordisce già tra gli anni Venti e Trenta con racconti e romanzi di vita paesana.
Passa attraverso l’esperienza cruciale della guerra e dell’occupazione, in cui la sua prosa realistica
matura acquisendo concentrazione e semplicità, e al tempo stesso profondità simbolica, capacità
evocativa. Kimen (1940) e Huset i mørkret (1945), sono segnati dal senso della catastrofe, dalla
denuncia della violenza e della sopraffazione che la guerra ha portato. Anche Vesaas è un
rappresentante del grande umanesimo nordico. E anche per lui questo umanesimo si realizza attraverso
lo sguardo solidale con gli ultimi, la pietà per gli outsider, i perdenti, i non adatti e i bambini.
La sua narrativa produce gli esiti più alti tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Fuglane è senz’altro una
delle più notevoli opere narrative nordiche del Novecento. La storia è molto semplice. Mattis ha 37
23

anni ed è “lo scemo del villaggio”. Vive con la sorella Hege di qualche anno più grande, che si prende
cura di lui e sacrifica così la propria vita. Tutto è osservato e narrato dalla prospettiva e dal vissuto di
Mattis: egli è incapace, nonostante i tentativi, di inserirsi nel mondo dei “forti” e “intelligenti”; non
riesce a far funzionare le mani nei lavori agricoli; non sa come si corteggiano le ragazze. I suoi pensieri
si ingarbugliano e questo lo rende inadatto alla vita dei cosiddetti normali. La sua fine arriva quando
egli si rende conto di essere inevitabilmente perdente nel triangolo affettivo che lo oppone al
taglialegna Jørgen: colui che arriva di passaggio (traghettato proprio da Mattis nell’unico suo lavoro
riuscito), conosce Hege, se ne innamora e decide di fermarsi da lei. Ora per Mattis viene a mancare
anche quel fondamentale sostegno. Come la storia, anche il paesaggio naturale è essenziale: una casa di
legno distante dal villaggio, sulla riva orientale di un grande lago; a occidente i pendii boscosi delle
montagne. La natura pare maestosa, primordiale e senza tempo, come si addice alla Norvegia. Ma
l’ambiente è anche una piccola società di uomini: il gruppo di poderi, il lavoro contadino, la comunità
che tratta Mattis per lo più con rispetto ma che nulla può fare per lui. Il tempo del racconto va
(hamsunianamente: ad esempio in Pan) dall’inizio della primavera ai temporali d’autunno. Le rare
automobili che passano sulla strada e i ciclisti da diporto ci segnalano la contemporaneità, i tempi
moderni.
Il folle è però anche il poeta, immagine di colui che meglio di altri percepisce la voce e i segnali della
natura, che sente il volo degli uccelli attraversarlo come un lampo; che vede ciò cui noi normali non
badiamo. È un romanzo costruito teatralmente, con una forte presenza di dialoghi; Vesaas era anche
drammaturgo. La lingua è semplice, arcana, fortemente suggestiva e musicale; tale qualità si percepisce
anche nella traduzione italiana. Dovendo cominciare a cimentarsi con la comprensione scritta del
nynorsk, penso che un romanzo di Vesaas sia l’ideale. L’altro suo romanzo importante tradotto in
italiano è Is-slottet (1963), con al centro due bambine.

Come in Norvegia, anche in Danimarca i decenni che vanno dagli anni Trenta ai Sessanta contengono
l’opera di alcuni dei maggiori prosatori, veri classici del Novecento. Qui non potremo che riassumere la
complessità delle loro figure e delle loro opere, considerando sempre anche la complessità del tempo
storico, che conosce le dittature in Europa, la guerra mondiale e l’occupazione, il dopoguerra e il clima
d’angoscia della guerra fredda con il suo incubo atomico. Vedremo in successione quattro autori: Karen
Blixen (1885-1962; nata Dinesen; Isak Dinesen è il suo pseudonimo negli Stati Uniti); Hans Christian
Branner (1903-1966); Martin A. Hansen (1909-1955) e Hans Scherfig (1905-1979). Di questi quattro,
la Blixen è la meno inquadrabile nel canone letterario e culturale del Novecento con i suoi tipici “-
ismi”. È un grande talento narrativo; è un “fiore esotico” che si potrebbe considerare a sé stante e si
sarebbe tentati di leggere fuori del tempo e della contemporaneità. Lo sforzo, qui, sarà anche di
“ricondurla al Novecento”: di vederla come scrittrice in opposizione al proprio tempo ma, proprio in
questa sua posizione, anche in relazione polemica con il proprio tempo. Sarà invece più semplice
ricondurre gli altri autori a certe categorie condivise: 1) c’è un graduale passaggio da un romanzo di
tipo collettivo e social-realistico in voga negli anni Trenta (ne parleremo anche a proposito della
Svezia) verso un romanzo che potremmo definire esistenzialista, che riflette la condizione dell’uomo e
la sua angoscia negli anni che vanno dalle dittature all’incubo atomico; 2) questo passaggio può
comportare anche il superamento del realismo di impronta tradizionale verso forme più sperimentali e
innovative del romanzo (e la lezione dei grandi maestri del Novecento come Joyce, Kafka o Proust si fa
sentire); 3) anche in Danimarca la psicanalisi e il marxismo diventano chiavi per interpretare
criticamente la realtà. Accanto a questi, l’umanesimo democratico e cristiano dà alla cultura danese del
Novecento un’altra impronta importante.
La generale atmosfera di angoscia, pessimismo e problematicità che percorre la prosa di questi grandi
autori possiamo anche ricondurla all’asprezza del clima storico. Come la Norvegia, anche la Danimarca
subisce l’occupazione tedesca dall’aprile del 1940 fino al maggio del 1945. A differenza della
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Norvegia, in Danimarca non c’è però una resistenza armata aperta – se non con alcune azioni di
sabotaggio negli ultimi anni della guerra – quanto piuttosto una diffusa resistenza passiva impersonata
in primo luogo dal re Cristiano X, che rimase in patria e ufficialmente in carica, così come –
paradossalmente – continuarono a funzionare “normalmente” le istituzioni democratiche danesi, il
governo e il parlamento. Di fatto, tutta la macchina produttiva danese fu per cinque anni a servizio del
Reich. Questa condizione di paralisi e paradosso ricorda più il clima di “allerta” (beredskap) della
neutrale Svezia che non l’aperta resistenza della Norvegia. Queste differenze hanno anche un riflesso
letterario, nel senso che in Norvegia c’è una prevalente voce militante e di resistenza, dove il confine
tra civiltà e barbarie è netto e univoco (lo vedremo poco più avanti in alcune poesie); mentre l’angoscia
esistenziale e il senso di paralisi sono più percepibili nelle letterature danese e svedese.

Per inquadrare la particolarità dell’opera della Blixen è necessario menzionare alcuni momenti della
sua vita, segnata da duri colpi del destino. Karen è di estrazione aristocratica; il padre Wilhelm Dinesen
Boganis, famoso scrittore, cacciatore e uomo d’avventure, muore suicida nel 1895 quando Karen ha
dieci anni. Negli anni 1913-14 Karen si sposa con un lontano parente svedese, il barone Blixen; i due
partono per il Kenia con il sogno di avviare una piantagione di caffè. Il marito tradisce presto la moglie,
che contrae la sifilide. Karen si salva ma resta sterile. Dopo qualche anno il matrimonio naufraga. La
Blixen vive in Africa una lunga storia d’amore con un altro nobile e sognatore, l’inglese Denys Finch
Hatton, il quale però non vuole legarsi; i due condividono la passione per l’Africa, il racconto, la
letteratura e l’arte. Finch Hatton però riparte sempre; nel 1931 muore in un incidente aereo. Intanto la
fattoria è fallita e la Blixen fa ritorno in Danimarca, dopo avere trascorso circa 20 anni in Africa,
obbiettivamente lontana dall’Europa e dal suo clima culturale. È a questo punto che, cinquantenne,
comincia la sua seconda vita e la carriera di scrittrice. Scrive in inglese (lingua parlata in Kenia, lingua
del suo legame con Finch Hatton) e poi “si riscrive” in danese. Le sue prime opere hanno un grande
successo negli Stati Uniti e solo di ritorno in Danimarca, sulla scia della fama internazionale: si tratta di
Seven Gothic Tales (1934) / Syv fantastiske fortællinger (1935) e Out of Africa / Den afrikanske farm
(entrambi 1937). Ci sono allora buoni motivi per considerare la scrittrice come appartenente al canone
della letteratura di lingua inglese o come appartenente al canone della letteratura danese. Per quanto
“esotica”, di fatto la Blixen vive e opera in Danimarca dagli anni Trenta alla sua morte. Anche in
Danimarca diventa presto una figura carismatica e leggendaria, e rafforza la sua fama attraverso una
serie di racconti pubblicati nel corso degli anni.
Dati gli eventi tragici e le esperienze difficili, l’atteggiamento che la Blixen sviluppa nella sua vita e
nella sua opera è quello aristocratico, superiore e stoico. Tutto deve essere visto con forza superiore,
senza cedimenti, con il sommo virtuosismo del grande artista. La Blixen tende a interpretare la propria
vita e la propria arte in chiave mitica e leggendaria, decisamente anti-realistica. Non le interessano
l’uomo e i tempi moderni; traendo dalla grande saggezza della millenaria tradizione letteraria
universale (Bibbia, Mille e una notte, Decameron, Shakespeare, Kierkegaard, romanzo gotico...) e dalla
sua erudizione storica, interpreta storie del fato, segnate da disegni capricciosi e imperscrutabili. La
superiore maestria dell’artista-demiurgo si lega a una visione di fondo pessimista: la vita con i suoi
progetti, le sue aspirazioni e i suoi affanni appare il più delle volte illusoria. Tutto questo è veicolato
attraverso il raffinato gioco letterario; gli espedienti del racconto nel racconto; i procedimenti
metanarrativi che continuamente intrecciano la vita e la sua rappresentazione in quanto racconto; il
virtuosismo di chi è capace di generare storie fantastiche, perle della fantasia, dove l’artista (al
contrario di quanto succede nella vita) è legislatore assoluto. Anche nel suo libro più realistico, il bel
racconto africano, c’è un’immagine eroica e leggendaria della vita, che trae saggezza dal paesaggio
maestoso e “senza tempo” del continente e dalla millenaria capacità di racconto e ascolto dei suoi
abitanti (si percepisce quello struggimento chiamato “mal d’Africa”).
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La raccolta di cinque racconti Skæbne-Anekdoter (1958) riassume tali caratteristiche. È una delle
ultime opere della Blixen e contiene un piccolo grande capolavoro della letteratura, Babettes gæstebud,
diventato famoso grazie alla riuscita versione cinematografica del 1987. Babettes gæstebud, va
osservato, è nell’ordine il secondo racconto della raccolta, preceduto da Dykkeren. Nella edizione
italiana “Il pranzo di Babette”, il pezzo forte, è messo per motivi editoriali al primo posto, falsando un
poco il senso originale, poiché “Il pescatore di perle” ha anche il carattere di riflessione introduttiva, di
“cornice”. Nella figura del sommozzatore o pescatore di perle – un ex dotto che una volta studiava il
Corano e cercava Dio e gli angeli in cielo – viene indicato un percorso che dall’aria va all’acqua. Dopo
avere anelato alle alte sfere, il personaggio trova l’equilibrio perfetto nell’elemento acquatico e nei
pesci che lo abitano: l’acqua sostiene e avvolge; mantiene leggeri e stabili; la profondità elimina le
perturbazioni. Da tale prospettiva gli appaiono insensati gli affanni della vita e la corsa dell’uomo in
avanti per il progresso. Raccogliere le perle è anche una grande mise en abyme (una “messa in
stemma”, una riproduzione miniaturizzata entro il racconto del processo di creazione/ricezione del
racconto stesso; un procedimento metanarrativo): le perle sono belle e perfette ma nascono da una
malattia, una sofferenza, una secrezione del mollusco: così come la grande arte. E nella grande arte noi
dobbiamo vedere la perfezione della bellezza, non la sofferenza dell’artista che l’ha prodotta. La Blixen
dice indirettamente molto di sé attraverso questa immagine simbolica . Così come è rivelatrice, qui e in
altri racconti della raccolta, l’immagine dell’amore giovane e puro che in qualche modo deve vivere di
rinuncia o soccombere alle leggi del mondo.
Tutti i racconti sono ambientati in un tempo storico passato, per lo più nell’Ottocento: un tempo
storico tuttavia definito e riconoscibile. Nel capolavoro Babettes gæstebud la grande cuoca francese
diventa un’immagine forte della grande artista che, attraverso la sua creazione somma, sa dispensare un
momento di grazia (nåde) capace di unire nella comunione tutti gli uomini, qualunque sia la loro
provenienza geografica, sociale o religiosa. È un racconto lungo, suddiviso in brevi capitoli, con una
perfetta costruzione drammatica (si è adattata bene alla narrazione cinematografica), dove alcuni
destini individuali trovano il compimento della loro vita nel momento di grazia: il pranzo preparato da
Babette. Spesso (ad esempio negli altri racconti di questa raccolta) il tono di fondo della Blixen è
amaro e disilluso nei confronti della vita. Qui prevalgono l’empatia, il calore umano, il sorriso
partecipe verso la vita e gli uomini. Con superiore levità e ironia la Blixen sa rappresentare l’incontro-
scontro tra due mondi apparentemente inconciliabili: una piccola setta millenarista di un fiordo
norvegese, che ha rinunciato al mondo e a ogni bene terreno, e il gran mondo rappresentato da un
nobile e militare svedese e un grande cantante lirico parigino. 5 È forse il testo che meglio di ogni altro,
e con il sorriso, ha saputo rappresentare il momento di incontro-scontro tra mondo nordico e mondo
latino. La comunione è – come nei vangeli – attorno a un tavolo, per mangiare: nel convivio (il
significato letterale di gæstebud). E si tratta di un pranzo assoluto e perfetto, un dono generoso e
gratuito della grande artista, un gesto di riconoscenza verso la bontà e la purezza d’animo delle sue
ospiti. Sebbene tale artista sia una comunarda rivoluzionaria, il suo dono mondano non conosce
distinzioni di classe, sa unire la terra e il cielo, la prospettiva laica e quella religiosa, la materia e lo
spirito. Per una volta, gli anziani appartenenti alla setta sperimentano che il palato non è poi così
lontano dalla lingua del Verbo. Un capolavoro di misura, fantasia e saggezza.
Negli altri due racconti lunghi della raccolta, Storme e Den udødelige historie, la capacità della
Blixen di generare racconto “prende la mano”, creando storie a mio parere più melodrammatiche e
disomogenee. La costruzione è per “scatole cinesi”, di racconto nel racconto; frequente è anche il
momento metanarrativo, di riflessione su arte e rappresentazione, vita e finzione. In tutto questo viene
5
Si osservi che il film, per altro fedele nella ricostruzione, sposta l’azione dalla Norvegia alla Danimarca. Il militare
Löwenhielm, nel racconto, fa dunque parte della stessa nazione in cui vivono i millenaristi (il regno di Svezia-Norvegia). Il
trasferimento dell’azione in Danimarca sa anche di affettuosa “appropriazione” della scrittrice Blixen, per anni considerata
esotica e poco danese.
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fuori un poco troppo l’artificio (ma è un parere personale). Il gioco intertestuale in Storme è con La
tempesta di Shakespeare. Il contesto storico-culturale del racconto riporta all’epopea delle compagnie
teatrali di giro nell’Ottocento. In Den udødelige historie il confronto è tra il mondo dei “dati di fatto”,
dei numeri, degli affari e dei libri contabili con il mondo evanescente (e per la Blixen più vero) dei
racconti: libri di altro tipo. Su questa idea si innesta un racconto ambientato in Cina e giocato sulla
mise en abyme. Dopo il breve racconto Ringen chiudiamo il libro con l’amaro in bocca. E non poteva
essere altrimenti, visto che si tratta di una piccola, “strana” parabola sul matrimonio.
Per capire il rapporto di legame e opposizione della Blixen con la letteratura del proprio tempo, forse
il libro più utile è quello scritto dal poeta danese Thorkild Bjørnvig nel 1974: Pagten. Mit venskab med
Karen Blixen (tradotto in italiano da Adelphi). Troviamo il classico rapporto tra giovane allievo e
maestra, e alla fine la dolorosa rottura: la Blixen non comprende i giovani poeti del secondo
dopoguerra che, attorno alla rivista Heretica, esprimono incertezza e angoscia, e che si interessano alle
sorti dell’uomo contemporaneo. A questo la Blixen oppone la sua visione eroico-leggendaria, stoica e
aristocratica, grandiosamente fuori del tempo.
H. C. Branner è uno dei massimi prosatori danesi del Novecento, oltre che autore teatrale. È di
Copenaghen e di estrazione borghese; nella sua formazione sono importanti le letture di Hamsun,
Nietzsche e Freud. Nel suo romanzo Legetøj (1936) egli prende spunto da un modello in voga tra gli
anni Venti e Trenta nella letteratura danese: quello del romanzo collettivo di impianto social-realistico,
spesso di ambientazione proletaria (un esempio famoso è Fiskerne di Hans Kirk, del 1928). Da qui
Branner parte per creare qualcosa di innovativo e attuale; il microcosmo collettivo indagato nel
romanzo è la moderna azienda (una fabbrica di giocattoli), governata al suo interno da rapporti
gerarchici, di potere e perfino di terrore. Si può vedere questa azienda come un’allegoria dell’Europa
nella morsa delle dittature ma anche, più realisticamente, come un’immagine critica della società
borghese (anche danese), dell’assenza di umanità e democrazia in un luogo importante della nostra
società capitalista. “Giocattoli” diventano allora coloro che agiscono in questo sistema e lo subiscono.
Lo sguardo di Branner è sociale ed esistenziale allo stesso tempo. La sua prosa va oltre il social-
realismo verso una dimensione di ansia esistenziale e simbolismo. Branner traduce Kafka e sperimenta
il “flusso di coscienza” alla Joyce in alcune sue opere; scrive novelle e drammi durante gli anni della
guerra, dove esprime il clima di tensione e angoscia di quegli anni; il suo sguardo si posa spesso sui
bambini vittime della prevaricazione.
Il capolavoro di Branner è il romanzo Rytteren (1949), che è scritto inizialmente come dramma e
mantiene una forma teatrale. Il triangolo sentimentale descritto ha una forte valenza simbolica: Susanne
ha una relazione con Clemens, un medico, ma troppo forte è in lei il ricordo dell’ex fidanzato Hubert,
affascinante cavaliere, figura autoritaria e carismatica, morto dopo un incidente a cavallo. Clemens è
l’opposto di Hubert: uomo insicuro, umano (troppo umano), animato da senso morale e spirito solidale
nella sua professione. Susanna alla fine sceglie Clemens liberandosi dallo spettro di Hubert. Su questo
romanzo scrisse un’importante recensione critica proprio Karen Blixen (è inclusa nell’edizione italiana
de Il cavaliere, ed. Lindau). La Blixen riconosce le qualità letterarie dell’opera ma attacca la sua
visione, l’umanesimo moderno che si esprime nella figura di Clemens; a ciò contrappone la forza del
mito, del cavaliere: un mondo senza mito è a suo parere privo di valore.
Nel secondo dopoguerra Branner pubblica il saggio Humanismens krise (1950). Umanesimo vuol dire
che l’uomo è sempre il fine ultimo e mai il mezzo per l’affermazione di un’ideologia o un potere.
Compito dell’uomo è lo sguardo solidale, la responsabilità sociale. Dobbiamo secondo Branner
difendere l’umanesimo, messo gravemente in crisi dall’epoca delle dittature e della guerra ma non
cancellato: quale etica è possibile nel nostro tempo?
Similmente a Branner, anche Martin A. Hansen è autore di novelle e romanzi tra i maggiori del
Novecento danese. Di origine contadina, rivela nella sua opera una forte impronta di umanesimo
cristiano. Come Branner, è uno scrittore non facile: utilizza in modo raffinato gli strumenti narrativi e i
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simboli; la sua opera è percorsa dall’ansia esistenziale. Anche Hansen è vicino alla rivista Heretica,
promossa dallo scrittore Ole Wivel: pone l’accento sui valori estetici ed etici, sull’umanesimo come
risposta al fallimento della politica e delle ideologie. Gli anni della Guerra Fredda provocano poi un
nuovo, angoscioso senso di paralisi, dopo le speranze di un nuovo corso per l’umanità capaci di
superare la devastazione della seconda guerra. Il mondo appare ancora bloccato, attanagliato e
impaurito.
Il capolavoro di Hansen è il romanzo Løgneren (1950), purtroppo non tradotto in italiano. Abbiamo
un io narrante tipicamente “inaffidabile”. È un prete che vive su un’isola e scrive una specie di diario; il
clima è invernale, l’isola è bloccata dai ghiacci. Il narratore diarista si chiama Johannes, il che richiama
il seduttore Johannes nel romanzo di Søren Kierkegaard Forførerens dagbog, incluso in Enten-Eller
(1843). Il nuovo Johannes è una ripresa del vecchio. È attratto da una ragazza ma rinuncia a lei per
“senso del dovere”. Si crede essere morale ma in realtà usa le persone e il suo ruolo carismatico per i
propri scopi: un bugiardo esistenziale dunque, una persona bloccata che osserva la vita invece di
viverla davvero con gli altri e per gli altri, come il suo ruolo vorrebbe.
Il marxismo e il comunismo sono invece alla base della visione del mondo del romanziere Hans
Scherfig, che rappresenta la moderna società danese attraverso la forza della sua satira, l’umorismo
incisivo, polemico e feroce. Soprattutto due grandi romanzi di Scherfig – legati anche dal punto di vista
dell’intreccio – vivono nella tradizione danese del Novecento: Den forsvundne fuldmægtig (1938) e
Den forsømte forår (1940) (il secondo è tradotto in italiano). Scherfig è maestro di stile e di ironia; con
una lingua cristallina la voce narrante procede in modo apparentemente neutrale, evidenziando ancora
di più l’intento satirico. Il bersaglio è la cultura borghese danese e i suoi meccanismi oppressivi: la
scuola e il mondo del lavoro. In questi due romanzi Scherfig utilizza anche i procedimenti del
poliziesco con la tipica suspense. Nel secondo romanzo un gruppo di uomini adulti rievoca gli anni
della scuola a una classica “rimpatriata” venti anni dopo il diploma; senza che se ne accorgano, emerge
dai loro racconti una scuola come luogo di terrore (è questa la “primavera perduta” cui fa riferimento il
titolo); l’esito è una preparazione alla vita adulta come prigione, dalla quale si può solo fuggire
fingendosi morti: è questa la storia del primo romanzo.
Tanto efficace è Scherfig nello smascherare i meccanismi alienanti della società borghese e
capitalista, tanto è dogmatico nella sue fede comunista. Crede senza alcun dubbio o critica al
comunismo come viene realizzato nei paesi dell’est europeo dopo la guerra; in una serie di libri di
viaggio esalta la sua utopia senza in realtà vedere i meccanismi oppressivi e la nuova forma di dittatura
che si erano instaurati “oltre cortina”.
Menzioniamo infine per la Danimarca tre autori di teatro, importanti nel Novecento danese come
innovatori della drammaturgia tra gli anni Venti e Trenta: Carl Erik Soya (1896-1983), Kjeld Abell
(1901-1961) e Kaj Munk (1898-1944). I primi due sono uniti dalla critica antiborghese e traggono
suggestioni da Brecht e Pirandello (effetto di straniamento, smascheramento della finzione teatrale,
riflessione su identità e ruolo). L’opera del terzo è caratterizzata da un cristianesimo intenso e
visionario, ad esempio in En idealist (1926) sulla figura di Erode e in Ordet (1925), singolare storia di
un miracolo, più nota nella versione cinematografica di Carl Theodor Dreyer (1955). La storia
personale di Munk, pastore protestante, è anche indicativa del tempo in cui visse: attratto inizialmente
(come molti altri intellettuali occidentali) dalle figure forti e carismatiche dei nuovi dittatori, si
“converte” all’antinazismo durante l’occupazione tedesca della Danimarca, ed entra nella resistenza
clandestina. Viene torturato e ucciso dalla Gestapo nel 1944.

In Svezia si sviluppa, contemporaneamente al modernismo, una tendenza che per quantità e qualità
degli scrittori protagonisti appare un fenomeno unico nella letteratura scandinava e mondiale. È il
movimento degli scrittori proletari autodidatti, che “scalano il Parnaso” senza passare per i luoghi
ufficiali della formazione culturale: liceo e università. Si formano alla “scuola della vita” e del lavoro
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manuale; studiano ai corsi serali del sindacato o nelle folkhögskolor. Diventando scrittori, essi passano
dunque da una funzione professionale manuale a una intellettuale. Tutto ciò ha un forte legame storico-
sociale con l’avanzata dei folkrörelser e, in primo luogo, del movimento operaio e socialdemocratico;
masse di proletari e analfabeti, fino ad allora posti al margine della vita sociale, acquisiscono
soggettività e diritto di cittadinanza anche grazie all’alfabetizzazione e alla cultura. È la Svezia che si
avvia verso la sua grande trasformazione moderna, dove lo stato, a partire dagli anni Trenta, diventa
folkhem, casa per il popolo.
Il romanzo proletario assume spesso forme epiche, collettive e da vasto affresco; è per lo più di
impianto realistico tradizionale ma in alcuni scrittori si fa sentire la lezione del modernismo
novecentesco. C’è spesso il tono fiducioso della grande epopea popolare: la conquista della realtà e
della dignità; ma c’è anche la rappresentazione del lavoro manuale, dei patimenti, della povertà e
dell’emigrazione. Questi racconti hanno il merito di portare nella letteratura ambiti di esperienza fino
ad allora esclusi, oppure inclusi da una prospettiva borghese per quanto magari solidale (ad esempio
nella stagione europea del naturalismo/verismo). Qui invece chi scrive parla per esperienza; i racconti
hanno sostanza autobiografica. Gli scrittori proletari, inoltre, sono per forza di cose ambivalenti verso
la modernità: essa da una parte li emancipa e li libera dalla schiavitù passata; la modernità distrugge
però anche le antiche forme di vita legate al contado e alla comunità di villaggio; la Svezia agreste è
ancora potentemente evocata, anche con nostalgia, nel momento storico della sua trasformazione (e
fine) sotto la spinta dei tempi moderni.
Di questo folto gruppo di autori vediamo solo quattro nomi maggiori: Vilhelm Moberg (1898-1973),
Ivar Lo-Johansson (1901-1990), Eyvind Johnson (1900-1976) e Harry Martinson (1904-1978).
Moberg proviene dallo Småland nella Svezia del sud, regione bella e povera. È figlio di mezzadri che
devono coltivare una terra pietrosa tra laghi e boschi; lo Småland è, assieme al grande Norrland (la
metà settentrionale della Svezia) terra di emigrazione. Moberg studia da autodidatta e si afferma come
scrittore negli anni Trenta. La sua opera più famosa è un grande epos romanzesco in quattro parti
sull’emigrazione svedese nell’America del Nord. Questa emigrazione fu, nei decenni a cavallo tra
Ottocento e Novecento un grande dramma collettivo in tutta la Scandinavia e, anche, la necessaria
valvola di sfogo per alleggerire la questione sociale. I romanzi sono: Utvandrarna (1949), Invandrarna
(1952), Nybyggarna (1956) e Sista brevet till Sverige (1959). La prosa social-realista di Moberg è
tradizionale (e un poco pesante). La sua intenzione è anche polemica verso la Svezia “matrigna”: è
l’egoismo dei ricchi capitalisti che costringe gli ultimi all’esodo. Moberg è molto nostalgico verso le
forme della comunità agreste, e il conflitto tra città e campagna, modernità e tradizione, è un altro filo
rosso che percorre la sua opera. Coraggioso polemista, sempre in prima linea nello smascherare i
soprusi del potere e le ingiustizie, Moberg è anche uno dei pochi autori svedesi che prende
esplicitamente posizione contro il nazismo prima e durante la guerra, facendo di ciò anche un tema
della sua narrativa (altri nomi importanti sono l’anziano Hjalmar Söderberg, Pär Lagerkvist ed Eyvind
Johnson, che vediamo tra poco).
Ivar Lo-Johansson ha una storia simile a quella di Moberg; il suo percorso va dalla regione del
Södermanland (o Sörmland) alla non lontana Stoccolma. Ha narrato l’emancipazione del proletariato
delle campagne in romanzi e novelle dagli anni Trenta agli anni Ottanta. In una lunga serie
autobiografica (anni Cinquanta-Ottanta) ha rappresentato la propria storia come emblema
dell’emancipazione del bracciante attraverso la cultura e la funzione intellettuale. Ivar Lo, come è
affettuosamente chiamato dagli svedesi,6 è l’anima della Svezia popolare e socialista; la sua visione è
fiduciosa e aperta ma anche critica. Anche egli appare come lo scrittore impegnato a difendere sempre
la causa degli ultimi. La sua chiara tendenza progressista e la sua prosa saldamente realistica, si
conciliano con il grande stile, con uno sguardo acuto capace di evidenziare situazioni e conflitti. Della
6
Onore del nome proprio condiviso con Selma (Lagerlöf) e pochi altri. Nessuno in Svezia si sognerebbe di chiamare
Strindberg “August”!
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sua vasta produzione voglio ricordare una novella, En nihilist, tratta da una raccolta del 1973 e
ambientata nell’amata Stoccolma (spesso universo letterario in Ivar Lo): il “nichilista” è un operaio
svedese cui materialmente non manca oramai più nulla ma che, raggiungendo il benessere, non ha più
scopi nella vita, qualcosa in cui credere e per cui lottare. Tale esistenza vuota, priva di valori e progetti,
spaventa Ivar Lo, la cui vita è stata spesa per far sì che gli ultimi si emancipassero in senso materiale e
spirituale. Si tratta di un ripensamento critico sulla realizzazione del folkhem svedese.
Eyvind Johnson proviene dal Västerbotten, nel Norrland, da una famiglia molto povera. Fa mille
lavori e comincia a viaggiare già da ragazzino. La sua formazione è quella tipica dell’autodidatta;
viaggia anche in Europa, vive a Berlino e Parigi e qui entra in contatto con il modernismo e con il
romanzo di Proust e di Joyce. Già il suo primo capolavoro “proletario”, il romanzo autobiografico in
quattro parti Romanen om Olof, I-IV (1934-37) evidenzia forme più innovative del racconto e risente
della lezione modernista. Tutto è narrato dalla prospettiva del ragazzino Olof, dei suoi lavori per
emanciparsi dalla miseria. Nel primo dei quattro romanzi, Nu var det 1914, ci viene incontro ad
esempio la realtà durissima e spesso anche tragica di chi lavorava alla fluitazione (flottning, flottare),
ossia al trasporto fluviale dei tronchi di legno verso le segherie della costa. C’è insomma il valore della
rappresentazione e della denuncia sociale ma anche la qualità letteraria del monologo interiore, del
punto di vista infantile sul mondo. Johnson è importante perché sa trovare un punto di convergenza tra
modernismo e realismo proletario.
Il suo impegno contro i totalitarismi e la guerra si realizza nella trilogia di romanzi sul personaggio
Krilon (1941-43); l’opera è un’allegoria della guerra e della grande lotta tra umanesimo e barbarie e,
anche, la denuncia di una certa passività svedese durante gli anni della beredskap. La disincantata
riflessione sulla storia si realizza poi, dal secondo dopoguerra agli anni Settanta, in una serie di romanzi
storici che decretano il successo di Johnson e motivano il conferimento del Nobel nel 1976 (ex aequo
con Harry Martinson, l’altro “proletario-modernista”). L’idea di Johnson è quella di infondere
l’esperienza del presente, dei traumi del Novecento, nella rilettura del passato. La visione di fondo è
pessimista: più che progredire, l’uomo cade ciclicamente in un conflitto tra valori e barbarie; e le
“ragioni” della guerra e della violenza sembrano avere sempre la meglio; riproponendosi
continuamente. Strändernas svall (1946) rinarra la vicenda di Odisseo; Drömmar om rosor och eld
(1949) ritorna ai processi alle streghe nel Seicento francese; Molnen över Metapontion (1957) intreccia
l’esperienza nei lager nazisti agli accadimenti nella Magna Grecia; Hans nådes tid (1960) parla
dell’Italia longobarda al tempo di Carlo Magno.
Harry Martinson è poeta e romanziere. Proletario e autodidatta, partecipa al primo nucleo di poeti
modernisti svedesi all’inizio degli anni Trenta, chiamato Fem unga, il quale trae ispirazione
dall’esperienza dei poeti svedesi di Finlandia. Anche Martinson sente le suggestioni delle avanguardie
(espressionismo, primitivismo) ma percorre una strada molto personale; la sua lirica della natura
riprende una lunga tradizione svedese; l’esperienza della vita in mare, del viaggio e del vagabondaggio
rappresentano sì la vita proletaria ma assumono anche una valenza esistenziale e filosofica: il senso
dell’appartenenza al cosmo, la ricerca della libertà, il bisogno della scoperta. Le sue figure di
personaggi liberi e sradicati valgono anche come critica alla civiltà e agli aspetti repressivi e distruttivi
della modernità. Nässlorna blomma (1935) è un romanzo autobiografico e proletario sull’infanzia,
mentre in Vägen till Klockrike (1948) il messaggio di umanesimo, tolleranza e libertà – dopo le
esperienze distruttive della guerra – è veicolato da una figura nostalgica, il luffare, ossia il vagabondo
buono che viveva di espedienti nella Svezia contadina. In Vägen till Klockrike, un grande romanzo, le
esperienze degli ultimi vagabondi a cavallo tra Ottocento e Novecento è rappresentata però anche in
tutta la sua durezza e amarezza, senza abbellimenti romantici. Chi prende la strada, lo fa per un impulso
insopprimibile e inspiegabile a non conformarsi alle regole degli “stanziali”, e per questo deve pagare il
prezzo del biasimo e della diffidenza. La preoccupazione per le tendenze autodistruttive della civiltà
moderna nell’epoca della Guerra Fredda è espressa da Martinson in un grande epos antiutopico in versi,
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Aniara (1956), storia di una navicella spaziale alla deriva nello spazio, allegoria di un’umanità senza
più direzione nonostante il suo sapere tecnico-scientifico.
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POESIA MODERNISTA, POESIA DI RESISTENZA, LETTERATURA DEL SECONDO


DOPOGUERRA E NUOVI SEGNALI

I poeti modernisti svedesi cominciano a operare negli anni Trenta, riallacciandosi consapevolmente
all’opera dei poeti finno-svedesi di un decennio prima. All’inizio degli anni Trenta debutta un gruppo di
cinque poeti chiamati Fem Unga, tra i quali Harry Martinson e Artur Lundkvist (1906-1992), poeta e
critico, leader del gruppo. Questa generazione coniuga l’estrazione proletaria con l’entusiasmo verso le
avanguardie artistiche del primo Novecento; è così doppiamente in opposizione verso la cultura
ufficiale e i valori borghesi. Marxismo, psicanalisi, nuova letteratura americana vengono discussi e
introdotti nel dibattito culturale svedese. Lundkvist è traduttore e divulgatore; scrive saggi (es. Ikaros
flykt, 1939) in cui mostra interesse verso gli impulsi di espressionismo, futurismo, surrealismo e
primitivismo. Lundkvist interpreta la fiducia nella modernità, nelle macchine, nella possibilità di
libertà, movimento ed emancipazione create dalla civiltà moderna. Al tempo stesso esalta l’uomo
naturale, la vita degli istinti profondi e dell’inconscio. Lundkvist dà grande fermento e vivacità alla
cultura svedese per molti decenni, fino agli anni Settanta, anche se appare un po’ programmatico nel
suo consapevole tratto vitalistico e sperimentale. Scopre talenti letterari e, tra le altre cose, traduce e
introduce in Svezia la moderna letteratura spagnola e ispano-americana.
Nella sua poesia del 1930 Vi måste lära de nya melodierna il verso libero veicola l’esaltazione del
ritmo urbano moderno. La ”città nera” cui fa riferimento il titolo della raccolta è tale perché legata al
nuovo ritmo jazz. Tutta la poesia trasmette ebbrezza, slancio e ritmo. I toni ricordano quelli del
futurismo italiano di una ventina d’anni prima; ma nel messaggio di Lundkvist c’è qualcosa di più
umano, costruttivo, generoso e solidale rispetto al furore iconoclasta di Marinetti. “Il pianto dorato dei
sassofoni” evoca appunto la malinconia della musica nera e il metallo scintillante del nuovo strumento.
Dobbiamo ricordare che in quegli anni il jazz era considerato spesso un obbrobrio moderno, un’anti-
musica, una forma di cultura bassa e della strada). I nuovi ritmi e le nuove melodie della vita urbana –
sia la musica jazz sia la macchina – fanno ora eco in poesia; i poeti devono cercare e diffondere questi
ritmi; è un dovere ascoltare e imparare dai tempi moderni.
Il più grande poeta modernista svedese, e una delle massime voci della letteratura del Novecento in
Scandinavia, è Gunnar Ekelöf (1907-68). È di estrazione alto-borghese, entra in contatto col
modernismo e le avanguardie ma è scrittore schivo e solitario, che persegue la sua ricerca poetica. Vive
una vita sradicata, resa difficile dall’abuso di alcol, ma è un finissimo poeta e autore di novelle e prose
di riflessione; è anche un critico letterario assai sensibile e profondo. La sua opera si colloca tra il 1932
e gli anni Sessanta. Come poeta è complesso; diverse sono le sue fonti di ispirazione. Una sua maestra
è Edith Södergran; trae poi spunto dal surrealismo e dal dadaismo ma anche dal misticismo e dalla
filosofia orientale. Scrive alcune tra le più belle poesie della natura in svedese. La sua ricerca costante
di una dimensione intima, profonda e autentica si intreccia spesso a un’amara polemica nei confronti
della moderna Svezia del benessere che sta perdendo la memoria, si sta appiattendo sul consenso di
massa. Egli rimane un “lupo solitario” in polemica opposizione; è tuttavia anche consapevole che il suo
messaggio poetico, teso a sostenere la ricerca individuale, è rivolto a tutti, ovvero a tutti quelli che
vogliono fare la fatica di coglierlo. Non è e non vuole essere, in questo senso, un poeta “elitario”.
Sono questi i temi che incontriamo in due emblematiche poesie. Jag tror på den ensamma
människan del 1941 esprime una visione critica dell’uomo ridotto a “mandria” e della moderna società
massificata, che vive in superficie ed evita la via interna e profonda. Il testo rivela il disagio dell’”uomo
solo” Ekelöf di fronte alle grandi forze collettive della civiltà moderna, e rappresenta rispetto a
Lundkvist un canto antimoderno. Eppure alla poesia è affidato un compito costruttivo: quello di
promuovere una prospettiva umana autentica: nel guardarci dentro in profondità, in solitudine, e nel
cercare i valori, magari aiutati dalla poesia, riusciamo anche a essere davvero legati agli altri, a capire
ciò che ci unisce non banalmente, che ci rende umani nel profondo. Paradossalmente, è questa la via
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“solidale” e “pratica” che Ekelöf indica. Quei termini di solidarietà e pragmatismo, non
dimentichiamolo, facevano parte della retorica pubblica e dell’autocoscienza svedese durante gli anni
in cui i socialdemocratici fondavano la loro egemonia politica e culturale e costruivano il moderno
stato sociale, un modello democratico per tutto il Novecento europeo. Ekelöf difende così lo spazio
“inutile” e “poco pratico” della poesia; la voce contraddittoria del poeta dà forse al mondo dei
pragmatici uno spunto di riflessione sul senso e la direzione, e sullo spazio inviolabile e irripetibile
dell’individuo nella grande macchina sociale che rischia di trasformarci in “mandria”.
Till de folkhemske è un attacco sarcastico e duro, immagine negativa della modernità (nella sua
specifica variante socialdemocratica svedese) che ricorda The Waste Land di T.S. Eliot. È una visione
“distopica” da incubo, un attacco al folkhem che parte dall’intraducibile gioco di parole del titolo, tra
folkhem (la “casa per il popolo”, metafora dello stato solidale con tutti i suoi cittadini) e l’aggettivo
hemsk, derivato da hem ma che normalmente significa “terribile”. Troviamo il verso libero e un
susseguirsi di immagini poetiche dense e complesse: la città satellite tra le nuvole, squadrata e
perfettamente igienica; c’è l’astrattezza del funzionalismo, l’utopia sganciata dalla terra e dalle cose
concrete (sono alcune delle possibili associazioni). Vediamo il contesto freddo e asettico in cui giocano
i bambini, curati da bambinaie “rigorosamente salariate”. Si tratta di un incisivo “controdiscorso”
poetico rispetto ad alcuni miti costitutivi del folkhem: l’indignazione verso la lordura di fattigsverige; le
politiche solidali e razionali a sostegno della famiglia e dei genitori che lavorano; la pianificazione
razionale del benessere e la cosiddetta “ingegneria sociale” . Il sarcasmo di Ekelöf dipinge la follia
opposta: la pulizia, l’igiene, l’ordine razionale e la pianificazione sono diventati ossessivi e totali. La
società omologata è quella delle api operaie: asessuate, brulicanti ma ordinate, procedono verso casa
“secondo accordi”, non hanno una vera vita privata, ma hanno gli ormoni regolati dalla (ape) regina
Svea, forse un riferimento critico proprio alle politiche di “pianificazione familiare”, viste come
intrusione dello stato nella sfera intima. L’outsider poeta, un’immagine di sé, può solo ridursi a fare il
conducente dell’elicottero dei rifiuti, vivere dei rifiuti: le fantasie di cui il terrificante stato razionale e
squadrato non ha più bisogno. Nei boschi sono rimasti solo i salutisti, non si incontrano più i vagabondi
(luffare) di fattigsverige. Quella Svezia contadina e marginale in via di estinzione rappresenta per
Ekelöf un valore; sono le radici che non si devono dimenticare (dove la Svezia era tutta invece
proiettata in avanti, nel futuro, nell’utopia della democrazia moderna funzionale e pianificata: il mito
del folkhem).

La poesia norvegese degli anni Quaranta che più si è affermata nel canone nazionale è la poesia di
guerra e di resistenza; è una poesia militante, con una concreta funzione di appello solidale, richiamo ai
valori collettivi condivisi: la libertà, la democrazia e la patria. Circola clandestinamente durante gli anni
dell’occupazione e infonde coraggio, voglia di resistere, diventando la voce di un’intera nazione. È una
poesia corale e cantabile che, per forza di cose, assume forme tradizionali, come si evince chiaramente
dalla poesia di resistenza più nota, Vi overlever alt! di Arnulf Øverland, scritta nell’aprile del 1940,
dunque all’inizio dell’occupazione, ma pubblicata ufficialmente nel 1945, dopo la liberazione. C’è una
totale regolarità nel metro e nelle strofe, così come nel disegno delle rime (abbaccdc). Abbiamo sei
strofe di otto versi scandite dal metro giambico (tre piedi, tranne il quinto e il sesto verso di quattro
piedi). Il ritmo battente e scandito, la cantabilità, il senso univoco del messaggio: tutto indica il canto
collettivo. Le parole più ricorrenti sono vi, oss, vår. C’è un confine netto e inequivocabile tra noi e loro,
i norvegesi e gli invasori, la libertà e il sopruso, il diritto e la dittatura. Viene descritta la disparità
obiettiva delle forze in campo: sparsi nuclei di partigiani lottano contro le divisioni corazzate del Reich
(e in effetti la fase più aperta della resistenza si concluse già nel giugno 1940, quando i tedeschi
piegarono definitivamente ogni tentativo di ribaltare la situazione; rimasero fino al 1945 le azioni di
boicottaggio, la vita in clandestinità, la resistenza tra le montagne, gli atteggiamenti di resistenza
passiva). Eppure ciò che colpisce, se si pensa al momento in cui fu scritta la poesia, è l’intima certezza
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di uscire vincitori dalla prova, l’enorme saldezza morale dei norvegesi, il loro senso indomito di
giustizia. Se i tedeschi ebbero vita difficile per cinque anni, ciò fu dovuto anche a tale spirito indomito.
Øverland ha una lunga produzione nella lirica norvegese. Abbiamo più volte incontrato il suo
nome. Inizia negli anni Dieci come poeta “borghese”, interprete del senso di smarrimento individuale.
Poi scopre, con la prima grande guerra, il messaggio solidale e collettivo del socialismo, che fa proprio,
allontanandosi dalla produzione precedente e diventando negli anni Venti e Trenta poeta radicale,
fortemente critico verso la società e i valori borghesi. Con la poesia di resistenza durante la seconda
guerra Øverland diventa poeta di tutti i norvegesi che si oppongono al nazismo, dai conservatori ai
comunisti, ricoprendo quel ruolo di guida e vate che, per tradizione nella giovane nazione norvegese,
toccava al poeta: il cosiddetto nasjonalskald. Occupa questa posizione di prestigio fino agli anni
Sessanta e, dal punto di vista sia linguistico sia poetico, combatte una battaglia decisamente
conservatrice: contro il nynorsk e il cosiddetto radikal bokmål (quel bokmål che accoglie forme
dialettali e/o del nynorsk), e contro ogni forma di poesia da lui giudicata “oscura” e “incomprensibile”
(ubegripelig), insomma tutto ciò che sa di sperimentazione e modernismo. La lingua poetica deve
secondo Øverland restare piana, logica, discorsiva, “comprensibile”, contenuta in forme regolari. Come
vedremo tra poco, Øverland criticherà i poeti modernisti svedesi degli anni Quaranta e i loro seguaci
norvegesi, dando vita al cosiddetto ubegripelighetsdebatt, il dibattito sulla incomprensibilità. Anche il
prestigio di Øverland fa sì che il modernismo si affermerà più tardi in Norvegia, negli anni Sessanta.
In modo più concentrato, la scrittrice Inger Hagerup (1905-85) comunica lo stesso contenuto di
Vi overlever alt attraverso gli stessi procedimenti formali. Avviene in un’altra poesia di resistenza molto
famosa, Aust Vågøy, scritta nel 1941 come risposta a un’azione di rappresaglia dei tedeschi e
pubblicata ufficialmente nel 1945. Troviamo quattro strofe di quattro versi dove rimano regolarmente il
secondo e il quarto. Il verso è anche qui scandito dal ritmo giambico. Essendo legata a un singolo
episodio di violenza, questa poesia esprime forse più urgenza drammatica, più indignazione, più carica
emotiva della precedente: questa azione è successa oggi, a noi (ripetizioni di vår). Il ritmo battente e
martellante è sottolineato anche da alcune scelte lessicali (hamre... hugge med harde, vonde slag). Si
tratta di incidere, anche a livello formale, nelle coscienze, risvegliare l’opposizione e l’indignazione
(tross è ostinazione). Dalla disperazione dunque si passa alla resistenza e alla fiducia granitica nella
vittoria finale: non cederemo, non passeranno. Ritorna qui la stessa opposizione netta tra “noi” e “loro”,
che abbiamo trovato nel testo di Øverland. La Hagerup debutta nel 1939 e scrive fino agli anni Settanta
e Ottanta. È un’altra poetessa assai amata e popolare e si esprime, come Bull e Øverland, attraverso
forme tradizionali. I suoi temi intimi, familiari ed esistenziali si intrecciano con quelli sociali e politici.
Scrive dell’amore, della donna e dell’infanzia; scrive anche poesia per l’infanzia, ed è la madre di uno
dei narratori per l’infanzia oggi più importanti e tradotti, Klaus Hagerup.
Ci può essere però nella poesia norvegese anche un modo diverso di rappresentare l’esperienza
della guerra e del nazismo; un modo più intimo e soggettivo, meno corale e nazionale; un modo che
esprima il trauma indelebile di quell’esperienza nella vita del soggetto più che la salda certezza della
vittoria del giusto, dunque un modo pieno di incertezza e dolore. Sebbene questa modalità rimanga
ancora abbastanza legata alle forme poetiche regolari della tradizione, il fatto che l’enunciato sia più
complesso e interiore – meno declamabile – avvicina tale modalità alla ricerca modernista in poesia. È
la strada indicata dalla poetessa Gunvor Hofmo (1921-95), autrice assai meno popolare di Øverland e
Hagerup. La Hofmo debutta nel 1946 con la raccolta Jeg vil hjem til menneskene e scrive fino agli anni
Settanta. Il desiderio della scrittrice di “arrivare a casa, dagli uomini”, all’amore e alla condivisione,
resta nella sua vita non realizzato, ostacolato dal disagio psichico e dall’isolamento. La sua voce appare
a volte disperata ma è anche sostenuta da un desiderio cristiano di comunione e di redenzione. Per la
sua sensibilità, la poesia della Hofmo sarà letta a partire dagli anni Sessanta come un’anticipazione del
canone moderno/modernista della poesia norvegese. Nella poesia Møte, tratta dalla prima raccolta,
troviamo cinque strofe di cinque o sei versi di lunghezza variabile, dove rimano il secondo e il quarto
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verso. Vi è dunque una forma che si avvicina al verso libero, che corrisponde poi a un tono intimo e
quasi sussurrato, non scandito o cantato. Il testo collega tre diversi piani dell’esperienza del soggetto: il
paesaggio naturale in cui il soggetto vive il suo momento di ripiegamento interiore; il suo stato d’animo
di sconforto, ossia la sua dimensione privata; il ricordo dell’amica ebrea di lingua tedesca, annientata
dalla Shoah. Questi tre momenti sono un sistema di vasi comunicanti. La guerra è dunque solo un
momento, per quanto fondamentale, di un discorso più complesso. Lo sconforto di cui parla la poetessa
è un’esperienza comune a tutti noi, quando ogni cosa ci sembra “senza rimedio”; qui, tuttavia, il
ricordo dell’amica e del suo destino porta il soggetto a comprendere che solo la morte è senza rimedio;
pensare alla grande sofferenza della Shoah (individuale e collettiva) ridimensiona il “piccolo” dolore
privato, fa uscire da sé. Notiamo anche che per la Hofmo la guerra non è semplicemente “noi”
norvegesi contro “loro” tedeschi. Molti tedeschi, ad esempio gli ebrei tedeschi, furono le prime vittime
del nazionalsocialismo; per questo mettere i due versi conclusivi in lingua tedesca è, nonostante il tono
sommesso, un atto coraggioso. Non c’è sguardo patriottico ma piuttosto cosmopolita e universale. È un
testo che non vale molto come invito alla resistenza ma a mio parere è, come testo poetico, molto più
interessante di quelli di Øverland e Hagerup; la differenza è tra il messaggio diretto e univoco e uno
sguardo più complesso, intimo e profondo.
La polemica di Øverland si rivolge in primo luogo contro Paal Brekke (1923-93), rifugiatosi in
Svezia durante la guerra e qui entrato in contatto con la nuova generazione di poeti modernisti che
debuttano negli anni Quaranta, i fyrtio-talister (“quarantisti”). Anche Brekke opera dagli anni Quaranta
come romanziere, poeta, critico e traduttore. Lo possiamo considerare il primo consapevole mediatore
del modernismo in Norvegia, in posizione ancora minoritaria. Traduce in norvegese i capolavori poetici
di T. S. Eliot, tra cui The Waste Land; adotta nella sua prosa lo stream of consciousness di Joyce. Il
bisogno di nuove modalità espressive è ancora una volta legato a un senso di frantumazione e
devastazione provocato dalla guerra. Il suo tono è tipicamente “quarantista”: angoscia, paralisi,
ermetismo, linguaggio non logico ma associativo, ricchezza di riferimenti colti. Nella serie di poesie
del 1960 Roerne fra Itaka è ripresa la vicenda di Odisseo (pure legata a guerre e al ritorno a casa dopo
le guerre), operando nel senso del “correlativo oggettivo” teorizzato da Eliot: il mito e l’universo
classico diventano citazione, frammento e vengono usati per oggettivare la realtà devastata e senza
direzione del dopoguerra novecentesco.
I 40-talister svedesi più importanti sono Erik Lindegren (1910-68) e Karl Vennberg (1910-95). La
loro opera poetica segna il momento in cui il linguaggio associativo e il verso libero del modernismo
diventano canonici nella lirica svedese. Lindegren è una figura carismatica; la sua poesia è certo
complessa, colta ed ermetica ma tutt’altro che “incomprensibile”. La distruzione della guerra colpisce
in primo luogo la lingua; “la parola fa hara-kiri”, afferma. È tra l’altro in questo stesso contesto
culturale di profondo sgomento postbellico, che il filosofo e sociologo tedesco Adorno giudica “una
barbarie” scrivere poesia dopo Auschwitz. Sono affermazioni assolute e non realistiche (anche Adorno
successivamente ammorbidirà i toni e specificherà); però indicano un clima culturale e uno stato
d’animo reale. In Vennberg il verso libero si lega invece a un linguaggio più discorsivo e prosaico. Egli
esprime il pessimismo e la devastazione causati dalla guerra ma anche la tensione civile, l’appello ai
valori di umanesimo e cristianesimo per salvare ciò che resta della civiltà occidentale. Ha una ricca
produzione poetica fino agli anni Settanta e Ottanta. Om det fanns telefon del 1944 è la sua poesia più
famosa. La situazione presentata richiama qualcosa di molto concreto in guerra (un ferito che si dispera
di salvare) e nel contempo di allegorico: quel moribondo è l’intera cultura occidentale, ci dice il poeta
alla fine del componimento. La situazione tragica e macabra si colora di toni assurdi e grotteschi, ad
esempio attraverso le ripetizioni e i tanti periodi ipotetici di secondo e terzo tipo (possibilità, irrealtà),
che tendono a suggerire una situazione senza via d’uscita, di paralisi; le tante ipotesi scartate ci
mostrano un linguaggio che annaspa, un’umanità che non sa bene da che parte girarsi. È evidentemente
un vissuto molto diverso da quello rappresentato da Øverland e Hagerup. Il verso libero si accompagna
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a uno svolgimento decisamente prosaico, una prosa in forma versificata che fa liberamente uso
dell’enjambement e della tensione che questo crea.
In Danimarca la già menzionata rivista letteraria Heretica (1948-53) esprime una visione del mondo
condizionata, come quella di Brekke in Norvegia e dei “quarantisti” in Svezia, dall’angoscia postbellica
e dal pessimismo di fondo nei confronti della storia e dell’idea di progresso. Sebbene i poeti di questa
cerchia condividano diversi presupposti culturali che li avvicinerebbero al modernismo, essi rimangono
per lo più legati a forme tradizionali. Solo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta
assistiamo in Danimarca a una consapevole svolta modernista nell’uso dei procedimenti poetici, la
quale si ricollega tra l’altro all’esperienza svedese e finno-svedese. Negli anni di Heretica ci si muove
ancora in una tradizione di simbolismo, con una certa chiusura nei confronti del mondo, che i
modernisti più “politici” di un decennio più tardi criticheranno. Un nome importante per Heretica è Ole
Wivel (1921-2004), poeta e critico, personalità culturale centrale nella seconda metà del Novecento in
Danimarca, autore ad esempio di una monografia su Karen Blixen nel 1987 (pubblicata in italiano da
Iperborea). Un altro poeta e scrittore di questa fase, pure legato a Karen Blixen, è Thorkild Bjørnvig
(1918-2004), che pubblica nel 1974 Pagten, il racconto autobiografico del proprio rapporto con la
Blixen (pubbl. in it. da Adelphi), sua mentore premurosa e possessiva. La rottura avviene nel momento
in cui il giovane poeta non può più prescindere dall’appartenenza al proprio tempo, con le sue scissioni
e la sua angoscia; l’appello della Blixen alla dimensione mitica e leggendaria non fa per lui.

Le strutture produttive di Danimarca e Norvegia non sono, nonostante la guerra e l’occupazione,


danneggiate in modo pesante. Quelle della Svezia restano addirittura intatte. Il periodo dal secondo
dopoguerra agli anni Settanta è segnato in Scandinavia da un prodigioso progresso materiale e da una
modernità sempre più diffusa che si esprime ad esempio nell’efficiente organizzazione dello stato
sociale. Dall’esterno la Scandinavia può dare l’idea di una regione ricca, agiata, pacificata e “felice”
(immagine forte in un certo luogo comune). Questo contrasta con il senso di angoscia e pessimismo che
non di rado troviamo nella letteratura del periodo, anche in quella più grande. In particolare
consideriamo qui tre autori, due danesi e uno svedese, accomunati dal fatto di vivere traumi personali
così profondi da condurli al suicidio (altro luogo comune, questa volta in negativo, sulla Scandinavia).
Il suicidio è ovviamente sempre una decisione molto personale e insondabile e ha a che fare con traumi
personali sui quali non possiamo soffermarci qui. Ciò non toglie che il tipo di tensione che sentiamo
nelle opere di questi scrittori sia anche un dato storico, in qualche modo legato all’esperienza di un
mondo andato in frantumi, sull’orlo dell’autodistruzione atomica.
Ole Sarvig (1921-61) è un poeta importante della tradizione novecentesca danese; inoltre è narratore
e saggista. Debutta negli anni Quaranta, è vicino a Heretica, anche se mantiene una posizione in
disparte. La distruzione della guerra condiziona la sua visione del mondo in senso pessimista,
rappresenta la crisi della civiltà europea; la critica pessimista si rivolge anche contro il crescente
materialismo degli anni del “benessere”. Sul piano formale egli è un altro di quegli anticipatori del
modernismo degli anni Sessanta; l’arte appare a Sarvig ciò che salva l’uomo; l’arte redentrice si
accompagna a una visione cristiana, che cerca l’incontro con l’altro, l’amore in Cristo. La sua poesia
esistenziale è nitida, concentrata e di grande forza e rivela un legame, ricorrente nel canone danese, con
la tradizione di salmi e di inni religiosi che a partire dal Cinque- e Seicento costituisce un particolare
“sottogenere” all’interno della poesia scandinava.
La danese Tove Ditlevsen (1917-76) scrive dalla fine degli anni Trenta. È poetessa, narratrice e
autrice di memorie autobiografiche. È tradizionale e popolare nella forma ma moderna nella
rappresentazione senza veli della propria tormentata esistenza, che comprende l’origine proletaria, la
guerra, problemi psichici, la tossicodipendenza e quattro matrimoni. Il vissuto femminile è al centro; il
ricordo recupera l’infanzia ma anche i difficili ruoli quale donna adulta, moglie, madre e scrittrice.
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Stig Dagerman (1923-54), infine, è tra questi l’autore più noto e tradotto all’estero. Nel secondo
dopoguerra in Svezia è considerato la stella nascente, il grande giovane talento della narrativa. È
anarco-sindacalista e giornalista, acuto osservatore della realtà sociale. Nel romanzo Ormen (1945),
storia ambientata al tempo del servizio militare durante gli anni dell’allerta (beredskap), viene fuori la
sensazione di paralisi e angoscia della giovane generazione. Ångest è una parola chiave
dell’esistenzialismo di Dagerman; l’altra è forse solidaritet o medkänsla: l’uscita dall’angoscia è
possibile solo attraverso la solidarietà e la compassione, l’immedesimazione nella sofferenza altrui.
Questo appare in modo quasi provocatorio negli articoli di viaggio raccolti poi in Tysk höst (1947);
senza giudicare moralmente il popolo tedesco colpevole (ma senza nemmeno concessioni ideologiche
“nostalgiche”), Dagerman si sofferma con incisività sulla prostrazione e la sofferenza che lì vede.
Questo approccio suscitò non poche polemiche. Nel romanzo Bränt barn (1948), che rappresenta il
tentato suicidio di un giovane paralizzato dal proprio male di vivere, vengono alla luce molti dei
fantasmi personali di Dagerman. Dopo diversi romanzi e racconti di notevole valore, all’apice di una
carriera fulminante e di successo, Dagerman è colto da una paralisi creativa che niente – neanche la
cosiddetta bella vita con belle donne e macchine di lusso – riesce a sbloccare. A questo, anche, è dovuto
il suo suicidio.

La letteratura degli anni Cinquanta in Scandinavia viene spesso dipinta come stagnante e ferma,
riflesso di società troppo opulente e soddisfatte di sé. Questo in parte è vero. Vediamo più il
consolidarsi e il maturare di percorsi letterari che non nuovi segnali generazionali. Eppure proprio in
questi anni alcuni dei più grandi autori scandinavi (Lagerkvist, Vesaas, Branner, Blixen, Johnson,
Martinson e altri) producono i capolavori della maturità. La poesia modernista in Svezia prosegue i
suoi percorsi mentre quella danese e norvegese si afferma proprio a cavallo tra anni Cinquanta e
Sessanta. Gli anni Cinquanta presentano novità e sperimentazione, ad esempio nella grande arte
cinematografica di Ingmar Bergman, che in questa fase produce alcuni capolavori assoluti della storia
del cinema (Smultronstället, Det sjunde inseglet, Sommarnattens leende solo per nominarne alcuni).
Infine in questi anni si sviluppa enormemente, parallelamente al moderno pensiero pedagogico
antiautoritario, un filone di letteratura scandinava per l’infanzia e i ragazzi, esistente già dall’Ottocento,
che diventa un “marchio di fabbrica” e un prodotto di esportazione della Scandinavia nel mondo. Che
la genesi di questa moderna letteratura infantile sia anche da vedere come risposta alla distruzione e al
pessimismo generati dalla guerra (risposta alternativa, vitale e fiduciosa rispetto alla ångest/angst senza
sbocchi), è dimostrato dal fatto che il 1945 segna il suo atto di nascita: in questo anno esce il primo dei
tre libri su Pippi Långstrump di Astrid Lindgren, svedese (di gran lunga l’autore scandinavo più
tradotto, venduto e letto nel mondo), e contemporaneamente comincia a prendere vita l’universo
fantastico, fatto di scrittura e illustrazioni, dei mumintroll di Tove Jansson, svedese di Finlandia. Altre
importanti scrittrici emergono tra gli anni Cinquanta e Settanta, come la norvegese Ann-Cath. Vestly, la
danese Cecil Bødker e la svedese Marie Gripe; ma Lindgren e Jansson restano le più grandi: madri
sagge, antiautoritarie, profonde e divertenti allo stesso tempo. Alcuni racconti della Lindgren, come gli
irriverenti Pippi Långstrump (1945, 1946, 1948) e Karlsson på taket (1955, 1962, 1968) i “fantasy”
Mio, min Mio (1954) e Bröderna Lejonhjärta (1973), o i più realistici Rasmus på luffen (1956) e Vi på
Saltkråkan (1964) sono opere di grande profondità e sensibilità, fruibili a più livelli (è il tipico
fenomeno di “doppio destinatario” nella ricezione della buona letteratura infantile). Non abbiamo
spazio qui per soffermarci oltre sull’evoluzione (ricca!) della letteratura infantile in Scandinavia; come
vedremo però alla fine di questa dispensa, la recente grande fioritura dagli anni Ottanta a oggi vede
protagonisti diversi autori (uomini) norvegesi, best-seller in patria e all’estero.
Il “momento di pausa” degli anni Cinquanta ha anche una dimensione positiva, come nella poesia
dello svedese Werner Aspenström (1918-97), formatosi con i “quarantisti” ma presto alla ricerca di un
tono proprio attraverso il sorriso ironico, una posizione volutamente più jordnära – “terra terra” –
37

rispetto alle prospettive apocalittiche e assolute del modernismo “quarantista”. Aspenström mira alla
concretezza e alla semplicità, osservando attentamente le piccole-grandi cose della vita di tutti i giorni,
e della natura domestica; si tratta per lui di riguadagnare una dimensione umana, relativa e possibile. È
una voce importante fino alla sua morte e dal 1981 membro della Svenska Akademien (come diversi
altri scrittori fin qui presentati). La breve poesia Ikaros och gossen Gråsten del 1956 è indicativa della
tendenza di Aspenström. L’osservazione si posa, sorridente, sulle piccole-grandi cose della vita che
normalmente sfuggono allo sguardo, ciò che è prosaico e anonimo, concreto, vicino, naturale, ben
piantato a terra. C’è una garbata presa di distanza dalle prospettive astratte e dalla tensione idealistica
(il volo di Icaro). Il riferimento a Icaro può anche riguardare la recente letteratura svedese, visto che
una raccolta di saggi di Artur Lundkvist del 1939 si chiama Ikaros flykt e un poema del 1954 di Erik
Lindegren ha per titolo Ikaros. Eppure quella di Aspenström non è una posizione disimpegnata;
assieme a Lundkvist e Vennberg – tra gli altri – esprime quella “terza posizione” che negli anni della
Guerra Fredda si oppone alla politica sia degli USA sia dell’URSS. La sua ricerca poetica cerca di
evitare la retorica, di restare vicina alle cose.
Della poesia degli anni Cinquanta vediamo anche tre brevi testi norvegesi. Il primo, Ord over grind
(1955), è di Halldis Moren Vesaas (1907-96), moglie di Tarjei, poetessa nynorsk attiva dagli anni Venti.
Il vissuto femminile è al centro della sua poesia: le esperienze dell’infanzia, dell’amore, della vita di
coppia e della maternità sono descritte con un tono intimo e diretto, semplice e profondo. Qui troviamo
una nota poesia indirizzata all’uomo amato, in cui il neonorvegese si appoggia ancora a metro, rima e
schemi tradizionali. Il piano del contenuto esprime tramite un’allegoria una particolare visione del
rapporto a due, per la quale l’intimità, la fiducia e la vicinanza reciproche si conciliano con il rispetto
per lo spazio inviolabile dell’altro/a. Una rinuncia al “dominio” dell’altro/a, alla pretesa di conoscerlo/a
“completamente”.
Rolf Jacobsen debutta già negli anni Trenta ma solo a partire dagli anni Sessanta, dopo la svolta
modernista in Norvegia, comincia a essere considerato uno dei più importanti poeti nazionali. È infatti
considerato un precursore del modernismo per il suo uso del verso libero. La poesia di Jacobsen fa i
conti con la realtà della macchina, della tecnica e della città – con la modernità tecnologica. Al fascino
iniziale subentra la critica, da una posizione che oggi potremmo definire “ambientalista”. Come
sappiamo dalla lettura di Hamsun, la critica alla modernità è anche una delle matrici ideologiche della
destra; e anche Rolf Jacobsen simpatizzò con il nazionalsocialismo occupando però, a differenza del
più famoso collega, una posizione defilata. È negli anni del secondo dopoguerra e del “boom”
economico che si sviluppa pienamente la visione ecologista di Jacobsen. Egli oppone i segni
dell’universo naturale – che indicano armonia, coerenza e senso – alla realtà del mondo tecnologico e
razionale che tende a distruggere e fagocitare la natura. La lirica della natura di Jacobsen è tra le più
concentrate, nitide e interessanti in Scandinavia. In Nattfugl del 1956 viene capovolta la gerarchia che
solitamente vige nel nostro mondo illuminato e raziocinante: sono la notte, il buio e il nero – associati
alle cornacchie – a dirci/insegnarci qualcosa di importante, a noi che solitamente ci “perdiamo nella
luce”. Troppo “lume” (forse anche la luce accecante dell’atomica?) ci fa perdere senso e direzione.
L’oscurità è invece un filo che collega, un nesso con la natura che l’uomo sta perdendo. Questi uccelli
non belli e normalmente impoetici segnalano il bisogno di un legame più solidale tra uomo e ambiente.
Anche in I speilet og i vannet (1956) l’acqua mossa di un fiume o di uno specchio d’acqua naturale è
opposta allo specchio esatto e nitido che ci ridà “esattamente” la nostra immagine. Ma quale dei due
specchi è davvero più esatto? sembra domandarci il poeta. L’identità in fondo non è fissa e oggettiva,
piuttosto mutevole e soggettiva.
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POESIA MODERNISTA TRA ANNI CINQUANTA E SESSANTA

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta interviene un momento di svolta nella
poesia danese e norvegese. I procedimenti poetici che abbiamo imparato a riconoscere come
tipicamente modernisti arrivano in un momento storico in cui le giovani generazioni esprimono anche il
bisogno di una letteratura più aperta alla realtà concreta, sociale e quotidiana. Per questo si parla
contestualmente di una poesia modernista “neosemplice” o “concreta”; lo sperimentalismo si lega a una
nuova consapevolezza politica radicale; si criticano il materialismo e la società dei consumi e, in
politica estera, l’imperialismo delle “superpotenze”, specialmente la guerra americana nel Vietnam. Il
modernismo insomma (e questo vale anche per la Svezia) si incrocia con la cultura del movimento
studentesco, culminata nelle proteste del 1968.
In Danimarca è la rivista Vindrosen, dal 1954, a raccogliere il testimone di Heretica per quanto
riguarda la ricerca poetica più avanzata. A partire dal 1959, quando diventano redattori della rivista
Klaus Rifbjerg (1931) e Villy Sørensen (1929-2001), Vindrosen diventa portavoce dell’esigenza di un
superamento dell’avversione verso la politica e la società. Un simile rinnovamento ha luogo in
Norvegia grazie alla poesia di Jan Erik Vold (1939), poeta e critico. Vold, assieme ad altri scrittori,
dirige la rivista Profil, che diventa in quegli anni il foro del modernismo norvegese. In Svezia è una
poesia del 1965 di Göran Sonnevi (1939) sulla guerra nel Vietnam, che analizzeremo, a diventare il
segnale di un rinnovato interesse per le questioni politiche e sociali.
Questa rivoluzione poetica degli anni Sessanta può essere considerata ancora la base dei molti
indirizzi sperimentali e innovativi che hanno caratterizzato la lirica scandinava degli ultimi quaranta
anni, anche quando questa appare meno politica e più esistenziale. Diversi tra i più noti e validi poeti di
oggi si formano e cominciano a scrivere in questo periodo di fermenti.
Klaus Rifbjerg è una figura centrale del secondo novecento danese, giovane e rivoluzionario negli
anni Cinquanta e Sessanta, autore estremamente prolifico, ora un “grande vecchio” della letteratura
danese. Con il suo sguardo critico di poeta, prosatore e saggista, sceneggiatore e autore di testi per il
cabaret, egli è un po’ la memoria delle trasformazioni storico-sociali del suo paese dagli anni della
guerra al boom economico e fino a oggi; e rappresenta quel filone di kulturradikalism danese di stampo
“brandesiano” (legato al modello di Georg Brandes), interessato sempre ad aprire e sprovincializzare la
Danimarca. Il debutto poetico avviene nel 1956 con Under vejr med mig selv, una raccolta che esprime
voglia di sperimentare e provocare. La sua poesia può essere complessa, associativa e metaforica, tesa a
scandagliare e rappresentare il profondo attraverso una nuova espressione linguistica; può essere però
anche concreta e semplice, priva di metafore, legata alla quotidianità come specchio della condizione
esistenziale dell’uomo. Del 1958 è un suo romanzo che è diventato un classico della letteratura
moderna danese, Den kroniske uskyld, racconto generazionale sull’adolescenza e la giovinezza, dove
compare un linguaggio più franco, aperto e ’trasgressivo’, legato alle esperienze e alla visione del
mondo dei giovani di allora, in opposizione alle regole del mondo adulto. In tal senso un grande
modello di questo romanzo, come di diversi altri, è il capolavoro dell’americano J.D. Salinger The
Catcher in the Rye (Il giovane Holden) del 1951. Non si può non menzionare in questo contesto un
altro libro importante della moderna narrativa danese. Si tratta di un altro pubertetsroman da accostare
a Den kroniske uskyld di Rifbjerg e al modello di Salinger: Rend mig i traditionerne, pure del 1958,
dell’autore Leif Panduro (1923-77).
Dalla raccolta di debutto di Rifbjerg consideriamo una breve poesia del tipo più concreto e
quotidiano, I det skrå tidlige lys. Poeta virtuoso e intellettuale, Rifbjerg scrive spesso poesie lunghe e
complesse, con arditi accostamenti di immagini e parole; qui troviamo invece una poesia più intima e
tendenzialmente senza metafore. È la percezione e il ritratto di un momento, riflessione critica e
autocritica sullo scorrere del tempo e sul rapporto a due come silenzio e solitudine. La luce è obliqua
perché, concretamente, è l’alba o anche perché suggerisce su un piano simbolico disarmonia e
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dissonanza; in questo quadro idilliaco e mattutino (i due protagonisti potrebbero essere in vacanza) si
sente qualcosa di ‘storto’. Il verso è libero anche se scandito dalla ripetizione di “I det skrå tydlige
lys...”.
Lo scrittore Villy Sørensen rappresenta l’indirizzo modernista danese soprattutto nel racconto. È un
autore che si colloca tra narrativa, saggistica e filosofia. Nutre un interesse per l’arte dal punto di vista
filosofico-estetico, come processo conoscitivo. Nei suoi racconti riprende grandi maestri del passato
come Andersen, Hoffmann e Kafka; in filosofia l’interesse per Marx e Freud si intreccia a quello dei
grandi analisti della crisi della civiltà occidentale nell’Ottocento: Schopenhauer, Kierkegaard e
Nietzsche; su questi presupposti Sørensen interpreta la crisi moderna. Politicamente radicale, egli si
oppone sia al capitalismo sia alla dittatura comunista; anche egli è fautore, come diversi altri
intellettuali scandinavi del periodo della guerra fredda, di una possibile “terza via” oltre la logica dei
due blocchi contrapposti. Interessato alla mitologia, rinarra quella germanica in un libretto divertente e
leggero, Ragnarok (1982), tradotto anche in italiano.
Il migliore poeta danese di questa fase è, a mio parere, Ivan Malinowski (1926-89). Durante la guerra
vive esiliato in Svezia, dove conosce la poesia dei “quarantisti”. Partecipa attivamente alla resistenza
danese e all’azione di salvataggio degli ebrei danesi nell’ottobre del ’43. Tutta la sua opera è segnata
dalla profonda consapevolezza politica e dalla protesta contro ogni forma di oppressione. È forte però
in lui il pessimismo modernista, dove la forma libera esprime anche un’idea di mondo disgiunto e senza
più nessi che lo mantengano coeso. Il mondo appare piuttosto invivibile per l’uomo contemporaneo,
oppresso dalle grandi strutture di potere politico ed economico, dal consumismo e dalla distruzione
ambientale. Eppure vince, nell’amara protesta di Malinowski, un momento di ribellione vitale, una
difesa ultima e irriducibile della causa umana, della vita nonostante tutto. L’autore è anche uno dei
maggiori traduttori danesi. Studia la slavistica e traduce dal russo Boris Pasternak ma anche
dall’inglese Pound, dal tedesco Brecht e dallo spagnolo Neruda. Traduce la contemporanea poesia
svedese, raccolta in un’antologia dal significativo titolo Hvis der var telefon i nærheden (1978), dalla
poesia di Karl Vennberg.
La sua poesia Disjecta membra, dalla raccolta Galgenfrist (1958) è una delle sue più note e centrali.
Ritorna, attraverso il verso libero, il senso ‘apocalittico’ che abbiamo percepito in Vennberg. Le
immagini evocano la guerra, quella trascorsa ma anche le guerre che continuano nel mondo negli anni
della cosiddetta guerra fredda. Prevale la visione pessimista, per cui “non c’è abitazione sulla terra”;
tutto è caratterizzato da scissione, lacerazione e instabilità, da ciò che distrugge, dove invece la voce
del poeta, pur nella negazione, cerca pace, stabilità e permanenza. Neanche la fuga ‘ecologica’,
suggerita dalle acque mosse presso le case con i tetti di paglia, sembra offrire possibilità di scampo.
Eppure nell’ultima strofa si impongono la vita indomabile e il rifiuto della morte; hanno loro l’ultima
parola nonostante tutto. I distici di versi liberi, pur privi di punteggiatura (di “giunture”), corrispondono
spesso a un’unità semantica e sintattica, con l’eccezione di due importanti enjambement, che incidono
anche sul piano del contenuto: “men ingen / enhed er den sidste” e “og ingenting / står fast”;
quest’ultimo scavalca non solo il verso ma addirittura la strofa.

Nei maggiori esponenti del modernismo norvegese prevale un elemento vitale e anche giocoso: ci sono
voglia di sperimentare, fermento e creatività, dopo decenni di pratica poetica improntata alla tradizione.
Il modernismo del poeta Stein Mehren (1935) si innesta in realtà su una matrice antica, il
romanticismo, cui l’autore si richiama per indagare il valore conoscitivo ed esistenziale della poesia.
C’è alla base della poesia di Mehren un carattere speculativo e filosofico ma c’è anche sensualità,
colore, musica e amore per la natura. Diversamente da molte voci del pessimismo modernista, Mehren
esprime una fiducia di fondo nella coerenza della vita e dell’universo. Mehren è lontano dal clima a suo
parere troppo politicizzato della poesia del tempo ma è anche contrario a un’idea disimpegnata della
letteratura, come intrattenimento. L’amore e il rapporto tra i sessi forniscono un altro leitmotiv alla sua
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poesia concentrata ed esistenziale. In Mot en verden av lys del 1963 si trova una metafora organica alla
base: la vita umana è vista come seme, germoglio e pianta. La luce rappresenta un ambiente vitale e
l’amore (elske è ripetuto più volte) è l’elemento fecondante. L’amore e la vita si alimentano con
l’apertura al mondo e lo scambio con l’altro. Il seme però non può neanche fare a meno dell’habitat
oscuro e sotterraneo, che pure gli serve per crescere verso la luce.
Vitalità e voglia di sperimentare e conoscere percorrono tutta l’opera di Jan Erik Vold, poeta,
traduttore, critico e saggista, figura centrale della letteratura norvegese contemporanea. È Vold che,
nella sua opera di critico, osa attaccare il canone tradizionalista della poesia norvegese, mettendo in
discussione la validità e l’attualità poetica dei ritmi scanditi e regolari di Bull e Øverland. A tale
tradizione dominante egli oppone una linea fin a quel momento più marginale della lirica norvegese,
che pratica il verso libero e, assieme a questo, un’attitudine meno declamatoria, enfatica e sicura di sé
(ciò che Vold definisce criticamente besvergelse, evocazione), essendo più portata al dubbio, alla
ricerca esistenziale, a una visione insieme più intima e più sobria (ciò che Vold chiama besinnelse,
presa di coscienza); quest’ultima linea minoritaria, che ora si accinge a essere rivalutata nel canone (e a
diventare poco a poco maggioritaria), è rappresentata nella tradizione da voci quali Obstfelder,
Jacobsen e Hofmo.
La poesia modernista di Vold è “concretista” e “neosemplice”: vuole cogliere, provocatoriamente,
l’aspetto più prosaico della vita quotidiana ma anche contaminarsi con altre forme d’arte considerate
più ‘basse’, quali la musica pop (Bob Dylan ad esempio). Vold sperimenta l’happening,
l’improvvisazione poetica sul palco, la contaminazione con il jazz, in quel genere “impuro” fatto di
musica, poesia e scena “dal vivo” definito Jazz’n’Poetry. Un suo compagno di esperimenti è, oggi, uno
dei più grandi sassofonisti jazz al mondo, Jan Garbarek (altro grande maestro della contaminazione:
dalla musica tradizionale norvegese, allo joikk lappone, alla musica orientale al canto gregoriano...). In
Vold si sentono con forza anche l’impegno politico, la critica alla guerra, al potere e all’imperialismo;
ma vi è, con l’impegno, un elemento costante di gioco e divertimento, come vedremo nella poesia sul
Vietnam. Come Malinowski in Danimarca e diversi altri poeti modernisti scandinavi, Vold è affascinato
e ispirato dalla tradizione “minimalista” della poesia giapponese haiku. Infine, come vedremo nella
seconda poesia, Vold sperimenta anche con la poesia tipografica, dove l’aspetto esteriore del
significante, la strofa, rimanda al significato disegnandolo.
Istapptid, innanzitutto, adotta lo stesso procedimento di scrittura senza punteggiatura adottato da
Malinowski in Disjecta membra, con la differenza però di presentare una quantità notevole,
praticamente costante, di enjambement; questo ha anche a che fare con una struttura sintattica
dell’enunciato particolarmente complessa, ipotattica e con la presenza di incisi – un fatto abbastanza
insolito nella lirica scandinava. Questo crea notevole tensione tra l’unità del verso libero, suddiviso in
distici, e unità sintattica e semantica: è il lettore che, nella sua esecuzione del testo, deve allora decidere
dove mettere le pause che danno il senso dell’enunciato. Tale complessità formale si intreccia con un
nesso metaforico piuttosto ingegnoso: i ghiaccioli sotto il tetto di un tranquillo inverno norvegese
rimandano alle incombenti bombe sganciate dall’alto dai cacciabombardieri statunitensi nel Vietnam.
L’accostamento è dunque polemico e critico: il “qui” e il “tu” della nostra vita tranquilla, colta al
mattino mentre ci si prepara per andare a lavorare (il caffè, il giornale, l’uscita di casa...), è accostato a
una realtà terribile fatta di violenza, sopruso e distruzione. Il canale di trasmissione tra queste due realtà
remote è dato dai mezzi d’informazione, che mediano tale terribile realtà lontana, falsandola
irrimediabilmente. Emergono il cinismo della guerra e dei mezzi d’informazione piegati all’interesse
del più forte: c’è ipocrisia da parte dei comandi nel “deplorare” “l’incidente” in cui una bomba ha
colpito la popolazione civile, e la soddisfazione reale da parte degli stessi comandi per avere colpito il
bersaglio che si voleva colpire. L’accostamento a effetto tra vicino e lontano, familiare e minaccioso,
cerca di scuoterci dall’indifferenza e dalla tranquilla apatia: qual è la responsabilità di tutti noi che
assistiamo a questo ‘spettacolo’ e ce ne stiamo buoni, nell’ovattato inverno norvegese (o perché no?
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europeo)? I ghiaccioli dei tetti norvegesi diventano la metafora della minaccia incombente, della
mannaia sopra le nostre teste. Il nome “Vietnam” non è pronunciato ma è quella la guerra che
sconvolge le coscienze a metà degli anni Sessanta. Vedremo tra poco come Om kriget i Vietnam di
Sonnevi utilizzerà un procedimento simile, anche se attraverso un linguaggio meno compresso, più
prosaico, discorsivo e direttamente politico, ‘di denuncia’. Bølge è infine la breve poesia-gioco
tipografica che, ovviamente, disegna un’onda del mare. Il piano del contenuto linguistico parla di
contatto intimo tra amanti, capelli che scorrono tra le dita, onde sulla battigia, sabbia che pure scorre tra
le dita. In senso traslato è anche il trascorrere della vita, in un movimento sinuoso e circolare, così
come avanti e indietro è il moto eterno delle onde.

Göran Sonnevi si è affermato con Om kriget i Vietnam (1965), che diventa il simbolo della nuova
letteratura impegnata degli anni Sessanta in Svezia. L’opera di Sonnevi non si limita però alla poesia
politica. Da allora a oggi l’autore ha sempre ricercato – tanto nelle poesie d’amore quanto in quelle più
filosofiche-esistenziali, di riflessione sul linguaggio e sul rapporto tra lingua e mondo, quanto infine in
quelle politiche – un’autenticità vitale che si opponga alle “strutture”, intese come tutti i
condizionamenti che ingabbiano l’uomo. Ekelöf è, anche per Sonnevi, un importante figura di
riferimento in tal senso. L’uso frequente dell’enjambement nel verso libero di Om kriget i Vietnam crea
come sempre tensione tra l’unità del verso e l’unità della frase di senso compiuto. La denuncia di
Sonnevi potrebbe – per il suo tono esplicito, diretto e prosaico – sembrare quasi un “volantino” da
scrivere in prosa. È però proprio il fatto di scrivere l’enunciato in versi a dargli pregnanza semantica.
Inoltre, come nella poesia di Vold, un procedimento poetico è il traslato che mette continuamente in
polemica relazione la placida immobilità di qui (ancora un inverno, questa volta svedese e scanese) con
i bombardamenti e le inaudite sofferenze di là. Si tratta di un’immagine critica della Scandinavia, dove
tutto è placido e attutito, ovattato; dove l’inverno comunica pace e candore ma anche una certa
passività, paralisi e inattività. Anche in Sonnevi, come in Vold, la manipolazione dei fatti attraverso i
mezzi di comunicazione diventa oggetto specifico della riflessione del poeta: c’è il paradosso della
propaganda di guerra, per cui gli aggrediti diventano gli aggressori. I moderni mezzi di comunicazione,
con cui la moderna poesia si confronta, offrono però anche la possibilità del reportage,
dell’illustrazione di un’altra verità (vedremo anche come nella prosa soprattutto svedese degli anni
Sessanta e Settanta il libro di inchiesta e reportage diventa un nuovo genere tra narrativa e giornalismo
politico). Appartenente al discorso poetico è anche la presenza del soggetto, dell’io lirico che filtra gli
eventi; così come è un procedimento poetico il traslato tra il “libro bianco” (un libro di denuncia senza
autori spesso commissionato da un’autorità governativa) e le “pagine bianche” di neve delle colline
della Scania. È vero però che il tono della poesia cresce nel senso dell’esplicita denuncia politica, fino
all’inequivocabile “USA’s vidriga krig” e alla consapevolezza dei moventi economici che sono sempre
alla base di ogni guerra. Il finale segnala un ritorno al punto da cui la poesia era partita: si è
definitivamente fatto giorno (il paesaggio concreto fuori della finestra, il mutare della luce dell’alba); la
“nuova luce” appare allora il simbolo di una nuova, problematica consapevolezza dei motivi della
guerra.
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LA NARRATIVA DAGLI ANNI SESSANTA AGLI ANNI OTTANTA

La narrativa, e in particolare il genere romanzesco, ha mostrato in epoca moderna – così come


sottolinea il grande critico russo Michail Bachtin 7 – la sua grande poliedricità e duttilità. Il romanzo
non ha un canone fisso bensì è in continua evoluzione. Per questo è il genere moderno per eccellenza, e
anche quello più letto e amato dal pubblico; per questo però è anche il genere più difficile da definire.
La narrativa scandinava di questi ultimi decenni si è mostrata vivacissima e ricca di particolari talenti e
capolavori; la sua scoperta in ambito europeo ha costituito un fenomeno letterario ed editoriale di
notevoli proporzioni, che continua ancora oggi. A partire dalla Germania e dalla Francia, i paesi più
ricettivi dal punto di vista editoriale, tale scoperta e traduzione della narrativa scandinava moderna si è
diffusa in più direzioni: nel mondo anglosassone, nell’Europa mediterranea e in quella orientale. In
Italia, in particolare, è stata la piccola casa editrice milanese Iperborea, sul mercato dal 1988, a
raccogliere con successo la sfida di diffondere la particolare qualità dell’arte nordica del racconto.
Dopo qualche anno anche le nostre case editrici medie e grandi, oltre ad altre piccole, hanno ‘pescato
perle’ – con maggiore o minore regolarità, con o senza un preciso progetto editoriale – dalla prosa
scandinava moderna e contemporanea, allargando lo spettro dell’offerta, anche in direzione della buona
letteratura di intrattenimento (ad esempio il romanzo giallo). Qui non potremo che dare dei cenni
succinti e generali, che però, pur non potendo fare a meno di elencare molti nomi e opere, vorrebbero
evitare di essere solo una lista di nomi; si vorrebbero mettere in evidenza le personalità di maggior
spicco e le tendenze più interessanti, fin dove riusciamo a scorgerle con occhio storico.
Una prima vastissima generalizzazione sulla narrativa scandinava, con la quale partiamo, è che se gli
anni Sessanta e Settanta evidenziano l’interesse sociale e politico, con un forte accento sul messaggio,
gli anni Ottanta e Novanta riconquistano le dimensioni del piacere del racconto, della fantasia e
dell’invenzione, con un più spiccato interesse formale. Forse però si può già correggere tale
generalizzazione dicendo che in molta narrativa di tutto il quarantennio interagiscono dialetticamente,
da un lato, libertà fantastica e abilità del racconto con, dall’altro, impegno etico e politico e
osservazione della realtà sociale. È vero che il romanzo è il genere moderno per eccellenza; d’altra
parte sappiamo anche che l’arte del racconto ha in Scandinavia radici molto antiche. Nel suo saggio
sulle letterature germaniche, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges considera le saghe islandesi dei
prototipi del romanzo moderno, rimasti purtroppo sconosciuti per secoli e ancora poco noti. 8 Le saghe,
le leggende, le fiabe e la tradizione contadina orale ritornano, plasmate, nel moderno romanzo
scandinavo, intrecciandosi con i temi e i luoghi più tipici della modernità. Anche da questo può
derivare il particolare fascino di questa tradizione.

Due tra i maggiori talenti narrativi danesi che si sono affermati tra gli anni Sessanta e Settanta sono
degli individualisti che appaiono piuttosto in contrasto con la dominante tendenza marxista negli anni
della “letteratura impegnata”, in contrasto soprattutto con un certo conformismo dogmatico di sinistra,
che pure è un aspetto della cultura di quegli anni, in Scandinavia e altrove. Entrambi questi scrittori
sono stati introdotti in Italia da Iperborea: Thorkild Hansen (1927-89) e Henrik Stangerup (1937-98).
Hansen si forma intellettualmente nel secondo dopoguerra; soprattutto il suo soggiorno a Parigi è
importante. Lì lavora come giornalista, entrando in contatto con la cultura e la letteratura francese.
Esploratore e archeologo oltre che letterato, sviluppa un’avvincente e dotta narrativa storica dove il
viaggio e la scoperta ricoprono un ruolo importante. I suoi capolavori si collocano tra gli anni Sessanta
e Settanta; sono un genere ibrido di romanzi storico-documentari dove, da una ricerca d’archivio su dati
reali, il narratore sviluppa il suo racconto d’invenzione. L’immaginazione diventa così atto
7
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979; ed. orig. russa del 1975.
8
Jorge Luis Borges, Letterature germaniche medievali, Roma, Theoria, 1984.
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interpretativo della storia, raffigurazione di come, forse, si sono svolti i fatti, lettura “tra le righe” dei
documenti storici. In tutto questo Hansen esibisce una consumata abilità nella costruzione narrativa e
nell’uso della suspense; attraverso la sua narrazione romanzesca la storia vive. Come vedremo tra poco,
il cosiddetto “reportage documentario” è uno dei generi forti della prosa scandinava tra anni Sessanta e
Settanta; ma dove lì si adotta spesso una prospettiva sociale e contemporanea, Hansen usa una chiave
di lettura individualista e un’ambientazione storica. La posizione dello scrittore danese è improntata
alla filosofia di Nietzsche; il suo personaggio tipico è un superuomo/eroe che prende, rispetto alla
Storia e alle regole scritte dai vincitori, una sua strada particolare e solitaria, in opposizione; magari
sbaglia e soccombe ma mostra con questa sua condotta il proprio eroismo. Del 1962 è Den lykkelige
Arabien, su una spedizione di scienziati nordeuropei nello Yemen durante il Settecento; segue nel 1965
Jens Munk, sulla spedizione dell’omonimo capitano danese del Seicento, al servizio di re Cristiano IV,
alla scoperta del famoso passaggio a nord-ovest per circumnavigare l’America. Tra il 1967 e il 1970
esce una trilogia di romanzi che disegna la storia – poco nota e poco nobile – dello schiavismo danese,
attivo ancora a metà dell’Ottocento (Slavernes kyst, Slavernes skibe e Slavernes øer). Il libro più
controverso di Hansen, infine, è quello che mette al centro lo scandaloso eroe per eccellenza del
Novecento scandinavo: Processen mod Hamsun (1978). Se, come vedremo, il reportage più tipico degli
anni Sessanta e Settanta si configura come rinuncia alla fiction per “i dati di fatto”, nel romanzo
storico-documentario di Hansen è l’abilità narrativa a fare rivivere i documenti, a disporli in un plot di
grande fascino e suggestione. La capacità di trascinare il lettore dalla parte di Hamsun, grandioso anche
nel suo errore, suscita effettivamente sentimenti molto ambivalenti; a una lettura più fredda possiamo
accorgerci di come la visione della storia e del caso proposto sia tendenziosa e opinabile. In tutta la
Scandinavia il libro non poté non scatenare un dibattito molto vivace sul finire degli anni Settanta che,
al di là di tutto, fu un’importante attualizzazione del problema hamsuniano, e di cui rimangono molti
validi contribuiti critici.9 Anche questo un merito di Thorkild Hansen.
Stangerup è nipote dello scrittore svedese Hjalmar Söderberg, che si sposò in seconde nozze con una
donna danese, Emilie Voss, e la cui figlia Betty, attrice, sposò a sua volta lo storico della letteratura
Håkon Stangerup. Anche per Henrik Stangerup la Francia e Parigi sono luoghi fondamentali della
formazione; l’amore per la cultura dei paesi neolatini (Francia e America Latina in primo luogo) si
configura inoltre per Stangerup come antidoto nei confronti del tradizionale rigore luterano del Nord,
che egli valuta molto criticamente. A Parigi lavora come reporter; qui sviluppa il suo stile, osserva la
società con i suoi tipi, si muove nel mondo dei mass-media che rappresenta in modo critico. In quegli
anni la cultura francese rileggeva e rivalutava la filosofia dell’esistenza del danese Søren Kierkegaard,
in un certo senso un precursore dell’esistenzialismo moderno. La difesa kierkegaardiana di hin Enkelte,
“quel singolo”, ovvero dell’individuo nella sua dignità inviolabile, diventa un motivo centrale anche
nell’opera di Stangerup.
È centrale già nel romanzo antiutopico del 1973 Manden der ville være skyldig, con cui l’autore si
afferma; e ritorna nella sua trilogia di romanzi storici, scandita su tre personaggi danesi realmente
esistiti e raffiguranti simbolicamente i tre “stadi” kierkegaardiani dell’esistenza. L’uomo estetico, il
poeta romantico e “maledetto” Peder Ludvig Møller, è protagonista di Det er svært at dø i Dieppe
(1985). L’uomo etico è lo scienziato Peter Vilhelm Lund in Vejen til Lagoa Santa (1981). Lund fu
contemporaneo di Kierkegaard e un suo conoscente; la sua convinta posizione creazionista – a difesa
cioè della veridicità del racconto biblico della creazione del mondo – lo porta a dedicarsi totalmente al
lavoro di ricerca e a recarsi in Brasile, al fine di raccogliere, da tipico homo faber occidentale, dati a
sostegno della sua ipotesi. Tutti i dati lo portano però a dovere ammettere ciò che non vuole: la
fondatezza dell’opposta ipotesi evoluzionista che, con il darwinismo, stava decretando la “morte di
Dio” nella cultura occidentale. Infine l’uomo religioso è Broder Jacob (1991), francescano del

9
Cfr. Simen Skjønsberg (red.), Det uskyldige geni? Fra debatten om ”Prosessen mot Hamsun”, Oslo, Gyldendal, 1979.
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Cinquecento, fuggito dalla persecuzione anticattolica in patria, che finisce per diventare difensore della
causa degli indios in Messico, contro lo sterminio spagnolo avallato proprio dalla chiesa cattolica di cui
lui stesso fa parte.
Manden der ville være skyldig è un romanzo breve di grande forza, un atto di protesta contro i
moderni meccanismi dell’omologazione che minacciano l’integrità dell’individuo. L’ambientazione è
in una Copenaghen leggermente futura rispetto agli anni Settanta; la Danimarca del welfare state “dalla
culla alla tomba” si è trasformata da utopia a incubo. È la storia di Torben, ex scrittore, che in un
momento di crisi uccide la moglie Edith, accecato dalla rabbia perché vede che anche lei sta cedendo ai
meccanismi dell’omologazione in questa sorta di totalitarismo morbido, fatto di Assistenti onnipresenti,
riunioni “anti-aggressività”, socialità obbligatoria e annullamento dell’individuo. La storia che segue è
il tentativo disperato di Torben di potere essere ritenuto colpevole, e così espiare e, anche, potere
riabbracciare il piccolo figlio Jesper che gli è stato tolto. Torben sente pentimento e nostalgia di Edith, e
vorrebbe vedere riconosciuta la propria colpa; ma lo stato degli Assistenti ha estirpato il concetto di
colpa e, con questo, l’idea di responsabilità individuale e di soggettività. Gli uomini vanno piegati a
strumento inerte, “materiale umano” per un fine sociale che appare da incubo. È un romanzo giocato
sullo sguardo retrospettivo di Torben: come si è potuti arrivare a questo da parte della generazione della
protesta studentesca (la generazione di Torben ed Edith), che in realtà sognava amore, libertà e
giustizia? La storia generazionale diventa polemica contro l’omologazione; dalla “fantasia al potere”
questa generazione scivola via via verso forme dogmatiche cui tutti si piegano; l’individualità è
incanalata e controllata in ogni momento. In più appare un’immagine tipicamente distopica (pensiamo
ad altri classici novecenteschi del genere) del deserto urbano (tutti abitano in grandi casermoni) e di
distruzione ambientale. È interessante anche la riflessione sul linguaggio e sulla sua manipolazione
quale strumento dell’omologazione (altro leitmotiv ricorrente nelle distopie). In quanto ex scrittore
“integrato” Torben lavora per un istituto che amputa la lingua per decreto, su base ideologica: le tasse
diventano “contributo di solidarietà”; la casalinga è stigmatizzata come “donna passiva”. Gli
interlocutori ai quali Torben si rivolge nel suo progressivo degrado e disperazione sono tutti integrati:
tutti capiscono in fondo l’esigenza profonda di autenticità di Torben ma nessuno è disposto a rischiare
il posto per aiutarlo. Il meccanismo della manipolazione del consenso è grandiosamente rappresentato
(con una capacità di leggere veramente nel futuro) nell’ultima parte del romanzo. Torben conosce il
giornalista tv Villy (un super-integrato e finto libero, che vive in un cottage in uno dei pochi punti del
paese ancora risparmiati dal degrado ambientale). Torben viene invitato a un tipico talk-show, dove si
illude di potere “bucare il teleschermo” e appellarsi al popolo, richiamandolo al senso di responsabilità
individuale e autenticità; qui confessa il suo amore per Edith e la disperazione per l’atto commesso.
Poi, per il “diritto di replica”, gli Assistenti formano un muro di gomma, dove la protesta individuale è
usata ma non ha modo di passare. Così, il momento più struggente e autentico per Torben, la sua
protesta contro la gabbia del conformismo, diventa, attraverso quel canale, automaticamente falso e
manipolabile.
Stangerup, esule volontario a Parigi, polemico contro la Danimarca, ha sempre mantenuto una
posizione scomoda e anticonformista. Assieme a una grande generosità ed empatia, si portava dentro il
male di vivere, la solitudine e il demone dell’alcol, fattori che hanno contribuito alla sua prematura
scomparsa.
Un altro interessante scrittore danese che debutta negli anni Cinquanta e opera fino agli anni Novanta
è Peter Seeberg (1925-99). Scrive soprattutto prosa breve ed è un maestro della novella. La sua visione
del mondo è vicina a quella dell’amico Thorkild Hansen, caratterizzata dal pessimismo nei confronti
della storia, influenzata dal pensiero di Nietzsche e dell’esistenzialismo francese. Come diversi autori
contemporanei norvegesi (vedremo Carling e Askildsen), anche Seeberg sceglie di rappresentare,
attraverso una prosa minimalista e votata al quotidiano, l’assurdità della vita, la mancanza e, intanto, la
ricerca di un senso. La forma concreta e semplice è in funzione di una prospettiva esistenziale, che
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parla di perdita della realtà. In tal senso Seeberg precorre quel ritorno alla novella che caratterizza la
giovane prosa danese degli anni Novanta, soprattutto per opera di scrittrici quali Solvieg Balle (1962),
Helle Helle (1965) e Christine Hesselholdt (1962). Di Seeberg ricordiamo, tradotta da Iperborea, la
raccolta di racconti Eftersøgningen og andre noveller (1962).
Suzanne Brøgger (1944) debutta nel 1973 con Fri os fra kjærligheden, alla luce del femminismo e
della “rivoluzione sessuale”, intesa come critica radicale al matrimonio borghese e alle forme
canoniche di “amore”. Per questo si caratterizza da subito come scrittrice sensuale e provocatoria, con
un impatto anche “mediatico” molto forte, visto il suo fascino. Supera in modo formalmente innovativo
le tradizionali suddivisioni dei generi in prosa, creando un “suo” genere, che unisce fiction,
autobiografia, saggio, intervista e reportage. Acuta osservatrice del costume sociale, personaggio
pubblico che per certi versi può ricordare la Blixen, vive, come tutti, la fine dell’utopia rivoluzionaria e
antiborghese durante gli anni Ottanta e Novanta, continuando a scrivere opere importanti per il loro
intelligente taglio critico. Non è tradotta in italiano.
Concludiamo la presentazione della prosa danese con Svend Åge Madsen (1939), il “maestro di
Aarhus”, che è insieme la sua città natale e il suo universo romanzesco. Madsen è scrittore e
personaggio originale, assolutamente unico. È uno scrittore con una notevole inventiva e un estro
narrativo che pare inesauribile. Debutta negli anni Sessanta con opere di taglio modernista e
sperimentale; si afferma negli anni Settanta e, da allora a oggi, rafforza la sua posizione come uno dei
maggiori romanzieri danesi viventi. Madsen studia la letteratura e la matematica. La sua passione per il
racconto e le sue regole dà vita a variazioni infinite. L’autore esprime uno spiccato interesse
metaletterario: il raccontare crea il mondo, e l’officina stessa del racconto, lo spazio dello scrittore,
diventa un luogo narrato. Il gioco compositivo non è però fine a se stesso ma si combina a una
posizione seria e a un’interrogazione etica di fondo – un umanesimo esistenziale tipicamente
scandinavo che ruota attorno alla domanda sulla nostra identità, la nostra essenza, il senso della nostra
vita. In un saggio del 1992, Den eksistentielle fortælling, Madsen ha esposto questa sua visione. Tra i
romanzi ricordiamo del 1976 Tugt og utugt i mellomtiden, che raffigura una Aarhus del futuro, dove si
compie uno studio archeologico sulla vita in città un millennio prima, negli anni Settanta del
Novecento. Del 1999 è Genspejlet, tradotto presso Iperborea come Rigenesi,10 dove al centro c’è
l’interesse esistenziale per i confini etici rispetto alla sfida posta dalle bio-tecnologie: fin dove si può
spingere l’uomo nel creare artificialmente la vita? In un recente incontro a Milano, proprio in occasione
della pubblicazione di Rigenesi, Madsen ha spiegato di volere tentare di creare, attraverso l’arte del
racconto, dei “miti moderni”, capaci di spiegare con la concretezza della poesia i nostri dilemmi in
quanto individui del nostro tempo.

Passando ora a illustrare le tendenze della prosa svedese tra gli anni Sessanta e Ottanta, osserviamo
innanzitutto l’emergere, negli anni Sessanta e Settanta, del reportage d’inchiesta e di denuncia e, vicina
a questo, la linea del romanzo storico-documentario, già magistralmente espressa nella narrativa dei
danesi Hansen e Stangerup.
Con il reportage, lo scrittore si toglie volutamente i panni del “poeta” creatore di storie, per osservare
la realtà con piglio giornalistico e di denuncia, con un forte accento sul messaggio e l’impegno civile.
L’autrice che forse meglio di ogni altro impersona la dialettica tra “racconto” e “impegno” è Sara
Lidman (1923-2004), proveniente dalla regione settentrionale del Västerbotten e affermatasi già tra gli
anni Cinquanta e Sessanta con romanzi ambientati nella cultura povera e contadina di provenienza;
sono romanzi intensi ed “esotici”, che già sperimentano quell’impasto di svedese standard, dialetto e
lingua biblica che costituisce un importante elemento formale nella cosiddetta norrlandslitteratur
(abbiamo già visto Eyvind Johnson, vedremo Per Olov Enquist e Torgny Lindgren). Ma alla tradizione
10
Genspejlet è un gioco di parole, volendo dire sia, normalmente, “ri-specchiato”, sia “specchiato nel gene”. Il titolo italiano
ricrea una sorta di gioco di parole, diverso dall’originale ma che coglie il tema della ri-creazione (artificiale) della vita.
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e al localismo subentrano la modernità e il cosmopolitismo, e nel corso degli anni Sessanta arriva la
svolta dell’impegno politico a sinistra e del reportage di denuncia. La presa di coscienza dell’ingiustizia
nel mondo e dell’imperialismo (sono quelli anche gli anni in cui il “terzomondismo” della Svezia è
forte e l’astro di Olof Palme, futuro carismatico primo ministro socialdemocratico, è in ascesa) porta la
Lidman a interessarsi dell’apartheid in Sudafrica e della guerra americana nel Vietnam, attraverso una
serie di racconti e reportage: Jag och min son (1961), Med fem diamanter (1965) e Samtal i Hanoi
(1966). Lo sfruttamento esiste però, più nascosto e rimosso, anche nella progredita Svezia: l’estremo
nord del paese è, insieme, la zona più povera e depressa e la fonte della più grande ricchezza nazionale:
il ferro delle miniere in Lapponia. In un mirabile reportage corredato di fotografie, Gruva (1968), la
Lidman racconta della vita dei minatori, delle condizioni di lavoro molto dure, e dà loro voce attraverso
le interviste. La denuncia passa attraverso l’empatia, il vedere con i propri occhi, l’utilizzo di un tono
sobrio e secco ma di grande partecipazione: è la grande arte del reportage. Nel corso degli anni Settanta
la Lidman si impegna in politica e diventa una voce carismatica della sinistra radicale. Negli anni
Ottanta e Novanta, però, ella ritorna al grande racconto e alla narrativa d’invenzione – un passaggio,
come si è già detto, indicativo dal punto di vista storico-letterario. La nuova serie di romanzi della
Lidman tornano alla storia del Norrland, letta attraverso l’epopea della costruzione della ferrovia – al
tempo stesso storia operaia, storia del capitalismo e storia della “conquista” del Norrland da parte di
Stoccolma. Qui si scontrano la tradizione e la modernità e, soprattutto, i valori solidali e l’egoismo di
chi cerca solo l’arricchimento personale.
Accanto alla Lidman, nominiamo almeno un altro scrittore che si afferma con il reportage negli anni
Settanta: Jan Myrdal (1923), che nei suoi libri di viaggio esprime entusiasmo e curiosità verso la Cina
della Rivoluzione Culturale. Myrdal, figlio di due economisti premi Nobel e artefici del welfare state
svedese dagli anni Trenta, Gunnar e Alma Myrdal, è noto anche per i suoi libri autobiografici (che
contengono una decisa presa di distanza dai genitori) e per i suoi interventi come critico letterario (su
Strindberg ad esempio) e commentatore sociale.
Tra gli anni Sessanta e Ottanta si afferma in Svezia una generazione di narratori di grande valore;
diversi di loro sono diventati veri e propri classici moderni della letteratura svedese. Si può anche dire
che lo slancio iniziale di Iperborea dipese anche dalla possibilità di potere attingere ai capolavori di
questa generazione muovendosi come su un terreno vergine e sconosciuto in Italia.
Sven Delblanc (1931-92) è romanziere, critico letterario e storico della letteratura (tra l’altro uno dei
curatori e autori della storia della letteratura svedese standard uscita negli anni Ottanta in più volumi,
Den svenska litteraturen). Come romanziere è colto e raffinato, con una spiccata passione storico-
documentaria e, soprattutto, una propensione alla riflessione filosofica ed esistenziale. Emerge dalla
narrativa di Delblanc una visione pessimistica della storia e del rapporto tra intellettuale e potere. La
ricerca della libertà, dei valori e del senso, legata alla missione intellettuale, si corrompe sempre nel
momento in cui l’intellettuale cede al potere. I capolavori di questa linea romanzesca sono
Prästkappan (1963), Kastrater (1975), Speranza (1980) e Jerusalems natt (1983). Solo gli ultimi due
sono tradotti in italiano. In Speranza ritorna la questione dello schiavismo, dal punto di vista di un
intellettuale illuminista che smarrisce i propri ideali e diventa fautore dello sfruttamento. Jerusalems
natt, dove si percepisce la lezione del maestro Lagerkvist e del suo Barabba, Delblanc ritorna al mistero
del cristianesimo e della crocifissione, in un intenso racconto che oppone la fede nei valori –
trascendenti o meno – ai meccanismi del potere. La notte di Gerusalemme è anche il primo titolo
pubblicato da Iperborea, nel 1988. In un altro suo ricco filone romanzesco, a cominciare dal bel
Samuels bok (1981), Delblanc attinge alla tradizione popolare, al racconto proletario e contadino, alla
memoria della sua famiglia che visse l’esperienza dell’emigrazione in America e del ritorno in Svezia.
Questa produzione è meno tradotta, più “nazionale”; qui rivivono il grande racconto realistico svedese
e la storia della fatica di quegli anonimi che (come scrive il collega di Delblanc, Per Olov Enquist)
“crearono le premesse” della Svezia contemporanea; qui opera il necessario recupero della memoria
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come atto d’amore, il bisogno di non dimenticare quelle premesse di povertà, proiettati come si è in
Svezia nella modernità e nel “benessere”. In questi racconti realistici ritornano anche i temi esistenziali
e intellettuali più cari all’autore, primi fra tutti il rapporto tra intellettuale e potere e la sete di
redenzione e trascendenza. È la stessa sete di redenzione e trascendenza di Delblanc a renderlo un
lettore così fine dell’opera di Strindberg (si vedano i tre studi in Stormhatten del 1978, uno su Ett
drömspel) e di Lagerkvist (in Den svenska litteraturen).
Se Delblanc è un anarchico radicale e umanista, il collega e amico Lars Gustafsson (1936) è il grande
intellettuale e scrittore svedese scomodo, da sempre schierato a destra: polemico contro la Svezia
socialdemocratica e la sua “oppressione fiscale”, esiliato volontario negli Stati Uniti, ad Austin nel
Texas, dove è professore universitario di storia del pensiero europeo. Gustafsson, poeta oltre che
narratore, scrive romanzi tendenzialmente brevi e sobri e di grande livello stilistico, dove a una iniziale
vena fantastica fa seguito un interesse filosofico e di riflessione esistenziale. Scrittore colto e
individualista, produce il suo capolavoro con En biodlares död (1978), dove nel monologo
dell’apicultore malato di tumore emergono i temi più interessanti della narrativa di Gustafsson:
l’inafferrabilità dell’io e della vita, l’imprescindibile condizione di solitudine dell’uomo, la sostanziale
inconsistenza del tutto e, però, la continua ricerca di un senso che tenga. Da grande narratore,
Gustafsson ha variato questi temi in molti best-seller. In Italia solo Iperborea ha pubblicato sette suoi
libri e in Germania Gustafsson è un autore molto noto. La sua produzione degli anni Ottanta e Novanta,
molto ricca, riflette i rivolgimenti storici ed epocali, anche attraverso un’acuta osservazione del mondo
contemporaneo e dei suoi tipi, avvicinandosi molto a quella percezione cosiddetta “postmoderna” della
frammentarietà del mondo e della mancanza di punti di riferimento certi.
Per Olov Enquist (1934) è romanziere e drammaturgo. Proviene anche lui dal Västerbotten più
povero, dove forte era l’impronta della cultura contadina e pietista. Con questo retaggio di partenza,
Enquist diventa nel corso degli anni l’intellettuale svedese moderno, illuminato e cosmopolita per
eccellenza. È un nome centrale della cultura svedese contemporanea e da sempre una coscienza critica
della socialdemocrazia. Nei suoi romanzi degli anni Sessanta persegue da una parte una linea più
sperimentale, più difficile e meno tradotta all’estero, e dall’altra inaugura i suoi romanzi storico-
documentari. In questi ultimi la voce narrante assume il rilievo del personaggio, il narratore-indagatore
che esamina un caso storico interessante e controverso e, nel narrarlo e (ri)costruirlo, illustra il proprio
percorso di ricerca e di complessa rappresentazione della verità storica. Tra questi romanzi storico-
documentari, Musikanternas uttåg (1978), Livläkarens besök (1999) e Lewis resa (2001) formano una
sorta di libera trilogia che, intrecciando i destini del Settecento e del Novecento, e il Norrland con
Copenaghen e Stoccolma, offre un’avvincente lettura della modernità scandinava, percorsa da istanze
razionaliste e progressiste e, contemporaneamente, con un forte sostrato pietista e religioso. In tal modo
Enquist dà, seppure indirettamente, un’interpretazione della propria storia personale; il suo alter ego
narratore è in fondo alla ricerca della verità su se stesso.
Come drammaturgo (e sceneggiatore per il cinema e la televisione), Enquist è uno dei maggiori in
Svezia, assieme all’altro drammaturgo – molto diverso – di cui parlerò più avanti, Lars Norén. Spesso
Enquist prende spunto dalla vita dei più grandi scrittori e artisti scandinavi, per riflettere (anche qui in
modo indirettamente autobiografico) sulla vita dello scrittore e intellettuale, sul rapporto tra arte e vita,
parola e potere. Nel dramma Tribadernas natt (1975) viene efficacemente rappresentata – con il
procedimento del “teatro nel teatro” – l’ossessione misogina di Strindberg contro la sua prima moglie,
l’attrice Siri von Essen. Il tutto si svolge durante le prove di un atto unico di Strindberg, Den starkare
(1889), che vede Siri nella parte di protagonista. Il dramma Från regnormarnas liv (1981) mette invece
di fronte Hans Christian Andersen e la più grande attrice danese di metà Ottocento, Johanne Louise
Heiberg, moglie del letterato, commediografo e arbitro del gusto della Danimarca del tempo, il
“professor” Johan Ludvig Heiberg. Sia Andersen sia la Heiberg hanno una storia di povertà alle spalle,
e di ascesa sociale grazie al loro talento artistico, che li conduce alla gloria e alla ricchezza, ma a quale
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prezzo? Nella sceneggiatura televisiva Strindberg. Ett liv (1988) Enquist sintetizza efficacemente in
quadri drammatici i nodi importanti della vita tormentata del più grande autore svedese. In Hamsun
(1996), sceneggiatura cinematografica, Enquist rilegge, sulla base del romanzo documentario di
Thorkild Hansen, le implicazioni del rapporto tra intellettuale e potere. 11 Infine nel dramma
Bildmakarna (1998) Enquist, questa volta con il procedimento del “cinema nel teatro” mette a
confronto la storia di quattro artisti, tra i quali i più famosi sono la scrittrice Selma Lagerlöf e il regista
e attore Victor Sjöström.12 L’ambientazione è il set del film di Sjöström tratto dal racconto della
Lagerlöf Körkarlen, un film che ha fatto epoca, anche dal punto di vista tecnico, nella cinematografia
svedese. Anche per questi artisti, la creatività e il genio risultano sgorgare da una sorgente di dolore
personale, questa volta legato alla maledizione dell’alcol nella propria storia familiare.
Torgny Lindgren (1938) comincia negli anni Sessanta e Ottanta con racconti di vita contemporanea
ma si afferma negli anni Ottanta con un paio di capolavori ambientati nel suo Västerbotten povero,
contadino e “premoderno”, il romanzo Ormens väg på hälleberget (1982) e i racconti in Merabs
skönhet (1983). La particolarità di questi testi è lo straordinario impasto linguistico tra svedese
standard, dialetto e continui echi di lingua biblica; la cosa ci ricorda che, per secoli, la Bibbia è stata la
fonte pressoché unica di lingua e racconto, oltre che di Legge e di Verbo, per i contadini svedesi.
Lindgren stesso racconta come la nonna amasse ricamare racconti propri, che rielaboravano
liberamente quelli del Libro Sacro. Questa tecnica ritorna in un altro bel romanzo di Lindgren, Bat
Seba (1985), ovvero Betsabea moglie di re David: un racconto molto biblico ma anche una lettura tutta
novecentesca e “al femminile”, tendente a capovolgere il patriarcato della tradizione. Da allora
Lindgren ha scritto altri libri di valore, dove varia i suoi temi: il Norrland, la particolare modalità di
racconto fantastico, umoristico e “menzognero” detto skröna; la riflessione sulla vita e la propria fede
cristiana (Lindgren si è convertito al cattolicesimo, restando però – almeno dal nostro punto di vista –
molto “luterano” nella propria cultura biblica).
Tra questi grandi scrittori, il più grande di tutti è a mio parere Göran Tunström (1937-2000). Anche
lui debutta tra gli anni Sessanta e Settanta, nel clima culturale radicale e di contestazione. Il suo estro
fantastico non si trova però a proprio agio nella letteratura social-realista, politica e impegnata del
tempo. Proviene da Sunne nel Värmland, il comune da cui proviene anche la grande Selma Lagerlöf
(località di Mårbacka, oggi museo nazionale). La Lagerlöf è per Tunström, come si può immaginare,
un’eredità ingombrante, una figura amata e odiata allo stesso tempo. Selma – significativamente
sdoppiata in un’insopportabile “Selma del giorno”, sorta di monumento nazionale vivente, e una
fantastica e trascinante “Selma della notte” – figura come personaggio secondario nel capolavoro di
Tunström, uno dei romanzi più belli e complessi delle letterature nordiche, Juloratoriet (1983). È la
storia di una famiglia svedese nel corso del Novecento, dove il marito e i figli, un ragazzo e una
ragazza, devono affrontare ognuno a suo modo il dolore lacerante della perdita della moglie e madre, la
solare Solveig, morta in un stupido incidente in bicicletta. Solveig, il cui entusiasmo vitale si esprimeva
anche nel folle progetto di mettere poco a poco in piedi con il suo coro amatoriale di provincia tutto
l’Oratorio di Natale di Bach, lascia al nipote Victor – figlio del figlio Sidner e voce narrante – questa
importante eredità. Victor è direttore d’orchestra. Il libro è però soprattutto la storia di come Sidner e il
padre Aron affrontano e rielaborano, con esiti opposti, il proprio lutto. Aron si rifugia sempre più in un
mondo di fantasia che, se lo protegge dalla presa di coscienza di un dolore per lui insopportabile, lo
conduce progressivamente fuori dal mondo; Sidner passa attraverso la follia e la dissoluzione del
linguaggio (da cui, anche, la complessità del testo), per risalire, però, alla vita: la cognizione del dolore
diventa allora forza vitale, energia positiva, amore per il mondo. La prospettiva di redenzione è offerta
11
Il bel film per la regia di Jan Troell, e con un grande Max von Sidow (noto attore bergmaniano) nella parte dello scrittore,
non è mai arrivato in Italia.
12
Maestro di Bergman, lo ricordiamo nella sua ultima interpretazione come attore nella parte dell’anziano dottor Borg in
Smultronstället, proprio di Ingmar Bergman.
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dall’amore, dalla condivisione, dalla passione per la vita, l’armonia e la bellezza. Un altro capolavoro,
con gli stessi leitmotiv ma con esiti più cupi, è Tjuven (1986), non ancora tradotto, su un ragazzo
erudito e povero che sogna di rubare il noto Codex Argenteus con la Bibbia di Ulfila, custodito alla
biblioteca universitaria di Uppsala, Carolina Rediviva. Altri bei libri seguono, tutti caratterizzati dallo
stesso estro fantastico e da un umanesimo autentico e profondo; sono stati introdotti in Italia da
Iperborea.
In secondo piano nominiamo, per concludere ora sulla narrativa svedese, alcuni autori forse meno
grandi ma comunque molto importanti nella cultura nazionale. Birgitta Trotzig (1929), proveniente
dalla Scania e convertitasi al cattolicesimo, scrive romanzi cupi, densi e visionari, storie di abiezione e
sofferenza riscattabili solo dal mistero della redenzione. Un bell’esempio è Dykungens dotter (1985).
Kerstin Ekman comincia come autrice di romanzi negli anni Settanta e si specializza poi in una sorta di
suggestivo racconto giallo, ambientato spesso nella Svezia contemporanea più dimenticata e marginale,
quella delle zone provinciali e poco popolate. A partire dagli anni Novanta i suoi romanzi hanno
riscosso un successo mondiale di grandi proporzioni, e diversi suoi libri sono stati tradotti anche in
italiano, a partire da Händelser vid vatten (1993). Infine Theodor Kallifatides (1938), figlio di un
maestro elementare greco comunista perseguitato. Negli anni Sessanta Kallifatides emigra in Svezia –
per ragioni sia economiche sia politiche – dalla Grecia della dittatura dei colonnelli, acquisendo in
pochi anni una tale padronanza della lingua svedese da affermarsi come poeta, inizialmente, e poi
soprattutto come romanziere e narratore. La rievocazione della patria perduta (con un misto costante di
nostalgia e rabbia) e la rappresentazione della nuova situazione di invandrare nella Svezia degli anni
Sessanta e Settanta, hanno fatto di lui il precursore e, in qualche modo, l’”icona” della
invandrarlitteratur svedese, che dagli anni Settanta a oggi si è enormemente arricchita di voci e di
prospettive da tutti i continenti del mondo, parallelamente alla generosa politica di accoglienza della
Svezia verso i rifugiati politici e le persone che fuggivano dalle guerre e dalla miseria. Kallifatides
rimane il primo e il più noto di questo interessante ambito della letteratura nazionale, che qui possiamo
solo nominare. Con una lingua apparentemente semplice, tersa e incisiva, Kallfatides riesce sempre a
descrivere in modo molto pregnante i problemi concreti e le lacerazioni esistenziali che comporta la
condizione di immigrato – in fondo un senza patria, una persona sospesa tra le radici recise e
un’appartenenza alla nuova terra che non può essere mai completa, nonostante il buon grado di
integrazione di cui si gode nel folkhem svedese. Il suo più noto romanzo “greco” è Bönder och herrar
(1973), mentre una più recente (e amara) riflessione sulla propria condizione di immigrato si trova nei
brevi racconti autobiografici di Ett nytt land utanför mitt fönster (2001).

Anche il panorama delle tendenze e degli autori di narrativa norvegesi tra gli anni Sessanta e Ottanta
presenta un quadro interessante, forse più frammentato e, tutto sommato, con un minore impatto
europeo attraverso le traduzioni.
Tra molta narrativa tradizionale, alcuni prosatori modernisti e particolarmente innovativi appaiono
già negli anni Cinquanta. Agnar Mykle (1915-94) si afferma nel 1956 con il romanzo Sangen om den
røde rubin, ai tempi un successo di scandalo denunciato per pornografia. Interessante appare anche
l’opera dello scrittore anarchico, saggista e polemista Jens Bjørneboe (1920-76). Under en hårdere
himmel (1956), ad esempio, è un saggio polemico contro le esagerazioni durante la resa dei conti con i
collaborazionisti filonazisti dopo la fine della guerra e dell’occupazione in Norvegia, tanto nel dibattito
e nei comportamenti sociali, quanto nella pratica giuridica, attraverso i numerosi processi per il
risarcimento (ad esempio il processo contro Hamsun). Il tema è attuale, viste le recenti inchieste in
Norvegia che mettono criticamente in luce lo stigma e la persecuzione sociale di cui furono vittime
incolpevoli i figli nati da relazioni tra soldati tedeschi e donne norvegesi.
Un altro narratore molto noto in Norvegia è Finn Carling (1925-2004), che vanta una produzione
vasta di novelle e romanzi dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri. Sono racconti “minimalisti”,
50

essenziali, che con sapienza stilistica presentano situazioni reali e quotidiane al limite dell’assurdo e del
surreale – situazioni, anche, un po’ al margine, con dei personaggi outsider. Iperborea ha pubblicato la
traduzione di Gepardene (1998). Questa linea di narrativa minimalista, nera, di grande tenuta stilistica e
dalle atmosfere un po’ “kafkiane” è piuttosto riconoscibile e ricorrente nella moderna prosa norvegese.
Un altro suo rappresentante è Kjell Askildsen (1929), considerato il miglior autore di novelle oggi in
Norvegia. Egli debutta già negli anni Sessanta ma si afferma soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta.
Anche Askildsen predilige il realismo, la quotidianità al limite dell’assurdo, la prosa minimalista,
l'umorismo nero, lo sguardo sui marginali e sugli anonimi. La sua raccolta più riuscita, non tradotta in
italiano, è Thomas F:s siste nedtegnelser til almenhet (1983). Invece è stato tradotto da noi
Jentespranget (1970) di Sigbjørn Holmebakk (1922-81), anche questo un romanzo che esprime
solidarietà con gli ultimi e le vittime della jantelov (vd. Aksel Sandemose).
In Norvegia la politicizzazione della letteratura e della cultura negli anni Settanta è molto marcata.
Molti giovani scrittori si raccolgono attorno a un partito della sinistra più radicale, AKP (Arbeidernes
Kommunistparti), per una contestazione radicale di tutto l’ordine borghese e capitalista. La vittoria dei
“no” al referendum del 1972 sull’ingresso della Norvegia nel Mercato Comune Europeo rappresenta
per la sinistra radicale e giovanile una grande vittoria epocale. Da sempre in Scandinavia una parte
consistente dell’”euroscetticismo” ha una matrice di sinistra, dove le istituzioni europee sono viste
come un avallo alla politica più liberista e la vittoria dei grandi interessi e delle grandi strutture
economiche rispetto alle esigenze della comunità – una perdita e un allontanamento in termini di
democrazia. Nella narrativa di questi anni si fa spesso strada un’idea e una pratica di romanzo social-
realista a tesi, dove la letteratura viene, tendenzialmente, privata di un ambito proprio e usata come
mezzo per la promozione di cause sociali e politiche. A volte, dunque, i toni sono enfatici e dogmatici e
le forme del racconto molto tradizionali. Il modernismo poetico, nato come sappiamo negli anni
Sessanta, non si trova a suo agio con questa visione così piatta della letteratura, sebbene anche molti
modernisti siano schierati a sinistra e radicali. Anche qui, al di là delle generiche etichette, dobbiamo
immaginare uno spettro di possibilità, dal piacere della sperimentazione e dell’innovazione, ai toni più
tendenziosi di certa prosa progressista. Non dobbiamo infatti dimenticare il grande desiderio di novità e
sperimentazione che questo decennio pure porta con sé. L’intenso dibattito sul femminismo è ad
esempio un momento di formazione importante per una nutrita schiera di scrittrici che si affermano in
questi anni e in questo contesto culturale.
Uno dei maggiori romanzieri norvegesi viventi, Dag Solstad (1941), vive in pieno e da protagonista
la stagione delle grandi utopie negli anni Settanta; e vive in pieno il grande disincanto, la grande crisi
“postmoderna” degli anni Ottanta e Novanta; lo fa senza fughe e senza alibi ma senza nemmeno
rinunciare per convenienza alle proprie idee (da qui, anche, la sua grandezza). L’autenticità con cui
vive il suo tempo e il talento narrativo con cui lo rappresenta nei suoi romanzi, lo rendono grande e
particolare. Troviamo anche nei suoi libri quella vena norvegese nera, “kafkiana” e assurda che
abbiamo già menzionato a proposito di Carling e Askildsen – una linea che si conferma dunque forte
nel canone letterario nazionale e che si pone in singolare contrasto con l’immagine che altrimenti
abbiamo della contemporanea società norvegese, molto agiata, progredita e pacificata. I romanzi di
Solstad sono belli ma spesso molto cupi; trasmettono un senso di paralisi dell’individuo; rappresentano
una condizione irrimediabile di solitudine e assurdità della vita. Significativamente, i personaggi dei
suoi migliori romanzi, degli anni Ottanta e Novanta, sono spesso dei “reduci del Sessantotto”, ora
rispettabili e imborghesiti, esercitanti professioni intellettuali magari prestigiose (prof. liceale,
architetto, prof. universitario ecc.). Fino a poco tempo fa Solstad è stato poco tradotto; ora si comincia
a scoprirlo e apprezzarlo. Le sue atmosfere parevano, a giudizio di alcuni, troppo “norvegesi” – forse
proprio nel senso di questo paradosso tra una situazione di vita esteriore molto agiata e “felice” e la
profonda infelicità dei protagonisti. Eppure, a ben guardare, la paralisi e lo smarrimento descritti da
Solstad riguardano tutto il mondo occidentale, al di là degli indubbi ingredienti locali e nazionali
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presenti nei suoi racconti. Tra i romanzi più interessanti, ricordiamo Forsøk på å beskrive det
ugjennomtrengelige (1984). Qui vengono descritte, con una buona dose di umorismo nero, thrill e
suspense, le complicazioni nella vita di un architetto socialdemocratico che, idealisticamente, decide di
andare a vivere nel quartiere dormitorio di Oslo per la classe operaia, da lui stesso progettato. Altri
romanzi notevoli sono Genanse og verdighet (1994) e Professor Andersens natt (1996).
Con Solstad, l’altro grande scrittore rappresentativo di questa fase, e anche del passaggio epocale
dalla stagione dell’impegno politico alla stagione del disincanto “postmoderno”, è Kjartan Fløgstad
(1944), il quale però scrive in nynorsk. Fløgstad è radicale ma ha sempre evitato, a differenza di diversi
suoi colleghi, di diventare dogmatico e univoco. La sua opera, ricca di riferimenti filosofici e culturali,
mantiene una complessità che la rende problematica, aperta e vitale. Nel romanzo Fyr og flamme
(1980) agiscono il disincanto e l’amarezza, l’utopia comincia a sfaldarsi; eppure il critico sguardo
sociale e politico sulla Norvegia contemporanea non viene meno. La stessa cosa avviene nell’ultimo
pamphlet polemico Brennbart (2004) a difesa del neonorvegese, dove l’autore prende spunto da un
recente esperimento-pilota in alcuni licei di Oslo, che per l’esame di maturità hanno abolito la prova
scritta obbligatoria nella seconda lingua norvegese dello studente (la cosiddetta sidemål, che può
ovviamente essere, a seconda delle scelte linguistiche del singolo, il bokmål o il nynorsk; a Oslo
corrisponde pressoché interamente al nynorsk). Soprattutto Fløgstad prende spunto, anche nel titolo, da
uno stolto rogo di libri neonorvegesi che alcuni studenti di Oslo hanno inscenato per festeggiare quella
decisione sul progetto-pilota. Come si vede, il bilinguismo norvegese è sempre fonte di forti passioni.
Tra le molte interessanti voci femminili della narrativa norvegese menzioniamo Bergljot Hobaek Haff
(1925), che debutta negli anni Sessanta intrecciando la prospettiva femminile all’interesse per la
dimensione religiosa e mitica. Significativamente, ella considera i suoi romanzi “moderni miti”; e tra
questi Bålet (1962) è stato tradotto e pubblicato da Iperborea. Anche Bjørg Vik (1935) è autrice “al
femminile”, soprattutto di novelle, piuttosto tradizionali nella forma ma che proseguono la lezione di
sguardo realistico e psicologico di Cora Sandel. La Vik è importante in Norvegia ma non molto tradotta
all’estero. Più modernista, sperimentale e poliedrica è Cecilie Løveid (1951), poetessa, drammaturga e
prosatrice. Debutta negli anni Settanta e combina femminismo, prospettiva politica e interesse per le
forme letterarie. Un’altra narratrice importante è Herbjørg Wassmo (1942), che debutta negli anni
Settanta e si afferma negli anni Ottanta. Se il realismo psicologico caratterizza la sua trilogia degli anni
Ottanta su Tora, la cui prima parte Huset med den blinde glassveranda (1981) è stata proposta da
Iperborea, la Wassmo sfrutta una vena più fantastica e leggera nei romanzi degli ultimi anni, di grande
successo, ad esempio nel romanzo storico Dinas bok (1989). L’ambientazione è spesso la Norvegia del
Nord, da dove l’autrice proviene. Huset med den blinde glassveranda appare il romanzo migliore della
Wassmo; qui è narrata con partecipazione la storia di una piccola tyskerunge, ossia una bambina, Tora
appunto, nata da una relazione tra una donna norvegese e un soldato tedesco durante l’occupazione. Per
comprendere bene le dimensioni, anche psicologiche, dello stigma sociale durante il dopoguerra nei
confronti di questi figli del peccato, il romanzo della Wassmo – bello e duro – è una lettura da
consigliare assolutamente.
Anche Tove Nilsen (1952) debutta, molto giovane, negli anni Settanta, adottando nei suoi romanzi
sulla Norvegia contemporanea una prospettiva femminile e femminista. Un suo libro molto bello e,
anche, l’unico tradotto in italiano è Øyets sult (1993), dove invece lo sguardo sulla contemporanea
realtà norvegese passa attraverso l’esperienza di un io narrante uomo, un immigrato indiano. L’autrice
riesce qui, mirabilmente, a “mettersi nei panni di un altro” sviluppando una narrazione molto raffinata,
oltre che sostenuta da una riflessione etica e implicitamente politica sulla condizione di vita, entro le
nostre società opulente, degli immigrati clandestini provenienti dai paesi più poveri. Ora, proprio la
raffinatezza narrativa, l’attenzione alla dimensione formale ed estetica, che pure si innesta su
un’attitudine di attento e critico sguardo sociale, è caratteristica – in Norvegia così come negli altri
paesi scandinavi – del passaggio dagli anni Sessanta e Settanta agli anni Ottanta e Novanta. Il grande
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racconto convive dunque qui con lo sguardo attento alle trasformazioni sociali, uno sguardo che è nel
contempo esistenziale e sociale. L’io narrante Shabaz è un clandestino, un sans papiers, che cerca
attraverso espedienti e piccoli trucchi di restare in Norvegia, lavorare e sopravvivere, pur nella semi-
clandestinità. L’assunzione totale ed esclusiva del punto di vista del personaggio, attraverso l’uso della
prima persona, è una scelta narratologica ed etica insieme: è una significativa scelta di campo, che
ovviamente rende solidale anche il lettore. Entriamo, così, nella vita del “clandestino” e lo scopriamo
persona. Non solo, egli è una persona complessa e sfaccettata, intellettualmente curiosa e il cui occhio
(con quell’”occhio interiore” che è rappresentato dalla memoria) ha immagazzinato una grande
conoscenza del mondo e delle sue diversità, dalla sua India, alla Danimarca e alla Norvegia. Il perché
Shabaz abbia voluto andare in Norvegia non è forse del tutto chiaro nemmeno a lui. Nei suoi ricordi,
che si intrecciano al piano presente dell’azione ricco di suspense, ritorna un simpatico pastore
norvegese, Andersen, che dava, probabilmente anche mosso dalla nostalgia, un’immagine intensa della
bellezza della Norvegia, delle cose belle, grandi e piccole, che la Norvegia può offrire. Shabaz vuole
vedere e scoprire, il suo occhio ha fame; suo padre – presente spesso nei ricordi – è un funzionario con
una passione tutta particolare per la letteratura e William Shakespeare. Se Shabaz è dunque
caratterizzato dalla complessità e anche dalla molteplicità di un io che non si lascia ridurre a un’entità
singola e coerente (lo diceva Strindberg nel 1888), il suo chiaro antagonista è il commissario di polizia
Foss, che gli dà la caccia in quanto clandestino irregolare. Foss è la piattezza totale, la correttezza
burocratica per cui un clandestino è un clandestino e va scovato; per Foss – in tutti i sensi – esistono il
bianco e il nero. Ovvero: non solo Foss è piatto ma egli considera piattamente – non come individuo
con una storia particolare – il suo antagonista irregolare. Attraverso questa contrapposizione emerge
chiaramente anche uno sguardo critico, come collocato a distanza e all’esterno, sulla Norvegia
contemporanea che vuole vivere tranquilla. La caccia di Foss a Shabaz è il piano presente del racconto,
quello che crea suspense e che, pure, ricorda un poco Il processo di Kafka (di quale colpa è mai
accusato dall’autorità, Shabaz? Forse la colpa di voler cocciutamente vivere?). Del piano presente del
racconto fa anche parte la storia d’amore (pure clandestina) che lega l’uomo indiano alla norvegese Liv,
sposata con due figlie. Il desiderio della donna, altrettanto profondo e misterioso, è qui visto dal punto
di vista maschile, così come questo è interpretato dalla scrittrice. Si intreccia al presente la rievocazione
del passato, con un uso strutturale e sapiente dell’analessi da parte dell’autrice implicita. L’analessi
serve per creare la dimensione complicata e profonda di Shabaz, ciò che l’etichetta di “clandestino”
non potrà mai contemplare. Un amico di Shabaz, il neurologo Hansen, fratello di Liv, studia il cervello
e i segreti dell’occhio; da qui il leitmotiv filosofico ed esistenziale del romanzo: l’occhio che vede e
trasmette all’occhio interiore della memoria, che, per le immagini che serba, è alla base della
costruzione dell’identità del soggetto, del suo percepirsi come unico e uno al di là della molteplicità
delle sue esperienze. Øyets sult mi pare in conclusione un notevole romanzo, per la tenuta narrativa,
l’intelligenza dello sguardo, il valore della riflessione morale e sociale su “noi ricchi e gli altri”, quei
clandestini che vengono a disturbare i nostri sogni di quiete. Il disincanto non fa mai venire meno, mi
sembra, la fiducia e l’apertura verso la vita.
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LA POESIA NEGLI ULTIMI DECENNI DEL NOVECENTO

Neanche questa presentazione pretende di essere esaustiva o approfondita, o di dare un’idea degli
ultimi sviluppi (intendendo con ciò gli autori più giovani che debuttano tra gli anni Novanta e l’inizio
del nuovo millennio). Vuole però dare un’idea della ricchezza e della qualità della poesia scandinava
dagli anni Sessanta a oggi, attraverso alcuni maggiori rappresentanti.
È una tradizione poetica che, in ognuno dei quattro paesi qui trattati, ha accettato e adottato
completamente il verso libero e il generale rivolgimento modernista delle forme. Il panorama più ricco
di talenti è offerto dalla Danimarca. Analizzeremo cinque autori danesi appartenenti a due generazioni,
che debuttano rispettivamente negli anni Sessanta e tra la fine degli anni Settanta e il principio degli
anni Ottanta.
Inger Christensen (1935) è una poetessa letta e stimata in tutto il Nord, un grande talento e una
maestra del modernismo. Scrive con parsimonia e ha pubblicato poche, decisive raccolte dagli anni
Sessanta a oggi. La sua lirica rivela anche una passione matematica e compositiva, che la porta a
giocare con le strutture in modo che il libro non sia una semplice raccolta di poesie ma un
componimento organico, un insieme di cui ogni singolo elemento è parte integrale. Uno dei suoi
capolavori è Alfabet (1981), che si basa sulla successione delle lettere dell’alfabeto quali leitmotiv
allitteranti nelle poesie che si susseguono (abrikostrærne findes... poi bregnerne findes; og brombær,
brombær... ecc.); i singoli componimenti, poi, hanno un numero di versi che crescono in modo
esponenziale secondo i Numeri di Fibonacci,13 ovvero con una successione per cui una cifra è la somma
delle due precedenti: 1-1-2-3-5-8-13-21-34-55 ecc. Le poesie, senza titolo, vanno dunque da uno a
molti versi (e quelle più lunghe sono a loro volta suddivise in parti); l’effetto è quello del crescendo,
dalla semplicità all’estrema complessità e molteplicità, così come in fondo si evolve la vita. Il tema è
appunto la vita su questa terra (at findes), le sue condizioni e i rischi che corre. Da una parte i versi
esprimono la certezza gioiosa e materna della presenza della natura e degli elementi che rendono la
terra buona e vivibile; d’altra parte le poesie evocano chiaramente la capacità dell’uomo di distruggere
e produrre la catastrofe: l’incubo atomico è in queste poesie incombente; la vita, per quanto miracolosa,
è in equilibrio fragile. Di questa suite poetica vediamo due brani: uno più lungo, atombomben findes...
e uno più breve, anche se successivo (è parte di una poesia più lunga), sneen... Nel primo
componimento notiamo la circolarità del discorso; le terribili cifre delle due bombe atomiche sul
Giappone, relative sia ai morti immediati sia all’eredità di morte per le generazioni a venire, portano il
pensiero ai bambini. Lo sguardo si sposta poi sulla dimensione più prossima, familiare e tranquilla.
Possiamo immaginare una serena estate nordica in campagna, dove gli adulti preparano il cibo e i
bambini giocano liberi nella natura. Le ultime quattro strofe giocano con un’idea di crescendo sonoro, e
intanto la visuale si estende e si alza, fino a comprendere di nuovo gli elementi, il vento e la luce, che
sono al tempo stesso ciò che indica la vita e ciò che, in quei devastanti giorni, annunciò una morte
inaudita. È – nell’apparente semplicità – un esempio di come, nella grande poesia scandinava, la
prospettiva etica e la consapevolezza storico-sociale si possano intrecciare alla dimensione esistenziale
e privata e alla percezione della natura. Vivere nel privato e nella natura non rappresenta una fuga dal
mondo ma al contrario offre lo spunto per un’interrogazione più profonda sull’esistenza, la possibilità
di riflettere sul senso, sul bene e sul male nel mondo, sulle forze vitali e quelle distruttrici. Vi è una
grande dote nel sapere vivere la piccola dimensione privata e “felice”, viverla nell’attimo puro, ma
sapere poi anche riconoscere lì il problema grande, politico ed esistenziale, quando ne va delle sorti
della terra. sneen... è un altro momento di gioia contemplativa nella natura. La neve è metaforica,
perché si tratta dei fiori degli alberi da frutto che “nevicano” a giugno; una neve dunque che non scende
ma che in realtà sale come linfa dalla terra all’albero. L’albero, da sempre ciò che abbraccia terra e

13
Leonardo Fibonacci (ca 1170-1250), matematico e mercante pisano. Introdusse tra l’altro in Italia l’uso delle cifre arabe.
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cielo, comunica in primavera la sensazione di eterno circolo vitale. In entrambi i componimenti


notiamo la lingua lieve e tersa, il senso musicale e ritmico pur in assenza del tradizionale metro.
L’amore della Christensen per i sistemi ordinati e le strutture compositive corrisponde di fatto a una
voce umanista, che avverte anche i grandi rischi del razionalismo strumentale dell’uomo, quel
raziocinio che può distruggere la vita sulla terra.
Accanto alla Christensen, l’altro maestro della poesia danese contemporanea è Henrik Nordbrandt
(1945), anch’egli letto e tradotto in Scandinavia e fuori. La sua forma di modernismo ricorda il senso
della quotidianità e prosaicità che c’era nella poesia “concreta” e “neosemplice” degli anni Sessanta.
Ma questo universo di cose ed esperienze comuni assume un tono particolare. A una visione sconsolata
della vita, senza troppe illusioni sul suo senso, fanno riscontro un umorismo e un gusto del paradosso
che la rendono sopportabile. La produzione di Nordbrandt è vasta e presenta sia componimenti brevi,
concentrati e aforistici, sia poesie più lunghe. Una parte importante della sua produzione è occupata
dall’esperienza del viaggio, dal contatto con paesi diversi e dall’esperienza, anche prolungata, della vita
itinerante lontano dalla Danimarca (soprattutto in Turchia, Grecia e Spagna). La Danimarca appare in
luce ora polemica (ordine, grigiore, noia) ora nostalgica. Il tono di Nordbrandt è intimo, spesso
ripiegato sull’io e sul proprio disincanto esistenziale. In Hyl over en veninde, da una raccolta del 1977,
vediamo come il poeta capovolga in termini poco convenzionali un tipo di poesia che è in realtà
tradizionale, quello che commemora una persona amata scomparsa. Emergono il dolore per la morte
dell’amica e una prospettiva sconsolata e laica, per cui oltre la morte c’è solo il nulla. Nel
rappresentarsi come cane randagio, il poeta rende un omaggio non retorico all’amica, e non privo di
sorriso nel dolore. In Året har 16 måneder del 1986 vediamo ancora un modo scherzoso e singolare di
rappresentare la cupezza dell’autunno (quello danese?) e la pesantezza con cui il soggetto poetico lo
vive. C’è una voluta dimensione di gioco e di provocazione “impoetica”. Med naturen del 1985 è
infine una poesia più lunga dal tipico tono discorsivo, disilluso, apparentemente svagato e malinconico
e sempre con un lieve sorriso ironico. Anche nella poesia d’amore, come nei precedenti esempi, c’è la
ricerca di una modalità non retorica e non convenzionale, giocata sul paradosso. Poiché non è possibile
paragonare l’amata alla natura (in quanto banale, convenzionale, già fatto), il poeta la paragona, in una
vasta prospettiva spazio-temporale, a epoche e circostanze storiche che trasmettono l’idea di sfarzo,
lusso e un certo splendore decadente e ci fanno sentire, in modo insolito, l’euforia dell’innamoramento;
infine viene però negata anche l’utilità di questo paragone troppo astratto con la storia – cosa noiosa e
di poco conto rispetto alla concretezza della persona.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta debutta una nuova generazione di giovani
poeti e scrittori, che hanno vissuto gli anni della protesta ma che cercano altre possibilità per la poesia
oltre la letteratura politica e di denuncia. Michael Strunge (1958-86), bello, carismatico e di talento,
diventa il suo portabandiera, così come appare già nella raccolta Vi folder drømmens faner ud (1981).
Strunge canta l’atmosfera urbana dei primi anni Ottanta, la Copenaghen notturna delle discoteche e dei
giovani: un mondo artificiale fatto di plastica, nylon e mass-media. In questo contesto postmoderno, in
disfacimento, senza certezze o punti di riferimento, la voce giovane di Strunge si esprime con urgenza
drammatica, con echi dalla musica punk e pop. Come il titolo della raccolta pure indica, si tratta di una
protesta romantica, di un appello al sogno, al cuore, alla purezza e all’intimità per una generazione così
abituata alla realtà-spazzatura, al blob di asfalto e plastica. Ci sono nella poesia di Strunge l’anelito, la
rivolta e la disperazione, e un sincero male di vivere. La fine tragica del giovane poeta maledetto, che
in pochi anni febbrili scrive alcune importanti raccolte e poi si uccide a Copenaghen neanche trentenne,
ha contribuito a conferire a questi testi un’aura leggendaria e un sapore nostalgico particolare. La
poesia più programmatica della prima raccolta, Drømmens faner, riassume i tratti che abbiamo
individuato e chiarisce anche come il poeta, attraverso l’uso della prima persona plurale, senta di
parlare a nome di un’intera generazione.
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La morte tragica di Strunge, che era diventato la voce della giovane letteratura di quegli anni, causò
un forte turbamento a Copenaghen e in Danimarca. Questo particolare dolore è espresso da una poesia
in prosa del suo amico e collega Søren Ulrik Thomsen (1956), Tandlæge. Gravsted. Vielsering – til
Michael Strunge, del 1987, anch’essa un’inconsueta elegia. Possiamo osservare come la dedica e l’atto
d’affetto si esprimano anche attraverso la critica. Il soggetto poetico è colui che è rimasto qui sulla
terra, che ha fatto un’altra scelta, accettando anche ciò che nella vita è smacco, invecchiamento e
trasformazione; nel “borghese” desiderio di sposarsi, mettendo al dito la fede nuziale, potrebbe forse
esserci qualcosa di vitale che va oltre il conformismo. L’amico Strunge invece se ne è andato, lo ha
lasciato solo; ha desiderato “troppo cielo” e si trova ora ingiustamente circondato da “troppa terra”.
Thomsen è tra i maggiori poeti danesi viventi; ha uno spiccato interesse estetico e filosofico e scrive
libri di poetica oltre che poesia. La ricerca formale, musicale e ritmica si coniuga alla riflessione sui
grandi temi dell’esistenza.
Pia Tafdrup (1952) debutta come Thomsen nel 1981 e fa parte anch’essa del gruppo vicino a Strunge.
Di origine ebraica e, come Thomsen, assai colta, scrive poesia e libri di poetica, con raffinate riflessioni
sul linguaggio. La prospettiva e il vissuto femminile sono importanti nella sua produzione, che contiene
una dimensione sensuale, erotica e corporea ma che si caratterizza anche per la ricerca esistenziale e
religiosa e la riflessione sull’identità, che appare spesso scissa e sfuggente. Nella raccolta
Territorialsang – en Jerusalemkomposition (1994) la poetessa si confronta per la prima volta con la
propria eredità ebraica. Nella poesia Horisont cogliamo tre momenti: l’attimo presente della visione
della città di Gerusalemme, con l’incanto del suo colore dorato e rosato; la rievocazione della fuga
degli ebrei danesi in Svezia nell’ottobre del 1943, che ha visto protagonisti i suoi genitori e i suoi nonni
quando lei ancora non era nata (evidentemente si tratta allora di ricordi di racconti, di trasmissione di
memoria); infine la riflessione sull’atto stesso della scrittura, dove la poetessa è davanti alla carta e
ricostruisce un filo di memoria vitale, che riguarda profondamente la sua identità.

Ritorniamo un’ultima volta sulla poesia norvegese con Paal-Helge Haugen (1945), che debutta negli
anni Sessanta ed è un contemporaneo di Vold, con cui collabora, anche all’interno della rivista Profil.
Scrive in nynorsk e aderisce all’idea di poesia concreta e neosemplice. Anch’egli è uno sperimentatore,
che contamina poesia e musica pop e che traduce poesia haiku giapponese e poesia cinese. La grande
cultura e l’apertura cosmopolita di questi poeti nordici non impediscono loro di esprimere un forte
legame con la propria terra d’origine, con la natura e le tradizioni dei padri. Esprimersi in neonorvegese
indica di per sé un attaccamento alla regione da cui si proviene e la poesia Steingjerde del 1979 ce lo
illustra. Qui il legame con la propria terra è profondo, insieme fisico e spirituale; la terra è anche il
luogo della memoria e rievoca il lavoro contadino dei padri. Attraverso i muretti a secco vediamo
l’agricoltura povera delle zone impervie. La rievocazione non vuole però glorificare un mondo
immutabile e fermo, bensì ricordare come quel duro lavoro delle mani e dei corpi indicava che era
possibile trasformare il mondo; la necessità del cambiamento storico può essere allora una lezione
attuale anche per chi non lavora più la terra, per una nuova generazione più intellettuale e urbana. Il
senso vivo del paesaggio di casa ci fa sentire che lo spirito di quel lavoro, fatto di fatica, pazienza e
dedizione, è ancora presente in quei luoghi.

In Svezia Tomas Tranströmer (1931) è considerato il più grande poeta vivente e vanta una lunga attività
dagli anni Cinquanta a oggi. Egli è, con la danese Christensen, il grande classico del modernismo
scandinavo contemporaneo. Poeta tradotto in molte lingue, particolarmente amato in Cina e Giappone,
il suo nome – assieme a quello della collega danese – ricorre puntualmente quando si vocifera di un
candidato scandinavo per il Nobel.
La sua produzione è intensa e concentrata, non vastissima. Particolare è il suo uso delle similitudini e
delle metafore, capaci di aprire squarci visionari nella realtà e di condurre verso la dimensione interiore
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e profonda dell’uomo, la riflessione esistenziale e il ricordo dei vivi e dei morti; una sua raccolta del
1989 si chiama appunto För levande och döda. La posizione di Tranströmer è di umanesimo laico ma
compito del poeta moderno è di salvare la dimensione del mistero e la tensione verso la spiritualità,
ricordarci la sacralità della vita. La natura appare spesso come il correlativo oggettivo di questa ricerca
etica ed esistenziale al limite dell’inesprimibile; nella natura silenziosa e ricca di segni il poeta cerca
quel senso che le parole hanno reso trito e banale. Questi temi troviamo in nuce in due brevi poesie
degli anni Ottanta. In Romanska bågar del 1989 l’esperienza rappresentata ha luogo significativamente
in una chiesa. Il momento della visita della folla di turisti non evolve verso una possibile e facile critica
della moderna massificazione che distrugge ogni valore spirituale. Anzi, dopo l’epifania visionaria –
dove un “angelo senza volto” comunica al soggetto poetico una verità importante – tale folla appare,
all’uscita dalla chiesa, improvvisamente formata da individui, con un nome e una dignità inviolabile. Il
messaggio dell’angelo infonde coraggio: l’uomo è degno, e la sua esistenza è sacra proprio in quanto
complessa, profonda, non completamente scrutabile, proprio come quando si è nelle volte buie di una
chiesa romanica che si aprono continuamente, all’infinito. La profondità di ognuno – diversa l’una
dall’altra – è anche ciò che ci rende uguali, come già aveva scritto Gunnar Ekelöf. In Från mars -79 il
poeta, stanco di parole che non formano più un linguaggio, un sistema di segni capace di leggere e dare
senso alla realtà, cerca il limite: l’isola invernale coperta di neve, immersa nel silenzio (forse un’isola
dell’arcipelago di Stoccolma, luogo naturale amato e rappresentato da Tranströmer). Le impronte dei
cerbiatti sulle “pagine vergini” sono allora il contrario delle “parole senza lingua”, diventando “lingua
senza parole”. Il paradosso di questa metapoetica negativa è naturalmente che il poeta, per esprimerla,
ha comunque bisogno di parole.

Ritorniamo alla poesia di lingua svedese in Finlandia, dalla quale è partito il nostro percorso nel
modernismo. La grande tradizione di poesia finlandssvensk percorre tutto il Novecento e arriva fino ai
giorni nostri, con una serie di notevoli talenti. Tra questi scrittori ricordiamo Bo Carpelan (1926) e Tua
Forsström (1947).
Carpelan debutta come poeta negli anni Sessanta, riallacciandosi a Björling ed Enckell e sviluppando
dagli anni Sessanta a oggi un’importante opera. Carpelan persegue con coerenza la sua idea di una
vardagsmystik, una “mistica del quotidiano” attraverso la ricerca sulla parola poetica. Di questa
quotidianità, che in certi momenti privilegiati si riesce a osservare con stupore, fa parte tanto la natura
quanto la vita di tutti i giorni a Helsinki. È la qualità particolarmente riflessiva, tersa e nitida a rendere
preziosa la voce di Carpelan. Lo scrittore assume una posizione di rilievo anche come romanziere e
autore di libri per ragazzi. Egli ha inoltre avuto un ruolo importante come traduttore della poesia
finnica in svedese, agendo così da mediatore tra le due lingue nazionali. Carpelan sente una profonda
appartenenza culturale alla Finlandia; l’identità nazionale è una per lui, seppure bilingue. L’esperienza
di Carpelan poeta si fa sentire nella sua narrativa, che è intima e lirica ma anche capace di
rappresentare la realtà storica e osservare il mondo contemporaneo. In italiano è stato pubblicato da
Iperborea un suo solo romanzo, Benjamins bok (1997), ma il suo capolavoro narrativo – uno dei
maggiori degli anni Ottanta in lingua svedese – rimane il romanzo Axel (1986), storia dell’amicizia tra
il singolare antenato Axel Carpelan e Jean Sibelius, il maggiore compositore finlandese.
Tua Forsström è reputata uno dei massimi talenti poetici del Nord. Raccoglie l’eredità del
modernismo femminile che parte dalla Södergran, ma fa tesoro anche della poesia più attenta alla realtà
sociale, tipica degli anni Settanta. Anche lei scrive con parsimonia ed è personalità schiva, di grande
intelligenza e sensibilità. In lei si trovano riassunte le caratteristiche della tradizione novecentesca del
modernismo nordico: una poesia esistenziale di grande pulizia formale; una concreta natura circostante
che dialoga con l’interiorità della poetessa; uno sguardo e una consapevolezza sociali che portano a
sentire empatia verso i marginali; un’esperienza, anche, della vita urbana e moderna colta nella sua
prosaicità e quotidianità; un’attitudine tra malinconia e ironia verso la vita e i suoi fallimenti, ma anche
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una disposizione a scorgervi l’epifania, il sacro e la bellezza. In Snön yr..., poesia del 1992, il cimitero
è visitato d’inverno, coperto di neve, quando tutto appare ovattato e attutito; in tale atmosfera raccolta il
soggetto poetico è disposto all’ascolto, al ricordo dei morti, alle domande senza risposta sul mistero
dell’aldilà. La luce incerta dei lumini porta, per similitudine, a vedere noi uomini come vaganti luci
incerte, colti come dall’alto di un aereo che sta atterrando e da dove si intravedono i fanali delle
automobili in movimento. Il tutto rende, in modo formalmente leggero ma tematicamente denso, il
senso della nostra fragilità e provvisorietà. Troviamo qui un’esperienza decisamente nordica, una neve
che attutisce i rumori e ci dispone all’ascolto del silenzio, e che rivela la profondità della vita pur nella
sua precarietà. Si può anche aggiungere che, nei cimiteri nordici, la morte è meno monumentalizzata.
Si può spesso camminare in un cimitero come in un parco (spesso il cimitero è parco urbano); si può
insomma “dialogare” di più con i morti, con il nostro ricordo, con la morte quale luce definitiva sulla
nostra vita e su come la adoperiamo. In Änglarna i Karis lo sguardo sobrio della Forsström si sofferma
sui marginali, diventando anche sociale. Ella osserva gli abitanti dei cosiddetti “non-luoghi” – come le
stazioni ferroviarie – che possono essere i tossicodipendenti, gli alcolizzati, i senza casa e i derelitti di
ogni tipo, la cui presenza ci inquieta e che, per lo più, evitiamo di guardare.

Torniamo per un attimo alla Danimarca per menzionare il poeta Morten Søndergaard (1964), che
eleggiamo a unico rappresentante della generazione di scrittori e poeti che hanno debuttato negli anni
Novanta. La ragione per cui si è scelto Søndergaard – comunque uno degli autori danesi emergenti – è
anche il fatto che egli risiede da qualche anno in Italia, nell’entroterra della Versilia. Anche
Søndergaard dirige spesso il suo sguardo sulla realtà concreta e quotidiana, per interrogarla alla ricerca
di un senso, attraverso anche la visione fantastica. Anche la ricerca musicale e ritmica contraddistingue
la sua produzione di poesie e prose liriche. Qui vediamo una poesia da una raccolta recente, del 2002,
13. december... Se la dimensione religiosa del miracolo (S. Lucia) non pare più attuale da una
prospettiva laica, l’“irrealtà” sfuggente della televisione appare ancora più improbabile ed è
rappresentata con un certo distacco critico. Ciò che dà senso è la presenza dell’Altro, della persona
amata, attraverso la concretezza dei sensi. Se la vita di ognuno è un enigma, come “una lettera di carne
al vento”, dà senso il fatto di percorrerla con qualcuno. Al centro della poesia troviamo una definizione,
incerta e fiduciosa assieme, della poesia stessa, capace di illuminare di volta in volta un pezzetto di
mondo.

A conclusione di questa panoramica su poesia e poeti del Novecento, possiamo parlare brevemente dei
due maggiori autori teatrali viventi scandinavi, i quali godono ormai di successo e riconoscimento
internazionali. Sono lo svedese Lars Norén (1944) e il norvegese Jon Fosse (1959). Entrambi sono, o
sono stati, anche poeti. Norén debutta tra gli anni Sessanta e Settanta come giovane poeta sperimentale,
per poi passare definitivamente alla drammaturgia e affermarsi a partire dagli anni Ottanta in Svezia e
poi all’estero. Fosse continua a scrivere poesia e romanzi oltre ai drammi ma si afferma, anche
all’estero, soprattutto con il suo teatro “lirico” negli anni Novanta.
Norén si può considerare, in un certo senso, un “nuovo Strindberg”; tutta la sua opera è caratterizzata
infatti dalla grande tensione psichica. La sua poesia modernista sperimentale è detta “schizo-poesia” e
porta le tracce di una breve ma indelebile esperienza di permanenza dell’autore in un ospedale
psichiatrico. Nei capolavori teatrali degli anni Ottanta, come Natten är dagens mor e Kaos är granne
med Gud (entrambi 1983)14 vengono presentati dei quartetti familiari, in cui ritorna, in qualche modo,
un trauma fondamentale della vita dell’autore, il divorzio dei genitori e la dissoluzione della famiglia.
La scena di questi psicodrammi familiari è spesso un interno piccolo-borghese, in cui dominano
incomunicabilità, fallimenti, disperazione, tendenze autodistruttive e crisi esplosive. Gli spettatori sono

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I titoli sono per altro un distico conclusivo in una lirica del maggiore poeta romantico svedese, Erik Johan Stagnelius.
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sottoposti a una lunga “tortura” che obbliga anche loro a scavare dentro di sé, nel proprio passato e nei
legami familiari. Ma le lunghe pièce di Norén si aprono alla fine a uno straziante e tenero momento di
sincerità, a un bisogno di amore e di affetti che riesca a superare la negatività del “disamore” –
riedizione novecentesca della classica catarsi, purificazione che passa per il dolore. Nelle pièce degli
anni Novanta l’autore tende ad abbandonare l’interno familiare per cercare, con lo stesso piglio cupo e
teso, la strada, i non-luoghi dei derelitti, la prigione e l’ospedale psichiatrico, soffermandosi con
sguardo crudo e pietoso su quelli che noi “normali” non vogliamo vedere. Ne risulta un teatro duro e di
grande impatto, che turba e non lascia indifferenti. Toccando questo limite estremo del malessere
psichico e sociale, Norén si è trovato a dovere affrontare anche situazioni che gli sono “sfuggite di
mano”, come quando aveva allestito una pièce con dei naziskin incarcerati. Avendo ottenuto il
permesso premio per recitare fuori del carcere, due di questi sono fuggiti, compiendo una rapina con
omicidio. L’episodio sconcertante (anche per il sovrapporsi di vita e rappresentazione: anche nella vita
vera i due hanno “recitato la loro parte” di criminali, come nella pièce) ha attirato molte critiche sul
metodo di lavoro di Norén; l’autore ha continuato però per la sua strada, interpretando attraverso il
malessere sociale estremo, che pure esiste, la propria inquietudine esistenziale.
Fosse ritrae un mondo per certi versi simile a quello di Norén ma con un tratto più lieve e sognante.
Le sue storie sono costruite con pochi personaggi anonimi, in un contesto spesso familiare. Egli ritrae
l’assurdità dei rapporti, l’incomunicabilità e tuttavia il bisogno di incontro e contatto tra le persone. Le
storie però sono esili, l’intreccio è quasi inesistente. In Vinter (2000) ad esempio, si tratta di un
singolare incontro tra due anonimi, un uomo e una donna, che forse prelude a una fuga, una fragile
speranza di vita insieme. Fosse scrive in nynorsk, creando un singolare impasto di testo drammatico e
poesia lirica. In Fosse sembra che il non-detto, la pausa tra le parole più che le parole stesse, diventino
significative. I dialoghi essenziali riescono a giocare con questo spazio di silenzio e, magistralmente,
con il ritmo delle battute, ora rarefatte ora incalzanti.
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TENDENZE DELLA NARRATIVA NEGLI ANNI OTTANTA-NOVANTA

In Norvegia il moderno racconto realistico e popolare è rappresentato da due narratori di successo, Lars
Saabye Christensen (1953) e Ingvar Ambjørnsen (1956). Li definisco popolari nel miglior senso del
termine, per la loro capacità di rivolgersi ad ampie fasce di lettori senza cercare per questo
l’intrattenimento puro e semplice. Essi sanno presentare temi e personaggi interessanti, legati alla realtà
norvegese, e soprattutto conoscono l’arte del racconto.
Di Saabye Christensen, che debutta come poeta e scrittore negli anni Settanta, è tipico un certo
sguardo nostalgico sugli anni della propria adolescenza e giovinezza, una Norvegia degli anni Sessanta
che rivive ad esempio in Beatles (1984), il romanzo con cui si è affermato. L’autore rappresenta qui,
con affetto e una dose di ironia, dei giovani anti-eroi che vivono negli anni della contestazione senza
capire bene che cosa vogliono; si tratta di personaggi un poco singolari e marginali, magari insicuri ma
che hanno la dote di sapere sognare, di non prendersi troppo sul serio e, soprattutto, di non seguire i
comportamenti conformi. Queste qualità sono presenti anche in Herman (1988), pure ambientato negli
anni Sessanta, un romanzo che parla di un ragazzino che affronta e supera la crisi dovuta a una malattia
che gli fa perdere i capelli. Pur non essendo principalmente un autore per ragazzi, Saabye Christensen
ha ottenuto con questo racconto un successo notevole anche all’estero. Dal libro è stato tratto un bel
film in Norvegia e, finora, si tratta dell’unico titolo dell’autore pubblicato in Italia. Un altro suo
romanzo di successo, che riprende le caratteristiche dei precedenti, è Halvbroren (2001).
Anche Ambjørnsen, ora residente ad Amburgo, vanta una ricca produzione di novelle e romanzi a
partire dai primi anni Ottanta. È stato identificato (e a volte “etichettato”) come l’interprete della
marginalità giovanile, del malessere sociale che porta ad esempio alla droga e al crimine. Anch’egli
però sa toccare, nella serietà dei temi trattati, la nota comica. Ha scritto anche racconti gialli e libri per
l’infanzia e i ragazzi; la sua opera più importante e famosa è una tetralogia romanzesca incentrata sul
singolare personaggio di Elling (1993-99), un adulto con problemi psichici o forse solo una forma
grave di nevrosi. Il malessere di Elling è legato al rapporto simbiotico con la madre vedova e sola, che
a un certo punto della storia muore, lasciandolo solo e incapace di badare a sé. I romanzi raccontano
vari momenti dei tentativi di Elling, a volte riusciti a volte falliti, di entrare in contatto con il mondo
reale delle persone “normali” e di intrecciare rapporti significativi. Siamo nella Oslo del moderno
welfare state, simboleggiato da Gro Harlem Brundtland, donna e carismatico primo ministro
socialdemocratico degli anni Ottanta, un vero mito per Elling. Seppure il contesto sia tutto diverso,
sembra di rivedere il Mattis di Vesaas. Anche qui il narratore assume la prospettiva del “picchiatello”,
comunicando empatia. Percepiamo quanto possa essere difficile, per una persona con problemi psichici,
vivere la vita vedendo continuamente nel successo dei “normali” lo specchio della propria sconfitta.
Dalla serie (ovvero dalla parte che culmina in una svolta positiva, quando Elling, seguito dai servizi
sociali, condivide un appartamento e conosce per la prima volta l’amicizia) è stato tratto il film Elling
(2001), che ha riscosso successo anche all’estero e che perfino in Italia non è passato inosservato. Uno
dei romanzi su Elling è in corso di traduzione e sarà pubblicato in Italia.
La linea narrativa norvegese più colta e intellettuale è invece rappresentata da autori come Jan
Kjærstad (1953) ed Erik Fosnes Hansen (1965). Solo il secondo è stato per ora tradotto in italiano ma è
il primo dei due autori a essere, a partire dagli anni Ottanta, un nome centrale della narrativa norvegese
contemporanea, noto anche nel resto della Scandinavia. Con grande virtuosismo narrativo e
metanarrativo (che a mio parere rischia di diventare autocelebrativo) Kjærstad interpreta nella sua
vasta produzione romanzesca la tipica percezione postmoderna dello sfaldamento e dell’inconsistenza
dell’identità. L’individuo è intrinsecamente falso, una maschera. Il migliore romanzo di Kjærstad si
chiama appunto Homo Falsus (1984) e assume – come spesso capita nella narrativa degli ultimi
decenni – le convenzioni del racconto “giallo”.
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Questi elementi – il virtuosismo narrativo capace di smascherare l’artificio del racconto e, a volte,
una percezione forte della crisi del soggetto e del suo sfaldamento in epoca postmoderna – si ritrovano
anche nel trio di bravi scrittori norvegesi che hanno rinnovato la narrativa per l’infanzia e per ragazzi
scandinava degli ultimi anni. Si tratta di Klaus Hagerup (1946), Jostein Gaarder (1952) e Tormod
Haugen (1945), tutti ampiamente rappresentati in traduzione italiana. Gaarder ha prodotto con Sofies
verden (1991) uno dei maggiori best-seller scandinavi nel mondo, tradotto in più di quaranta lingue.
Veicolandola attraverso il personaggio della ragazzina Sofia, coinvolta in un intreccio ricco di
suspense, il narratore racconta con molta abilità la storia della filosofia occidentale rivolgendosi a un
pubblico di ragazzi. L’interesse per la dimensione filosofica, religiosa ed esistenziale – le grandi
domande sulla vita, il suo senso, la sua origine e la sua destinazione – è al centro in tutti i libri di
Gaarder, che dimostrano sempre la capacità di rappresentare tali questioni in modo comprensibile e
interessante, nei termini del racconto per ragazzi. Agisce qui ovviamente il “doppio destinatario”: è una
narrativa al tempo stesso semplice e raffinata, godibile a più livelli e a diverse età, certamente anche
dagli adulti.
Dove la visione della vita tende a essere fiduciosa e sorridente in Gaarder, le prospettive di Hagerup e
Haugen, attivi già dagli anni Settanta, possono presentare aspetti più problematici e inquietanti.
L’assunzione del punto di vista dei più giovani vuol dire anche mettere in luce, ad esempio, la
prevaricazione del mondo adulto e del moderno contesto familiare. Entrambi, inoltre, intrecciano al
realismo una dimensione “fantasy” che – tradizionalmente poco praticata nella letteratura infantile
scandinava, più realistica – sta producendo esiti interessanti negli ultimi decenni.
Erlend Loe (1969) è l’autore norvegese che nell’ambito del racconto realistico è riuscito a cogliere in
modo intelligente e accattivante il senso postmoderno di vuoto e di sospensione della responsabilità
nella generazione dei giovani degli anni Novanta, quella cui egli stesso appartiene. Con Naiv.Super
(1996) e Fakta om Finland (2001) lo scrittore ha riscosso un notevole successo in patria e all’estero.
Come molti altri autori norvegesi e scandinavi, anche Loe alterna la produzione “per adulti” a libri per
bambini e ragazzi. Della serie di libri sul surreale camionista Kurt (1994-98) Feltrinelli ha
recentemente pubblicato Kurt.

In Danimarca si impongono all’attenzione dalla fine degli anni Ottanta due narratori, Peter Høeg
(1957) e Ib Michael (1945), il primo dei quali è diventato, con il norvegese Gaarder, il best-seller
mondiale della letteratura scandinava, grazie soprattutto al giallo “postcoloniale” Frøkens Smillas
fornemmelse for sne (1992). Entrambi sono virtuosi talenti narrativi, colti, viaggiatori, aperti al mondo,
capaci di osservare la realtà con un occhio critico ma anche fantastico; in questo essi traggono
ispirazione anche dalla letteratura latino-americana e dal suo “realismo magico”. L’estro fantastico di
Høeg si unisce a una “decostruzione” critica dei presunti valori nazionali e occidentali. Già nel debutto
Forestilling om det tyvende århundrede (1988) – che può essere letto come serie di racconti o come
romanzo – Høeg capovolge in modo bizzarro e parodistico alcuni miti della società danese. Frøkens
Smilla include poi una denuncia della condizione degli immigrati groenlandesi in Danimarca, ultimo
retaggio del passato imperialista del regno scandinavo. Nel romanzo De måske egnede (1993) l’autore
rappresenta il sistema scolastico danese come repressivo e discriminante verso i “quasi adatti”
(letteralmente i “magari adatti”).
Ib Michael debutta già nel 1970 e si afferma nel corso degli anni Ottanta. In lui il viaggio, la scoperta
del mondo, il senso del mito e del magico che ancora vive in alcune culture non occidentali (in America
Latina e in Oriente) producono dei racconti e romanzi suggestivi e fantasiosi, al limite dell’estetizzante.
Un altro tipo di racconto dove pure emerge l’estro fantastico dell’autore è l’autobiografia. Uno dei
romanzi autobiografici di Michael, Vanillepigen (1991), è stato tradotto in italiano.
Una linea diversa della narrativa danese è rappresentata dal realismo crudo e satirico nei racconti di
Jan Sonnergaard (1963), la cui raccolta di debutto Radiator (1997), tradotta in italiano con lo stesso
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titolo, ha anche rappresentato la polemica risposta al culto della bella forma praticato negli anni Ottanta
e Novanta, o per lo meno al rischio di una certa autoreferenzialità della letteratura quando questa si
concentra esclusivamente sui problemi formali, smettendo di osservare la realtà sociale. In Radiator –
scritto per altro con stile graffiante e incisivo – viene fuori la rabbia e lo smarrimento della nuova
gioventù marginalizzata, fatta di disoccupati e precari, lavoratori interinali, studenti universitari, ragazzi
delle periferie senza opportunità di riuscita e di inserimento nella ricca società danese. Sonnergaard,
che proviene dalla cultura “antagonista” dei centri sociali e della musica rock, sa dare voce a questa
realtà con passione, rabbia e intelligenza. Lo stesso sguardo amaro percorre anche le sue successive
raccolte di novelle, in cui amplia lo spettro della realtà sociale osservata.

Anche il quadro della contemporanea narrativa svedese è ampio e variegato. Una linea che resta molto
forte è quella del racconto realistico e di osservazione critica del quotidiano. È una tendenza che
continua a esprimersi tra i più giovani debuttanti ma che trova due classici rappresentanti in Inger
Edelfeldt (1956) e Jonas Gardell (1967), attivi già, rispettivamente, dagli anni Settanta e Ottanta, molto
popolari in patria ma complessivamente poco tradotti all’estero. La Edelfeldt esordisce nel 1977 con un
bel racconto per ragazzi, Duktig pojke, in cui un giovane omosessuale lotta per accettare la propria
identità “diversa” e, soprattutto, per non nascondersi ai genitori e al mondo. In altri bei romanzi e
racconti successivi l’autrice sofferma il suo sguardo soprattutto su personaggi giovani e personaggi
femminili, sapendo coglierne con empatia le nevrosi e le complicazioni tipicamente moderne. Anche
l’istrionico Gardell, narratore e showman-cabarettista, personaggio gay noto a tutta la Svezia, posa il
suo sguardo sullo svedese medio con le sue nevrosi tipiche. En komikers uppväxt (1992) è una delle sue
opere migliori, un romanzo divertente, toccante e cupo al tempo stesso, che parla di bambini a scuola
negli anni Settanta (dove rivive la “mitica” Svezia del tennista Björn Borg e dello sciatore Ingmar
Stenmark) e di bullismo.
Anche la narrativa svedese degli anni Ottanta e Novanta ha prodotto una serie di autori best-seller
internazionali, che ormai costituiscono un fenomeno editoriale. Per diversi di loro si può parlare a mio
parere di buona, intelligente letteratura di intrattenimento, come nella serie di romanzi gialli sul
commissario di Ystad (in Scania) Kurt Wallander (1991-2002), ad opera di Henning Mankell (1947).
Mankell è un autore attivo in realtà già dagli anni Settanta, che ha scritto anche racconti per ragazzi e
sull’infanzia e adolescenza, di ambientazione svedese o africana (Mankell vive tra la Svezia e il
Mozambico). Attraverso la riuscita caratterizzazione del commissario anti-eroe Wallander (divorziato,
sovrappeso, con una vita disordinata: nel complesso molto umano) e i tipici meccanismi del racconto di
investigazione, Mankell ha l’opportunità di osservare e criticare la Svezia contemporanea. Altri bravi
romanzieri “giallisti” svedesi, sulla scia di Mankell, sono saliti alla ribalta, ad esempio Håkan Nesser
(1950), con la serie sul commissario Van Veeteren (1993-2002) e Liza Marklund (1962), con la serie
sulla commissaria Annika Bengtzon (1998-2003).
Anche i romanzi di Björn Larsson (1953) – dopo che egli ha raggiunto fama europea con Long John
Silver (1995), romanzo storico sui pirati del Settecento, il suo capolavoro – combinano una felice vena
narrativa con l’osservazione critica del mondo contemporaneo e il fascino per la navigazione e il
mondo celtico. Questi ultimi due leitmotiv diventano per Larsson anche simboli del messaggio di
libertà e ricerca di autenticità individuale che egli vuole trasmettere ai lettori.
Altra scrittrice che ha conosciuto un enorme successo dagli anni Novanta è Marianne Fredriksson
(1927), prima giornalista, poi attiva dagli anni Ottanta come autrice di romanzi. Le sue opere, tradotte
in quasi cinquanta lingue, si caratterizzano per la narrazione realistica e tradizionale e la prospettiva
femminile e matriarcale. Altra espressione di scrittura “al femminile”, questa volta narrativamente più
interessante e intrecciata al gusto per il mistero e il racconto di suspense, è il bel Musselstranden (1998)
di Marie Hermanson (1956), apparso anche in italiano, storia di vita contemporanea sulla costa
occidentale della Svezia, carica di echi del folklore nordico.
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Il più originale e fresco romanzo di questi anni – best-seller in Svezia e nel mondo – è Populärmusik
från Vittula (2000) di Mikael Niemi (1959), pubblicato da Iperborea. Il racconto è ambientato nella
regione da cui proviene l’autore, il Tornedalen, la valle del fiume Torne che segna il confine
settentrionale tra Svezia e Finlandia, e che è storicamente un territorio bilingue, con una forte impronta
finnica. Niemi riesce, con un pizzico di geniale follia, a rinnovare la tradizione del norrlandsroman cui
pure si richiama (S. Lidman, P.O. Enquist, T. Lindgren ecc.). Il romanzo parla di un gruppo di ragazzi
nel Tornedalen degli anni Sessanta e delle loro “imprese”, e ha il sapore di una rievocazione
autobiografica e nostalgica. Nel raccontare l’arrivo della modernità negli anni Sessanta in quella
regione così remota e particolare, e il suo incontro-scontro con la cultura tradizionale, Niemi riesce
intelligentemente a portare l’estrema periferia svedese al centro.
Una narrativa forse più “di nicchia”, filosofica e intellettuale, spesso legata all’esperienza del viaggio,
e a mio parere di grande originalità, autenticità e spessore, è quella rappresentata da Carl-Henning
Wijkmark (1934) e Ulf Peter Hallberg (1953), pure presenti nel catalogo Iperborea. Hallberg, di Malmö
e residente a Berlino, è drammaturgo, narratore e importante traduttore dal tedesco. Tra gli altri ha
tradotto diverse opere del filosofo e saggista ebreo berlinese Walter Benjamin, una delle menti più
originali del Novecento europeo, anch’egli vittima del nazismo. Nel suo Flanörens blick (1996) –
assieme racconto di viaggio, saggio e libro di dialoghi – Hallberg ha utilizzato la prospettiva del
flâneur, ossia del passeggiatore urbano ottocentesco studiato da Benjamin negli anni Trenta, per parlare
della nuova Europa e del “nuovo ordine mondiale” dopo i rivolgimenti epocali del 1989, con la caduta
del muro di Berlino. Hallberg ha anche scritto una raccolta di racconti basati sull’esperienza del
campionato mondiale di calcio “Italia ‘90”, Fotbollskarnevalen (1990), che, rielaborati dallo stesso
autore in una nuova cornice, stanno per uscire in Svezia e in traduzione italiana.

Concludiamo con uno sguardo alla recente narrativa finlandssvensk, che negli ultimi due decenni è
riuscita a produrre talenti e risultati di notevole valore, superando anche una sorta di “complesso”, per
cui gli svedesi di Finlandia sarebbero bravi poeti ma, in quanto minoranza linguistica, meno bravi
narratori. A loro infatti è concesso poco spazio “epico” in cui ambientare una narrativa che rappresenti
la Finlandia contemporanea ma in lingua svedese. Ovviamente i bravi narratori che si sono imposti
all’attenzione hanno dovuto di volta in volta usare strategie di aggiramento del problema oggettivo,
cioè che la realtà finlandese odierna si esprime oramai quasi ovunque in finnico. Essere in una zona di
confine e di contatto, in una zona bilingue, consente però anche di non dare la propria lingua per
scontata; da questo fatto proviene anche la vitalità e la qualità della letteratura finlandssvensk, anche di
quella in prosa. Purtroppo di questa “letteratura minore”, tutto sommato poco nota anche nel resto della
Scandinavia, nulla o quasi è arrivato in Italia.
Due narratori di Helsinki, Kjell Westö e Monika Fagerholm, nati entrambi nel 1961 e attivi dalla
seconda metà degli anni Ottanta, hanno utilizzato uno sguardo retrospettivo e anche nostalgico sugli
anni Sessanta e Settanta, quelli della loro gioventù, producendo i romanzi con le quali si sono imposti
all’attenzione: rispettivamente Drakarna över Helsingfors (1996) e Underbara kvinnor vid vatten
(1994), entrambi caratterizzati da una vena vivace ma anche da intrecci dagli esiti particolarmente
amari e disillusi. Dal punto di vista linguistico entrambi i romanzi non evitano la commistione con la
lingua finnica, evidenziata magari con il corsivo ma non tradotta; è un procedimento che vuole
sottolineare la normalità della cosa: così si mischiano le due lingue nella realtà di Helsinki. Se questo
può provocare incomprensione nel lettore svedese (o in coloro che conoscono solo lo svedese e non il
finnico), l’importante è forse proprio la percezione del contatto linguistico e del bilinguismo in questa
particolare “zona di confine”, che comunque permette attraverso il codice linguistico svedese di entrare
in profondità, autenticamente e in modo critico, nella contemporanea realtà della Finlandia. Diversa è
invece la strategia di un’altra brava narratrice, Ulla Lena Lundberg (1947), proveniente da una zona
dell’arcipelago delle Åland dove si parla solo svedese: lo spazio dello svedese è nel romanzo storico
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oppure nel racconto di viaggio, tendenzialmente lontano dalla finskhet. Antropologa, ha dedicato
diversi racconti all’Africa. Tra gli esempi della sua narrativa di viaggio si può segnalare il bel Sibirien
(1993), affascinante resoconto di un viaggio nella Russia sterminata, fino all’Oceano Pacifico, scritto
da una colta e intelligente prospettiva ambientalista e con un taglio intimo e autobiografico.

Gli ultimi dieci o quindici anni hanno visto il debutto di molti autori giovani non ancora affermati e dei
quali è ancora difficile scorgere un chiaro profilo con occhio storico-letterario. La scena è ovunque
molto vivace, variegata ed eclettica. Il nostro tempo, caratterizzato da un vuoto di convinzioni forti e da
un barcamenarsi più o meno dignitoso (anche dal punto di vista etico), esprime la propria incertezza e il
proprio smarrimento anche nella letteratura che produce. È vero però che la cultura e la società sono nei
paesi scandinavi meno gerarchiche e decisamente meno gerontocratiche delle nostre. C’è un maggiore
rispetto (per loro ovvio e normale) verso lo spazio dei giovani, la loro voce e la loro visione delle cose.
Questo si riflette in una minore dipendenza (culturale e affettiva prima ancora che economica) dalla
generazione dei genitori e, anche, in un’istituzione letteraria (università, scuole, biblioteche, corsi, case
editrici, borse di studio, premi ecc.) che sostiene e incoraggia i giovani autori debuttanti. Per questo, un
motivo della vivacità e dell’eclettismo delle contemporanee letterature scandinave è dato anche dalla
molteplicità di voci giovani e giovanissime, tanto nella narrativa quanto nella poesia e nel teatro: è un
bel segno di vitalità e democrazia e non solo di incertezza epocale. Solo nei prossimi anni sarà possibile
vedere questi autori con una certa distanza prospettica.

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