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La seconda lezione (2 ore), il 21 gennaio 2019 dalle ore 17 alle 19, individuerà i
precedenti e i probabili modelli profondi dei “tre romanzi di Alessandro
Manzoni” (S. S. Nigro). Studierà alcuni aspetti non sempre ben messi in luce nei
commenti: anzizutto la tradizione che collega il Fermo e Lucia al Don Chisciotte
di Cervantes al Tristram Shandy di Sterne, e il sottile rapporto fra la scrittura
romanzesca e quella teatrale; in secondo luogo la grande modernità e attualità
dei Promessi Sposi come libro che fissa e rappresenta, come videro acutamente
Leonardo Sciascia e Giulio Bollati, un’immagine antropologica dell’Italia non
solo del secolo XVII, ma anche del XIX, del XX, e del XXI…
Qualche anno fa (era il 2010) Umberto Eco scrisse, per il Gruppo editoriale
L’Espresso, in collaborazione con la Scuola Holden di Torino, una breve
presentazione-parafrasi dei Promessi Sposi, piena della sua ironia e intelligenza, di
leggerezza, di gusto, di finezza. Questi erano la copertina e l’inizio del testo:
Umberto Eco, raffinato lettore di romanzi, con il successo mondiale di Il nome
della rosa (1980) aveva già dimostrato, di saper anche scrivere un romanzo
bello e intelligente, governando da par suo le regole impalpabili di una
semiologia della narrazione, che per anni aveva studiato e insegnato.
Capiva bene, Eco, come quasi due secoli dopo la sua scrittura e riscrittura I
Promessi Sposi siano ormai un libro molto “datato”, difficile da far accogliere
dai giovani, in tempi di elettronica, con l’attenzione e la disponibilità necessarie
a riconoscerne la grande modernità, anzi l’attualità assoluta, sulla quale è
necessario invece insistere, prima ancora di entrare nella struttura e nella storia
del romanzo.
Oggi, anni più tardi, quando ormai un’immensa quantità di persone, in
particolare i giovani, trascorrono gran parte del loro tempo quasi in trance,
appesi a uno smartphone seducente come una sirena per godere le immagini, i
filmati, le innumerevoli connessioni che questo strumento di “connessione
permanente” offre in tempi fulminei, che cosa dire circa la scelta che la scuola
fa (e che deve assolutamente difendere!) di conservare I Promessi Sposi come il
classico di lettura obbligatoria, insieme alla Commedia dantesca, nella
formazione superiore?
Ecco come Eco chiudeva il suo piccolo libro, rivolgendosi ai giovani lettori :
Umberto Eco e I promessi sposi:
la modernità di un testo “datato”
A. Manzoni, I
A. Manzoni,
Promessi
I Promessi Sposi,
Sposi, tip.
tomo I,
Guglielmini e
V. Ferrario,
Redaelli,
Milano 1825,
Milano 1840,
p. 1
p. 5
I due testi sono stanzialmente identici: mentre è palese a colpo d’occhio che i due libri
sono molto diversi fra di loro.
Il primo è un normale romanzo di stampo ancora settecentesco, pensato in
un’articolazione in “tomi” fin dal Fermo e Lucia, e stampato, nel 1827, appunto in tre tomi,
al modo in cui, per portare solo un esempio di grande peso, fra 1759 e 1767 era apparso in
Inghilterra, in 9 volumi, uno fra i più importanti romanzi europei, il Tristram Shandy di
Laurence Sterne, sul quale avremo modo di tornare, dal momento che Manzoni lesse nella
traduzione francese uscita fra 1776 e 1785.
Il secondo libro, invece, è uno strumento culturale modernissimo, una straordinaria
macchina multimediale, uno spazio dinamico in cui testo e immagini si condizionano
reciprocamente, manipolando l’attenzione, la lettura, le emozioni di chi vi entra.
Due testi quasi identici, due libri molto diversi
SI DEVONO
leggere I promessi sposi con le immagini di Gonin perché
LE IMMAGINI FANNO PARTE DEL LIBRO
come lo ha pensato e realizzato il suo autore
Un paragone di straordinaria efficacia si può proporre, a questo punto, fra l’apertura dei Promessi Sposi e
quella del cap. II della traduzione francese del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, uscita a Parigi nel
1836 presso Dubochet, con le illustrazioni di Tony Johannot, studiate di recente da Gabriele Quaranta.
Manzoni lesse, probabilmente, il grande romanzo spagnolo proprio in questa edizione.
Le figure romanzesche
«balzano vive nella mente dell’autore»
(L. Pirandello)
Dopo aver invaso i sogni di don Abbondio
Renzo entra in scena in carne ed ossa
non più solo come fantasma notturno di don Abbondio.
Nell’attenta disposizione di
testo e illustrazioni,
parole e immagini sono
impaginate in modo che,
mentre avanza nella
lettura, nell’ed. 1840, il
lettore assiste a questo
ingresso.
Nel foglio di sinistra (p. 32) del capitolo II nell’edizione 1840 compaiono, prima descritti, poi
raffigurati, gli incubi di don Abbondio, fra cui c’è Renzo. Il foglio di destra (p. 33) si apre con una
riga e con il ritratto di Renzo, col suo bel cappello piumato. Non sfuggirà che la struttura di
questa doppia pagina, e soprattutto la dimensione delle illustrazioni sulle due facciate opposte e
in modo speciale quella di sinistra, leggermente ridotta e schiacciata, sono state accuratamente
calcolate da Manzoni in collaborazione con l’illustratore e il tipografo.
Un confronto con le stesse pagine nell’edizione del 1827 è impressionante, e mostra in
maniera immediata come il passaggio dall’uno all’altro libro sia imperniato sulla differente
visione del libro aperto e sull’effetto che esso induce nel lettore, con le sole pagine di testo (1827)
e con quelle illustrate, centrate con precisione (1840):
La differenza rispetto alla stessa
La struttura di questa doppia
pagina nell’edizione 1827 è
pagina del 1840 e la dimensione
impressionante: corrisponde a una
delle illustrazioni sulle due facciate
differente visione del libro aperto e
opposte sono state accuratamente
sull’effetto che esso induce nel lettore,
calcolate da Manzoni in
dalle sole pagine di testo (1827) a
collaborazione con l’illustratore e
quelle illustrate, centrate con
il tipografo.
precisione (1840)
In questa maniera, re-impaginando nel 1840 il testo del 1827, con poche
varianti linguistiche, Manzoni ottiene, essenzialmente con una tecnica
tipografica alcuni risultati di incredibile efficacia, quasi di manipolazione
della mente del lettore.
Prima di tutto chiude la facciata di sinistra con la frase che esalta l’aspettativa
di don Abbondio, e di noi lettori con lui: «…don Abbondio ricapitolò subito i
suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette
aspettando Renzo». La pagina di destra, allora, può aprirsi con un’unica riga
del testo che segue la precedente: «Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo,
non si fece molto aspettare». Il personaggio, con questa tecnica di
impaginazione, viene introdotto da una sola riga che costituisce di fatto la
didascalia dell’immagine che viene posta immediatamente dopo.
Grazie a questa strategia registica, di grande modernità, lavorando unicamente
sull’impaginazione delle parole e delle figure, Manzoni realizza quello che ai
nostri giorni, con linguaggio cinematografico, definiremmo un primo piano
del personaggio. Ma come si è detto, è molto probabile (anche se ancora da
studiare) che un influsso della nascente fotografia possa aver ispirato
queste scelte di Manzoni “editore di sé stesso”.
Signor curato...
Proviamo, ora, ad aprire il libro all’altezza del capitolo iniziale (p. 12 della
Quarantana), in particolare alla scena dell’incontro di don Abbondio con i due bravi, là
dove «i muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un
tabernacolo» dipinto con «le fiamme» e le «anime del purgatorio»; don Abbondio non
ha via di fuga, e al richiamo imperioso del primo bravo («Signor curato....») risponde,
servile: «Cosa comanda?». Qui incomincia, di fatto, la storia…
Don Rodrigo
L’ i l l u s t r a z i o n e a s s u m e
un’importanza strategica
«“Perpetua! Perpetua!
tradimento! aiuto!”»
Caravaggio, Vocazione di San Matteo (1600 ca.), Roma, S. Luigi dei Francesi,
Cappella Contarelli
La descrizione dei promessi sposi che entrano nella stanza di don Abbondio sembra
ispirata alla lettera da questo celebre quadro: «Il chiamato [Tonio] aprì l’uscio, appena
quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì
d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece
riscoter Lucia, come se fosse scoperta» (cap. VIII)
Michelangiolo Amerighi veste da bravi i
compagni di gioco di San Matteo. [...]
Una bella piuma ha nel cappello di
velluto violetto e una sottile spada al
fianco.
C.E. Gadda, Apologia manzoniana
Carlo Emilio Gadda, nell’Apologia manzoniana del 1924, intuì con grande
acutezza quanto “caravaggesca” sia la scena descritta nel capitolo VIII dei
Promessi Sposi:
«Il barocco lombardo di quel tempo ha tenui tocchi e una grave tristezza. [...] E,
sopra ogni cosa, un'idea si leva che nulla può abbattere, una luce che nessun flutto
raggiunge: in essa si placano gli occhi e lo strazio di Lucia.
Scrittore degli scrittori, egli visse prima la sua meravigliosa annotazione: e il
continuo riferimento del male antico al nuovo aumenta la risuonanza tragica di ogni
pensiero. […] Michelangiolo Amerighi veste da bravi i compagni di gioco di San
Matteo. Mentre il Cristo comanda a Matteo che lo segua, un viso di adolescente,
sensualmente distratto, chiede: “Chi cerca costui?”. Il vino imporpora le sue floride
gote ed egli si volge indifferente, con sorrisetto quasi bolognese.
Una bella piuma ha nel cappello di velluto violetto e una sottile spada al fianco.
Le gambe nervose si vedono di là dello sgabello, come in riposo, dopo l'accorrere,
dopo il rissare. Non vi è pena, né pensiero. Rosse e fervide luci sono il termine della
calda, verde pianura e nelle vene giocose pulsa il fervido sangue dell'adolescenza.
[…]
La luna fa diagonali di ombra e di biancore sui quadri delle case e sui tetti [...]
Il Signore comandò che Matteo lo seguisse, lasciando nella taverna i dadi e i
nummi del mondo. Il Caravaggio vide e dipinse il Signore e Matteo e poi
giovinastri dalle turgide labbra, cocchieri, sgherri, garzoni. Meglio girare alla
larga».
«Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi
affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate
sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che
diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.
“Oibò! Vergogna!” scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan
segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benchè muti, traspariva lo stesso
orrore del quale era compreso lui. “ Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un
cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’
fulmini, e non del pane! ”» (cap. XIII)
Dietro a questa scena resta viva, nella mente di Manzoni, la figura del
gladiatore Spartaco che cerca di placare gli animi infuocati degli insorti,
negli appunti e abbozzi per la tragedia mai scritta (oggi conservati nella
Sala Manzoniana di Brera)
I
« […] Discorsi artificiosi e appassionati di Spartaco, secondati da Crasso,
per condurre i suoi compagni ad una insurrezione. Effetto, risoluzione
presa: concerti.
III
[…] Vittoria, vendette e devastazione dei gladiatori. Scena in Metaponto.
Spartaco si oppone alla crudeltà dei suoi: inutilmente. Propone di passare le
Alpi: non ascoltato. Lite con Crasso; questi si separa e va a stabilirsi sul monte
Gargano. […]».
(A. Manzoni, Abbozzi per Spartaco, in Id., Tutte le opere, a cura di A. Chiari e
A. Ghisalberti, I, Poesie e tragedie, Milano 1957, pp. 783-796 (alle pp.
794-796).
L’argomentazione di Renzo