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19/10/2016 Nel Vangelo le radici del cristianesimo verde  | Cultura | www.avvenire.

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Cultura
Verso l'enciclica

Nel Vangelo le radici del


cristianesimo verde
Hélène e Jean Bastaire

8 giugno 2015

Dopo il Cristo operaio dei
socialisti del XIX secolo
avremo il Cristo verde degli
ecologisti del XXI secolo? Il
raffronto è molto più pertinente
di quanto non immaginino i
beffardi o gli scettici, perché
ha come sfondo la stessa
invasione della supremazia
del denaro, lo stesso fiorire del
capitalismo moderno fondato
su uno sfruttamento spudorato
dell’uomo e della natura.

Il potere assoluto dell’uomo sulla natura è esattamente quello che
ha esaltato Cartesio, distorcendo l’insegnamento biblico. Perché,
in queste condizioni, dovremmo meravigliarci che, presso gli
ecologisti di oggi come presso i socialisti di ieri, la rivolta umanista
ricorra alla rivoluzione cristiana per trarne risorse e trovare in
Cristo il motore decisivo affinché ogni oppressione sia ridotta fino
a sparire nell’orizzonte della parusìa, quella parusìa che i socialisti
hanno imprudentemente secolarizzato e alla quale i cristiani
ridonano il suo vero volto al di là dei tempi?

È inoltre necessario che il Cristo ecologista sia effettivamente
proposto ai nostri giorni dalla Chiesa e non, come avvenne nel

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XIX secolo per il Cristo socialista, dagli avversari della Chiesa. È
stato necessario un secolo, da Leone XIII a Giovanni Paolo II,
perché l’insegnamento sociale cristiano raggiungesse il meglio
dell’insegnamento socialista storico. Il Cristo ecologista dovrà
conoscere un ritardo altrettanto lungo? Se si considerano gli
interventi di Giovanni Paolo II nell’arco di più di 25 anni, sembra di
no.

È stato papa Wojtyla a parlare esplicitamente di una «conversione
ecologica» e, in numerosi messaggi troppo poco conosciuti, ha
richiamato tutti gli uomini e in particolare i cristiani a metterla in
pratica. In ecologia, come in tutto, egli predicava il Cristo origine e
fine di tutte le cose. Fondamentalmente legato a san Paolo, il suo
pensiero illuminava l’avvenire dell’uomo e l’avvenire del mondo
l’uno attraverso l’altro. È in questa unità della creazione che egli
vedeva la realizzazione religiosa della salvaguardia temporale e
della salvezza eterna dell’universo.

Il Cristo verde non ha ancora i discepoli che desidera e che
Giovanni Paolo II ha convocato attraverso l’invito alla
conversione, seguito in questo dal suo successore Benedetto XVI,
del quale non si ripeterà mai abbastanza l’affermazione scritta già
quand’era cardinale: «Mi pare chiaro che anche noi dobbiamo
recuperare questo sguardo cosmico, se vogliamo tornare a
comprendere e vivere l’avvenimento cristiano in tutta la sua
ampiezza e profondità». Il Cristo verde è un Cristo cosmico, colui
che l’apostolo Paolo ha proclamato non soltanto agli uomini, ma a
tutte le cose sotto il cielo e sulla terra.

Nella Lettera ai Colossesi, Paolo sviluppa in modo solenne
l’immagine fondatrice e riassuntiva di Cristo: «Primogenito di tutta
la creazione, perché in lui furono create tutte le cose» e «per
mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose» (Col
1,15­20). Nella Lettera ai Romani, Paolo emette la sua famosa,
commovente esclamazione: «La creazione infatti è stata

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sottoposta alla caducità […] nella speranza che anche la stessa
creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare
nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta
insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad
oggi» (Rm 8,19­22).

L’insegnamento del Nuovo Testamento è esplicito: uomini e
bestie, montagne e stelle, siamo tutti sulla stessa barca. Secondo
il disegno iniziale del Creatore tutte le creature hanno diritto allo
stesso rispetto, nonostante gli assalti del male procurati a seguito
della caduta. Vi è in ciò un’evoluzione che non è stata
sufficientemente messa in risalto in rapporto al Primo Testamento.
Non si tratta più soltanto, come nei primi capitoli della Genesi
corretti dopo la catastrofe del Diluvio, di una sottomissione della
natura all’uomo per i bisogni dell’uomo, in cui la destinazione delle
altre creature non avrebbe in definitiva altro significato se non il
compimento del destino dell’umanità.

Questo antropocentrismo più o meno esplicito è deliberatamente
scartato dal Vangelo a vantaggio di un cristocentrismo assoluto.
Dal Primo al Nuovo Testamento, Dio ha svelato la profondità del
suo impegno creatore che mira a ottenere il successo di tutta la
creazione, l’innalzamento di tutte le cose nella gloria. I cristiani
restano troppo spesso tributari di una concezione utilitaristica
della natura che si esaurisce interamente nell’uomo. 

Il Vangelo non propone una sacralizzazione della creazione,
pericolosamente vicina al paganesimo, che rivestirebbe la natura
di un prestigio e di poteri di antiche divinità, ma una santificazione
che considera in essa il volto di Cristo. Tutte le cose testimoniano
il Verbo e sono fatte «per mezzo di lui e in vista di lui», dice
ancora l’apostolo Paolo nella Lettera ai Colossesi (1,16).

La prospettiva con cui i cristiani oggi si accostano all’ecologia

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avviene ancora nello spirito del Primo Testamento, deformato e
tradito dallo spirito cartesiano e dall’acquisizione prometeica della
cultura moderna. Benché finalmente si mobilitino contro i risultati
deleteri di questa impresa tirannica, tuttavia non ne mettono in
discussione il principio. Non si può che gioire nel vederli militare
numerosi contro l’effetto serra, il riscaldamento climatico, la
scomparsa delle foreste, la contaminazione del suolo,
l’esaurimento delle acque, la riduzione delle biodiversità.

Ma in che cosa i cristiani, così facendo, si distinguono dagli altri
uomini e apportano una visione originale alla lotta comune?
Spesso, di fatto, se oggi i cristiani si decidono a intervenire non è
per annunciare la Buona Notizia a tutta la creazione che geme nel
dolore. Un cristiano che si interessa di ecologia è qualcuno che si
riconosce fratello di tutte le creature, ciascuna nel suo rango e
secondo la funzione assegnata dal Creatore. Questo cristiano non
le mette tutte sullo stesso piano. La diversità che attribuisce loro
non si limita alle modalità della loro incarnazione, ma accetta una
gerarchia nei loro ruoli. Esse hanno tutte la stessa dignità, non la
stessa responsabilità.
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