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Location: Romania
Author(s): Luigi Tassoni
Title: APPUNTI DI SEMIOTICA DELL’IMMAGINE E UNA LETTURA DI CARAVAGGIO
THE SEMIOTICS OF THE IMAGE AND A READING OF CARAVAGGIO
Issue: 1/2012
Citation Luigi Tassoni. "APPUNTI DI SEMIOTICA DELL’IMMAGINE E UNA LETTURA DI
style: CARAVAGGIO". Studia Universitatis Babes-Bolyai - Philologia 1:137-154.
https://www.ceeol.com/search/article-detail?id=193975
CEEOL copyright 2018
ARTS
LUIGI TASSONI1
1. L’imprendibilità dell’arte
Se per vie intuitive l’arte e la pittura in particolare costituiscono un’ottima
palestra per l’immaginazione creativa di chi le guarda o pretende di interpretarne gli
oggetti, per altro verso esse mostrano come un orientamento semiotico per l’approccio,
a qualsiasi livello lo si voglia configurare, è faccenda a dir poco delicata, tanto da aver
suscitato non poche perplessità proprio da parte dei semiologi.
Comincerò con il dire che la pittura (di essa specificamente ci occuperemo
in queste pagine, lasciando da parte per ora le altre forme di arte) in effetti
rappresenta un buon banco di prova per le teorie generali della semiotica, e che
1
Professore ordinario di Semiotica e di Letteratura italiana all’Università di Pécs (Ungheria),
Direttore del Dipartimento di Italianistica e dell’Istituto di Romanistica, membro dell’Accademia
ungherese delle Scienze. Campo di studio: semiotica dell’arte e della letteratura, comunicazione,
teoria letteraria, comparatistica, storia della letteratura europea da Dante ai contemporanei. E-mail:
luigitassoni@katamail.com
LUIGI TASSONI
parecchi punti rimette in discussione e tanti altri corrobora purché si tenga conto di
un corretto approccio semiotico alla pittura, il quale approccio non può negare il
fatto di voler adoperare, noi per primi, un linguaggio verbale rispetto ad un
linguaggio non verbale, e dunque di consegnare intatte a chi le analizza le
problematiche della traducibilità fra codici, ovvero un problema eminentemente
linguistico ossia letterario. Vedremo più avanti che questo insieme di questioni
svolge un ruolo costitutivo nella relazione comunque non intuitiva e non ingenua
con un’opera pittorica.
Su un punto potremo dirci tutti d’accordo: l’opera pittorica va intesa come
testo. E da qui partiremo.
Infatti l’opera pittorica come testo pone alcune insidie se non si
considerano gli elementi materiali dello specifico linguaggio: che è quello della
pittura come tale, nella sua accezione più ampia e sperimentale, e quello della
“poetica o dell’“immaginario” specifico di un autore, ricontestualizzato rispetto
alla cornice culturale e all’iconografia eventualmente del genere. L’insidia consiste
in questo supposto slittamento che è però solo teorico, giacché la consistenza, la
stessa realtà dell’opera d’arte sono valutabili comunque, e interpretabili secondo
le caratteristiche di ambiguità e autoriflessività tipiche dell’arte, e per noi della
pittura. Il richiamo a Jakobson per le su menzionate caratteristiche lo ha fatto
Umberto Eco in un divertito e imbarazzato articolo2 che riguarda appunto la
“cattiva” pittura di Hayez. Perché “cattiva”? Perché la pittura qui rinuncia alle
proprie potenzialità di ambiguità e autoriflessività, realizzando il compito gregario
di rappresentazione della realtà come se fosse un fatto oggettivo, una ricostruzione
sia pure ammantata di un sapore storico, ma dopotutto impegnata in un commento
ridondante e passivo di ciò che la storia si pretende abbia detto o mostrato: la realtà
dell’opera d’arte come linguaggio si sbriciola dietro la supposizione di ciò che la
storia ed eventualmente la realtà (anche degli oggetti) farebbero vedere. Scelgo una
breve descrizione da quell’articolo:
Una gamba è una gamba, e per rendere questo mirabile fatto evidente, Hayez
contorna la gamba (…), la separa da ciò che non è gamba, dal resto dell’universo,
e se guardate il quadro da vicino vi accorgerete che col pennello ha passato e
ripassato le linee della gamba, perché il colore e la luce non gli bastavano. E
questo si chiama, e disegnare a colori, se volete, ma non dipingere. (…) E allora è
chiaro, con una gamba così gamba (…), come potete sospettare che vi sia un
secondo senso? Gamba è, gamba rimane.
Hayez sa a tal punto che d’altri sensi non ve ne sono che, per evitare “equivoci”
(…) pone la massima cura nel non rappresentar quel doge, quel crociato, quel
conte, ma la Dogaressità, la Crociatità o la Contità. E per farlo non ha che da
pescare nel repertorio della iconografia dei suoi tempi (...).3
2
Umberto Eco, Della cattiva pittura, in Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1985, pp.73-77.
3
Sugli specchi cit., pp.75-76.
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riconoscibile. Ciò non vuol dire che il testo pittorico si astiene da una produzione
di senso significativo (ovvero emblematico, allegorico, costruttivo, ecc.): vuol dire
solo che la scelta è in partenza più ampia rispetto al vincolo, poniamo, della parola
nel linguaggio poetico, indipendentemente dal risultato di arrivo.
Ma per la pittura la produzione (del senso, del messaggio, della forma,
ecc.) deve fare i conti con la riproduzione, che potrebbe porre qualche problema
nella lettura dell’opera d’arte, ossia anche nella sua analisi. Soprattutto a partire dal
XX secolo si pone la questione del valore della riproduzione delle opere d’arte:
riproduzione di una visività, dell’immagine visibile, ma non riproduzione di un
originale mediante un altro originale. È chiaro che la riproducibilità come copia o
come replica, frequentata dalla pittura e dalle altre forme d’arte sin dalle origini, ha
tutt’altra configurazione teorica: si tratta qui in ogni caso di nuovi prodotti e non di
riproduzioni nell’accezione moderna che noi diano al termine, ovvero come
moltiplicazione di immagini derivate e in forme differenti dall’originale.
Pongo l’attenzione sul problema dell’originale per sottolineare comunque
che esiste la dignità di unicità del testo pittorico: dello stesso testo, anche se
fruibile in forme differenti rispetto all’originale. Non si può che ricordare, anche se
per breve, un classico sull’argomento, ovvero il famoso saggio di Walter Benjamin,
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (pubblicato nel 1937)4,
là dove ricorda che evidentemente la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte agisce
sull’opera nella sua forma tradizionale che «moltiplicando la riproduzione, essa
pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi»5, che vien meno
l’evento unico dell’autenticità dell’opera6, anche se «permettendo alla riproduzione
di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza
il prodotto»7. Inoltre Benjamin indica la riproduzione come necessità di esporre
l’opera (il valore di esponibilità che sostituisce nella fotografia il valore culturale)8
e lamenta che la pittura non sia «in grado di proporre l’oggetto alla ricezione
collettiva simultanea»9, come avviene invece nell’architettura e al cinema (e chissà
cosa avrebbe pensato dei grandi eventi-mostre di oggi, affollate realmente o
virtualmente da milioni di visitatori, che non sappiamo fino a che punto ne attuano
una ricezione attiva?).
Noi oggi siamo ben coscienti che la stessa riproducibilità, anche in forme e
linguaggi diversi del testo come fonte (per esempio dalla pittura al cinema)
aumenta l’ambito della visività, e anche fornisce nuove prospettive alla lettura
dell’opera in senso intertestuale, ma fino a che punto lo saremmo se non adoperassimo
4
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1937), Torino, Einaudi,
2000, p.21.
5
Ivi, p.23.
6
Ibidem.
7
Ibidem.
8
Ivi, p.28.
9
Ivi, p.39.
140
10
Ivi, p.24.
11
Paolo Fabbri, La svolta semiotica, Bari, Editori Laterza, 1998, p.24.
12
Ivi, p.26.
141
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13
Ivi, p.27.
14
Luis Prieto, Saggi di semiotica. II. Sull’arte e sul soggetto, Parma, Pratiche editrice, 1991, p.38.
15
Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, p.320.
16
Ivi, p.316.
142
Non si tratta di una nuova unità quanto di un DISCORSO. Quello che era bruto
continuum organizzato percettivamente dal pittore, a poco a poco si fa
organizzazione culturale del mondo. (…) Il quadro arriva a offrire così unità
manipolabili che possono essere usate in un successivo lavoro di produzione
segnica. La spirale semiotica, arricchita da nuove funzioni segniche e nuovi
interpretanti, è pronta a procedere all’infinito.17
Si ha invenzione radicale quando «il mittente praticamente ‘scavalca’ il
modello percettivo e ‘scava’ direttamente nel continuum informe, configurando il
percetto nello stesso momento in cui lo trasforma in espressione»18.
Tale è il principio secondo cui si sono avute tutte le grandi innovazioni della storia
della pittura. Si veda il caso degli impressionisti, i cui destinatari assolutamente
rifiutavano di ‘riconoscere’ i soggetti rappresentati e affermavano di ‘non capire’ il
quadro, o che il quadro ‘non significava nulla’. Rifiuto dovuto non solo alla
mancanza di un modello semantico preesistente (…), ma anche alla mancanza di
modelli percettivi adeguati, poiché nessuno aveva ancora percepito in quel modo e
dunque nessuno aveva ancora percepito quelle cose.
In questo caso si ha violenta ISTITUZIONE DI CODICE, radicale proposta di
nuova convenzione. La funzione segnica non esiste ancora, né si può imporla. Di
fatto il mittente scommette sulle possibilità della semiosi e di solito perde. Talora
ci vogliono secoli perché la scommessa renda, e la convenzione si instauri.19
Chiuse le autorevoli virgolette, sappiamo dunque che l’interesse iniziale
della semiotica (in questo caso Eco mette in guardia che, all’epoca del Trattato,
«una analisi delle opere di pittura dal punto di vista della tipologia dei modi di
produzione segnica è ancora tutta da tentare») riguarda praticamente il processo
creativo, la cosiddetta invenzione pittorica, nei due modi formalizzati di cui il
guardante può tenere conto al momento della propria analisi o lettura. Naturalmente lo
stesso Eco sapeva e sa benissimo che potrebbero esistere casi intermedi, a vari livelli,
nei quali la cosiddetta invenzione moderata si intreccia o si mescola a quella
radicale, oppure casi in cui l’invenzione sembra formalmente moderata e invece è
radicale, o al contrario sembra radicale e invece è moderata. Per inciso vorrei
ricordare che un’ottima chiave di questi stessi problemi, sbilanciata per scelta dalla
parte della cosiddetta invenzione radicale, si trovava già esposta nel capitolo di
Opera aperta (1962) intitolato L’opera aperta nelle arti visive, dedicato alle
strategie inventive dell’Informale e all’informale come processo creativo “aperto”,
e nel quarto capitolo della Struttura assente (1968), là dove in una comparazione
ravvicinata con il cinema, si propone una prospettiva intorno ai processi creativi
nel paragrafo intitolato Dall’informale alle nuove figurazioni: «L’opera è la
fondazione delle regole inedite su cui regge; ma di converso non può comunicare
17
Ivi, pp.317-318.
18
Ivi, p.318.
19
Ibidem.
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se non a chi conosca già queste regole»20. Lo stesso pensiero del Trattato di semiotica
generale è naturalmente sbilanciato, lo abbiamo detto, dalla parte del processo creativo
del linguaggio o codice pittorico, e facendo di necessità virtù, cerchiamo di trarne le
indicazioni per una possibile analisi semioticamente orientata della pittura, e
cominciamo con il dire che una corretta analisi del testo fa bene a rendere conto delle
caratteristiche del processo creativo specifico, facendo ricorso a quelle che più volte
altrove, e nella fattispecie per il linguaggio poetico, ho indicato come fonti (testi di
riferimento esterni da cui deriva l’acquisizione del nuovo codice inventivo) oppure
di ipotesti (testi di riferimento sia interni che esterni “manipolati” per un uso proprio e
diretto, che soggiacciono al formarsi della materia pittorica). Tanto la filologia
letteraria quanto la filologia dell’arte di solito non distinguono fra fonte e ipotesto, così
rischiano di non riconoscere gli ipotesti di riferimento di ogni artista (niente e
nessuno nasce da una tabula rasa) perché appaiono ad occhio come fonti lontane,
compreso il riutilizzo di materiali figurativi o di tecniche compositive.
L’invenzione del linguaggio pittorico, di volta in volta riformulato o
rivoluzionato con caratteristiche che abbiamo sin qui visto, ha come luogo deputato
per l’analisi semiotica, più semplicemente per la lettura non ingenua e materialmente
cosciente, il testo della pittura, o più in esteso in testo dell’arte, di cui però qui non
ci occupiamo nelle sue generalità. Prima di passare direttamente alla galleria di
quadri qui proposti per l’analisi semiotica della pittura, vediamo perciò alcuni
orientamenti recenti della semiotica italiana, applicata a ben precise opere,
riassumendo questa volta l’orientamento “inventivo” del guardante semiotico che
non è mai proposta di un metodo (lo abbiamo visto, non sarebbe adattabile come
semiotica generale rispetto ad un processo di trasformazioni infinite), e non può o
non deve annullare la presenza del guardante che svolge un ruolo cardine nelle
scelte, finanche soggettive, del percorso di lettura proposto. In questo apparente
marasma interpretativo ci sono zattere per non annegare nella deriva e ci sono
atolli, o addirittura vele maestre da dispiegare. Tutto ciò riguarda la realtà del testo
in sé, l’indicatività dei significanti che sono le caratteristiche del codice-linguaggio
specifico di volta in volta, e la comprensione della funzione dei referenti interni e/o
esterni all’opera pittorica, nonché l’insieme delle informazioni metatestuali in cui
si colloca una certa opera, compreso, come sappiamo, lo spazio espositivo, e
persino al lato opposto lo spazio come riferimento reale in cui ha origine un certo
modo di vedere da parte dell’artista, che potremmo chiamare visività, ovvero anche
un certo modo di narrare che da tutti è chiamato narratività. Ma non è tutto.
4. Al di là dello spazio
Considerare lo spazio o la spazialità entro un quadro sembra essere il luogo
di interesse iniziale della semiotica della pittura: e lo è, in certa misura.
20
Umberto Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, p.162.
144
21
Giacomo Marrone, Corpi sociali, Torino, Einaudi, 2001, pp.295-296.
22
Ivi, p.295.
23
Omar Calabrese, Breve semiotica dell’infinito, in “VS”, n.58, gennaio-aprile 1991, pp.51-64.
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24
Ivi, p.55.
25
Ivi, p.62.
26
Ivi, p.63.
27
Ivi, p.61.
28
Ivi, p.64.
146
29
Ibidem.
30
Finzione e conoscenza, Bergamo, Lubrina, 1989, pp.15-16.
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5. Il visibile di Caravaggio
5.1. Una lettura
Il testo della pittura sottopone il guardante ad un notevole impegno in
quanto questi dovrà, naturalmente per una lettura non ingenua dell’opera d’arte,
organizzare in sequenze integrate fra loro la serie degli elementi indicativi che
formalmente si dispongono sulla superficie. Questi elementi indicativi sono fattori
materiali, fattori significanti, utili a permettere un approccio diretto al linguaggio
del pittore, ma soprattutto con quella che abbiamo chiamato la visività specifica:
ovvero il modo di vedere e connotare le cose, i referenti, nel testo. L’insieme delle
operazioni di collegamento dà il percorso del senso, mentre l’analisi semiotica
porterà ad una messa in funzione delle ipotesi narrative congetturate in questo caso
dal lettore del testo stesso.
L’esempio che mi sono qui proposto è il dipinto di Caravaggio intitolato
Maddalena penitente, degli anni 1594-1595 (Roma, Galleria Doria Pamphilij),
ovvero degli anni romani dell’artista che all’epoca ha ventiquattro anni. Il famoso
dipinto ritrae una figura di donna, una rappresentazione di pochissimi elementi
come in un cerchio chiuso, chiuso formalmente da questa giovane Maddalena,
addormentata su una sedia bassa. Il fascio di luce proviene dal basso verso l’alto, e
investe diagonalmente la dormiente e la pavimentazione della stanza: semplice
quest’ultima in evidente contrapposizione con la ricchezza delle stoffe dell’abito.
Cosa esclude la visività? Tutto lo sfondo, scuro, senza nessuna indulgenza
(e quanto all’opposto si sofferma il pennello sui particolari disegni e sull’ampiezza
delle stoffe!), mentre ammette come elemento di equilibrio un triangolo luminoso
in alto a destra (è la continuazione della parete? È il soffitto della stanza?).
L’esclusione di ogni altra suggestione decorativa nell’ambiente chiude e concentra
l’attenzione sulla figura della Maddalena.
A sinistra in basso sono invece visibilissimi, così come le linee di
connessione delle mattonelle, i gioielli che si devono immaginare deposti in terra in
precedenza, prima cioè che il sonno cogliesse la giovane donna. Con essi
un’ampolla d’un rosso stinto, e nell’insieme la dominante dei colori bruni in una
gamma cromatica che ha al suo opposto il bianco della camicia e, più opache, le
grandi perle sul pavimento. Il carnato della Maddalena, egualmente colpito dalla
luce gialla porta i segni di questa continuità cromatica: il rossore dell’orecchio,
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della guancia e delle mani. Dunque, il sèma della chiusura e della concentrazione è
portato prima di tutto dal colore.
C’è un elemento narrativo fondamentale in questo insieme: lo abbiamo già
accennato, i gioielli sono stati abbandonati sul pavimento, come scivolati via dal corpo,
nel tempo che precede il sonno, mentre il tempo della rappresentazione, il momento
stesso in cui il pittore ha scelto di raffigurare la propria versione di Maddalena pentita,
è quello che vive sotto i nostri occhi, il momento di una ragazza che dorme su una
sedia. I capelli sciolti partecipano di questo abbandono, e le mani in posizione morbida,
adagiate sulle stoffe e in modo da chiudere un immaginario cerchio.
Nessuna indulgenza neanche sui tratti femminili di Maddalena, quasi per
intero coperta, anche se un’annotazione non trascurabile è quella delle mani
delicate, curate. Qui dalla visività si esclude adesso il sospetto della sensualità.
Le due stoffe in primo piano sono un capolavoro della decorazione: ampie
e disegnate in modo particolareggiato, così come la camicia con i pizzi e la
bordatura che richiama il vestito.
Il sonno della Maddalena caravaggesca, con il capo leggermente reclino, è
connotato dalle labbra appena schiuse, è il sonno che segna il confine tra ciò che lei
ha lasciato e ciò che ha scelto. E infatti questa ragazza vestita da cortigiana,
seducente nel suo apparire, è appena entrata in un sonno, e spoglia solo in parte di
ciò che la rendeva socialmente attraente, ora non può che apparire come la
vediamo, immersa nel sonno dolce, per uscire dal ricco ornamentario del “prima” e
darsi alla semplice linea della sua vita futura.
Il sonno di questa Maddalena esausta, forse, è tanto differente da quello
che lo stesso Caravaggio decide per la figura di Maria con in braccio il bambino,
esausti in un quadro ricchissimo invece di annotazioni di paesaggio e di
prospettiva, qual è il Riposo durante la fuga in Egitto, dipinto quasi negli stessi
anni (1595-1596), che si trova a pochi centimetri dal precedente nel grande
corridoio della Galleria Doria Pamphilij. Questo paragone ci aiuta a capire la
diversità del sonno: Maria dorme esausta, poggiata al capo del bambino, davvero in
un abbandono fisico (la mano destra le cade e quasi molla la presa del figlio),
mentre Maddalena dorme con il busto eretto, e non trattiene altro che il proprio
pentimento, appena appena percepibile da una lacrima, come se avesse lottato, e
dopo aver vinto si fosse concessa il momento dell’abbandono nel quale la coglie il
pittore. Del tutto diversa da un dipinto che Caravaggio concepì negli ultimi anni,
nel 1606 probabilmente, l’Estasi della Maddalena, documentato da alcune copie. A
tacer d’altro, qui la Maddalena reclina il capo all’indietro, in una posizione che
conserva i tratti della sensualità femminile. Nulla è invece sensuale nella nostra
Maddalena, che forse per effetto di questo sonno e nella particolare (e scomoda)
posizione che il pittore ha scelto per lei, sembra addirittura infantile.
Al di là delle decorazioni, al di là dei travestimenti, ciò che si vede di
Maddalena è il viso (ne abbiamo già brevemente detto) e le mani. Le mani in una
posa morbida sembrano racchiudere qualcosa senza trattenerlo, senza volerlo
149
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31
Maurizio Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino, Einaudi, 1990.
150
32
Ivi, p.32.
33
Ibidem.
34
Maurizio Calvesi, op. cit., p.32.
151
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35
Ivi, p.207.
152
36
Ivi, p.208.
153
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BIBLIOGRAFIA
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1937), Torino,
Einaudi, 2000.
Omar Calabrese, Breve semiotica dell’infinito. A proposito di due quadri di Turner, in “VS”,
n.58, gennaio-aprile 1991, pp.51-64.
Maurizio Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino, Einaudi, 1990.
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Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975.
Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1985.
Paolo Fabbri, La svolta semiotica, Bari, Editori Laterza, 1998.
Giacomo Marrone, Corpi sociali, Torino, Einaudi, 2001.
Luis Prieto, Saggi di semiotica. II. Sull’arte e sul soggetto, Parma, Pratiche editrice, 1991.
Luigi Tassoni, Finzione e conoscenza, Bergamo, Lubrina, 1989.
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