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STRUMENTI

Tiziana Momigliano

IL LATINO
CON GIOIA
LEZIONI DI UNA PROFESSORESSA
OMAGGIO
A TIZIANA MOMIGLIANO
(Torino, 5 marzo 1911 - Milano, 17 dicembre 2004)
di Giampiera Arrigoni

Ancor prima di conoscerla sapevo che era ‘la professoressa’. Suo fratello Ar-
naldo l’aveva citata ai miei allievi, che gli chiedevano consiglio sul loro futuro,
come l’esempio più riuscito dello scontato e deprezzato lavoro di professores-
sa. Da quando la conobbi (nel 1986) ho cominciato a capire il perché. Lungi
da qualsiasi tipo di retorica, si vantava però di aver addestrato i suoi allievi alla
concisione con i suoi famosi esercizi di riassunto in x parole. Per il resto aveva
tutta la naturalezza e la spontaneità di chi ha trovato la sua strada nel lavoro.
Coltivava con cura i rapporti con i suoi ex allievi, che ancora la ricordavano
e le facevano visita coi bambini, ma aveva avuto anche allievi più grandi, poi
diventati amici devoti. Negli ultimi anni, quando incominciò a scrivere le sue
memorie, era solita citarmi la frase del suo preside che, sentendola insegnare
di passaggio nel corridoio, l’aveva invidiata perché «si divertiva a insegnare» 1.
Eppure era severa di modi e di indole, fulminea e inesorabile nel giudicare se
stessa prima degli altri, un’osservatrice finissima e una lettrice appassionata

1
L’episodio è da lei ricordato anche nella chiusa delle sue memorie (scritte negli ulti-
mi due anni di vita per la nipote Anna Laura Lepschy Momigliano): Cronaca di una vita…
di un’insegnante [titolo postumo], «Il Caragliese» (Quindicinale di Caraglio e della Valle
Grana) XXVII, 17 (28 settembre 2006), p. 13: «Voglio concludere questi ricordi con il pen-
siero di un preside della Tiepolo. A mia insaputa egli si fermava davanti alla porta aperta
della mia aula e ascoltava mentre facevo lezione. Un giorno mi disse che aveva notato il
mio modo divertito di stare con i ragazzi. Era vero: io mi divertivo, sia con gli allievi cultu-
ralmente più preparati, sia con quelli che per primi in famiglia affrontavano la scuola media
e io dovevo cercare di scoprire quali fossero le loro capacità e le loro attitudini».

7
1.
omaggio
a tiziana momigliano

(Saul Bellow il suo autore preferito, ma anche Claudio Magris, Primo Levi e
Tomasi di Lampedusa).
Negli ultimi anni mi aveva parlato delle sue lezioni di latino scritte per la
rivista «La Scuola Media» e pubblicate, a cadenza mensile, dall’ottobre 1972
al maggio 1973, di cui possedeva le copie. Mi aveva pregato di procurarle le
fotocopie di una lezione che le mancava. Non ricordava più di aver scritto la
lezione Ottava sulla morte e i riti funebri, che ho scoperto dopo la sua morte
facendo i controlli in biblioteca in vista della pubblicazione. Evidentemente ci
teneva. Le ricordavano i pomeriggi passati in casa a preparare i passi da tradur-
re e da utilizzare come spunto per insegnare (insieme a grammatica e sintassi)
anche la vita dei Romani.
L’originalità di queste sue Lezioni mi parve subito evidente tanto che le
fotocopiai e ne regalai una copia ad una mia allieva divenuta insegnante, che
ha iniziato ad utilizzarle apprezzandone la modernità. Tiziana ne fu contenta:
l’insegnamento del latino alla sua maniera continuava.
Nella sua professione di insegnante si proponeva di risvegliare l’entusia-
smo, fugare la passività e insegnare con gioia il latino. Sono tratti che emer-
gono anche da quella che abbiamo chiamato la sua «Premessa metodologica»
(p. 35):

Noi vogliamo tentare anzitutto sin dalla prima lezione di accogliere


con gioia i ragazzi che vengono ad ascoltare le nostre lezioni. Proprio
perché il latino è una disciplina facoltativa, l’entusiasmo di chi insegna
e di chi impara può essere più genuino e creare una piacevole atmo-
sfera di libertà.

La sua concezione di «facoltativo» è totalmente etica: mira all’eccellenza, di cui


componente essenziale è l’impegno libero e spontaneo proprio perché frutto
di libera scelta. Una soluzione di comodo è per lei impensabile 2. Nate in anni
di contestazione al metodo tradizionale di studiare il latino, le Lezioni di Ti-
ziana cercano nuove strade ma non fanno alcuna concessione allo spirito del
tempo: basta guardare la sequela e il tipo di esercizi da lei proposti.
In effetti, sottraendo gli allievi al supplizio dello studio mnemonico del lati-
no, ancora in auge negli anni Settanta, li apriva alla conoscenza di una grande
civiltà del passato facendoli entrare «nel vivo delle istituzioni politiche, civili e
religiose dei Romani» (p. 35). Il tutto attraverso la conoscenza diretta e prima-
ria dei testi antichi spesso non convenzionali, incluse le epigrafi (ancora oggi

2
Nelle sue memorie ritorna sull’argomento: «L’aggettivo ‘facoltativo’ per molti era in-
teso non come libertà di scelta a iscriversi, ma come libertà dall’impegnarsi o meno nel suo
studio» («Il Caragliese», p. 13).

8
1.
omaggio
a tiziana momigliano

generalmente trascurate da professori di latino unicamente proiettati verso la


letteratura colta). Da buona umanista non trascura l’analisi stilistica dei testi
cercando di cogliere «l’energia della lingua stessa», che aiuta gli studenti a di-
ventare «maggiormente partecipi di questa cultura» e in grado di capire meglio
anche l’italiano (p. 36). È lo sguardo di una italianista: Tiziana si era laureata in
Letteratura italiana a Torino nel 1936.
Eppure Il latino con gioia non è semplicemente una raccolta tematica di
testi per rendere più accettabile il latino agli studenti. Se così fosse Tiziana si
limiterebbe solo a continuare la nobile tradizione, già inaugurata agli inizi del
Novecento da Carlo Giorni col suo fortunato libro La vita dei Romani, descritta
dagli antichi. Letture latine di prosa e poesia, raccolte ed annotate per le scuo-
le classiche (1a ediz. Firenze 1906, 2a ediz. riveduta Firenze 1912). Egli si era
studiato di raccogliere brani fra autori vari di tutto l’arco della civiltà latina 3
per cercare di rendere viva, agli occhi dei giovani allievi, l’antichità classica e
«per non lasciare che vada spezzata la catena che lega il presente col passato»
(Pref. p. VI). Il suo tentativo mirava a superare la barriera di noia che spesso
ingenerano gli studi classici «freddamente e aridamente esposti, come nei soliti
manuali di storia, di mitologia e di antichità classiche» (ibidem). Ma Il latino
con gioia di Tiziana Momigliano è qualcosa di più: è un latino calato nella
società, non relegato semplicemente al mondo degli scrittori messi in rapporto
reciproco in un vuoto torricelliano, come si usava per lo più fare negli anni
Settanta in Italia. È la lingua che serve a raggiungere e a capire i Romani. E
la società romana è esaminata nei suoi più importanti aspetti, tutti in qualche
modo correlati fra loro: la letteratura, la storia, l’economia, la religione, la vita
civile e quella militare. Tutto a partire dalla lettura diretta dei testi, come sot-
tolinea nella «Premessa metodologica». Così ad esempio si era accorta che nel
mondo romano la vita pubblica è intimamente connessa con quella religiosa
al punto da considerare i collegi sacerdotali quali pubbliche magistrature 4.
Analogamente, parlando di ludi, sottolinea che a Roma i più antichi hanno
carattere religioso e non a caso sceglie i Consualia di Romolo 5. Da storica
delle religioni classiche non posso che darle ragione. La conferma viene da
un famoso passo illuministico di Polibio (uno storico greco del II sec. a.C.), da
cui risulta inequivocabilmente che la religione a Roma occupava «ogni aspetto
della vita privata e degli affari pubblici della città» 6. Con molta più linearità (ed

3
Superando «la cerchia troppo ristretta dei puri scrittori classici», come scrive nella
Prefazione, p. VIII.
4
Seconda lezione, pp. 56-57.
5
Settima lezione, p. 134.
6
Polyb. VI 56, 6-14: la spiegazione che egli dà di questo fenomeno è all’insegna di
un pragmatismo diremmo machiavelliano, ma la sua conclusione è che la religione degli

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1.
omaggio
a tiziana momigliano

un fondo di nostalgia) ragiona un Romano come Sallustio, quando afferma che


i templi degli dèi furono costruiti dagli antenati, religiosissumi mortales 7 la cui
devozione ornava i santuari. Anche Cicerone è convinto che la grandezza dello
stato romano è dovuta a chi ha obbedito ai dettami della religione: «E se voglia-
mo paragonare le nostre caratteristiche con quelle di popoli stranieri, si troverà
che in altri aspetti noi siamo pari o anche inferiori, mentre nella religione, ossia
nel culto degli dèi, noi siamo molto superiori» 8.
Tiziana ci tiene a mettere in evidenza che, nella società romana, vi è «uno
stretto rapporto fra la vita civile e militare; l’una influenzava l’altra e ambedue
condizionavano il modo di sentire e di essere di tutto il popolo» 9, senza dimen-
ticare che, al di là degli «aspetti concreti della vita militare», vi sono gli uomini
che vivono quella esperienza. Traspare qui in lei un risvolto di quella umanità
ben nota a chi l’ha conosciuta.
Nel Latino con gioia Tiziana parla anche agli insegnanti invitandoli a fare
ricerca attiva:

Nulla è più interessante dei documenti della romanità scoperti nelle


province. Noi ci ripromettiamo, nel corso di queste lezioni, di offrirne
qualche esempio, per invitare i colleghi a ricercare nei musei cittadini,
nelle pareti delle chiese o degli edifici, ove talvolta sono murate, le
eventuali iscrizioni scoperte nelle località in cui insegnano. 10

Questa considerazione si traduce in un suggerimento didattico molto interes-


sante ed istruttivo 11, ma l’idea viene da lontano. In un articolo del 1930 12, dedi-
cato al passato del suo paese, Caraglio (provincia di Cuneo), Tiziana ricordava
la presenza nella chiesetta di S. Lorenzo di lapidi murate che, con altri oggetti e
monete raccolte nel territorio, ricordavano come «vicino a Caraglio sorgesse un
centro romano di qualche importanza, denominato Germanicia, la cui origine è

antichi a Roma è utile, ha la sua logica, il suo fondamento e la sua utilità pratica assai più
delle critiche dei moderni ad essa refrattari. Un po’ diversamente l’aristocratico sofista Cri-
zia (Vorsokratiker 88 B 25).
7
Sall. De con. Catil. 12, 3.
8
Cic. De nat. deor. II 8. Cfr. anche De har. resp. 19 sed pietate ac religione atque hac
una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes
nationesque superavimus. I Greci non vedevano diversamente i Romani: Posidonio fr. 81
Theiler = fr. 266 Edelstein-Kidd = FGrHist 87 F 59; Dion. Hal. Ant. II 18-19.
9
Terza lezione, p. 65.
10
«Premessa metodologica», p. 37.
11
Vd. Quarta lezione, p. 98.
12
T. Momigliano, Caraglio, «Subalpina» (Rivista mensile illustrata) III, 5 (maggio 1930),
pp. 19-24, in part. p. 20. Sono grata alla comune amica Vittorina Casasso Martino per aver-
mi fatto conoscere questo articolo.

10
1.
omaggio
a tiziana momigliano

fatta risalire a Germanico, figlio di Claudio Druso». L’intento di Tiziana è quello


di legare il presente al passato e di ritrovare il passato nel presente 13, ma senza
la retorica e i paludati travestimenti di fascistica memoria.
Fin da subito mette in chiaro il suo atteggiamento nei confronti delle in-
formazioni su Roma arcaica. Non giustifica né esecra l’ipercritica, quel che le
interessa è la «rappresentazione» (noi oggi diremmo l’immagine) per salvare in
ogni narrazione la capacità di suscitare commozione (evidente influsso crocia-
no) 14. E tuttavia ammira il severo Livio pregno di ideali repubblicani, la sua
capacità di narrare i fatti (Cincinnato) «con estrema concisione, senza com-
menti» 15. Questa sua tensione idealistica traspare specialmente nella lezione
sull’educazione (la Sesta) sia nella scelta dei testi (Valerio Massimo e Tacito) sia
negli scopi che si propone. Di nuovo nell’aneddotica prescinde dalla questione
della realtà o meno dell’episodio, ma cerca di cogliere «l’ideale educativo dei
Romani», ovviamente in particolare l’ideale tradizionale repubblicano (Tacito è
citato per la critica alle usanze coeve).
Per Tiziana, nel mondo romano, funzionavano due modelli educativi pre-
coci, la famiglia e i modelli concreti da imitare, i cosiddetti exempla. Funzio-
nava non solo l’imitazione diretta del padre, ma anche degli avi ‘leggendari’ o
‘mitici’: Orazio Coclite, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Fabrizio 16. Si tratta dei
ben noti exempla che di certo furono utilizzati nella scuola di Tiziana, come
lo sono stati ancora nella mia. Ed è interessante notare in proposito che l’idea
di Tiziana ricorda la posizione di Henri-Irénée Marrou (1904-1977), nel notis-
simo libro Storia dell’educazione nell’antichità: «[…] l’educazione romana può
dirsi un’imitazione degli antenati» 17. Dopo, e soltanto dopo, veniva la scuola.
Argomento che la interessa parecchio, nella sua complessità, come mostrano i
suoi suggerimenti di ricerca ulteriore sui criteri e metodi educativi, riservando
però ampio spazio (e passi memorabili) alle qualità, ai propositi, alla capacità
richiesti agli insegnanti dell’antichità 18. L’importanza del gioco nell’educazione
si riverbera sulla lezione dedicata agli spettacoli, cari all’indole intellettualmen-

13
Cfr. Terza lezione, p. 75; Quarta lezione, p. 93; Quinta lezione, p. 111; Sesta lezione,
p. 123; Settima lezione, pp. 138-139.
14
Prima lezione, p. 42.
15
Analoga ammirazione riserva a Sallustio per il suo stile «asciutto e stringato»: Seconda
lezione, p. 63.
16
Sesta lezione, pp. 120-121.
17
H.-I. Marrou, Histoire de l’éducation dans l’antiquité, Paris 1948, 3a ediz. 1954, trad. it.
Roma 1950. Cito dalla trad. it. Roma 1966 (2a trad. it. sulla 6a francese), pp. 310-312 (il pa-
dre), 314-317 (exempla). Ora vd. A. Corbeill, Education in the Roman Republic: Creating
Traditions, in Y.L. Too (Ed.), Education in Greek and Roman Antiquity, Leiden - Boston -
Köln 2001, pp. 261-287.
18
Sesta lezione, pp. 115 e 122-123.

11
1.
omaggio
a tiziana momigliano

te aperta e curiosa di Tiziana, senza però dimenticare di introdurre un passo


di Cicerone sui ludi sfarzosi ma grossolani e crudeli offerti da Pompeo, che
solleva chiari distinguo fra gusti popolari e gusti colti 19.
Infine non poteva mancare una lezione sulla morte e i riti funebri (la Otta-
va), forse la più autobiografica delle Lezioni, alla ricerca delle ragioni profonde
che stanno alla base della rappresentazione dell’aldilà e di quelle ragioni che –
tenendo fede alla religione degli avi – dettano il culto dei morti. Senza esclu-
dere, ancora una volta, accanto alle testimonianze letterarie, le amate epigrafi
e senza dimenticare i collegia funeraticia 20 che venivano incontro ai bisogni di
chi «deve prendere prima di morire tutte le disposizioni che di solito spettano
agli eredi». In questa lezione le immagini si infittiscono: accanto ai monumenti
di personaggi illustri o di alta committenza (Figg. 5, 7, 9) non mancano imma-
gini che ricordano personaggi più umili (il fornaio Eurísace, Fig. 6) o donne di
provincia (la stele di Palmira, Fig. 8).
Le Lezioni spaziano dai (sobri) costumi romani di epoca repubblicana, alla
vita politica, alla vita militare e alla guerra (e qui traspare dolorosamente la
consapevolezza di una esperienza drammatica vissuta) 21. Sollecitata – come
mi disse – dalla domanda di un figlio di amici nel corso di una gita sul perché
della denominazione della via Emilia, aveva scritto la lezione sulle vie romane
(la Quarta). Nell’attenzione alla vita economica e all’agricoltura vi è tutta l’eco
(a me pare) della sua infanzia a Caraglio e il riflesso di una sua naturale dispo-
sizione alla concretezza.
Riservatissima fino al punto da sembrare superba 22 (diventava confidenzia-
le e splendidamente franca nella cerchia più ristretta di parenti ed amici), ha ri-
versato nell’insegnamento e nello studio la sua anima orgogliosa, a tratti risen-
tita, ma al fondo umanissima, come testimoniano chiaramente le sue memorie
stampate nel «Caragliese». La pubblicazione del Latino con gioia le avrebbe
fatto sicuramente piacere, perché è un modo per tramandare una scheggia di
quell’insegnamento che le fu caro.
Le fu caro anche perché conquistato con fatica, come scrive nelle sue me-
morie, che sono una sorta di diario del suo insegnamento, dalla laurea alla
pensione, un diario scandito da supplenze iniziali, esoneri forzati in quanto

19
Settima lezione, p. 137.
20
Già citati nella Quinta lezione sull’economia, p. 108 (Associazioni di categoria).
21
Terza lezione, p. 75: «Ma perché i ragazzi sappiano che la guerra in ogni tempo ha
sempre recato sofferenza e lutti, noi riportiamo anche un altro passo di Livio […]».
22
Come ricorda la neolaureata Tiziana, nel 1937 supplente all’Istituto Magistrale «De
Amicis» di Cuneo, nelle sue memorie, «Il Caragliese», p. 10: «Nella sala professori ero timoro-
sa e me ne stavo in disparte. Le insegnanti erano tutte di ruolo e affiatate tra loro […] ebbi
contatto con alcune di esse e scoprii che la mia ritrosia era stata scambiata per superbia».

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1.
omaggio
a tiziana momigliano

ebrea durante l’ultimo periodo fascista, lezioni private come istitutrice (per
vivere) e quindi, dopo la guerra, incarichi annuali fino ai sospirati «trienni di
continuità». Ma lasciamo a lei stessa la parola:
Quando mi ero laureata [il 15 dicembre 1936 in Letteratura italiana],
ambivo a insegnare in un liceo, poi gli avvenimenti mi avevano tra-
volta. 23

E gli avvenimenti saranno le leggi razziali del 1938, che a poco a poco strin-
gono la morsa attorno alla popolazione ebrea d’Italia (40.000 persone circa),
rendendole progressivamente impossibile la vita 24. Tiziana ha presentimenti
inquietatanti di quel che sta per succedere e il suo intuito suggerisce a lei, che
aveva studiato con lena e passione, di anteporre il piacere al dovere:
Io avrei dovuto studiare per il prossimo concorso, ma la campagna
antisemita iniziata nei quotidiani 25 mi dava la certezza che non vi
avrei mai partecipato. Andavo in battello alle isole e alle località più
note del lago [stava insegnando a Intra nell’anno scolastico 1937-38];
la domenica al Mottarone, sciavo con i colleghi veneti; incontravo al

23
«Il Caragliese», p. 13.
24
Interessante ricordare qui la testimonianza di un cugino di Tiziana, Eucardio Mo-
migliano, il cui libro (il primo del genere in Italia) Storia tragica e grottesca del razzismo
fascista, Milano, Mondadori, 1946, è il resoconto lucido e preciso di una persona che fu
antifascista e perseguitata dal regime fin dal 1923. Su Eucardio (Monesiglio, Cuneo, 1888 -
Milano, 1970), avvocato di professione poi perseguitato dai fascisti come antifascista e
riciclatosi (per forza, ma ottenendo grande successo, anche internazionale) come biografo,
si veda il profilo (a firma E.L.) pubblicato come Premessa al libro citato. Una messa a punto
in G. Arrigoni, Identità e memoria: la «Singolare esperienza» di Eucardio Momigliano, ora
in Il mio cuore è a Oriente. Studi di linguistica storica, filologia e cultura ebraica dedicati a
Maria Luisa Mayer Modena, a cura di F. Aspesi, V. Brugnatelli, A.L. Callow, C. Rosenzweig,
Milano 2008, pp. 591-602.
25
I primi segnali dell’antisemitismo compaiono sulla stampa italiana nel 1937, special-
mente dopo il novembre 1937, e soprattutto dopo il viaggio di Hitler a Roma (maggio 1938).
La Germania preme e Mussolini deve ubbidire: il 14 luglio 1938 esplode l’antisemitismo ita-
liano, diramato su tutti i giornali, secondo gli ordini di Berlino (si tratta del cosiddetto «Ma-
nifesto degli scienziati razzisti» o «Manifesto della razza», apparso anonimo su «Il Giornale
d’Italia» il 14 luglio 1938, su cui vd. ora: G. Israel - P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fa-
scista, Bologna, Il Mulino, 1998, in part. p. 210 ss.; R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo
fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 225-241). Il 19 luglio viene creata, presso il Mini-
stero dell’interno, una Direzione della Demografia e della Razza. Mussolini (con improvviso
voltafaccia) cerca di convincere gli Italiani in discorsi pubblici (a Forlì, luglio 1938; a Trieste,
settembre 1938) che il razzismo è un’invenzione sua, che egli non imita nessuno, che è in
relazione con la conquista dell’Impero (1936) e la stampa unanime inneggia alla nuova po-
litica antisemita del regime: vd. Eucardio Momigliano (Storia tragica, supra, nt. 24), pp. 45,
48-49, 53-59 (altri particolari e puntualizzazioni in Israel - Nastasi e Maiocchi).

13
1.
omaggio
a tiziana momigliano

caffè gli insegnanti siciliani. La mia vita era in apparenza serena, ma


avevo la sensazione che tutto fosse molto precario. 26
Non si ingannava: quando il 3 settembre 1938 viene emanato il primo decreto
contro gli ebrei italiani, la ventisettenne Tiziana annota con spoglio e desolato
linguaggio burocratico:
[…] il preside mi informò che ero esentata dagli esami autunnali. Il
mio grembiule nero con il colletto bianco rimase appeso nell’armadio
che era stato mio nella sala professori. 27
Rimasta senza lavoro, come il fratello Arnaldo destituito dalla sua cattedra alla
regia Università di Torino 28, Tiziana per vivere si adatta a fare – lei che veniva
da una famiglia agiata di Caraglio – l’istitutrice privata in casa delll’italianista
ebreo Mario Fubini a Torino per tutto il 1939. Ma gli eventi precipitano e per lei
comincia l’odissea. Nel 1940 ripara a Milano e, con la sorella Fernanda (Torino,
2 aprile 1913 - Milano, 17 gennaio 2004), va ad abitare in una camera ammobi-
liata di via Settembrini 30, che (annota Tiziana) «era attigua – ironia della sor-
te – al Provveditorato degli Studi con andirivieni di docenti e mia grande ma-
linconia» 29. Ma Milano (a differenza di Roma che è il palcoscenico del regime)
non è molto fascistizzata e qualcuno l’aiuta: in quell’anno un preside solidale
con gli ebrei le affida il riordino della biblioteca e del catalogo:
Lavoravo in silenzio in un angolo della sala professori, timorosa di
essere identificata. Provavo invidia per tutti i docenti che avevano il
registro in mano. 30

26
«Il Caragliese», p. 10.
27
«Il Caragliese», p. 10. Dall’agosto del 1938 si susseguono i decreti: prima contro gli
ebrei stranieri poi (3 settembre 1938) contro gli ebrei italiani (Eucardio Momigliano, supra,
nt. 24, p. 69). Prosegue Eucardio (ibidem): «[…] il consiglio dei ministri, con decreto d’ur-
genza, decide che tutti gli insegnanti ed allievi israeliti delle scuole italiane di ogni ordine
e grado siano cacciati, dall’asilo infantile fino all’università. Sono pure esclusi dalle acca-
demie, dagli istituti e associazioni di cultura, scientifiche e letterarie e dalle biblioteche ed
archivi». L’esecuzione del decreto ebbe inizio il 16 ottobre 1938. Tutto fu poi trasferito nella
grande legge razzista del 17 novembre 1938 (Eucardio, p. 85). Alcune correzioni ai dati di
Eucardio apporta M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione,
Torino, Einaudi, 2000, in part. pp. 196 (nt. 303), 211 (nt. 362).
28
Vd. la lettera di Arnaldo Momigliano a Ernesto Codignola del 14 settembre 1938 pub-
blicata in A. Momigliano, Pace e libertà nel mondo antico, a cura di R. Di Donato, Scandicci
(Firenze) 1996, n. 16, pp. 157-160. Ora ampia documentazione in L. Polverini, Momigliano
e De Sanctis, e L. Cracco Ruggini, Gli anni di insegnamento a Torino, in L. Polverini (a
cura di), Arnaldo Momigliano nella storiografia del Novecento, Roma 2006, rispettivamente
pp. 20-23 e 121-123.
29
«Il Caragliese», p. 10.
30
«Il Caragliese», p. 12.

14
1.
omaggio
a tiziana momigliano

Alla disgrazia di essere giovane ed ebrea perseguitata durante quella guerra e


in quel clima di assurdità si somma la malinconia, l’invidia per una professione
negata e per cui aveva studiato con lena, passione e successo. Durante la guer-
ra, per sopravvivere, le due sorelle, che avevano ottenuto una carta d’identità
con falso cognome 31, si adattano a fare lavori occasionali (e talora umilianti),
ma cercano anche, ciascuna a modo suo, di mettere a frutto le proprie com-
petenze. Fernanda più intraprendente (diventerà dopo la guerra una brillante
imprenditrice), Tiziana più cauta, ma non meno decisa. Spronata dal cugino
Rinaldo De Benedetti (che viveva e lavorava in clandestinità nella Milano fa-
scista) 32 ad accettare qualsiasi lavoro intellettuale le fosse offerto (un monito
che spesso mi ricordava), dà lezioni private, ma lavora anche per case editrici
(la Fratelli Vallardi) come correttrice di bozze. Frequenta la casa di professori
antifascisti e, grazie all’appoggio di un letterato antifascista molto tenace (più
volte imprigionato) come Mario Vinciguerra (Napoli, 1887 - Roma, 1972) 33,
ottiene l’incarico di correggere bozze di romanzi per la Bompiani e soprattutto
la redazione di ben 49 voci per il Dizionario Bompiani delle opere e dei perso-
naggi che era allora in preparazione e che si rivelerà dopo la guerra un grande
successo internazionale 34. Sotto falso nome e grazie all’appoggio di Vinciguer-
ra, scrive anche un manuale di storia per la scuola media, che ho rintracciato:
apparve sotto il nome di Silvia Spellanzon, Voci dai secoli (vol. I), pubblicato

31
Il nome di entrambe era rimasto lo stesso (per non tradirsi), il cognome era Gatti.
Tiziana («Il Caragliese», p. 10) parla di una carta d’identità con falso cognome ottenuta con
l’aiuto di un impiegato del Comune di Monza.
32
Rinaldo De Benedetti (Cuneo, 1903 - Milano, 1996). Particolarmente interessanti le
sue Memorie di un Nonagenario (inedite), che ho potuto leggere grazie alla squisita corte-
sia della figlia Anna De Benedetti Fuertos, ora edite col titolo Memorie di Didimo, Milano,
Scheiwiller, 2008. Un profilo biografico-intellettuale e l’elenco completo delle opere di
questa originale figura di ingegnere, giornalista, divulgatore scientifico, scrittore e poeta
si possono leggere in R. De Benedetti, Sonetti Vespertini, Prefazione di M. Hack, con uno
scritto di P. Bianucci, Milano, Scheiwiller, 2006, pp. 125-134.
33
Su Mario Vinciguerra, pubblicista e scrittore, vd. Enciclopedia Italiana, Appendice
III 1949-1960, Roma 1961, p. 1097; Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, s.v.
Vinciguerra Mario VI (1989), p. 399; G. Ferro, Milano capitale dell’antifascismo, Milano,
Mursia, 1985, pp. 47, 72-73, 164, 169, 179-180; A. Carioti, Vinciguerra azionista girondino,
Presentazione a M. Vinciguerra, I Girondini del ’900 e altri scritti politici, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2005, pp. 5-35 (ringrazio della segnalazione il collega di Storia contemporanea
prof. Ivano Granata).
34
«Le mie voci portavano il nome di Vinciguerra, ma segretamente era custodito il mio»,
esclama con complicità e fierezza nelle sue memorie («Il Caragliese», p. 10). Dizionario
letterario Bompiani delle opere e dei personaggi, voll. I-IX, Milano 1946-1950 + 3 voll. di
Appendici, Milano 1964-1979. L’opera è stata recentemente ristampata con integrazioni (a
volte banali), ma senza lo splendido apparato iconografico, Milano, Bompiani 2005, voll. I-
XII, rist. Milano, RCS, 2006. Le 49 voci di Tiziana (sigla T.M.) sono tutte conservate.

15
1.
omaggio
a tiziana momigliano

nel 1941 per la Marzocco di Firenze, un libro a tratti di chiara ispirazione fa-
scista, ma a basso tasso di fascistizzazione, che merita di essere studiato per
molteplici motivi 35.
Nelle sue memorie Tiziana accenna brevemente (e con modestia) alla sua
collaborazione alla Enciclopedia della donna, pubblicata dalla casa editrice
milanese Bianchi-Giovíni 36. Io ho potuto consultare solo la seconda edizione
riveduta ed ampliata, a cura di Bianca Ugo, uscita nel 1946 37. Le voci vere e
proprie sono intitolate «Il repertorio della donna» e occupano ben 782 pagine
(pp. 206-987). I lemmi sono i più svariati e trattano di cucina, piante, malat-
tie, sostanze chimiche, casa, gioielli, animali, lavori a maglia e a ricamo, feste
(Natale, Ognissanti, Pasqua – compresa la Pasqua ebraica – Quaresima, Roga-
zioni), razze. La voce Ripetizioni sembra contenere qualche traccia che porta
a Tiziana nel dire che lo scopo delle ripetizioni deve essere quello di porre
l’alunno in grado di fare da sé, e assai probabilmente autobiografica è l’osser-
vazione finale: «Il ripetitore che viene in casa sia trattato su un piano di perfetta
uguaglianza». Anche la voce Severità ricorda molto le convinzioni di Tiziana
quando afferma: «Nell’educazione la severità deve essere più sostanziale che
esteriore. Essa deve consistere soprattutto nella rigorosa coerenza (il no sia
no; il sì sia sì); nell’indulgenza verso i piccoli falli senza conseguenza, ma nel
rigore verso quelli più gravi o che, pur non essendo tali, rivelano un atteggia-
mento inferiore dell’animo; nell’esempio morale sempre palese; e, infine, nella
capacità di poter fare a meno dei castighi». Particolarmente brillante, in questa
Enciclopedia, è l’insieme delle molte voci dedicate alla sfera morale o al saper
vivere. Denotano una buona dose di anticonformismo (data l’epoca), di intelli-
gente ironia e di superiorità intellettuale, perfino di disincantata lucidità, non-
ché una certa dose di tatticismo, tutte qualità che non mancavano a Tiziana.
Basta scorrere ad esempio le voci Generosità, Ipocrisia, Lealtà, Morale, Onestà,
Onore, Orgoglio, Paura, Perdono, Pettegolezzo, Pregiudizio, Prodigalità, Pun-

35
Annota Tiziana («Il Caragliese», p. 10): «Per merito di Vinciguerra, l’editore Marzocco
di Firenze mi fece scrivere un testo di storia per il ginnasio inferiore. Conobbi più tardi
Silvia Spallanzon [probabile errore di battitura] che mi aveva fatto da prestanome e la rin-
graziai. Mi disse l’imbarazzo di avere accettato delle felicitazioni che non le erano dovute».
Silvia Spellanzon era figlia del giornalista antifascista (fin dal 1924) e storico del Risorgi-
mento Cesare Spellanzon (Venezia, 1884 - Milano, 1957).
36
«Il Caragliese», p. 10: «Ugo Dèttore si era licenziato dalla Bompiani e aveva creato la
“Bianchi Giovíni” che non ebbe lunga vita […]. Dèttore fece compilare in gran parte da me e
da qualche altro collaboratore un’“Enciclopedia della donna”».
37
A sua volta ristampata a Bergamo, Arti Grafiche, 1949. Questa edizione comprende
alcuni saggi iniziali, tra cui uno di Dèttore (La donna nella casa, nella famiglia, nella vita
sociale, pp. 7-52) e uno della moglie Bianca Ugo (100 consigli pratici per l’educazione dei
figli, pp. 169-203), che sono di sicuro interesse per la ‘storia delle donne’.

16
1.
omaggio
a tiziana momigliano

tualità, Rimorso, Sincerità, Superbia, Umorismo. Ovviamente non siamo sicuri


che tutte queste voci siano frutto della penna di Tiziana, ma, nella compattezza
concettuale e nello stile unitario, rivelano molte delle sue doti naturali o acqui-
site e delle sue convinzioni profonde.
Finita la guerra, Tiziana – nell’ottobre del 1945, a 34 anni – riprende l’in-
segnamento in un avviamento femminile (la «Cairoli», per quattro anni). Con-
seguita l’abilitazione nel 1949, ottiene un incarico biennale nella scuola media
«Tiepolo» a Città Studi. Nel 1951-52 e 1952-53 insegna alla scuola media «Parini»
maschile, una tappa importante per la sua formazione di insegnante:

Ottenni la scuola media «Parini» maschile, che godeva di grande presti-


gio a Milano. Vi affluivano i figli delle famiglie più note che desidera-
vano una scuola severa e selettiva. Erano pure iscritti i Martinitt 38 più
dotati. Gli insegnanti avevano molta esperienza; ho imparato da loro
a commentare i poemi omerici e un buon metodo per l’insegnamento
del latino. 39

Nel 1954 è di ruolo alla scuola media di Mortara (40 km da Milano), la soddisfa-
zione mitiga le fatiche ed i disagi:

Mi alzavo alle cinque del mattino e con due tram raggiungevo un va-
gone vetusto, con panche di legno, maleodorante e poco illuminato.
L’edificio della scuola media di Mortara era stato un convento, ogni
aula si riscaldava con una stufa di maiolica: la sua manutenzione era
affidata all’insegnante. Per fortuna i miei alunni erano più abili di me
nel caricarla di legna! I ragazzi erano figli di agricoltori e la scuola era
il loro punto di aggregazione. La frequentavano con piacere ed erano
orgogliosi di avere un’insegnante milanese. Io con loro dimenticavo
il disagio e la fatica del viaggio. Il preside era convinto che avrei fatto
molte assenze, invece non mancai neppure un giorno. 40

Negli anni 1954-58 è la volta di Sesto San Giovanni (all’inizio una classe con
molti ripetenti) dove insegna con occhio vigile, equilibrato, comprensivo:

38
I Martinitt sono gli orfani o fanciulli abbandonati ospiti dell’omonimo istituto che
prese il nome da una delle prime ubicazioni dell’orfanatrofio nei pressi della chiesa (non
più esistente) di S. Martino agli Orfani. Unitamente alle Stelline (le fanciulle orfane o ab-
bandonate) i Martinitt furono sempre molto sostenuti dai Milanesi (anche con lasciti e do-
nazioni). Dal 1932 in via Pitteri 56 a Milano, l’istituto (che nel 1997 si è fuso con le Stelline)
si è recentemente trasferito in via Rubattino; attualmente assiste specialmente extra-comu-
nitari.
39
«Il Caragliese», p. 11.
40
«Il Caragliese», p. 11.

17
1.
omaggio
a tiziana momigliano

Sesto era molto politicizzata. Numerosi i comunisti, ma grande pure la


schiera dei democristiani ben agguerriti. I ragazzi seguivano il credo
dei genitori; però in classe erano buoni compagni e fuori giocavano a
calcio senza distinzioni di partito. 41

Ma Tiziana sapeva anche valorizzare i suoi allievi, riconoscendone i meriti:

[A Sesto] Avevo adottato un testo di geografia nuovo di una nota casa


editrice. Non ero molto esperta in questa disciplina e alcuni alunni
attenti trovarono un errore all’inizio del primo volume. Li invitai ad
annotare sbagli e imperfezioni per tutti e tre gli anni e, alla fine, man-
dammo l’elenco all’editore. Ringraziò e si congratulò con la classe
promettendo che avrebbe utilizzato la loro fatica alla prossima ristam-
pa; a me inviò un elegante libro di geografia che, a nome degli alunni,
offersi alla Biblioteca scolastica. 42

A 48 anni, nel 1959, finalmente Tiziana approda a Milano e precisamente alla


scuola media «Tiepolo», ma, come ultima arrivata, è destinata ad una sezione di-
staccata: è la sede dei più sprovveduti. Dopo due anni viene chiamata nella se-
de principale, ma l’attende una classe terribile, piena di preconcetti, che mette
a dura prova il suo orgoglio, ma non offusca la sua collaudata lucidità mentale:

Il terzo anno [1961-62] fui chiamata in sede perché una collega aveva
vinto il concorso di preside e lasciava libera la sua cattedra. L’inse-
gnante aveva fatto un mito di se stessa e convinto gli alunni che non
esistesse alcuna più colta e preparata di lei. Il mio arrivo, all’inizio del
terzo anno, fu accolto malissimo; la classe era sempre in fermento. Un
giorno trovai la cattedra cosparsa di riso per disprezzo. Feci ripulire,
senza rivolgermi al<la> preside perché avrebbe significato ammettere
la mia sconfitta. Avevo capito che molti ragazzi si rivolgevano a lei
per nulla rassegnati alla sua sostituzione. Ero però convinta che con il
tempo lei sarebbe stata assorbita dai compiti della presidenza e avreb-
be allontanato gli alunni. Questo avvenne pur tra molte difficoltà.
Qualcuno dei contestatori alla fine dell’anno mi attestò la sua stima. 43

Ormai cinquantenne Tiziana ha le sue soddisfazioni professionali: «Il triennio


1962-1965 fu in compenso il migliore della mia carriera». La ragione sta nel fatto
che gli alunni, di estrazione sociale alta o più modesta, erano tutti «motivati
a conseguire un diploma o una laurea». Questa la sua ambizione. Viceversa

41
«Il Caragliese», pp. 11-12.
42
«Il Caragliese», p. 12.
43
«Il Caragliese», p. 12.

18
1.
omaggio
a tiziana momigliano

una breve parentesi (1965-66) all’istituto magistrale «Virgilio» si conclude senza


grandi rimpianti per il motivo che la classe mista (per lo più femminile) non ha
in genere aspirazioni intellettuali e pedagogiche:
L’Istituto Magistrale Virgilio era nato in epoca fascista soltanto per i
maschi, ma in una Milano industriale e commerciale, la professione
di maestro non era ambita. Con gli anni fu aperto anche alle femmine
che divennero prevalenti. I maschi che sceglievano le magistrali erano
quasi sempre figli di immigrati, attratti dalla brevità del corso. Nella
classe che mi era stata assegnata la parte migliore era un gruppo di
ragazze che proveniva da una scuola privata: intendeva frequentare
più tardi il Magistero. Il resto era raccogliticcio e poco qualificato.
Per il futuro sembrava aspirare a un impiego in un istituto bancario
o in un ente statale. Dissi loro più volte che difficilmente avrebbero
trovato agli sportelli un bambino con il quale utilizzare la pedagogia
che avrebbero imparato. Uno degli alunni cambiò ordine di scuola e
quando lo rividi era soddisfatto della sua decisione. 44

Come si vede, Tiziana spronava i suoi allievi a dare il meglio di sé. Nel 1966-67
torna finalmente alla «Tiepolo», media femminile prima e poi maschile («Avevo
maggiore esperienza con i ragazzi») e lì rimane nei successivi trienni, rinun-
ciando ad un posto al liceo «Volta» (in rivolta) di Milano per cui aveva avuto la
nomina («Mi paragonavo a una ventenne che aveva sognato un giovane marito
e a sessant’anni si sarebbe dovuta sposare un anziano vedovo e malandato») e
rimase «serena» coi suoi ragazzi alla «Tiepolo» fino alla pensione (10 settembre
1981), a 70 anni. Uno dei suoi ragazzi della «Tiepolo» ebbe un’idea felice, la
fotografò come realmente la viveva, come la professoressa:
Alla fine del terzo anno, a mia insaputa, mi fece una fotografia: alle
spalle avevo la lavagna e sulla cattedra il registro aperto. Me la mandò
l’anno successivo dal fratello che divenne pure mio allievo. Era molto
bella. 45

La foto è stata a lungo nello studio di Tiziana ed ora troneggia di contro al fron-
tespizio, grazie alla gentilezza dell’avv. Paolo Finzi, l’autore del ritratto.
Milano, gennaio 2007

44
«Il Caragliese», p. 12.
45
«Il Caragliese», p. 13.

19
TORNARE ALL’ANTICO
Le lezioni sul latino di Tiziana Momigliano
di Massimo Gioseffi

Tornate all’antico, e sarà un progresso.


(G. Verdi a Francesco Florimo, Genova, 5 gennaio 1871)

L’istituzione, nell’ultimo decennio, delle SSIS e il diffondersi, lento e difficol-


toso, ma graduale e riconosciuto finalmente anche in Italia, di una disciplina
quale la «didattica del latino» hanno portato di recente alla pubblicazione di
vari manuali e repertori dedicati all’insegnamento della materia, alla sua pra-
tica, alle sue necessità 1. L’elemento che accomuna un po’ tutti questi volu-
mi è la contrapposizione fra un metodo ‘antico’, svolto necessariamente per
imitationem e in re (ossia, sul corpo vivo degli studenti), e un metodo che si
auspica consapevole e scientifico, non più artigianale, rivolto in primo luogo
al ‘comunicare’ e non al ‘trasmettere’, ovvero – come scrive Anna Giordano
Rampioni – «al rapporto che nel processo didattico si instaura fra insegnante
e alunno, focalizzando la figura di chi apprende» 2. In anacronistica controten-
denza con quanto detto finora (ma, in realtà, non tanto), ripubblichiamo qui
una serie di lezioni di Tiziana Momigliano, che risale ai primi anni Settanta 3.

1
Ricordo, senza pretesa di completezza, alcuni tra i più importanti strumenti di lavoro,
dei quali non avrò modo di tornare a fare parola in seguito (altri ne saranno menzionati nel
corso dell’intervento): la serie genovese di convegni e volumi denominati Latina Didaxis;
periodici particolarmente attenti alle problematiche dell’insegnare, come «Aufidus. Rivista
di scienza e didattica della cultura classica» o «Docere. Rivista di didattica delle lingue classi-
che»; l’italiano «Scholia», che ha un supplemento esplicitamente dedicato al tema; la raccolta
di percorsi didattici a cura di D. Puliga, Percorsi della cultura latina. Per una didattica so-
stenibile, Roma, Carocci, 2003. Ampia rassegna bibliografica, a cura di R. Luzzi, in «BStudlat»
37 (2007), pp. 215-254.
2
A. Giordano Rampioni, Manuale per l’insegnamento del latino nella scuola del 2000.
Dalla didattica alla didassi, Bologna, Pàtron, 1998, p. 14.
3
Stampate sulla rivista «La Scuola Media», fra l’ottobre del 1972 e il maggio del 1973.

21
1.
tornare
all’antico

Diverse le ragioni che giustificano la scelta. Prima fra tutte, la sensazione che
i manuali e i prontuari finora pubblicati si interessino soprattutto alla trasmis-
sione della cultura e della letteratura latina, o al più della cultura attraverso la
letteratura latina. Ma la scaletta di insegnamento tradizionale – che nulla vieta,
e anzi sarebbe auspicabile venisse ripensata in futuro, ma che tale attualmente
è e rimane – suppone che l’insegnamento della letteratura e l’approccio diretto
agli autori facciano seguito a un periodo di circa due anni dedicati allo studio
della lingua latina, strumento imprescindibile per quell’approccio e quella let-
tura 4. Impressione generale è perciò che la battaglia, se battaglia ha da essere,
si combatta già, se non addirittura sostanzialmente, proprio in quei primi due
anni, e che lì si debba vincerla o perderla in modo spesso irreparabile. Inutile
pertanto, e forse perfino dannoso, promettere uno studio appassionante della
letteratura, se in precedenza si è ucciso l’interesse dello studente. Si corre in-
fatti il rischio di fondare l’apprendimento su un atto di fede, col pericolo che,
quando si giunge all’agognato traguardo, venga solamente confermata – una
volta di più! – l’idea, già fin troppo diffusa, che il latino sia materia pesante e
noiosa, incapace di appagare le aspettative di chi si vede costretto a studiarlo.

È dunque allo studente ginnasiale o delle classi equivalenti che si deve guarda-
re in prima battuta, è in lui che si deve accendere l’interesse per la cultura anti-
ca, è lì che si gioca la partita per il futuro degli insegnamenti classici: particolare
ben noto e sottolineato un po’ in tutti i saggi di recente pubblicazione, ma tra-
scurato o affrontato con qualche arrendevolezza allorché dalle affermazioni di
principio si passa all’esemplificazione pratica. Ecco allora una prima risposta al
quesito di partenza circa la pubblicazione che qui si presenta: è difatti a chi fre-
quenta il ginnasio o il biennio degli istituti superiori che si possono indirizzare
le lezioni di Tiziana Momigliano, a suo tempo pensate per uno studente della
scuola media inferiore. E, in questa prospettiva, a giustificare l’idea di ripropor-
re tali pagine è il loro sostanziale interesse intrinseco. Com’è ovvio, a distanza
di oltre trent’anni ci sono alcuni aggiustamenti da apportare, resi necessari
dall’avvenuto trascorrere del tempo. È però evidente che l’autrice è sfuggita
alla trappola di identificare l’esercizio sul testo con la sua traduzione (la tradu-
zione per lei è solo un momento, importante ed essenziale, ma non esaustivo,
dell’approccio al testo) e ancor più a quella di identificare gli esercizi con frasi
o brani avulsi dal loro contesto e dal loro contenuto: come se fossero soltanto
uno strumento linguistico – la frase portatrice di difficoltà o di una particolari-

4
Si tratta di un antico retaggio della riforma Gentile, che pure proclamava la necessità
di «immergersi nel mondo classico, quale vive nei testi degli scrittori antichi, senza più
preoccupazioni di astratta grammatica».

22
1.
tornare
all’antico

tà – senza curarsi della (inevitabile) mancanza di logica e di comprensibilità di


quanto viene presentato agli studenti. A parte qualche occasionale incertezza,
l’intento della Momigliano non era (e a quella data la cosa non appariva tanto
scontata) la conquista di una grammatica pura ed astratta, ma priva di vita e
di interesse, né la riformulazione in latino di pensieri moderni, un procedere
sterile al di là di certe sue possibili applicazioni in sede di verifica dell’appren-
dimento. Al contrario: l’autrice si poneva già con grande chiarezza nell’ottica di
quella che oggi chiameremmo la «competenza ricettiva» della lingua latina, pro-
ponendosi cioè di osservare e descrivere i fenomeni linguistici al solo scopo
di riconoscerli e di comprenderli nel momento in cui vengono reperiti nel loro
contesto di appartenenza, dal quale traggono la ragione d’essere. È nota la dif-
ficoltà che subito si presenta a chi si propone un simile intento: come riuscirci
con studenti ancora sprovvisti di un quadro generale di competenze? Come è
possibile affrontare testi o costruire frasi ‘intelligenti’ finché si hanno a disposi-
zione «soltanto i vocaboli della prima declinazione e quindi si può parlare solo
di dee, di fanciulle, di padrone, di ancelle» 5? A questo si aggiunge, e non è dif-
ficoltà di minor conto, il problema di far arrivare gli studenti alla comprensione
di un testo a priori complesso nei contenuti e incerto nei suoi riferimenti, e che
alla maggior parte di loro, anzi forse alla loro totalità, apparirà estraneo, lonta-
no, appartenente a un mondo nel quale ogni follia – se follia è il comportamen-
to diverso dall’abituale, l’agire e il reagire a un orizzonte di pensiero che non è
quello di tutti i giorni – risulta possibile, quando non addirittura legittima 6. La
soluzione proposta dalla Momigliano è uno studio per gradi, che punti prima
di ogni altra cosa al lessico, nella precisa convinzione che senza il possesso del
vocabolario di una lingua non si possiede nessuna lingua – ma il possesso di
un vocabolario significa la sua memorizzazione, la capacità di imprimere nella
mente (e far imprimere nella mente) il maggior numero possibile di termini.
Il che a sua volta vuol dire, nell’esercizio concreto, il non prendere mai in
considerazione le parole in astratto, ma entro percorsi, accostamenti e ulteriori
collegamenti che ne facilitino il ricordo. A quanto suggerito dall’autrice, altro si

5
N. Flocchini, Insegnare latino, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1999, p. 192;
M.-P. Pieri, La didattica del latino. Perché e come studiare lingua e civiltà dei Romani,
Roma, Carocci, 2005, p. 25.
6
La scuola, del resto, ha progressivamente eliminato una serie di cognizioni che un
tempo si acquisivano fin dai suoi gradini più elementari. Non si dimentichi che la maggior
parte dei liceali (qualche volta perfino degli studenti universitari) non conosce quel con-
glomerato di aneddoti esemplari e moraleggianti di ambito antico – forse discutibili, ma
che costituivano una base di sapere comune, oggi dispersa. Da questo punto di vista, certe
affermazioni della Momigliano sull’argomento suonano un po’ troppo apodittiche e sicure
di sé, e probabilmente andranno riaggiustate nella viva pratica.

23
1.
tornare
all’antico

dovrà certamente aggiungere: si tratti dell’indagine sistematica per radici lessi-


cali esemplificata da Elisabetta Riganti 7, oppure della costruzione di opportu-
ne schede di lingua ipotizzata da Maria-Pace Pieri 8, non spetta a noi deciderlo.
Probabilmente, dovrà essere l’una e l’altra cosa: come il testo della Momigliano
non vuole proporsi quale manuale precettivo, ma solo come un’esemplifica-
zione pratica, così – più in generale – risulta difficile essere categorici in una
materia tanto fluida e da verificare giorno per giorno nella realtà della classe.
Onore però al procedimento indicato: perché lo studio del lessico a partire da
testi esemplari, oltre a essere più attraente e più efficace, evita un errore comu-
ne alle grammatiche normative e ai loro esercizi, lo studio cioè in primo luogo
di parole disusate o arcaiche, o appartenenti ad ambiti limitati della lingua
e della storia della lingua, ma rese importanti da ragioni grammaticali (i vari
tussis, ravis, amussis, giustamente definiti «famigerati» da Maria-Pace Pieri) 9. È
chiaro che la soluzione all’impasse potrà stare solo nel ruolo che si assume il
docente all’interno della classe. Sarà il docente a dover guidare i suoi studenti:
da un lato spetterà a lui compiere delle semplificazioni che non travisino i testi
e non riducano neppure all’eccesso le informazioni di grammatica, dando così
un’impressione falsa e, in sostanza, dannosa della complessità del latino; dal-
l’altro, dovrà procedere per gradi, selezionando nel molto – troppo! – che ogni
testo richiede per essere compreso il poco che se ne può trarre, rimandando al
futuro (in una rete continua di collegamenti e ‘tenute in tensione’, di cui si farà
per primo cosciente e partecipe) il molto altro che sarebbe necessario, ma che
non si può pretendere di ricavare subito. Così facendo, si attiverà nei discenti
un apprendimento per approssimazioni successive, capace di passare dalla
scansione fideistica delle prime lezioni (ancora tutte dominate dalla fiducia nel
docente che guida, quando non da un’arrendevole rinuncia a capire), a un’au-
tonoma capacità di orientamento, acquisita per passaggi progressivi. Il che non
è traguardo facile, e nemmeno sicuro: va costruito giorno per giorno, con tutti
i rischi del caso.

Risalire a un testo di trenta e più anni fa è interessante anche in prospettiva


storica. Fu in quegli anni che si combatté la prima, decisiva battaglia circa il de-
stino e il ruolo del latino nella scuola e nella cultura italiana 10. Fino a quel mo-

7
E. Riganti, Lessico latino fondamentale, Bologna, Pàtron, 1989.
8
Op. cit., pp. 41-81.
9
Ivi, p. 17. Sul tema, vd. anche F. Marchese, La livella, il bue, la raucedine. L’insegna-
mento linguistico del latino, oggi, «Chichibio» 42 (2007), p. 2.
10
Relativamente numerosi, ormai, i volumi e gli articoli sulla scuola italiana e la sua
evoluzione dall’unità d’Italia ad oggi. Mi limito perciò a rimandare gli interessati alla guida

24
1.
tornare
all’antico

mento materia pressoché obbligatoria d’insegnamento già alla media inferiore,


e tale per tradizione secolare, il latino venne ridotto dalla legge n. 1859 del 31
dicembre 1962, quella che istituì la scuola media unica 11, a materia obbligato-
ria per un anno, il secondo, ma come integrazione dell’italiano, e a materia fa-
coltativa (ed autonoma) per il terzo e ultimo anno, salvo essere definitivamente
cancellato con l’ulteriore riforma, sancita dalla legge n. 348 del 16 giugno 1977.
Inutile agitare lo spettro del Sessantotto: la strada che portava a questa china
venne imboccata ben prima di quella data. E non si intende certo mettere in
discussione la liceità, forse anche la necessità, di una simile decisione. La Storia
va in direzioni inarrestabili, e a poco serve lo sterile rimpianto per i tempi pas-
sati. Le scelte fatte determinarono però, come ovvia conseguenza, una drasti-
ca emarginazione della materia «latino», avvertita con particolare drammaticità
soprattutto nei primi anni Settanta. Passo successivo sarà, come ho già detto,
la sua definitiva cancellazione dalla scuola media inferiore, sia pure con formu-
lazioni ipocrite, che lasciavano spazio all’agire personale del docente e stimo-
lavano quanto meno lo studio del lessico, inteso come propedeutico e ancillare
all’italiano 12. Non è detto che si sia trattato di un male: se non altro, perché
l’obbligo di difendersi e di giustificarsi, dal quale la materia non ha più potuto
prescindere, ha finito per costituire una ragione di forza, non di debolezza. È
appunto quanto traspare dalle pagine che pubblichiamo. Di fronte alla necessi-
tà di coinvolgere un pubblico di adolescenti, l’autrice, senza perdersi in discor-
si di astratta teoria, offre un esempio preclaro di come coniugare competenza
e comunicazione. Siamo a monte della «psicologia cognitiva» o del concetto di
«metacognizione» oggi imperanti nel discorrere pedagogico; lo siamo anche
delle diverse proposte di grammatica succedutesi negli ultimi anni, dal «model-
lo Tesnière-Happ» al più recente «metodo natura», rappresentato dalla ben nota
Lingua Latina per se illustrata (vol. I, Familia Romana; vol. II, Roma aeterna)
di Hans H. Ørberg 13. Nel caso della Momigliano ci troviamo in un procedere

bibliografica di A. Gaudio, La storia della scuola italiana e delle sue riforme, «Nuova secon-
daria» 17 (2000), pp. 55-58, e al recentissimo A. Balbo, Insegnare latino. Sentieri di ricerca
per una didattica ragionevole, Novara, UTET Università, 2007, pp. 3-24.
11
E che una norma del genere fosse promulgata in data semifestiva appare sintomatico
di molte cose …
12
Nel testo del legislatore, per l’esattezza, si parlava di «rafforzamento dell’educazione
linguistica attraverso un più adeguato sviluppo dell’insegnamento della lingua italiana, con
riferimenti alla sua origine latina e alla sua evoluzione storica»; di fatto, però, la riforma del
1977 venne intesa più o meno dovunque come la soppressione dell’insegnamento del lati-
no nella media inferiore.
13
Ottimo riassunto, di questi e altri modelli grammaticali, nel recente e già menzionato
volume di Balbo, Insegnare latino cit., pp. 55-86.

25
1.
tornare
all’antico

del tutto tradizionale e in una pratica viva, da accettare e discutere, quindi,


come testimonianza, non come dogma, qua e là forse anche un poco fanée, se
vogliamo – e a volte perfino contestabile, come vedremo tra breve. Ma, in ogni
caso, si tratta di una pratica vitale, attuale, realizzata dall’autrice mettendo in
gioco tutta se stessa: ed è per questo che la proposta ha più che mai interesse
e può costituire un utile spunto di riflessione. Compito del nuovo docente sarà
vagliarla, adattarla, integrarla a una situazione senz’altro diversa – a cominciare
dall’età degli studenti, ragazzi del biennio superiore. Oltretutto, dovendo te-
ner conto del fatto che oggi l’insegnamento delle lingue classiche si sviluppa
quando va bene su un arco di cinque, non di otto anni, e che è scomparsa ogni
richiesta di una competenza che renda possibile la traduzione in latino.

Quali allora, in definitiva, i meriti – e quali i limiti – di queste pagine? Fra i me-
riti va senz’altro annoverata l’idea, precorritrice sui tempi, che il mondo greco-
latino sia «storia da insegnare in senso complesso: è storia politica, economica,
giuridica, di mestieri, di arti, di opere varie» 14. S’è poi detto come la Momi-
gliano non riduca mai la grammatica a materia pura, astratta, svincolata da un
testo. Si parte sempre da una fonte, non necessariamente letteraria, ma in ogni
caso da una materia viva, da una pagina che racconta, o consente di racconta-
re, una storia e di utilizzare il piacere per l’affabulazione, così forte negli adole-
scenti, come arma per penetrare nella loro curiosità. Ciò non cancella lo studio
della grammatica, naturalmente, ma lo subordina alla comprensione del brano
proposto e lo finalizza costantemente a quello scopo. Nel contempo, il singolo
testo, il singolo brano vengono inseriti in un percorso più ampio, nel quale ac-
quisiscono un interesse parziale ed esemplificativo, che invita a guardare oltre
il passo in questione e l’immediato contesto, per cercare di cogliere il nesso, il
problema che è alla base dei testi suggeriti o – a seconda dei casi – dell’opera
da cui il passo in questione è ricavato. Il procedimento, articolato attraverso
otto percorsi a cadenza mensile (ma altri se ne potranno sviluppare), punta
perciò non alla memorizzazione di una regola, magari sottratta da qualsiasi
applicazione effettiva, ma allo sviluppo di quella che oggi chiameremmo la
«memoria a lungo termine». Sviluppo ottenuto facendo leva su una serie di stru-
menti complementari – etimologie, riferimenti visivi, testi documentari, storia
locale, enfasi sulle parole che si vogliono ricordate – così da consentire la pro-
gressiva costruzione di un vocabolario e di un sistema grammaticale, secondo
un procedimento realizzato per tappe e di nascosto, senza proporlo mai come

14
E. Andreoni Fontecedro, Premesse ideologiche e metodologiche per una didattica del
latino, in AA.VV., Il latino e il greco nella scuola oggi. Esigenze e strumenti per la didattica,
Foggia, Atlantica, 1985, pp. 3-11; cfr. anche Giordano Rampioni, op. cit., p. 20.

26
1.
tornare
all’antico

fine del lavoro svolto, ma avendolo ben presente come risultato implicito di
quella presentazione di dati e di situazioni che appare invece l’intento essen-
ziale delle lezioni. Un simile comportamento non esclude ovviamente la ripeti-
zione e la variazione del già detto, attraverso l’ampliamento delle informazioni
acquisite, in attesa di una sistemazione che venga dalla pratica prima che dalla
teoria, e che sia sempre corollario, non fine primario, dell’agire del docente.
Perché ciò diventi possibile, ci vogliono però due presupposti di partenza: il
primo, una classe disposta a farsi coinvolgere nel gioco e a seguirne lo svilup-
po con continuità – ma questo è forse già un risultato, più che una premessa. Il
secondo, un insegnante capace di reggere il gioco, ossia di operare una scelta
fra molte e differenti possibilità, individuando termini e situazioni chiave, sen-
za presunzione di completezza, ma con l’abilità e la competenza di capire per
tempo che cosa serve e che cosa no, cosa è immediatamente utile e cosa può
essere differito nel tempo – oltre che di individuare fra una miriade di testi a
disposizione, tutti ugualmente interessanti o tutti ugualmente morti, a seconda
di come li si presenta, quelli che potranno davvero far breccia nell’animo degli
studenti. E in quanto ho detto si riconoscono i pregi e i limiti della proposta.
Un pregio, senza dubbio, è la presenza costante dei testi, presentati come vivi,
inseriti in una problematica che era la problematica dell’autore al momento
della loro stesura, e in un tema più generale, che riguarda noi tutti, e che è la
conoscenza di un ‘altro e diverso da sé’, come è il mondo latino: tema che il
docente – per il tramite dei testi – viene quotidianamente costruendo. Ulteriori
motivi di vanto sono poi l’importanza concessa alla realtà extralinguistica, la
costante contestualizzazione dei brani presentati, il risalto dato al contenuto del
singolo brano o all’opera da cui il brano è tratto, senza dimenticare per questo
le annotazioni grammaticali (grammatica e stilistica qui vanno sempre di pari
passo). E ancora: se la traduzione non è, a questo punto, uno scopo a sé stan-
te, ma solo uno strumento di avvicinamento al testo – tradurre è soltanto una
fase del capire – ne consegue che la Momigliano può proporre in larga misura
traduzioni proprie, che servano da guida e da stimolo. Senza bisogno di grandi
discorsi di principio viene così incoraggiata, prima con l’esempio, poi con l’au-
tonomo esercizio, la capacità di decifrare (e quindi anche di tradurre) il testo,
la sensibilità, anzi, al decifrare (e quindi anche al tradurre), con tutti i proble-
mi e le difficoltà che questo comporta. Quanto alle annotazioni grammaticali,
non mancano, s’è detto. Sono tuttavia ridotte all’essenziale, mai disgiunte dalla
lettura degli auctores, considerate uno strumento, non uno scopo autonomo:
dal caso specifico si passa perciò con naturalezza alla sistemazione dei molti
casi possibili, e mai il contrario. Nella costruzione che si viene così a ottenere,
privilegiati risultano declinazioni e lessico, anche se non fanno difetto le rima-
nenti nozioni, morfologia e sintassi in primis: sfoltite però, ridotte a casi reali,
a quanto risulta frequenzialmente importante. E anche in questo, va aggiunto,

27
1.
tornare
all’antico

l’autrice gioca in anticipo sui tempi (penso a quella che è stata, qualche anno
più tardi, la «didattica breve»). Non basta: la Momigliano, s’è ribadito più volte,
propone solo un’esemplificazione. Nelle scelte operate, tutte di pregio, ma
tutte a loro volta modificabili, va messa in risalto soprattutto l’importanza con-
cessa ai Realien, che nelle sue pagine davvero convivono con l’apprendimento
della lingua, gli uni essendo naturale e indispensabile supporto dell’altra, e vi-
ceversa: in un procedimento dove lingua e contenuto hanno pari dignità e con-
tinua possibilità di dialogo, anche se non identica priorità nella costruzione dei
percorsi. A questo riguardo, segnalo la parte non indifferente concessa all’epi-
grafia, di nuovo in anticipo sui tempi 15: non solo perché le epigrafi offrono, a
volte, un latino sintatticamente semplificato, e dunque in teoria più accessibile
agli studenti, ma anche perché epigrafi (latine, o in latino) si trovano, in Italia,
pressoché dovunque, il che facilita la possibilità di collegare lo studio di una
lingua morta con l’ambiente entro il quale gli adolescenti vivono e si muovono.
E ancora: le epigrafi, se opportunamente scelte e presentate, offrono una te-
stimonianza di vita vissuta, testimonianza diretta, o quantomeno diversamente
filtrata dalle convenzioni rispetto alla letteratura. E anche questo può essere un
mezzo efficace per suscitare l’interesse dei giovani, alieni in genere da tutto ciò
che sappia di pagina scritta, ma non da quanto profuma di vita reale.

In un simile edificio ci sono anche delle crepe, se non proprio delle vere inesat-
tezze. Ne segnalo qualcuna: ad esempio, non sempre la costruzione proposta
è rigorosa, i pronomi – per fare un caso specifico – appaiono utilizzati prima di
essere spiegati, senza che l’autrice fornisca indicazioni su quale sia il compor-
tamento da adottare in simili casi (il docente traduce e basta, oppure anticipa e
gioca poi di rimessa? C’è semplicemente un ordine da ripensare, o che altro?).
Inoltre, ed è questa forse la pecca maggiore, i testi prescelti sono spesso sem-
plificati e riadattati. Procedimento inevitabile, s’è visto, dato il pubblico al qua-
le l’opera si rivolge, ma pur sempre spiacevole – perfino a constatare che nella
maggioranza dei casi si tratta di una riscrittura che riguarda solo alcuni elementi
accessori, ritenuti troppo difficili o divaganti. Ho però l’impressione che, anche
così, i brani suggeriti siano più complicati di quanto non sia possibile proporre
oggi in classe: l’autrice immagina una scolaresca attenta e disciplinata, in grado
di ricordare e di collegare; classe che, se esiste, andrà costruita, senza darla per
scontata. E in questo il ruolo dell’insegnante dovrà essere forte, molto più forte
di quello che, probabilmente, ci si prospettava all’inizio degli anni Settanta. In
ogni caso, ai testi prescelti vanno riconosciute alcune doti fondamentali, come

15
O. Tappi, L’insegnamento del latino. I testi latini e la loro lingua nell’educazione
moderna, Torino, Paravia scriptorium, 2000, p. 49.

28
1.
tornare
all’antico

la chiarezza, la linearità, la complessiva comprensibilità – il che li rende adatti


perlomeno a una quinta ginnasiale o a classi equivalenti. Nessuno dei tagli pro-
posti (e delle parziali riscritture, limitate in genere alla necessità di esplicitare
soggetti sottintesi, o ai quali è fatta solo una vaga allusione) 16 decontestualizza
realmente la pagina. Se è vero che il latino così ottenuto è un latino d’autore,
pur senza esserlo del tutto, va aggiunto che la Momigliano, con somma acribia,
distingue sempre i diversi casi, specificando ogni volta l’avvenuto intervento:
cosa che non si può dire succeda nella maggior parte delle grammatiche e de-
gli eserciziari attualmente in uso, e a maggior ragione non si poteva dirlo a quel
tempo. È poi anche vero che mai si realizza quel ‘latino-che-non-c’è’ tipico, di
norma, di analoghi volumi, il latino delle «fanciulle all’ombra della rosa», come
è stato spiritosamente chiamato. E nemmeno si cade nell’errore, così comune
nei volumi circolanti nelle nostre scuole, di far tradurre frasi che, avulse dal
loro contesto d’origine, non significano nulla, o sono ambigue, o incomprensi-
bili ai più, e certo lo sono agli studenti che ne ignorano – ed è normale che ne
ignorino – il contesto, la provenienza, il valore complessivo: a rischio di inse-
gnare, quando va bene, che tradurre sia cosa diversa dal capire, e che un testo
‘tradotto’ ma non capito si possa dire davvero tradotto … Infine: alcuni degli
esercizi proposti sono discutibili, e si avvertono anzi – il che era forse inevita-
bile, data l’epoca e la formazione dell’autrice – talune sopravvivenze di un at-
teggiamento non solamente ricettivo nei confronti del latino. Non serve invece
ripetere che, se è utile, e a volte perfino divertente, studiare una lingua morta
che vive nei testi 17, viceversa è dannoso voler insegnare il latino come una
lingua artificialmente viva, quale non è e non è giusto farla apparire. Tanto più
che se c’è una giustificazione allo studio, ancor oggi, di questa materia, questa
giustificazione sta proprio nella sua lontananza, nel suo proporci qualcosa di
diverso (ma non troppo diverso da non poterci ritrovare in esso!) da quello cui
siamo abituati – come struttura e come contenuti 18. Per dirla con una celebre
formula di Eugenio Garin, il latino educa «proprio in quanto lingua morta» 19. E
non c’è ragione perché le cose debbano stare diversamente da così.

16
Ma, a volte, anche allo spostamento di termini all’interno della frase per rendere più
chiaro il costrutto, o alla semplificazione di strutture sintattiche ritenute troppo complesse.
17
O meglio: una lingua, quella dei testi a noi noti, che non è mai stata una lingua dav-
vero ‘viva’, e che non è mai esistita, salvo che nei testi a noi noti …
18
Cfr. l’intervista rilasciata da chi scrive ad A. De Palma, in «Chichibio» 41 (2007), p. 3;
oppure le diverse opinioni raccolte alla pagina internet «Quale latino per la scuola del terzo
millennio?», a cura di R. Carnero, pubblicata nel febbraio 2007 sul sito di «Treccani scuola»
(www.treccani.it/site/Scuola/nellascuola/area_lingua_letteratura/archivio/latino/index.htm).
19
E. Garin, L’educazione in Europa (1400-1600), Roma, Laterza, 1957, p. 281; nella
stessa prospettiva (pur riferendosi ad altro), F. Fortini, Poetica in nuce. 1962, in L’ospite

29
1.
tornare
all’antico

Come si vede, a conti fatti è la parte degli esercizi a sembrare, in generale, più
discutibile; ma è proprio quella che già in partenza si sa che dovrà essere rifatta
ex novo da ciascun insegnante, sulla base di quanto il modello gli suggerisce
e l’esperienza gli consiglia – nonché della scolaresca che si troverà, volta per
volta, a fronteggiare. Del resto, che un testo di questo tipo sia da mettere conti-
nuamente alla prova nella pratica quotidiana dell’insegnamento è un dato che
risulta ovvio, una considerazione esplicita fin dalle affermazioni preliminari
della Momigliano. Lo strumento per farlo ora c’è: ed è questa la scommessa
sulla quale puntare.

ingrato primo (ora in Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, p. 963): «Le forme
mor­te, purché ben morte, sono da preferirsi alle innovazioni».

30
Premessa
metodologica
premessa
metodologica

Il termine «facoltativo» crea spesso un rapporto difficile fra l’insegnante e gli


alunni che si sono iscritti al corso di latino nel terzo anno della scuola media.
Vi è da un lato l’insegnante che, dai ragazzi, in virtù della scelta che essi
stessi hanno operato, tende a esigere molto, dall’altro vi sono i ragazzi che,
avendo deciso di loro volontà la frequenza, si sentono autorizzati a gradua-
re l’impegno e magari, anche nel corso dell’anno, a lasciar cadere l’interesse,
quando insorgano le prime difficoltà. Ogni insegnante sa quanto sia abituale
fra gli alunni che sono presenti alle lezioni di latino il discutere se al liceo scien-
tifico e all’istituto magistrale lo studio del latino realmente ricominci da capo,
se con tre mesi di ricupero estivo si possa sostenere nella sessione autunnale
l’esame obbligatorio per adire al classico. E nel comodo rifugio di rimandare
ad altri tempi e di trovare altre persone che nel futuro insegnino loro ciò che
nel presente non stanno imparando, si giunge al termine dell’anno scolastico.
Ora, come è possibile fare in modo che le ore destinate allo studio del lati-
no non siano per molti alunni un ozio più o meno larvato?
Noi vogliamo tentare anzitutto sin dalla prima lezione di accogliere con
gioia i ragazzi che vengono ad ascoltare le nostre lezioni. Proprio perché il lati-
no è una disciplina facoltativa, l’entusiasmo di chi insegna e di chi impara può
essere più genuino e creare una piacevole atmosfera di libertà.
Chi crede utile mantenere viva la tradizione del mondo classico e della sua
lingua deve essere indotto a desiderare una nutrita frequenza di alunni durante
le ore di latino. Soltanto così le nozioni impartite l’anno precedente acquistano
una prospettiva di iniziazione alla conoscenza di una cultura che è al tempo
stesso conoscenza del nostro passato e del nostro presente.
Ma, per stabilire una intesa che sia duratura, forse occorre che noi dimen-
tichiamo la sistematicità delle nozioni a cui ci avevano costretti, quando era-
vamo studenti e, trascurando di pretendere che gli alunni ci snocciolino l’una
dopo l’altra le eccezioni, ricordiamo piuttosto come, anche in quei tempi lonta-
ni, noi abbiamo apprezzato taluni professori che, durante le letture di un testo
qualsiasi di Cicerone o di Seneca, di Orazio o di Marziale, ci facevano entrare
nel vivo delle istituzioni politiche, civili o religiose dei Romani. Spesso essi si
soffermavano su una espressione, su un aggettivo o magari anche su un verbo

35
premessa
metodologica

che più era aderente all’indole del latino e in questa analisi ci insegnavano a
cogliere l’energia della lingua stessa. Allora soltanto, nella traduzione dei testi,
l’uso degli astratti, i concetti generici e gli specifici, la sistemazione delle parole
e dei membri del periodo non erano più semplici rompicapo, ma diventavano
sussidio prezioso per riuscire a interpretare un autore.
Cerchiamo dunque pure noi, sin dall’inizio, di suscitare l’interesse dei ra-
gazzi, onde impedire la loro fuga anche solo mentale: non esigiamo troppe
regole e dedichiamo invece una gran parte del tempo disponibile alla lettura
dei testi. Li leggeremo e li tradurremo insieme ed essi costituiranno sempre il
punto di partenza per ogni nostro discorso.
Se i ragazzi impareranno a riconoscere l’espressione più efficace e più adat-
ta per sottolineare una situazione o per manifestare un sentimento, se essi
si abitueranno a rilevare come spesso un verbo o un sostantivo traggano la
loro forza e la loro origine dai modi stessi della vita romana (per esempio i
fenomeni naturali, la coltivazione dei campi, le condizioni del corpo umano),
essi si sentiranno maggiormente partecipi di questa cultura e saranno attratti a
rilevare l’uso delle più frequenti metafore. Poi, nelle letture fatte in classe e a
casa, completeranno questo studio lessicale e magari esamineranno espressio-
ni analoghe della lingua italiana per vedere se esse, trasferite e conservate sino
ai nostri giorni, abbiano mantenuto uguale vigore.
Noi in questo modo accosteremo l’alunno al testo e sarà poi il testo stesso
che gli darà la coniugazione esatta del verbo, il caso che il verbo regge, nonché
la desinenza del nome o del pronome all’ablativo o all’accusativo richiesti per
completare quella determinata struttura. Avremo così creato anche le premesse
per uno studio metodico della morfologia e della sintassi.

Piano di lavoro
Qui, quale esempio per un piano di lavoro annuale, proponiamo otto argo-
menti che costituiranno il punto di partenza per la ricerca dei modi di espres-
sione. Essi sono:
1. La semplicità dei costumi romani nei tempi più antichi della repubblica.
2. Le magistrature, i comizi e le elezioni.
3. La vita militare e la guerra durante la repubblica.
4. Le vie di comunicazione: le strade e i porti.
5. La vita economica di Roma: il commercio e l’industria.
6. I ragazzi e la loro educazione presso i Romani durante la repubblica e sotto
l’impero.
7. I vari generi di spettacoli.
8. La concezione della morte. I riti e i monumenti funebri.

36
premessa
metodologica

La scelta è stata originata dal desiderio di offrire aspetti essenziali della vita
pubblica e di quella privata. Le testimonianze saranno prese sia dagli autori di
prosa e di poesia sia dalle epigrafi. Queste ultime sono documenti molto validi
per la conoscenza di avvenimenti e consuetudini ed è bene che gli alunni ne
facciano oggetto di lettura. Pensiamo inoltre che in tutto il territorio italiano,
persino nei paesi più sperduti, si trovino disseminate lapidi romane con iscri-
zioni di vario genere e la loro presenza potrebbe essere utilizzata per rendere
più efficace lo studio di questa civiltà e della sua lingua e per ricollegare la sto-
ria della regione in cui si trova la scuola a quella dei lontani progenitori latini.
Nulla è più interessante dei documenti della romanità scoperti nelle province.
Noi ci ripromettiamo, nel corso di queste lezioni, di offrirne qualche esempio,
per invitare i colleghi a ricercare nei musei cittadini, nelle pareti delle chiese
o degli edifici, ove talvolta sono murate, le eventuali iscrizioni scoperte nelle
località in cui insegnano.

Metodo di lavoro
All’inizio daremo dunque per ogni argomento due o tre brevi testi latini; essi
saranno semplificati con opportuni tagli per renderli accessibili alle capacità
dei nostri alunni, ma si cercherà di mantenere intatta la forza espressiva e il
ritmo che guida il periodare latino.
Dallo spunto offerto dai brani proposti, la conversazione si allargherà quin-
di ad abbracciare altri aspetti riguardanti lo stesso argomento e gli alunni sa-
ranno chiamati a concorrervi con il ricordo delle nozioni di storia apprese nel
primo anno e che riguardavano i modi di vivere, le credenze, le istituzioni e le
tappe della conquista di Roma.
Per quanto riguarda la morfologia elementare e le nozioni di sintassi, di cui
è fatto cenno nelle disposizioni ministeriali, la conoscenza degli elementi della
proposizione e del periodo dovrebbe scaturire dalle stesse letture dei brani
proposti e di altri che potranno essere offerti agli alunni nel corso della lezio-
ne. Nel tradurre insieme con gli alunni, faremo prima la verifica delle nozioni
acquisite l’anno precedente e nello stesso tempo inizieremo a far rilevare nelle
strutture dei brani letti l’uso dei vari pronomi, dei gradi degli aggettivi, dei ver-
bi attivi e passivi, la funzione delle congiunzioni che reggono le proposizioni
secondarie, l’importanza degli avverbi per la coloritura dei concetti. Dopo aver
trovato alcune volte ripetuto un pronome, un aggettivo, un nome declinato in
vari casi, oppure una forma verbale diversificata secondo i tempi e le persone,
si potrà benissimo richiedere al ragazzo che completi la declinazione o coniu-
ghi il tempo del verbo in tutte le sue persone. Uguale metodo sarà pure usato
per quegli elementi di sintassi del periodo che formano il corredo abituale di
regole nello studio del latino nella scuola media.

37
premessa
metodologica

Dall’esame delle strutture riscontrate nel brano proposto si passerà a sugge-


rire altre strutture analoghe. Quindi a un certo punto gli alunni stessi saranno
in grado di dare una certa sistemazione alle nozioni apprese.
Quale prova per saggiare il loro grado di cognizioni, vi saranno alcune bre-
vi traduzioni di periodi in lingua italiana da rendere in latino.
Essi riguarderanno gli argomenti di vita romana che sono stati oggetto di
ciascuna trattazione e vi si potranno usare strutture analoghe a quelle che sono
state oggetto di esame nei testi di latino.

38
Prima lezione
La semplicità
dei costumi romani
nei tempi più antichi
della repubblica

I brevi testi, che di volta in volta presenteremo all’inizio di ogni nostra


proposta didattica, ci serviranno per effettuare il piano del nostro lavoro
mensile. Dopo una buona lettura, che sottolinei il ritmo insito nel pe­rio­
dare latino, si procederà a tradurli in collaborazione con i ragazzi.
L’analisi stessa del contenuto servirà come spunto per informare sui mo­
di di vita della società romana. Noi diamo soltanto un’ipotesi di discorso:
so­no gli allievi stessi solitamente che, con le loro esigenze, indirizzano
la nostra lezione.
1.
la semplicità dei costumi romani
nei tempi più antichi della repubblica

L. Quinctius Cincinnatus, omnium consensu, dictator creatus est. Ille, spes uni‑
ca imperii populi Romani, trans Tiberim agrum colebat. Ibi legati eum operi
agresti intentum rogaverunt ut togatus mandata senatus audiret. Ille togam pro‑
pere e tugurio proferre uxorem Raciliam iubet.
Postquam, absterso sudore, toga velatus processit, dictatorem eum legati gra‑
tulantes consalutant, in urbem vocant, terrorem in exercitu exponunt. Navis
Quinctio publice parata est, qua Tiberim transvectus est. Populi frequentia sti‑
patus, deductus est domum.
Rid. da Livio, Ab Urbe condita III 26

… Curius parvo quae legerat horto


ipse focis brevibus ponebat holuscula …

Sicci terga suis, rara pendentia crate,
moris erat quondam festis servare diebus
et natalicium cognatis ponere lardum
accedente nova, si quam dabat hostia, carne.
Cognatorum aliquis, titulo ter consulis atque
castrorum imperiis et dictatoris honore
functus, ad has epulas solito maturius ibat
erectum domito referens a monte ligonem.
Giovenale, Saturae XI 78-79; 82-89

Vidi villam Scipionis extructam lapide quadrato, murum circumdatum silvae,


cisternam aedificiis ac viridibus subditam, balneolum angustum, tenebricosum
ex consuetudine antiqua. In hoc angulo ille Carthaginis horror abluebat corpus
laboribus rusticis fessum.
Se enim exercebat opere atque terram, ut mos fuit antiquis, ipse sub­ige­bat.
Sub hoc ille tecto tam sordido stetit, hoc pavimentum tam vile illum sustinuit.
Rid. da Seneca, Epistulae ad Lucilium XI 86, 4-5

Iuppiter angusta vix totus stabat in aede,


inque Iovis dextra fictile fulmen erat.
Frondibus ornabant, quae nunc Capitolia gemmis,
pascebatque suas ipse senator oves.
Ovidio, Fasti I 201-204

40
1.
la semplicità dei costumi romani
nei tempi più antichi della repubblica

Lucio Quinzio Cincinnato venne creato dittatore all’unanimità. Egli, unica spe­
ranza per l’imperium del popolo romano, stava coltivando il campo oltre il
Tevere. A lui, intento nel lavoro agreste, i legati ivi chiesero che, indossata la
toga, ascoltasse le disposizioni del senato. Cincinnato prega la moglie Racilia di
portargli in fretta dalla capanna la toga.
Dopo che, asciugatosi il sudore, Cincinnato l’ebbe indossata, e si fu fatto avanti,
i legati, congratulandosi con lui, lo salutano dittatore, lo invitano a Roma, gli
dicono del terrore che sgomenta l’esercito. D’ordine del senato una barca fu
preparata per Quinzio, con cui traghettò il Tevere. Accolto da una gran folla di
popolo, venne condotto a casa.

[…] Curio, sul suo modesto focolare, cuoceva gli ortaggi


che lui stesso aveva colto nel piccolo orto […]
[…]
Per i giorni di festa era costume serbare, pendenti da
radi graticci, i lombi di maiale affumicato e ai parenti,
per il giorno natalizio, imbandire del lardo, a cui si
aggiungeva la carne fresca, se mai ne dava un po’ la vittima sacrificata.
E alcuno dei parenti, che pur aveva rivestito per ben
tre volte la carica di console, di supremo comandante o
di dittatore, accorreva puntuale al convito, portando
ancora ritta sull’omero la vanga, con cui aveva dissodato le alture.

Ho visto la villa di Scipione, costruita di pietre squadrate; un muro è messo


in­torno al bosco, la cisterna scompare in mezzo alle costruzioni e al verde, il ba­
gno si presenta minuscolo, buio, come era costume a quel tempo.
In quell’umile recesso, il terrore di Cartagine immergeva il suo corpo, stanco
dalle fatiche dei campi.
Egli infatti soleva mantenersi in attività e, secondo l’usanza antica, coltivava di
sua mano la terra.
Sotto questo tetto tanto povero, Scipione visse; questo pavimento tanto vile
portò la sua grande persona.

A stento tutto Giove stava in piedi nel piccolo tempio


e nella destra portava un fulmine di creta.
Si adornava di fronde quel Campidoglio che adesso
splende di gemme e i senatori stessi pascevano il gregge.

41
1.
la semplicità dei costumi romani
nei tempi più antichi della repubblica

Gli scrittori latini di ogni epoca, tentando di spiegare il sorgere del grande
impero con Roma capitale, la sua espansione nella penisola e più tardi nel
mondo, trovarono concordi la soluzione del problema nelle qualità morali dei
Romani stessi e nella eccellenza delle loro istituzioni.
Ora è indubbio che le cause del successo di Roma sono più complesse e
hanno origini più profonde: la critica moderna ha sfatato gran parte di questa
leggenda. Tuttavia, poiché la tradizione storica e letteraria romana ha sempre
considerato la grandezza e la potenza di Roma come un premio concesso dagli
dèi ai suoi cittadini per ricompensarli delle loro virtù, noi, mentre leggiamo gli
scritti di Livio, di Seneca, di Ovidio e di Giovenale qui sopra citati, rinunciamo
per un istante a vedere con occhio critico quanto ci è offerto da questi testi e
accettiamo come veritiera la rappresentazione forse un po’ retorica, ma viva
e pregnante dei costumi dei padri che venne indicata dai Romani stessi come
origine e causa del loro splendore.
L’accettazione di questa tradizione, senza contestarne né sostenerne l’au­
torità, è anche l’unico modo per godere quella commozione che è alla base di
ogni racconto.
Il brano di Livio che noi proponiamo per primo è assai noto. Riguarda Cin­
cinnato e la sua nomina a dittatore. Di proposito abbiamo fatto questa scelta
perché i ragazzi, che conoscono la leggenda, non avendo la preoccupazione
di capire che cosa si stia raccontando, possano essere più liberi per cogliere
l’atteggiarsi dell’espressione latina. Faremo anzitutto rilevare come i fatti siano
narrati con estrema concisione, senza commenti. Durante i primi tempi della
repubblica i Romani erano continuamente in guerra con i popoli che abitavano
sulle alture circostanti. Fra i nemici più acerrimi erano gli Equi che, in questa
occasione, erano riusciti ad accerchiare gli accampamenti romani e a mettere
in pericolo Roma stessa.
Come sempre, in momenti di difficoltà i Romani sopprimono il consolato
ed eleggono un dittatore, Lucio Quinzio Cincinnato. La notizia della nomina
viene portata da due legati al prescelto che sta lavorando il suo campo, posto
sulla riva opposta del Tevere. I legati, prima di conferire con lui, gli chiedono
di indossare la toga, poi, comunicata la decisione del senato, lo conducono
con loro in città, attraversando il fiume su una barca traghetto.
Vi è una grande laconicità nel racconto di Livio, ma in questa stringatezza
è insito il pensiero di offrire un modello di vita esemplare, ma non inconsueto
dei Romani antichi. Cincinnato, come tutti i suoi concittadini, era un agricol­
tore e, quando era libero dalla guerra e dalle occupazioni di stato, coltivava
il proprio campo e portava al pascolo le sue greggi. La difesa della patria era
però il sommo dovere di ciascun Romano, quindi, al primo richiamo, ognuno
abbandonava le proprie occupazioni, indossava le armi e dava tutto se stesso
per la vittoria.

42
Costruita in pietra o mattoni uniti con mal-
ta, la casa romana, a un solo piano, aveva
vari ambienti distribuiti intorno a un corti-
letto. Nelle più antiche case l’ornamenta-
zione interna è ancora povera; tutto è con-
cepito in funzione delle necessità pratiche
della vita domestica. La casa romana con-
serverà a lungo questo aspetto di ambiente
chiuso e appartato che riflette assai bene il
carattere individualistico e il culto della
famiglia della prima società romana.

Fig. 1. Pianta e ricostruzione di casa romana del III secolo a.C.


1.
la semplicità dei costumi romani
nei tempi più antichi della repubblica

La dignità di cittadino libero non veniva meno, anche se la vita di ogni gior­
no trascorreva in umili occupazioni, ma la toga, indossata da Cincinnato prima
di aprire il discorso con i rappresentanti ufficiali della repubblica, è un indizio
molto significativo per penetrare nell’intimo del mondo romano. La toga era
infatti il mantello che indossavano i cittadini aventi pieni diritti, era il simbolo
della dignità dell’uomo politico e della superiorità del popolo nato all’impero.
Virgilio infatti scrive nell’Eneide (libro I 282): Romanos rerum dominos, gen‑
temque togatam. Di questo indumento tanto dignitoso e bello, quanto poco
pratico, i Romani si sbarazzavano appena si trovavano in famiglia e lontano dal
mondo ufficiale, ma, per esercitare un pubblico ufficio, esso era di rito; di qui
la richiesta dei messaggeri a Cincinnato, perché indossi la toga per ascoltare le
loro parole.
Uguale semplicità di costumi è rappresentata dai pochi versi di Giovenale,
che noi abbiamo proposto. Anche qui il personaggio che si porta ad esempio è
piuttosto noto. Si tratta di Curio Dentato che venne sorpreso dagli ambasciatori
sanniti venuti a proporre la pace, mentre stava mangiando dei legumi in una
scodella di legno. A quei legati che erano venuti carichi di doni, pare che egli
abbia risposto che preferiva comandare a chi possedeva, piuttosto che posse­
dere egli stesso. E appunto per sottolineare quanto modeste fossero le esigen­
ze di vita di questo personaggio, Giovenale lo rappresenta avvezzo a prepa­
rare egli stesso la sua parca cena: Parvo quae legerat horto ipse focis brevibus
ponebat holuscula, in cui desideriamo soprattutto mettere in evidenza quel
parvo che dà inizio al periodo proprio per sottolineare la frugalità di questo
personaggio che coglieva egli stesso nell’orto i prodotti e li poneva a cuocere
sul focolare. Notiamo pure di passaggio l’espressione focis brevibus che vuol
intendere che una piccola fiamma era sufficiente per la cottura di così vile cibo,
ma dalla fiamma, per metonimia, l’aggettivo viene trasposto al focolare stesso
che diventa «piccolo» per dare un ulteriore tocco al quadro della vita familiare
di Curio Dentato.
Curio Dentato è passato alla leggenda forse soltanto perché i Sanniti sono
entrati nella sua casa mentre egli stava consumando il suo modesto pasto. Il
poeta Giovenale, quasi a sostenere che la stessa frugalità informava la vita di
tutti i Romani antichi, anche i più illustri, si affretta pochi versi dopo a ricor­
dare che la carne compariva sui loro deschi soltanto nei giorni festivi oppure
per solennizzare il compleanno di qualche familiare. Era per lo più quella che
avanzava dai sacrifici che venivano fatti agli dèi, in tali occasioni. A quelle
riunioni di congiunti, venivano puntuali alla mensa anche i membri che nello
stato avevano raggiunto le più alte cariche ed erano stati acclamati trionfatori
sui campi di battaglia. E poiché, quando la patria non esigeva il loro contribu­
to, essi, come Cincinnato o come Curio Dentato, solevano trascorrere la loro
giornata nei campi, non disdegnavano di presentarsi al banchetto, ancora por­

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tando sull’omero la vanga che era loro servita per dissodare la terra sulle ripide
alture circostanti.
Il terzo brano, di Seneca, descrive la casetta di Scipione l’Africano a Literno
(Liternum) 1, dove il vincitore di Zama trascorse gli ultimi anni della sua vita e
dove pare che sia stato sepolto. L’abitazione era costruita di pietra squadrata,
un muro di cinta ne definiva i confini e l’acqua di una cisterna, spesso fangosa,
alimentava il piccolo e oscuro bagno, in cui Scipione astergeva il sudore del
proprio corpo, quando ritornava stanco dalle fatiche dei campi. Dunque anco­
ra, dopo la Seconda guerra punica, le abitudini dei Romani si erano conservate
modeste.
Anche se ci si era un po’ allontanati dalla primitiva capanna circolare con il
tetto di paglia che aveva costituito la prima abitazione romana, l’aspetto appa­
riva assai disadorno. L’esterno, fatto di pietre, in genere non aveva finestre, ma
presentava, come unica apertura, la porta d’ingresso, L’interno era costituito
da un atrio, munito di un foro centrale, destinato a raccogliere l’acqua piovana
della cisterna. Intorno era un numero più o meno grande di stanzette destinate
ai vari usi (Fig. 1).
Né più lussuosi erano i templi degli dèi, come ci testimonia l’ultimo do­
cumento, offerto da Ovidio, nei Fasti, in cui celebra i motivi delle ricorrenze
festive. Egli ricorda che la statua di Giove stava a stento nel tempio situato in
Campidoglio e che i fulmini, attributo della maestà e della potenza del Dio,
così come il resto della statua, erano soltanto di umile creta. Non senza un
senso di nostalgia, il poeta, che scriveva ai tempi di Augusto, rammenta come
là tutto intorno ove egli vedeva statue preziose, marmi e gemme, un tempo,
agli albori della repubblica, crescessero verdi prati e i senatori non disdegnas­
sero di pascere le greggi. In questa pace agreste si era formata la grandezza
di Roma.
Fu soltanto nell’età successiva alla morte di Silla che si diede l’avvio in
Roma a un’architettura più solida e più artistica che richiese l’uso dei marmi
sia come materiale di costruzione, sia per fattura di architravi, fregi, statue, co­
lonne ecc. Prima di quel tempo l’umile arenaria oppure il legno servivano ad
abbellire sia i templi sia le costruzioni private.

1
Cfr. A. de Franciscis, Enciclopedia dell’Arte Antica, s.v. Liternum, IV (1961), p. 661
(G.A.).

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Leggiamo insieme
Dopo aver illustrato ai ragazzi gli aspetti più evidenti della civiltà romana an­
tica, contenuti nei brani citati, inizieremo un’analisi un po’ particolareggiata
del lessico di ciascun testo, sia per trarne le forme più consuete del dire latino,
sia per dedurne norme grammaticali e sintattiche. La lettura dei testi, opportu­
namente guidata, costituisce infatti il modo più semplice e più immediato per
accostare gli allievi alle strutture linguistiche. Essa offre anche il vantaggio di
mantenere un’impronta unitaria alla lezione: il discorso grammaticale si pre­
senta infatti come la prosecuzione e il completamento del discorso sulla civiltà.
L’insegnante partirà dall’interesse suscitato negli allievi per gli usi e le consue­
tudini romane per inserire in questo contesto i costrutti e le espressioni che via
via si presenteranno.
Le nostre sono ovviamente soltanto ipotesi di lavoro: ogni insegnante deve
senza dubbio tener conto delle capacità intellettuali dei suoi alunni e della pre­
parazione che essi hanno avuto nell’anno precedente.

Nel racconto di Livio, troveremo nelle prime parole già una espressione inte­
ressante: Q. Cincinnatus dictator creatus est. Diremo ai ragazzi che è un tipico
esempio di linguaggio usato nella vita politica, per annunciare la nomina dei
consoli, dei dittatori o di altri magistrati. Il verbo creare, che qui è usato al
perfetto passivo, poteva anche essere sostituito con il verbo legere che nel
suo significato usuale corrisponde al nostro italiano «scegliere». Possiamo qui
già anticipare alla scolaresca che i tempi composti dei passivi si coniugano, in
latino, usando una voce del verbo esse accompagnata dal participio perfetto
che si declina come un aggettivo della prima classe. Se infatti dovessimo dire
che Pompeo e Crasso vennero eletti consoli, scriveremmo: Cn. Pompeius et
L. Crassus consules creati sunt.
Una espressione consimile, ma usata in forma attiva, la troviamo più sotto,
nel medesimo brano: Dictatorem eum legati consalutant. Il verbo consalutare
è pure esso del linguaggio ufficiale e intende salutare un magistrato con il ti­
tolo che gli compete per la carica che gli è stata concessa. Naturalmente esso
regge il doppio accusativo; uno determina la persona che viene salutata, l’altro
la carica conferita. Se volessimo volgere al passivo la proposizione suddetta, ne
ricaveremmo la seguente: Is salutatus est dictator a legatis. I due accusativi al
passivo sono diventati due nominativi e il costrutto è diventato uguale a quello
in cui si dice che Cincinnato è eletto dittatore.
Ed ecco ora un’altra locuzione che sempre fa parte del linguaggio politico:
rogaverunt ut togatus mandata senatus audiret. Gli ambasciatori, arrivati nel
campo, vedono Cincinnato che sta lavorando, lo pregano di indossare la toga

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e di ascoltare il messaggio del senato. Ora togatus è appunto l’appellativo che


contraddistingue il Romano, quando vive la sua esistenza di cittadino e come
tale Cincinnato è pregato di essere, onde ascoltare le decisioni, mandata, di
quell’autorevole consesso che era l’assemblea dei senatori. Ci soffermeremo
anche sul fatto che tutti i verbi indicanti «chiedere, domandare, pregare» una
persona per ottenere o sapere qualcosa richiedono in latino una proposizione
che si inizia con la congiunzione ut e usa il verbo al modo congiuntivo. In
questo caso, siccome il verbo della reggente era di tempo passato, il tempo
usato nella dipendente sarà l’imperfetto. Potremo anche far vedere agli alunni
che questo tempo è di assai facile coniugazione. Se la proposizione è invece
negativa, anziché ut, verrà usato ne.
Altro importante costrutto è senza dubbio il seguente: iubet uxorem Ra‑
ciliam togam e tugurio proferre che ci insegna l’uso del verbo iubere, uno
dei più usati sia per la vita militare sia per quella civile. Iubere corrisponde
al nostro italiano «comandare, impartire disposizioni, ordini» a una persona
e in questa accezione noi lo troviamo là ove si parla di generali che prescri­
vono ai loro soldati di fare o non fare determinate azioni. Ricordiamo per
esempio la ben nota espressione di Cesare, allorché ordina ai suoi soldati
di costruire un ponte: Caesar iussit milites pontem facere. Tuttavia qui è più
probabile che Livio intendesse usare il verbo nella sua seconda accezione,
cioè nel significato di «invitare a fare» una determinata azione. In questo caso
iubeo assume una intonazione assai più gentile e come tale veniva persino
usato per invitare un amico a fermarsi a cena. A ogni modo, sia che esso
venga usato per comandare o per esprimere il desiderio che un’azione venga
compiuta, questo verbo regge sempre l’accusativo della persona a cui ci si
rivolge e l’infinito presente per l’azione che deve essere compiuta. Infatti qui
Cincinnato invita la moglie ad andargli a prendere la toga nella capanna. Il
verbo proferre è appunto l’infinito presente che indica l’azione che la moglie
Racilia compirà.
Raccogliamo ancora e facciamo notare agli alunni alcune espressioni che
venivano solitamente usate per indicare il lavoro nei campi. La più consueta
era quella usata da Livio a proposito di Cincinnato: agrum colebat che cor­
risponde al nostro «coltivava il campo». Si può, a questo punto, inserire una
breve annotazione etimologica: colere significa «curare, attendere alla cura di»,
per cose sia materiali sia spirituali, per manifestare il proprio rispetto a una
persona, a una divinità, a una attività: deum Mercurium colere, Romuli memo‑
riam colere, litteras et artes colere sono esempi che dimostrano come la nostra
parola «cultura» ritrovi la sua origine appunto nel doppio significato del verbo
colere.
Più simile all’italiano è l’altra espressione operi agresti intentum, «intento al
lavoro agricolo».

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esempi di esercizi 1 2 3 4

Ed ecco ora alcuni esempi di esercizi che potranno essere assegnati ai ragazzi,
come completamento dell’esame del testo, sempre tenendo conto del grado di
preparazione della scolaresca.

· Raggruppare i sostantivi che si trovano nel brano secondo le declinazioni e


determinare in quale caso, genere e numero essi siano stati usati.
· Coniugare in tutte le persone il presente dei verbi voco, iubeo, expono, colo,
rogo di cui già si sono trovate alcune forme nel brano stesso.
· Copiare gli avverbi, scrivere accanto la traduzione italiana, dividendoli secon-
do che essi siano di modo, di tempo o di luogo.
· Raccogliere tutte le espressioni di luogo, che sono piuttosto numerose, e cata-
logarle secondo che esse significhino stato in luogo, moto da luogo ecc.

Passiamo ora alla lettura del secondo brano. È questo un testo poetico e co­
me tale dovremo presentarlo agli alunni. Faremo osservare come il linguaggio
abbia carattere più allusivo, i costrutti siano meno regolari, taluni vocaboli
risultino più ricercati. L’esame del primo verso, Curius parvo quae legerat hor‑
to, ci permetterà di porre subito l’accento sull’uso del pronome relativo, qui
concordato con holuscula che è un sostantivo neutro plurale della seconda
declinazione.
Ugualmente importante è pure l’espressione moris erat quondam festis ser‑
vare diebus, in cui si sottolinea il moris erat (letteralmente in italiano «era di co­
stume»), seguito da un verbo di modo infinito. Altre locuzioni affini potrebbero
essere mos erat, consuetudo erat ecc.
Altri due versi ci permettono di far conoscere l’uso del participio presente,
che è pressoché sconosciuto nella nostra lingua. Sicci terga suis, rara penden‑
tia crate, dice Giovenale e più sotto ancora erectum referens a monte ligonem.
Pendentia è il participio presente del verbo pendere, referens del verbo refer‑
re. Il participio presente in latino si comporta quasi come un aggettivo della
seconda classe a una sola terminazione (ha soltanto l’ablativo singolare in ‑e,
anziché in ‑i) e può sostituire sia il gerundio presente italiano sia una propo­
sizione relativa. Nel tradurre pendentia che viene riferito alle terga seccate del
porco (una specie di prosciutto), noi potremo rendere bene il concetto latino
con una relativa: «che pendono dal graticcio a larghe maglie». Per referens, l’in­
terpretazione più giusta sarà invece «recando la vanga dal monte ritta sull’ome­
ro», in altri termini, useremo dunque il gerundio.

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nei tempi più antichi della repubblica

Quali espressioni tipiche della vita romana sottolineiamo ora festis diebus,
«durante le solennità», titulo ter consulis (functus), «console per tre volte», dicta‑
toris honore functus, «che aveva ricoperto la carica di dittatore». Functus è un
participio perfetto. Il verbo fungor regge l’ablativo e significa «adempiere, com­
piere, esercitare una funzione»; per quanto riguarda invece il termine honor
ricordiamo che esso ha lo stesso significato del vocabolo «onore» italiano, ma è
anche la carica, il dovere che, compiuto, ci dovrà procurare questo onore.

esempi di esercizi 1 2 3 4

· Raccogliere tutti gli aggettivi comparsi nel testo e raggrupparli secondo le classi
a cui appartengono. Prepararsi a saper ripetere con ordine le loro declinazioni.
· Cercare, con l’aiuto del manuale di grammatica, il paradigma dei verbi che qui
ricorrono numerosi e dividerli a seconda delle coniugazioni. Su questi verbi
esercitarsi per riconoscere con sicurezza i vari tempi dell’indicativo.
· Con l’aiuto del manuale di grammatica, preparare la declinazione del pronome
relativo qui, quae, quod.

Esaminiamo ora il brano di Seneca e avvertiamo gli alunni anzitutto che questo
filosofo, vissuto ai tempi di Nerone, usa un periodare più snello, più asciutto,
oseremmo quasi dire più simile a quello delle nostre lingue moderne.
La prima struttura in cui ci imbattiamo è vidi villam Scipionis lapide quadra‑
to extructam. Extructam è un participio perfetto all’accusativo femminile singo­
lare del verbo extruere; esso si forma dal supino e si declina come un aggettivo
della prima classe; lapide quadrato è un complemento di mezzo. Un sinonimo
di lapis, lapidis, potrebbe essere saxum che si ritrova pure assai frequente.
Murum circumdatum silvae ci offre un altro esempio di participio perfetto
e si deve tradurre «il muro messo intorno alla selva». Se invece volessimo far ri­
levare che la «selva era circondata da un muro», potremmo usare silvam circum­
datam muro, in cui muro diventerebbe un complemento di mezzo. Espressio­
ne simile è cisternam aedificiis ac viridibus subditam, «la cisterna attorniata da
edifici e da alberi».
Sottolineiamo poi gli aggettivi angustum, tenebricosum, tam sordido, tam
vile che tutti stanno a descrivere la povertà di quella dimora.
Anche in questo passo, noi troviamo espressioni consuete a rappresentare
le fatiche dei campi: fessum laboribus rusticis, in cui il termine labor ha il valo­
re di «fatica, travaglio».
Altre due locuzioni sono: se exercebat opere che ancora vuol dire «lavorava»
e terram subigebat che corrisponde al nostro «vangava la terra».

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esempi di esercizi 1 2 3 4

· Riconoscere gli aggettivi e i pronomi dimostrativi e prepararne la declinazione


con l’aiuto del manuale di grammatica.
· Riscrivere tutto il brano portando i tempi dei verbi al presente, anziché al per-
fetto come si trova nel testo.
· Copiare tutte le proposizioni in cui si trovano i complementi di mezzo.

Leggiamo infine i versi di Ovidio. Abbiamo qui nuovamente un breve squarcio


di poesia. Nel primo verso, Iuppiter angusta vix totus stabat in aede, occorre far
rilevare che il verbo stabat, il cui infinito è stare, non corrisponde esattamente
al suo omonimo italiano ma indica invece lo «stare ritto in piedi, l’ergersi» di
una persona, di un oggetto. Se noi volessimo dire invece che nel tempio del
Campidoglio si trovava, vi era, stava la statua di Giove, useremo una voce del
verbo esse, come d’altra parte troviamo nell’espressione del verso seguente:
inque Iovis dextra fictile fulmen erat, «nella destra di Giove si trovava, vi era, un
fulmine di creta».
Come nei precedenti brani, anche qui possiamo ancora sottolineare l’uso
così frequente del complemento di mezzo: frondibus ornabant, quae nunc
Capitolia gemmis.
L’esame infine si può concludere con un’ultima locuzione di vita agreste:
pascebatque suas ipse senator oves. Si era cominciato con agros colebat riferito
a un dittatore e si chiude con la visione dei senatori che sul Campidoglio pa­
scolavano le greggi.

esempi di esercizi 1 2 3 4

· Preparare la declinazione del vocabolo Iuppiter che abbiamo già trovato al


nominativo e al genitivo.
· Cercare il genitivo e il dativo di totus, tota, totum e vedere quali altri aggettivi
indefiniti abbiano la declinazione affine.

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esercizi di riepilogo
Per una corretta traduzione gli alunni potranno servirsi delle espressioni sulle
quali ci siamo soffermati nel nostro lavoro precedente di analisi dei testi, oppure
potranno essere guidati a trovare locuzioni affini.

· Il contadino, nei giorni festivi, riposa nella sua piccola casa circondata da verdi
prati.
· Il pastore fa uscire dal recinto il gregge e lo pascola nelle selve vicine.
· L’agricoltore, munito della vanga, dissoda il suo campo.
· Cincinnato ritorna al suo tugurio, posto al di là del fiume Tevere, e coltiva nuo-
vamente il suo podere.
· Il console comanda ai nemici vinti di consegnare gli ostaggi.
· Cesare, conducendo con sé l’esercito, passò il fiume Rubicone.
· Nel compleanno di un familiare, i Romani offrivano agli dèi una vittima e cele-
bravano un banchetto.
· Il bagno ritempra il corpo, stanco dalle fatiche agresti.

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