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18/01/2019 "La tirannia della valutazione", come siamo arrivati allo smottamento antropologico

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antropologico

Carmine Castoro · 21 maggio 2018

“La tirannia della valutazione”, come siamo


arrivati allo smottamento antropologico
Focus

La filosofa francese Angelique Del Rey racconta come il lavoro sia diventato
sempre più astratto, controllato e basato su indici quantitativi e non qualitativi

Forse gli ultimi lembi di una vera meritocrazia aderirono alla carta su cui vennero vergati i
proclami costituzionali dello Stato rivoluzionario francese nel 1791, laddove si legge che “tutti i
cittadini hanno accesso ai posti di lavoro e alle cariche, senza distinzione alcuna se non per
talenti e virtù”, o che “è libertà di ciascuno fare il commercio o esercitare la professione, l’arte e
il mestiere che ritiene”, in ossequio a quei nuovi audacissimi principi di emancipazione dalle

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servitù medievali e dall’ortodossia delle corporazioni perseguiti dagli eroi della Bastiglia. Che
cosa sia successo dopo ce lo spiega benissimo il testo, perfetto da un punto di vista filologico e
teoretico, della filosofa francese Angelique Del Rey, “La tirannia della valutazione”
(elèuthera, pagg. 189, euro 15).

Succede che la rivoluzione industriale incombe, i mercati si espandono, le leggi del profitto
irrorano le classi sociali del loro venefico liquido, e così il lavoro diventa sempre più astratto
e controllato, secondo indici quantitativi e non qualitativi, secondo la rotta del tempo
impiegato e dei giorni di presenza in fabbrica, sottoposto a un’autorità pubblica che stabilisce
in una neonata “società salariale” i titoli scolastici e i requisiti che, a monte, bisogna avere per
accedere a un’attività occupazionale qualsivoglia, e dunque a una retribuzione. E tutto questo
fino all’apogeo, attualissimo, di una globalizzazione stringente e sovrumana, di una
economia-mondo che stabilisce una furibonda competitività, il solo astro della redditività e
l’annientamento dei concorrenti. A questo punto si compie il massimo abbattimento della
singolarità del lavoratore, sempre più trascurato nel suo pensiero, nelle sue virtù, nelle sue
esperienze, nel suo saper-fare, e sempre più compresso e braccato nei suoi skill, nelle sue
condotte, nelle sue fasi cognitive, nelle sue adattabilità al sistema che da lui pretende tutto e di
più, ma sempre nell’ordine di una spietata logica imprenditoriale che lo trasforma in
“risorsa umana” e in dinamiche da gestire le sue relazioni industriali, forgiandolo nel suo
saper-essere.

Ecco allora i ricercatori universitari in pectore valutati in nome di una bibliometria asettica (i
libri scritti, gli articoli pubblicati solo su certe riviste etc.), gli studenti valutati in base a test e
non capiti in altre flessioni della loro anima e origine, i quadri oppressi dalle curve statistiche
e di produttività (l’epidemia dei suicidi in Francia), i servizi pubblici erosi o trinciati dalle
amministrazioni perché non portano incassi e servono solo ristrette fasce della popolazione, le
psicoterapie che esprimono solo un immediato ri-efficientamento chimico o auto-costrittivo,
ma senza sviluppi umani e ambientali considerevoli, gli ospedali che dimettono subito per
abbattere i costi o non prendono in carico alcuni malati gravi per non subire sondaggi di
categoria che renderebbero asimmetrici i dati sulle loro tecniche di intervento.

La Del Rey è bravissima e inattaccabile nel dispiegare gli snodi cruciali, i dispositivi biopolitici
che hanno portato a un vero e proprio smottamento antropologico: l’artefattualizzazione
della vita, la de-sostanzializzazione degli individui visti solo come mobili differenze in un
universo sempre più schiacciato sulla intrascendibilità degli interessi economici e del
piazzamento di oggetti da vendere e sicurezze sociali da decurtare, l’ideologia post-disciplinare
che non ha rinunciato a soggetti “docili e utili” – per seguire la lettera di Foucault – ma che,
addirittura, mette tutto nella piena luce dello smantellamento della privacy, della
spettacolarizzazione, della imputazione diretta di ciò che si fa, della codificazione e
profilazione delle informazioni che circolano, quelle personali e quelle delle news che
dovrebbero aiutarci a capire – e superare dialetticamente – il mondo in cui viviamo. Siamo
quello che vogliamo essere, non ci sono più paesaggi mentali e collettivi, familiari e politici da
indagare, tutto è riportato ad un concetto di “responsabilità personale” diventato obeso e
omicida.

Lavori e guadagni se sei capace, se sai fare questo e quell’altro, se non ti consumi in vane
riflessioni di trasformazione dell’esistente, ma diventi macchina acchiappa-soldi, acchiappa-
share, acchiappa-consensi, se compri, se ti arrampichi, se sei in formazione permanente, e
tutto questo secondo i dettami di una standardizzazione e di una normalizzazione dei
comportamenti che abdica alla filosofia per cedere al ricatto di velocizzazioni acritiche e
prestazionali, dove l’irripetibilità (e la bellezza) del proprio io e della propria storia viene
destabilizzata, se non distrutta.

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“In nome della performance – dice la Del Rey – è stata creata una misura scollegata dalla realtà,
che non ‘misura’ altro se non la capacità del reale di conformarsi alla misura”. Circolo vizioso
perfetto, nastro di Moebius, inizio e fine senza stadi intermedi. La profezia si avvera: “secondo
l’ideologia neoliberista, spetta all’individuo, in concorrenza con gli altri, adattarsi a una società
presentata come un orizzonte insuperabile”. Orizzonte di cui nemmeno si vedono linee e
disegni, ma che si auto-perpetua come un numen tutto matematico e monetario cui sarà
necessario far seguire di nuovo l’”universale concreto”, la territorialità dei giudizi e dei
contatti, la vecchia, eppur nuovissima, luce del Comune e della partecipazione democratica,
pena lo stritolamento in queste griglie costi/benefici delle nostre vite sempre più “arrotondate”
economicisticamente e digitalmente come una foto creata al pc.

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