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INDICE

INTRODUZIONE ................................................................................................... 4

CAPITOLO 1
LA STORIOGRAFIA DELLA DECOLONIZZAZIONE ................................... 9

1.1 La storiografia in Africa: fenomeno eurocentrico o lotta di liberazione ?9

1.2 La storiografia e i problemi dei nuovi stati sorti in Africa ......................14

1.2.1 Caratteristiche politiche e problemi dello stato-nazione africano .............14


1.2.2 Lo studio economico dei paesi di nuova indipendenza ............................19

1.3 Neocolonialismo.........................................................................................24

1.4 Postcolonialismo e Subaltern Studies: un nuovo metodo storico.............27

1.5 Fanon, la decolonizzazione e la guerra d’Algeria: un’introduzione..........33

1.6 La storiografia italiana sulle ex colonie e sull’Africa nel corso del


Novecento ..........................................................................................................36

CAPITOLO 2
LA GUERRA D’ALGERIA .................................................................................42

2.1 L’Algeria francese e la nascita del movimento nazionalista ......................42

2.1.1 La colonizzazione francese e i suoi effetti...............................................42


2.1.2 Le origini del movimento nazionale algerino ..........................................46
2.1.3 Il movimento nazionale si avvia alla lotta armata....................................49

2.2 La guerra d’Algeria: dall’insurrezione armata all’inizio della crisi dello


stato francese (1954-1958).................................................................................53

2.2.1 I primi quattro anni di guerra degli algerini.............................................57

2.3 L’avvento di de Gaulle e la conclusione della guerra (1958-1962) ............59


2.4 La società francese e algerina durante il conflitto......................................66

2.4.1 L’opinione pubblica francese durante gli otto anni di conflitto franco-
algerino ...........................................................................................................66
2.4.2 I cambiamenti sociali avvenuti nella popolazione algerina durante la
guerra..............................................................................................................69

2.5 Le istituzioni italiane di fronte al conflitto franco-algerino.......................73

2.6 La stampa italiana sulla guerra franco-algerina: il punto di vista


dell’Unità...........................................................................................................90

CAPITOLO 3
LA STRANA DECOLONIZZAZIONE DEGLI EX POSSEDIMENTI
ITALIANI IN AFRICA ......................................................................................105

3.1 Il colonialismo italiano: dai primi possedimenti all’Impero fascista (1882-


1941) ................................................................................................................105

3.1.1 Le prime azioni coloniali dell’Italia liberale (1882-1896)......................105


3.1.2 La guerra in Libia, l’ultima conquista coloniale dell’Italia prefascista...109
3.1.3 La politica coloniale fascista in Libia, Somalia ed Eritrea .....................113
3.1.4 La guerra d’Etiopia (1935-1936)...........................................................116
3.1.5 L’Impero italiano e la perdita delle colonie (1936-1941).......................119

3.2 Il futuro dei possedimenti italiani in Africa (1941-1949) .........................121

3.2.1 I progetti inglesi ed americani sul futuro dei territori d’oltremare italiani
(1941-1943) ..................................................................................................122
3.2.2 I colloqui tra gli Alleati: la Conferenza di Potsdam (Luglio-Agosto 1945)
......................................................................................................................125
3.2.3 La Conferenza di Londra (Settembre-Ottobre 1945) .............................129
3.2.4 La Conferenza di Parigi (Aprile-Luglio 1946) ......................................135
3.2.5 La definizione del Trattato di Pace del 10 Febbraio 1947......................143
3.2.6 Il tentativo di un’intesa tra le quattro grandi potenze (Marzo 1947-
Settembre 1948) ............................................................................................145
3.2.7 Il compromesso italo – inglese tra Bevin e Sforza.................................152
3.2.8 La decisione finale delle Nazioni Unite sulle ex colonie italiane ...........158

3.3 La politica italiana sul problema coloniale (1945-1949)...........................173

3.4 L’amministrazione fiduciaria italiana in Somalia (1950-1960) ...............199

3.4.1 I preparativi per il ritorno italiano in Somalia........................................200


3.4.2 L’amministrazione Fornari ...................................................................203
3.4.3 L’amministrazione Martino ..................................................................209
3.4.4 L’amministrazione Anzillotti................................................................213
3.4.5 L’amministrazione De Stefano e l’indipendenza della Somalia .............216
3.4.6 Dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana: un bilancio finale .....221

CONCLUSIONE ..................................................................................................224

BIBLIOGRAFIA ..................................................................................................231
INTRODUZIONE

La parola decolonizzazione è entrata a far parte del vocabolario negli anni


trenta, ma si è diffusa solamente negli anni sessanta ed «è un termine conciso che,
utilizzando il prefisso de-, lascia presupporre separazioni e allontanamenti»1. La
decolonizzazione non è stata un processo unico, ma un insieme di attività e eventi
convulsi che si sono svolti o nelle sale congressuali o nelle strade, sottoforma di
manifestazioni e cortei, o nelle giungle e sulle montagne, sottoforma di
combattimenti. Per alcuni è stata troppo rapida, per alcuni troppo lenta ma per la
maggior parte degli accademici risulta incompiuta, dando luogo a tantissimi dibattiti
che non riguardano solamente la dinamica del problema storico ma se ciò ha avuto
conseguenze sugli altri continenti, sottoforma di problemi politici, economici e
culturali.
Con il secondo dopoguerra, la politica internazionale assunse un
atteggiamento decisamente favorevole alla decolonizzazione. Già la Carta di San
Francisco, del 25 Giugno 1945, che dette vita all’ONU, conteneva dichiarazioni
dirette a sostenere le aspirazioni autonomistiche del mondo coloniale. Tale
orientamento ha avuto i presupposti più importanti nell’anticolonialismo di Stati
Uniti e Unione Sovietica, uscite dalla guerra come le due grandi potenze mondiali.
Le istituzioni statunitensi si rifacevano ad un dovere ideale, dovuto alla creazione
degli USA, e ad un pensiero meramente economico-politico: «con l’apertura dei
territori coloniali alla concorrenza economica internazionale, ciò avrebbe consentito
agli investimenti di capitale nordamericani di penetrare in nuovi importanti
mercati»2. Anche i sovietici si rifacevano a motivi ideologici e concreti per far
inserire i processi di liberazione nazionale nella ideologia marxista-leninista, per
riempire il vuoto lasciato dalle potenze colonialiste europee in Africa, e in Asia, e per
spostare a proprio vantaggio l’equilibrio di potenza a livello mondiale.
All’interno delle Nazioni Unite si sarebbe potuto fare di più da subito, ma le
resistenze dei paesi colonialisti impedirono una presa di posizione netta a favore
della decolonizzazione, anche se le opinioni andarono ben oltre le norme della Carta
fondamentale che, al capitolo XI, fissò a carico delle potenze amministratrici dei

1
Raymond F. Betts, La decolonizzazione, Il Mulino, Bologna 2007, p. 7.
2
Gianluigi Rossi, L’Africa verso l’unità (1945-2000). Dagli stati indipendenti all’atto di unione di
Lomè, Nuova Cultura editore, Roma 2010, p. 7.

4
“territori non autonomi” il progresso politico fino all’autogoverno, mentre i capitoli
XII e XIII introdussero il regime di amministrazione fiduciaria, consistente
nell’affidare a qualche potenza l’amministrazione di determinati territori per condurli
verso l’autogoverno o l’indipendenza.
Al di là di ciò, l’azione delle Nazioni Unite in favore della decolonizzazione
si mostrò durante le audizioni dell’Assemblea generale e nelle risoluzioni approvate
da quest’ultima, azione che aumentò in tendenza con l’ingresso dei paesi afro-asiatici
all’interno dell’organizzazione. L’anno cruciale di tutto ciò fu il 1960, quando
diciassette stati africani divennero indipendenti ed entrarono a far parte dell’ONU,
portando una nuova spinta contro il colonialismo. La conferma arrivò il 14 Dicembre
dello stesso anno, con l’adozione della Dichiarazione sulla concessione
dell’indipendenza ai popoli e ai paesi coloniali, rappresentando un punto di
riferimento imprescindibile per tutte le azioni successive in politica internazionale su
questa materia. Inoltre, subito dopo tale dichiarazione, venne istituito un Comitato
speciale delle Nazioni Unite per la decolonizzazione (Comitato dei 24) «con
l’incarico di seguire costantemente gli sviluppi in atto nei paesi rimasti sotto regime
coloniale tenendone informata l’Assemblea generale»3.
La fratellanza tra i paesi di nuova indipendenza in materia di
decolonizzazione aveva trovato una importante dimostrazione concreta nella
Conferenza afro-asiatica di Bandung, nell’Aprile 1955. Storicamente considerata
come il primo passo verso la creazione del gruppo dei non allineati, fu un fattore di
accelerazione di condanna del colonialismo, che colpì l’opinione pubblica
internazionale perché, per la prima volta, i paesi di nuova indipendenza prendevano
posizione collettivamente su tale questione.
In generale, parlando di decolonizzazione africana, si fa riferimento a due fasi
distinte, sia a livello cronologico che di modalità di accesso all’indipendenza. Il
primo periodo va dal 1951 fino alla metà degli anni sessanta e le indipendenze di tale
intervallo, nella maggior parte dei casi, sono frutto di un accordo tra le vecchie
potenze coloniali e le élite indigene. Il secondo, invece, va tra la metà degli anni
settanta fino agli anni novanta ed è stato l’esito di una guerra di liberazione, di una
lotta armata contro le potenze coloniali.
Il presente lavoro prende in esame il primo periodo della decolonizzazione e,
in particolare, si cerca di evidenziare questo evento attraverso la ricerca storiografica

3
Ibid., p. 9.

5
degli ultimi cinquant’anni, nelle sue differenze e sfaccettature, cercando di
comprendere gli elementi principali di questo fatto. In successione si tenta, tramite
l’analisi di due casi specifici, di comprendere appieno l’essenza della
decolonizzazione attraverso un momento di grande tensione internazionale come la
guerra d’Algeria, l’indipendenza più cruenta della prima fase africana, e il futuro
degli ex possedimenti italiani negli anni quaranta, l’inizio della decolonizzazione che
si tramuterà nel mandato decennale italiano in Somalia per traghettare il paese
all’indipendenza.
La storiografia occidentale ha dato ampio spazio alla decolonizzazione
africana, sotto molteplici aspetti, dalla seconda metà del XX secolo fino ai giorni
nostri, ridefinendo la metodologia di studio sull’Africa e mettendola al centro del
dibattito storiografico. Le prime novità riguardarono la creazione di cattedre e studi
specifici sul continente africano, dato che fino a quel momento era visto solamente
come un’appendice della storia europea e, con il colonialismo e l’imperialismo,
aveva perso quasi totalmente di interesse. A partire dalla fine degli anni cinquanta e
l’inizio dei sessanta, la storiografia si divide tra chi continua con il metodo
tradizionale, ovvero che i processi politici ed economici internazionali vanno sempre
considerati nell’ottica europea, in questo caso la decolonizzazione è solamente una
concessione degli stati del vecchio continente dato che gli imperi coloniali stavano
crollando sotto il loro stesso peso, tra chi vede un influenza decisiva delle
conseguenze del Secondo conflitto mondiale, della nascita delle Nazioni Unite e del
mondo bipolare e chi sostiene che sia tutto merito delle popolazioni colonizzate che
hanno rovesciato il potere coloniale.
Dagli anni sessanta, la storiografia ha cercato di comprendere e di analizzare
la situazione delle nuove entità statuali africane, in particolar modo soffermandosi
sui problemi politici ed economici. Quest’ultimi, saranno alla base del nuovo filone
storiografico sorto anch’esso negli anni sessanta, il neocolonialismo, che studia il
proseguimento dei rapporti di inferiorità dei paesi africani con l’Occidente dal punto
di vista economico e, di conseguenza politico, con quest’ultimi che continuano nella
loro presa delle ricchezze dell’Africa. All’inizio degli anni ottanta prende piede un
nuovo metodo di studio storico, i Postcolonial Studies, che si sono imposti con
concetti nuovi per analizzare e comprendere la società contemporanea, riconoscendo
i drammi generati dal colonialismo e dalle sue propaggini contemporanee e vedono
in questa nuova logica una critica della vecchia logica colonialista eurocentrica.

6
Una figura di primo piano del movimento terzomondista ed indipendentista è
certamente Frantz Fanon che, attraverso la sua opera più conosciuta I dannati della
terra, riesce a far cogliere l’affermazione e la presa di coscienza del significato
universale della rivoluzione dei popoli coloniali e dell’avvento del terzo mondo come
protagonista della nuova storia. Il saggio dello psichiatra martinicano, anche se
prende origine dalla sua esperienza nella rivoluzione algerina, riesce a trascendere
l’ambito nazionale, il movimento di liberazione dei popoli africani, «per investire
l’intera corrente terzomondista sul piano internazionale, che tende a dare alla storia
una universalità effettiva e a fare dell’umanità intera il suo soggetto consapevole»4.
Anche in Italia la storiografia nazionale si è occupata dell’Africa e delle ex
colonie italiane africane, partendo in ritardo, però, rispetto agli altri paesi europei ed
occidentali. Un punto importante per la definizione degli studi accademici è
essenzialmente la fine del Secondo conflitto mondiale e la conseguente perdita delle
colonie, dato che esisteva, e si protrarrà ancora per più di un decennio, una
storiografia coloniale basata solamente sui racconti dei funzionari presenti in Africa e
su ciò che era stato scritto durante il fascismo. Una concezione eurocentrica della
questione rimarrà anche durante gli anni sessanta, attraverso figure come quella di
Carlo Giglio, mentre negli anni settanta, con una nuova leva di storici come
Giampaolo Calchi Novati e Angelo Del Boca, si comincerà a trattare di Africa e del
passato coloniale partendo da un punto di vista diverso, più vicino alle popolazioni
indigene rispetto al passato, analizzando criticamente il colonialismo italiano ed
europeo.
Successivamente, il saggio cerca di analizzare attraverso due esempi concreti
la decolonizzazione africana. La guerra d’Algeria rappresenta la presa di coscienza di
un popolo che vuole staccarsi definitivamente dalla madrepatria europea, attraverso
l’uso della forza, dato che non gli viene riconosciuto l’autogoverno da parte dei
francesi. Nei 132 anni di colonialismo, la popolazione algerina è sempre stata tenuta
in subordine rispetto ai coloni d’oltralpe, ha subito espropri delle terre più fertili e
non era mai stata inclusa nell’amministrazione del paese. Durante questi decenni si
formò un movimento nazionalistico che, progressivamente, arriverà a formare il FLN
che, il 1 Novembre 1954, darà il via all’insurrezione armata che si concluderà
solamente otto anni più tardi, con conseguenze marcate per il futuro dell’Algeria e
della Francia stessa, basti pensare al cambio di regime repubblicano, dal

4
Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1972, p. 20.

7
parlamentare al semipresidenziale. Interessante è anche constatare l’interesse italiano
per questo conflitto, dato che la Francia era un partner importante nella costruzione
dell’Europa unita e dell’alleanza occidentale, e l’interesse suscitato nella stampa, in
particolar modo ne «L’Unità», organo del Partito Comunista Italiano, che, con un
punto di vista nettamente anticolonialista ed antimperialista, segue con attenzione le
vicende franco-algerine.
Infine, nella terza ed ultima parte, la ricerca si sofferma sulla «lunga e
complessa vertenza intorno alle ex colonie italiane in Africa – alla questione, cioè,
della sistemazione da dare alla Libia, all’Eritrea e alla Somalia – che ha
rappresentato un momento importante nella storia della decolonizzazione africana»5.
La questione delle ex colonie italiane sarà al centro del dibattito internazionale per
molti anni, dati i problemi che sorgono tra le quattro potenze con l’inizio della
Guerra Fredda e con le diverse vedute anche tra gli alleati occidentali, durante le
varie conferenze del dopoguerra, fino alle audizioni dell’Assemblea generale.
Adattandosi a ciò che verrà adottato in sede internazionale, dato che non fa ancora
parte di nessuna organizzazione sovranazionale, l’Italia si troverà di fronte ad un
bivio: continuare a richiedere indietro le colonie ed adottare una politica che stava
arrivando alla sua conclusione, oppure cercare un nuovo tipo di approccio nei
confronti delle popolazioni africane. La politica italiana dal 1945 al 1949, si troverà
di fronte a questo problema e, se in un primo tempo sarà compatta nel richiedere i
possedimenti italiani secondo le nuove norme internazionali, dal 1947, con l’uscita
dai governi di unità nazionale di socialisti e comunisti, i vari esecutivi se la dovranno
vedere anche con un’opposizione interna alle manovre effettuate dai ministri preposti
in sede sovranazionale. L’Italia, con la sentenza dell’Assemblea generale dell’ONU,
avrà solamente l’opportunità di consolidare e stabilizzare la sua vecchia colonia
somala, tramite un mandato internazionale decennale, per portarla all’indipendenza
nel 1960.

5
Gianluigi Rossi, L’Africa verso l’unità (1945-2000), cit., p. 10.

8
CAPITOLO 1

LA STORIOGRAFIA DELLA DECOLONIZZAZIONE

A metà del Novecento, in concomitanza alla decolonizzazione africana, la


storiografia europea ha ripensato e posto al centro del dibattito storiografico
l’approccio metodologico degli studi di storia africana. Un grande storico dell’Africa
come Basil Davidson, ci dice come questo movimento di liberazione dei continenti
dalla dominazione europea sia riuscito a cambiare anche l’insegnamento e gli studi
storici nelle università dei vari paesi europei. Dagli anni cinquanta iniziarono le
prime esperienze dirette degli storici con la popolazione locale, che permisero di
approfondire gli studi sull’Africa precoloniale. Più in generale, nel dopoguerra si
assiste alla proliferazione di studi extraeuropei: l’indipendenza dell’Indocina
francese e la Conferenza di Bandung attirarono le attenzioni degli studiosi
occidentali, permettendo l’avvio di una nuova corrente che si proponeva di ribaltare
il vecchio modo di scrivere la vecchia storiografia coloniale.
Traspaiono all’interno dell’intero panorama storiografico sulla
decolonizzazione visioni diverse e, in alcuni casi, discordanti: se da una parte si
considera una volontà tutta europea di chiudere con il passato coloniale, dall’altra si
attribuisce un ruolo determinante alle popolazioni indigene nel voler superare la
condizione di colonizzati ed emancipare la propria “civiltà” al pari delle altre. Altri
studi si concentrano invece sugli aspetti economici e politici delle nuove e travagliate
entità statali sorte alla fine dei processi di decolonizzazione. Interessanti sono anche
gli studi definiti “postcoloniali”, che cercarono in modo del tutto originale un nuovo
approccio alla disciplina; ma anche gli studi psichiatrici, come ad esempio quelli di
Frantz Fanon, e il contributo, seppur ridotto, degli studi storici italiani
sull’argomento.

1.1 La storiografia in Africa: fenomeno eurocentrico o lotta di liberazione ?

Per chi si avvicina agli studi sulla decolonizzazione africana si pone il


problema di ricalibrare le questioni poste dalla storiografia precedente, soprattutto
quella che vuole assolutizzare le cause del fenomeno storico sopracitato1. Gary

1
Salvatore Bono, Dal colonialismo all’indipendenza, G. D’Anna editore, Firenze 1974, p. 20.

9
Thorn, che nella parte introduttiva del suo End of Empire: European decolonisation
1919-1980, riprende i vari studi effettuati sull’argomento, finisce per riscontrare tre
principali modelli di studio. Il primo è quello eurocentrico, che considera la volontà
delle potenze coloniali europee come motore della progressiva liberazione dei vecchi
stati coloniali dalle sue maglie politiche: la fine dell’impero portoghese in Africa è
rimandabile, ad esempio, a problemi economici e politici interni allo stato
metropolitano e ciò ha comportato la necessità di disgregare l’assetto politico
esistente. Il secondo, ritenendo l’assetto politico internazionale bipolare, scaturito dal
secondo conflitto mondiale, l’evento centrale del Novecento ha tentato di spiegare i
moti d’indipendenza come eventi strettamente legati a questo nodo: l’ideologia delle
nuove superpotenze mal si sposava con l’assetto coloniale di stampo europeo. Il terzo
ed ultimo modello, in contrasto con i due precedenti, vede nel nazionalismo asiatico
e africano l’incipit al gran numero di richieste d’indipendenza e lotte per la
liberazione. Thorn aggiunge che era molto popolare tra gli storici degli anni sessanta
guardare con simpatia ed interesse al nazionalismo sorto nelle ex colonie e ai leader
di quei paesi.
Tra gli assertori della prima visione spicca la figura di Carlo Giglio che,
attribuendo all’Africa e all’Asia “storie raccapriccianti”, considera benefica la
colonizzazione di quei luoghi da parte europea, che ha portato ordine,
amministrazione, libertà personale dove esistevano caos, schiavitù e guerre tribali;
aggiungendo inoltre che ciò ha avuto luogo grazie anche all’appoggio di una parte
della popolazione autoctona. Lo storico italiano critica quanto “gli indipendentisti
siano irriconoscenti verso gli europei che hanno portato così tante migliorie alla loro
terra” 2, vede il colonialismo come una fase positiva per le popolazioni africane, per
il loro sviluppo e per il loro avvenire. La decolonizzazione, per Giglio, è il frutto
naturale della stessa azione colonizzatrice: il fatto che Gran Bretagna e Francia, già
alla fine della prima guerra mondiale, stessero ripensando le modalità di gestione
politica ed economica delle colonie, dando vita alla forma giuridica del mandato3,
evidenzia, secondo lo studioso, quanto le potenze colonizzatrici fossero consapevoli
della temporalità del sistema politico imperiale sorto nell’Ottocento. Il periodo tra le
2
Carlo Giglio, Colonizzazione e decolonizzazione, Mangiarotti editore, Cremona 1964, pp. 229-233.
3
Istituto creato dalla Società delle Nazioni per regolare, dopo la prima guerra mondiale, la sorte di
alcuni territori già dipendenti dalla Germania e dal disciolto Impero Ottomano: quei territori vennero
affidati ad alcune potenze vincitrici che si impegnarono a governarli secondo il principio che “il
benessere e lo sviluppo di tali popoli costituivano una missione sacra di civiltà”.

10
due guerre, sottolinea Giglio, è centrale per la comprensione di quello che successe
nelle colonie subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le élite, dei successivi stati
indipendenti, si erano infatti formate nelle scuole europee o presso gli ordini religiosi
nelle colonie, finendo poi a frequentare le università francesi ed inglesi, dove
impararono nozioni e principi come nazionalismo, indipendenza e rappresentanza
politica, concetti largamente usati durante la lotta per l’indipendenza. Giglio
considera tutto ciò un errore delle potenze coloniali, poiché queste nuove élite
divennero il primo nucleo di rivoluzionari e nemici della potenza coloniale.
Bernard Droz, storico eurocentrico, attraverso l’analisi del passato coloniale e
degli “errori” dell’imperialismo europeo presenta come cause basilari della
formazione di un’identità nazionale indigena la pacificazione coloniale e la
promozione al potere dell’élite. Per lo studioso francese, “nell’affermazione dei
nazionalismi, i mutamenti delle società coloniali rivestirono un ruolo cruciale. La
prima trasformazione avvenne grazie all’esplosione demografica…effetto della
pacificazione e del regresso delle carestie, ma soprattutto dell’istituzione di un
sistema sanitario…Le trasformazioni economiche prodotte dalla colonizzazione
furono altrettanto importanti, poiché il dualismo iniziale tra un’economia di
speculazione e un’economia indigena di sopravvivenza cedette il passo a
un’interpretazione parzialmente realizzata attraverso una serie di adattamenti. Il
boom coloniale degli anni venti favorì la rapida crescita del mondo
occidentale…moltiplicandone tuttavia gli effetti perversi nei confronti dei popoli
colonizzati” 4.
Lo studio approfondito di Dietmar Rothermund, invece, denota come le
caratteristiche occidentali imposte dagli stati europei alle colonie siano rimaste
inalterate nonostante l’indipendenza. Gli aspetti presi in considerazione dallo
studioso inglese riguardano: i confini delle nuove nazioni disegnati dagli europei a
seconda dei propri interessi politici ed economici e mai modificati; le nuove
istituzioni e costituzioni degli ex possedimenti che riprendono fedelmente le strutture
degli stati del vecchio continente; e lo stallo del sistema amministrativo e giudiziario,
a causa delle mancate riforme e delle difficoltà di avvicendamento dei dipendenti
pubblici5.

4
Bernard Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Mondadori, Milano 2010, pp. 16-25.
5
Dietmar Rothermund, Delhi 15 Agosto 1947: la fine del colonialismo, Il Mulino, Bologna 2000, pp.
227-231.

11
Molto spazio all'influenza dell'Europa sulla formazione dell'anticolonialismo
moderno ha dedicato G. Borsa, che ha introdotto nella storiografia italiana
l'espressione rivoluzione copernicana per indicare la fine dell'eurocentrismo come
metodo di interpretazione delle relazioni fra Europa e mondo colonizzato. Debitore
dell'illuminismo liberale, Borsa ritiene che sia stato l'impatto coloniale a scuotere le
società africane da uno stato virtualmente statico, rendendo possibile il ricorso ai
propri valori e alle proprie energie per pervenire alla modernizzazione e
all’indipendenza. Non riduce la rivolta anticoloniale solo al nazionalismo ma ad un
aspetto rivoluzionario che porta alla formazione del mondo moderno anche al di
fuori dell’Occidente6.
L’indagine di R.F. Holland si concentra sulle difficoltà degli imperi coloniali
nella prima metà del Novecento, che sorte sul finire della Prima Guerra Mondiale, si
aggravano durante la Seconda, segnando la fine del predominio politico
internazionale degli stati europei. A metà degli anni cinquanta il nuovo assetto
politico, con l’inizio della Guerra Fredda, congiunto alla crisi economica, dovuta alla
riconversione dell’economia di guerra, portò allo squilibrio tra gli interessi coloniali
europei e il resto del mondo, sfociando nel processo di decolonizzazione7.
In mezzo ai sostenitori della seconda concezione si segnala la teoria
dell’accademico Rudolf Von Albertini, che reputa essenziale la Seconda Guerra
Mondiale e l’assetto internazionale che ne è derivato per l’avvio del processo di
decolonizzazione. In aggiunta a quanto già detto da Rothermund, lo studioso
sottolinea come la guerra per l’egemonia europea venne interpretata dalle
popolazioni indigene come un segnale di debolezza degli stati coloniali, provocando
la nascita o la maturazione dei movimenti di opposizione nelle colonie. Causa di ciò
fu che,“a differenza della prima guerra mondiale, in cui, anche se fu sconfitta
addirittura una potenza coloniale, la Germania, i più caratteristici rappresentanti del
colonialismo, l’Inghilterra e la Francia, si presentarono come vincitori militarmente e
politicamente, potendo così affermare la loro forza nonostante la perdita di prestigio,

6
Giorgio Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Occidentale, Rizzoli, Milano 1977, pp. 150-
152.
7
R.F. Holland, European decolonization, 1918-1981: an introduction survey, MacMillan, London
1985, pp. 300-302.

12
la seconda guerra mondiale portò una inattesa quanto completa sconfitta militare
proprio di queste potenze, di cui alcune spettacolari proprio nei territori coloniali” 8.
Tra i sostenitori del terzo modello si pone Jean Chesneaux, che critica
profondamente il termine “decolonizzazione”, poiché lo considera un esplicito
riferimento alle decisioni assunte dalla madrepatria. La tesi sostenuta dal suddetto
storico imputa la trasformazione del rapporto tra lo stato metropolitano e le colonie
solamente alla lotta di liberazione e alla promozione dell’unità nazionale dei vari
movimenti nazionali. “La trasformazione del rapporto di preponderanza tra la
metropoli e colonie è dunque all’attivo del movimento nazionale, e deve essere
definita in termini asiocentrici, ma che possono valere anche per l’Africa, in
particolare per gli stati nordafricani, in una prospettiva, cioè, che offre il vantaggio di
mostrare in tutta la sua complessità il movimento nazionale stesso, in seno al quale la
lotta di liberazione contro l’Occidente non è che un aspetto tra gli altri: il movimento
infatti aspira anche a promuovere l’unità nazionale, e definirlo soltanto in rapporto
all’Occidente significa sminuirlo” 9.
Accanto a Chesneaux, Guy de Bosschère pone il decolonizzato come il solo e
principale artefice della decolonizzazione, poiché il colonizzatore tenendo in
considerazione la creazione di movimenti nazionali ha due scelte: opporsi con la
forza al cambiamento, come accaduto in Algeria o accettando la fine del proprio
dominio sugli altri popoli. “Nella migliore delle ipotesi, egli accetterà l’idea della
decolonizzazione quando appare inevitabile e collaborerà più o meno di buon grado
al suo avvento. Nella peggiore, vi si opporrà, e alla fine verrà travolto”10. Un
concetto molto interessante che ritroviamo in de Bosschère è la distinzione tra i
significati di indipendenza e decolonizzazione dato che, citando alcuni esempi
concreti riguardanti paesi latino-americani, “l’indipendenza non può, in alcun caso,
coincidere con la decolonizzazione, né identificarsi con essa. Nella migliore delle
ipotesi l’indipendenza corrisponde alla prima fase della decolonizzazione: la più
appariscente, ma la meno profonda”11.
Giampaolo Calchi Novati, noto africanista italiano, si concentra sulla
decolonizzazione non solo come fenomeno d’indipendenze nazionali, ma come forza
8
Rudolf Von Albertini, La decolonizzazione: il dibattito sull’amministrazione e l’avvenire delle
colonie tra il 1919 e il 1960, SEI, Torino 1971, pp. 70-73.
9
Jean Chesneaux, L’Asia nella storia di domani, Laterza, Bari 1967, pp. 276-277.
10
Guy de Bosschère, Storia della decolonizzazione, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 12-13.
11
Ibid., p. 43.

13
catalizzatrice di trasformazioni sociali interne ai nuovi stati, grazie al nazionalismo
che è fatto proprio dai movimenti di liberazione e di rivolgimenti nella politica
internazionale: basti pensare, ad esempio, al numero di paesi membri dell’ONU che
dagli anni sessanta vede la preminenza dei paesi “terzomondisti”12.
Dopo aver delineato i vari modelli a cui gli storici si sono ispirati, possiamo
dedurre che esistono delle connessioni fra la realtà creata nel passato dalla
colonizzazione e i fattori che hanno portato alla sua fine e all’indipendenza dei paesi
africani. A favore di questa tesi abbiamo citato molti storici che hanno una visione
completamente diversa tra loro, ma sono riusciti ad accertare che gli avvenimenti
negli ex possedimenti coloniali, tra gli anni cinquanta e sessanta, sono dovuti a ciò
che gli europei hanno fatto durante l’età imperiale fino alla Seconda Guerra
Mondiale. Ciò che viene affermato è che il processo storico è un’unitaria continuità
di svolgimento.

1.2 La storiografia e i problemi dei nuovi stati sorti in Africa

Si è aperto negli anni sessanta il dibattito sulla natura dello stato postcoloniale
in Africa, sugli aspetti giuridici ed ideologici che lo caratterizzano e lo differenziano
rispetto allo stato moderno occidentale. Verranno presi in considerazione gli aspetti
istituzionali e le varie politiche che sono state portate avanti nei primi anni
d’indipendenza. Successivamente si cercherà di comprendere i problemi economici
che affliggono le nuove entità statali, prendendo in considerazione anche il passato
coloniale e il ruolo “occulto” che viene giocato dall’Occidente attraverso una nuova
forma di colonialismo.

1.2.1 Caratteristiche politiche e problemi dello stato-nazione africano

Gli studi storici sui nuovi stati africani prendono in considerazione molteplici
aspetti politici. Il graduale processo di accentramento che si è compiuto nei primi
anni dopo l’indipendenza, a causa del lascito europeo di centralizzazione
amministrativa del potere coloniale, ha portato al rafforzamento dell’esecutivo, con
lo svuotamento di funzioni delle assemblee legislative, e al partito unico al potere,
dato che lo stato è il mezzo necessario, secondo le élite africane, per realizzare il

12
Giampaolo Calchi Novati, La decolonizzazione, Loescher, Torino 1983, p. 33.

14
sogno nazionale ed eliminare le divergenze etniche e tribali che esistono all’interno
del paese. É qui che si situa la relazione privilegiata tra amministrazione e partito
unico13. I grandi partiti politici africani sono sorti nel secondo dopoguerra sulla base
di formazioni politiche e movimenti culturali preesistenti, rifacendosi alle battaglie
delle vecchie entità pre-coloniali contro gli invasori europei.
Yvés Benot parte dal presupposto che la logica propria del movimento
nazionale in Africa, anche prima dell’indipendenza, esigeva un’organizzazione
politica unificata, capace di dare un senso alle aspirazioni nazionali nel loro insieme
e di opporre al potere coloniale la forza di pressione di un intero paese. Ovunque il
partito unico rappresenta l’unità della nuova nazione contro le forze di disgregazione
rappresentate da organizzazioni politiche su base tribale o regionale14. Gli studiosi ne
distinguono tre tipi: partiti a carattere elistico, caratteristici delle città più evolute
della costa occidentale ove è presente una classe indigena di professionisti e
commercianti legata all’economia di esportazione e culturalmente influenzata dal
liberalismo europeo; partiti pragmatico-pluralisti, come ad esempio il Partito
democratico della Costa d’Avorio di Felix Houphoüet-Boigny e il partito
nazionalista del Camerun Upc, Union des Peuples du Camerun, i quali riescono a
consolidare dietro di sé diversi gruppi, tribali e sociali, su programmi di moderato
progresso verso forme di autogoverno, nel rispetto della collaborazione di fondo con
la politica metropolitana e dei rapporti di interesse clientelari interni. Infine, partiti di
massa rivoluzionari, che si legano alle istanze portate avanti dai proletari e dalle
masse contadine, non cercando una sponda con gli strati borghesi legati alle strutture
di potere tradizionali15.
Vari studi, sulla base delle esperienze di gestione del potere dopo
l’indipendenza, hanno fornito alcuni elementi di critica ai sistemi di partito africani,
constatando il fallimento del pluripartitismo e dei regimi monopartitici, che ha così
portato al rafforzamento dell’amministrazione statale rispetto alle istituzioni
politiche. Ahmed Mahiou delinea il meccanismo di evoluzione verso il partito unico
in Africa, specificando le ragioni e i fattori che portano a tale evoluzione politica,
tentando di rilevarne le cause, la loro struttura organizzativa e le ideologie su cui si

13
Anna Maria Gentili, Africa come storia: Elementi del dibattito sulla natura della transizione nelle
società e nei sistemi africani, Franco Angeli editore, Milano 1980, pp. 143-144.
14
Yvés Benot, Ideologie dell’indipendenza africana, Editori riuniti, Roma 1976, p. 362.
15
Gentili, Africa come storia, cit., p. 146.

15
basano. Lo studioso algerino vede il partito unico africano come una via di mezzo tra
il partito unico presente nel blocco socialista e quelli presenti negli stati pluralisti,
simile al partito autoritario creato in Turchia da Ataturk nel 1923. Le cause della
nascita del partito unico, secondo Mahiou, sono essenzialmente due: la necessità
sociale di creare un carattere comunitario all’interno del nuovo stato e la volontà di
creare una vera nazione che si discosti sempre di più dal passato coloniale. Lo
studioso algerino completa la sua analisi sul divenire del partito unico, che rischia di
diventare uno strumento nelle mani delle élite che si sono poste al vertice della vita
politica del paese, utilizzandolo per preservare ed aumentare i privilegi economici
che gli procurano i posti dirigenziali che occupano all’interno dell’amministrazione
dello stato16.
I problemi del partito unico al potere provocano eventi traumatici all’interno
della struttura di potere, portando al colpo di stato militare in molte realtà africane.
Una tesi portata avanti da Calchi Novati propone il colpo di stato militare come la
soluzione inevitabile all’immobilismo politico dei nazionalisti africani, confermato
dal fallimento dei programmi da loro esposti al momento dell’indipendenza
nazionale 17.
Contrastanti opinioni dividono gli studiosi: c’è chi ha voluto vedere
nell’intervento militare uno slancio per la modernizzazione e coesione sociale delle
nazioni africane e chi, invece, lo trova come un ritorno alle tradizioni tribali ed
etniche dell’era precoloniale. Le caratteristiche prese in considerazione dagli storici
per cogliere al meglio le prese di potere degli eserciti vanno dalla composizione
etnica delle forze armate alla loro forza, fino allo studio della crisi economico-sociale
che attraversa i vari stati africani. Un passaggio importante nello studio storico di
questi avvenimenti riguarda il rapporto tra lo stato e le forze armate, visto che
l’intervento delle truppe ha il compito di spoliticizzare le istituzioni e metterle al di
sopra delle parti. Nella realtà, però, l’esercito cerca sponda in alcuni settori della

16
Ahmed Mahiou, L’avènement du parti unique en Afrique noire. L’expérience des États d’expression
française, coll.«Bibliothèque africaine et malgache. Droit et sociologie», Libraire générale de droit et
de jurisprudence, Parigi 1969, pp. 374-375.
17
Giampaolo Calchi Novati, Le rivoluzioni nell’Africa nera, Dall’Oglio editore, Milano 1967, p. 281.

16
società civile che possono essere d’aiuto nel ribaltare le strutture di potere nazionali,
in particolar modo quelle etnicamente più vicine ai militari18.
Gli storiografi considerano i colpi di stato del primo periodo, alla metà degli
anni sessanta, restauratori dell’ordine neocoloniale, messo in pericolo dalle politiche
dei governi civili, visti i rapporti stretti tra i vertici militari africani e quelli delle ex
metropoli. L’avvento delle forze armate porta alla restaurazione istituzionale e
politica di forme di governo simili all’amministrazione coloniale europea,
privilegiando i rapporti con le élite tradizionali e l’uso della forza. La presa di potere
dei militari, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, viene definita progressista, per
le vedute di ampio respiro dei più giovani ufficiali, in alcuni casi fautori del
socialismo, che capiscono il malessere popolare nei confronti della pessima gestione
politica monopartitica dello stato da parte della classe dirigente che ha condotto la
nazione all’indipendenza. Jacques Giri, storico francese, mostra come negli anni
settanta soltanto pochi paesi sfuggano all’azione dei militari che, nella maggior parte
dei casi, gestiscono direttamente il potere, con la creazione di comitati di salute
pubblica, oppure lo dividono con le élite nazionali, messe al potere dall’esercito per
controllare indirettamente le istituzioni19.
Il socialismo africano è un tema centrale all’interno dello studio storico sulle
ex colonie e viene descritto come un fenomeno politico originale a causa della
mancanza di un capitalismo locale, soffocato da quello straniero, che sfrutta una
parte della popolazione per arricchirsi20. Due studiosi francesi, Albert Mabileau e
Dimitri Lavroff, sottolineano come il socialismo africano adatti i grandi temi classici
alla realtà del continente, creando così una nuova ideologia che si mischia con i
valori tradizionali, tra cui la religione che è considerata un sostegno fondamentale al
socialismo 21.
Yvés Benot critica aspramente il socialismo africano, colpevole di giustificare
la situazione neocoloniale sul continente, di sfruttare i contadini per produrre materie

18
Nella maggior parte dei casi, in Africa, i militari venivano reclutati in una sola regione e quindi
l’apparato militare non può essere immune dalla politicizzazione delle differenze etniche e lotte fra
élite.
19
Jacques Giri, L’Africa alla fine del XX secolo: la decolonizzazione imperfetta, Paravia, Torino 1998,
p. 106.
20
Calchi Novati, Le rivoluzioni nell’Africa Nera, cit., p. 141.
21
Dimitri Lavroff e Albert Mabileau, L’Afrique noire contemporaine, Colin, Parigi 1968, pp. 364-
366.

17
prime da immettere nel mercato capitalistico e di utilizzare la dottrina socialista
senza un retroterra ideologico adeguato22.
Gli studiosi, inoltre, sottolineano come la strategia principale del socialismo
africano sia un monopolio esclusivo della classe dirigente al potere, incarnata dal
leader carismatico, che impone le proprie decisioni dall’alto senza mediazioni o
confronti. In pratica i modelli di socialismo, di stampo sovietico, vengono accettati
totalmente, comprese le nazionalizzazioni economiche e il rafforzamento
dell’apparato centrale dello stato. La statalizzazione non viene accompagnata dal
coinvolgimento popolare nel processo di organizzazione della produzione poiché,
secondo alcune analisi economico-politiche, non c’è stato nessun mutamento
produttivo e si è solo pensato al rafforzamento dello stato centrale. Il socialismo
rimane un’ideologia di vertice, una pedagogia che si deve diffondere con
l’educazione, con l’esempio e con la forza a popolazioni che devono imparare ad
apprezzarne i benefici e a cui si chiedono pesanti sacrifici nel presente. Da qui
proviene il forte accento moralistico dei socialismi africani23.
Il problema sociale degli stati indipendenti africani è stato molto dibattuto tra
gli storici negli ultimi decenni, viste le varie teorie che si sono susseguite dagli anni
cinquanta in avanti. Gli studi di scienza politica funzionalisti o comportamentisti, che
hanno prevalso nella ricerca sui sistemi politici africani negli anni cinquanta e
sessanta, hanno usato come oggetto di analisi le élite tradizionali e individuato quei
fattori, soprattutto l’istruzione, che hanno permesso l’emergere di classi dirigenti e ne
hanno determinato le caratteristiche.
Gli studiosi marxisti si sono trovati davanti alla difficoltà di individuare le
classi sociali, in una situazione in cui era esigua la presenza di lavoro salariato ed
inesistente la borghesia industriale dal momento che la maggior parte della
popolazione era impiegata nel settore agricolo. Negli anni settanta, una serie di studi
empirici ha riaffrontato il problema attraverso la ricerca delle trasformazioni nella
società, come conseguenza del cambiamento nei rapporti di produzione e delle
mutate dinamiche sociali. Oltre a ciò, vengono effettuati studi minuziosi sull’effetto
della penetrazione coloniale e le modalità di dominio europeo sulla formazione delle
classi sociali africane e sul loro sviluppo futuro24.

22
Benot, Ideologie dell’indipendenza Africana, cit., p. 210.
23
Gentili, Africa come storia, cit., p. 190.
24
Ibid., pp. 191-192.

18
Avendo toccato i principali temi sulle problematiche politiche degli stati
africani, non possiamo esimerci dal riconoscere anche in questo caso una continuità
temporale tra il colonialismo e la decolonizzazione. Se questi stati hanno avuto
problemi drammatici al loro interno, ciò è dovuto a come era stato distribuito e
mantenuto il potere coloniale, da parte degli stati europei, durante l’imperialismo.
Ciò si è perpetrato, in seguito, attraverso la manomissione della situazione politica
interna degli stati africani, grazie all’appoggio delle vecchie élite civili e militari e
del capitalismo internazionale.

1.2.2 Lo studio economico dei paesi di nuova indipendenza

Molti studiosi, europei e non, hanno indagato i problemi economici dei paesi
di nuova indipendenza, cercando una spiegazione al sottosviluppo in determinate
aree del mondo. Uno studio approfondito non è completo se non si analizza la
struttura economica coloniale europea e l’eredità che ha lasciato ai nuovi stati
indipendenti, rendendoli, con alcune eccezioni, economicamente e finanziariamente
deboli rispetto ai paesi degli altri continenti. Un punto importante da dove far partire
l’analisi riguarda il controllo governativo europeo, da cui iniziavano i vari
modellamenti della vita economica nelle colonie, che andavano in due direzioni: i
rapporti tra la colonia e il resto del mondo, attraverso le tariffe e la politica
monetaria, e i rapporti interni su problemi quali l’uso del terreno, l’uso del fattore
lavoro e l’intervento governativo negli affari economici25. Importanti erano le
politiche interne dei vari governi coloniali, poiché erano loro a prendere le decisioni
più importanti che portavano a cambiamenti nel sistema economico-fiscale
nazionale.
Lo storico David K. Fieldhouse ha indagato sull’amministrazione coloniale,
prendendo ad esempio il sistema britannico, francese e belga e arrivando alla
conclusione che i freni alle politiche economiche interne sono da ricercare nelle
misure finanziarie, basate solamente su elementari parametri fiscali e
sull’investimento pubblico nella costruzione di infrastrutture. L’unico settore in cui si
perseguì una politica attiva fu l’agricoltura, dal momento che forniva gran parte delle
esportazioni consentendo le importazioni, sulle quali si potevano imporre i diritti

25
David K. Fieldhouse, Politica ed economica del colonialismo 1870-1945, Laterza, Roma-Bari 1995,
pp. 123-124.

19
doganali, i cui proventi sostenevano il costo dell’amministrazione. Successivamente,
lo studioso cerca di contestualizzare l’agricoltura attraverso l’analisi dei vantaggi e
degli svantaggi del sistema delle piantagioni, del ruolo dei contadini e della scelta tra
la coltura d’esportazione e l’agricoltura di sussistenza, e l’industria nelle colonie
attraverso gli esempi dell’India britannica, del Congo Belga e dell’Africa occidentale
francese. In quest’ultimo caso, le tre analisi sui possedimenti coloniali portano
l’autore a dimostrare che il fenomeno è da attribuirsi al fatto che pochissime società
extraeuropee possedevano la mentalità, le capacità e i capitali necessari per avviare
da sole un processo di industrializzazione. Al contrario, la produzione industriale
venne ignorata: lo stato non incoraggiò attivamente gli imprenditori indigeni a
investire nella produzione di manufatti industriali locali e non forniva finanziamenti
a medio o lungo termine per assistere i potenziali capitalisti. L’impero non fu di per
sé la causa della modesta crescita dell’industria che si verificò, ma fino agli ultimi
decenni dell’epoca coloniale le autorità imperiali accettarono troppo facilmente la
tesi che l’industria fosse il prodotto di circostanze naturali che non bisognava
forzare26. Fieldhouse, partendo da questa analisi, vede una divisione nella
storiografia, tra chi reputa che le colonie siano divenute dei semplici satelliti del
capitalismo internazionale, sfruttandole per le loro materie prime, e chi ritiene il
colonialismo un metodo potenzialmente valido per assistere le società
precapitalistiche a compiere i primi passi per accedere allo sviluppo, anche se i
risultati concreti del periodo coloniale furono deludenti27.
Uno studio importante sull’economia dei paesi terzomondisti è il saggio Lo
sviluppo ineguale: saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico di Samir
Amin, noto economista marxista egiziano, in cui si indagano le conseguenze
dell’azione economica dei governi indipendenti, come ripercussioni della politica
coloniale europea28. Il primo punto analizzato è il predominio del capitalismo
agrario, generato dallo scontro tra il latifondo capitalistico e la comunità contadina,
per far integrare il settore primario all’interno del mercato mondiale. La
predominanza del capitalismo agrario, non avendo sfogo nell’industrializzazione,
trova il suo sbocco naturale nell’espulsione di manodopera dal settore agricolo,

26
Ibid., p. 191.
27
Ibid., p. 156.
28
Samir Amin, Lo sviluppo ineguale: saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico,
Einaudi, Torino 1977, p. 359.

20
comportando l’aumento dei contadini senza terra che si spostano verso le città,
nonostante i pochi lavori presenti nei vari centri urbani africani per la popolazione
indigena29. Successivamente, Amin tratta il capitalismo commerciale associato
all’agricoltura d’esportazione, portato avanti da una borghesia urbana che si è
formata molto lentamente a causa degli ostacoli posti dal processo di colonizzazione
europeo e dalla poca capacità di sviluppo dei commercianti tradizionali, per i pochi
mezzi finanziari a disposizione e per la concorrenza dei grandi monopoli
commerciali istituiti dalle colonie all’inizio del XX secolo. Inoltre, ciò è stato
accentuato dall’assenza di una ricca aristocrazia fondiaria, che avrebbe potuto
fondersi con la borghesia commerciale, accelerando il ritmo di accumulazione di
beni, e dalla ristrettezza dei mercati africani, che diminuirà con l’accesso
all’indipendenza. La fioritura di una borghesia nazionale è stata favorita
dall’appoggio del potere politico locale e dallo spostamento di interessi del capitale
straniero verso il grande complesso industriale o minerario e non più del settore
commerciale. La borghesia nazionale non avendo i mezzi per imporsi sul mercato
nazionale ed internazionale, continua ad avere legami con il capitale straniero,
lasciando interi settori nelle mani degli occidentali. In altre parole, è la borghesia
africana ad avere e richiedere un ruolo nel processo produttivo, diventando borghesia
di stato che si appropria di un surplus generato dalle forze produttive del paese
mediante il controllo statale dell’economia, rimanendo dipendente dalle forze
capitaliste occidentali. Un altro aspetto da non sottovalutare è il ruolo giocato dalle
burocrazie nazionali, che, avvicinandosi e uniformandosi alla borghesia privata,
avviano un processo di sviluppo economico statale. Ciò comporta la
marginalizzazione delle classi sociali più deboli, a causa dell’ineguaglianza nella
distribuzione del reddito, che aumenterà con il passare del tempo, visto che la classe
dirigente dei paesi africani ha il solo problema di rimanere al potere, garantitogli
dalle concessioni fatte alle multinazionali occidentali che ricoprono d’oro i governi
nazionali30.
Pure Giovanni Arrighi, noto sociologo italiano, cerca di mostrare le
dinamiche dello sviluppo economico africano, cogliendo l’essenza del sottosviluppo
e provando ad individuare gli aspetti di una strategia di rilancio economico e politico
del continente. Tenta di identificare i fattori che concorrono a determinare la realtà

29
Ibid., pp. 360-365.
30
Ibid., pp. 370-380.

21
dell’Africa contemporanea e a quali forze va attribuita la dinamica dello sviluppo
squilibrato e, come processo di natura continentale, presuppone un’attenta
valutazione della struttura degli interessi del capitalismo occidentale in Africa. Ciò
suggerisce due ipotesi di importanza cruciale: a causa della più diretta presenza delle
grandi società multinazionali, in quel poco d’industrializzazione che ha luogo nelle
periferie, si è assistito a un’espansione degli interessi capitalistici occidentali nel
mondo sottosviluppato; secondariamente, i fattori che determinano la spinta
all’esportazione di capitale dai centri capitalistici avanzati hanno essi stessi subito
una vistosa trasformazione sotto la spinta della rivoluzione tecnologica postbellica.
La combinazione di questi due nuovi aspetti dello sviluppo capitalistico su scala
mondiale ha finito con il determinare una vera e propria «seconda fase» del
predominio capitalistico31. Il capitalismo straniero, secondo Arrighi, vorrà garantire
la continuazione del flusso di profitti e pagamenti, di diversa natura, e di orientare
quel tanto di industrializzazione che può aver luogo in Africa, in modo tale da far
dipendere il tutto dai centri capitalistici industriali degli stati occidentali, interagendo
con i loro interessi nazionali. Da qui hanno inizio i rapporti neocoloniali, come ad
esempio le ex colonie francesi che hanno rapporti con la Francia attraverso i
meccanismi della zona franca e gli accordi stipulati nel Mercato Comune, ed anche la
Gran Bretagna e il Belgio hanno salvato i propri privilegi sui vecchi possedimenti
nonostante il processo di decolonizzazione. Arrighi nota come il poco mutamento
che ha interessato la natura della presenza capitalistica nel continente ha avuto
l’effetto di accrescere la dipendenza strutturale delle economie dell’Africa
indipendente dai centri capitalistici avanzati. Questa presenza è caratterizzata
dall’impiego di tecniche produttive ad alta intensità di capitale e da bassi tassi di
reinvestimento del surplus generato, specialmente nel settore dei beni strumentali e,
l’accelerazione della crescita economica finisce con il dare luogo in poco tempo a
carenze di valuta estera, che lasciano i paesi africani alla mercé di una prevedibile
gamma di pressioni politiche, inducendo quasi sempre a soggiacere alla tentazione di
compromessi economici con governi e investitori privati stranieri32.
La struttura sociopolitica interna degli stati africani è direttamente legata a
queste tendenze, vista l’inesistenza e il lento formarsi di un proletariato classico, che
in Africa tende a polarizzarsi in uno strato più basso, che trova un po’ di benessere

31
Giovanni Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Einaudi, Torino 1969, p. 282.
32
Ibid., pp. 284-288.

22
grazie ad attività svolte al di fuori delle attività lavorative, che Arrighi inserisce nel
mondo contadino, e uno più alto, che percepisce redditi abbastanza elevati da
giustificare la rottura con le campagne. Le contraddizioni di classe in Africa sono
meno drammatiche rispetto a molte altre regioni del mondo e sono mascherate da
componenti razziali, etniche e nazionalistiche, che ostacolano lo sviluppo di
condizioni soggettive propizie alla realizzazione di mutamenti radicali. Un aiuto ad
uscire da questo sottosviluppo, aggiunge Arrighi, potrebbe e dovrebbe arrivare dagli
intellettuali e da disciplinati movimenti politici che potrebbero spingere verso un
cambiamento radicale della situazione sociale nei vari paesi africani. In buona parte
dell’Africa indipendente la necessità storica oggi predominante è quella di una lotta
ad oltranza contro i regimi che su di essa incombono, per quanto difficile possa
essere il compito33. Per il sociologo italiano, le problematiche economiche dei paesi
africani di nuova indipendenza sono dovute alla conquista e spartizione europea di
fine Ottocento, che ha creato una cesura traumatica nella sfera culturale, sociale e
politica. Tutto ciò viene accentuato dal prolungamento della soggezione occidentale
nei confronti degli africani, a causa dell’apertura dell’economia al capitalismo
internazionale e alla compiacenza dei governi e delle élite nazionali. Il continuo
interferire da parte degli occidentali nella preparazione economica e nello sviluppo
dei paesi africani ha portato quest’ultimi in una situazione generale di sottosviluppo,
che porta il capitalismo occidentale ad arricchirsi sfruttando le materie prime del
continente, lasciando in una situazione di indigenza la quasi totalità della
popolazione34.
Una soluzione ai problemi economici dei paesi terzomondisti viene dettata da
Fernand Braudel, importante storico francese, che, analizzando la situazione di questi
stati, vede necessaria una miglioria all’agricoltura risolvendo i problemi di tecnica e
di politica agraria, impiantare imprese industriali e collegarle ogni volta all’economia
dell’intero paese, risolvere la questione degli investimenti, perché implica aiuti
stranieri, ed educare e formare la manodopera attraverso l’insegnamento e la
formazione tecnica35.
Il risultato degli studi sulla situazione economica dei paesi africani, porta a
prendere in seria considerazione l’idea di una perpetrazione di errori dall’epoca

33
Ibid., pp. 320-321.
34
Ibid., pp. 345-346.
35
Fernand Braudel, Il mondo attuale, vol. II, Einaudi, Torino 1966, pp. 136-137.

23
coloniale all’indipendenza, a causa dell’influenza occidentale in alcuni settori di
primaria importanza, come il comparto industriale – siderurgico. Come vedremo nel
paragrafo successivo, la quasi totalità delle colpe di un mancato sviluppo economico
dei paesi africani è da ricercare in questi rapporti, in cui le borghesie nazionali,
nonché i governi, hanno la loro abbondante dose di colpa.

1.3 Neocolonialismo

Il concetto di neocolonialismo fu coniato dai marxisti francesi alla fine degli


anni cinquanta e recepito dai dirigenti delle ex colonie africane ed asiatiche nel
decennio successivo, portato avanti, tra gli altri, dal presidente ghanese Nkrumah, ed
incorporato all’interno delle tesi dei neomarxisti. I primi studi sul neocolonialismo
sono stati effettuati sui paesi dell’America Latina, vista la loro lunga storia di
indipendenza politica e dipendenza economica, grazie a studiosi come Andre Frank e
Keith Griffin, che hanno cercato di interpretare il neocolonialismo di oggi in Africa e
in Asia in base a quell’esperienza. I dirigenti degli stati africani indipendenti
descrivevano il neocolonialismo come la sopravvivenza del sistema coloniale, a
dispetto dell’indipendenza politica delle ex colonie, a causa di un nuovo tipo di
dominazione da parte di forze politiche, economiche, sociali e militari. Nella
maggior parte dei casi, il neocolonialismo imponeva i suoi dogmi economici sui
paesi più deboli con il perdurare della dipendenza economica dal potere coloniale,
l’integrazione in blocchi economici coloniali, l’infiltrazione economica attraverso
investimenti di capitale, prestiti, aiuti, concessioni ineguali e mezzi finanziari
controllati dalle potenze coloniali. Secondo i neomarxisti, lo scopo principale del
neocolonialismo era l’impiego dell’apparato statale delle potenze coloniali per
trasferire il potere politico a una classe dirigente nazionale in modo da mantenere i
territori nel sistema capitalista mondiale.
Barrat Brown, studioso inglese, individua nel deposito nelle metropoli delle
riserve valutarie delle ex colonie francesi e britanniche, nella perdurante presenza sul
suolo delle ex colonie di società aventi la sede centrale nella metropoli e il ruolo
svolto dalle banche metropolitane nell’attrarre il risparmio locale come elementi
importanti nella creazione del legame neocoloniale36. Lo schema neocoloniale di
sviluppo economico dipendente è stimolato dalle grandi società transnazionali, che

36
Barratt Brown, L’economia dell’imperialismo, Laterza, Bari 1977, pp. 267-268.

24
utilizzano il capitale locale e coinvolgono lo Stato dei paesi sottosviluppati in una
divisione del lavoro che assegna certi processi ad aree aventi lavoro a basso costo,
come un tempo erano le piantagioni coltivate da schiavi, contravvenendo agli ideali
che hanno spinto le ex colonie a rendersi indipendenti e ad unirsi nel gruppo dei non
allineati. Ciò è dovuto al fatto che, i vari movimenti di liberazione tendono, oltre che
a disintegrarsi, a ricercare un compromesso con le potenze coloniali da cui essi si
vogliono liberare. In aggiunta, nelle classi dirigenti dei governi che si sono succeduti
alle istituzioni coloniali vi si trovano capitalisti locali, proprietari terrieri feudali e
mediatori indigeni che operano come agenti del capitalismo. Le forme populiste di
governo sono state abbattute perché non sono riuscite a sviluppare un loro processo
economico e i diversi interessi si alleeranno in maniera differente con le imprese di
proprietà estera. L’unico modo che hanno gli stati sottosviluppati per controllare la
propria economia, secondo Brown, è la nazionalizzazione delle attività delle società
estere perché senza questo provvedimento i loro tentativi di controllare i profitti o la
bilancia commerciale dello stato possono essere facilmente neutralizzati dalle
politiche di fissazione dei prezzi delle società capitalistiche. Lo studioso inglese
conclude la sua analisi sul neocolonialismo affermando che il perdurante interesse
dei capitalisti comporta più investimenti in attività manifatturiere che nella
produzione primaria, implicando un certo sviluppo economico, ma di natura
dipendente; nel contempo, la mancanza di un loro interesse in uno sviluppo più
rapido mostra come l’obiettivo principale dei gruppi capitalisti metropolitani non fu
l’espansione dei mercati ma il mantenimento del processo produttivo nell’ambito del
sistema capitalista. Questo è per Brown il significato di neocolonialismo; in tale
contesto la realtà cruciale è rappresentata dalla simbiosi tra la grande società
transnazionale e lo stato nei paesi sottosviluppati37.
Jack Woddis, autore di An Introduction to Neo-colonialism, oltre a
denunciare i tratti caratteristici del neocolonialismo, punta l’indice nei confronti dei
governi locali, formati da esponenti della feudalità, della piccola e grande borghesia,
poiché preferiscono lasciare il proprio paese nelle mani degli stranieri, accettando
ogni forma di aiuto, che si trasformerà in dipendenza, piuttosto di avviare la pratica
socialista38.

37
Ibid., pp. 297-298.
38
Jack Woddis, An Introduction to Neo-colonialism, Lawrence and Wishart, Londra 1967, pp. 87-88.

25
Jacques Vignes, giornalista francese, approfondisce il discorso di Woddis
analizzando gli accordi tra le élite locali e i vari poteri capitalistici occidentali, il cui
compromesso porta all’arricchimento individuale e rapido dei primi, che utilizzano la
soluzione più facile senza sviluppare economicamente il proprio paese. Nonostante le
battaglie per l’indipendenza, i beneficiari dei posti di potere retrocedono poco alla
volta dalle loro posizioni causando la creazione di nuove strutture di sfruttamento
economico di modo che l’antagonismo potere politico – potere economico si
modifica, portando quest’ultimo ad insinuarsi nella sfera tecnica e finanziaria fuori
dalla portata delle ambizioni immediate dei nativi. Vignes aggiunge che il potere
politico, come il vecchio sistema amministrativo coloniale, è interessato solamente
alla spartizione dei posti amministrativi, degli affari commerciali e dei terreni
agricoli39.
Lo storico francese Guy de Bosschère utilizza un punto di vista diverso dai
precedenti e vede nel neocolonialismo una maggiore influenza americana nella
politica internazionale rispetto al passato coloniale. L’azione neocoloniale, o
coloniale, porta con se degli strascichi politici e militari nei paesi del terzo mondo, se
questi “disubbidiscono” alle direttive occidentali, perché ciò di cui Washington ha
paura è il minimo sussulto rivoluzionario e nazionalistico. Questo atteggiamento,
secondo de Bosschère, è dovuto alla paura degli USA di non poter continuare a
tenere il loro standard di vita, avendo il timore di rialzi dei prezzi delle materie prime
da parte dei governi terzomondisti e nazionalisti, al quale rispondono attraverso
l’instaurazione di dittature, di governi fantoccio oppure cercando sponda nelle
oligarchie militari40.
Il punto d’arrivo degli studi storici sul neocolonialismo ha come termine
comune il problema della continuità di rapporti di inferiorità da parte delle ex colonie
nei confronti del mondo occidentale, non soltanto degli stati europei, come abbiamo
visto in precedenza. Ciò porta a problemi di ordine economico che non sono
risolvibili continuando su questa strada e la maggior parte degli studiosi è d’accordo
sul tentare vie diverse, come il socialismo, piuttosto che mettersi nelle mani del
capitalismo occidentale, che stringe le cinghie nei confronti dei paesi in via di
sviluppo grazie agli aiuti dati da istituzioni internazionali, come ad esempio il Fondo
Monetario Internazionale o la Banca Mondiale. Se queste maglie non saranno

39
Jacques Vignes, Sguardo sull’Africa, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 162-163.
40
de Bosschère, Storia della decolonizzazione, cit., pp. 55-59.

26
allargate i paesi africani, ma anche di altri continenti, non arriveranno mai al pieno
sviluppo economico.

1.4 Postcolonialismo e Subaltern Studies: un nuovo metodo storico

Gli studi postcoloniali hanno avuto uno sviluppo importante, a partire dagli
anni ottanta, nelle accademie anglosassoni come campo di studi trasversale a molte
discipline umanistiche, ad esempio: letteratura, storia, antropologia e filosofia
politica. Alcuni dei problemi iniziali di questa nuova disciplina stanno nel suo
ambiguo termine, che per alcuni richiama il postmoderno e la teoria decostruzionista
mentre per altri ha effetti contraddittori poiché si va nella direzione di un concetto
contenitore dove è possibile riscontrare teorie differenti tra loro41.
L’espressione postcoloniale, diffusa già negli anni sessanta, fu una creazione
dei sociologi dello sviluppo che analizzavano il processo di decolonizzazione, il
crescente desiderio di modernizzazione e la situazione politica, economica e sociale
dei nuovi stati indipendenti. Negli anni successivi, però, fu utilizzato il termine
neocolonialismo, utile per spiegare la continuità dell’imperialismo in alcuni settori
dei nuovi stati. La voce postcolonialismo viene ripresa all’interno della critica
letteraria britannica che, alla fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, prenderà il
nome di letteratura postcoloniale attenta alla comprensione, all’analisi e
all’approfondimento degli effetti culturali della colonizzazione sui popoli indigeni. I
teorici del postcolonialismo, che hanno dato un contributo fondamentale alla nascita
della disciplina, sono essenzialmente Edward W. Said, Homi K. Bhabha e Gayatri
Chakravorty Spivak che hanno instaurato un legame tra la problematica
postcoloniale e le tematiche del poststrutturalismo e postmodernismo 42.
Un ruolo di prima importanza è attribuito al saggio Orientalismo di Edward
W. Said, dato che nei postcolonial studies si crea un ampio dibattito sui temi portati
in auge dallo studioso di origini palestinesi sul carattere culturale della fase
imperialistica di fine Ottocento. Riprendendo e rielaborando i concetti e i pensieri di
due intellettuali molto importanti del Novecento come il filosofo francese Foucault e
l’intellettuale comunista Antonio Gramsci, mette in risalto il carattere mistificatorio

41
Miguel Mellino, La critica postcoloniale: decolonizzazione, capitalismo e cosmopolismo nei
postcolonial studies, Meltemi, Verona 2005, pp. 18-21.
42
Ibid., pp. 30-33.

27
della nozione di Oriente. Orientalismo è l’indagine e la rappresentazione di un
capitolo di storia tra i più complessi, dal XVIII secolo fino ai giorni nostri, in cui
l’autore cerca di individuare le motivazioni ideologiche e culturali che hanno dato
vita ad un vero e proprio stile di pensiero, in cui la cultura e la coscienza europea
hanno cercato di conoscere, di appropriarsi e di dominare l’Oriente trasformandolo in
un luogo desolante e non civilizzato in cui risiedevano altri popoli, diversi dalla
incivilita Europa. L’obiettivo principale di Said in Orientalismo, come più volte è
stato sottolineato, non era tanto la critica di una qualche falsa nozione dell’Oriente
presente nell’immaginario collettivo della cultura occidentale quanto rendere
problematica la stessa idea di Occidente minando alla base la legittimità dei suoi
criteri di rappresentazione. A partire dalla strada aperta da Michael Foucault
nell’analisi della nascita dell’ordine culturale moderno, ciò che Said voleva
dimostrare era che il dominio dell’Occidente sull’Oriente funzionava anche
attraverso la produzione di certi discorsi sull’altro43. In Cultura e Imperialismo,
l’altro importante saggio di Said, l’autore sostiene in modo esplicito che il
colonialismo moderno ebbe il ruolo decisivo nella costruzione del paradigma della
società occidentale e della cultura europea. Le nozioni espresse da Said nelle sue
opere, in particolar modo in Orientalismo, hanno avuto delle ripercussioni sui
concetti espressi dalla teoria sociale e dallo studio dei rapporti culturali tra
l’Occidente e gli altri, in particolar modo in discipline quali l’Antropologia e la
critica letteraria. Orientalismo e le sue premesse sono alla base dei successivi lavori
postcolonialisti da parte di Spivak, Bhabha ed altri, le cui teorie costituiscono i punti
di partenza per la nuova metodologia di studio.
Gayatri Chakravorty Spivak, importante esponente del femminismo
americano e globale, considera l’intero campo del pensiero sociale moderno, e le sue
categorie conoscitive, del tutto pervase dalla logica eurocentrica, imperialista e
razzista da parte del potere coloniale, portando l’esempio della letteratura britannica
che è analizzata solo in base al colonialismo. Il termine postcoloniale, quindi,
significa una presa di distanza dai gradi di rappresentazione e valutazione tipici della
superiorità coloniale, ed occidentale, a livello mondiale. In altre parole, la teoria
postcoloniale concentra il suo sguardo critico sui miti del colonialismo occidentale,
sul processo di violenza epistemologica condensato nella scrittura occidentale del sé,
dell’altro e quindi della Storia. Un compito che, dall’ottica degli stessi autori

43
Ibid., p. 45.

28
postcoloniali, non può essere considerato affatto come secondario o attinente solo ad
aree ristrette o specialistiche della teoria sociale. L’obiettivo della critica
postcoloniale sarà quello di restituire soggettività e autorevolezza alla voce dell’altro,
rifiutando il suo assoggettamento entro le proprie categorie cognitive mentre il
prossimo sarà la decentralizzazione o la decolonizzazione del discorso imperialista,
strutturato a partire dalla contrapposizione e il rapporto tra il centro (l’Occidente) e la
periferia (il resto del mondo comunemente chiamato Terzo mondo) 44.
Homi Bhabha descrive la critica postcoloniale come testimone delle
diseguaglianze che si trovano nelle rappresentazioni culturali che agiscono nel
contesto politico e sociale mondiale. Le prospettive postcoloniali, per lo studioso
indiano, si possono ricavare dalla testimonianza coloniale nel Terzo Mondo e dalle
minoranze che si sono ritrovate al centro di dispute internazionali, tra l’Occidente e
l’Oriente e il Nord e il Sud del mondo, in cui l’approccio viene formulato attraverso
revisioni critiche sui temi della differenza culturale, dell’autorità sociale e della
discriminazione politica. Lo studio di Bhabha si rifà, in particolar modo, alle
comunità subalterne per descrivere la destrutturazione della modernità in cui il noi
occidentale, soggetto alla critica dell’Altro, finisce per scoprire in sé un’alterità
capace di destabilizzare certezze e pretese egemoniche45.
Un campo di studi che si è sviluppato negli ultimi decenni del Novecento,
riprendendo alcuni temi cari al postcolonialismo, ha preso il nome di Subalter
Studies, sorto in India grazie alle ricerche portate avanti da Ranajit Guha, il cui
intento era di lacerare la tela concettuale che la storiografia colonialista, ma poi
anche quella nazionalista e una parte consistente di quella marxista, ha steso attorno
all’esperienza coloniale, per riportare alla luce l’intreccio complesso di dominio e
resistenze, di violenza e di insubordinazione, che ne ha materialmente costituito la
trama. Gli studi subalterni aprono all’esperienza politica e sociale dei dominati, in
cui Guha e altri studiosi si sono applicati a studiare rivolte contadine e operaie in cui
venivano inseriti frammenti di tradizioni religiose e saperi magici. In più si cercava
di far emergere il continuo scontro e la negoziazione tra le componenti elitarie e
subalterne nella definizione di pratiche politiche e del nazionalismo, in questo caso

44
Ibid., pp. 46-47.
45
Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi editore, Roma 2001, pp. 11-34.

29
indiano46. Il concetto di subalterno47, ripreso dai Quaderni dal carcere di Antonio
Gramsci, consente di rielaborare il disagio avvertito dall’insieme del marxismo extra-
occidentale, a causa di una definizione del soggetto rivoluzionario interamente
ricalcata sulla classe operaia metropolitana. Inoltre, consente di definire i soggetti
dominati in una situazione in cui, ancora nei termini gramsciani impiegati dagli
storici della subalternità, il dominio funziona senza curarsi di stabilire un’egemonia.
Guha si è dedicato, nelle prime fasi di sviluppo dei Subalter Studies,
attraverso saggi come La prosa della contro-insurrezione ed Elementary Aspects of
Peasant Insurgency in Colonial India, allo studio delle insurrezioni contadine nel
XVIII e XIX secolo, dove il contadino è il paradigma della condizione subalterna:
imparava a riconoscersi non per la proprietà e gli attributi della sua propria esistenza
sociale, ma per la negazione o diminuzione di quelli dei suoi superiori. Il riscatto dei
contadini, che corrisponde all’indicazione della fine della subalternità come motivo
delle rivolte anticoloniali, diventa il compito fondamentale che Guha e altri studiosi
si fanno carico nelle loro ricerche. Nella prospettiva dei Subaltern Studies, il termine
postcolonialismo è privo di valenze apologetiche: se infatti la fine della subalternità
costituisce uno dei fili rossi di una storia coloniale attraversata e determinata
dall’iniziativa delle masse subalterne, la storia che viene ricostruita è la storia di un
fallimento48.

46
Ranajit Guha, Gayatri Chakravorty Spivak, Subaltern Studies: modernità e (post)colonialismo,
Ombre Corte, Verona 2002, pp. 10-11.
47
Il concetto di subalterno viene ripreso dai “Quaderni dal carcere” di Antonio Gramsci, in cui
l’intellettuale italiano utilizza questo termine per connetterlo a quello di blocco sociale o blocco
storico in cui cerca di non ridurlo al solo proletariato urbano industriale o, all’opposto, alle moltitudini
rurali dei diseredati. La definizione di blocco sociale è conseguente all’introduzione della questione
meridionale, come grande questione nazionale, nella strategia politica del PCd’I, che trova un primo
momento essenziale di elaborazione nelle Tesi di Lione e quindi nel saggio del 1926. Il tema della
riforma agraria, come grande questione egemonica, oltre a segnare la politica delle alleanze nella
rivoluzione dell’ottobre del 1917, è la questione cruciale che emerge sia nella rivoluzione francese sia
nel Risorgimento italiano, tanto da connotare il diverso esito delle due esperienze storiche. La vittoria
dei giacobini, che seppero porre la questione della riforma agraria legando a sé le masse contadine, e il
fallimento delle prospettive democratiche del Risorgimento italiano, per l’indisponibilità da parte del
Partito d’Azione a fare altrettanto. Per una più ampia visione del concetto di subalterno e la sua
correlazione con i Subaltern Studies si veda: http://www.resistenze.org/sito/te/cu/sc/cusc9d02-
004718.htm .
48
Guha e Spivak, Subalter Studies: modernità e (post)colonialismo, cit., p. 13.

30
Nei due approcci di studio esaminati in precedenza, l’Occidente ha costruito
la propria immagine contrapponendosi all’altro, cancellando ogni valore alle identità
dei popoli extra-europei che non servissero a rinforzare l’identità occidentale. Il
termine Occidentalismo, usato da Carla Pasquinelli nell’omonima raccolta di saggi
da lei curata, sta prendendo un’accezione esplosiva, a causa del suo distorto utilizzo
in cui le rappresentazioni delle altre culture hanno conferito loro sostanza e identità
ritagliate su misura di tutto ciò che noi rifiutavamo di essere. In fondo è da qui che ha
inizio la contrapposizione tra gli Occidentali e gli Altri, in modo tale che i primi si
potessero rappresentare come moderni, civilizzati, superiori e sviluppati mentre il
resto del mondo veniva raffigurato come la negazione di ciò che l’Occidente
immaginava o desiderava essere. In altre parole, la formazione dell’identità
occidentale moderna dipende molto di più di quanto non avremmo mai sospettato,
prima di leggere il libro di Said, dalle costruzioni culturali dell’esotico, del primitivo,
del nero, cioè dalla nostra particolare percezione dei non europei. Ma è proprio qui
che sta la malattia dell’Occidente: il suo Occidentalismo. L’avere fatto dell’Altro lo
specchio rovesciato del sé, mortificandolo in un ruolo subalterno proprio nel
momento stesso in cui lo veniva identificando. I concetti espressi portano a due idee:
una vede l’Occidentalismo come deriva dell’Occidente e l’altra come il male
assoluto che ne è parte integrante. Il punto di divisione tra queste due posizioni sta
nella critica dell’Illuminismo e della razionalità occidentale che ha proposto, e che
attraverso l’idea teleologica di progresso ha diviso il mondo tra un Occidente
moderno e un Altro primitivo: la prima posizione ritiene il colonialismo un
antagonista dell’Illuminismo, la seconda posizione ritiene che il colonialismo ne sia
stata la massima espressione. Queste prospettive teoriche spingono oggi gli
intellettuali a cercare un nuovo concetto moderno di Storia che revochi le vecchie
teorie di filosofia della storia, che postulavano il vecchio continente come il centro
dell’umanità, e le discipline comparatistiche che facevano dell’Europa il punto di
irradiazione di una modernità destinata ad estendersi a tutto il mondo49.
Di ciò che l’Occidentalismo ha distorto fa parte anche l’Africa, in cui la
nozione di assoluta alterità è condotta ai massimi per avere la funzione di argomento
polemico usato dall’Occidente per definirsi diversamente dal resto del mondo,

49
Carla Pasquinelli, Occidentalismi, Carocci, Roma 2005, p. 9-11.

31
costruendo un’immagine di sé ed integrandola all’insieme dei significati in grado di
riaffermare quella che esso stesso immagina sia la propria identità50.
Achille Mbembe, filosofo camerunense e importante teorico del
postcolonialismo, all’interno della suo saggio Postcolonialismo, esorta gli africani a
sradicare la mentalità che li vede subalterni attraverso la ripresa dello studio sulla
storicità delle società africane, trovando dei collegamenti con la realtà politica,
sociale e culturale odierna. Ciò porta a problemi metodologici e di definizione, a
causa degli scarsi studi di scienza politica ed economica e al cambiamento della
storiografia, dell’antropologia e della critica femminista che, nel giro di pochi anni,
passano da una dimensione marxista ad una lotta di rappresentazione. Mbembe, nei
suoi studi, fa riferimento a dei collegamenti tra la postcolonia e il passato coloniale,
in particolar modo nella sfera governativa, dove il modello principale continua ad
essere quello basato sulla violenza, che porta alla distruzione di ogni legame sociale
e all’assoggettamento del nativo, sprovvisto dei suoi diritti. Ciò porta i nativi alla
dolorosa scelta tra l’asservimento e il degrado morale per sopravvivere all’interno
della postcolonia, in cui i conflitti etnici e le differenze religiose-culturali hanno
portato alla divisione dell’intelligenza collettiva della società civile per favorire gli
interessi locali51.
Attraverso la differenza tra filosofia e gnosi52, il filosofo congolese Valentin
Y. Mudimbe, all’interno dell’opera L’invenzione dell’Africa, si pone il problema di
cosa sia davvero la filosofia africana affrontando il nodo delle condizioni di questa
disciplina all’interno del più ampio corpus di conoscenze sull’Africa e
l’Africanismo 53, che rimanda al concetto di Orientalismo di Said. Mudimbe fa partire
l’operazione di conoscenza e appropriazione dell’africanismo non dalla conquista
coloniale ma dall’epoca classica, dove ha avuto inizio la formazione della linea di
demarcazione che si è evoluta nel tempo fino a diventare un’alterità radicale. In altre

50
Achille Mbembe, Postcolonialismo, Meltemi, Verona 2007, pp. 7-9.
51
Ibid., pp. 10-18.
52
Termine utilizzato da Mudimbe per riferirsi alla ricerca del sapere, all’indagine, ai metodi di
conoscenza, di ricerca e persino al semplice conoscere qualcuno. La parola è spesso usata per indicare,
in un’accezione più specialistica, un sapere di tipo più elevato ed esoterico, un sapere strutturato,
comune e convenzionale, ma che sia allo stesso tempo sotto stretto controllo di procedure specifiche
per quanto riguarda il suo utilizzo e la sua trasmissione.
53
Mudimbe intende l’insieme delle conoscenze sull’Africa contenute nelle discipline occidentali
come l’Antropologia, la Storia e la Teologia ed in qualsiasi altro discorso scientifico.

32
parole, l’epoca classica è l’albore della costruzione occidentale dell’altro, che cambia
forma e diventa sempre più estrema con la mobilitazione colonialista europea di fine
Ottocento. Quindi è l’Africanismo ad essere l’orizzonte di possibilità dei pensieri
africani sull’Africa, rimandando però ai discorsi e ai pensieri della struttura coloniale
e degli antropologi54.
Per concludere, si può riassumere il postcolonialismo come metodologia
storica finalizzata alla critica culturale e alla decostruzione di nozioni, categorie e
presupposti dell’identità occidentale in tutte le sue manifestazioni. Inoltre c’è un
forte legame tra il paradigma postcoloniale e la teoria postmoderna, da cui ricava le
premesse e fa si che designi una condizione storica precisa che si avvicina sempre di
più al postmodernismo.

1.5 Fanon, la decolonizzazione e la guerra d’Algeria: un’introduzione

Frantz Fanon, medico ed intellettuale martinicano, grazie all’esperienza


diretta nell’indipendenza algerina cerca, all’interno del suo saggio I dannati della
terra, di proporre una via d’uscita ai popoli colonizzati che aspirano
all’autodeterminazione e all’autogoverno per liberarsi dalle catene europee.
La relazione tra il colono e il colonizzato si basa, per Fanon, sulla violenza e
la loro coabitazione avviene tramite il soldato e il poliziotto che fanno da
interlocutori principali tra le due parti. La violenza può assumere anche forme
differenti, come la diversa situazione abitativa, agiata per i coloni rispetto ai nativi,
fino ad arrivare ad una violenza psicologica utilizzando un “linguaggio zoologico”
per riferirsi al colonizzato55. La conseguenza più ovvia, secondo Fanon, sarà la
rivalsa del colonizzato che si fa persecutore del colono affinché il primo si senta
veramente un cittadino vero, che abbia i suoi diritti. Ciò è contrastato dalla borghesia
nazionale per i suoi legami con il potere coloniale a livello politico ed economico,
cerca di ristabilire lo status quo pacificando la situazione attraverso il messaggio
religioso. In questo momento la popolazione locale comprende che la violenza è
l’unica arma disponibile per arrivare ad una soluzione contro il potere coloniale56.

54
Valentin Y. Mudimbe, L’invenzione dell’Africa, Meltemi, Verona 2007, pp. 15-20.
55
Frantz Fanon, I dannati della Terra, cit., p. 28.
56
Ibid., p. 58.

33
Nel risveglio indigeno una parte da protagonista la dovrebbero avere i partiti
politici, aperti al proletariato di città, ovvero lo strato sociale più legato al mondo
coloniale, restio a qualsiasi rivoluzione e diffidente nei confronti delle masse
contadine che, secondo Fanon, dovrebbero essere organizzate in senso nazionalista e
progressista. Nonostante ciò, le masse rurali tentano di entrare nel processo di
maturazione della coscienza nazionale e il mezzo necessario a ciò è il partito
nazionalista che, invece, non sfrutta l’occasione di integrarle e politicizzarle ma
rimane diffidente nei loro confronti. La strada perseguita dai partiti politici li porta
alla centralizzazione del potere politico ed amministrativo, inquadrando e
gerarchizzando il popolo riprendendo i metodi usati dal potere coloniale. Saranno i
partiti di opposizione, contrari alle politiche nazionaliste, e i sindacati nazionali, che
preparano un programma sociale statale per arrivare al governo, a cercare le masse
contadine per poter contare sul loro appoggio. Secondo Fanon, l’interazione tra
sindacati e contadini sarà fondamentale per l’intervento di quest’ultimi nella lotta di
liberazione nazionale e per l’orientamento futuro del paese, fenomeno che riveste
un’importanza basilare per i paesi sottosviluppati57.
Da tramite con le masse rurali faranno gli intellettuali e i ricercati che si
rifugeranno nelle campagne, dove possono portare avanti l’opera di politicizzazione
dei contadini, cercando di spiegare i problemi che affliggono il proprio paese ed
organizzare l’insurrezione per liberarli. La rivolta partirà dalle campagne, penetrando
nelle città attraverso i sobborghi, abitati da contadini che andarono a cercar fortuna
nelle città, come accadde, ad esempio, in Kenia con la rivolta dei Mau-Mau all’inizio
degli anni cinquanta. Questo mina le fondamenta dei partiti nazionali, dato che i più
poveri portano la propria esasperazione a farsi violenza e al risveglio del proprio
orgoglio nazionale. L’obiettivo primario delle forze che appoggiano l’insurrezione è
la partenza degli stranieri dal proprio paese, non cadendo nella trappola coloniale
delle divisioni tribali ed etniche che possano dividere il fronte di liberazione e
nell’inquadramento delle masse dei sobborghi attraverso un diverso trattamento
rispetto al passato, più umano e meno basato sulla violenza, come accaduto in
Algeria ed Angola dove fiumi di denaro sono stati versati per questo scopo. Da qui
l’autore ritorna sul tema della politicizzazione delle masse, riconosciuta come
necessità storica per il popolo per fargli comprendere le finzioni delle concessioni
coloniali, poiché “il popolo che lotta, il popolo che, grazie alla lotta, dispone questa

57
Ibid., p. 97.

34
nuova realtà e la conosce, avanza, liberato dal colonialismo, avvisato in anticipo
contro tutti i tentativi di mistificazione, contro tutti gli inni alla nazione. Solo la
violenza esercitata dal popolo, violenza organizzata e illuminata dalla direzione,
consente alle masse di decifrare la realtà sociale, gliene dà la chiave. Senza questa
lotta, senza questa conoscenza nella prassi, non c’è più che solfa o carnevalata. Un
minimo di riadattamento, alcune riforme al vertice, una bandiera e, giù giù, la massa
indivisa sempre «medievale», che continua il suo perpetuo movimento” 58.
Un aspetto importante da approfondire riguarda la borghesia nazionale, che si
forma durante la decolonizzazione e vuole sostituire la vecchia borghesia
metropolitana coloniale nonostante non abbia i mezzi economici, perché l’industria e
la finanza rimangono nelle disponibilità occidentali, e politici per farlo. Una parte di
essa, che si rifà alla borghesia agraria, si accontenta del suo ruolo latifondista
cercando di aumentare le proprie proprietà attraverso la nazionalizzazione delle terre,
un tempo di proprietà dei coloni. La borghesia nazionale deve affrontare una serie di
problemi fondamentali per la vita del paese, come la divisione etnica che sfocia in
scontri cruenti tra le opposte fazioni tribali, secondo l’autore fomentati dagli
occidentali per poter ancora controllare l’approvvigionamento delle materie prime.
Ciò fa da riscontro al pensiero di Fanon, secondo cui la borghesia non è in grado di
governare il paese ricorrendo a misure eccezionali, come la dittatura del partito unico
che relega in secondo piano i modelli parlamentari creati con l’indipendenza.
La cosa che interessa di più ai borghesi è il mantenimento del proprio ruolo
statale e del guadagno economico accordandosi con le ex metropoli, lasciando la
quasi totalità della popolazione nell’indigenza. Per questo motivo “occorre opporsi
risolutamente ad essa perché letteralmente essa non serve a niente. Questa borghesia,
mediocre nei guadagni, nelle realizzazioni, nel pensiero, tenta di mascherare quella
mediocrità con costruzioni di prestigio sul piano individuale, con le cremature delle
macchine americane, le vacanze in Riviera, i week-end nei nights neonizzati” 59. La
soluzione adottata da Fanon per superare questa situazione neocoloniale, e per
neutralizzare il piano della borghesia nazionale, riguarda la nazionalizzazione del
terzo settore e, ancora una volta, la politicizzazione del popolo. In quest’ultimo caso
un ruolo preminente spetta al partito politico che deve aumentare i contatti con le
masse rurali, attuare una politica nazionale che riguardi la maggioranza della

58
Ivi.
59
Ibid., p. 121.

35
popolazione usando un linguaggio concreto senza tecnicismi economici che non
imbroglino il popolo. Attraverso l’esempio della rivoluzione algerina, Fanon coglie il
nesso tra la rivoluzione popolare, il miglioramento delle condizioni lavorative nelle
campagne e il concetto che il popolo è “proprietario di sé stesso”.
L’ultima analisi di Fanon è impostata sulla creazione della cultura nazionale
nei giovani stati africani per legittimare la rivendicazione d’indipendenza nazionale,
insieme ai fattori espressi precedentemente. Se ne dovrebbero occupare i partiti
politici al potere ma essendo costituiti da uomini di cultura formati all’occidentale, la
cui “ricerca appassionata di una cultura nazionale al di qua dell’era coloniale trae la
sua legittimità dalla preoccupazione, condivisa da tutti gli intellettuali colonizzati, di
prender le debite distanze dalla cultura occidentale in cui rischiano di impantanarsi.
Poiché si rendono conto che stanno perdendosi, e cioè di essere perduti per il loro
popolo, questi uomini, con la rabbia nel cuore e il cervello pazzo, si accaniscono a
riprendere contatto con la linfa più antica, più precoloniale del loro popolo”60. Per
questo si cerca di proclamare l’esistenza di una cultura non nazionale, ma africana,
che rispecchi la cultura negra e che si discosti dall’uomo bianco, specificatamente
negro-africana oppure arabo-musulmana. La responsabilità dell’uomo di cultura
colonizzato è nei confronti del complesso nazionale, in cui la cultura negro-africana
deve avere un ruolo principe dato che, secondo lo psichiatra martinicano, deve
passare attraverso l’appoggio incondizionato alla lotta dei popoli affinché si irradi in
tutto il continente61.
In conclusione al suo saggio, Fanon esorta tutti i popoli del Terzo Mondo, già
usciti oppure in procinto di uscire dalla situazione coloniale, a non imitare l’Europa,
negli anni successivi all’indipendenza, ma a camminare sulle orme degli Stati Uniti
che sono riusciti a diventare il paese più avanzato e potente al mondo spodestando gli
stati del vecchio continente.

1.6 La storiografia italiana sulle ex colonie e sull’Africa nel corso del


Novecento

Gli studi coloniali e di africanistica italiani hanno avuto un impatto minore


sulla storiografia nazionale rispetto ad altre indagini curate all’estero. All’inizio del

60
Ibid., p. 149.
61
Ibid., p. 172.

36
Novecento i pochi storici che se ne occupavano, a causa dell’assenza di competenze
storico-coloniali nelle università italiane, portarono un misero contributo
all’argomento, dato che le uniche opere sul tema furono relazioni scritte da
esploratori e da funzionari delle colonie. Durante il periodo fascista gli studi e le
pubblicazioni crebbero, in concomitanza con la conquista etiope, portandosi dietro il
sospetto di fare propaganda per il regime fascista attraverso l’esaltazione della
romanità e della civiltà italiana in Africa e nel Mediterraneo, esponendo la storia dei
paesi sottoposti al dominio coloniale italiano. In più i documenti delle
amministrazioni coloniali, come la Società Geografica Italiana o l’Istituto Coloniale
Italiano, non erano consultabili e le uniche fonti archivistiche che era possibile
sfogliare erano private, dei protagonisti della colonizzazione. Pochissimi storici
curarono altri tipi di fonti come la stampa, gli atti del Parlamento italiano o le
relazioni diplomatiche straniere.
La storiografia italiana cambiò con la fine della Seconda guerra mondiale, il
crollo del fascismo e la perdita delle colonie prestando sempre più interesse per le
tematiche generali del colonialismo e dell’anticolonialismo, con uno specifico
riferimento alle ex colonie italiane62. Nei quindici anni tra la fine della guerra e la
decolonizzazione africana, gli studi di diritto coloniale ebbero successo perché
offrivano un quadro generale di diritto internazionale comparato sui domini europei
d’oltremare; al contrario, gli studi storici andarono incontro ad una crisi evidente
perché non accettarono la trasformazione radicale che stava avvenendo all’interno
degli studi storici coloniali occidentali, in cui diveniva più importante la storia
dell’altro, passando dalla storia coloniale alla storia dell’Africa o dell’Asia.
Negli anni cinquanta gli storici coloniali italiani si chiusero in sé stessi, non
vollero saperne di abbandonare la disciplina, coadiuvati in questo dalla creazione del
Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa per valorizzare la
documentazione del Ministero dell’Africa italiana63 e delle altre carte affluite a
Roma. Sembrò la miglior soluzione al problema degli studi storici coloniali ma,
come ben spiegato da Nicola Labanca all’interno del suo Oltremare: storia
dell’espansione coloniale italiana, accentuò la concentrazione nazionalistica degli

62
Ruggero Romano, La storiografia italiana oggi, Espresso Strumenti, Cuneo 1978, p. 93.
63
Nel 1953 c’è la soppressione degli ultimi uffici del Ministero dell’Africa Italiana, rimasto in piedi
anche durante i primi anni dell’Italia repubblicana per volere dei governi centristi a guida
democristiana.

37
storici coloniali e l’ampia serie di pubblicazioni che a partire da quelle carte era stata
prevista dal Comitato venne assegnata non a storici, ma ad ex funzionari delle
colonie. La gestione da parte del Comitato rese impenetrabile agli stessi studiosi
esterni ed indipendenti gli archivi coloniali, autorizzandone al contempo uno
scempio archivistico cui non è stato ancora oggi possibile rimediare64. Tra le poche
opere prodotte si ricorda un importante volume del 1959 sulla prima guerra d’Africa
di Crispi e Baratieri da parte di Roberto Battaglia. In pochi seguirono questo filone
storiografico durante i primi anni sessanta, poiché era mancata una produzione
storica di ampio respiro critico o analitico, resa difficile peraltro da condizioni
precarie di ricerca e dalla scarsa credibilità concessa alle discipline africanistiche, le
quali solo negli anni sessanta, e con riluttanza, venivano inserite negli statuti
universitari65.
La situazione si modificò alla fine di quel decennio, quando la congiuntura
internazionale, le vicende politiche italiane e lo stesso sviluppo delle ricerche sul
fascismo resero necessario tornare al colonialismo fascista e alle sue pagine più a
lungo taciute. Gli studi di Giorgio Rochat sulla repressione della resistenza
anticoloniale in Cirenaica, sulle brutalità della repressione successiva all’attentato a
Graziani, sulla preparazione dell’aggressione all’Etiopia e sulla sua conduzione
militare e politica da parte di Badoglio e Mussolini colmarono un vuoto e aprirono la
strada verso un nuovo tipo di studi. A parziale discolpa della storiografia progressista
va detto che, ancora per tutti gli anni sessanta, i principali strumenti di ricerca del
settore sono utilizzati, in regime di quasi monopolio, dagli ambienti del vecchio
colonialismo, non certo interessati ad affrontare i problemi più roventi e scomodi
dell’espansione italiana in Africa, ma spinti, nella migliore delle ipotesi, a darne una
reinterpretazione di carattere moderato66.
Questo cambiamento venne percepito anche durante il convegno del 1969,
ideato dalla Società degli studi storici italiani, sugli studi storici in Italia a cui Carlo
Giglio, stimato studioso-coloniale, partecipò e stilò un suo bilancio e le sue
conclusioni sulla storiografia italiana sull’Africa dal 1945 al 1967. Espose il non
univoco metodo nella valutazione del fenomeno coloniale che è venuto fuori in quel

64
Nicola Labanca, Oltremare: storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2007, pp.
442-443.
65
Alessandro Triulzi, Storia dell’Africa e del Vicino Oriente, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 11.
66
Angelo Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani, Editori Laterza, Roma-Bari 1992, p. 119.

38
periodo, in cui Giglio parla di una divisione tra chi rimane aggrappato ad un concetto
di storia come esposizione obiettiva dei fatti e cauta interpretazione di essi e per chi
va riveduta e rivissuta integralmente alla luce della realtà presente, con nuove
prospettive e da angoli visuali aggiornati67. Inoltre, negli stessi anni, l’archivio del
Ministero degli Esteri cominciava a mettere a disposizione le carte coloniali, un
tempo dedicate solamente al Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia
in Africa.
Angelo Del Boca faceva uscire nel 1976 il primo dei suoi volumi sugli italiani
in Africa e, ai suoi studi, si affiancò una serie di monografie di altri studiosi che
esprimevano la consapevolezza, da parte della storiografia italiana, di un
settorialismo e di un ritardo durato troppo tempo nei confronti degli studi esteri a cui
si doveva rimediare, portando a reazioni negative e polemiche da parte degli studiosi
coloniali. Alcuni dei migliori giovani studiosi italiani preferirono perfezionale la loro
formazione andando all’estero, dedicandosi a ricerche sul campo e acquistando
familiarità con la “rivoluzione storiografica” in corso, in tema di storia dell’Africa,
scegliendo di non occuparsi delle ex colonie e di occuparsi della storia dal punto di
vista degli africani. In più, molti studiosi stranieri avevano iniziato ad occuparsi
seriamente di storia dell’espansione coloniale italiana, restringendo lo spazio ai più
vecchi e tradizionali studi coloniali italiani che, alla metà degli anni settanta,
detenevano il controllo della disciplina, degli archivi e degli istituti di ricerca. La
ritardata decolonizzazione della disciplina non solo non aveva aiutato l’opinione
pubblica italiana nel suo ripensamento del passato coloniale ma aveva danneggiato se
stessa.
Il cambio generazione accennato in precedenza, é confermato dalla
discussione tra due noti africanisti italiani, Teobaldo Filesi e Alessandro Triulzi,
avvenuta a metà anni ottanta sulla rivista Africa: rivista trimestrale di studi e
documentazione dell’Istituto Italo-Africano. Teobaldo Filesi, commentando l’opera,
Storia dell’Africa e del Vicino Oriente, a cura di Alessandro Triulzi, la definisce “una
storia dal taglio nuovo ed ideologicamente impegnato…propone in sostanza tutte le
tematiche e indica le linee di tendenza che dovrebbero ispirare la nuova storiografia

67
Carlo Giglio, Conclusioni di Carlo Giglio sulla Storiografia italiana sull’Africa tra il 1945 e il
1967, in La storiografia italiana negli ultimi venti anni, Marzorati Editore, Milano 1970, p. 1327.

39
africana…”68. Si nota una prima differenza di vedute tra i due storici, uno, Filesi,
legato più alla tradizione storiografica incarnata da Carlo Giglio, mentre Triulzi
appartiene ad una nuova leva di storici che vuole cambiare l’approccio alla storia
africana. Ciò che a Filesi non va giù è come venga strutturata l’introduzione, in cui
Triulzi fa una marcata critica degli studi storici africani italiani nei trent’anni
precedenti, giudicando negativa l’assenza italiana dai grossi temi del dibattito
storiografico, a loro attuale, privilegiando le ricerche archivistiche, soprattutto
missionarie. Su questi due punti Filesi non è d’accordo, perché già negli anni settanta
ci sono molti saggi sull’Africa che utilizzano le fonti archivistiche che, a suo parere,
sono molto importanti da ogni punto di vista degli studi umanistici, ma le fonti orali
e il lavoro sul campo, per Filesi, devono essere fuse con la vecchia ricerca
documentaria così da avere una visione più completa del proprio lavoro69. Triulzi,
rispondendo alle critiche di Filesi alla sua opera e sul metodo storiografico utilizzato,
riafferma quanto l’africanistica italiana fosse assente da un dibattito che, nell’ambito
degli stessi studi sul colonialismo, aveva lasciato da tempo alle spalle un ambito
puramente nazionale di approccio per indagare il complesso impatto della presenza
coloniale europea sulle società africane, e le reazioni che ne erano derivate70. Inoltre,
critica l’idea di Filesi di unire la ricerca sul campo ad un buon lavoro archivistico,
poiché vede in quest’ultimo metodo la problematica principale della storiografia
italiana sull’Africa negli anni sessanta e settanta.
In realtà il rinnovamento era già in corso, il panorama degli studiosi di Storia
e istituzioni dei paesi afroasiatici si era ampliato, la generazione del dopoguerra era
stata sostituita, erano stati allacciati rapporti molto stretti tra la Storia e
l’Antropologia e sempre meno gli interessi degli studiosi erano ristretti alle ex
colonie, studiando la storia del continente africano. Alcuni storici africani avevano
iniziato già negli anni settanta, proseguendo negli anni ottanta e novanta, ad
affrontare la storia dei propri paesi in opere di grande interesse, come U. Chelati
Dirar, che insegna Storia dell’Africa all’Università di Macerata e ha pubblicato
numerosi saggi riguardanti l’ex Africa italiana, con maggior attenzione per l’Eritrea

68
Teobaldo Filesi, Considerazioni sulla storiografia generale dell’Africa (1977-1982), in «Africa:
rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italo-africano», 1984, n.1, p. 87.
69
Ibid., pag. 92.
70
Alessandro Triulzi, Metodologia e ideologia nella storiografia africanista: note per un dibattito, in
«Africa: rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italo-africano», 1984, n.4, p. 634-
635.

40
in cui è nato. In questo caso possiamo dire che la decolonizzazione degli studi
sull’Africa in Italia può dirsi conclusa, anche se permangono delle ristrettezze nel
campo delle ex colonie, studiate da vicino per le vicende del colonialismo italiano e
non accompagnate da una disamina approfondita dal punto di vista africano.
Nonostante i passi in avanti, permangono alcuni limiti riassumibili in alcuni
punti: la decolonizzazione degli studi africani in Italia è avvenuta in ritardo rispetto
alle altre ex potenze coloniali, nonostante la perdita dell’impero coloniale durante il
secondo conflitto mondiale; l’evoluzione di questo campo di studi è avvenuta con
una separazione e non con una collaborazione fra gli studiosi critici verso gli studi
coloniali e gli eredi di quest’ultimo tipo di studi storici. Infine c’è un grave ritardo
della storiografia italiana su molti punti di studio della cultura africana come ad
esempio le lingue, a causa del limitato lavoro sul campo visti i pochi cultori della
materia71.
In questi ultimi tre decenni si sono avuti degli africanisti di tutto rispetto che
hanno aggiornato e portato avanti la ricerca storica italiana a riguardo delle nostre ex
colonie e dell’Africa, come Angelo Del Boca e Nicola Labanca, storici del
colonialismo italiano che hanno portato alla luce molti fatti e avvenimenti
dell’avventura coloniale del nostro paese e Giampaolo Calchi Novati, Alessandro
Triulzi ed altri che hanno portato avanti gli studi sul continente africano nella sua
totalità, dalla decolonizzazione fino ai giorni nostri.

71
Nicola Labanca, Oltremare, cit., pp. 446-447.

41
CAPITOLO 2

LA GUERRA D’ALGERIA

2.1 L’Algeria francese e la nascita del movimento nazionalista

Sono molte le ragioni e le motivazioni che hanno determinato, nella seconda


metà del XIX secolo, il passaggio dall’imperialismo marittimo-mercantile
all’imperialismo coloniale. Ma l’Algeria, rispetto a tutti i possedimenti europei nel
continente africano conquistati durante i decenni finali dell’Ottocento, rappresenta
un’eccezione sia per il periodo di conquista, precedente alla spartizione dell’Africa
decisa dal Congresso di Berlino del 1885, sia per il modo in cui verrà amministrata la
colonia fino al 1962. Per 132 anni la colonizzazione francese ha avuto modo di
esprimersi compiutamente, realizzandosi nella versione estrema dell’assimilazione
politica e culturale, così da rendere di necessità altrettanto estrema la reazione del
popolo colonizzato, costretto a ricorrere alla rivoluzione per ritrovare, non senza
difficoltà e travagli, la propria identità1.

2.1.1 La colonizzazione francese e i suoi effetti

L’interesse francese per l’Algeria risale al periodo napoleonico, quando


venne creato un piano di invasione che verrà riutilizzato nei decenni successivi, per
punire il dey d’Algeri a causa di un contenzioso con la Francia dai tempi del
direttorio post-rivoluzionionario del 1789. Nel 1827 questo screzio portò il dey
Houssein a schiaffeggiare l’ambasciatore francese in Algeria Duval e, dopo quasi
due anni da quel gesto, partì il corpo di spedizione francese alla volta delle coste
africane. È difficile pensare che lo sforzo bellico ed economico di Carlo X potesse
essere smosso solo da questo sgarbo, ma è evidente come servisse a superare le
difficoltà politiche interne con un’operazione prestigiosa all’estero e a creare nuovi
sbocchi commerciali, nuove prospettive economiche e aprire nuove terre per la
popolazione metropolitana. La conquista militare di Algeri fu priva di difficoltà, dato
che lo sbarco a Sidi Ferruch, come era stato stabilito nel piano napoleonico, avvenne
il 14 Giugno del 1830 e il 5 Luglio il dey firmò la resa, ma fu solo l’inizio dato che il

1
Giampaolo Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, Bompiani, Milano 1998, p. 11.

42
potere esercitato da quest’ultimo riguardava un territorio incerto, condizionato dal
potere feudale nelle campagne e da alcune intromissioni occidentali all’interno
dell’Algeria2.
La Francia non aveva un piano ben preciso per la sua politica di espansione,
che fu improvvisata e incerta, priva di direttive coerenti e affidata all’iniziativa dei
governatori generali, a causa dei pesanti contraccolpi interni che portarono ad un
cambio istituzionale e ai mutati obiettivi che si davano i governi francesi in politica
coloniale. Carlo X ebbe solo il tempo di procedere alla costituzione delle fondamenta
della colonia poiché fu deposto, sempre nel Luglio del 1830, dalla rivoluzione, che
mise fine alla restaurazione e collocò sul trono il liberale Filippo d’Orlean. Nei suoi
diciotto anni di regno, gli amministratori francesi furono occupati soprattutto dalla
conquista sul terreno vista la “balcanizzazione” del conflitto in tanti piccoli
combattimenti sul suolo algerino, in particolare nelle regioni più impervie e
montuose come la Cabilia. Per l’esercito francese l’emergere della figura di Abdel
Kader3, che aveva i titoli e le capacità di dare all’Algeria un minima unità territoriale,
fu salutata con un certo sollievo dai francesi perché la sua sconfitta avrebbe
significato la conquista del territorio algerino.
Nel 1832 Abdel Kader fu eletto sultano delle tribù Hashem di Mascara,
nell’Oranese, entrando in contatto con la penetrazione francese come un’autorità
riconosciuta e, volendo guadagnare tempo per organizzare le attività belliche, accettò
di firmare il 26 Febbraio 1834 con il comandante della zona di Orano, generale
Desmichels, un trattato che riconosceva la propria autorità, faceva cessare i
combattimenti e congelava la presenza francese nelle zone già occupate. Ma il
governo metropolitano, già nel Luglio 1834, emanò la prima ordinanza in materia
coloniale riguardante i possedimenti del Nord Africa, istituendo un governatore
generale posto a capo di tutti i servizi militari e civili della colonia, ruolo ricoperto
fino alla fine del secondo impero da un militare. Tale provvedimento stabilizzò la
presenza francese e confermò l’idea di estendere ancor di più la zona sotto il loro
controllo, a scapito dei territori sotto il dominio di Abdel Kader. Quest’ultimo,
credendo in una imminente aggressione francese, attaccò per primo sconfiggendo le

2
Roman Rainero, Storia dell’Algeria, Sansoni Editore, Firenze 1959, p. 81.
3
Il nazionalismo algerino si è appropriato della sua figura, elevando la sua battaglia come il proemio
della futura sollevazione anticoloniale. Inoltre, c’è chi ha visto in Abdel Kader un’invenzione dei
francesi alla ricerca di un alleato-antagonista.

43
truppe occupanti a Macta il 12 Giugno 1835, inizio di un conflitto lungo due anni che
si concluse con il Trattato della Tafna4 del 20 Maggio 1837. L’accordo serviva ai
francesi per poter attaccare con relativa tranquillità la regione di Costantina e
conquistarla nel giro di poco tempo, prendendo la capitale e la base principale del
gruppo di Ahmed Bey, il capo tribale che dominava la regione. Dopo alcune
vicissitudini, la guerra tra Abdel Kader e l’esercito francese riprese nel Novembre
1839 e si rilevò fatale per le speranze algerine. Il generale Bugeau, nominato
governatore nel Febbraio 1841, era assertore della conquista totale del paese e per
riuscirci adottò la strategia del nemico, fondata sulla mobilità delle truppe, ponendo
fine agli accordi politici ed affidandosi alla guerra totale per la presa del territorio
algerino conquistando, nel giro di pochi anni, gran parte delle zone controllate da
Abdel Kader che, dopo aver ripreso il conflitto alla metà degli anni quaranta
dell’Ottocento, dirigendo la guerra dal Marocco, si costituirà alle autorità francesi
alla fine del 1847. La conquista di nuove regioni e l’opera di pacificazione all’interno
del territorio algerino non erano ancora terminate per le truppe francesi, che avevano
di fronte a sé il problema di conquistare la Cabilia, abitata per la quasi totalità da
berberi5. La battaglia per questa regione si può dire conclusa solo nel 1871 con la
sconfitta di Moqrani, che comandò l’ultima vera rivolta algerina contro i francesi,
formando così una tradizione di lotta, radicata nelle campagne, che la rivoluzione
nazionale del Secondo dopoguerra, dopo più di un secolo di occupazione francese,
avrebbe utilizzato nel grande sforzo di liberazione6.
La gradualità della conquista coloniale algerina si ripercuote sulle soluzioni
istituzionali per governarla. Tra il 1830 e il 1845 le uniche disposizioni riguardavano
il controllo diretto della fascia costiera da parte francese e quello indiretto, attraverso
accordi con i capi locali, per il resto del territorio mentre un primo cambiamento ci
sarà nel 1845, quando saranno divise le disposizioni tra l’amministrazione militare e
civile con il territorio sotto la giurisdizione francese diviso in tre provincie (Algeri,

4
In base a questo trattato, i possedimenti francesi erano limitati alle città di Orano, Mostaganem,
Arzew, Algeri, alle regioni vicine, alla Mitigia ed ai territori delle regioni di Costantina in possesso di
Ahmed Bey. Inoltre c’era una parte segreta dell’accordo in cui il generale Bugeaud riceveva 180.000
franchi per la pace e in cambio riforniva Abdel Kader di fucili e polveri.
5
I berberi, di ceppo hamitico ma con tipologie differenti, sono i discendenti del popolo stanziato in
Algeria e in tutto il Nord Africa da circa 3000 anni, artefici di regni ma non di un vero stato nazionale.
cfr. Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., p. 19.
6
Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., p. 25.

44
Orano, e Costantina) che a loro volta furono divise tra territorio civile e militare e,
con l’avvento della Seconda repubblica in Francia, si ebbe una spinta ulteriore per la
colonizzazione, generando un aumento importante nella corrente migratoria in
Algeria. Inoltre, il sistema governativo coloniale fu modificato, con il decreto del 9
Dicembre 1848, proclamando l’Algeria territorio francese, suddividendola in tre
dipartimenti con a capo un prefetto e, tra le novità, i coloni inviavano i loro
rappresentati all’Assemblea Nazionale ma, malgrado la riforma, l’assimilazione restò
per molti aspetti allo stadio di prospettiva, tanto che venne presto rimessa in
discussione. Con l’ascesa al trono di Napoleone III, e l’istituzione del Secondo
Impero, la politica coloniale francese fu riformulata attraverso lo slogan più capitali
e meno coloni, emanando un Senatoconsulto nel 1863 che dichiarava la tutela delle
terre tradizionali, un modo per distruggere l’organizzazione socio-politica algerina e
minare la resistenza del popolo nordafricano. Nonostante gli auspici dell’imperatore,
durante il regno la popolazione bianca residente in Algeria aumentò e, alla sua
deposizione nel 1871, si attestò sui 245.000 residenti europei, di cui 130.000
francesi, costituendo una minoranza munita di un tale potere economico da potersi
candidare a posizioni di comando. Da allora la questione algerina si complica di un
elemento nuovo, il terzo dopo Francia e indigenato algerino, i francesi d’Algeria, in
contrasto con i francesi di Francia, accusati di non comprendere fino in fondo la
questione algerina e di trattarla senza nessuna intelligenza7. L’impulso maggiore alla
colonizzazione avvenne nella Terza Repubblica, che sospese le disposizioni
napoleoniche ed attuò alcune leggi di confisca, sulla disciplina dell’affittanza e la
proprietà dei terreni. L’assimilazione, portata avanti già con i decreti del 1870, che
facevano dell’Algeria un prolungamento della Francia, fu perfezionata nel 1881
grazie all’opera del governatore Albert Grévy, che pose i settori amministrativi alle
dipendenze dei rispettivi ministeri francesi.
Questo si scontrava con gli interessi consolidati dei coloni, che dal 1871
potevano nuovamente eleggere i propri rappresentati parlamentari, cercando di
esercitare pressione sulla gestione amministrativa della colonia. Tra il 1896 e il 1900
il governo francese concesse la personalità morale e giuridica all’Algeria, separando
il suo bilancio da quello dello stato metropolitano, incoraggiando le autorità coloniali
a cercare l’assimilazione colpendo la fede islamica, supervisionando la loro
disciplina attraverso la confisca di beni immobili, di cui erano proprietarie le

7
Rainero, Storia dell’Algeria, cit., p. 105.

45
confraternite, e utilizzandola come deterrente per non concedere la cittadinanza
francese agli algerini perché per accedervi si doveva abbandonare la fede islamica. Il
nuovo regolamento fondiario 8, voluto dalla Seconda repubblica, venne
sostanzialmente mantenuto durante il periodo napoleonico e della Terza repubblica
perché ormai erano i coloni a dettar legge, ottenendo sussidi per lavorare i campi a
cereali e viti che venivano coltivate sulle terre espropriate ai nativi, portando
all’arricchimento politico ed economico della popolazione bianca algerina.
Queste disposizioni sulla popolazione nordafricana, che la penalizzano
fortemente rispetto alla minoranza europea, e che cercano di riconfigurarla
socialmente, come l’ottenimento della cittadinanza se si abbandona la propria fede
religiosa, faranno da collante per la creazione di un movimento nazionalista e
reazionario algerino che comincerà a germogliare solamente nei primi vent’anni del
Novecento.

2.1.2 Le origini del movimento nazionale algerino

La cornice politica algerina si riscosse pubblicamente a cavallo della prima


guerra mondiale, ma non significa che tra il 1871 e gli anni venti del Novecento ci
sia stato un vuoto politico, soltanto che nel paese nordafricano l’espressione di un
movimento nazionale moderno fu più lenta che in altri territori colonizzati. L’Algeria
meditò sui mezzi e gli obiettivi di una contro-politica che riuscisse ad essere efficace
e condivisa da tutti e, dopo le rivolte contadine degli ultimi decenni dell’Ottocento,
saranno gli ambienti cittadini a raccogliere la lotta anticoloniale. Il nazionalismo si
attestò su valori come l’arabismo e l’islam, immediatamente disponibili per essere
utilizzati a scopi politici. La resistenza al regime coloniale matura infatti entro un
contesto socio-culturale profondamente marcato dalla francesizzazione di una
importante frazione del nuovo ceto medio urbano, a cui corrisponde una altrettanto

8
Il regime fondiario della società algerina si fondava sulla proprietà o sul lavoro collettivo della tribù
e fu contro l’indivisibilità delle terre che agì il colonialismo, attraverso l’esproprio o il consolidamento
della proprietà privata. Durante i primi decenni di colonizzazione, i francesi cercarono di legiferare in
materia demaniale, volendo andare in contro alle esigenze della corrente immigratoria che si andava
ingrossando, grazie alla legge del 16 Giugno 1851, nota come la “Carta fondiaria dell’Algeria”, che
proclamava l’inviolabilità dei diritti di proprietà individuali e collettivi assegnando una specie di
diritto di prelazione allo stato; cfr. Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., pp. 32-33.

46
profonda deculturazione delle masse rurali, soltanto marginalmente e passivamente
coinvolte nel progetto di integrazione della colonia alla Francia. Parallelamente,
l’Islam assunse un ruolo di primo piano anche come unica sfera di valori-rifugio che
la società rurale continuò ad opporre ai valori sostitutivi con cui l’occupante
intendeva civilizzarla9.
Negli anni precedenti alla Grande Guerra, alcune formazioni politiche
avevano come obiettivo alcune riforme interne e settoriali per arrivare ad una vera
uguaglianza tra arabi e francesi, a causa di discriminazioni legislative come, ad
esempio, il decreto del 1912 che rendeva obbligatorio per gli arabi il servizio
militare. L’attività di questi movimenti politici, formati da giovani algerini, non portò
risultati eclatanti, se non ad una divisione al proprio interno tra chi era favorevole
alla naturalizzazione francese a qualsiasi costo e chi invece puntava a rafforzare la
propria identità algerina. Da quest’ultimi, nascono tre grandi movimenti politici
algerini: la “Stella nordafricana”, Etoile Nord Africaine (ENA), di estrazione
nazionalista laica, il partito moderato della Federazione degli Eletti e uno di
estrazione islamista e araba che prese il nome di Congresso degli Ulema.
La Stella nordafricana nacque a Parigi nel Marzo del 1926 grazie all’opera di
Ali Abdel Kader, membro politico del Partito comunista francese (PCF). Reclutava i
suoi membri tra gli operai arabi in Francia e suo scopo iniziale fu «la difesa degli
interessi materiali, morali e sociali dei musulmani nordafricani e la loro educazione».
L’attività svolta dall’ENA non sarebbe uscita dal suo guscio comunista, fatto di
rivendicazioni sindacali e mutuo soccorso ai lavoratori arabi se non se ne fosse
impadronito Ahmed Messali el-Hadj10, personalità di spicco tra i nordafricani a
Parigi, che dal 1927 diverrà il leader indiscusso del partito, cercando di allentare il
legame con il comunismo per dettare una linea sempre più nazionalistica ed
indipendentista, attraverso l’indipendenza dell’Africa del Nord, il ritiro delle truppe
francesi in quella zona e la formazione di un governo nazionale rivoluzionario. Un

9
Anna Bozzo, Movimento nazionale algerino, in Alessandro Triulzi, Storia dell’Africa e del Vicino
Oriente, cit., pp. 349-350.
10
Nazionalista algerino e simpatizzante della Rivoluzione russa del 1917, dedicò l'intera vita alla lotta
per il conseguimento dell'indipendenza della sua patria, conquistata nel 1962 dalla Francia. Fu co-
fondatore dell'Étoile Nord-Africaine (ENA), del Parti du peuple algérien (PPA) e del Movimento per
il Trionfo delle Libertà Democratiche (MTDL), prima di dissociarsi nel 1954 dalla lotta armata
del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN). Fondò anche il Movimento Nazionale Algerino
(MNA) per contrapporsi ai metodi del FLN.

47
programma generico e confuso, corretto dal massimalismo del suo capo, scrive
Calchi Novati, poiché non hanno saputo compiere una scelta chiara e precisa fra le
dottrine che si offrivano loro11. Al congresso del partito, nel 1933, si specificarono i
punti programmatici che sarebbero stati alla base dell’azione politica della Stella:
parità assoluta per tutti gli algerini, elezione di un parlamento nazionale, ritiro delle
truppe di occupazione, totale indipendenza dell’Algeria, nazionalizzazione delle
banche e delle risorse minerarie, istruzione obbligatoria in lingua araba e confisca dei
latifondi di proprietà europea.
La Federazione degli Eletti, di cui ne farà parte una figura importante per il
nazionalismo algerino come Ferhat Abbas, insieme ai fondatori del movimento
Benthami Ould Hamida e Mohammed Salah Bendjelloul, riprese le tematiche
dell’assimilazione, care alla frangia liberale dei giovani algerini di inizio Novecento,
cercando di far evolvere le condizioni politiche per migliorare la situazione
all’interno del sistema legislativo francese. Questa lealtà nei confronti della
metropoli è dovuta all’estrazione sociale dei componenti della federazione, poiché
erano istitutori, medici, farmacisti e avvocati che facevano parte delle istituzioni
consultive create dalla Francia durante i decenni di colonizzazione. Nonostante la
disponibilità al compromesso, è possibile che i componenti di questa formazione
politica si avviino verso soluzioni rivoluzionarie e non sorprende, quindi, il loro
avvicinamento alla lotta nazionale. Su posizioni simili si posizionava il Congresso
degli Ulema, nato ad Algeri nel Maggio del 1931 ed espressione della borghesia
colta, benpensante e timorata di Costantina, il cui programma si basava sulla
ristrutturazione della società nazionale fondata sull’islam per creare un’identità che
potesse essere accettata da tutto il popolo algerino.
Le divergenze tra questi tre movimenti sono evidenti, visto che gli ultimi due
erano a favore di alcune riforme all’interno dello schema coloniale francese, al
contrario della Stella Africana che puntava all’indipendenza, non partecipando al
Congresso musulmano-algerino del Giugno del 1936, indetto dai comunisti algerini
sull’onda della vittoria del Fronte Popolare in Francia, al cui interno venne redatta
una carta delle rivendicazioni basata su un programma minimo di riforme,
inaccettabile per il movimento guidato da Messali Hadj, che auspicava il
coinvolgimento delle masse contadine e puntava sul puro radicalismo della battaglia
per la libertà. Le aspettative del mondo politico algerino sul Fronte popolare francese

11
Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., p. 44.

48
durarono lo spazio di pochi mesi, dal momento che l’unico disegno di legge
presentato in materia coloniale riguardante l’Algeria, il famoso progetto Blum-
Viollette12, non arrivò neanche al voto dell’Assemblea Nazionale a causa della
campagna editoriale contraria, lanciata dalla stampa conservatrice, e dalle lobby che
sostenevano i coloni francesi, rappresentate in parlamento da un buon numero di
deputati. L’abbandono di questo progetto, da parte dei successivi governi francesi,
portò in secondo piano il tema dell’assimilazione degli algerini e ad una
radicalizzazione dell’azione politica nordafricana incarnata da Messali Hadj,
fondando un nuovo movimento alla fine degli anni trenta, a causa della messa al
bando della Stella Nordafricana da parte delle autorità francesi, il Parti du peuple
algérien (PPA), rivolgendosi a tutti i ceti sociali algerini ed esortandoli ad adoperarsi
per la liberazione nazionale, accrescendo i consensi nei suoi confronti grazie ad un
programma molto più realista rispetto agli altri soggetti politici algerini, riuscendo
con il passare del tempo ad estendersi ai ceti sociali svantaggiati del sottoproletariato
urbano e ai contadini. Ciò è stato il punto conclusivo di una crescita delle élite
algerine e delle masse per la difesa della personalità storica dell’Algeria, con una
propria originalità nazionale e culturale.

2.1.3 Il movimento nazionale si avvia alla lotta armata

La Seconda guerra mondiale accelerò la fine del tema coloniale, incentivando


la diffusione e il rafforzamento degli ideali, scritti nella Carta Atlantica, di
indipendenza, di autodeterminazione e di democrazia nei movimenti nazionalistici, in
particolar modo nel Nord Africa, teatro di battaglie molto importanti per il proseguo
del Secondo conflitto mondiale. Il nazionalismo algerino poteva contare su ideologie
di portata globale, attraverso la politica estera portata avanti nel dopoguerra da USA
e URSS, a riguardo del problema coloniale, e sull’abbandono della lotta politico-
costituzionale per passare alla lotta rivoluzionaria contro i francesi13.

12
La proposta suggerisce che una minoranza di algerini possa ottenere la piena cittadinanza francese ,
consentendo loro di essere soggetti alla legge musulmana su alcuni temi sociali come il matrimonio,
il divorzio, la custodia e l'ereditarietà. Si propone di offrire questi benefici alla parte di popolazione
altamente istruita e a chi ha servito nelle forze armate francesi con il progetto di ampliare i benefici
ottenuti da altri gruppi in una data successiva; cfr. Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente,
cit., pp. 52-53.
13
Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., p. 56.

49
Un punto importante per la crescita dello spirito nazionalista algerino è la
redazione del Manifesto del popolo algerino nel Febbraio del 1943, firmato da 28
dirigenti di aree moderate che formavano l’élite evoluta del popolo nordafricano, che
si colloca a metà strada tra integrazione e separatismo, partendo dal presupposto che
l’assimilazione si era rivelata una menzogna dei francesi, riprendendo alcuni
passaggi fondamentali della Carta Atlantica. Uno degli autori più importanti di
questo documento fu Ferhat Abbas, che comprese le possibilità create dal Secondo
dopoguerra attraverso uno scatto d’orgoglio delle società afro-asiatiche e con la
rinascita dell’arabismo. Le rivendicazioni contenute all’interno del Manifesto, di cui
si ricorda, ad esempio, la libertà di stampa, la riforma agraria, l’equiparazione tra
lingua araba e francese, la partecipazione algerina al governo nazionale e l’amnistia
politica, non furono ricevute con piacere dal generale Catroux, governatore d’Algeria
favorevole all’assimilazione, dalla politica estera francese, che doveva ritornare ad
essere una grande potenza mondiale, senza privarsi dei suoi territori d’oltremare, e
dalla politica interna d’oltralpe per lo speciale attaccamento all’Algeria, dato che era
considerato territorio metropolitano.
Respinte le tesi del Manifesto, gli intellettuali algerini tentarono la via
politica, fondando il movimento Amici del Manifesto e della Libertà (AML), nel
Marzo del 1944, che dava molto spazio alle dimostrazioni di piazza, rompendo con la
pratica delle delegazioni e delle petizioni, come faceva da tempo il Partito del
popolo algerino (PPA) di Messali Hadj, di cui si ricorda la sollevazione popolare in
concomitanza con le celebrazioni per la vittoria degli alleati in Europa, in particolar
modo nella regione di Costantina con distruzione di edifici pubblici e l’uccisione di
cittadini francesi. Le autorità metropolitane proclamarono lo stato d’assedio,
incaricando reparti armati sotto il comando del gen. Duval di reprimere la rivolta,
andando oltre i compiti assegnati con inutili spargimenti di sangue, come il massacro
di Sétif e Guelma dell’8 Maggio 1945, che dilatarono e resero incolmabile la frattura
tra la comunità algerina e i coloni francesi. Inoltre i partiti politici algerini furono
soppressi, costretti a continuare il loro lavoro in clandestinità, e molti dirigenti
furono imprigionati, creando un’unione d’intenti tra gli algerini che sfocerà in un
unico movimento di rivendicazione nazionale14.
I francesi, cercando di riportare la situazione alla normalità, concessero
l’amnistia politica nel Marzo 1946, alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea

14
Ibid., pp. 58-62.

50
Costituente della quarta repubblica, di cui se ne avvalse, tra gli altri, Ferhat Abbas
che si presenterà, con il suo nuovo partito l’Unione democratica del Manifesto
Algerino (UDMA), alle consultazioni aggiudicandosi 11 seggi, sui 13 concessi alla
popolazione algerina. Messali Hadj fu scarcerato pochi mesi più tardi e non si attardò
a creare un nuovo partito, il Movimento per il trionfo delle libertà democratiche
(MTDL), riprendendo il vecchio programma politico e le origini proletarie del PPA.
Contrapponeva all’UMDA di Abbas, favorevole all’associazione con la Francia,
l’idea di indipendenza, chiedendo l’immediato ritorno del popolo algerino alla
propria sovranità nazionale, con l’elezione di un’assemblea a suffragio universale
diretto.
Tentando di scongiurare la crisi, la Francia emanò lo Statuto organico,
promulgato il 20 Settembre 1947, introducendo una configurazione politica
indipendente, divisa in tre dipartimenti francesi, ampliava i diritti elettorali degli
algerini, che potevano partecipare agli organi di governo attraverso la creazione di
un’Assemblea algerina, composta da 60 deputati per il primo collegio, formato da
cittadini francesi, e 60 per il secondo, formato dagli algerini, che aveva poteri
limitati, simili alle vecchie delegazioni finanziarie, visto che l’autorità principale
rimaneva il Governatore, espressione diretta del governo metropolitano. Altre novità
riguardarono la soppressione dell’amministrazione militare nei territori sahariani e
dei comuni misti15, inoltre decaddero i limiti alla libertà di culto e all’insegnamento
della lingua araba, parificata al francese16. La portata innovatrice dello statuto ebbe
vita breve, a causa dei brogli e delle irregolarità che si perpetrarono all’interno delle
elezioni dell’Assemblea algerina nell’Aprile 1948. Il piano governativo era così
definito: mentre nel primo collegio trionfava una lista di destra ispirata agli ideali
gollisti, nel secondo collegio i nazionalisti (“separatisti” per le autorità) vennero
sconfitti dai candidati moderati filo-francesi: il governo francese aveva dato ordine di
«sbarrare la strada ai separatisti rimediando all’errore dello Statuto adattandolo alle
necessità algerine»17. Il naufragio dello Statuto era un’ulteriore dimostrazione che la
situazione algerina non poteva essere risolta dalla politica francese e, all’inizio degli

15
Il comune misto era un’istituzione a maggioranza musulmana ma soggetta a un’amministrazione
nominata direttamente dal governatore generale, capeggiata da un amministratore europeo assistito da
capi locali.
16
Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., p. 64.
17
Ibid., p. 66.

51
anni cinquanta, il dialogo fra il governo metropolitano e i nazionalisti algerini era in
una fase di stallo.
Constatando definitivamente che il metodo costituzionale di lotta era inutile,
prese corpo una forma di azione diretta che si costituiva fuori dai partiti tradizionali,
attraverso organizzazioni armate che dovevano portare alla rivoluzione nazionale. Il
primo gruppo che prese questa strada fu l’Organizzazione speciale (OS), braccio
armato del MTDL, formato nel 1947 con a capo Mohammed Belouizdad, Hocine Aït
Ahmed e Ahmed Ben Bella18, futuro presidente della Repubblica, che si rafforzarono
grazie agli scandali elettorali delle già citate elezioni del 1948, entrando in azione nel
1949, all’ufficio postale di Orano, svaligiandolo per finanziare la propria lotta. La
ritorsione francese fu molto dura nei confronti di tutti i partiti algerini, ad eccezione
dell’UDMA moderato e sempre accomodante nei confronti della politica francese in
Algeria.
Le conseguenze della repressione portarono uno sconvolgimento e una
divisione all’interno del MTDL di Messali Hadj, a causa della poca attività politica
esercitata dal partito, tra i messalisti, che si consideravano i soli interpreti della
volontà popolare, prospettando una politica intransigente nei confronti del potere
coloniale, anche se incapaci di passare all’azione vera e propria, e i centralisti, che
proponevano una politica più fiduciosa nell’evoluzione liberale della Francia. Tra il
1953 e il 1954, Messali Hadj aveva perso il controllo del partito e la rottura tra le due
correnti era ormai insanabile, come dimostrano i vari congressi tenuti in quel biennio
che confermarono la crisi del MTDL. Da questa lotta intestina né uscì ciò che
rimaneva dell’OS, che riprese l’azione come gruppo separato per non disperdere le
proprie energie, fondando il Comitato rivoluzionario d’unità e d’azione (CRUA), nel
Marzo del 1954, che si proponeva di riportare il MTDL all’antica vocazione di lotta
unitaria e rivoluzionaria, tentando di dialogare con le due fazioni di quel movimento.
Il CRUA darà il via alla rivoluzione algerina, la cui decisione venne presa da
un direttorio di nove persone: Didouche, Ben M’Hidi, Ben Boulaïd, Boudiaf, Rabah
Bitat e Belkacem Krim si mossero in Algeria mentre Ben Bella, Aït Ahmed e Khider
erano al Cairo. In questa riunione divenne ufficiale la data del 1 Novembre, rispetto
al 15 Ottobre, per l’avvio dell’insurrezione e furono distribuiti i compiti più

18
Ahmed Ben Bella (1918-2012), fu un politico algerino. Esponente dell'ala più radicale del
movimento di liberazione nazionale d'Algeria, è visto come il padre della patria algerina. È stato il
primo Presidente dell'Algeria.

52
importanti, come la divisione del territorio algerino in sei regioni con una scrupolosa
gerarchia che adempieva alle esigenze di collegialità, segretezza ed efficienza del
movimento.
Pochi giorni prima dell’inizio dell’insurrezione algerina ci fu un violento
terremoto vicino alla capitale Algeri, dove arrivò in visita il Ministro dell’Interno
François Mitterrand, ben visto dai movimenti moderati algerini per arrivare ad una
soluzione del problema coloniale. Fu molto contento della disgregazione di un
movimento indipendentista e reazionario come il MTDL e non dette ascolto al
governatore Léonard e ai servizi segreti che erano venuti a conoscenza che qualcosa
stava per accadere. I giorni successivi sconfessarono l’ottimismo del Ministro
francese e delle istituzioni d’oltralpe, facendole entrare in un vero e proprio incubo
che costerà molto caro al sistema politico della quarta repubblica19.

2.2 La guerra d’Algeria: dall’insurrezione armata all’inizio della crisi dello


stato francese (1954-1958)

Il 1 Novembre ha inizio l’insurrezione algerina con una serie di attentati ed


esplosioni, rivendicate da un gruppo allora sconosciuto, il Fronte di liberazione
nazionale (FLN), in molte zone del paese, tra cui anche la capitale Algeri, dove
vengono colpiti obiettivi militari e di pubblica sicurezza, senza mettere in crisi le
istituzioni francesi che risposero in maniera dura e decisa. Il Ministro dell’Interno
François Mitterrand e il Segretario alla guerra Jacques Chevallier aumentano le
potenzialità militari e di polizia in Algeria e, in poco meno di due settimane, la rete
clandestina creata ad Algeri per preparare l’insurrezione fu smantellata e i rivoltosi si
videro costretti a rifugiarsi sulle montagne dell’Aurés, nella regione di Costantina,
grazie all’aiuto dei briganti del luogo, pronti ad appoggiare la causa indipendentista
algerina insieme agli abitanti della grande Cabilia, la parte occidentale dell’omonima
regione, abituati ad agire in clandestinità20.
La repressione francese proseguì sciogliendo il MTDL, la principale
organizzazione indipendentista in Algeria, arrestando gli alti dirigenti e costringendo
i suoi militanti ad entrare in clandestinità, aumentando le fila nel FLN, e colpendo i
rivoltosi nella regione di Costantina, uccidendo Didouche Mourad il 15 Gennaio

19
Rainero, Storia dell’Algeria, cit., pp. 171-173.
20
Benjamin Stora, La guerra d’Algeria, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 13-15.

53
1955, e arrestando Mostefa Ben Boulaïd, responsabile del FLN nell’Aurés. Oltre alla
repressione, il governo francese elabora un programma di riforme riguardante
l’Algeria, i cui punti essenziali sono la creazione ad Algeri di una scuola di
amministrazione per favorire l’accesso di algerini musulmani all’interno della
pubblica amministrazione, riduzione del divario salariale tra algerini e francesi,
realizzazione di grandi lavori infrastrutturali e rilancio economico. Qui nascono i
primi problemi istituzionali in Francia a causa della caduta, il 23 Febbraio 1955, del
governo presieduto dal radicale Mendès France21, sostituito da Edgar Fauré22, sul
programma di aiuti all’Algeria e all’Africa del Nord, ma riesce a nominare Jacques
Soustelle, uomo aperto al dialogo, come nuovo governatore generale d’Algeria. Una
delle sue prime prese di posizione è l’apertura di un dialogo con i partiti più
moderati, come il movimento degli Ulema e il partito di Ferhat Abbas, che
parteciperà alle elezioni amministrative previste per l’Aprile 1955. Come se non
bastasse, tenta di comprendere i malesseri che affliggono la popolazione algerina
viaggiando all’interno del paese, scoprendo carenze amministrative nell’entroterra,
invitando il governo centrale ad adattare la legislazione vigente ai problemi
riscontrati. Ma l’Assemblea Nazionale francese vota favorevolmente il decreto per lo
stato di emergenza in Algeria, rafforzando i poteri dell’esercito nella regione
dell’Aurés ed organizzando il raggruppamento forzoso delle popolazioni rurali in
“campi di accoglienza”.
Sul fronte algerino i mesi successivi al 1 Novembre servirono per aumentare
l’autorità del FLN, testimoniata dal successo raccolto dal suo appello di non andare
ai seggi alle elezioni amministrative dell’Aprile 1955, e dalle rivolte contadine nella
regione di Costantina, dove la coesistenza tra i coloni francesi e gli algerini fu
sempre difficile e delicata, iniziate il 20 Agosto 1955, sotto il comando di qualche
21
Pierre Mendès France (1907-1982), fu un politico francese che è passato dalla terza alla quarta
repubblica, attraverso la prigionia della Repubblica di Vichy e, successivamente evaso, ha combattuto
nell’esercito della Francia libera nelle colonie africane. Durante la quarta repubblica è stato presidente
del Consiglio per sette mesi e mezzo nel 1954, concludendo la pace in Indocina e aprendo, invece, il
conflitto franco-algerino.
22
Edgar Faure (1908-1988), avvocato, scrittore e grande erudito, fece parte tra il 1945 ed il 1946 della
delegazione di giuristi francesi al processo di Norimberga. Fu poi deputato all'Assemblée Nationale da
l 1946 al 1958, senatore dal 1959 al 1966, deputato dal 1966 al 1980 e senatore dal 1980 fino alla
morte nel 1988. Durante la Quarta Repubblica è stato per due volte Presidente del Consiglio della
Francia: la prima dal 20 Gennaio all'8 Marzo 1952 e la seconda dal 23 Febbraio 1955 al 1
Febbraio 1956.

54
combattente dell’Armée de libération nationale (ALN), il braccio armato del FLN,
avendo come obiettivi le sedi della polizia, della gendarmeria e numerosi edifici
pubblici, con un bilancio finale di 123 morti, di cui 71 di nazionalità europea. Le
autorità francesi, per tutta risposta, aumentarono gli effettivi militari di altre 60.000
unità e prorogarono i tempi per gli oltre 180.000 soldati già presenti sul territorio
algerino, salutati con fiducia dal governatore Soustelle che concesse ampia libertà di
azione agli ufficiali. Allo stesso tempo, sul fronte rivoluzionario, venne ottenuta
un’importante vittoria sul fronte internazionale alla fine del Settembre 1955, quando
la situazione algerina venne messa all’ordine del giorno all’Assemblea Generale
dell’ONU, attirando l’attenzione mondiale su quel conflitto23.
Sul finire del 1955 si consuma una nuova crisi politica francese che porta alla
caduta del governo Faure, successore di Mendès France, e al susseguente
scioglimento dell’Assemblea Nazionale. Situazione che non impedì al governatore
Soustelle di prolungare lo stato di emergenza e di posticipare le elezioni
metropolitane sul territorio algerino, vinte dal Fronte Repubblicano, formato da
socialisti e radicali, che darà vita al governo presieduto da Guy Mollet24, che in tema
algerino rimosse dalla carica di governatore Soustelle, sostituendolo con il gen.
Catroux, scatenando le ire dei francesi in Algeria che accolsero malamente i due
durante il loro primo viaggio ufficiale nello stato nordafricano25. Insieme agli alti
ufficiali di stanza in Algeria chiesero al nuovo esecutivo l’invio di altri contingenti,
nonostante i 190.000 soldati già presenti, e di elicotteri per il pattugliamento delle
aree interne, le più impervie del paese. Mollet e il suo governo nominarono Robert
Lacoste Ministro per l’Algeria, sostituendo la figura del governatore e subentrato a
Catroux, che, appena nominato, presentò un progetto di legge sullo sviluppo
economico-sociale algerino e norme speciali per il ritorno all’ordine nella colonia
nordafricana. Nei mesi successivi furono emanati diversi decreti legge sui poteri
speciali che sospendevano le garanzie di libertà individuali in Algeria e divisero il

23
Stora, La guerra d’Algeria, cit., pp. 16-23.
24
Guy Mollet (1905-1975), politico francese, aderì giovanissimo alle organizzazioni socialiste,
arrestato durante la Repubblica di Vichy, evase ed entrò nella Resistenza. Alla fine della guerra
divenne sindaco di Arras, membro delle due assemblee costituenti e segretario del Partito Socialista
francese, carica che mantenne dal 1946 al 1969. Fu primo Ministro francese durante i governi del
Fronte Repubblicano, formazione di centro-sinistra che vinse le elezioni del Gennaio 1956, e restò in
carica fino al Maggio 1957.
25
Stora, La guerra d’Algeria, cit., pp. 24-30.

55
territorio in zone pacificate, in zone vietate e zone dove vi erano operazioni militari.
Lacoste fu costretto ad imporre il coprifuoco su Algeri e Orano, in seguito al dilagare
di attentati e scioperi da parte del FLN che, nello stesso periodo, si incontrava con i
vertici socialisti francesi, proponendo al proprio governo di cessare le operazioni
militari ed aprire una trattativa tramite la mediazione del sultano del Marocco
Maometto V e il presidente tunisino Bourguiba. Trattative che si interruppero con
l’arresto di importanti personalità del FLN come Hocine Aït Ahmed, Mohamed
Boudiaf, Ahmed Ben Bella e Mohamed Khider che rimasero prigionieri fino alla fine
della guerra. Operazione voluta dai vertici militari e da Lacoste, che sostituì il gen.
Lorillot con Salan, per due motivi: decapitare la ribellione di alcuni dei suoi capi
storici e far desistere a continuare con i negoziati il premier Mollet, avendo come
conseguenza l’aumento dei combattenti del Fronte con l’arruolamento dei giovani
algerini che non sopportavano più le violenze e la repressione dell’esercito
francese26.
Il Fronte moltiplicò gli sforzi nelle strade di Algeri attraverso appelli allo
sciopero generale e moltiplicando gli attentati in cui morì anche Amédée Froger,
presidente della federazione dei sindaci d’Algeria, causando l’utilizzo dei poteri
speciali nella capitale con l’arrivo del gen. Massu e la sua 10ª divisione paracadutisti
con compiti di polizia dal 7 Gennaio 1957, data che ricorda l’inizio della battaglia di
Algeri. Il FLN organizzò altri attentati contro la popolazione europea e uno sciopero
generale per il 28 Gennaio, in concomitanza con il dibattito all’Assemblea Generale
dell’ONU sulla situazione algerina, stroncato sul nascere dall’intervento delle truppe
francesi nella Casbah, zona sotto il controllo dei rivoltosi, nascondiglio per molti
ribelli. La repressione francese fu cruenta ed elaborata, praticando la tortura, le
perquisizioni di massa ed inserendo all’interno dell’organigramma del Fronte ad
Algeri una fitta rete di infiltrati, portando all’arresto di numerosi dirigenti algerini.
La battaglia nella capitale si concluse alla fine di Maggio del 1957 con l’omaggio
della popolazione europea ai paracadutisti del gen. Massu. Nel resto del paese i
combattimenti favorirono le truppe francesi, grazie al loro cambio di strategia
utilizzando gli elicotteri, lo spionaggio e un miglior pattugliamento delle zone di
confine, in particolar modo quello tunisino, dove arrivava la maggior parte dei
rifornimenti per i rivoluzionari, attraverso la creazione di una barriera di rete
elettrificata, filo spinato, mine e batterie di cannone per 320 km, voluta dal Ministro

26
Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., pp. 85-90.

56
della Difesa André Morice. In aggiunta, si avviò un programma di pacificazione
sociale, con l’invio di ufficiali amministrativi ad organizzare programmi di
alfabetizzazione e assistenza medica con lo scopo di bloccare la propaganda
antifrancese del Fronte27.
Nei primi mesi del 1958 il comando francese riteneva virtualmente vinta la
guerra, a dispetto delle perplessità di Lacoste causate dalla crisi istituzionale
francese, delle tensioni tra i politici e i militari e tra la Francia e i francesi d’Algeria,
all’interno della stessa coalizione di sinistra al governo e per l’eco internazionale che
raggiunse la questione nordafricana. Lo stesso Lacoste tenta un’iniziativa personale:
un progetto di legge che istituisse un collegio unico in Algeria, ponendo fine alla
diseguaglianza tra algerini e francesi, osteggiato da buona parte dell’Assemblea
Nazionale e dai francesi d’Algeria. Le conseguenze furono disastrose: caduta del
governo Bourgès-Maunoury, paralisi istituzionale di un mese fino all’ottenimento
della fiducia del governo presieduto da Gaillard e la profonda correzione del testo di
legge presentato da Lacoste limitando il peso dei candidati musulmani, inserendo una
clausola di entrata in vigore solo alla fine delle ostilità, istituendo fondi per il
completamento della barriera elettrificata lungo le frontiere marocchina e tunisina,
ottenendo il voto favorevole del parlamento il 29 Novembre 1958, indebolendo la
posizione di Lacoste in Algeria e rafforzando il gen. Salan e i metodi utilizzati
dall’esercito francese in quel territorio28.

2.2.1 I primi quattro anni di guerra degli algerini

Il 1 Novembre 1954, allo scoppio dell’insurrezione armata, non sancì


l’affermarsi di una direzione unica del movimento sotto la guida del FLN, con la
scomparsa di tutte le correnti politiche precedenti, ma soltanto due anni più tardi si
attesta come interlocutore qualificato e a capo del movimento di liberazione
nazionale. Lo scioglimento del MTDL, deciso pochi giorni dopo l’inizio
dell’insurrezione da parte delle autorità francesi, fu un punto importante per il
prestigio e la forza del FLN perché gli appartenenti al movimento di Messali Hadj
entrarono in clandestinità e, nella maggioranza dei casi, si unirono alla resistenza del
Fronte tra le montagne. Nello stesso periodo, per consolidare il proprio ruolo,

27
Stora, La guerra d’Algeria, cit., pp. 37-38.
28
Ibid., pp. 38-41.

57
saranno di grande aiuto le riserve di armi di cui disponeva l’OS, organizzazione
paramilitare del MTDL, e la creazione di rapporti con i paesi confinanti. In questa
fase, in aggiunta, si tentano diversi accordi tra gli attivisti, coloro che hanno
scatenato l’offensiva, i centralisti, la maggioranza degli ex membri del Comitato
centrale del MTDL, e i messalisti, sostenitori di Messali Hadj, che non andarono
oltre al riconoscimento dell’ALN29.
Nelle prime settimane del 1955 gli attivisti riescono a garantirsi il sostegno
della corrente centralista mentre i messalisti, non credendo che la sola azione militare
avrebbe portato all’indipendenza, rifiutano di sostenerli e fondano a loro volta il
Movimento nazionale algerino (MNA) che combatté duramente il FLN con agguati e
assassini a militanti di alto rango. Nei mesi successivi si moltiplicano i contatti tra il
Fronte e le altre formazioni politiche algerine, tra cui l’UDMA di Fehrat Abbas, che
aderisce alla fine del 1955, e il Congresso degli Ulema, per timore di essere
emarginata, dal Gennaio 1956. Il Partito comunista algerino (PCA) e il Fronte,
invece, iniziarono un lungo negoziato per un eventuale ingresso dei comunisti
all’interno del movimento indipendentista che si concluse il 1 Luglio 1956 con
l’integrazione dei militanti del PCA nell’ALN30.
Una svolta alla rivoluzione algerina venne dal Congresso della Soummam,
che si svolse il 20 Agosto 1956, definendo il programma politico del movimento, il
riconoscimento del Fronte come unica organizzazione veramente nazionale, la
strutturazione FLN-ALN e l’affermazione del primato del politico sul militare,
nonostante l’obiettivo era l’indipendenza mediante la lotta armata. Si svolse nella
regione dei Bibans, in Cabilia, e parteciparono sedici delegati, in rappresentanza
delle diverse regioni algerine: oltre all’assenza della delegazione all’estero, non ci
furono rappresentanti dell’Aurés, poiché il responsabile Mostefa Ben Boulaïd fu
assassinato poco prima del congresso; la regione di Orano rappresentata dal solo
Larbi Ben M’Hidi; sei delegati, Youssef Zighoud, Lakhdar Ben Tobbal, Mostefa
Benaouda, Brahim Mezhoudi, Ali Kafi e Rouibah, provengono dalla seconda wilaya,
regione settentrionale di Costantina; Belkacem Krim, Mohammedi Saïd, Amirouche
e Kaci dalla Cabilia; Amar Ouamrane, Slimane Dehils e Ahmed Bouguerra da
Algeri; uno solo dalla regione Sud, Ali Fellah. In aggiunta a questi quindici troviamo
l’unico segretario politico, Abane Ramdane.

29
Ibid., pp. 45-46.
30
Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., pp. 90-91.

58
Tra le deliberazioni del congresso le principali sono: una attenta valutazione
delle forze materiali a disposizione, in cui si denunciò l’insufficiente rifornimento di
armi e un diseguale radicamento politico su tutto il territorio algerino; la redazione di
una piattaforma politica articolata attorno ai principi di collegialità della direzione, di
preminenza del politico sul militare, dell’interno sull’esterno; una riorganizzazione
delle strutture dell’ALN, ormai ricalcate sul modello di un esercito regolare, da cui
avrà vita il futuro esercito algerino31. Un altro aspetto da non sottovalutare fu
l’internazionalizzazione del FLN, sensibilizzando l’opinione pubblica mondiale sul
caso algerino, consentendo di disporre di aiuti materiali e di sostegno morale,
portando il caso alle Nazioni Unite ed aprendo sedi nell’Europa Occidentale ed
Orientale, negli Stati Uniti e in altri paesi, tra cui Cina e India. Nel corso della guerra
contro la Francia, i nazionalisti algerini istituiscono una diplomazia resistenziale,
creando una vera e propria struttura diplomatica e una rappresentanza all’estero che
continueranno a funzionare efficacemente dopo l’indipendenza acquisita nel 196232.
L’immigrazione algerina in Francia rappresenta per il Fronte una fonte di
guadagno, grazie al mantenimento della struttura del MTDL sul territorio
metropolitano dividendola in cinque regioni: regione parigina e Ovest (Parigi),
regione Nord ed Est (Longwy), regione Centro (Lione), regione Sud-Est (Marsiglia)
e regione Sud-Ovest, ancora priva di organizzazione nel 1956. Il movimento conta
8.000 membri nel Giugno 1956, aumentando l’anno successivo a 15.000,
concentrando i propri sforzi sullo sviluppo e la moltiplicazione degli introiti
finanziari, vitali per la resistenza algerina dato l’alto costo delle armi, per le esigenze
diplomatiche e il sostegno alle famiglie di militanti imprigionati o uccisi. Un
contributo importante dato dal secondo fronte alla resistenza, se si considera che nei
sette anni di guerra furono raccolti 400 milioni di franchi.

2.3 L’avvento di de Gaulle e la conclusione della guerra (1958-1962)

Nel corso dei primi tre mesi del 1958, con l’ALN che proseguiva nei suoi
sforzi di sfondare la linea elettrificata che delimitava l’Algeria dalla Tunisia, il
governo francese pensava di ridurre la durata del servizio militare e il numero dei
soldati presenti sul territorio nordafricano, mandando su tutte le furie i residenti

31
Ibid., pp. 100-102.
32
Stora, La guerra d’Algeria, cit., pp. 51-58.

59
francesi e l’esercito che non tollerarono più riduzioni di spesa pubblica, cambiamenti
improvvisi di esecutivo, i contatti segreti con gli emissari del FLN e le pressioni della
comunità internazionale. Il problema algerino, insieme alla paralisi amministrativa e
finanziaria, al crollo del franco francese e all’aumento del deficit del commercio
estero portarono alla crisi finale le istituzioni del regime parlamentare della quarta
repubblica. Dopo un mese di stallo istituzionale, il presidente Coty33 si rivolse al
centrista Pierre Pflimlin per formare un governo dopo la caduta di Gaillard, visti i
suoi propositi di aprire i negoziati con il FLN, richiamando in Francia anche Lacoste,
personalità politica che rappresentava l’Algeria nel precedente governo. Con il suo
ritorno sul territorio metropolitano, l’esercito rimase l’unica autorità presente in
Algeria e i comitati di difesa dell’Algeria francese e le associazioni di ex combattenti
promossero una grande manifestazione per il 13 Maggio, a cui si unirono gli studenti
europei di Algeri, che confluì nella piazza del Forum, davanti alla sede del governo
centrale, in cui penetrarono grazie alla non resistenza dei militari che proteggevano il
palazzo.
Seguì la creazione di un Comitato di salute pubblica, presieduto dal gen.
Massu e legittimato dal gen. Salan, che si pose l’obiettivo di facilitare il ritorno al
potere di De Gaulle, l’unico, secondo gli ufficiali, in grado di sistemare la situazione
e portare alla vittoria contro i rivoluzionari algerini. L’idea di affidargli, nuovamente,
le sorti della nazione ottenne un grosso e crescente consenso in Francia, anche da
parte del Presidente della Repubblica René Coty, ma il diretto interessato non scoprì
appieno le proprie carte, ad eccezione del ripristino dell’autorità dello stato e la
creazione di un nuovo regime, costruito su misura per sé, dotato di un potere
presidenziale forte34. Un’accelerazione al ritorno in campo del vecchio generale fu
data dall’estensione della ribellione di alcuni ufficiali anche in Corsica alla fine di
Maggio, con l’incontro decisivo tra De Gaulle e il primo Ministro Pflimlin in cui il
primo subentra al secondo, creando entusiasmo tra i francesi d’Algeria e l’esercito.
Con la sua investitura a Presidente del Consiglio, si conclude l’esperienza
fallimentare della Quarta Repubblica, sostituita da un regime semipresidenziale che

33
Renè Coty (1882-1962), fu deputato repubblicano di sinistra dal 1923, divenne senatore tra il 1936 e
il 1940, quando appoggiò la mozione dei pieni poteri al maresciallo Pétain. In seguito divenne
Ministro dal 1947 al 1948 e vice presidente del Consiglio dal 1949 al 1953. In quest’ultimo anno
venne eletto alla dodicesima votazione presidente della Repubblica, ruolo che manterrà fino al 1959
quando, in seguito al referendum costituzionale, lascerà la carica a de Gaulle.
34
Stora, La guerra d’Algeria, cit.., pp. 59-62.

60
attribuisce grandi poteri al Presidente della Repubblica35, la cui costituzione venne
votata, con la stragrande maggioranza dei voti favorevoli, il 28 Settembre 1958, e
con l’elezione, pochi mesi più tardi, di De Gaulle all’Eliseo. Le intenzioni golliste in
materia algerina riguardano una diminuzione del potere militare nello stato
nordafricano e l’avvio della pacificazione tra musulmani ed europei attraverso la
“pace dei coraggiosi”, con l’unica condizione di finire la guerra e accordarsi per una
pace duratura tra francesi e rivoluzionari algerini.
L’appello viene rifiutato dal FLN, che il 19 Settembre 1958 crea il Governo
provvisorio della Repubblica algerina (GPRA), incrementando la propria azione sul
territorio metropolitano. Non arrivando ad un accordo, De Gaulle si vede costretto a
gettare definitivamente la maschera, dopo un anno e mezzo di illusioni ed ambiguità
a riguardo dell’Algeria, e il 16 Settembre 1959, in un discorso televisivo in cui per la
prima volta viene pronunciata la parola autodeterminazione, offre agli algerini la
scelta tra l’associazione alla Comunità francese e la secessione, quindi
l’indipendenza, attraverso un referendum in Algeria, poi confermato dal voto
popolare metropolitano. I sostenitori dell’Algeria francese gridano immediatamente
al tradimento e sostengono di essere stati ingannati: i principi proclamati nelle
giornate del maggio-giugno 1958 sono rimessi in discussione, dal momento che
l’Algeria francese non è più una certezza, ma diventa un quesito referendario.
Sull’altro fronte il GPRA pone, il 28 Settembre 1959, la questione
dell’indipendenza come pregiudiziale a qualsiasi negoziato. Il 20 Novembre i
nazionalisti algerini indicano Ahmed Ben Bella e i suoi compagni di prigionia quali
propri rappresentanti nel negoziato con la Francia, che respinge tale proposta. Una

35
La peculiarità della V Repubblica risiede nell'importanza accordata al presidente della Repubblica;
l'intento è quello di conferire al governo una maggiore stabilità rinforzando lo status e i poteri del capo
dello Stato. Dotato di una legittimità ben distinta da quella del Parlamento, il presidente della
Repubblica viene eletto nel 1958 a suffragio indiretto; bisognerà aspettare il 1962 per l'elezione diretta
a suffragio universale. Da allora, sono i francesi che scelgono il proprio presidente, così come sono i
francesi che guidano la scelta del Primo Ministro eleggendo una maggioranza parlamentare che lo
sosterrà e voterà le leggi presentate dal governo. Ma il sistema è complesso e la sua geometria è
variabile. Tra le innumerevoli procedure di razionalizzazione del parlamentarismo, la maggioranza
parlamentare dispone in particolare della facoltà di far cadere il governo (articolo 50), mentre il
presidente della Repubblica ha il potere di scioglierla (articolo 12). Si pensi ancora al famoso articolo
49-3, che permette al governo di far adottare un testo di legge senza necessariamente ottenere
l'accordo espresso dell'Assemblea Nazionale. Per una migliore spiegazione si veda il sito:
http://www.france.fr/it/istituzioni-e-valori/la-costituzione-della-v-repubblica-francese.html .

61
diffidenza reciproca figlia dell’inasprimento del conflitto durante il 1959, dove le
operazioni militari francesi, portate avanti dal gen. Challe nella Cabilia e nell’Aurès,
hanno avuto un’accelerazione per far accettare i termini del negoziato proposti da De
Gaulle e portano gli ufficiali ad essere ottimisti sulla vittoria finale francese contro i
rivoluzionari, poiché i guerriglieri del FLN sono braccati o sconfitti, piccoli gruppi di
resistenti tentano di trovare rifugio tra le montagne e più di due milioni di contadini
vengono allontanati dalle loro terre. Ma i problemi per De Gaulle e la Francia,
dall’inizio del 1960, proverranno da alcuni ufficiali dell’esercito di stanza in Algeria,
entrando in una nuova fase in cui lo scontro non è più solamente con i ribelli algerini
ma con i francesi d’Algeria e con quanti sono disposti a morire per la causa di quella
colonia36.
I tentativi di negoziato aperti da De Gaulle con il FLN mandarono su tutte le
furie i sostenitori dell’Algeria francese che, nel Gennaio 1960, si scontrarono con le
forze di polizia ad Algeri, capitanati da Pierre Lagaillarde, presidente degli studenti
di Algeri, e Joseph Ortiz, proprietario di un bar nella piazza del Forum, che
organizzarono barricate in centro per cercare di ottenere l’assenso e l’aiuto della
popolazione europea e dei paracadutisti di stanza nella capitale. Le barricate ad
Algeri furono smantellate il 1 Febbraio e già l’indomani l’Assemblea Nazionale votò
i poteri speciali al governo per il mantenimento dell’ordine e della salvaguardia
nazionale con l’imperativo di De Gaulle di avvicendare gli ufficiali e l’arresto di
quanti fossero a conoscenza di questa insurrezione ad Algeri, come Alain de
Séregny, direttore del quotidiano «L’Echo d’Alger», per complicità con l’attentato
alla sicurezza dello stato.
I primi colloqui tra i due contendenti si aprono a Melun, piccolo comune nella
regione parigina, il 25 Giugno 1960, dove le parti in causa non arrivarono ad un
accordo ma, questo incontro, creò ulteriori aspettative in Francia sulla fine della
guerra, e il conseguente rientro dei soldati di leva, in molte associazioni di studenti,
sindacati ed intellettuali che proclamarono la necessità di arrivare ad un accordo tra
le parti in causa. Gli europei d’Algeria e gli ufficiali iniziano a capire che la
situazione coloniale non sarebbe durata e che il FLN si era guadagnato uno spazio
importante a livello politico, nonostante le battaglie militari perse nell’ultimo
periodo, arrivando all’8 Gennaio 1961 in cui la politica algerina di De Gaulle, come
annunciato nel 1958, venne sottoposta a referendum in Algeria e, per conferma, in

36
Stora, La guerra d’Algeria, cit., pp. 62-68.

62
Francia, ottenendo il 75,25 per cento dei consensi in patria e il 69,09 per cento nel
paese nordafricano. L’esito positivo della consultazione popolare incanala nei binari
giusti gli incontri tra i rappresentanti del Fronte e quelli del governo francese che
giungeranno all’apertura di un vero e proprio negoziato che inizia il 7 Aprile 1961
nella cittadina termale di Evian37.
Con l’inizio dei veri negoziati, gli ultras dell’Algeria francese tentano di
guidare una sorta di controrivoluzione con il sostegno di alcuni generali dell’esercito,
frustrati per l’inutilità degli sforzi militari che avevano portato ad un passo dalla
vittoria, degli europei, in preda al panico per il loro incerto futuro in Nord Africa, e
con alcune personalità sul territorio metropolitano che portano alla creazione, il 20
Gennaio 1961, dell’Organisation armée secrète (OAS)38. La rivolta contro De
Gaulle e la sua politica algerina, che alcuni mesi più tardi confermerà la propria idea
di decolonizzare l’Algeria, comandata dal gen. Salan, coinvolse alcuni reparti militari
che il 21 Aprile 1961 marciarono su Algeri, prendendo il controllo del governo
generale, dell’aerodromo, del municipio e del deposito di armi. Le adesioni
dell’esercito ai generali golpisti tardavano ad arrivare e De Gaulle, in un discorso
televisivo nei giorni successivi, denunciò a tutta la nazione il tentativo di golpe
militare di alcuni generali, riuscendo ad accendere lo spirito nazionalistico dei
militari di leva che si schierarono con la metropoli e misero in minoranza gli aderenti
al putch, che fallì il 27 Aprile. Il giorno successivo fu istituita un’Alta corte militare
incaricata di processare gli ufficiali insorti, con l’eccezione di Salan e Jouhaud che
entrano in clandestinità. Nel Maggio 1961, gli ufficiali disertori si riunirono in un
comitato direttivo sotto il nome dell’OAS, stabilirono i contatti con Salan, che
divenne il comandante supremo, e Jouhaud, stilando un organigramma snello e
simile a quello del FLN. Nell’immediato, l’unico obiettivo su cui si concentrano fu
l’insurrezione popolare ad Algeri e, forse, ad Orano, con l’intento di far saltare i

37
Ibid., pp. 69-72.
38
L’Organisation de l’armée secrète (OAS), era un’organizzazione clandestina francese creata il 20
Gennaio 1961 dopo un incontro a Madrid, al riparo del regime franchista, da Jean-Jacques Susini e
Pierre Lagaillarde. La sigla OAS comparve sui muri d’Algeri il 16 Marzo 1961. Lo slogan era
“L’Algérie française”. L’organizzazione raggruppava i fautori del mantenimento della presenza
coloniale francese in Algeria e i veterani della guerra di Indocina nel 1954. Susini stesso era un
francese nato sul suolo algerino, convinto che un fronte di resistenza civile dovesse affiancare i
generali ribelli. Per una più esaustiva analisi della questione si veda Paul Henissart, OAS: l’ultimo
anno dell’Algeria francese, Garzanti, Milano 1970.

63
negoziati avviati, nuovamente, il 20 Maggio 1961 a Evian tra il governo francese e il
FLN, in modo da creare un ostacolo invalicabile al proseguimento degli stessi.
Iniziarono le proprie azioni terroristiche su vasta scala, colpendo i
commercianti musulmani, i funzionari dell’amministrazione fiscale, della polizia e
dell’istruzione e l’Autunno del 1961 fu il momento della speranza. Sul piano
dell’organizzazione interna, il movimento trovò definitivamente le condizioni
dell’unità e della coesione: l’autorità del gen. Salan e dello stato maggiore non fu più
contestata, oltre alla grande complicità e al sostegno che ottenne dalla popolazione
europea attraverso manifestazioni, trasmissioni di messaggi alla radio ed operazioni
mirate39.
Nonostante le complicazioni portate dall’OAS, la mediazione tra le parti
proseguirono e fu raggiunto un importante accordo per il Sahara, questione che aveva
ostacolato i negoziati a causa dell’importanza data dai francesi a quell’area per
effettuarvi test nucleari e per la ricerca di riserve di idrocarburi, ma i nazionalisti
algerini non indietreggiarono dalle proprie posizioni, rifiutando qualsiasi spartizione
dei territori del sud. Altri passi in avanti furono l’interruzione delle azioni militari in
Algeria e l’annuncio di De Gaulle, il 2 Ottobre 1961, dell’istituzione dello stato
algerino sovrano e indipendente attraverso l’autodeterminazione, ammorbidendo la
propria posizione anche sulle basi militari francesi in Algeria. Alla fine del 1961,
però, le istituzioni francesi sembrano incontrare sempre più ostacoli per
l’applicazione della propria politica algerina, a causa dello stallo nei negoziati con il
FLN e per la sempre più ingombrante figura dell’OAS, che beneficia di numerose e
importanti complicità in alcuni settori della polizia, dell’esercito e
dell’amministrazione. L’OAS, invece, deve fronteggiare la repressione da parte dei
reparti di polizia e del FLN, agendo spesso in collaborazione, effettuando sequestri di
militanti e responsabili dell’organizzazione, assottigliandone sempre di più le fila. A
quest’ultimi non restano che le attività terroristiche, per poter creare le condizioni per
un’insurrezione armata che impedisca la conclusione del negoziato con il FLN, ma
otterranno solo l’ostilità da parte della Francia che, nelle parole di De Gaulle, farà di
tutto per sconfiggere e punire l’OAS, con quest’ultima che aumenta l’offensiva sul
territorio algerino quando si apre la conferenza di Evian, il 7 Marzo 196240.

39
Stora, La guerra d’Algeria, cit., pp. 72-77.
40
Ibid., pp. 77-94.

64
La firma dell’accordo sulla fine delle ostilità e i documenti politici annessi
avviene a Evian il 18 Marzo e il giorno successivo venne proclamata la fine di ogni
operazione militare in Algeria, preceduta da una importante riunione del Consiglio
nazionale della rivoluzione algerina (CNRA), a Tripoli, che vede le prime fratture
tra la corrente dei duri, capeggiata da Boussouf e Ouamrane, e dei moderati, che si
riuniscono intorno alla figura di Ferhat Abbas. Il trattato di pace viene accettato, con
alcune perplessità attorno alla figura di Farès come capo dell’esecutivo provvisorio,
da parte della corrente dei duri, e osteggiato dagli alti ufficiali dell’ALN che non
approvavano il testo finale con le istituzioni francesi. L’accordo prevede il pieno
accesso alla sovranità da parte dell’Algeria, senza interferenze francesi nella nomina
dei dirigenti statali, garantendo l’integrità politica e territoriale dello stato algerino,
mentre la Francia si vedeva riconosciute alcune sue prerogative: avrebbe mantenuto
in Algeria 80.000 soldati per tre anni conservando per cinque anni i poligoni per gli
esperimenti nucleari, le basi aeree nel Sahara e sarebbe rimasta per quindici anni con
un regime d’affitto nella base navale di Mers el Kébir. Le compagnie petrolifere
francesi si assicurarono le concessioni già operanti e un trattamento di favore sulle
nuove esplorazioni per un periodo di sei anni. Con tutti questi vantaggi non si poteva
dire che l’era del colonialismo fosse stata completamente cancellata, ma la situazione
riaffermava una concezione del FLN: non buttare a mare i francesi ma distruggere
l’inumano giogo coloniale che andava avanti da più di un secolo41.
La procedura per il periodo transitorio era molto complicata perché gli
accordi prevedono un esecutivo provvisorio composto in parti uguali da esponenti
del GPRA, da musulmani non affiliati al FLN e da francesi, quest’ultimi
rappresentati anche da un alto commissario, nella persona di Christian Fouchet, che
doveva applicare gli accordi, insediare l’esecutivo e ristabilire l’ordine. L’Esecutivo
provvisorio, divenuto l’espressione dell’alleanza tra l’ala moderata degli algerini e
gli europei, fu presieduto da Abderrahman Farés, ex presidente dell’Assemblea
algerina e da sempre fautore di una collaborazione proficua con la Francia, con poteri
di pubblica sicurezza, di preparazione del referendum e di amministrazione dei
servizi pubblici. Uno dei primi problemi da affrontare per l'Esecutivo provvisorio fu
l’imperversare ad Algeri e in altri centri del paese delle bande dell’OAS, dedite agli
attacchi terroristici per indurre l’esercito francese a schierarsi dalla parte dei coloni e,
nonostante la disciplina dimostrata dal popolo algerino, urgeva trovare una soluzione

41
Calchi Novati, Storia dell’Algeria indipendente, cit., pp. 129-132.

65
attraverso un negoziato con l’OAS stessa. Il primo incontro tra Farés e Susini, il
plenipotenziario dell’OAS, avvenne il 18 Maggio e le trattative continuarono tramite
Mostefaï, uomo del FLN nell’esecutivo, insieme a Belkacem Krim e Jacques
Chevallier, ex sindaco di Algeri, per concludersi il 17 Giugno con due comunicati
paralleli in cui l’OAS ratifica l’indipendenza dell’Algeria e invita gli europei a
collaborare con i musulmani mentre nell’altro vengono amnistiati i delitti commessi
dall’organizzazione ed era concesso agli europei di entrare nelle forze di polizia
locale. In entrambe le dichiarazioni si può scorgere l’idea di una nuova Algeria per
tutti, ma l’esodo della popolazione europea continuò senza sosta e il miraggio di un
avvenire comune restò sulla carta a causa dei troppi omicidi, dei troppi regolamenti
di conti eseguiti e da eseguire.
Da qui in avanti il vero potere esecutivo va nelle mani del FLN che, nei mesi
successivi, prende il potere in Algeria senza concorrenza di altre forze politiche,
nonostante al proprio interno ritornino fuori tutte le discordie che erano rimaste
oscure dal 1954, sopravvivendo all’unità durante la guerra realizzata nel 195642.

2.4 La società francese e algerina durante il conflitto

La guerra d’Algeria ha lasciato importanti strascichi all’interno delle società


francese ed algerina, non soltanto per la crudeltà della guerra ma anche per i
cambiamenti epocali a livello sociale e politico-istituzionale. In particolar modo la
presa di coscienza di una parte della popolazione metropolitana francese di cosa sta
succedendo sulla sponda sud del Mediterraneo, cosa di cui non è informata a dovere
dalle proprie istituzioni repubblicane e i mutamenti subiti dalla popolazione algerina
durante gli otto anni di guerra contro l’esercito d’oltralpe.

2.4.1 L’opinione pubblica francese durante gli otto anni di conflitto franco-algerino

Un’opinione pubblica che protesta e sfoga la propria contrarietà alla guerra


d’Algeria appare come un momento di intensa presa di coscienza, di aspre contese e
divisioni, aprendo un vero dibattito nella società francese dal 1956, anno dei poteri
speciali e l’invio in massa dei militari di leva. Uno dei primi problemi che sorge nel
contesto sociale francese è l’utilizzo della tortura come una normale pratica di

42
Ibid., pp. 133-135.

66
pacificazione durante la battaglia di Algeri, ritenuta una prassi comune contro i
sospetti e per interrogatori approfonditi43. A partire dalla metà del Febbraio 1957
iniziano le pubblicazioni dei primi dossier provenienti dall’Algeria con le
testimonianze oculari di chi effettua in prima persona la tortura o di chi ha visto le
ferite sulle vittime algerine. Sempre nello stesso anno, nel mese di Novembre, per
iniziativa del matematico Laurent Schwartz e di Pierre Vidal-Naquet, si forma il
Comitato Maurice Audin, giovane matematico francese arrestato dai parà di Massu
nel Giugno 1957 e scomparso misteriosamente mentre è del Gennaio 1958 l’uscita
del libro La Question di Henry Alleg, che sconvolse le coscienze e rivelò al grande
pubblico il ricorso a quelle barbare pratiche. Inizia allora il dibattito che spaccò
l’opinione pubblica, la Chiesa, le famiglie e i partiti sul quesito: perché l’esercito
francese pratica la tortura su grande scala ? Molti ritengono che la tortura possa
diventare una pratica istituzionalizzata in ambito poliziesco e militare44.
La pubblicazione su giornali e riviste, come «L’Humanité», «Le Temps
modernes», «Esprit» e «Vérité pour», di estratti di opere come Contre la torture di
Pierre-Henri Simon, segnano l’inizio dell’impegno di molti intellettuali, in poco
tempo riuniti in reti associative, che combattono contro la disinformazione e le
violazioni dei diritti dell’uomo insieme a militanti comunisti, scrittori, intellettuali
cattolici e preti.
Nonostante la censura e la cappa di piombo che regna sull’Algeria, l’opinione
pubblica francese scopre poco alla volta la vera natura di un conflitto che,
decisamente, non ha più nulla a che vedere con il tanto proclamato mantenimento
dell’ordine45. Restrizioni significative alla libertà di stampa e alla pubblicazione di
immagini vengono emanate all’interno della legge del 3 Aprile 1955, che dichiara lo
stato di emergenza, concedendo alle autorità amministrative, al Ministro dell’Interno,
al governo centrale e ai prefetti la possibilità di prendersi il controllo della stampa e
delle pubblicazioni di qualsiasi natura. Sotto la Quarta Repubblica alcuni giornali

43
Ciò emerge da un rapporto di Roger Willaume, ispettore generale dell’amministrazione, del 2
Marzo 1955 consegnato all’allora governatore Soustelle, da cui emerge chiaramente come la tortura
fosse una pratica utilizzata abitualmente nei confronti dei sospetti. Il 13 Dicembre 1955 il presidente
del Consiglio, Edgar Faure, riceve da Jean Mairey, direttore della sicurezza nazionale, un rapporto che
giunge alle medesime conclusioni di quello di Willaume. La tortura è praticata dai Dop, Détachement
opérationnel de protection, unità speciali dell’esercito incaricate di interrogatori approfonditi.
44
Stora, La guerra d’Algeria, cit., pp. 33-34.
45
Ibid., p. 35.

67
come «L’Express», «France-Observateur», «L’Humanité», «Le Canard enchaîné»,
«La Vérité des travailleurs», «Le Libertaire» sono presi di mira e alcuni libri editi da
Jérôme Lindon e François Maspero vennero sequestrati sotto la Quinta Repubblica,
fra il 1958 e il 1962. Tra questi c’è il Manifesto sul diritto all’insubordinazione,
pubblicato da Maspero e redatto da 121 personalità di spicco della cultura francese,
che pagheranno con la denuncia e il divieto di partecipazione alle trasmissioni
televisive la loro presa di posizione sulla spinosa questione algerina46.
Importanti manifestazioni studentesche per la pace si svolsero alla fine del
1960, ossia un anno e mezzo prima dell’indipendenza algerina e la prima imponente
manifestazione ebbe luogo il 13 Febbraio 1962, con 500.000 persone che sfilarono
per i funerali delle vittime, tutti militanti comunisti, del metro Charonne appena un
mese prima della firma degli accordi di Evian. Se i due o trecento renitenti alla leva e
disertori e le poche migliaia di militanti organizzati in reti di solidarietà e sostegno
agli algerini sono indubbiamente la testimonianza del coraggio di una minoranza,
essi non costituiscono una vera resistenza francese alla guerra d’Algeria. Prendendo
in considerazione le inchieste d’opinione tra il 1955 e il 1962, ci si accorge che la
maggioranza dei francesi non era così attaccata al mantenimento dell’Algeria sotto la
sovranità francese a causa, secondo le conclusioni dello storico francese Jean-Pierre
Rioux, della mancanza di un progetto colonialista collettivo e ad ampio raggio che
coinvolgesse in profondità la dimensione sociale, ideologica e morale del paese. La
tesi di una sorta di consenso passivo da parte del popolo francese verso la
decolonizzazione è condivisa anche da Charles Robert Ageron, così da confermare la
teoria che la colonizzazione ha sempre riguardato una estrema minoranza e la
vocazione coloniale è sempre stata rara, così come la coscienza imperiale. Per
Benjamin Stora la Francia combatte una dura battaglia contro gli algerini, ma la
società rifiuta di vivere in uno stato di guerra e non vuole riconoscere che il proprio
esercito possa macchiarsi di torture o atti di oppressione poiché si rischia di riaprire
la dolora parentesi di Vichy47.
In conclusione possiamo affermare che la battaglia franco-algerino ha
favorito l’impegno di molti cittadini francesi al fianco dei nordafricani per
concludere nel più breve tempo possibile il conflitto e la parentesi coloniale
cominciata nel 1830. Ciò ha rappresentato un momento importante per una vera e

46
Ibid., pp. 71-72.
47
Ibid., pp. 81-83.

68
propria ricostruzione culturale che passa attraverso i saggi di importanti intellettuali
come Albert Camus, Jean Paul Sartre e Henri Alleg che scrivono e cercano di far
comprendere all’opinione pubblica cosa sta veramente accadendo sull’altra sponda
del Mediterraneo.

2.4.2 I cambiamenti sociali avvenuti nella popolazione algerina durante la guerra

La società algerina durante gli otto anni di conflitto si mobilitò totalmente,


investendo le sue risorse più nascoste per combattere il colonialismo francese,
cambiando per sempre la propria fisionomia rispetto a ciò che era fino al 1954.
Un interessante studio sulla società algerina viene effettuato da Frantz Fanon
con il saggio Sociologia della rivoluzione algerina: come un popolo si trasforma nel
corso della sua emancipazione, all’interno del quale analizza alcuni cambiamenti
sociali essenziali all’interno del conflitto per l’indipendenza. Il primo punto toccato
dallo studio dell’intellettuale martinicano prende in analisi il ruolo della donna,
messo in parallelo con la particolare concezione del velo islamico, che durante la
fase coloniale si trasformò in meccanismo di resistenza, avendo sempre un valore
tradizionale altissimo, ai cambiamenti culturali che i francesi vollero imporre
all’interno della società nordafricana. In un secondo momento, il mutamento avviene
in occasione della rivoluzione in cui il velo è abbandonato dalle donne all’interno
delle azioni militari del FLN, come ad esempio nelle passeggiate all’interno delle
zone europee delle diverse città algerine senza essere notate da soldati o poliziotti
francesi, diventando uno strumento per dare scacco alle offensive psicologiche o
politiche dell’occupante. Il velo aiuta l’algerina a rispondere alle nuove questioni
poste dalla lotta48.
Un altro punto rilevante riguarda la creazione di stazioni radio libere dal
complesso francese, introducendo dal nulla questo importante strumento di
comunicazione per poter ascoltare La voce dell’Algeria, programma radiofonico a
cura del FLN che comunica alla popolazione la propria posizione e come sta
procedendo la rivolta contro il colonialismo francese. Le truppe francesi faranno di
tutto per rallentare e distruggere il processo comunicativo con la confisca degli
apparecchi radio e il disturbo delle radiofrequenze che utilizza il Fronte, che ha

48
Frantz Fanon, Sociologia della rivoluzione algerina: come un popolo si trasforma nel corso della
sua emancipazione, Einaudi, Torino 1963, p. 50.

69
aumentato il numero di trasmissioni parlando in arabo e in francese, svalutando la
parola dell’occupante49.
Un terzo punto è l’analisi dei cambiamenti avvenuti all’interno della famiglia
algerina e nei rapporti tra i suoi componenti a causa dell’insurrezione armata e della
lotta per l’indipendenza. La società colonizzata si accorge che, per compiere l’opera
gigantesca in cui si è gettata, per vincere il colonialismo e per realizzare lo stato
algerino, deve fare un immenso sforzo su se stessa e crearsi nuovamente. Ciò avviene
grazie al giovane algerino che getta la propria famiglia nel vasto movimento di
liberazione nazionale per porre rimedio al grave ritardo con cui il padre identifica la
lotta per l’accesso all’indipendenza, simile a ciò che accade alla ragazza algerina che
emerge dalla lotta rivoluzionaria, sfuggente agli occhi del padre che non può più
utilizzare la propria autorità su di essa. Già da queste due figure emerge un
cambiamento nella gerarchia familiare algerina che se un tempo si basava sul
patriarcato, durante la rivoluzione cambia ed offre più spunto per le giovani
generazioni, siano essi uomini o donne. Altri cambiamenti si hanno nel rapporto di
coppia, nel matrimonio e nel divorzio50.
Infine, due questioni molto importanti nell’analisi di Fanon riguardano le due
minoranze della popolazione algerina, gli ebrei d’Algeria e i coloni europei. Nella
sua analisi non c’è una direzione unica che porta allo scontro con queste due realtà
sociali, ma cerca dei distinguo per far intendere che la maggior parte di queste genti
abbia aiutato, in diversi modi, la ribellione nei confronti di un potere coloniale che
colpisce tutto e tutti, facendosi sempre più tirannico51.
Pierre Bourdieu, importante sociologo francese, durante la sua esperienza
militare ed accademica in Algeria, studia i cambiamenti sociali avvenuti nella
popolazione algerina durante la guerra di liberazione. Per lo studioso francese
“l’esistenza stessa della guerra ha suscitato una trasformazione radicale della
situazione, cioè del campo sociologico nel quale i comportamenti si realizzano, e allo
stesso tempo una mutazione dell’atteggiamento degli individui che si trovano in
quella situazione rispetto alla situazione stessa…È come se questa società che aveva
scelto di essere bloccata e chiusa in sé stessa, che opponeva a qualsiasi intrusione del
nuovo mille baluardi invisibili e imprendibili si fosse bruscamente aperta e rimessa

49
Ibid., pp. 78-79.
50
Ibid., pp. 80-102.
51
Ibid., pp. 132-140.

70
in moto all’improvviso”52. La società algerina si difende dall’occidentalizzazione e
dal colonialismo attraverso i tratti culturali tradizionali per rimanere sé stessi, per
affermare la propria differenza radicale e irrinunciabile, preservando una personalità
minacciata e assediata. La guerra, invece, costituisce un nuovo linguaggio che fa dire
al popolo che non vuole più essere soggiogato da stranieri e ciò va collegato con il
momento in cui il mondo intero è costretto a riconoscere l’esistenza stessa di questa
negazione, come ad esempio le molte discussioni all’interno dell’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite durante gli otto anni di conflitto. Da tutto ciò la
tradizione e i tratti culturali antecedenti la guerra perdono la gran parte della loro
funzione e del loro significato.
Il conflitto fa si che le innovazioni portate dall’Occidente vengano accolte
senza che la loro accettazione esprima una sottomissione, come accadeva prima del
1954, facendo si che le rinunce più manifeste riguardino le tradizioni investite di un
valore essenzialmente simbolico, come ad esempio il velo per le donne che se prima
era una difesa della propria intimità e una protezione dalle intrusioni
occidentalizzanti, nel corso degli ultimi anni si osserva tra le giovani donne una
tendenza all’abbandono del velo, cosa osservabile anche nelle campagne. Una
trasformazione simile Bourdieu la ritrova in altri campi sociali come la scuola e la
medicina, prima considerate istituzioni sostenitrici del colonialismo mentre durante
la guerra vengono reclamate come qualcosa di dovuto, come ad esempio la grande
richiesta di iscrizione nei registri scolastici oppure le tantissime donne che si
accalcano alle porte dei centri sociali. Le discipline imposte dai ribelli erano per la
maggior parte identiche nel loro contenuto a quelle che l’amministrazione francese
aveva sempre tentato di far rispettare. In questo modo, addossandosi la responsabilità
delle istituzioni e delle tecniche che apparivano, alla coscienza popolare, come
indissociabili dal sistema coloniale e che, per questa ragione, suscitavano
atteggiamenti ambivalenti, imponendo ordini e direttive analoghe nei contenuti e
nella formulazione a quelle che avrebbe potuto promuovere l’amministrazione
francese, il FLN sembra aver rotto il legame intuitivamente percepito che univa
quelle istituzioni e quelle tecniche al sistema di dominazione coloniale. In altre
parole, la guerra ha dato a questo popolo l’occasione di apparire agli altri e a sé
stesso come un adulto, cosciente e responsabile che porta all’autonomia, dato che
l’esperienza di una disciplina liberamente concessa e imposta da algerini ad altri

52
Pierre Bourdieu, In Algeria. Immagini dello sradicamento, Carocci Editore, Roma 2012, p. 101.

71
algerini in nome dell’interesse comune ha fatto cadere ben altre resistenze ritenute di
solito insormontabili53.
Un punto interessante nell’analisi sociale di Bourdieu riguarda i fenomeni
migratori interni, volontari o forzati, conseguenza diretta e immediata nella gestione
del conflitto da parte delle forze francesi. La situazione viene vissuta dalla
popolazione algerina come una vera e propria diaspora perché gli spostamenti di
cittadini hanno assunto grandi proporzioni verso le città, per sfuggire alla miseria e
all’insicurezza oppure, per i più sfortunati, si aprono le porte dei centri di
raggruppamento che nella maggior parte dei casi non sono attrezzati per una
semplice sussistenza. Lo sradicamento dai luoghi di nascita o di residenza abituale
comporta una mutazione nei comportamenti dell’uomo, che da persona comunitaria
diventa gregario, sradicato, strappato alle unità organiche e spirituali nelle quali e
attraverso le quali esisteva, allontanato dal proprio gruppo e territorio d’origine,
inserito spesso in una situazione materiale tale per cui non riuscirebbe nemmeno a
ricordare l’ideale antico di onore e dignità54.
Conseguenza dei mutamenti visti in precedenza, il rapporto familiare muta in
maniera irreversibile a causa delle migliaia di uomini che sono entrati in
clandestinità, sono nei campi d’internamenti, in prigione o rifugiati in Tunisia e
Marocco; altri sono partiti per le città d’Algeria o di Francia, lasciando le loro
famiglie al villaggio o nei centri di raggruppamento oppure sono morti o dispersi
lasciando famiglie separate o dilaniate. All’interno di questa situazione si assiste
anche ad una mutazione del rapporto di fatto tra l’uomo e la donna poiché
quest’ultime si trovano investite di responsabilità e compiti che spettavano al marito,
assicurando spesso la sussistenza della famiglia con l’aiuto di qualche altro parente.
Ciò comporta per la donna uno spazio di vita nuovo ed allargato rispetto al passato e
l’algerina, nel corso della guerra, ha acquisito sempre più autonomia. L’esplosione
del blocco familiare spinge ogni componente del gruppo a prendere coscienza della
sua personalità e delle sue responsabilità. I giovani di città sfuggono ai controlli della
tradizione e alla pressione dell’opinione pubblica e l’autorità del padre, sebbene
ancora molto presente, è spesso alterata, dato che non è più sentito come il
fondamento di tutti i valori e come colui che ordina ogni cosa55.

53
Ibid., pp. 102-109.
54
Ibid., p. 112.
55
Ibid., pp. 118-119.

72
In conclusione si può affermare che la società algerina si è spogliata della
sedimentazione mentale e dell’arresto affettivo e intellettuale organizzati da 132 anni
di oppressione perpetrata dalla polizia e dall’esercito sotto il controllo del
colonialismo francese. Sono le trasformazioni sociali e familiari durante la lotta di
liberazione che impongono la creazione di una nuova nazione e lo sviluppo della sua
piena sovranità, staccandosi per sempre dalla tirannide francese. “L’aggregato di
atomi disorientati e sballottati lascerà forse posto a un nuovo tipo di unità sociale
fondata non più sull’adesione organica ai valori consegnati dalla tradizione secolare
bensì sulla partecipazione attiva, creatrice e liberamente scelta per un’opera
comune”56.

2.5 Le istituzioni italiane di fronte al conflitto franco-algerino

Dallo scoppio della ribellione algerina nella notte di Ognissanti, fino all’estate
del 1955, il governo italiano dette scarsa importanza a ciò che accadeva sulla sponda
sud del Mediterraneo, e le poche volte che se ne occupò fu sempre in considerazione
dei rapporti bilaterali con la Francia, cruciali per il ruolo italiano all’interno del Patto
Atlantico e nei vari progetti europei. Portatore di queste istanze fu il governo
presieduto da Mario Scelba57, in carica dal Febbraio 1954, con il Ministro degli
Esteri Martino58 che portava avanti una politica estera molto prudente per non
intaccare i rapporti con l’oltralpe e con il resto del blocco occidentale, grazie alla
quale riuscì ad arrivare all’accordo per il territorio di Trieste e all’ingresso della
penisola nelle Nazioni Unite. Inoltre, un fattore che limitava l’intervento esterno nel
conflitto franco-algerino fu che l’Algeria era formalmente territorio metropolitano
francese e quindi veniva considerata un problema interno dello stato transalpino. Una

56
Ibid., p. 121.
57
Mario Scelba (1901-1991), politico della Democrazia Cristiana, fu Presidente del Consiglio dei
ministri italiano dal 10 febbraio 1954 al 6 Luglio 1955, Presidente del Parlamento Europeo dal 1969 al
1971 e parlamentare italiano dal 1946 al 1983.
58
Gaetano Martino (1900-1967), esponente del Partito Liberale Italiano, fu eletto deputato nelle fila
del Partito Liberale Italiano e divenne vice presidente della Camera nel 1948. Rieletto deputato nel
1953 nel Collegio unico nazionale, tornò a fare il vice presidente dell'assemblea fino a quando
divenne Ministro della Pubblica istruzione durante il Governo Scelba nel Settembre 1954. In seguito
ad un rimpasto dell’esecutivo gli venne affidato il Ministero degli Affari Esteri, carica che mantenne
anche nel Governo Segni I fino al 1957.

73
maggior attenzione al problema nordafricano fu data dal successivo governo Segni I,
entrato in carica dal Luglio 1955, che subì il mutato scenario internazionale a causa
della Conferenza di Bandung e la Conferenza di Ginevra, un direttorio a quattro tra i
presidenti di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica per discutere di
sicurezza europea, riunificazione tedesca, di disarmo e di scambio culturale. In questi
due frangenti si capì che la linea di attrito del sistema globale si era spostata nel
bacino del Mediterraneo attraverso lo scontro Est-Ovest e Nord-Sud, che si protrarrà
fino al processo di decolonizzazione. Anche all’interno delle istituzioni italiane ci
furono dei cambiamenti con l’elezione al Quirinale di Giovanni Gronchi59, fautore
dell’apertura ai socialisti dell’area di governo e di un nuovo modo di elaborare i
rapporti internazionali in ambito atlantico, europeo e mediterraneo60.
L’Italia, quando la questione algerina venne portata dai paesi afroasiatici per
essere discussa durante l’Assemblea plenaria delle Nazioni Unite, non faceva ancora
parte dell’ONU ma cercava di informarsi sulla posizione degli alleati occidentali in
merito al caso nordafricano, in particolar modo l’orientamento e l’opinione
statunitense, su cui le diplomazie di Bandung tentavano di fare pressione affinché
prendesse una posizione contraria al perdurante colonialismo europeo. Un voto
favorevole in prima commissione iscrisse il problema algerino all’ordine del giorno
della X Assemblea Generale dell’ONU tenuta nel Dicembre 1955, con la Francia che
abbandonò i lavori congressuali per protesta contro tale decisione, una situazione che
rientrerà solamente dopo le elezioni legislative del Gennaio 1956, con l’aspettativa di
avere un governo più solido in materia internazionale. La situazione francese venne
percepita negativamente dall’Italia, preoccupata dalla crisi drammatica che stava
attraversando l’Oltralpe in materia nordafricana e istituzionale. Il governo di Roma,
con la fine del problema triestino e l’ammissione all’ONU aveva portato a termine i
due problemi principali di politica estera e con il suo atteggiamento sulla questione

59
Giovanni Gronchi (1887-1978), esponente di spicco della corrente di sinistra della Democrazia
Cristiana, fu Ministro dell’Industria e del Commercio già nei primi governi successivi all’8 Settembre
1943 e divenne nella prima e seconda legislatura Presidente della Camera dei Deputati. Venne eletto
Presidente della Repubblica il 29 Aprile 1955 al quarto scrutinio grazie alla confluenza dei voti delle
sinistre sul suo nome. Per una più esaustiva biografia si veda Gianfranco Merli, Emo Sparisci,
Giovanni Gronchi: una democrazia più vera, Studium editore, Roma 1993.
60
Bruna Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria (1954-1962), Rubbettino, Catanzaro 2012, pp. 17-20.

74
algerina misurava la capacità e la volontà politica di modificare, aggiustare,
rimodellare i parametri del suo modo di partecipare alla comunità internazionale61.
Nel 1956 il pensiero degli ambienti politici e diplomatici italiani era di
crescente preoccupazione per la situazione algerina, con la Francia incapace di
riprendere il controllo del territorio e pesantemente condizionata dalla resistenza dei
coloni francesi. Un problema non di poco conto per Pietro Quaroni62, ambasciatore a
Parigi, dato che questo problema si rifletteva sulle scelte francesi a livello
internazionale e ciò che si prefiggeva era una linea cautelativa delle istituzioni
italiane, per non favorire eventuali cambiamenti di politica estera dello stato
transalpino. Il governo Segni I continuò su questa strada, sostenendo la Francia nelle
sedi internazionali, come la Nato, per scongiurarne l’allontanamento dalle posizioni
occidentali, con possibili alleanze con l’URSS, ed europee. Questo aiuto poteva
servire a favorire l’ingresso dell’Italia all’interno dei piani occidentali sul Medio
Oriente, attraverso un accordo di politica comune italo-francese all’interno della
Nato e dell’ONU e rinviando nuovamente la stabilizzazione dei rapporti diplomatici
con il Marocco e la Tunisia, divenuti indipendenti nel Marzo del 195663.
L’Italia si sarebbe dovuta esprimere sulla questione nordafricana all’ONU
alla XI Assemblea Generale, convocata per la fine dell’anno 1956, con molte
difficoltà di tenuta della propria linea diplomatica, dato che non si voleva far torto
alla Francia ma nemmeno pregiudicare i futuri rapporti diplomatici con i paesi arabi.
Ulteriori problemi alla diplomazia italiana vennero posti dalla questione altoatesina64
e dall’intervento anglo-francese in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez
da parte del presidente egiziano Nasser. Ci si aspettava, in Italia, sviluppi positivi sul
fronte algerino per favorire la propria posizione all’interno delle Nazioni Unite,
presto smentiti dal sequestro del DC-3 marocchino con a bordo i personaggi più
importanti della ribellione algerina. Per non incorrere in eventuali rischi all’ONU, il

61
Ibid., 77-96.
62
Pietro Quaroni (1898-1971), fu un diplomatico italiano, ambasciatore in Unione Sovietica tra il
1944 e il 1946, quando viene trasferito a Parigi, dove intesserà relazioni di primo piano con le varie
personalità politiche francesi. Rimarrà nella capitale di Francia sino al 13 Giugno 1958, quando verrà
trasferito a Bonn, Fu anche presidente della Rai tra il Maggio 1964 e l’Aprile 1969.
63
Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria, cit., pp. 97-98.
64
Il problema dell’Alto Adige venne fuori in seguito alla denuncia da parte austriaca di non rispettare
gli accordi stipulati dai due paesi nel 1946, in base ai quali gli altoatesini dovevano avere una certa
autonomia nell’ambito statutario italiano.

75
Ministro degli Esteri Pineau tenne colloqui con il segretario della Democrazia
Cristiana (DC) Amintore Fanfani65 e il Ministro Martino in cui si convenne allo
slittamento della discussione alle Nazioni Unite per far si che la Francia riuscisse a
regolare la faccenda per conto proprio. La diplomazia italiana si tenne vicina a Parigi
ma non voleva avere le mani legate sulle modalità di voto, scegliendo tra l’astensione
o il voto favorevole per mettersi al riparo dalla vicenda altoatesina, con il capo
delegazione Attilio Piccioni che verificava la possibilità di fronteggiare le proposte
radicali delle delegazioni afroasiatiche.
La rappresentanza italiana presentò in Commissione Politica, insieme ai paesi
latino-americani, un progetto di risoluzione dai toni molto moderati che venne fuso
con una proposta di Giappone, Thailandia e Filippine. Il testo venne approvato il 13
Febbraio, diventando parte di una risoluzione congiunta con i paesi afroasiatici che
venne presentata all’Assemblea due giorni più tardi e votata all’unanimità. La
risoluzione si limitava ad esprimere l’auspicio che fosse individuata, per la questione
algerina, una soluzione pacifica, democratica e giusta conforme allo Statuto
dell’ONU66. Nuovi incontri bilaterali italo-francesi avvennero nel mese di Maggio
del 1957 tra il Presidente della Repubblica Gronchi, il suo omologo francese Coty e
il Ministro degli Esteri Pineau in cui l’Italia si propose come possibile collegamento
tra Parigi e i ribelli algerini ma i francesi volevano un aiuto italiano solamente nel
caso di far comprendere ai cittadini nordafricani la buona fede del governo
d’oltralpe. Il tentativo italiano fu particolarmente apprezzato dalla diplomazia
francese poiché pervenuto da un governo amico che era sempre rimasto al loro fianco
durante le assise internazionali67.
Negli ultimi giorni di Maggio del 1957 ci furono dei cambiamenti
significativi negli apparati di governo italiano e francese, con Zoli che sostituiva

65
Amintore Fanfani (1908-1999), fu un politico e uno storico dell’economia. È stato tre
volte presidente del Senato, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri fra il 1954 e il 1987
quando, all'età di 79 anni e 6 mesi, divenne il più anziano primo Ministro della Repubblica Italiana,
due volte segretario della Democrazia Cristiana e anche presidente del partito, Ministro degli Esteri,
dell'Interno e del Bilancio. Dal 1972 fu senatore a vita. Per una biografia più ampia si veda Vincenzo
La Russa, Amintore Fanfani, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.
66
Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria, cit., pp. 169-185.
67
Ibid., pp. 195-200.

76
Segni68 alla Presidenza del Consiglio, un governo di passaggio fino alle elezioni da
tenersi nel Maggio 1958, e Bourgès-Maunory che prendeva il posto di Mollet in
Francia, il cui unico scopo era la risoluzione del problema algerino nel più breve
tempo possibile. Una novità molto importante all’interno dell’esecutivo italiano
riguarda Giuseppe Pella69, quale nuovo Ministro degli Esteri, che proponeva una
versione dinamica dei dettami dell’Alleanza euro-americana. Un nuovo approccio ai
temi internazionali che venne portato avanti dal segretario della Democrazia
Cristiana Amintore Fanfani, dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, dal
Sindaco di Firenze Giorgio La Pira70 e dal Presidente dell’Eni Enrico Mattei71 che si
adoperarono, non sempre in sincronia, nel tentativo di rendere possibile e
politicamente ben visibile un primato italiano fondato e sviluppato sulla base di un
diverso approccio ai temi mediterranei.
Per portare avanti questa linea politica servivano strumenti e quantità di
risorse adeguate e un Presidente del Consiglio stabile che potesse entrare in sintonia
con le idee del Presidente della Repubblica Gronchi, parlando con un’unica voce

68
Antonio Segni (1891-1972), fu un politico italiano, quarto presidente della Repubblica. È stato il
quinto e l'ottavo Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana. Dopo aver ricoperto
diversi incarichi governativi nei governi Bonomi III, Parri, De Gasperi I, De Gasperi VII e Pella,
Segni fu per due volte Presidente del Consiglio dei ministri, dal 6 luglio 1955 al 15 maggio 1957 e dal
15 febbraio 1959 al 23 marzo 1960.
69
Giuseppe Pella (1902-1981), fu il secondo Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica
Italiana. È stato deputato all'Assemblea Costituente dal 1946 al 1948, deputato dal 1948 al 1968 e
senatore dal 1968 al 1976. Inoltre fu Presidente del Consiglio dei ministri nel periodo dal 17
agosto 1953 al 18 gennaio 1954 e più volte Ministro.
70
Giorgio La Pira (1904-1977), fu un politico democristiano, venne eletto all’Assemblea costituente,
dove entra nella “commissione dei 75” lavorando alla scrittura dei principi fondamentali della
Costituzione italiana, in particolar modo alla scrittura dell’art. 2. Eletto nuovamente alle elezioni del
1948, divenne sottosegretario al Ministero del lavoro e della previdenza sociale nel Governo De
Gasperi V, fino al 1951 quando fu eletto sindaco di Firenze, carica che ricoprirà in due momenti
distinti: 1951-1957, 1961-1964.
71
Enrico Mattei (1906-1962), fu un imprenditore di successo nel settore energetico di stato italiano.
Fondò l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) nel 1953 con cui, negli anni successivi, negoziò importanti
concessioni petrolifere nel Medio Oriente e in Africa, stringendo importanti legami con gli ambienti
politici locali. Pur non essendo attivamente impegnato in politica, fu parlamentare per la Democrazia
Cristiana nella I legislatura (1948-1953). Per una più approfondita analisi della sua persona si rimanda
a Nico Perrone, Enrico Mattei, Il Mulino, Bologna 2012.

77
anticoloniale sui temi mediterranei72. Anche Pella era fautore della dottrina
neoatlantica ma, trovandosi di fronte alle difficoltà del nuovo esecutivo Bourgès-
Maunory in materia algerina, non modificò la posizione italiana di vicinanza al
partner europeo poiché si sarebbe pronunciata nel merito alle Nazioni Unite. Durante
l’Estate del 1957 il Marocco, che aveva legami stretti con il presidente dell’Eni
Mattei così come molti paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, propose un
progetto di Comunità Mediterranea, che avrebbe potuto prendere in considerazione la
questione algerina, a cui le autorità italiane rimasero perplesse perché un piano simile
non poteva funzionare senza l’inserimento della Francia ed interferiva nei piani di
quest’ultimo anche in virtù della legge quadro che era in discussione all’Assemblea
Nazionale, considerata dalla diplomazia italiana un contentino per avere un voto
favorevole all’ONU e rinviare nuovamente la questione a livello internazionale 73.
A poche settimane dal dibattito alle Nazioni Unite sull’Algeria, si dovette
affrontare un tema spinoso come la richiesta di armi da parte della Tunisia che
avrebbe messo in luce la strategia occidentale intorno al problema algerino. L’Italia
avrebbe tenuto in considerazione l’interpretazione degli impegni atlantici nella
direzione indicata dagli Stati Uniti, omogenea alla linea neoatlantica che sembrava
già sulla strada dell’abbandono, in particolar modo al Ministero degli Esteri. La
questione tunisina aprì un dibattito molto combattuto nella penisola ed ebbe il pregio
di far interessare l’opinione pubblica sul caso algerino, un tema in precedenza
ristretto ad una cerchia ristretta di addetti ai lavori. Agli orientamenti dell’opinione
pubblica non poteva rimanere sorda la DC, a causa delle imminenti elezioni
legislative, con il segretario Fanfani che fece presente all’ambasciatore Palewski
come gli argomenti con cui comunisti e socialisti portavano avanti la loro critica alla
guerra francese avevano facile presa su un vasto settore dell’opinione pubblica74.
Il dibattito alle Nazioni Unite, previsto nel mese di Dicembre 1957, era il
banco di prova per l’Italia, il suo neoatlantismo e per il nuovo governo francese
presieduto da Gaillard, entrato in carica all’inizio di Novembre subentrando a
Bourgès-Maunory, che aveva posto tutta la sua azione di governo sul problema
algerino attraverso la messa in discussione della legge quadro da presentare alle varie
commissioni dell’Assemblea Generale. Fu il Ministro degli Esteri Pineau, il 1

72
Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria, cit., pp. 201-221.
73
Ibid., pp. 221-240.
74
Ibid., pp. 265-294.

78
Dicembre 1957, ad esporre la legge quadro alla commissione politica aggiungendo la
necessità che i ribelli accettassero il cessate il fuoco, condizione preliminare affinché
iniziasse qualsiasi discussione tra le parti. Discorso che fu appoggiato dal
rappresentate spagnolo e da quello italiano, nella persona di Attilio Piccioni. Dopo la
discussione generale furono presentate due risoluzioni: la prima, preparata dai 18
membri del gruppo afro-asiatico, stabiliva che il principio di autodeterminazione
dovesse essere applicato al popolo algerino; la seconda, presentata da sette paesi, tra
cui l’Italia, si limitava ad esprimere una speranza di cooperazione per arrivare ad una
soluzione pacifica, democratica e giusta mediante mezzi appropriati conformi alla
carta delle Nazioni Unite. Quest’ultima fu la risoluzione votata in Commissione, con
il voto favorevole degli Stati Uniti, che dava ancora del tempo ai francesi affinché
riuscissero a venir fuori da questa situazione di impasse. Il 10 Dicembre,
l’Assemblea Generale adottò all’unanimità la risoluzione uscita dalla Commissione,
in cui si ricordava i buoni uffici avanzati da parte di Marocco e Tunisia e l’arrivo ad
una soluzione mediata, nel rispetto dei principi dell’ONU. Anche in questo caso la
delegazione italiana si era energicamente impegnata per favorire la Francia che, di
fronte all’offensiva anticolonialista in Prima Commissione, venne salvata da una
risoluzione molto blanda che evitava la condanna contenuta nella risoluzione
afroasiatica. Per Parigi era la conferma della solidità dei suoi rapporti con Roma e
l’atteso chiarimento della posizione italiana circa la guerra franco-algerina75.
La situazione nordafricana continuò a peggiorare a causa del bombardamento
francese al villaggio di Sakiet avvenuto l’8 Febbraio 1958, al confine tra Algeria e
Tunisia, che confermò l’instabilità delle istituzioni democratiche d’oltralpe e dei vari
progetti in cui il paese transalpino era integrato. La diplomazia italiana si attivò
immediatamente, tentando un’azione distensiva tra la Francia e la Tunisia, un gesto
invisibile per il diritto internazionale e volutamente sottotono poiché nessuna delle
due parti aveva richiesto interventi esterni per dirimere la questione. Il Ministero
degli Esteri italiano si mise in azione per ricevere notizie dagli Stati Uniti, circa la
preoccupazione di un intervento del Consiglio di Sicurezza demandato dalla Tunisia
dove non c’era altra scelta che allinearsi con l’URSS ed abbandonare l’alleato
atlantico. Inoltre, arrivavano dal Marocco molte preoccupazioni, visti i continui
incidenti di confine con l’Algeria, minori rispetto a quelli franco-tunisini.

75
Ibid., pp. 294-302.

79
Si attivò anche l’ambasciatore a Parigi Quaroni, che grazie ai suoi buoni
uffici presso il Consiglio dei Ministri francese, venne a sapere che l’azione era stata
imbastita dal gen. Salan e dal Ministro della Difesa Jacques Chaban-Delmas, senza
consultare nessun altro rappresentante governativo. Tale rivelazione portò
nuovamente a pensare che le autorità militari avevano molta più forza di quelle civili
e che i rapporti tra Tunisia e Francia non sarebbero migliorati se non si fosse arrivati
in tempi brevi alla fine del conflitto algerino. Gli sforzi in quella direzione,
perfettamente consoni a una delle idee forti della politica estera italiana, furono
superati e resi vani dall’inserimento nel contenzioso franco-tunisino della Gran
Bretagna e degli Stati Uniti, con un’offerta di buoni uffici che fu prontamente accolta
dalle parti già il 17 Febbraio 1958.
L’esclusione dalla procedura dei buoni uffici è politicamente comprensibile,
dato l’atteggiamento che Roma aveva assunto pochi mesi prima nella vicenda della
fornitura di armi occidentali alla Tunisia, ponendo l’Italia ai margini di un processo
che avrebbe stabilito nuove rotte per la politica francese in Algeria. Al governo
italiano non restò che accettare di dirsi disponibile a esercitare una funzione di
raccordo tra Parigi e Washington, in prospettiva più importante per provare a
collegare le premesse politiche francesi e statunitensi in tema nordafricano e per
evitare in futuro ulteriori crepe nella rete atlantica76.
Subito dopo l’accettazione dei buoni uffici anglo-statunitensi, il Primo
Ministro Gaillard, durante un’audizione all’Assemblea Nazionale, si disse pronto alla
creazione di una comunità dei Paesi del Mediterraneo occidentale, un’idea simile a
quella sostenuta dal diplomatico britannico Murphy, che aveva pensato ad un
Commonwealth mediterraneo dove discutere del problema algerino insieme ai paesi
del Nord Africa, e al precedente progetto del Re del Marocco per un Patto
Mediterraneo. Un progetto giudicato positivo dagli ambienti italiani anche se si
mantenevano delle riserve sulla totalità del programma, mettendosi sullo stesso piano
di Tunisia, Marocco, Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna. Per Quaroni il progetto
di Gaillard era un espediente per riavvicinarsi ai due ex protettorati nordafricani e
che, per la diplomazia italiana, poteva essere portato a compimento con la positiva
conclusione della procedura dei buoni uffici e la capacità delle istituzioni di tenere in
mano la situazione interna, cosa che non era affatto scontata. Sotto la pressione
statunitense, il 13 Aprile, il governo Gaillard accettò le proposte contenute nel

76
Ibid., pp. 337-338.

80
memorandum della commissione dei buoni uffici del 15 Marzo e decise di sottoporlo
al voto dell’Assemblea Nazionale. Nella notte tra il 14 e il 15 Aprile Palazzo
Borbone le esaminò e, al termine di quasi dodici ore di dibattito, le respinse, ritirando
la fiducia al governo77.
La caduta del governo Gaillard dette avvio alla fase più alta, conclusiva e
concitata di un processo che, con gli eventi di Algeri e le fibrillazioni che questi
produssero nel sistema francese, riportò De Gaulle al potere. L’evoluzione
precipitosa degli eventi francesi suscitò nella diplomazia italiana, nell’opinione
pubblica e nella classe politica della penisola non pochi interrogativi e
preoccupazioni, in particolar modo sull’eventuale condizionamento dell’elettorato
italiano che sarebbe stato chiamato alle urne il 25 Maggio e sulle future consultazioni
politiche per formare una maggioranza parlamentare e un governo. Nonostante un
po’ di sorpresa per lo svolgimento degli sviluppi francesi, le istituzioni italiane erano
state avvertite per tempo da parte degli ambasciatori in Francia e Algeria, in
particolar modo da Quaroni che, nel mese di Marzo, aveva prospettato due soluzioni
per uscire dall’impasse istituzionale: il ritorno di De Gaulle sulla scena politica o un
governo di Fronte Popolare che avrebbe potuto trascinare il paese fuori dalle alleanze
occidentali, favorendo la posizione sovietica.
Il suo successore, Alberto Rossi Longhi78, continuò l’opera di aggiornamento
della situazione a Roma, in particolar modo sui possibili esiti dello sbandamento
francese, valutando i pro e i contro di un ritorno al potere di De Gaulle, un passaggio,
secondo l’ambasciatore, che non poteva avvenire attraverso vie costituzionali, ed era
sicuro che la resistenza del sistema francese e le risorse della IV Repubblica
avrebbero avuto la funzione di diga di fronte al ritorno del generale sulla scena
politica. Dubbi che incontravano l’adesione del Ministero degli Esteri sugli

77
Ibid., pp. 382-396.
78
Alberto Rossi Longhi (1895-1979), diplomatico italiano, entrò nella carriera diplomatica nel 1923 e
fu subito destinato a Stoccolma, mentre nel 1932 fu mandato a Ginevra per entrare nella delegazione
italiana alla Conferenza del disarmo. Nel resto degli anni trenta viene incaricato di varie funzioni
presso le ambasciate di Vienna, Washington e Ottawa. Nel corso della guerra venne imprigionato
negli Stati Uniti e, dopo l’armistizio di Cassibile, viene trasferito a Lisbona dove attenderà l’ex re
Umberto II per l’esilio dopo il referendum del 2 Giugno 1946. Negli anni successivi ricopre incarichi
diplomatici a Teheran, presso la Nato e a Madrid. Tra il 1954 e il 1958 diviene segretario generale del
Ministero degli Affari Esteri prima di diventare ambasciatore a Parigi, per circa un anno, fino al
Dicembre 1958.

81
orientamenti che la politica di De Gaulle avrebbe assunto a riguardo degli impegni
europei e atlantici contratti dalla Francia e permaneva il timore che il ruolo delle
forze armate francesi, determinante nell’evoluzione della crisi partita da Algeri,
portasse a un controllo dei militari sulla futura politica estera del Paese. All’Italia
non restava che attendere una chiarificazione degli orientamenti francesi sulla
situazione algerina e sulla tenuta degli impegni internazionali della Francia in ambito
atlantico ed europeo. Al problema algerino De Gaulle rispose già con il discorso
tenuto il 4 Giugno ad Algeri, un comizio che per la diplomazia italiana era stato
volutamente e necessariamente ambiguo, tanto che per comprenderne il vero
significato si doveva continuare a seguire le azioni successive portate avanti dal
generale in persona. Secondo la diplomazia italiana, le istituzioni della penisola
dovevano predisporre contromisure efficaci per la minaccia che la nuova Francia
rappresentava a livello atlantico ed europeo, e fare una precisa scelta di campo tra i
francesi e i paesi arabi. Ciò dipendeva dal governo che sarebbe stato espresso dalle
elezioni legislative fissate il 25 Maggio 195879.
Non fu semplice creare il primo governo della Terza Legislatura, poiché si
dovette attendere il 1 Luglio per dare vita all’esecutivo Fanfani II, che si era tenuto
per sé la carica di Ministro degli Esteri, appoggiato da una maggioranza composta
dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialdemocratico italiano, con l’appoggio
esterno del Partito Repubblicano. Il programma di governo trovava uno dei punti più
importanti nel rinvigorito sforzo per promuovere la stabilità della regione
mediterranea, dato che Fanfani, da segretario della DC, aveva segnalato la centralità
del Mediterraneo per gli equilibri Est-Ovest e non aveva nascosto la convinzione che
gli errori dei francesi e dei britannici nella questione del canale di Suez sarebbero
stati pagati dall’intera comunità occidentale, per aver agevolato la penetrazione
ideologica e politica dell’Unione Sovietica. In controtendenza con le sue idee, il
governo confermò gli elementi tradizionali di politica estera italiana dimostrando la
sostanziale marginalità della penisola nel disegno dei nuovi assetti regionali, come in
Medio Oriente durante la guerra civile in Libano e la rivoluzione in Iraq. La
posizione di secondo piano ricoperta dall’Italia a livello internazionale era il vero
problema delle relazioni bilaterali italo-francesi, poiché avrebbe potuto portare la
penisola verso altri lidi per conquistare un ruolo centrale nell’area mediterranea,
come una partnership italo-tedesca tra paesi non coloniali per intraprendere colloqui

79
Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria, cit., pp. 396-409.

82
diplomatici con i paesi arabi. Consci di queste preoccupazioni, si svolse il primo
incontro ufficiale tra Fanfani e De Gaulle a Parigi, a cavallo tra il 7 e l’8 Agosto
1958, un incontro deludente dato che il Primo Ministro italiano non voleva cedere
sulla centralità delle Nazioni Unite nella soluzione della crisi ma accettò la proposta
francese di riconoscere Parigi come portavoce delle istanze della posizione italiana in
un eventuale vertice sui temi mediterranei, non toccando in altro modo la questione
algerina perché si continuava a presentarla come una questione interna80.
Già dal Settembre 1958, il problema algerino tornò nuovamente alla ribalta
nelle relazioni bilaterali tra l’Italia e la Francia, data la nascita, il 19 Settembre, del
Governo Provvisorio della Repubblica Algerina (GPRA), con l’incontro tra
l’ambasciatore Palewski e Alessandrini, segretario generale del Ministero degli
Esteri, in cui il rappresentante francese chiese di non riconoscere il governo algerino
ricevendo assicurazioni dal diplomatico italiano sul pieno accordo dell’esecutivo
della penisola a tale proposta. L’ambasciatore tirò fuori anche la questione
dell’eventuale passaggio in Italia di membri del governo provvisorio algerino o di
ribelli che ne riconoscevano l’autorità, ed un compromesso stipulato tra le due parti
faceva si che le autorità italiane avrebbero rifiutato l’ingresso nella penisola a
chiunque avesse reclamato una nazionalità algerina, inesistente per diritto. Il
problema si pose immediatamente con la richiesta di ingresso in Italia di Ahmed
Boumendjel, in possesso di passaporto francese, con le autorità italiane che si videro
costrette a far passare la frontiera dato che nessuna legge italiana negava l’ingresso
ad algerini in possesso di passaporto europeo.
Per avere un quadro più esauriente del problema algerino, la Direzione
Generale Affari Politici del Ministero degli Esteri ritenne opportuno ottenere
chiarimenti di ordine giuridico sul riconoscimento del GPRA al Contenzioso
Diplomatico81, che si espresse a favore della scelta italiana, dato che uno stato

80
Ibid., pp. 447-472.
81
Il Contenzioso diplomatico è un organo interno del Ministero degli Affari Esteri i cui compiti, oggi,
sono i seguenti: consulenza sulle questioni di carattere giuridico - internazionale sottoposte dagli
Uffici dell’Amministrazione; trattazione delle controversie internazionali in cui sia questione di diritto
internazionale; assistenza giuridica per la negoziazione e la firma di trattati e di convenzioni
internazionali, e di altri strumenti di unificazione in ambito Unidroit e Uncitral; procedura per la
ratifica di trattati e convenzioni internazionali conclusi dall’Italia, nonché loro raccolta e
aggiornamento; in raccordo con l’Ufficio Legislativo, assistenza nella predisposizione della normativa
interna di recepimento di trattati e convenzioni internazionali conclusi dall’Italia; collaborazione con

83
algerino non esisteva essendo parte integrante del territorio metropolitano francese e
non essendosi ancora verificata la secessione algerina. Tale decisione fu utilizzata dal
governo italiano durante il dibattito parlamentare su un ordine del giorno, presentato
da alcuni deputati socialisti e comunisti, che chiedeva il riconoscimento del GPRA
come governo legittimo d’Algeria, ma ciò che occupò la gran parte del tempo del
dibattimento fu l’organizzazione del “Colloquio Mediterraneo” a Firenze da parte
dell’ex sindaco del capoluogo toscano Giorgio La Pira, e le conseguenze che ebbero
questa serie di incontri, generando malumori e perplessità alla Presidenza del
consiglio francese su molti aspetti: imponendo la questione algerina all’attenzione
dell’opinione pubblica e politica della penisola; l’invito all’incontro dei
rappresentanti algerini, in primis Ahmed Boumendjel; dell’appoggio alla rivista
Etudes Méditerranéennes, composta da intellettuali cattolici di sinistra a favore
dell’indipendenza algerina, nell’organizzazione dell’evento ed infine molti ospiti
sgraditi come il tunisino Bechir Ben Yahmed e il marocchino Medhi Ben Barka. Il
convegno iniziò tra mille problematiche, a cominciare dal blocco dei rappresentati
algerini, al malore che colpì La Pira fino all’abbandono delle delegazioni francese ed
israeliana in aperto contrasto con i delegati arabi82.
Nelle settimane successive, il governo Fanfani ebbe alcune occasioni per
chiarire la propria posizione di fronte alle difficoltà francesi in Africa del Nord, in
concomitanza con la richiesta di visto di ingresso in Italia da parte del Presidente del
GPRA Ferhat Abbas. Le istituzioni italiane si rivolsero nuovamente al Contenzioso
diplomatico, la cui risposta fu che i passaporti rilasciati dalle autorità degli stati arabi
ad algerini potevano essere considerati da parte italiana un atto illegittimo e ciò
poteva essere fatto anche a chi in precedenza aveva ottenuto il visto di ingresso.
L’occasione successiva fu il dibattito alle Nazioni Unite sul problema
algerino, dato che 17 paesi afroasiatici avevano presentato un progetto di risoluzione
che riconosceva il diritto all’autodeterminazione del popolo algerino e sollecitava la
Francia ad aprire negoziati con il FLN. Il voto italiano fu contrario a tale mozione,

l’Agente del Governo italiano a tutela dei diritti e degli interessi del Paese davanti ai Tribunali e alle
Corti internazionali, in raccordo con le altre amministrazioni interessate nonché con la Direzione
generale per l’Unione Europea per le cause dinanzi agli organi giurisdizionali dell’Unione Europea;
verifica della condizione di reciprocità sul godimento dei diritti civili da parte di cittadini stranieri non
residenti.
82
Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria, cit., pp. 473-498.

84
ritenendo che i progetti di riforma francesi andassero nella direzione favorevole alla
soluzione del problema83.
Il 15 Febbraio 1959 una crisi di governo portò alle dimissioni di Fanfani
come Primo Ministro e da segretario della Democrazia Cristiana, sostituito da Aldo
Moro, con la creazione del governo Segni II e il passaggio del Ministero degli Esteri
a Pella, una personalità molto cauta nei rapporti con la Francia che avrebbe portato
ampie garanzie in termini di solidarietà, vicinanza e un chiarimento definitivo degli
intoppi diplomatici avvenuti durante il governo Fanfani. Il cambio di governo, però,
evidenziò ancor di più le insofferenze italiane per il continuo sostegno a Parigi, dato
che minava la strategia mediterranea di Roma e tale problema venne descritto
ufficialmente nei colloqui bilaterali, del Marzo 1959, tra i Ministri degli esteri dei
due paesi: Pella chiese di avere carta bianca nei confronti dei ribelli algerini ma trovò
di fronte a se la ferma opposizione francese, che ricordò gli accordi precedentemente
presi tra le due parti.
Negli ambienti politici e diplomatici si assecondavano le richieste transalpine,
continuando però ad applicare una certa elasticità nella politica dei visti, non
espellendo gli algerini che svolgevano nella capitale italiana attività politica.
Neppure il viaggio in Italia di De Gaulle portò assicurazioni definitive, da parte del
governo di Roma, sulla chiusura nei confronti dei ribelli e, nei colloqui tra il generale
e Gronchi, non si andò oltre gli argomenti abituali sulle ragioni del conflitto.
Da queste testimonianze si capì che il clima tra i due paesi era cambiato e il
voto italiano alle Nazioni Unite non era così scontato come negli anni precedenti, a
causa delle pressioni dei paesi arabi, portate con insistenza dal Presidente tunisino
Bourghiba, affinché l’Italia modificasse il suo tradizionale orientamento filo-
francese. All’interno della riunione di governo per definire il voto dell’Italia all’ONU
sulla questione algerina, il Ministro Pella propose l’astensione, sollecitando i colleghi
a scegliere per questa alternativa. Il viaggio di Segni e Pella a Parigi, agli inizi di
Settembre, fu risolutore di queste tensioni dato che vennero a sapere da De Gaulle in
persona la svolta politica francese sul tema algerino, tanto attesa nella penisola84. Fu
confermata ufficialmente il 16 Settembre 1959 dal Presidente De Gaulle in un
discorso televisivo dove, dopo aver reso omaggio all’esercito per lo sforzo in
Algeria, propose di arrivare alla pacificazione dei dipartimenti e, dopo il cessate il

83
Ibid., pp. 513-526.
84
Ibid., pp. 527-535.

85
fuoco, si sarebbe aperto un periodo transitorio, della durata massima di quattro anni,
al termine del quale gli algerini sarebbero stati chiamati a decidere liberamente del
loro destino, grazie all’applicazione del principio di autodeterminazione. Questo
cambio di strategia modificò i termini del voto da esprimere in Assemblea Generale,
semplificando enormemente la decisione della delegazione italiana che optò per una
votazione favorevole alla tesi francese, nella speranza di utilizzare il suo rinnovato
sostegno come moneta di scambio per ottenere da Parigi l’appoggio alla propria
candidatura alla conferenza occidentale dove erano in discussione i maggiori
problemi mondiali. Non avvenne niente di simile e, ancora una volta, l’Italia non fu
inclusa nei maggiori forum mondiali85.
La politica francese nei confronti dell’Algeria, espressa alle Nazioni Unite,
apparve al governo italiano di difficile applicazione per due motivi: la rigidità delle
posizioni del FLN e gli ostacoli apposti da parte della minoranza francese in Algeria,
come confermato dalle barricate alzate ad Algeri nel Gennaio 1960. Un punto a
favore del governo di Parigi riguarda la fermezza con cui condannò tale ribellione,
così da non poter essere ricattato come gli esecutivi della Quarta Repubblica.
L’Italia, distratta tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960 da emergenze interne,
scommise sul piano De Gaulle avvicinandosi al paese d’oltralpe e sollecitando
incoraggiamenti per l’implementazione del percorso pre-negoziale, offrendosi come
possibile canale di dialogo tra le due parti in causa. Il fallimento degli incontri
franco-algerini di Melun non rappresentò, per l’Italia, il fallimento della nuova
politica francese perché un ritorno allo status precedente la svolta
dell’autodeterminazione era ormai considerato impossibile, giacché la parola
indipendenza era stata prudentemente ma irreversibilmente pronunciata. Questo era il
punto di arrivo che gli ambienti diplomatici e politici italiani consideravano
inevitabile fin dall’inizio delle ostilità e fu accompagnato dalla caduta del governo
Segni II il 25 Marzo 1960 e dal temporaneo ma catastrofico esecutivo Tambroni, che
restò in carica solamente quattro mesi, costretto a dimettersi dalla forza delle
dimostrazioni di piazza86.
Il 26 Luglio 1960 entrò in carica il governo Fanfani III, con l’ex primo
Ministro Segni agli Esteri, che seguì l’itinerario sconnesso che portò dal fallimento
degli incontri di Melun agli accordi di Evian, conclusi nel Marzo 1962, monitorando

85
Ibid., pp. 591-592.
86
Ibid., pp. 608-624.

86
la fase di transizione francese dalla guerra alla pace in Algeria. In Italia si guardava
con preoccupazione alla situazione nordafricana ma si espresse positivamente al
discorso di De Gaulle del 4 Novembre 1960, sottolineando due importanti novità nel
linguaggio del generale: da un lato si era per la prima volta parlato di una repubblica
algerina, con un proprio governo, le proprie istituzioni e le proprie leggi; dall’altro
aveva affermato che i contatti con il FLN in merito al referendum avrebbero potuto
aprirsi a partire dalla fine dei combattimenti e degli attentati e non dopo un lungo
periodo di pacificazione, come precedentemente proclamato87. La diplomazia italiana
continuava ad avere dubbi sul piano nordafricano, a causa dei rapporti che il governo
provvisorio algerino stava tessendo con il mondo comunista, e in un quadro di
riferimento complessivo per elaborare la posizione da assumere alle Nazioni Unite, a
causa del pressing austriaco sull’Alto Adige, dato che il principio di
autodeterminazione invocato in termini generali e generici poteva essere riutilizzato
anche dagli austriaci per la popolazione altoatesina. La linea diplomatica italiana,
secondo le istruzioni dell’esecutivo Fanfani III, doveva seguire la posizione
americana non urtando la sensibilità degli stati arabi e dei francesi.
A metà Dicembre del 1960 iniziarono i lavori dell’Assemblea Generale
dell’ONU sul problema algerino, nella quale l’Italia, il 14 Dicembre, votò a favore
della condanna del colonialismo poiché accolse le richieste dei paesi del Terzo
Mondo, senza però rompere i legami con i paesi occidentali. Il giorno successivo,
alla Commissione politica, la mozione afroasiatica sull’Algeria ottenne la
maggioranza necessaria dei due terzi, ma sul punto nodale della questione,
riguardante la decisione di organizzare un referendum sul suolo algerino sotto il
controllo delle Nazioni Unite, contenuto all’interno del paragrafo 4 della risoluzione,
ottenne la maggioranza semplice. Il comportamento dell’Italia, come anticipato dal
rappresentante italiano Martino, fu di votare a favore o contro ai singoli paragrafi
contenuti nella risoluzione afro-asiatica, in particolare appoggiando il preambolo e la
prima parte, rigettando invece il famoso quarto paragrafo. E così venne votata ed
adottata il 19 Dicembre dall’Assemblea Generale, riconoscendo il diritto del popolo
algerino all’autodeterminazione e all’indipendenza, con il voto sfavorevole dell’Italia
sul quarto paragrafo, che divenne tema di discussione in ambienti politici e culturali,
facendo parte del dibattito al Senato sul bilancio di fine anno del Ministero degli
Esteri. Segni ribatté lodando l’atteggiamento italiano, dato che si staccò dal voto

87
Ibid., p. 642.

87
statunitense e britannico, votando a favore dell’autodeterminazione algerina ma non
sul referendum poiché ce ne era già uno in programma l’8 Gennaio ed avrebbe
riguardato l’intera Francia, e non solo la provincia algerina, per arrivare alla
conclusione del conflitto. Il referendum dell’8 Gennaio 1961 ebbe esito positivo e
aprì la strada ai primi incontri franco-algerini, ben visti dagli ambienti politici e
diplomatici italiani, il cui compito era di incoraggiare De Gaulle a giungere ad una
soluzione, non semplice per il generale a causa delle azioni terroristiche dell’OAS, in
Algeria e in Francia, e delle opposizioni interne che portarono alla decisione di
sospendere i diritti civili. Tutti segnali della crisi morale e politica da cui la Francia
non riusciva ancora ad uscire totalmente. Nel 1961 si susseguirono i contatti da ambo
le parti dopo il fallimento dei primissimi negoziati a Melun, osservati a distanza dagli
ambienti politici e diplomatici italiani, preoccupati ma fiduciosi di un passo in avanti
francese durante le trattative, date le distanze tra le due posizioni su temi cruciali
come il futuro del Sahara e delle sue ricchezze naturali. Da tenere in considerazione
era l’insistenza dei francesi d’Algeria e di alcuni generali dispiegati sul territorio
nordafricano che organizzarono il fallito putch ad Algeri nell’Aprile 1961,
interpretato dalla diplomazia italiana come un gesto disperato per fermare il percorso
negoziale, l’unico per uscire dal pantano algerino88.
In Italia ci furono innumerevoli manifestazioni di sostegno alla causa
algerina, tra cui i Colloqui mediterranei di La Pira, giunti alla terza edizione, che
facevano da sfondo all’apertura dell’ormai abituale dibattito alle Nazioni Unite sulla
questione algerina, dove la Francia si disse contraria ad una presa di posizione
comunitaria dati gli sforzi per trovare una soluzione al problema anche se,
diversamente dagli anni precedenti, il rappresentante francese all’ONU Bérard disse
apertamente che il suo governo non si opponeva formalmente all’iscrizione di tale
questione all’ordine del giorno della XVI sessione dell’Assemblea Generale. Venne
presentato un progetto di risoluzione afroasiatica con esplicito riferimento al
Governo provvisorio della repubblica algerina e all’obiettivo dell’indipendenza, con i
francesi che chiesero ai paesi amici di optare per l’astensione.
L’Italia seguì l’indicazione transalpina sia in prima commissione, il 19
Dicembre, in cui venne approvata la risoluzione terzomondista con 61 voti
favorevoli, nessun contrario e 34 astensioni, sia all’Assemblea Plenaria, il giorno
successivo, con un risultato pressoché analogo. Allo stesso tempo, in Italia

88
Ibid., pp. 626-658.

88
continuavano le iniziative promosse in favore della causa algerina, che continuarono
nei primi mesi del 1962, a causa delle notizie sempre più drammatiche provenienti
dall’altra sponda del Mediterraneo, per i numerosi attentati perpetrati dall’OAS. Gli
incontri tra la delegazione francese e il governo provvisorio algerino non cessarono e
si conclusero ufficialmente il 19 Marzo 1962, con la firma degli accordi di Evian, in
cui venne stabilito il cessate il fuoco e la pace tra le parti, oltre che i passi successivi
che avrebbero portato il paese nordafricano alla piena sovranità ed indipendenza. Il
passo decisivo sarebbe stato il referendum confermativo di tali accordi che si tenne
sul territorio algerino il 1 Luglio 1962, ottenendo un plebiscito di voti favorevoli e
portando all’indipendenza dello stato algerino, ufficializzata il 3 Luglio con i dati
definitivi della votazione, dopo più di 130 anni di colonialismo francese. Lo stesso
giorno fu riconosciuta la piena sovranità anche dall’Italia che, su sollecitazione del
Primo Ministro Fanfani, tramite il Ministro degli Esteri Piccioni, si riprometteva di
sviluppare con la nuova Algeria i più cordiali rapporti di fruttuosa collaborazione,
attraverso normali relazioni diplomatiche che avrebbero però risentito
dell’atteggiamento tenuto dalla penisola nel corso della guerra d’indipendenza. La
fine della guerra algerina, per Parigi, avrebbe avuto un effetto positivo sui rapporti
bilaterali con l’Italia sul piano europeo e mediterraneo, affinché quest’ultima
armonizzasse le proprie posizioni politiche in tale contesto. Ma il governo della
penisola, grazie ai mutati equilibri mediterranei, aveva molto più spazio per
un’azione di avvicinamento ai paesi del Maghreb, giudicata positiva anche per le
ricaduta sul piano interno che si sarebbero concluse con l’avvicinamento tra la
Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, verso quell’aspirato governo di centro-
sinistra89.
Negli otto anni di guerra franco-algerina, i governi italiani sono rimasti ben
saldi sulle posizioni occidentali e continentali, dato che non si voleva perdere un
alleato importante come la Francia, cercando di massimizzare questa
accondiscendenza con i francesi per guadagnare posizioni sul piano internazionale
affinché ci si potesse sedere insieme ai grandi della terra per discutere delle
problematiche dell’epoca, come ad esempio del futuro tedesco oppure sul tema del
disarmo. Ciò è avvenuto nonostante alcuni esponenti governativi si rifacessero ad un
nuovo approccio alla politica internazionale, chiamato neoatlantismo, come
Amintore Fanfani, Giovanni Gronchi, Giorgio La Pira e il presidente dell’Eni Enrico

89
Ibid., pp. 734-743.

89
Mattei che non riuscirono ad imprimere quel cambiamento che avrebbe potuto
portare vicinanza tra l’Italia, le aspettative dei paesi del blocco dei “non allineati” e
un nuovo modo di intendere la politica internazionale occidentale.

2.6 La stampa italiana sulla guerra franco-algerina: il punto di vista dell’Unità

La stampa italiana, di pari passo come i vari governi della penisola che si
sono succeduti durante gli otto anni di guerra, ha seguito con interesse la crisi
nordafricana. La guerra d’Algeria divenne un argomento di interesse nazionale dato
che, come spiegato nel paragrafo precedente, si intrecciava con i progetti di politica
estera dell’Italia e la sua posizione nello scacchiere internazionale dell’epoca. Un
giornale che ha dedicato molto spazio alla vicenda fu «L’Unità», testata del Partito
Comunista Italiano, che osservava con attenzione le vicende riguardanti i paesi del
Terzo Mondo e in generale agli avvenimenti più importanti della politica
internazionale dell’epoca.
Il conflitto franco-algerino divenne un argomento presente nel periodo 1954-
1962, con picchi di indagine in concomitanza con gli eventi più importanti di tale
scontro, ad iniziare dall’edizione del 2 Novembre 1954 che da notizia, in prima
pagina, dell’insurrezione armata algerina e di nuove truppe dislocate sul suolo
algerino, ricordando i precedenti di tali azioni come il massacro di Sétif del Maggio
1945. In aggiunta, il giornalista fa riferimento all’ignobile sfruttamento delle risorse
naturali dell’Algeria che ha arricchito i coloni francesi e lasciato in miseria i nativi,
costretti ad emigrare in Francia e a lavorare nei campi e nelle fabbriche per stipendi
da fame. Nei giorni successivi si critica lo scioglimento del movimento di Messali
Hadj, il MTDL, e si da spazio alla prese di posizione in favore dei ribelli algerini, in
particolare alla Lega Araba, che prende in carico la questione per sottoporla al più
presto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, da parte del governo giordano e
del Partito Comunista Francese90. Un interessante editoriale di Alberto Jacoviello ci
consente di comprendere ancor di più il punto di vista de «L’Unità» sulle mosse
portate avanti dal governo francese in materia coloniale, che viene criticato “per
portare avanti l’eccidio di massa, il terrore e la repressione a fronte di una
popolazione che nei decenni di colonialismo fu spogliata di tutte le proprie risorse, a

90
Anon., Imponenti forze mobilitate per tre mesi per debellare i guerriglieri in Algeria, in «L’Unità»,
10 Novembre 1954, p. 1.

90
cominciare dagli espropri forzati delle terre ai contadini portando alla creazione di
tale movimento insurrezionale e la popolazione alla lotta armata”91.
Un evento riporta la vicenda al centro delle attenzioni della testata comunista,
la ribellione algerina, ma anche marocchina, del 20 Agosto 1955 in cui una serie di
attentati e di attacchi ribelli sconvolge il territorio algerino e di cui si accusa il
governatore Soustelle per alcune sue dichiarazioni che proiettano “sugli avvenimenti
una luce sinistra: dunque i colonialisti conoscevano lo stato d’animo della
popolazione e nonostante ciò, anziché agire nel senso delle rivendicazioni degli
algerini – considerati, per una raffinata finzione giuridica, cittadini francesi – hanno
scelto la strada della repressione sistematica”92. Nei giorni successivi si continua a
mantenere alta l’attenzione sull’argomento, dato che arrivano le prime sconvolgenti
testimonianze sulla barbara repressione portata avanti dalle forze francesi nei
confronti della popolazione musulmana, in particolare nelle zone a ridosso delle
montagne situate nella regione di Costantina. Le dichiarazioni di alcuni giornalisti
francesi presenti sul posto, inviati di «Le Monde» e di «L’Humanité», riportano ciò
che sta accadendo in Algeria e che viene celato dalle informazioni governative: la
repressione sistematica e brutale dei militari con fucilazioni di uomini musulmani e
la distruzione dei villaggi che però non riporta la situazione alla normalità nelle città
poiché le strade sono deserte e le attività commerciali chiuse. Su «L’Unità» escono
anche articoli di un giornalista de «L’Humanité», Robert Lambrotte, autore di un
reportage molto duro sulle violenze perpetrate nei confronti degli algerini,
documentando con foto e cortometraggi la distruzione sistematica dei villaggi di
campagna e le decine di corpi lasciati marcire per le strade, dove gli uomini dopo
essere stati fucilati vengono dati alle fiamme, non risparmiando né le donne e né i
bambini93. Lo stesso Lambrotte, in un articolo di alcuni giorni più tardi, fa sapere che
il prefetto d’Algeria, scoperto il suo lavoro, gli ha diramato un provvedimento di
allontanamento dal territorio nordafricano che gli viene notificato dalla forza
pubblica che lo accompagna sull’aereo che lo riporta a Parigi, a cui il giornale
comunista da spazio per far comprendere ai propri lettori quanto possa essere
vigliacco e inquietante il potere coloniale ed imperialista occidentale nei riguardi di
91
Alberto Jacoviello, Mendés-France e l’Algeria, in «L’Unità», 12 Novembre 1954, p. 1.
92
Michele Rago, Quasi mille patrioti uccisi dai colonialisti in Marocco e Algeria, in «L’Unità», 22
Agosto 1955, p. 1.
93
Robert Lambrotte, Un giornalista telefona da Costantina: “Fate sapere che il massacro continua”,
in «L’Unità», 25 Agosto 1955, p. 1.

91
chi sta solo portando avanti il proprio lavoro di giornalista, raccontando la scomoda
verità che potrebbe portare ad un ulteriore internazionalizzazione del conflitto94.
Negli ultimi mesi del 1955 furono pubblicati altri articoli inerenti al conflitto
franco-algerino che però era in concorrenza con le notizie politiche francesi, dato che
le elezioni, fissate per il 2 Gennaio 1956, erano imminenti e si cercava di portare
avanti le tesi dei partiti di sinistra a cominciare dal Partito Comunista Francese. Le
problematiche partitiche francesi portano a molte difficoltà nella creazione di una
maggioranza parlamentare stabile che possa appoggiare la formazione di un nuovo
governo che, dopo un periodo travagliato, porterà alla fondazione dell’esecutivo
Mollet. «L’Unità» comprende subito la sua debolezza già nel suo primo viaggio
istituzionale ad Algeri dove, secondo la testata comunista, subisce il
condizionamento degli ultra colonialisti e cerca di portare avanti un piano di riforma
annacquato, fondato su tre punti: cessate il fuoco, stabilizzazione ed elezione. In
aggiunta, durante tutto il 1956 si da ampio spazio alle critiche anticolonialiste e alle
inchieste giornalistiche francesi portate avanti da «L’Express» e da «L’Humanitè» su
argomenti di primo piano come la tortura e i massacri dell’esercito francese
commessi in territorio algerino, i problemi economici derivanti dalla guerra e gli
imponenti scioperi organizzati dai sindacati francesi. Sul finire del 1956 si da la
notizia del dirottamento del volo su cui erano in viaggio cinque membri del Fronte di
Liberazione Nazionale, senza però approfondire la vicenda a causa delle scarse
notizie provenienti dalle istituzioni francesi metropolitane ed algerine, e l’attentato in
cui rimane ucciso il fervente colonialista Froger, sindaco di Bufarik e presidente
della federazione dei sindaci della regione di Algeri, provocando un inatteso
inasprimento del conflitto nel Gennaio 1957, che sfocerà nella Battaglia di Algeri.
Il quotidiano comunista, l’8 Gennaio, da la notizia di un cambio al vertice
dell’apparato di sicurezza di Algeri che va nelle mani del Generale dei paracadutisti
Massu il quale, come primo atto da rappresentante dell’ordine pubblico, ha deciso di
rastrellare casa per casa la Casbah, la parte musulmana della città, con 10.000
uomini. L’ufficiale può essere una spina nel fianco per il governo socialista, così
come il Ministro residente Lacoste, uomo della destra ultra-colonialista che potrebbe
aver voluto svuotare le eventuali concessioni che si apprestava a concedere il

94
Robert Lambrotte, “Scaveremo fosse comuni per tutti gli algerini” urlavano i massacratori francesi
di Philippeville, in «L’Unità», 29 Agosto 1955, p. 1.

92
governo Mollet95. Quest’ultimo viene continuamente criticato da «L’Unità» perché
ha lasciato ogni velleità di accordo per confermare nuovamente, in linea con i
predecessori, che L’Algerie c’est la France, aggravando la situazione ad Algeri dove
i patrioti algerini continuano a seminare attentati contro obiettivi strategici, come il
comando generare delle forze di pubblica sicurezza, “il colpo più audace che sia mai
stato effettuato dall’inizio della guerra d’Algeria perché avvenuto in pieno centro
della città e nel palazzo più sorvegliato d’Algeri”96. Un punto a favore dei rivoltosi
nella Battaglia di Algeri, secondo il giornalista Augusto Pancaldi, viene dallo
sciopero indetto dal FLN per otto giorni per reclamare l’indipendenza del territorio in
cui, “le autorità francesi avevano mobilitato da venti giorni le loro forze migliori,
messo in campo i più duri mezzi intimidatori, effettuato rastrellamenti senza fine
nella speranza di vincere fin dall’inizio la battaglia d’Algeri: se dobbiamo giudicare
da questa prima giornata, la vittoria è del FLN. Impiegati, ferrovieri, portuali, operai,
commercianti, addetti ai trasporti pubblici e alle poste, su tutto il vasto territorio
algerino e in Francia, hanno risposto compatti alla parola d’ordine
dell’organizzazione nazionale, per nulla intimiditi dalle infinite violenze messe in
atto dalle autorità civili e militari…..lo sciopero era totale nelle grandi città
dell’Algeria e del 70 per cento fra i lavoratori nord-africani impiegati in Francia”97.
Nei giorni successivi si rimarca la durezza degli interventi militari francesi in
Algeria per stoppare lo sciopero generale, attraverso rastrellamenti su vasta scala e
obbligando gli uomini a uscire dalle case e a salire su camion militari per essere
trasportati sui luoghi di lavoro mentre contro i commercianti si utilizzano i mandati
di cattura e si sospendono le licenze per mesi, impoverendo migliaia di persone. I
giornalisti continuano a dare notizia della forza dimostrata dai patrioti algerini che,
nonostante le violenze subite, concludono compatti lo sciopero generale di otto
giorni indetto dal FLN, segnando una vittoria nei confronti dei francesi. Tra il
successo di questa iniziativa e la creazione del Governo provvisorio della repubblica
algerina nel Settembre 1958, «L’Unità» continua a pubblicare articoli in cui si critica
continuamente l’atteggiamento delle istituzioni francesi a livello internazionale ed

95
Augusto Pancaldi, 10000 francesi rastrellano la Casbah alla vigilia della dichiarazione di Mollet,
in «L’Unità», 9 Gennaio 1957, p. 1.
96
Augusto Pancaldi, I commercianti di Orano scioperano sfidando gli ordini del Gen. Massu, in
«L’Unità», 18 Gennaio 1957, p. 8.
97
Augusto Pancaldi, L’Algeria e Parigi sconvolte dallo sciopero proclamato dal “Fronte di
Liberazione”, in «L’Unità», 29 Gennaio 1957, p. 1.

93
interno, dando spazio a chi disapprova tali scelte, come il documento a firma di
centinaia di intellettuali affinché si concluda questa assurda guerra, consegnato al
presidente della repubblica Coty e manifestazioni contrarie al conflitto come quella
degli insegnanti per far comprendere che c’è una buona fetta di popolazione francese
che non è d’accordo con l’esecutivo transalpino. Molti servizi, in particolar modo dal
mese di Aprile del 1958, sono stati dedicati alla fine della Quarta Repubblica
francese e al ritorno sulla scena politica del gen. De Gaulle, definito reazionario e
pericoloso per la tenuta democratica francese, dato il suo disegno politico che
contemplava il completo cambiamento dell’architettura costituzionale della Francia,
accentrando il potere nelle mani del Presidente della Repubblica.
Sulla costituzione del GPRA, «L’Unità» da ampia notizia il 20 Settembre
1958 con un grande articolo in prima pagina intitolato: Costituito il libero governo di
Algeria che si considera in guerra con la Francia al cui interno si fa presente come
molti stati arabi ed africani abbiano subito riconosciuto il nuovo governo, al contrario
degli stati occidentali che si trincerano dietro l’aggettivo illegale. Molto interessante
è l’editoriale di Giancarlo Pajetta, giornalista e politico, che fa un avvincente
parallelo tra la situazione della Francia durante la Seconda Guerra Mondiale, quando
il governo legittimo non esisteva più se non rappresentato in alcune colonie e
sostituito da un governo fantoccio in mano alle forze nazi-fasciste, con il governo
provvisorio algerino che è rappresentante delle istanze della popolazione e di un
movimento che le rappresenta in pieno. “Noi, come allora, siamo dalla parte della
libertà e della storia. Siamo consapevoli come allora, che la libertà di un popolo è
inscindibile da quella degli altri popoli e che il fascismo e la guerra imperialista
appaiono sempre più strettamente legati. Per la libertà della Francia e dell’Algeria e
per la pace, noi riconosciamo quindi nel nuovo governo algerino una forza di libertà
e di pace”98. Il 27 Settembre, si da notizia delle prime azioni del GPRA nei confronti
delle autorità francesi per arrivare ad un accordo, che non ci sarà se non si accetterà
l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia, continuando nell’azione armata che viene
portata avanti da quasi quattro anni.
Avendo un interlocutore con cui iniziare i colloqui per arrivare ad una
soluzione politica e diplomatica, De Gaulle, divenuto primo Presidente della Quinta
Repubblica, fa un passo in avanti, rispetto ai suoi predecessori, nel discorso alla
nazione del 16 Settembre 1959, in cui pone alcune condizioni affinché si giunga alla

98
Giancarlo Pajetta, Governo legittimo, in «L’Unità», 20 Settembre 1958, p. 1.

94
normalizzazione della situazione algerina. «L’Unità» del 17 Settembre spiega come
l’ambiguità dei mesi precedenti ha lasciato spazio alla decisione di arrivare alla resa
del FLN, poiché “i punti-chiave del disegno che De Gaulle ha illustrato nelle sue
dichiarazioni sono ancora meno avanzati e contengono molte sfumature equivoche in
più di quanto si potevano attendere gli osservatori più cauti….Il Presidente ha poi
elencato le premesse che egli ritiene necessarie perché si possa giungere a questa
«libera scelta»: sono condizioni pesanti e lontane nell’avvenire che non appariranno
domani meno chimeriche di quanto non siano apparse fino ad oggi”99. Nel proseguo
dell’articolo viene minuziosamente descritto il piano di De Gaulle per l’Algeria e si
portano le dichiarazioni di Jacques Duclos, deputato del Partito Comunista Francese,
secondo cui “il generale De Gaulle ha parlato una volta di più del proseguimento
della pacificazione, che egli pensa dover essere di lunga durata. Questo non significa
altro che la continuazione della guerra”.
“Dopo il rifiuto categorico di ogni trattativa politica con gli algerini contro
cui combatte, il generale De Gaulle chiude la porta alla conclusione di una pace
negoziata….la promessa di autodeterminazione quattro anni dopo la fine della
guerra, da cui da altra parte non si vede la uscita, appare semplicemente come una
manovra destinata a guadagnare tempo ingannando l’ONU, tentando di ottenere con
l’inganno, la confusione e la corruzione ciò che non può essere imposto con la
forza”100. Il giorno successivo, il giornalista Saverio Tutino cerca di fare il punto
della situazione sulle reazioni al progetto di De Gaulle, in cui si parla dello scontato
appoggio di Eisenhower e del governo di Londra, così come della maggioranza che
sostiene il generale all’Assemblea Nazionale, ad eccezione dell’opposizione di
sinistra che mantiene l’idea di arrivare ad una pace negoziata e degli “ultras” che
continuano a protestare e voler continuare con l’Algeria francese. Inoltre, in sede
ONU, rimane scontato il no degli ex protettorati Marocco e Tunisia riguardo al
progetto francese di “finta autodeterminazione” poiché, come viene spiegato nel
continuo del servizio, “la pace dei coraggiosi innanzitutto, significa semplicemente la
resa: resa onorevole, forse, ma comunque un gesto tale da non poter mai essere
compiuto da parte di chi combatte per un obiettivo totale come l’indipendenza. Se
tuttavia De Gaulle insiste su questo punto e rifiuta più seccamente che mai di aderire

99
Saverio Tutino, De Gaulle promette l’indipendenza 4 anni dopo la normalizzazione, in «L’Unità»,
17 Settembre 1959, p. 9.
100
Ivi.

95
ai negoziati, vuol dire che egli conta in qualche modo su di un indebolimento delle
posizioni avversarie”101. Si cita una fonte giornalistica francese che riporta alcune
crepe all’interno del GPRA, al cui interno quattro ministri sarebbero favorevoli a tale
piano così come qualche titubanza c’è nel pensiero di Ferhat Abbas, ma Tutino si fa
una domanda molto importante: che cosa avverrebbe se i ribelli accettassero la resa ?
I capi della resistenza, così come le migliaia di ribelli, non avrebbero altra
scelta se non quella di chinare la testa di fronte alle autorità francesi, e se ciò
avvenisse “quali sono le probabilità che effettivamente tra quattro anni si possa
liberamente votare in Algeria ? E quante le probabilità che il voto stesso sanzionerà il
distacco dell’Algeria dalla Francia ? Come si configurerebbe, secondo il piano di De
Gaulle, tale distacco ?” Domande molti importanti e pertinenti dato che nelle
dichiarazioni del generale possono essere intese quelle mosse che impedirebbero la
secessione, come l’attuazione del piano di Costantina in base al quale “centinaia di
migliaia di francesi si preparano a calare, nel prossimo anno, in Algeria non soltanto
come volontari per la guerra, essi si installeranno nei depositi chiave ma anche in
qualità di tecnici, funzionari ed operai. E saranno scelti in base alla loro opinione
politica. Con un simile programma, quattro anni sono sufficienti per mutare la
configurazione etnica di qualsiasi dipartimento algerino”102. Un altro punto
interessante che viene sottolineato nell’articolo riguarda la consultazione che si dovrà
tenere nei dodici dipartimenti, una precisazione che contiene un messaggio: anche
nell’ipotesi dell’indipendenza, le istituzioni francesi dividerebbero l’Algeria
prendendo possesso delle zone ad interesse economico europeo e cercando di unire
tutti coloro che vogliono rimanere francesi in quest’ultime aree, staccando i
dipartimenti che a maggioranza voterebbero a favore della secessione. Nei giorni
successivi ci si interroga su quale possa essere la risposta del governo provvisorio
algerino al piano De Gaulle e vengono date anticipazioni sul responso dei ribelli
algerini secondo cui accetterebbero solamente il principio di autodeterminazione,
respingendo al mittente tutti gli altri punti, così come viene accertato il 29 Settembre
nella risposta ufficiale del GPRA al programma del Generale senza però chiudere
definitivamente all’opportunità di accordi con le istituzioni francesi. Per l’inviato a
Parigi per «L’Unità», Saverio Tutino, “due elementi appaiono particolarmente

101
Saverio Tutino, Previsto un secco no del F.L.N. algerino alle proposte del presidente De Gaulle, in
«L’Unità», 18 Settembre 1959, p. 8.
102
Ivi.

96
importanti in questa dichiarazione: prima di tutto il fatto che essa si inserisca
chiaramente nel nuovo corso della politica internazionale, riferendosi in maniera
esplicita al grande movimento verso la pace, inaugurato dal dialogo fra URSS e Stati
Uniti. In secondo luogo risalta in essa la fermezza e la forza di una giusta causa che il
FLN non solo non abbandona, offrendo una pace immediata, ma promette di
difendere su posizioni ancor più salde, anche di fronte all’opinione
internazionale….La dichiarazione offre un altro elemento interessante da
considerare: laddove si dice che «l’indipendenza faciliterà l’edificazione del
Maghreb». Questo sembrerebbe indicare che la partecipazione di Bourguiba e
Maometto V all’elaborazione del documento ha indotto il governo algerino ad
accettare formalmente, come prospettiva generale, quella di una futura federazione
maghrebina dei tre stati del nordafricani: Tunisia, Marocco e Algeria. È la prima
volta che questa soluzione viene vista in prospettiva, in un documento di tanta
importanza”103.
Alberto Jacoviello, in un suo editoriale sulla questione, scrive che “la risposta
del GPRA non permette più alle forze colonialiste di nascondersi dietro alla
vergogna della «pacificazione» e nello stesso tempo obbliga il generale ad una scelta
che…lo metterebbe in contrasto violento con i partigiani della guerra ad oltranza, gli
integrazionisti accaniti, gli autori della tortura, del massacro, della repressione
indiscriminata. Di qui viene il problema più grosso che chiarisce tutti gli altri. La
risposta del governo provvisorio algerino dimostra in modo inoppugnabile che la
soluzione del conflitto e la pace nel Nord Africa sono strettamente connessi al
problema della democrazia in Francia, dimostra cioè che solo un governo che non sia
l’espressione delle classi più reazionarie e conservatrici…ma un governo che rompa
con queste stesse classi può avere la capacità di cogliere l’occasione alla trattativa
offerta, con coraggiosa fermezza, dai dirigenti del popolo algerino”104. Per la
reazione ufficiale del governo francese alla risposta algerina al piano De Gaulle si
dovette aspettare il 13 Ottobre, quando il primo Ministro Debré aprì il dibattito sulla
politica estera all’Assemblea Nazionale francese, il cui discorso “ha avuto soprattutto
lo scopo di limitare il più possibile le conseguenze positive che si sono potute trarre o

103
Saverio Tutino, Non è possibile la pace in Algeria senza accordo col Fronte di Liberazione, in
«L’Unità», 29 Settembre 1959, p. 10.
104
Alberto Jacoviello, Con le spalle al muro, in «L’Unità», 30 Settembre 1959, p. 10.

97
che sono obiettivamente derivate da essa. Si è trattato quindi di un discorso ambiguo
dove gli elementi dell’oltranzismo sono d’altra parte risultati più vividi e sinceri”105.
Nelle settimane successive si documenta la spaccatura interna al fronte
gollista a causa delle aperture agli algerini e al mancato dietrofront del premier Debré
nel discorso parlamentare, di alcune aperture al dialogo fra le parti e della ormai
onnipresente questione algerina al dibattito annuale dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite.
L’idea di un accordo tra le istituzioni francesi e i rappresentati del GPRA
risveglia gli animi dei fautori dell’Algeria francese che, alla notizia di un possibile
referendum per il futuro della colonia, rispondono con l’alzata delle barricate ad
Algeri nel Gennaio 1960. Il 24 Gennaio hanno inizio le manifestazioni degli
ultracolonialisti nella maggiore città algerina, descritta da «L’Unità» come “una
giornata di tumulti colonialisti, di urla, di sfilate, di scontri tra soldati, di sparatorie e
di vittime. Tutto ciò è stato portato avanti da “un «comitato insurrezionale dei
dieci»…di esso fanno parte oltre a esponenti estremisti di destra come il deputato
Lagaillarde, Ortiz e Robert Martel, due ufficiali dell’esercito: il colonnello Gardes,
capo del Servizio della guerra psicologica, e il capitano Filippi, che qualche giorno fa
facevano parte dello stato maggiore del generale Massu”106. In un altro articolo
vengono riportate le reazioni delle istituzioni francesi alle barricate alzate dai
colonialisti ad Algeri, preoccupate di “perturbamenti anche sul suolo nazionale. Lo
dimostrano la decisione di proibire tutte le riunioni pubbliche nel territorio
metropolitano e la censura imposta a tutte le comunicazioni da Algeri e le misure
che, a quanto si dice, riguardano Bidault ed altri due esponenti della destra, Arrighi e
Le Pen, che spariti di circolazione, sarebbero ricercati dalla polizia”107.
Il giorno successivo, Augusto Pancaldi fa il punto della situazione su questo
strano conflitto tutto francese che, per il giornalista, ha la sua origine da due punti
fondamentali: “il primo è la resistenza delle forze di liberazione algerine che tengono
testa validamente alle operazioni militari dirette dal generale Challe e che, sul terreno
politico, rispondono alle ambigue proposte di De Gaulle con altrettante
controproposte chiare e precise. Il secondo deriva direttamente dal primo e si innesta
105
Saverio Tutino, Debrè respinge nuovamente l’idea di negoziati politici con il F.L.N., in «L’Unità»,
14 Ottobre 1959, p. 8.
106
Saverio Tutino, Diciannove morti ad Algeri negli scontri tra “ultras” e truppa, in «L’Unità», 25
Gennaio 1960, p. 1.
107
Saverio Tutino, Sgomento a Parigi, in «L’Unità», 25 Gennaio 1960, p. 1.

98
nelle preoccupazioni del capitalismo metropolitano. Diventata evidente
l’impossibilità di schiacciare militarmente la resistenza del popolo algerino. Parigi da
segni evidenti di volersi liberare delle forze più chiaramente orientate verso la guerra
ad oltranza: e la ribellione «ultras» esplode”108. Nei giorni successivi, «L’Unità»
continua nella sua opera di informazione sui fatti algerini, con molti articoli che
criticano l’operato di De Gaulle e la situazione della maggioranza di governo con
titoli come L’esercito rifiuta di sparare in Algeria. De Gaulle in conflitto con il suo
governo del 27 Gennaio, Tempestosa riunione del governo francese tuttora incapace
di domare la ribellione del 28 Gennaio e Le autorità abbandonano Algeri che appare
ormai in preda al caos del giorno successivo. Il 30 Gennaio si commenta, invece, il
discorso del presidente De Gaulle che, respingendo le richieste dei rivoltosi, ha
confermato la sua politica di autodeterminazione per l’Algeria anche se, per il
giornalista Tutino, la condanna nei confronti dei colonialisti poteva essere più dura
ma non lascia adito ad ulteriori compromessi. Il 2 Febbraio «L’Unità» da la notizia
della resa dei rivoltosi ad Algeri facendo un parallelo con la manifestazione sindacale
francese che ha coinvolto dodici milioni di lavoratori e dando un resoconto degli otto
giorni di barricate ad Algeri.
Un altro importante avvenimento di cui la testata comunista da ampio spazio
é il discorso di De Gaulle del 5 Novembre 1960 in cui, rifacendosi al principio
dell’autodeterminazione, conferma l’intenzione di un referendum sul futuro
dell’Algeria, cercando di aprire un dialogo con i capi della rivolta per raggiungere un
compromesso che vede al primo punto il cessate il fuoco e di conseguenza le
trattative per l’autodeterminazione. “Qui De Gaulle ha ripetuto la sua formula sulla
pace che ormai si è rilevata non solo inadatta a sbloccare la situazione ma anche, e
soprattutto, pericolosa, a giudizio degli uomini che si battono per l’indipendenza: le
trattative preliminari di Melun hanno dimostrato che la pace che offre De Gaulle è la
resa pura e semplice, è la permanenza delle truppe francesi in Algeria sin dopo il
referendum”109. Inoltre, De Gaulle si dichiara preoccupato per un futuro sovietico per
l’Algeria, criticando aspramente l’URSS e il troppo zelo nei confronti dei problemi
razziali degli Stati Uniti.

108
Augusto Pancaldi, La resa dei conti, in «L’Unità», 26 Gennaio 1960, p. 1.
109
Saverio Tutino, De Gaulle minaccia misure eccezionali e rimane sulla negativa per l’Algeria, in
«L’Unità», 5 Novembre 1960, p. 11.

99
La risposta di Ferhat Abbas, capo del governo provvisorio algerino, è
negativa dato che “l’estate scorsa noi facemmo un tentativo per giungere ad un
accordo con i francesi a Melun. Io ero pronto a recarmi in Francia come capo di una
delegazione. Per un momento ritenemmo che i francesi facessero sul serio ma ciò che
essi domandavano era che noi deponessimo le armi per avere un referendum. Noi
conosciamo questi referendum. Il generale Massu sarebbe stato là con il fucile
puntato contro di noi e tutto sarebbe stato guastato. Non abbiamo intenzione di
trattare con De Gaulle”110. Quest’ultimo espone al Consiglio dei Ministri, il 17
Novembre, il proprio progetto di referendum sull’Algeria da tenersi a breve scadenza
e nella successiva riunione di governo vengono definiti i dettagli di tale votazione,
insieme ad alcune importanti novità riguardanti sempre l’Algeria. “Il Consiglio dei
Ministri ha recato alcune sorprese: ieri Debre aveva indicato la fine di Gennaio come
data probabile per il referendum sull’Algeria: il consiglio ha approvato invece la
proposta di De Gaulle che lo anticipa alla prima quindicina di Gennaio. Si è deciso
che il referendum si svolgerà contemporaneamente in Francia e Algeria: in questa
difficile prospettiva Paul Delouvrier, che da due anni ricopriva la carica di delegato
generale del governo in Algeria, viene liquidato e sostituito con Jean Morin, finora
super prefetto della quinta regione amministrativa della Metropoli….Da tutto questo
si sarebbe indotti a trarre l’impressione che De Gaulle si muova speditamente verso
la realizzazione di chissà quali innovazioni. In realtà, proprio le sorprese riservateci
oggi dal consiglio dei ministri fanno pensare il contrario. De Gaulle dà l’impressione
di muoversi ma in realtà rimane fermo sul posto”111. In una successiva riunione
governativa verrà definito il referendum: il 6 Gennaio in Algeria e l’8 in tutto il
territorio metropolitano francese, di cui «L’Unità» seguì con grande attenzione lo
svolgimento.
Il 7 e 8 Gennaio negli articoli del corrispondente da Parigi Saverio Tutino si
da notizia che “l’esercito colonialista francese ha aperto il fuoco contro un gruppo di
algerini che rifiutavano di recarsi a votare. Almeno nove musulmani sono stati
uccisi…in un villaggio di montagna, nell’Algeria meridionale…”112. Il 9 Gennaio, in
prima pagina, si commenta il risultato del referendum in Francia, ed anche i risultati
parziali arrivati dall’Algeria, dove si è svolto il giorno precedente, concluso con la

110
Anon., Ferhat Abbas non intende trattare con De Gaulle, in «L’Unità», 5 Novembre 1960, p. 11.
111
Saverio Tutino, Delouvrier sostituito da un super-prefetto, in «L’Unità», 24 Novembre 1960, p. 9.
112
Saverio Tutino, Dieci morti in Algeria, in «L’Unità», 8 Gennaio 1961, p. 1.

100
maggioranza delle adesioni ai piani del generale che, però, risultato “negativi per lo
stesso De Gaulle: primo fra tutti il rovesciamento netto della opinione algerina, in
voti e in percentuale, che si registra per De Gaulle anche nella metropoli fra il primo
referendum-plebiscito e quello di oggi. L’Algeria, nel 1958, diede un si quasi
unanime per De Gaulle. Tutti i francesi d’Algeria votarono allora per lui; ma anche
gli algerini gli concessero la loro fiducia e in gran parte spontaneamente, credendo
che egli avrebbe contribuito a restituire loro la pace…La nota dominante, nel quadro
elettorale delle grandi città algerine è stata l’astensione risoluta e organizzata delle
masse musulmane, punteggiata spesso da manifestazioni che sono divampate
improvvisamente. Soprattutto ad Orano e Algeri l’astensione ha avuto nettamente
l’aspetto di una dimostrazione collettiva, sorella delle forti manifestazioni
patriottiche dei mesi scorsi”113.
Un interessante commento di Giuseppe Boffa giudica perentorio
l’atteggiamento degli algerini, tenendo fede al proclama del FLN di astenersi dalla
votazione, dato che solo “una consultazione onesta, senza esercito francese, con
controllo dell’ONU, sia pure sulle tre scelte di cui parlava De Gaulle tempo fa, farà si
che l’esito sarà evidente per tutti”114. In definitiva “con il referendum De Gaulle non
ha fatto dunque nessun passo in avanti verso la soluzione del problema algerino. Egli
ha visto tramontare la speranza di una «terza forza» collaborazionista in Algeria. Né
aveva bisogno di sentirsi confermare che per ottenere la pace bisogna discutere da
uguali a uguali con gli esponenti del FLN, ebbene ha avuto questa conferma”115. Nei
giorni successivi si da notizia di un’apertura del governo provvisorio algerino ad
iniziare negoziati che riguardino il principio dell’autodeterminazione della
popolazione nordafricana, forte dell’appoggio del popolo algerino che si è consumato
durante le giornate di consultazione referendaria.
Il risultato del referendum e il riavvio delle trattative tra gli algerini e le
istituzioni francesi fece si che gli ultracolonialisti, in collaborazione con alcuni
generali presenti in Nord Africa, preparassero un colpo di stato in Algeria. Il
tentativo di golpe iniziò all’alba del 22 Aprile, per tentare di mantenere lo status quo
coloniale. In un editoriale del direttore Alfredo Reichlin si definisce tale situazione

113
Saverio Tutino, Solo il 56 per cento dei francesi per De Gaulle, in «L’Unità», 9 Gennaio 1961, p.
1.
114
Giuseppe Boffa, La scelta algerina, in «L’Unità», 10 Gennaio 1961, p. 1.
115
Ivi.

101
come “una sfida fascista all’equilibrio e alla pace dell’Africa, dell’Europa e del
mondo. L’obiettivo dei generali fascisti è quello di negare l’indipendenza e la vita
stessa del popolo algerino, affidando alla guerra coloniale di sterminio la soluzione
dei rapporti franco-algerini, invertendo il processo di liberazione anticoloniale che
tanta strada ha percorso in questi anni e mesi in Algeria come in tutta l’Africa. Ma il
mondo, oggi, non lascerà massacrare il popolo algerino dai fascisti francesi; né oggi
è più possibile tornare indietro, pretendere di negare l’Algeria indipendente, senza
rompere tutto l’equilibrio politico mondiale e lacerare il tessuto su cui oggi si
fondano la convivenza civile e la coesistenza pacifica dell’umanità intera”116. Il 24
Aprile si dedica l’intera prima pagina alla vicenda del golpe militare in Algeria e ai
suoi possibili sconfinamenti sul territorio metropolitano francese, dato che sono
girate notizie secondo cui alcuni aerei di paracadutisti sono partiti dal Nord Africa in
direzione Parigi, notizia riportata anche dal Primo Ministro Debré che ha mobilitato
tutte le forze possibili affinché si difenda l’intera regione parigina, a cui si aggiunge
il monito del Partito Comunista Francese alle masse chiedendo loro di mobilitarsi
ovunque ce ne sia bisogno in vista della lotta. In aggiunta, si riporta il discorso
pronunciato da De Gaulle alla televisione francese, il cui appello “ai francesi è stato
di una drammaticità eccezionale. Vestito dell’uniforme da generale, il Presidente ha
parlato per una decina di minuti col tono di un comandante alla vigilia della battaglia
decisiva, furente per l’insubordinazione di alcuni, sgomento per i segni funesti…”117.
In seguito, si continua a dare molto spazio al golpe militare in Algeria e alle
conseguenze sulla vita istituzionale francese, menzionando il grande sciopero di
dodici milioni di lavoratori che fu organizzato il 24 Aprile, le testimonianze sul
perché non sono più partiti gli aerei con a bordo i paracadutisti con destinazione
Parigi e l’arresto del gen. Challe, con la fuga di Salan e dei suoi. Il governo
provvisorio algerino, si scrive in un articolo dalla corrispondente da Tunisi, “al
momento della esplosione della rivolta, il loro primo gesto è stato di rimandare
Boularuf a Ginevra, con un messaggio per i francesi dove si afferma che erano pronti
ad iniziare i negoziati…Per quattro giorni a Ginevra nessuno si è fatto vivo. Gli
algerini non hanno forzato la mano…e alla fine del putch di Algeri, Boularuf è
rientrato a Roma dove attenderebbe la risposta francese alla richiesta del governo
provvisorio di aprire la conferenza attorno all’11 Maggio. Le posizioni politiche

116
Alfredo Reichlin, Sotto il segno dell’imperialismo, in «L’Unità», 23 Aprile 1961, p. 1.
117
A.T., De Gaulle assume i pieni poteri, in «L’Unità», 24 Aprile 1961, p. 1.

102
degli algerini di fronte alla trattativa non sono nel frattempo mutate. Esse si
concentrano su questioni decisive e inalienabili: indipendenza totale dell’Algeria,
unità del popolo algerino e integrità del territorio, ivi compresa la sovranità politica
sul Sahara, allo sfruttamento delle cui ricchezze essi si riservano il diritto di fare
intervenire in una forma di cooperazione tutti i paesi del mondo”118. Questa apertura
portò ai negoziati di Evian, che iniziarono il 20 Maggio 1961 con una serie di
riunioni preliminari tra le parti che non portarono né alla tregua né ad alcun accordo,
in particolar modo sulla questione del Sahara, che fa gola ai francesi per le risorse
naturali, sui problemi riguardanti la minoranza europea, di cui la Francia, secondo il
punto di vista de «L’Unità», farebbe da cavallo di troia per la spartizione del
territorio algerino, e sulla proposta algerina di creare un governo misto provvisorio
che possa portare il paese al referendum sull’autodeterminazione.
Ci sono alti e bassi nelle trattative tra le due parti in causa, che vengono
riportate dalla testata comunista dalla fine del Maggio 1961 fino all’accordo di pace
firmato il 18 Marzo 1962, di cui «L’Unità» ne da notizia in prima pagina, titolando
La pace sarà firmata oggi W l’Algeria indipendente!, e il giorno successivo si da
l’annuncio del cessate il fuoco, elogiando la rivoluzione algerina che ha combattuto
per otto anni per arrivare al risultato sperato. Nell’editoriale in prima pagina si scrive
che “l’accordo di Evian, nei termini ormai a nostra conoscenza, non significa
soltanto la conclusione di un conflitto che infuria da otto anni sul territorio algerino.
L’accordo di Evian significa la vittoria di chi la vittoria meritava, significa la
conclusione vittoriosa di una guerra giusta, un nuovo trionfo degli oppressi contro gli
oppressori, una nuova umiliazione delle forze più ripugnanti della reazione, quelle
del colonialismo e del fascismo. Fa fare un passo avanti alla causa della pace, ma
anche alla causa della libertà, della democrazia, del progresso sociale, della ragione e
della verità”119. Nelle settimane successive si da notizia della creazione del governo
provvisorio misto in Algeria, del positivo risultato del referendum francese con il
popolo d’oltralpe che “approva la fine della sporca guerra d’Algeria” con il 90 per
cento dei voti favorevoli, anche se si sottolinea il dato dell’astensione, nell’ordine del
25 per cento degli aventi diritto, e delle trattative tra il GPRA e l’OAS per la fine
degli spargimenti di sangue dell’organizzazione segreta formata dagli ultra

118
Maria A. Macciocchi, Il «putch» di Algeri affretta o ritarda i negoziati di pace ?, in «L’Unità», 28
Aprile 1961, p. 10.
119
Mario Alicata, L’avvenire dell’Algeria, in «L’Unità», 18 Marzo 1962, p. 1.

103
colonialisti europei. Il 1 Luglio si tenne il referendum per l’autodeterminazione
algerina e Saverio Tutino, inviato per «L’Unità» ad Algeri scrive che “si può già
prevedere che l’approvazione sarà praticamente unanime. Una partecipazione che si
aggira sul 90 per cento due ore prima della chiusura delle urne è già un segno molto
positivo. Ma più che il risultato numerico, oggi, conta il risultato politico120”. Nei
giorni successivi viene annunciato l’esito scontato del referendum algerino con la
proclamazione, il 3 Luglio, dell’indipendenza del paese nordafricano e l’entrata
vittoriosa ad Algeri dei capi del Fronte di Liberazione Nazionale che si uniscono ai
festeggiamenti popolari per la loro libertà dal giogo coloniale europeo.
Durante tutto il percorso dello scontro franco-algerino, dall’insurrezione del 1
Novembre 1954 all’indipendenza del paese del 3 Luglio 1962, «L’Unità» ha dato
ampio spazio alla vicenda per far comprendere ai propri lettori, e anche ai cittadini
italiani, il vero volto dell’Occidente imperialista e colonialista che non vuole perdere
i propri privilegi e il gusto di essere padrone sugli altri popoli. La testata comunista è
stata l’unica in Italia a schierarsi apertamente con gli insorti algerini e ad appoggiare
le loro tesi e i loro progetti indipendentisti, criticando aspramente i vari governi
francesi della quarta e quinta repubblica che si sono succeduti per aver perpetrato la
violenza colonialista e non aver ascoltato la voce del popolo algerino.

120
Saverio Tutino, «Si» unanime per la patria algerina, in «L’Unità», 2 Luglio 1962, pp. 1,3.

104
CAPITOLO 3

LA STRANA DECOLONIZZAZIONE DEGLI EX POSSEDIMENTI


ITALIANI IN AFRICA

Come tutte le altre potenze europee, l’Italia ha partecipato alle esplorazioni


africane e, successivamente, alla penetrazione economica, commerciale e politica nel
corso dell’Ottocento. Il suo colonialismo è avvenuto con ritardo rispetto agli altri
paesi europei e ha avuto proporzioni più ridotte, con un’incidenza nelle strutture
istituzionali e produttive dei paesi colonizzati che non è stata duratura e profonda
come nel resto del continente1. L’Italia ha perduto le colonie durante la Seconda
guerra mondiale come conseguenza della sconfitta e non è passata per i travagli della
decolonizzazione, ad eccezione del mandato decennale in Somalia.

3.1 Il colonialismo italiano: dai primi possedimenti all’Impero fascista (1882-


1941)

L’Italia si gettò nella corsa coloniale per motivi politici e di prestigio


nazionale, diversamente da altre politiche di espansione dovute a fattori economici o
finanziari poiché era diffusa l’idea negli strati più alti della popolazione, dei politici e
di Casa Savoia, che l’Italia dovesse avere almeno qualche colonia nel continente
africano per potersi definire un paese mediamente importante all’interno del bacino
del Mediterraneo. Spingevano per l’azione coloniale anche altri settori importanti del
paese quali il clero, per favorire l’opera missionaria in Africa, ed alcuni ambienti
industriali, in particolar modo l’industria bellica, la cantieristica e la marina
mercantile.

3.1.1 Le prime azioni coloniali dell’Italia liberale (1882-1896)

Gli inizi del colonialismo italiano si possono far risalire all’azione individuale
e privata di due personaggi, l’armatore genovese Raffaele Rubattino e l’ex
missionario Giuseppe Sapeto, che procurarono al Regno d’Italia il primo

1
Giampaolo Calchi Novati, Pietro Valsecchi, Africa: la storia ritrovata, Carocci Editore, Roma 2005,
p. 233.

105
possedimento d’oltremare. I due, grazie all’interessamento del governo italiano,
acquistarono, nel 1869, la baia di Assab sul Mar Rosso, una striscia di terra di appena
sei chilometri che, per problemi con l’Egitto e la Gran Bretagna, rimase per circa
dieci anni inutilizzata e soltanto nel 1882, dopo aver sviluppato il possedimento, la
società Rubattino cedette totalmente all’Italia il territorio in suo possesso, creando la
prima colonia italiana in Africa. Negli anni ottanta del XIX secolo, la situazione in
Africa Orientale stava mutando a causa dei problemi inglesi in Egitto, con il relativo
protettorato britannico sul paese, e in Sudan, a causa della rivolte dei Dervisci. La
Gran Bretagna aveva bisogno di un alleato europeo nella zona e lo trovò nell’Italia,
per la quale promosse la sua partecipazione nell’area attraverso la presa di Massaua il
5 Febbraio 18852.
Le autorità italiane svilupparono, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli
anni novanta dell’Ottocento, una politica espansionistica verso l’interno, che tendeva
ad un dominio diretto della parte settentrionale dell’altopiano etiopico e ad un
protettorato effettivo sul resto dell’Abissinia. Ciò, però, non era supportato in Italia
con la costanza e la serietà necessaria ad un azione di così ampio respiro, scaturendo
una politica espansiva basata sui contrasti tra i capi abissini, impegnati e preoccupati
per i successi dei Dervisci sudanesi che minacciavano l’Etiopia settentrionale. Il
primo scontro vero e proprio tra le truppe italiane e gli etiopici ci fu nel Gennaio
1887, quando ras Alula, uno dei capi dell’altopiano eritreo, attaccò il fortino italiano
di Saati e una colonna di cinquecento soldati che, sconfitti, ripiegarono verso i centri
della costa. Il gen. di San Marzano riuscì a riprendersi Saati e a collegarla con
Massaua attraverso una linea ferroviaria, evitando di dare battaglia, nel Marzo 1888,
all’esercito dell’Imperatore Giovanni, riuscendo a strappare un mezzo successo senza
colpo ferire. Il suo successore, gen. Baldissera, creò truppe coloniali adeguate
all’ambiente, formate dai famosi ascari eritrei che si distinsero subito per mobilità e
fedeltà, e seppe muoversi con estrema sicurezza nella complessa situazione abissina,
avvalendosi delle inimicizie tra i capi locali e dosando i rifornimenti di armi per
espandere l’influenza italiana in maniera più efficace3.
Il Presidente del Consiglio Crispi, rimasto in carica una prima volta dal 1887
al 1891, e tra i più grandi fautori dell’espansione italiana in Africa, trattò con
Menelik, negus dello Scioà, rifornendolo di armi per indebolire l’Imperatore

2
Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher editore, Torino 1973, pp. 20-23.
3
Jean Louis Miége, L’imperialismo coloniale italiano, Rizzoli Editore, Milano 1976, pp. 38-40.

106
Giovanni che, morendo in battaglia contro i Dervisci nel Marzo 1889, gli aprì la
strada al trono etiopico con il pieno appoggio delle istituzioni italiane. Nelle
settimane successive il conte Antonelli, rappresentante italiano alla corte abissina,
ottenne dal nuovo regnante la stipulazione di un trattato di amicizia e alleanza, il
Trattato di Uccialli, firmato il 2 Maggio 1889, che riconosceva all’Italia il possesso
del lembo settentrionale dell’altopiano e proclamava altresì, con una formulazione
ambigua ed un sospetto errore di traduzione, il protettorato italiano sull’Etiopia.
L’azione militare si combinò con quella diplomatica e i battaglioni di ascari
di Baldissera occuparono Cheren e Asmara nell’estate 1889, estendendo il dominio
italiano su tutto l’altopiano settentrionale che, dal 1 Gennaio 1890, fu costituito in
colonia sotto il nome di Eritrea. In aggiunta, la penetrazione italiana lungo le coste
somale dava i primi risultati concreti, con la proclamazione del protettorato italiano
sul Benadir. Tali successi erano stati possibili grazie alla crisi etiope, provocata dalla
morte dell’Imperatore Giovani, e non fu compreso dagli italiani che un’ulteriore
espansione avrebbe causato la resistenza degli etiopi, oltre ai problemi posti
dall’ostilità dei Dervisci nei territori settentrionali dell’Eritrea4.
Il secondo governo Crispi, in carica dal 1893 al 1896, si lasciò facilmente
convincere a riprendere le operazioni africane per distrarre l’opinione pubblica dalla
crisi economica e dalle tensioni sociali latenti all’interno della penisola. Nel Luglio
1894, il gen. Baratieri conquistò Cassala sconfiggendo i Dervisci, deteriorando la
situazione militare in Eritrea e provocando un ulteriore dispersione di truppe italiane
che incoraggiò i capi abissini a fare fronte comune e dare battaglia contro l’invasore
europeo. Come se non bastasse, nel Dicembre 1894, scoppiò la rivolta nei domini
italiani, dove le grandi confische di terre coltivabili aveva profondamente irritato la
popolazione indigena, soffocata dai battaglioni di ascari che schiacciarono la
sommossa ad Halai e sconfissero ras Mangascià, nel Gennaio 1895, occupando il
Tigré, Adigrat, Adua, Axum e Macallé, ma le forze abissine non capitolarono
totalmente e riuscirono ad unirsi all’esercito dell’Imperatore Menelik.
Da qui in avanti si palesarono gli equivoci della politica del governo italiano,
considerato che si approvò l’occupazione del Tigré senza inviare rinforzi per
stabilizzare la situazione e far fronte alla certa reazione abissina, che poteva contare
su un esercito di 100.000 uomini e che ottenne delle facili vittorie, nel Dicembre
1895, contro i sorpresi comandi italiani. Di fronte a queste sconfitte, Crispi decise di

4
Ibid., pp. 41-42.

107
inviare ingenti rinforzi per una pronta vittoria e far fronte ad una vasta opposizione
popolare al suo governo, ma la situazione delle truppe in Africa Orientale non era
delle migliori, a causa degli scarsi e difficili rifornimenti. Nonostante le difficoltà,
nella notte del 1 Marzo 1896, le truppe italiane marciarono verso il campo abissino di
Adua con l’intenzione di affrontare il nemico in una posizione favorevole, dato il
terreno montuoso e l’oscurità della notte ma, a loro sfavore, giocava la netta
differenza di forze in campo, 16.000 italiani contro i 50-70.000 soldati di Menelik, e
la poca conoscenza del territorio, elementi che furono fatali ai reggimenti italiani,
nella maggior parte dispersi e distrutti. La tragica sconfitta di Adua segnò la fine di
ogni programma espansionistico per circa un quindicennio e, se sul piano militare la
debacle era riparabile, sul piano politico mise a nudo gli equivoci di una politica di
potenza condotta senza le forze necessarie, incoraggiando l’opposizione popolare
contro le istituzioni. Di Rudinì, capo del governo e successore di Crispi, venne
chiamato a governare per trovare un accordo di pace con Menelik e l’intesa fu
firmata il 26 Ottobre 1896 ed osservata per quasi quarant’anni, anche se con varie
tensioni5.
Negli anni successivi, sotto la guida di Ferdinando Martini, commissario
straordinario in Eritrea dal 1897 al 1907, la colonia si assestò non portando avanti gli
esperimenti di colonizzazione sulle terre confiscate e quest’ultime vennero rese ai
proprietari indigeni, con effetti positivi per la tranquillità interna. Una coltivazione di
tipo capitalistico, come quella del cotone, venne sviluppata nel sud del paese grazie a
tecnici e capitali italiani che sfruttavano la manodopera indigena e, inoltre, venne
costruita una ferrovia a scartamento ridotto che collegava Massaua, Asmara, Cheren
e Agordat. Lo sviluppo economico della colonia, però, fu lentissimo per la scarsezza
di capitali disponibili e le non favorevoli condizioni climatiche e del terreno. Le
aspirazioni di una rivincita sugli abissini furono accantonate e nel 1906 l’Italia firmò,
con Francia e Gran Bretagna, un accordo in cui le tre potenze si impegnavano a
rispettare l’integrità territoriale dell’Etiopia e delimitavano le rispettive zone di
penetrazione economica, riconoscendo la preminenza degli interessi italiani nel nord
e nel sud del paese6.
Negli stessi anni si sviluppò la seconda colonia italiana sulla costa
meridionale della Somalia, formalmente sottoposta al sultanato di Zanzibar. Con una

5
Rochat, Il colonialismo italiano, cit., pp. 25-27.
6
Ibid., pp. 28-29.

108
serie di trattati commerciali e protettorati, a partire dal biennio 1889-1890, l’Italia
aveva attestato la propria autorità su un territorio vastissimo ma scarsamente
popolato, una pianura povera di acqua in cui l’unica attività era l’allevamento
nomade o seminomade e dove solo lungo la costa e il corso dei due fiumi, lo Uebi
Scelebi ed il Giuba, esistevano campi irrigati e insediamenti stabili, con
un’agricoltura primitiva fondata sulla schiavitù. In aggiunta, il clima era molto
pesante per gli europei e poche le possibilità di sviluppo economico ma, in
compenso, non esisteva un’organizzazione politica unitaria e la modesta
penetrazione italiana non incontrò gravi ostacoli. In un primo tempo il governo
ricorse a compagnie private per lo sfruttamento e l’organizzazione territoriale, che
però diedero pessima prova e, per ovviare al problema, dal 1905 la Somalia divenne
una regolare colonia e il dominio italiano fu reso effettivo sulla zona costiera
centrale, dopo scontri e sanguinose rappresaglie. Si trattava, anche questa volta, di
una colonia che non rendeva, anche se non costava molto, né offriva possibilità di
sviluppo, a causa degli scarsi investimenti italiani che furono concentrati nelle spese
militari e nello sfruttamento capitalistico di alcune zone più ricche, lasciando il
grosso della popolazione in una disperata miseria7.
Dopo il primo momento di riflusso e di abbandono, l’atteggiamento dei
governi italiani dopo la sconfitta di Adua fu di salvaguardare l’avvenire con una
politica di status quo e di accordi internazionali, senza abbandonare l’espansione
coloniale, che si fa prudente e non contempla che il ricorso ai mezzi diplomatici e,
localmente, alla penetrazione pacifica8.

3.1.2 La guerra in Libia, l’ultima conquista coloniale dell’Italia prefascista

La penetrazione italiana in Africa Orientale aveva suscitato la ferma


opposizione di buona parte della stessa borghesia e del parlamento, oltre che delle
forze socialiste ma, a distanza di quindici anni dalla disfatta di Adua, la conquista
della Libia fu appoggiata da un fronte compatto, formato dalla stampa e dalle forze
politiche borghesi, provocando dubbi e scissioni nel Partito Socialista. Tutto ciò si
spiega con lo sviluppo della politica estera e della situazione interna dell’Italia, dato
che la Libia era un paese poverissimo, dal traffico commerciale molto modesto, e

7
Ibid., p. 30.
8
Miege, L’Imperialismo coloniale italiano, cit., p. 76.

109
non portava alcun vantaggio reale per l’economia italiana. Il valore del territorio
libico per l’Italia consegue dal fatto che era l’unica regione dell’Africa settentrionale
ancora disponibile, dopo che la Francia aveva messo le mani sull’Algeria e sulla
Tunisia e la Gran Bretagna sull’Egitto. Più volte le due potenze europee offrirono la
Libia al governo italiano, che venne rifiutata, limitandosi a concludere una serie di
accordi bilaterali con i maggiori stati del vecchio continente per riconoscerne i diritti
sul territorio libico. Per dare solidità alle richieste italiane ci sarebbe voluta una
presenza economica nel paese, per la quale il governo incaricò intorno al 1905 il
Banco di Roma, legata al Vaticano, per penetrare finanziariamente in Libia ma fu un
fallimento per la logica ostilità delle autorità locali e il dilettantismo dei banchieri
italiani. La vera spinta alla conquista libica venne dalla situazione interna dove il
forte sviluppo industriale del primo decennio del Novecento aveva acutizzato i
conflitti di classe. Le destre chiedevano una politica estera di prestigio per distrarre
l’opinione pubblica dai contrasti interni, provocando un aumento delle spese militari
e delle commesse statali all’industria pesante ed assicurato nuovi mercati in esclusiva
alle esportazioni italiane. La povertà del territorio libico passava in secondo piano
perché avrebbe intanto segnato una sconfitta del movimento operaio, avrebbe
mobilitato più facilmente l’opinione pubblica data la sua vicinanza alla penisola e la
sua stessa scarsezza economica diventava garanzia di un’occupazione tutt’altro che
difficile9.
L’invasione della Libia rappresentò il culmine di una manovra di politica
interna, che vide il ruolo di punta assunto dai grandi quotidiani e dai loro inviati
speciali che condussero una campagna di falsificazione e leggerezze,
sistematicamente volta ad illudere i lettori sulla facilità e la convenienza
dell’impresa. Il governo Giolitti, trascinato dalla propaganda, inviò il 26 Settembre
1911 un ultimatum alla Turchia per la cessione della Libia all’Italia e, in mancanza di
risposta, quest’ultima inviò 35.000 soldati per conquistare le città costiere di Tripoli,
Tobruk, Derna, Bengasi e Homs e, nonostante le difficoltà per la presa di queste città
inviando 100.000 soldati ed imponendo la legge marziale, dichiarò l’annessione della
Libia il 5 Novembre 1911. La battaglia continuava e la situazione italiana non
migliorava malgrado l’occupazione di Zuara e Misurata e una serie di conquiste
territoriali anche se, dopo un anno dall’inizio dell’occupazione militare, non si era
ancora usciti dalle oasi costiere e la resistenza araba non accennava a desistere. La

9
Rochat, Il colonialismo italiano, cit., pp. 61-62.

110
pace italo-turca firmata a Ouchy, in Svizzera, il 18 Ottobre 1912, pur assicurando
all’Italia il dominio della Libia, conteneva diverse concessioni alla Turchia, che
rinunciava ai suoi diritti sul paese senza per questo riconoscere quelli italiani. Il
trattato di pace fu ratificato dal parlamento italiano, il 20 Novembre fu costituito il
Ministero delle Colonie e il 9 Gennaio 1913 vennero creati i due governi della
Tripolitania e della Cirenaica, entrambi dipendenti direttamente da Roma. Le forze
politiche e l’opinione pubblica seguirono questi avvenimenti con un crescente
distacco, dato che era stato ottenuto tutto quello che si poteva ricavare per la politica
interna con la vittoria delle destre e una battuta d’arresto per il movimento operaio10.
La pace con la Turchia sembrò segnare la fine delle ostilità dato che i
contingenti arabi inquadrati dai turchi vennero sciolti e le colonne italiane
occuparono rapidamente la Tripolitania settentrionale, approfittando della stanchezza
delle popolazioni che avevano duramente sofferto per la guerra e l’arresto dei traffici
locali. In Cirenaica, invece, gli italiani si limitarono all’occupazione dei maggiori
centri costieri come Bengasi, Derna e Tobruk, riconoscendo di fatto il potere
nell’interno della Senussia11, un’organizzazione politico-religiosa irradiata nel Nord
Africa. Questa politica di compromesso fece si che, dalla pace di Ouchy agli anni
venti, la Cirenaica godesse di una relativa tranquillità, sancita dagli accordi di
Acroma dell’Aprile 1917, in cui fu abbozzata una divisione territoriale del paese tra
governo italiano e la Senussia. Nella regione tripolina, invece, fu intrapresa la
sistemazione burocratica dei territori occupati e contemporaneamente avviata la
conquista dell’interno e nella Tripolitania settentrionale fu impiantata
un’amministrazione vessatoria e ignara delle esigenze locali che irritò notevolmente
la popolazione. Il risultato ottenuto fu la ripresa della rivolta araba e, in pochi giorni,
alla fine del Novembre 1914, i presidi conquistati dal colonnello Miani nel Fezzan
furono sopraffatti e le forze italiane costrette a ripiegare sulla costa. Il nuovo
governatore, gen. Tassoni, si propose di ristabilire la situazione attraverso
rappresaglie che ebbero l’effetto di far sollevare la popolazione in tutta la

10
Ibid., pp. 63-65.
11
Comunità spirituale il cui nome discende da Muhammad ibn ‘Alī as-Sanūsī (1787-1859), noto con il
nome di as-Sanūsī al-Kabīr, il grande senusso, fondatore nel 1837 della confraternita religiosa
musulmana presso La Mecca. Si spostò poi in Egitto e in Cirenaica dove costituì, senza titolo ufficiale
di regno, uno stato territoriale con capitale Giarabub. Al grande senusso successe suo figlio
Muhammad al-Mahdī (1844-1902), a cui susseguì Muhammad Idrīs (1890-1983) che diverrà con
l’indipendenza sovrano di Libia fino al 1969.

111
Tripolitania, comportando la distruzione dei presidi militari italiani che ridussero,
alla metà del Luglio 1915, la presenza italiana alle città di Tripoli e Homs. Le
dimensioni del disastro furono tenute segrete al paese dalla censura e dall’intervento
italiano nella Grande Guerra12.
Alla fine della Prima guerra mondiale, l’Italia cercava continuamente il
dialogo con i Senussi, grazie anche alla figura moderata di Mohammed Idris, che si
concluse nell’Ottobre 1920 con la stipula degli accordi di er Regima in cui il governo
italiano riconobbe allo stesso Idris il titolo di emiro dei Senussi e rango di sovrano,
sovvenzionandolo largamente. Quest’ultimo, a sua volta, riconosceva la sovranità
italiana sulla Cirenaica, ma conservava l’amministrazione autonoma delle oasi e
delle regioni semidesertiche, nonché il diritto di tenere in armi forze relativamente
importanti. Con questi accordi il governo italiano sembrava rinunciare ad un dominio
diretto sul territorio cirenaico, puntando ad una penetrazione pacifica tesa a sfruttare
le poche ricchezze esistenti. Molto più complesse furono le vicende tripoline, dove il
precario equilibrio tra i capi tribù locali non permise la creazione di un organismo
politico-militare che organizzasse la resistenza anti-italiana. Tale divisione avrebbe
potuto facilitare la riconquista della regione libica, ma le autorità italiane decisero di
difendere le città occupate fino al 1918 tentando poi la via di un accordo, cessando le
ostilità e proclamando il 1 Giugno 1919 uno statuto liberale per la Tripolitania.
Questo ordinamento prevedeva larghe autonomie locali e l’elezione di organi
rappresentativi, mettendo sullo stesso piano libici e italiani abolendo ogni
discriminazione e, per quanto potesse essere importante per la convivenza tra arabi e
italiani, non entrò mai realmente in funzione e fu superato molto prima della sua
abolizione con il regime fascista13.
Negli ultimi anni dell’Italia liberale si avvia nuovamente una politica di
affari, portata avanti dall’Agosto 1921 dal nuovo governatore Volpi, una personalità
importante nel mondo economico-finanziario che doveva riprendere il modello
adottato all’inizio del secolo, con il fallimento del Banco di Roma. Il nuovo
governatore intendeva valorizzare le risorse della Tripolitania attraverso
l’applicazione dello Statuto nella zona assoggettata e la ricostruzione di un legame
economico tra italiani e tripolitani. Nel Gennaio 1922 Volpi volle riprendere il
controllo di Misurata, importante centro sulla costa tripolina, provocando la rivolta

12
Rochat, Il colonialismo italiano, cit., pp. 67-68.
13
Miege, L’Imperialismo coloniale italiano, cit., pp. 128-129.

112
delle popolazioni locali e le ripercussioni di tale evento portarono l’esecutivo italiano
verso un nuovo intervento militare per pacificare la zona, trasformandosi in una vera
e propria campagna repressiva. Le ragioni di questi rapidi successi sono da ricercare
nella divisione delle forze arabe, incapaci di un coordinamento organico e nella
stanchezza delle popolazioni, logorate da anni di guerra e di blocco economico, ma
soprattutto nel salto di qualità operato dagli italiani nella condotta delle operazioni
militari. Il ritorno ad una politica di forza in Libia fu deciso dalla riscossa delle forze
di destra in Italia, portata successivamente avanti con profitto dal regime fascista che
non avrà pietà delle popolazioni indigene che verranno colpite duramente per la
conquista e la creazione dell’Impero14.

3.1.3 La politica coloniale fascista in Libia, Somalia ed Eritrea

Il mutamento di regime, avvenuto nell’Ottobre del 1922, significava una


frattura con la prudenza dei governi precedenti e l’abbandono di una tradizione
politica, attribuendo una nuova importanza all’azione di alcuni uomini, dotati di più
potere e stabilità, e meno legati alle consuetudini degli uffici ministeriali, i quali
potevano imporre più facilmente le loro vedute. L’ideologia coloniale fascista
riscopre vecchi elementi come l’africanismo e l’imperialismo fusi e ripresi con un
nuovo stile sistematico ed oltranzista rifacendosi ad argomenti storici, come la
missione civilizzatrice di Roma, i problemi demografici, data la numerosa
popolazione esistente all’interno della penisola, la giustificazione economica fino
all’orgoglio nazionale per dimostrare il successo del regime mussoliniano15.
La dittatura fascista assicurò la continuità di svolgimento delle operazioni
militari, i mezzi sufficienti ed una piena copertura politica alla riconquista della
Libia, grazie anche alla libertà data a governatori e comandanti di schiacciare con
ogni mezzo la resistenza araba e di organizzare la colonia. L’occupazione della
Tripolitania settentrionale fu stabilizzata ed estesa nel biennio 1923-25 con una serie
di vittorie delle truppe italiane nella fascia compresa tra la costa e il deserto
sahariano, ad eccezione delle tribù meridionali che continuavano a dare battaglia
contro l’invasore europeo. Per avere la meglio sulle popolazioni indigene, la
direzione delle operazioni venne data al gen. Graziani che organizzò in maniera

14
Ibid., pp. 130-131.
15
Ibid., pp. 132-142.

113
diversa le truppe attraverso reparti di autoblinde, colonne motorizzate e gruppi di
mercenari libici, il tutto preceduto e coordinato dall’aviazione che scopriva e
attaccava i nuclei nemici a grande distanza. Tale superiorità tecnologica e
organizzativa fu alla base delle rapide e costose vittorie tra il 1928 e il 1930 in cui
furono conquistate la Sirtica, la Ghibla e il Fezzan e i nuclei di resistenza
completamente distrutti. Nel 1923, per assoggettare l’intera Cirenaica, il governo
fascista aveva ripudiato la politica dei compromessi con la Senussia e tentato di
instaurare un dominio italiano sull’altopiano ma gli sforzi bellici non erano serviti
contro la resistenza senussa, organizzata da Omar el Muktar sottoforma di guerriglia.
L’opposizione dei senussi aveva raggiunto un alto livello di efficienza, basato
sul pieno appoggio della popolazione del Gebel e sull’esistenza di un’organizzazione
politica unitaria come era la Senussia, facendo arenare la repressione italiana. Nel
Marzo del 1930 il comando delle operazioni fu affidato a Graziani, che si era
abilmente sbarazzato della resistenza araba in Tripolitania, il quale capì che la forza
dei ribelli stava nelle sue basi di massa, dirigendo la repressione sulla popolazione
del Gebel attraverso la deportazione in campi di concentramento lungo la costa, la
distruzione del loro bestiame e del loro traffico di contrabbando con l’Egitto,
stroncando rapidamente la guerriglia. Nelle settimane successive venne completata
l’opera di pacificazione all’interno del territorio libico eliminando completamente e
definitivamente qualsiasi traccia di ribellione anti-italiana16.
La totale pacificazione libica era la necessaria premessa alla sua possibile
colonizzazione, impostata dal governatore Volpi in Tripolitania tra il 1921 e il 1925,
grazie alla creazione di grandi imprese agricole a conduzione capitalista che
disponessero di terra, ampi finanziamenti, manodopera locale a basso costo e
agevolazioni statali. Il reperimento di terreni fertili fu risolto grazie ad un decreto
regio del 1922 che dava la proprietà delle terre non recintate e coltivate, tranne le
oasi, al demanio statale, confiscando in otto anni quasi 200.000 ettari di terra
contenuti nella parte settentrionale della regione tripolina. Questo terreno fu
progressivamente assegnato in grandi lotti e a prezzi simbolici a imprenditori che
investivano i capitali per lo scavo di pozzi, la creazione di estesi frutteti e in generale
a chi lavorava per valorizzare la terra. La politica italiana in Libia era volta quindi a
suscitare un’economia artificiale, basata sull’intervento statale e organizzata in modo
tale che soltanto un numero limitato di persone potesse fare grosse fortune,

16
Rochat, Il colonialismo italiano, cit., pp. 99-101.

114
consolidando in una posizione di privilegio la popolazione italiana rispetto a quella
araba. Questa politica venne portata avanti dal governatore Balbo che, dalla
creazione dell’Impero nel 1936, promosse una serie di opere pubbliche, un nuovo
piano di colonizzazione ed altri gesti che non erano altro che propaganda di regime.
L’evoluzione antisemita del fascismo provocava pesanti misure
discriminatorie nei confronti delle minoranze ebraiche e degli arabi, che non
potevano più accedere alla cittadinanza italiana piena dal 1939, gettando le basi per
un regime di segregazione razziale che durò relativamente poco dato che la Libia
venne persa nei primissimi anni della Seconda Guerra Mondiale17.
Durante il regime fascista l’Eritrea venne organizzata attraverso la creazione
di funzionari residenti nelle otto regioni che la compongono, facenti capo, dal 1923,
ad un governatore generale che sarà sempre un funzionario del Ministero delle
Colonie fino al 1935, quando si preparerà l’attacco all’Etiopia e la colonia verrà
sottoposta al comando di un alto commissario. Lo sfruttamento della colonia non da i
frutti sperati, come accadeva negli anni prefascisti, sia a livello agricolo che
demografico poiché, al 1934, contava nel paese appena 4.500 italiani. Le speranze di
sfruttamento minerario sono costantemente deluse e la sola industria estrattiva che
riesce ad avere uno sviluppo è quella delle saline di Massaua, Assab e Uachiro.
L’Eritrea rimane una colonia politica, un punto di appoggio sul Mar Rosso e
il suo solo interesse sta nella funzione commerciale di transito con l’Abissinia. Tale
posizione dipende dalle intese con le autorità locali e nazionali etiopi, come ad
esempio l’accordo del 1923 con il sultano dell’Aussa che fa aumentare il giro d’affari
del porto di Assab da 2 a 27 milioni di lire o il trattato con l’Etiopia del 1928 che
concesse a quest’ultima la libertà di commercio nei porti eritrei. Ciò però non
comportò un’impennata negli scambi, come ci si augurava, e il relativo aumento dei
commerci nel 1934 è solamente dovuto ai preparativi per la guerra d’Etiopia18.
L’ascesa di Mussolini e dello stato fascista segnò l’inizio della effettiva
conquista italiana della Somalia, all’epoca limitata alla parte centrale del paese con
Mogadiscio, Merca e Brava. Cesare De Vecchi, uno dei più violenti capi delle
squadracce fasciste, divenne governatore della colonia somala dal 1923 al 1928,
estendendo il dominio italiano nell’interno e nelle regioni settentrionali, grazie ad
ampi mezzi, a poteri illimitati e ad una serie di operazioni militari a cui seguirono

17
Ibid., pp. 102-105.
18
Miege, L’Imperialismo coloniale italiano, cit., pp. 197-199.

115
dure repressioni che distrussero l’organizzazione sociale dei somali, affidando il
mantenimento dell’ordine ai carabinieri e agli ascari somali. Sotto il suo
governatorato, nel biennio 1924-25, la colonia fu ampliata grazie alla cessione
dell’Oltregiuba effettuata dalla Gran Bretagna come compensazione per l’intervento
italiano al suo fianco nel conflitto mondiale nel 1915. Un altro ampliamento fu
effettuato verso l’Etiopia, con lo spostamento graduale di un confine che non era mai
stato tracciato sul terreno. Anche la Somalia, come l’Eritrea, non offriva molto a
livello economico, data la sua scarsa popolazione, la sua povertà di riserve acquifere
e la sua economia di sussistenza e miseria che non lasciavano spazio a nessun
sviluppo economico che potesse interessare il regime italiano, se non il corso
inferiore dello Uebi Scebeli che si predisponeva per la produzione del cotone e delle
banane, resa redditizia per gli italiani dallo sfruttamento schiavistico della
manodopera locale accompagnato, come nel caso libico, dal massiccio intervento
statale in tutte le fasi lavorative19.
Al 1934 i risultati ottenuti dal regime fascista sul fronte coloniale sono
limitati e insoddisfacenti, a cominciare dalle scarse conquiste coloniali, ad eccezione
dell’Oltregiuba somalo, per proseguire con la colonizzazione demografica, che si
rivela un insuccesso perché le partenze italiane verso le colonie non raggiungono
neanche le 70.000 unità, fino alle troppe perdite umane e finanziarie che mettono in
difficoltà il non entusiasmante bilancio statale italiano. Queste ultime problematiche
possono essere pericolose per la tenuta del regime che, grazie alla propaganda, riesce
a creare nuovi miti per l’ideologia coloniale attraverso una sistematica valorizzazione
dei territori d’oltremare, un nuovo programma di colonizzazione demografica e la
presa di nuove terre per accogliere i contadini italiani, come l’altopiano abissino che,
a partire dal 1932, sarà nelle mire del regime che sta cominciando a preparare
l’impresa d’Etiopia20.

3.1.4 La guerra d’Etiopia (1935-1936)

L’avvento del fascismo non segnò una frattura nelle relazioni variabili, ma
nel complesso amichevoli con l’Etiopia, tanto che il governo italiano nel 1923
appoggiò la proposta francese di ammettere il paese africano all’interno della Società

19
Rochat, Il colonialismo italiano, cit., pp. 135-136.
20
Miege, L’Imperialismo coloniale italiano, cit., pp. 203-208.

116
delle Nazioni e, nel dicembre 1925, l’Italia e la Gran Bretagna si accordarono per la
spartizione in due zone di influenza economica delle regioni centro-settentrionali
dell’Abissinia, sollevando le più vivide proteste internazionali. In più, nell’Agosto
del 1928, Italia ed Etiopia stipularono un trattato di pace ed amicizia ventennale, che
prevedeva lo sviluppo dei traffici e l’apertura di una camionabile tra Assab e Dessié,
ossia tra la costa italiana del mar Rosso ed il centro dell’altopiano abissino. I rapporti
tra i due paesi, durante gli anni venti, mantennero un andamento normale dato che,
essendo impegnato in Libia e Somalia, il governo fascista non era interessato ad
aprire un nuovo fronte coloniale proprio dove aveva l’avversario più forte21.
La situazione andò mutando dopo il 1930, quando da diverse parti si levò la
richiesta di una politica più aggressiva verso l’Etiopia. La decisione di muovere
guerra all’Etiopia maturò nel corso del 1934 per cause più profonde. Innanzitutto, la
grande crisi di sovrapproduzione scoppiata negli Stati Uniti nel 1929 aveva
provocato anche in Italia fallimenti, disoccupazione, diminuzione di salari e calo
delle esportazioni. Il governo fascista, nonostante importanti sovvenzioni pubbliche
alle imprese, non riusciva a rilanciare l’economia italiana e la diminuzione del potere
d’acquisto creava malcontento nelle masse meno abbienti. In tale situazione
un’impresa coloniale in grande stile poteva rappresentare un utile diversivo
propagandistico e nel medesimo tempo l’occasione di una ripresa economica, grazie
alle inevitabili commesse statali. La situazione europea, con la rapida ripresa della
Germania nazista che chiudeva i mercati dei Balcani alle esportazioni italiane e
l’accondiscendenza di Francia e Gran Bretagna affinché Mussolini si schierasse con
loro nello scacchiere del vecchio continente, portava l’Italia sulla strada della
creazione di nuovi mercati e approvvigionamenti di materie prime anche se ciò che
contava per il regime era il sicuro successo propagandistico che le vittorie in Africa
gli avrebbero procurato. Mussolini impostò l’impresa fornendo come unica
motivazione la tempestività del momento internazionale e ciò che si cercava era un
grosso rilancio politico, tale da sconvolgere tutta la nazione e da farle accettare tutti i
sacrifici connessi, inviando in Somalia ed Eritrea centinaia di migliaia di uomini e
immense quantità di materiale bellico. Il pretesto per l’inizio della mobilitazione
dell’apparato propagandistico fascista e della preparazione militare fu fornito da un
incidente alla frontiera somala tra italiani ed abissini ad Ual-Ual nel Dicembre 1934.

21
Rochat, Il colonialismo italiano, cit., p. 137.

117
Questo scontro, gonfiato dalla diplomazia italiana, portò l’Imperatore Hailé
Selassié ad appellarsi alla Società delle Nazioni sperando nel sostegno dell’opinione
pubblica mondiale e degli stati aderenti contro le ambizioni italiane di conquista. Il 3
Ottobre 1935 le truppe italiane varcarono il confine tra l’Eritrea e l’Etiopia e
penetrarono in territorio nemico, senza dichiarazione di guerra né altra motivazione
che la missione civilizzatrice dell’Italia e il suo diritto a prendere possesso di territori
coloniali. La Società delle Nazioni, con 50 voti favorevoli e 4 contrari, dichiarò
l’Italia stato aggressore e chiese ai suoi membri di predisporre una serie di sanzioni
economiche che avrebbero dovuto mettere il governo italiano in ginocchio e, di
conseguenza, a ritirarsi. La stampa fascista presentò l’episodio come un’offesa
intollerabile all’onore e all’indipendenza del paese, muovendo l’opinione pubblica
verso il dissenso contro chi potesse minare gli interessi italiani all’estero. Oltre non si
andò e l’Etiopia fu lasciata sola a fronteggiare l’aggressione fascista in condizioni
più sfavorevoli rispetto al 1896 perché l’esercito abissino aveva lo stesso armamento
della battaglia di Adua di quarant’anni prima, non lasciando speranza sull’esito della
guerra22.
Il primo comandante italiano, Emilio De Bono, dopo aver occupato senza
resistenza Adua, Axum, Adigrat e Macallé, fu sostituito da Mussolini alla metà del
Novembre 1935, a causa dello scarso controllo del complesso militare fascista e della
lenta avanzata in territorio abissino, con Badoglio che dovette far fronte alla
controffensiva etiopica, creatasi nella regione montuosa del Tembien, bloccando gli
abissini e sferrando, nel Febbraio 1936, l’attacco verso la regione dell’Endertà
travolgendo le armate etiopiche, distruggendo la resistenza nel Tembien e
sconfiggendo le ultime armate guidate da Hailé Selassié presso il lago Ascianghi il
31 Marzo. La strada verso Addis Abeba era aperta e Badoglio, alla testa di una
colonna motorizzata, vi entrò il 5 Maggio 1936. Contemporaneamente, un pieno
successo italiano si delineava anche sul fronte meridionale, grazie al gen. Graziani
che era stato incaricato di organizzare la difesa della Somalia ma, successivamente,
prese ordini da Mussolini per l’attacco alla frontiera etiopica, dal Gennaio 1936, per
assaltare e conquistare la parte sud del paese tanto che Graziani e Badoglio si
incrociarono sulla linea ferroviaria Addis Abeba-Harrar. Mussolini proclamò

22
Ibid., pp. 138-140.

118
unilateralmente la fine della guerra il 5 Maggio e la costituzione dell’impero italiano
d’Etiopia quattro giorni più tardi, attribuendo la corona a Vittorio Emanuele III23.
“La guerra fu vinta non tanto sui campi di battaglia, ma a Roma, dove si
delineò la decisione di trasformarla da guerra coloniale in guerra nazionale, e nelle
retrovie italiane, che resero possibile il concentramento ed il rifornimento di forze
ingentissime in regioni povere di strade e di mezzi di sussistenza. I generali italiani
seppero approfittare dell’enorme superiorità di cui disponevano assicurando a
Mussolini la clamorosa vittoria di cui aveva bisogno. In questo quadro, con un
giudizio politico e non moralistico, va visto anche il ricorso ai gas asfissianti, che del
comportamento italiano rappresenta un aspetto indicativo”24.

3.1.5 L’Impero italiano e la perdita delle colonie (1936-1941)

Il 9 Maggio 1936 la fondazione dell’Impero apre ad una nuova fase nella


storia coloniale italiana, caratterizzata dalla volontà di stabilire un più stretto legame
tra la metropoli e le colonie, divenute parte integrante della madrepatria e da uno
sforzo sistematico di valorizzazione attraverso la colonizzazione demografica.
La creazione imperiale italiana porta ad una nuova organizzazione del settore
amministrativo italiano attraverso la sostituzione, a partire dall’8 Aprile 1937, del
Ministero delle Colonie con il Ministero dell’Africa Italiana e una sostanziale
rivoluzione riguardo la direzione locale delle colonie africane tanto che la Libia, già
dal 1934, esisteva come entità amministrativa attraverso l’unione della Cirenaica e
della Tripolitania, divisa in quattro provincie, mentre il Fezzan rimaneva sotto
un’amministrazione speciale. Il territorio libico, dal 1939, venne aggregato
formalmente all’Italia mentre i territori del Corno d’Africa, il 1 Giugno 1936,
vengono riuniti sotto il nome di Africa Orientale Italiana (AOI). L’AOI fu dotata di
personalità giuridica, amministrata da un governatore con il titolo di viceré d’Etiopia
al cui posto siederanno Badoglio, Graziani, Amedeo di Savoia e Pietro Gazzera.
Oltre a ciò, fu riorganizzato l’esercito coloniale, con un decreto del Settembre 1936,
fino a quel momento composto da truppe indigene come gli ascari eritrei e dubat
somali, guidati da ufficiali italiani, a cui si aggiunge un corpo metropolitano

23
Ibid., pp. 141-143.
24
Ibid., p. 144.

119
distaccato composto da volontari. Viene inoltre costituita anche una marina coloniale
adibita al servizio nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano25.
Il regime fascista trova enormi difficoltà a valorizzare i territori d’Africa,
dovuti al clima sfavorevole, alla distanza dalla madrepatria e all’atteggiamento delle
popolazioni locali. Questi problemi non stoppano il grande progetto coloniale, in
particolar modo l’insediamento nelle colonie di un consistente nucleo metropolitano,
consentendo una diminuzione della pressione demografica e di porre rimedio al
dramma della disoccupazione. Conseguenza di queste politiche fu il reperimento dei
capitali necessari alla messa in risalto del suo territorio oltremare poiché, a causa
della crisi internazionale, del rallentamento dell’emigrazione e le sanzioni fanno
diminuire considerevolmente le rimesse dall’estero degli italiani, dato che la
colonizzazione italiana è stata per la maggior parte pagata dall’emigrazione
transoceanica. Nonostante le difficoltà economiche, l’organizzazione dei trasporti fu
la prima grande preoccupazione, attraverso la costruzione di un ampio programma di
strade nell’Africa Orientale, della strada litoranea in Libia che univa la frontiera
egiziana con quella tunisina e, infine, non furono trascurate la rete ferroviaria e i
lavori portuali. Si cercò di rendere autonoma la nazione, evitando le importazioni,
con un piano regolatore dell’economia che favorisse la creazione di grandi
compagnie miste, a carattere industriale ed agricolo, costituite dagli imprenditori
italiani sotto la direzione dei vari ministeri competenti. La continuità e l’intensità
degli sforzi impiegati, i sacrifici di tutta la nazione hanno dato vita ad una creazione
coloniale per certi versi rilevante ma le speranze sono rimaste deluse a causa dello
scarso utilizzo come sbocco demografico e per una valorizzazione lenta e costosa26.
Con lo scoppio del Secondo conflitto mondiale l’Italia, per il primo anno di
guerra, si dichiara neutrale per poter accrescere le proprie forze militari ma già dal
Giugno del 1940 entra nel conflitto, dichiarando l’AOI e la Libia in stato di guerra e
dividendo i territori d’oltremare in regioni militari. Nell’Africa Orientale la Somalia
britannica è occupata senza difficoltà dalle truppe italiane provenienti dall’Abissinia
mentre in Libia il maresciallo Graziani, nonostante le sollecitazioni tedesche, attende
e rimanda l’offensiva contro l’Egitto fino alla primavera del 1941. Durante l’inverno
del 1940, le truppe britanniche aprono l’offensiva contro i possedimenti italiani in
Africa, a cominciare dall’attacco, il 10 Dicembre, alla Cirenaica che viene

25
Miege, L’Imperialismo coloniale italiano, cit., pp. 257-258.
26
Ibid., pp. 259-270.

120
conquistata sbaragliando le divisioni italiane, che vennero respinte in Tripolitania,
utilizzando nel deserto e nelle retroguardie i Senussi rifugiati in Egitto e attaccando i
trasporti marittimi italiani. La controffensiva del maresciallo Rommel, nella
primavera del 1941, fu efficace dato che riconquistò tutta la Cirenaica e respinse gli
inglesi in Egitto, fino ad arrivare ad un centinaio di chilometri da Alessandria
d’Egitto.
Nell’AOI l’offensiva britannica ha rapidamente ragione su truppe mal fornite
e demoralizzate dalla lontananza con la madrepatria tanto che Massaua viene presa il
9 Aprile 1941 e il Negus Hailé Selassié rientra in Etiopia, conquistando Omedla e
ritorna nella capitale Addis Abeba, dove le truppe inglesi erano entrate il 5 Maggio, a
cinque anni dalla conquista italiana. La capitolazione dell’Africa Orientale avviene il
28 Novembre 1941 quando cade la fortezza di Gondar, l’ultimo rifugio italiano.
Ritornando al fronte nord africano, il 5 Novembre 1942 avviene lo sbarco alleato che
fa ripiegare le forze italo-tedesche sulla Tunisia e, già il 23 Gennaio 1943 Tripoli è
occupata dai britannici, decretando la fine della dominazione italiana in Africa: tutti i
territori dell’Impero vengono occupati dagli Alleati27.

3.2 Il futuro dei possedimenti italiani in Africa (1941-1949)

La perdita delle colonie africane, durante il Secondo conflitto mondiale, ha


dato origine ad una lunga vertenza internazionale durata otto anni, all’interno dei
quali la questione degli ex possedimenti italiani si va ad intrecciare con i vari
mutamenti della scena politica mondiale comportando un allungamento del problema
fino a farlo affrontare, unico caso nella storia delle Nazioni Unite, all’Assemblea
generale. La questione dell’assetto politico da dare a questi territori rappresentò un
momento non secondario della politica internazionale del Secondo dopoguerra e
della politica estera italiana. La questione del futuro delle colonie rimase insoluta dal
Trattato di Parigi ed essa finì per intrecciarsi con il progressivo deterioramento dei
rapporti tra l’Est e l’Ovest, con il quadro politico interno italiano e con il processo di
decolonizzazione, di cui costituì una tappa significativa.

27
Ibid., pp. 277-280.

121
3.2.1 I progetti inglesi ed americani sul futuro dei territori d’oltremare italiani (1941-
1943)

I primi progetti britannici relativi alla futura sistemazione degli ex


possedimenti italiani in Africa devono farsi risalire all’epoca dell’occupazione
militare, in cui si delineano due orientamenti destinati a modificarsi parzialmente in
seguito: da un lato, l’opposizione di fondo al possibile ripristino
dell’amministrazione italiana e l’incertezza sull’opportunità che la stessa Gran
Bretagna assumesse permanentemente le responsabilità amministrativa diretta in quei
territori. Un primo documento in tale materia fu la Carta Atlantica, sottoscritta da
Churchill e Roosevelt il 12 Agosto del 1941, al cui interno c’erano dei riferimenti al
mondo coloniale. In primo luogo, Churchill e Roosevelt non erano interessati ai
possedimenti italiani per propri fini nazionali e non desideravano mutamenti
territoriali se non liberamente espressi dalle popolazioni, attraverso il principio di
autodeterminazione che sarà alla base della futura carta dell’ONU. Il primo punto
escludeva la possibilità di dirette responsabilità inglesi nell’amministrazione
postbellica delle colonie italiane e ciò condizionò i progetti di Londra28.
Le prime soluzioni proposte dal governo britannico furono formulate tra il
1941 e il 1943, a cominciare dall’idea della grande Somalia, l’ipotesi
dell’unificazione di tutti i territori abitati da popolazioni somale29, enunciata la prima
volta nell’estate del 1941 da sir Philip Mitchell, capo generale dell’amministrazione
del Medio Oriente, su incarico del gen. Wavell, il quale constatava che l’aggressione
italiana all’Etiopia era iniziata nel 1882 e non nel biennio 1935-36 e quindi, per
restaurare l’indipendenza etiopica e renderla sicura si doveva eliminare una qualsiasi
presenza italiana nel Corno d’Africa. Ritornando alla grande Somalia, l’ipotesi di
dichiarare un protettorato sull’interno territorio in discussione avrebbe esposto
Londra alle accuse di imperialismo e a consistenti oneri finanziari.
Sull’Eritrea, Mitchell suggeriva l’annessione al Sudan della parte
settentrionale, perché più economicamente ed etnicamente legata alla provincia di
Kassala, mentre il resto del paese sarebbe stato unito all’Etiopia, compreso il porto di
Assab. Nell’eventualità in cui la popolazione musulmana della Dancalia avesse
28
Gianluigi Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1941-1949), Giuffré Editore, Varese 1980,
pp. 1-4.
29
L’ipotesi era l’unione della Somalia italiana, del Somaliland britannico e della regione dell’Ogaden,
contesa tra la stessa Somalia italiana e l’Etiopia.

122
manifestato la sua avversione al dominio etiopico, Mitchell raccomandava
l’assegnazione di Assab come enclave all’Etiopia, istituendo nel resto del paese un
protettorato temporaneo inglese in attesa della riunificazione con l’impero etiope. Era
evidente, già dai primissimi programmi, che la sorte degli ex possedimenti in Africa
orientale fosse strettamente legata alla politica britannica nei confronti dell’impero
etiope, le cui aspirazioni territoriali furono indicate agli inglesi già dal 1941, in
particolar modo la contrarietà all’annessione dell’Ogaden alla Somalia per fini
amministrativi. Nel 1942, un altro programma del Foreign Office proponeva di
spostare verso il basso la frontiera eritreo-sudanese in modo da includere nel Sudan i
Beni Amir dell’Eritrea, ricostruire il vecchio regno del Tigré, unificando la parte
eritrea ed etiope, e di dar vita a dei piccoli sultanati o sceiccati, analoghi agli stati
della penisola araba, per le popolazioni somale e della Dancalia. Questa soluzione
era un modo per evitare l’onere finanziario e militare, assai consistente, di
amministrare la Somalia secondo criteri coloniali30.
Per quanto riguarda il futuro della Libia, una dichiarazione di grande
importanza fu rilasciata dal Ministro degli Esteri britannico Eden alla Camera dei
Comuni l’8 Gennaio 1942, dichiarando che il futuro della Cirenaica era rinviato alla
fine della guerra, senza precisare quale fosse. Un impegno in favore
dell’indipendenza, richiesto da Idris el-Senussi, emiro della Senussia e alleato delle
truppe britanniche durante la guerra, fu avanzato un mese dopo ma il Foreign Office
non aveva chiare le idee sull’assetto da dare alla Cirenaica e alla Libia in generale
alla fine della guerra e ci si trincerò dietro la dichiarazione di Eden del Gennaio
1942.
Dopo una serie di scambi di vedute tra le autorità britanniche in Egitto e il
Foreign Office, si arrivò all’idea di far diventare la Cirenaica una provincia
autonoma dell’Egitto, ritenendola una soluzione gradita alle popolazioni locali, e agli
interessi militari inglesi nell’area, e questa idea non fu mai abbandonata dalla Gran
Bretagna fino al 1945, nonostante non fosse accettata dai Senussi e dallo stesso Eden.
L’insistenza manifestata da Idris, in favore della creazione di un Emirato senussita,
suggerì ai britannici l’idea di fare della Cirenaica un emirato sotto protezione inglese,
come era la Transgiordania, e poneva una soluzione al problema di un probabile
ritiro delle truppe dall’Egitto nel dopoguerra, dato che sarebbero state stanziate in
Cirenaica, ma tale ipotesi non era ben accolta dal Foreign Office e dal War Cabinet.

30
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 5-10.

123
Era dunque prematura una più chiara definizione delle intenzioni di Londra sul
futuro dell’intero territorio libico, anche perché restava un interrogativo pesante sul
futuro della Tripolitania31.
I primi riferimenti ai problemi postbellici degli ex possedimenti italiani sono
da ricollegare ai progetti di trusteeship internazionale, risalenti alla seconda metà del
1942, per risolvere lo status politico di tali territori nel riassetto dell’intero mondo
coloniale nel dopoguerra. Questo programma fu il risultato di studi accurati per il
futuro trattamento delle popolazioni coloniali e, partiti dall’idea di applicarlo
all’interno mondo coloniale, gli Stati Uniti, persuasi dalle resistenze britanniche, si
convinsero dell’opportunità di utilizzarlo a poche categorie di territori, tra i quali le
ex colonie degli stati sconfitti nel corso della Seconda guerra mondiale.
Durante un incontro anglo-americano, nel corso della Conferenza tenutasi in
Quebec nell’Agosto 1943, furono elaborati, da parte del Dipartimento di Stato, una
serie di documenti in cui si prospettava un trusteeship internazionale per la Libia,
sotto la vigilanza di un Consiglio regionale32 e l’amministrazione della Turchia, in
quanto stato musulmano che aveva raggiunto un notevole livello di sviluppo.
Questa soluzione presentava il vantaggio di escludere definitivamente il
ripristino dell’amministrazione italiana sul territorio libico, giudicata poco opportuna
per la cattiva prova data in passato e per l’evidente passivo economico che aveva
rappresentato la Libia per l’Italia. Più incerto era il futuro dell’Eritrea e della
Somalia. Un certo favore incontrava l’ipotesi di cedere quest’ultimo territorio alla
Gran Bretagna sotto forma di trusteeship, mentre non era acquisita l’idea di cedere
l’Eritrea all’Etiopia, pur riconoscendo fondata l’esigenza etiopica di uno sbocco sul
Mar Rosso33.
L’idea di amministrazione fiduciaria internazionale sulle ex colonie italiane
fu presa in considerazione dal governo di Londra nel corso del 1943, ma il Colonial
Office preferiva l’ipotesi di amministrazione diretta della Gran Bretagna in Somalia.
Opinione condivisa dal War Office e accolta dalla Commissione interministeriale,
costituita nella primavera del 1943, per esaminare la futura politica britannica nei
confronti dell’Etiopia. Sull’Eritrea si escludeva a priori la restituzione del territorio
all’Italia e si preferiva la divisione tra Etiopia e Sudan, per consentire all’impero

31
Ibid., pp. 11-32.
32
Formato da: Gran Bretagna, Francia, Spagna, Stati Uniti, Egitto, Turchia ed eventualmente Italia.
33
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 33-38.

124
etiope di avere uno sbocco sul mare e compensare la perdita dell’Ogaden. Infine, sul
futuro della Libia, il Foreign Office suggeriva due mandati fiduciari distinti per la
Cirenaica e la Tripolitania, ma le continue richieste di Idris sulla creazione di un
Emirato senusso sull’intero paese non entusiasmavano gli inglesi che non volevano
andare oltre la dichiarazione di Eden del Gennaio 1942, dato che il futuro dei territori
era al centro delle successive conferenze degli alleati che si tennero alla fine della
guerra in Europa34.

3.2.2 I colloqui tra gli Alleati: la Conferenza di Potsdam (Luglio-Agosto 1945)

La questione delle colonie italiane, per la diplomazia inglese e statunitense,


era tutt’altro che definita e, in un colloquio a due al Dipartimento di Stato, emerse
l’idea di escludere l’Italia dalle colonie prefasciste ad eccezione della Tripolitania,
per non mortificare il sentimento italiano privando il paese dello status di potenza
coloniale. Si scartava un ritorno in Cirenaica, di cui si suggeriva la creazione di un
principato autonomo sotto sovranità egiziana, in Somalia, con la creazione di un
grande stato somalo, e in Eritrea, spartita tra Etiopia e Sudan.
Un nuovo documento del Foreign Office insisteva sull’inopportunità di
restituire le colonie all’Italia affinché venissero affidate a paesi più leali, per le
negative reazioni del mondo arabo, e per non arrecare danno alla sua vita economica,
avendo rappresentato un sicuro passivo per le casse italiane. Il Dipartimento di Stato,
in seguito alla richiesta del presidente Roosevelt, scrisse un promemoria che non
avanzava obiezioni alle proposte britanniche ma mostrava di preferire soluzioni che
gli inglesi suggerivano come ripiego, come la cessione del territorio eritreo
all’Etiopia o la rinuncia di quest’ultimo all’Ogaden, dal momento che era parte
integrante di uno stato alleato, indipendente e sovrano. Sulla Libia, il progetto
statunitense consisteva nel sottoporre l’intero territorio ad un trusteeship
internazionale sotto l’autorità di una Commissione internazionale responsabile verso
le Nazioni Unite. Questo promemoria venne personalmente consegnato da Roosevelt
a Churchill nel Settembre del 1944, in una nuova conferenza a due in Quebec,
durante la quale non si parlò ufficialmente del futuro dei possedimenti italiani35.

34
Ibid., p. 42.
35
Ibid., pp. 49-56.

125
Il Foreign Office incontrava difficoltà nella risposta da dare agli statunitensi,
a causa della spinta americana al regime di trusteeship per le ex colonie italiane e
delle reazioni negative del Colonial Office, che suggeriva di insistere con il
Dipartimento di Stato per la spartizione, su base etnica, dell’Eritrea tra Sudan ed
Etiopia, sul vecchio progetto di una grande Somalia e per la Libia si prospettava un
Emirato senusso in Cirenaica, il ripristino dell’amministrazione italiana in
Tripolitania e la cessione del Fezzan alla Francia. Questo progetto, assimilando le
osservazioni dei capi militari, fu ultimato nel Gennaio del 1945 dal Foreign Office
ma, il fatto che la questione dei mandati fosse all’epoca in evoluzione, indusse gli
inglesi a ritardarne l’invio agli statunitensi a dopo la Conferenza di Yalta. In Crimea,
la questione fu affrontata per concordare a quali categorie di territori il nuovo regime
si sarebbe applicato e fu deciso che sarebbero stati sottoposti i territori staccati al
nemico e, nella successiva Conferenza, da convocarsi a San Francisco per il 25
Aprile 1945, sarebbe stato studiato e definito il problema del meccanismo e dei
principi ispiratori, senza discutere in merito ai territori specifici da sottoporre a
trusteeship36.
La conclusione della guerra in Europa e la decisione di convocare, in Luglio,
una conferenza dei tre grandi in Germania, induceva sia il Dipartimento di Stato che
il Foreign Office a definire la politica da adottare nei confronti dell’Italia ed
accelerare i preparativi e i progetti per la conclusione del trattato di pace. Una novità
importante, nello stesso periodo, fu l’approvazione della Carta di San Francisco, il
26 Giugno 1945, che contribuì a chiarire il concetto di trusteeship internazionale
(Capitoli XI-XIII) ed indusse la diplomazia britannica ad accettare l’idea di applicare
tale sistema agli ex possedimenti italiani.
Gli statunitensi redassero una serie di documenti riguardanti i territori in
questione, specificando che per la Libia erano previste tre soluzioni alternative: la
restituzione dell’intero territorio all’Italia in piena sovranità; la divisione nelle sue
due componenti storiche quali la Tripolitania, da restituire al governo italiano, e la
Cirenaica, da erigere in Emirato autonomo sotto amministrazione fiduciaria inglese o
egiziana. Infine la spartizione della Libia con un trusteeship italiano in Tripolitania e
britannico o egiziano sulla Cirenaica, da erigere in Emirato autonomo.
L’amministrazione fiduciaria era prevista per la Somalia italiana, da unire al

36
Ibid., pp. 57-66.

126
Somaliland britannico e alla Somalia francese mentre per l’Eritrea caldeggiava una
soluzione simile a quella somala.
I britannici, al contrario degli statunitensi, non erano ben disposti verso un
ritorno italiano in Africa ma cercavano di conciliare gli interessi di tutte le parti in
causa. Per la Tripolitania, la tesi di un trusteeship italiano era azzardata perché
rischiava di compromettere i rapporti tra la penisola e il Regno Unito mentre per la
Cirenaica si voleva dare soddisfazione alle aspirazioni senussite. Le proposte
riguardanti l’Africa orientale erano motivate dall’obiettivo di accontentare l’Etiopia
per uno sbocco sul Mar Rosso e dall’aspirazione britannica di mantenere sotto la
propria sfera di influenza la Somalia italiana e l’Ogaden.
Più incerto fu l’atteggiamento sovietico dato che, al di fuori del memorandum
sui territori in amministrazione fiduciaria presentato il 20 Luglio, non elaborò un
piano preciso ed articolato come quello delle altre due delegazioni. Gli anglo-
americani erano comunque al corrente delle vaghe aspirazioni sovietiche ad ottenere
in amministrazione fiduciaria qualche colonia italiana, ambizioni che erano state
manifestate già durante il conflitto e alla Conferenza di San Francisco, come riferito
dall’ambasciatore Gromkyo al Segretario di Stato Settinius il 9 Giugno 1945. In
seguito, lo stesso Gromkyo, agendo su istruzioni del proprio governo, aveva ritenuto
di poter impegnare più concretamente Stettinius attraverso uno scambio di lettere,
allo scopo di definire più chiaramente la questione dei territori in amministrazione
fiduciaria per l’Unione Sovietica37.
Il governo italiano, alla vigilia della Conferenza di Potsdam, non mancò di
sondare i governi alleati, nonostante le difficoltà ad ottenere informazioni attendibili,
sui piani relativi alla conclusione di un trattato di pace con l’Italia. De Gasperi inviò
delle istruzioni agli ambasciatori di Washington, Londra e Mosca in cui quest’ultimi
dovevano presentare ai governi alleati il desiderio italiano di conservare le colonie
prefasciste, a causa dei problemi demografici interni, e il massimo della rinuncia da
parte italiana riguardava l’intensità della sua sovranità su tali territori. Per i singoli
territori, la Libia e l’Eritrea dovevano rimanere sotto l’amministrazione italiana con
alcune concessioni ai britannici nel paese nordafricano e all’Etiopia le più ampie
facilitazioni per l’accesso al mare tramite il porto di Assab. Inoltre, l’Italia è disposta
ad accettare un trusteeship internazionale su tutti i territori somali. In linea generale,
tali istruzioni erano improntate ad una certa elasticità poiché, pur indicando una netta

37
Ibid., pp. 74-90.

127
propensione per la piena sovranità italiana sulle colonie prefasciste, esse non
escludevano l’applicazione del regime di amministrazione fiduciaria e mostravano
comprensione per le esigenze altrui38.
Con l’inizio della Conferenza di Potsdam, si entrò nel merito della questione
e, già nell’incontro preliminare del 17 Luglio con la delegazione americana
capitanata dal presidente Truman, Stalin e Molotov chiesero che il problema delle
amministrazioni fiduciarie e quello degli ex possedimenti italiani venissero aggiunti
all’ordine del giorno dei lavori, provocando le proteste di Churchill e dei britannici.
Il 20 Luglio, Molotov aveva presentato ai Ministri degli Esteri inglese ed
americano un promemoria che sottolineava la necessità di adottare nel futuro
immediato le misure dirette a risolvere la questione delle amministrazioni fiduciarie
in conformità con il protocollo finale di Yalta e la Carta delle Nazioni Unite,
autorizzava il Consiglio dei ministri degli Esteri ad esaminare nel dettaglio la
questione e a presentare delle proposte concrete riguardo alle condizioni da applicare
alle ex colonie italiane in Africa, tenendo presente la possibilità di affidarne
l’amministrazione all’Unione Sovietica, alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti
congiuntamente.
Dopo molti rinvii, il 22 Luglio, il problema venne nuovamente affrontato
durante la sesta seduta plenaria con screzi tra la delegazione sovietica e britannica sul
fatto che quest’ultima continuava ad esercitare un regime militare sugli ex
possedimenti italiani e su quali territori doveva essere applicata l’amministrazione
fiduciaria, dati i problemi dei possedimenti in questione e quelli già sotto mandato
della Società delle Nazioni, portando alla reazione britannica secondo cui se ne
doveva occupare l’ONU mentre Truman, sull’argomento, non vedeva ostacoli per
una discussione preliminare, lasciando Churchill isolato nella sua richiesta di rinvio.
Il giorno successivo, Molotov insisté per definire lo status delle ex colonie
italiane, suggerendo un trusteeship congiunto dei tre grandi ma sia Eden che Byrnes
erano d’accordo che la questione spettava al Consiglio dei Ministri degli Esteri, che
doveva elaborare il trattato di pace, dato che non c’era un accordo di massima tra gli
alleati. Stante così la situazione, anche Molotov fu d’accordo per il rinvio della
questione all’esame della prossima conferenza, che si sarebbe tenuta a Londra in

38
Ibid., pp. 91-94.

128
Settembre. Non restava al Ministro sovietico che insistere affinché la questione
venisse sollevata nella prima sessione della conferenza nella capitale britannica39.
La Conferenza si concludeva senza che si raggiungesse nessun accordo fra i
tre Grandi circa la sistemazione delle colonie italiane, a causa della richiesta
sovietica di definire subito il problema e all’atteggiamento intransigente da parte dei
britannici, e finì per prevalere la soluzione intermedia proposta dagli statunitensi
circa il rinvio della questione all’imminente sessione di Londra del Consiglio dei
ministri degli Esteri. Dai lavori di Potsdam emergeva che il problema coloniale
italiano era strettamente collegato con la lotta tra le grandi potenze per accrescere ed
inquadrare le finalità generali perseguite da ciascuno di questi paesi. A riguardo dei
comportamenti delle tre delegazioni alla Conferenza c’è da aggiungere che i
britannici mantennero un atteggiamento dilatorio e negativo nei confronti delle
aspirazioni italiane, gli statunitensi si ispiravano agli ideali quali la Carta atlantica e
il suo tradizionale anticolonialismo, ma non vanno sottovalutate le considerazioni di
carattere strategico in relazione alle aspirazioni sovietiche. Infine, quest’ultimi non
nascosero il loro interesse ad ottenere l’amministrazione fiduciaria su qualche
colonia italiana che, secondo Byrnes, serviva ad ottenere una posizione strategica nel
Mediterraneo. Il protocollo conclusivo della Conferenza, diramato il 2 Agosto, nel
fissare la procedura per l’elaborazione dei trattati di pace, istituiva infatti questo
nuovo organismo, il Consiglio dei ministri degli Esteri, al quale veniva affidato il
compito di continuare il lavoro preparatorio necessario alle sistemazioni della pace,
precisando che il suo primo compito sarebbe stata la preparazione del trattato con
l’Italia, il cui collegamento dei suoi problemi, tra cui quello coloniale, con il nuovo
regime di amministrazione fiduciaria e con l’elaborazione del trattato di pace veniva
definitivamente sancito a Potsdam40.

3.2.3 La Conferenza di Londra (Settembre-Ottobre 1945)

Il Consiglio dei ministri degli Esteri, istituito in base alla Dichiarazione di


Potsdam, si riunì a Londra, a Lancaster House, dall’11 Settembre al 2 Ottobre 1945

39
Ibid., pp. 95-100.
40
Ibid., pp. 103-104.

129
per l’elaborazione dei trattati di pace41. Già nella prima riunione, i Ministri degli
esteri42 incontrarono qualche difficoltà sulla procedura e sul programma delle
discussioni. Riguardo al trattato di pace italiano, si convenne subito che esso venisse
dibattuto per primo e che il futuro delle colonie risultasse esaminato in relazione ad
esso. Secondo un memorandum procedurale, presentato il 12 Settembre dalla
delegazione americana ed approvato da quella sovietica, con lievissime modifiche,
l’Etiopia, la Jugoslavia e la Grecia sarebbero state invitate ad esporre oralmente il
loro punto di vista sugli aspetti della sistemazione italiana di loro particolare
interesse. Successivamente, in seguito a discussioni tra i delegati supplenti, venne
deciso di invitare i Governi di tutti i paesi in guerra con l’Italia soltanto a presentare i
loro punti di vista per iscritto43.
La questione coloniale iniziò ad essere affrontata durante la quarta riunione
del Consiglio, il pomeriggio del 14 Settembre, sulla base di un indicativo
memorandum statunitense che non escludeva, come prevedeva un documento
britannico di alcuni giorni prima, la preventiva rinuncia dell’Italia ai suoi
possedimenti africani e il rinvio della decisione, indicando l’opportunità di un
accordo tra le grandi potenze, relativamente alla loro temporanea amministrazione.
Sempre nella stessa riunione, Byrnes propose un trusteeship collettivo sulle ex
colonie italiane poiché, se in un primo tempo si mostrò favorevole al ritorno
dell’Italia tramite l’amministrazione fiduciaria, successivamente cambiò opinione a
causa del timore delle mire sovietiche nel Mediterraneo dato che, il trusteeship
singolo all’Italia, apparve rafforzare indirettamente la richiesta sovietica, già
avanzata a Potsdam, di un’amministrazione fiduciaria temporanea e singola
all’URSS, sotto il controllo delle Nazioni Unite. Infine, non era opportuno che
l’Italia riassumesse l’onere finanziario di amministrare questi territori nello stesso
41
A riguardo del trattato di pace italiano le questioni sul tavolo erano quattro: Trieste, il confine italo-
jugoslavo, la sistemazione del Dodecanneso e delle colonie, le riparazioni. Si ricorda, inoltre, che in
un messaggio a Byrnes dell’Agosto 1945, Bevin mostrava di voler considerare la questione delle
colonie italiane come a se stante rispetto all’elaborazione del trattato. Contrario a questa tesi si
dichiarò Byrnes nella sua lettera di risposta e Bevin finì per acconsentire; cfr. Rossi, L’Africa italiana
verso l’indipendenza, cit., p. 105.
42
Le delegazioni erano così composte: Byrnes, Dunn, Cohen, J. F. Dulles per gli Stati Uniti; Bevin,
Campbell, Clark Kerr, Duff Cooper per il Regno Unito; Molotov, Gusev, Novikoc, Golunski, Pavlov
per l’Urss; Bidault, Couve de Murville, Massigli, Fouques-Duparc per la Francia; Wang Shil-Chiel,
W. Koo, V. Hoo, H. Tong Yun Chu per la Cina; cfr. Ibid., p. 106.
43
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 105-106.

130
momento in cui gli Stati Uniti stavano raccogliendo fondi di soccorso per tale
paese44.
Nell’illustrare le proposte statunitensi45, Byrnes osservò che si doveva
anzitutto decidere se togliere o no le colonie all’Italia e, una volta esclusa tale
opzione, non si doveva dimenticare che nella Carta Atlantica, nella dichiarazione di
Mosca e in altre occasioni, le grandi potenze avevano affermato di non cercare
vantaggi territoriali e di voler garantire ai popoli del mondo la possibilità di scegliersi
la forma di governo sotto la quale desideravano vivere. Il progetto venne accolto con
scarso entusiasmo all’interno del Consiglio, se non dal rappresentante del governo
cinese, il quale non aveva alcun interesse alla sistemazione della questione, oltre ad
auspicare in generale l’idea dell’indipendenza dei popoli coloniali.
La delegazione francese, guidata dal Ministro degli Esteri Bidault, non era
entusiasta dei progetti proposti dalle altre delegazioni perché i territori in questione
erano di grande importanza per la Francia e non sarebbe stato saggio toglierli
all’Italia. A riguardo della proposta americana, obiettò che la Commissione
preparatoria dell’ONU non aveva ancora esaminato le modalità di funzionamento
dell’amministrazione fiduciaria collettiva ed era più opportuno, per il governo
francese, il trusteeship singolo. L’atteggiamento della delegazione d’oltralpe fu
scettico per il timore di un inserimento di altre potenze in Libia, al posto dell’Italia,
che potesse stimolare il desiderio d’indipendenza delle vicine colonie francesi e per
le pretese territoriali nei confronti dell’Italia in Europa, nel caso di Briga e Tenda, e
in Africa, con la cessione del Fezzan e di alcune oasi libiche al confine con l’Algeria.
A riguardo dei territori siti in Africa orientale, la Francia manteneva un
atteggiamento neutro nei riguardi delle ambizioni italiane che etiopiche46.
La delegazione sovietica, al pari di quella francese, si dichiarò contraria al
ritorno dell’Italia in Africa e al progetto di trusteeship collettivo statunitense perché
avrebbe incontrato seri ostacoli in fase di realizzazione, pur non negando che l’idea

44
Ibid., pp. 107-110.
45
Sezione III del memorandum: la Libia sarebbe divenuta indipendente nel giro di dieci anni durante i
quali sarebbe stata amministrata fiduciariamente sotto l’egida dell’ONU; analogo trattamento per
l’Eritrea, ma si suggeriva la cessione all’Etiopia di territorio eritreo per consentire a questa uno sbocco
sul Mar Rosso attraverso Assab; la Somalia sarebbe stata sottoposta al regime di amministrazione
fiduciaria collettiva, senza che però venisse fissata la data dell’indipendenza; cfr. Rossi, L’Africa
italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 110-111.
46
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 112-115.

131
era valida in quanto salvava il principio di indipendenza di tali territori e assicurava il
controllo alle Nazioni Unite, ribadendo il concetto di dare l’amministrazione di
questi possedimenti ad un singolo membro dell’ONU. Una volta chiarito questo
punto, non restava che avanzare una precisa richiesta sovietica nei riguardi della
Tripolitania, l’obiettivo di fondo delle argomentazioni di Molotov, il quale dichiarò
senza mezzi termini che il governo sovietico considerava il futuro di questa regione
di primaria importanza per il loro popolo e doveva insistere con la richiesta di
assumere l’amministrazione fiduciaria di quel territorio. Tale richiesta si basava su
tre considerazioni: a) l’Italia aveva attaccato l’Unione Sovietica con dieci divisioni e
tre brigate di camicie nere provocando gravi danni; b) l’Unione Sovietica poteva
vantare una vasta esperienza in fatto di rapporti amichevoli tra nazionalità diverse; c)
l’URSS era ansiosa di avere basi nel Mediterraneo per la sua flotta mercantile, dato
che il commercio mondiale si sarebbe sviluppato e l’Unione Sovietica intendeva
svolgere in esso la sua parte. Le tesi sovietiche incontrarono le obiezioni delle altre
delegazioni, in particolar modo di quella statunitense su alcuni incontri avuti durante
il 1945 dall’ambasciatore Gromkyo con l’allora Segretario di Stato Stettinius
riguardo un appoggio americano in una eventuale richiesta di amministrazione
fiduciaria dell’URSS47.
Il progetto inglese presentato dal Ministro degli Esteri Bevin si rifaceva alle
indicazioni ricevute dal governo britannico, ovvero: opporsi a qualsiasi richiesta di
trusteeship da parte sovietica; sostenere il progetto della grande Somalia evitando per
il momento di proporre il trusteeship britannico; chiedere da subito
l’amministrazione fiduciaria sulla Cirenaica ed evitare per il momento quella italiana
sulla Tripolitania; chiedere la cessione di parte dell’Eritrea all’Etiopia e il resto del
paese al Sudan. Nella seduta del 15 Settembre la richiesta sovietica venne respinta e
Bevin ribatté punto su punto le argomentazioni di Molotov, incoraggiato dai governi
del Commonwealth, ed in primo luogo dal governo sudafricano48. Entrando nel
merito del progetto britannico, Bevin, evitando di accennare al problema libico,
propose delle modifiche sostanziali riguardo la Somalia e l’Eritrea suggerendo che la
sorte dell’intera regione venisse esaminata dai sostituti, con particolare riguardo per i
problemi economici dei tre paesi in questione al fine di promuovere lo sviluppo di
questi territori e l’elevamento della loro popolazione.

47
Ibid., pp. 116-123.
48
Ibid., pp. 123-131.

132
Questo cambiamento britannico fu dovuto certamente all’iniziativa sovietica
che bloccava ogni possibilità di avanzare proposte sulla Libia ma anche alle
incertezze del progetto statunitense che fu si accolto come base di lavoro, ma
certificò una certa libertà inglese sugli aspetti più controversi del piano. Una
possibile alternativa sarebbe stata la proposta di restituire le colonie all’Italia,
aderendo alla tesi francese, ma era ormai acquisita l’idea di privarla delle sue
colonie. C’era l’eccezione della Tripolitania, ma il ritorno della penisola in quel
territorio era condizionato ad un trusteeship britannico in Cirenaica49.
Durante lo svolgimento della Conferenza di Londra, gli stati direttamente
interessati alla soluzione coloniale e non facenti parte del Consiglio dei Ministri degli
Esteri, ovvero Italia, Egitto ed Etiopia, non tralasciarono l’occasione per sostenere le
proprie tesi attraverso le dichiarazioni di esponenti governativi e di promemoria di
contatti diplomatici nelle capitali di grandi potenze vincitrici.
Il governo italiano illustrò il proprio punto di vista già in anticipo, inviando
due lettere al Presidente americano Truman e al Segretario di Stato Byrnes il 22
Agosto, a firma del Presidente del Consiglio Parri e del Ministro degli Esteri De
Gasperi, al cui interno si ripeteva che le colonie erano un mezzo per assorbire
manodopera eccessiva e che non c’era incompatibilità tra questo fine e il metodo
fiduciario. Durante la Conferenza e, in seguito a nuove conferme sull’opposizione
britannica sull’Eritrea e sulla Cirenaica, si ritenne opportuno insistere con il governo
di Londra sulle possibilità di un compromesso tra le parti, concedendo all’Etiopia i
porti di Massaua e Assab e costruendo un corridoio per uno sbocco sul mare,
rettificando il confine tra l’Eritrea e la Somalia francese. Anche l’ambasciata italiana
a Washington fece pervenire al Dipartimento di Stato un promemoria riassuntivo
delle idee italiane sulle ex colonie che potevano tornare utili durante l’incontro dei
ministri degli esteri50.
Il governo etiopico, già il 24 Agosto, ricevendo i rappresentanti diplomatici
delle quattro potenze, ribadì le aspirazioni del proprio paese connettendole alla
preparazione del trattato di pace italiano, insistendo nel poter prendere parte alla
Conferenza di Londra come parte lesa ed interessata, data la presenza della
Jugoslavia all’incontro. Tale richiesta non fu accolta, ma fu consentita la
preparazione di un memorandum, e di note da inviare alla Segreteria del Consiglio,

49
Ibid., pp. 132-133.
50
Ibid., pp. 134-139.

133
presentato alla fine di Settembre e costituito di tre punti, per l’Imperatore,
fondamentali: a) il governo etiopico escludeva qualsiasi connessione tra le sue
rivendicazioni territoriali e le riparazioni chieste all’Italia in conseguenza
dell’aggressione del 1935-36, sostenendo che l’Etiopia rappresentava da tempo
l’unico sbocco per l’élite eritrea, che già era stata inserita nell’amministrazione
dell’Imperio etiopico, come dimostrava l’appendice allegata contenente l’elenco dei
funzionari ed impiegati eritrei al servizio del governo di Addis Abeba; b) si può
rilevare che le richieste etiopiche erano ben più fondate nei riguardi dell’Eritrea che
della Somalia e si può supporre che l’Etiopia adottasse la tattica di chiedere di più
allo scopo di raggiungere degli obiettivi più plausibili; c) non può considerarsi del
tutto infondato il riferimento ad un impegno britannico circa la riunificazione
dell’Eritrea all’Etiopia al termine del conflitto51.
Il governo egiziano, in quanto non belligerante con l’Italia, era stato escluso
dall’elenco dei paesi invitati ad esprimere un parere scritto sulla questione ma, grazie
alla mediazione britannica, il 19 Settembre il problema fu risolto positivamente per
l’Egitto. Nei riguardi dell’Eritrea, il paese nordafricano aveva un interesse non
diretto, condizionato alla sistemazione futura del Sudan anglo-egiziano che l’Egitto
sperava di annettersi, chiedendo la cessione dell’area del Keren al primo e per sé il
porto di Massaua a titolo di restituzione. Nei confronti della Libia c’era un interesse
diretto e, già il 12 Settembre, il governo egiziano aveva inviato una nota al Consiglio
dei ministri degli Esteri nel quale si chiedeva che i desideri del popolo libico
venissero accertati attraverso un plebiscito, divergendo leggermente dal punto di
vista della Lega araba che chiedeva l’indipendenza immediata, precisando che il
periodo di preparazione doveva essere affidato a lei stessa o ad un paese arabo.
L’idea di una nazione libica veniva ribadita anche da Idris, rilanciando il suo
progetto di un Emirato sull’intera Libia, contrastato da molti leader tripolitani e dalla
ferma intenzione britannica di non ricostruire l’unità libica, controbilanciato dalla
netta opposizione di un ritorno italiano in Tripolitania che offriva ad Idris un appiglio
per realizzare il suo programma nazionale e preoccupava Londra, che non poteva
permettersi di ignorare i sentimenti del mondo arabo in merito alla definitiva
sistemazione politica della Libia52.

51
Ibid., pp. 140-146.
52
Ibid., pp. 147-152.

134
La Conferenza di Londra si concluse il 2 Ottobre senza raggiungere un
accordo sulle questioni pendenti del trattato di pace italiano e, a riguardo delle
colonie, già dalle prime riunioni le discussioni si arenarono a causa degli interessi
politico-militari delle quattro potenze, come l’antagonismo sviluppatosi tra questi
paesi nel Mediterraneo e in Medio Oriente oppure per impegni presi durante la
guerra, mettendo all’ultimo posto le indicazioni fornite dai paesi direttamente
interessati alla questione. La divergenza di vedute era dunque troppo grande perché
si potesse giungere ad un accordo. Solo su un punto, al termine della sessione di
Londra, i Ministri degli Esteri raggiunsero un compromesso: le colonie italiane
dovevano essere sottoposte al regime di amministrazione fiduciaria previsto dalla
Carta dell’ONU, mentre restava impregiudicata la questione della forma che esso
avrebbe dovuto assumere53.

3.2.4 La Conferenza di Parigi (Aprile-Luglio 1946)

Nelle settimane successive alla Conferenza di Londra, gli esperti coloniali


italiani incontrarono alcuni delegati britannici per trovare dei punti in comune sulla
questione degli ex possedimenti africani senza arrivare ad un accordo e, già dalla fine
dell’Ottobre del 1945, crearono un memorandum da presentare alle grandi potenze. Il
documento, diviso in cinque punti, venne inviato alle ambasciate italiane di Mosca,
Washington, Parigi, Londra e, per conoscenza, anche a Rio de Janeiro,
accompagnato da un telegramma del Ministro De Gasperi che evidenziava la
funzione di equilibrio politico delle colonie italiane nel Mediterraneo e nel Mar
Rosso, insisteva sul problema dell’emigrazione italiana e sottolineava l’inopportunità
di un’amministrazione fiduciaria collettiva su tali territori. A Londra la
documentazione inviata non piacque, a causa del rigetto del trusteeship collettivo e
della posizione negativa nei confronti di un ritorno italiano in Africa, come definito
da una commissione ministeriale per escludere una sia pur limitata presenza sovietica
nelle ex colonie italiane e una più celere indipendenza per la Libia, rispetto al
termine dei dieci anni fissato dal progetto americano54.

53
Ibid., pp. 153-154.
54
Ibid., pp. 155-168.

135
In base alle decisioni raggiunte alla Conferenza tripartitica di Mosca (16-26
Dicembre 1945), i delegati supplenti55 si riunirono a Londra nel Gennaio del 1946
per riprendere i lavori relativi all’elaborazione dei trattati di pace sulla base delle
intese raggiunte a Londra56. Nel nuovo incontro londinese, i quattro delegati rimasero
fermi sulle loro posizioni, a causa della continua richiesta sovietica per un trusteeship
sulla Tripolitania e, probabilmente per uscire dallo stallo, il delegato britannico
avanzò la proposta di un’amministrazione provvisoria delle ex colonie da parte delle
quattro potenze in attesa della decisione finale e di inserire, all’interno del trattato di
pace con l’Italia, una clausola affinché quest’ultima rinunci a tutti i suoi diritti sui
suoi ex possedimenti africani, preoccupando non poco il governo italiano che si
attivò immediatamente, tramite l’ambasciatore Tarchiani, presso il Dipartimento di
Stato e il segretario Byrnes insistendo con la tesi del trusteeship singolo all’Italia.
In più, Palazzo Chigi dette istruzioni ai rappresentanti diplomatici nei paesi
facenti parte dell’ONU di far pervenire ai suddetti governi tutta la documentazione
ufficiale sulla questione delle ex colonie, in vista di un possibile rinvio alle Nazioni
Unite di tale questione. Azione senz’altro positiva, in particolar modo nei paesi
dell’America Latina, dato che il governo uruguayano si impegnò a proporre in sede
ONU, in caso di rinvio della questione coloniale a tale organizzazione, che all’Italia
venisse affidato il trusteeship sulle ex colonie57. In vista della seconda sessione del

55
Dunn (Stati Uniti), Campbell, poi Gladwyn Jebb (Gran Bretagna), Gusev (Urss), Couve de Murville
(Francia).
56
Riguardo alla procedura del trattato di pace con l’Italia, il rapporto finale della Conferenza di Mosca
stabiliva: 1. Le condizioni del trattato di pace con l’Italia verranno elaborate dai ministri degli esteri di
Regno Unito, Stati Uniti, Unione Sovietica e Francia…2. Completata la stesura dei vari trattati di
pace, il Consiglio dei ministri degli Esteri convocherà una conferenza affinché gli esamini. A tale
conferenza parteciperanno i 5 membri del Consiglio dei ministri degli Esteri e i rappresentanti delle
Nazioni Unite che hanno effettivamente partecipato con importanti forze armante alla guerra contro lo
stato europeo nemico e cioè: Australia, Belgio, Brasile, Canada, Cecoslovacchia, Etiopia, Grecia,
India, Jugoslavia, Norvegia (esclusa dal trattato di pace con l’Italia), Nuova Zelanda, Olanda, Polonia,
Bielorussia, Ucraina e Unione Sudafricana. La conferenza avrà luogo non più tardi del 1 Maggio
1946. 3. Dopo la conclusione della Conferenza e tenendo conto delle sue raccomandazioni, gli stati
firmatari delle condizioni di armistizio con l’Italia…redigeranno il testo finale del trattato di pace.
Tale testo sarà firmato dagli Stati rappresentati alla Conferenza in guerra con l’Italia. Esso sarà poi
sottoposto alle altre Nazioni Unite in guerra con l’Italia. 5. Il trattato entrerà in vigore subito dopo la
ratifica da parte degli Stati firmatari dell’armistizio…Detto trattato sarà soggetto a ratifica da parte
dell’Italia; cfr Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 168-169.
57
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 169-178.

136
Consiglio dei ministri degli Esteri, fissata a Parigi per la fine di Aprile, Palazzo Chigi
redasse un nuovo memorandum, al cui interno si dissertava che la questione
coloniale andava inserita nel più vasto quadro dell’assetto globale del Mediterraneo,
si tornava sull’importanza delle colonie come sbocco demografico e si invocavano
ragioni storiche, sentimentali ed economiche sulle colonie prefasciste, acquisite
attraverso pacifiche intese con le maggiori potenze.
Il progetto di trusteeship collettivo per le ex colonie italiane, con la
prospettiva dell’indipendenza, preoccupava il governo etiope che interagì con le
grandi potenze per l’inopportunità di una soluzione simile per l’Eritrea, ripetendo,
ancora una volta, che la miglior soluzione era la cessione all’Etiopia, dovuta a
necessità storiche, morali ed economiche. In particolar modo, aumentò il dialogo con
Washington, grazie all’anticomunismo della classe politica etiope, mentre continuava
l’attrito con la Gran Bretagna, a causa della situazione dell’Ogaden.
Sulla situazione libica si concentrarono gli sforzi sia della Lega araba che, sul
piano internazionale, si fece portavoce delle aspirazioni autonomistiche dell’intero
paese, mentre a livello interno essa si sforzò di riconciliare i diversi leader e partiti
politici, sia dell’Egitto, che insisteva per essere ammesso a presentare direttamente il
suo punto di vista ai Ministri degli Esteri. Anche Idris el-Senussi espresse
nuovamente il suo punto di vista, restando prudentemente fedele al suo programma e
lasciando chiaramente intendere, anche a livello ufficiale, che desiderava strette
relazioni con la Gran Bretagna, ma su un piano di completa indipendenza formale58.
Il 25 Aprile 1946, il Consiglio dei Ministri degli Esteri riprese i suoi lavori a
Parigi, ed era assai diffuso il timore di vedere le delegazioni dei quattro grandi
ancora ferme sulle proprie intenzioni. Ma, al contrario, furono molte le novità emerse
durante questa sessione dei lavori, a cominciare dalla riunione del 29 Aprile, nella
quale Byrnes insisté sulla validità del progetto statunitense perché conforme
all’impegno di non cercare ingrandimenti territoriali assunto dai paesi firmatari della
Carta Atlantica. Bidault si richiamò alle sue dichiarazioni precedenti e ribadì
l’opportunità di affidare all’Italia il mandato fiduciario sulle sue ex colonie e rinnovò
la richiesta francese di rettifiche di confine.
La prima svolta fu sovietica, con Molotov che dichiarò la rinuncia di
trusteeship singolo sulla Tripolitania, avanzando la proposta di un’amministrazione
di due paesi per ciascuna colonia con un amministratore alleato e un vice italiano,

58
Ibid., pp. 181-188.

137
una via di mezzo tra la proposta statunitense e francese che segnò l’inizio di un
atteggiamento favorevole all’Italia da parte della delegazione sovietica. Questa
proposta suscitò malumori all’interno della delegazione britannica che, il giorno
successivo, presentò un suo memorandum al Consiglio che proponeva la rinuncia
italiana sulle sue ex colonie africane, un preventivo ascolto delle richieste etiopi sulla
questione eritrea e un trusteeship britannico sulla Somalia. Era il primo, preciso e
articolato progetto in materia coloniale presentato dalla delegazione britannica in
Consiglio, con l’unica novità che riguardava la sorte della Libia mentre il resto
corrispondeva ai progetti britannici risalenti all’estate del 194559. Il progetto inglese
non venne accolto positivamente dalle altre delegazioni, in particolar modo da quella
sovietica e da quella francese, mentre Byrnes colse l’occasione offertagli dalla
divergenza tra le delegazioni per ribadire la validità e la logicità della sua soluzione.
Nella riunione del 6 Maggio, aumentarono le divergenze tra le delegazioni a
causa dell’idea di Molotov di abbinare la questione coloniale a quella della Venezia
Giulia, con ritorno italiano in Africa e cessione di quest’ultima alla Jugoslavia, che
non venne accettata dalla delegazione britannica, interessata al futuro dei
possedimenti coloniali e contraria al ritorno dell’Italia in Africa. Byrnes, invece,
propose, come chiesto anche dalla delegazione inglese, di inserire nel trattato una
clausola di rinuncia da parte dell’Italia dato che le quattro delegazioni si erano
trovate d’accordo sul principio di trusteeship ma non sul paese o i paesi a cui
affidarlo, trovando l’opposizione di Molotov e di Bidault.
In relazione agli sviluppi parigini, il Presidente del Consiglio De Gasperi
aveva sondato le varie delegazione dato che, il 2 Maggio, si era recato a Parigi per
essere ascoltato dal Consiglio sulla questione della Venezia Giulia, ribadendo
l’importanza delle colonie ma il problema di Trieste, per il governo italiano, aveva la
priorità. Più concretamente, De Gasperi inviò ai quattro Ministri degli Esteri un
promemoria che suggeriva la restituzione integrale all’Italia della Tripolitania e della
Somalia, il rinvio della decisione per la Cirenaica ad un possibile accordo tra l’Italia
e gli altri interessati e ristabilimento in Eritrea dell’amministrazione italiana sotto il
controllo di una commissione internazionale per un dato periodo60.
Un passo in avanti verso una soluzione comune venne fatto dalla delegazione
sovietica il 10 Maggio, quando Molotov si dichiarò favorevole ad aderire al progetto

59
Ibid., pp. 189-196.
60
Ibid., pp. 197-203.

138
francese di trusteeship singolo all’Italia per un periodo di tempo determinato,
provocando reazioni positive da parte statunitense e francese, su cui divergevano
soltanto i tempi di amministrazione fiduciaria. Non restava a Bevin altra scelta se
non quella di modificare le proposte contenute nel memorandum britannico del 30
Aprile, dichiarando di non essere contrario ad un trusteeship italiano in Tripolitania,
se fosse stata affidata agli inglesi la Cirenaica, con rettifiche di frontiera per
includere il maggior numero di Senussi, ma non era d’accordo ad un mandato
fiduciario italiano in Eritrea e Somalia, restando fedele alle proposte precedenti.
Mai come a questo punto le posizioni dei quattro grandi apparivano così
vicine, dato che rimanevano solo due le questioni da risolvere: la durata del
trusteeship e la richiesta di amministrazione fiduciaria britannica sulla Cirenaica. Fu
proprio in questa fase delle discussioni che tornò a farsi strada l’idea di rinviare la
soluzione del problema coloniale e, nella riunione del 13 Maggio, allo scopo di
superare il punto morto, Byrnes presentò un memorandum che riassumeva tutte le
opinioni espresse fino a quel momento dalle delegazioni e prevedeva: la rinuncia di
sovranità da parte dell’Italia; il rinvio della questione all’esame dei quattro Grandi,
da effettuarsi entro un anno; il rinvio della questione al Consiglio di tutela dell’ONU,
in caso di mancato accordo. Anche in questo caso nacquero dissidi tra i Ministri degli
Esteri e non restò che rinviare la questione all’esame dei delegati supplenti perché
preparassero un rapporto da presentare nella successiva sessione del Consiglio fissata
per il 15 Giugno61.
La rinuncia sovietica alle rivendicazioni sulla Tripolitania, accompagnata
dall’adesione al progetto francese, offriva al governo italiano la possibilità di
esercitare una più efficace pressione sul Dipartimento di Stato, giocando sulla
considerazione che mentre l’Unione Sovietica aveva in sostanza accolto la soluzione
auspicata dall’Italia in materia coloniale, questa veniva osteggiata proprio dagli
anglo-americani che si protestavano amici dell’Italia e che avevano in più occasioni
promesso il loro appoggio per un trattato di pace non troppo duro. Gli sforzi
effettuati dalla diplomazia italiana, esercitati dagli ambasciatori a Washington, per
far aderire al progetto franco-russo Byrnes, e Londra, per dimostrare la compatibilità
di una presenza italiana in Cirenaica con gli interessi strategici britannici, non ebbero
alcuna influenza sull’evoluzione della questione62.

61
Ibid., pp. 204-211.
62
Ibid., pp. 223-232.

139
Il 20 Giugno 1946, i ministri degli Esteri tornarono a discutere la questione
coloniale, con Byrnes che riconfermò la sua proposta originaria, rinunciando al
termine dei dieci anni, in considerazione delle obiezioni francesi, e propose che dopo
un decennio il Consiglio per le amministrazioni fiduciarie esaminasse la situazione
per accertare se la Libia fosse matura per l’indipendenza. Tale dichiarazione serviva
per smuovere la situazione ed indurre i sovietici ad abbandonare la loro politica
dilatoria. Bevin si dichiarò pronto a ritirare la proposta relativa alla grande Somalia e
chiese di nuovo che venissero considerate le richieste del governo etiopico, mentre
un ulteriore passo indietro fu quello di Molotov che, se ribadì il suo appoggio alla
tesi francese, si richiamò alla proposta di trusteeship sovietico, aggiungendo che
l’idea di Byrnes di rinviare la questione gli sembrava accettabile data la complessità
del problema. Il riaffiorare di proposte ormai superate indusse i Ministri degli Esteri
a rinviare l’esame del problema ad una speciale commissione composta da Jebb,
Vishinski, Couve de Mourville e Ben Cohen, con il compito di rielaborare soltanto
nel linguaggio il progetto americano63.
Il 1 Luglio, la delegazione britannica sottoponeva al Consiglio il seguente
progetto di articolo con allegato un progetto di dichiarazione:
«A) Progetto di articolo da inserire nel trattato, proposto dalla delegazione del
Regno Unito.
1) L’Italia rinuncia a ogni diritto e titolo sui possedimenti territoriali italiani in
Africa.
2) I detti possedimenti continueranno sotto l’attuale amministrazione, finché non sarà
decisa la loro sorte definitiva.
3) La sorte definitiva di detti possedimenti sarà decisa di comune accordo dalle
quattro principali potenze alleate entro un anno dall’entrata in vigore del presente
trattato e secondo i termini della dichiarazione comune odierna fatta dalle quattro
principali potenze alleate.
B) Progetto di dichiarazione da essere sottoscritta dai rappresentanti delle quattro
potenze.
1) Il Consiglio dei ministri degli Esteri dei Governi degli Stati Uniti, del Regno
Unito, dell’Unione Sovietica e della Francia, convengono di decidere di comune
accordo, entro un anno dall’entrata in vigore del trattato con l’Italia, che porta la data

63
Ibid., pp. 233-237.

140
odierna, della sorte definitiva dei possedimenti territoriali italiani in Africa, sui quali
l’Italia, in base al detto trattato, rinuncia ad ogni diritto e titolo.
2) Le quattro potenze decideranno della sorte definitiva dei territori in questione in
armonia con una o qualsiasi combinazione delle seguenti soluzioni, siano esse
applicabili a tutta o ad una parte dei territori in questione come può apparire
opportuno tenendo conto delle aspirazioni degli abitanti e dei pareri degli altri
Governi interessati:
1- Indipendenza;
2- Incorporazione in un territorio confinante;
3- Trusteeship da essere esercitato o dalle Nazioni Unite nel loro complesso o da una
delle Nazioni Unite singolarmente,
3) Nel caso in cui le quattro potenze non possano mettersi d’accordo su una o l’altra
soluzione o una combinazione, la questione verrà sottoposta all’Assemblea generale
dell’ONU per una raccomandazione, e le quattro potenze convengono di accettare la
raccomandazione e di prendere le misure del caso, per darvi esecuzione, tenendo
conto delle promesse fatte ai Senussi dal Governo di S.M. del Regno Unito durante
la guerra.
4) I sostituti dei ministri degli Esteri continueranno l’esame della questione della
sorte delle ex colonie italiane in Africa e possono inviare Commissioni di inchiesta in
qualsiasi delle ex colonie al fine di accertare le vedute delle popolazioni locali e di
sottoporre ai sostituti i dati necessari su cui basare una raccomandazione al Consiglio
dei ministri degli Esteri circa la soluzione definitiva della questione».
Due giorni dopo, Molotov propose che il Consiglio accettasse come base di
accordo la proposta francese con le modifiche suggerite dalla delegazione americana
e con l’aggiunta del seguente paragrafo: «Verranno istituiti nelle colonie italiane
Consiglio consultivi o d’inchiesta composti di rappresentanti delle quattro potenze
con il compito di presentare raccomandazioni su richiesta del comando alleato o ai
loro rispettivi Governi». Questa proposta incontrò il dissenso di Bevin, che accettò
solamente le commissioni d’inchiesta perché già presenti nel progetto di
dichiarazione presentato dalla propria delegazione. Una volta adottata la sezione A
del documento britannico e raggiunta un’intesa di massima sul progetto di
dichiarazione, si decise di incaricare la Commissione coloniale di dare la stesura
definitiva al testo e, nella riunione del 12 Luglio, i Ministri degli Esteri fecero
rapidamente le loro osservazioni sul progetto del testo da inserire nel trattato di pace

141
concordato il giorno prima dalla Commissione per le colonie sulla base del
memorandum britannico64.
In conclusione, il testo definitivo del progetto di dichiarazione risultò così
formulato:
«1) I Governi dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, degli Stati Uniti
d’America, del Regno Unito e della Francia, convergono di decidere di comune
accordo, entro un anno dall’entrata in vigore del trattato di pace con l’Italia, che
porta la data…, della sorte definitiva dei possedimenti territoriali italiani in Africa,
sui quali l’Italia, in base all’articolo… del trattato, rinuncia ad ogni diritto e titolo.
2) Le quattro potenze decideranno della sorte definitiva dei territori in questione e
procederanno alle opportune modifiche dei confini dei territori stessi, tenendo conto
delle aspirazioni e del benessere degli abitanti, oltre che delle esigenze della pace e
della sicurezza, prendendo in considerazione i pareri degli altri Governi interessati.
3) Se le quattro potenze non possono mettersi d’accordo sulla sorte di uno qualunque
dei detti territori, entro un anno dall’entrata in vigore del presente trattato, la
questione sarà sottoposta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per una
raccomandazione e le quattro potenze convengono di accettare la raccomandazione
stessa e di prendere le misure del caso, per darvi esecuzione.
4) I sostituti dei ministri degli Esteri continueranno l’esame della questione della
sorte delle ex colonie italiane, allo scopo di sottoporre al Consiglio dei ministri degli
Esteri le loro raccomandazioni a riguardo. Essi invieranno inoltre commissioni
d’inchiesta in qualsiasi delle ex colonie italiane, perché raccolgano e sottopongano ai
sostituti stessi le necessarie informazioni sull’argomento ed accertino le vedute delle
popolazioni locali».
“Mentre il progetto di articolo veniva automaticamente inserito nel progetto
di trattato come art. 17, il contenuto della dichiarazione quadripartita veniva reso
noto attraverso un comunicato emanato al termine della riunione del 12 Luglio, senza
che il testo venisse incluso nel progetto di trattato presentato dalle quattro potenze
alla Conferenza di pace”65.

64
Ibid., pp. 239-240.
65
Ibid., p. 241.

142
3.2.5 La definizione del Trattato di Pace del 10 Febbraio 1947

Con la Conferenza dei Ventuno, svoltasi nella capitale francese dal 29 Luglio
al 15 Ottobre 1946, il processo di elaborazione del trattati di pace entrava in una
nuova fase poco incisiva, dato che a tale conferenza era riconosciuto il potere di
presentare al Consiglio dei ministri degli Esteri raccomandazioni su emendamenti da
apportare al progetto di trattato, non vincolanti e con l’approvazione della
maggioranza dei due terzi. Su un piano più sostanziale, i quattro non intendevano
allontanarsi dall’accordo faticosamente raggiunto per paura di rovinare l’intero
compromesso. Più limitate erano le possibilità offerte agli ex nemici come l’Italia,
poiché non era consentito presentare emendamenti ma di esporre per iscritto le
proprie osservazioni e di illustrarle oralmente.
Quando si aprì ufficialmente la Conferenza, alla questione coloniale fu
riservata un’attenzione assai modesta nel più vasto contesto del problema del
trattamento da riservare all’Italia ma alcuni interventi di delegati delle nazioni
presenti furono favorevoli all’indipendenza delle ex colonie. Anche la delegazione
etiope non si lasciò sfuggire l’occasione di esporre nuovamente le proprie tesi
sull’Eritrea e sulla Somalia, illustrando la futura organizzazione del territorio eritreo
come provincia autonoma all’interno dell’Etiopia. L’Egitto, invece, richiese la
restituzione dell’oasi di Giarabub e la rettifica del confine libico-egiziano in modo da
includere nel suo territorio, per motivi strategici, la piana desertica di Sollum. Sulla
questione libica, propose l’indipendenza immediata del paese e il periodo transitorio
doveva essere affidato ad un membro della Lega araba, progetto a cui si dichiarò
favorevole la delegazione irakena. In contrasto con le tesi sopra citate, la delegazione
brasiliana si fece portatrice del punto di vista dell’intera America latina che invocava
un equo trattamento per l’Italia e definì ingiusto il progetto di trattato di pace che
toglieva una parte di territorio metropolitano e le colonie alla penisola66.
Anche l’Italia poté esporre il proprio punto di vista alla Conferenza parigina
e, già alla vigilia dell’appuntamento, intensificò l’attività dei rappresentanti ed
esperti italiani per ammorbidire la posizione delle quattro potenze e guadagnare la
fiducia, sulle proprie tesi, dei paesi partecipanti all’incontro. Il governo di Roma si
sforzò di far modificare l’art.17 attraverso l’attenuazione o l’eliminazione del primo
capoverso, quello sulla rinuncia ai territori in Africa, ma le pressioni e i colloqui

66
Ibid., pp. 244-248.

143
avuti con i rappresentanti governativi e diplomatici dei quattro grandi non ebbero i
risultati sperati. Un’azione portata a buon fine fu condotta sui paesi latino-americani
per influire direttamente sugli alleati in vista di un eventuale deferimento della
questione all’ONU, dato che un compatto atteggiamento di questi governi avrebbe
favorevolmente incoraggiato il governo brasiliano a sostenere le tesi italiane già alla
Conferenza dei Ventuno
Dal 10 Agosto, De Gasperi si trovava a Parigi per il discorso davanti alla
seduta plenaria e, dopo aver descritto ciò che l’Italia si aspettava da tale trattato,
decise di incontrare personalmente i Ministri degli Esteri dei quattro grandi e alcune
delegazioni di altri stati sulla questione coloniale e del Venezia Giulia. Il 19 Agosto,
l’Italia presentava il suo memorandum sulle clausole del progetto di trattato relative
ai territori italiani in Africa, proponendone la modifica per tenere conto degli
interessi della penisola in questi territori, affidando una parte dell’amministrazione a
funzionari italiani.
Il 23 Settembre, Bonomi, di fronte alla Commissione politico-territoriale,
disse che la rinuncia immediata e preliminare dell’Italia ai suoi diritti e titoli su quei
territori avrebbe creato problemi pratici e un vuoto giuridico di un anno, osservando
che nei territori occupati doveva essere mantenuta l’amministrazione locale sotto il
controllo militare dello stato occupante. Concludendo, Bonomi chiese che l’Italia
rimanesse in suddetti territori per continuare a condurre il loro pieno sviluppo
economico e politico, nell’interesse degli abitanti delle colonie67.
All’interno della Commissione politico-territoriale, la questione coloniale
italiana fu dibattuta tra il 23 e 25 Settembre, e la discussione verteva sugli
emendamenti all’articolo 17 proposti da alcuni paesi membri. Modifiche che, nella
maggioranza dei casi, vennero ritirate dalle delegazione e restarono in piedi
l’emendamento brasiliano, che si rifaceva al memorandum italiano del 19 Agosto, e
quello neozelandese, che proponeva l’ONU e non i quattro grandi per decidere
definitivamente del futuro delle colonie italiane. Votati il 25 Settembre, essi vennero
respinti e, successivamente fu messo ai voti l’articolo 17, approvato con una
schiacciante maggioranza. Rinviata all’Assemblea plenaria la decisione finale, la
discussione continuò, tra il 7 e il 9 Ottobre, con la disquisizione dei singoli articoli
del progetto di trattato, con l’approvazione dell’articolo 17 che, a questo punto, era
difficile rimettere in discussione nella sessione di New York del Consiglio dei

67
Ibid., pp. 249-262.

144
ministri degli Esteri da parte del governo italiano. Nessun mutamento avvenne alla
sessione in terra statunitense e delle clausole coloniali se ne riparlò solamente l’11
Dicembre, per concordare la data in cui la Commissione d’inchiesta avrebbe
cominciato a funzionare: il 10 Febbraio 1947 per la nomina dei commissari, per
l’entrata in vigore del trattato e per l’inizio dei lavori. Oltre a ciò, le uniche
modifiche riguardarono l’articolo che dal diciassettesimo divenne il ventitreesimo e
la dichiarazione del 12 Luglio del 1946 che fu inserita come allegato XI all’interno
del trattato68.

3.2.6 Il tentativo di un’intesa tra le quattro grandi potenze (Marzo 1947-Settembre


1948)

A meno di un mese dalla firma del trattato di pace a Parigi, il 10 Febbraio


1947, si registrò il tentativo britannico di proporre alle altre potenze, come previsto
dalla procedura dell’allegato XI, di riunire entro la fine del Marzo 1947 a Londra i
sostituti affinché, con l’entrata in vigore del trattato con l’Italia, concordassero le
istruzioni per la Commissione d’indagine da inviare nei possedimenti italiani in
Africa e le modalità per l’audizione dei pareri degli altri governi interessati. Tale
iniziativa indicava che il Regno Unito desiderava sollecitare la definizione della
questione per propri tornaconti personali, come la fine del regime di occupazione
inglese che costava molto alle casse dello stato di sua maestà e l’assicurazione di
avere le basi cirenaiche, in relazione alle problematiche con l’Egitto riguardo il
Canale di Suez. In ogni caso, si voleva dare il tempo necessario al Consiglio dei
ministri degli Esteri per raggiungere un accordo entro i tempi previsti, così da evitare
il rinvio del tema coloniale all’ONU. La conferenza, però, dovette essere rinviata per
la non partecipazione sovietica prima dell’entrata in vigore del trattato italiano e,
l’atteggiamento dilatorio di Mosca, fornì ai tre governi occidentali l’occasione per
confrontare le rispettive posizioni anche al di là delle pure questioni procedurali,
riunendo a Londra, durante l’estate del 1947, i sostituti con i propri consiglieri per
una serie di conversazioni preliminari sull’argomento69.
Durante gli incontri non si registrò nella posizione francese nessuna modifica,
dato che il governo di Parigi aveva tutto l’interesse a che l’Italia venisse restaurata

68
Ibid., pp. 263-268.
69
Ibid., pp. 277-278.

145
nella sua giusta posizione negli affari mondiali. Risultò invece che gli inglesi
avevano rinunciato definitivamente alla grande Somalia, a causa dell’impossibilità di
indurre l’Etiopia a cedere l’Ogaden, orientandosi, in primo luogo, verso un
trusteeship britannico per la Somalia italiana, su cui molti funzionari del Foreign
Office dissentivano, a causa dei gravosi oneri finanziari, e, successivamente, verso
un trusteeship italiano come incoraggiamento verso la nuova Italia democratica e
repubblicana. Anche il Colonial Office riteneva meno opinabile un ritorno italiano in
Somalia, per la minore opposizione locale, per la difficoltà a trovare soluzioni
alternative e perché non era possibile insistere contemporaneamente per questo
territorio e la Cirenaica, l’obiettivo prioritario indicato dal governo britannico.
Sostanzialmente immutata resta la posizione inglese sull’Eritrea, da spartire tra
Sudan ed Etiopia, e sulla Tripolitania, il cui obiettivo primario era l’esclusione
dell’Unione Sovietica da qualsiasi ambito di amministrazione fiduciaria70.
Il futuro delle ex colonie italiane, dopo la firma del trattato di pace, veniva ad
inserirsi nel quadro del progressivo deterioramento dei rapporti tra le tre potenze
occidentali e l’Unione Sovietica, ed era inevitabile che le decisioni di politica estera
finissero per essere condizionate dalle preoccupazioni strategiche e militari per
contrastare l’espansionismo sovietico. A causa di ciò, la formula del mandato
plurimo non era più di primaria importanza per il Dipartimento di Stato, dato che
significava l’ingerenza sovietica nell’amministrazione delle ex colonie italiane,
portando gli statunitensi a cercare un allineamento con le posizioni britanniche
nell’area africana e mediorientale, scaturendo nuove difficoltà nel fissare proposte
definitive sulla questione.
Questa situazione portò, nell’Ottobre del 1947, ad una serie di rivisitazioni
dei progetti precedenti da parte del Dipartimento di Stato, coadiuvato da alti
esponenti militari, affinché la Cirenaica venisse data in amministrazione ai britannici,
ma restava aperta la questione tripolina, con l’Eritrea che andava spartita tra Sudan
ed Etiopia e veniva presa in considerazione l’eventualità di un trusteeship singolo
britannico sulla Somalia. Gli inglesi, invece, ritennero che per escludere i sovietici
dalla corsa alla Tripolitania si potesse avanzare la richiesta di un trusteeship
statunitense sulla regione libica mentre per la Somalia si consolidava la tesi di
un’amministrazione fiduciaria italiana, in relazione ad un generale riavvicinamento
diplomatico tra Italia e Regno Unito e allo spostamento della penisola nella sfera

70
Ibid., pp. 279-282.

146
occidentale. Le due delegazioni, il 16 Ottobre 1947, si incontrarono al Pentagono per
discutere di una linea comune, trovandosi d’accordo per un mandato britannico in
Cirenaica, così da mantenere basi alleate su quel territorio, mentre per le altre ex
colonie si raccomandava un atteggiamento più positivo ed aperto nei confronti degli
italiani, data la posizione strategica della penisola all’interno del bacino del
Mediterraneo. Al termine dell’incontro le posizioni delle due delegazioni non erano
ancora definite e pienamente coincidenti, se non nel reciproco impegno a consultarsi
regolarmente e nell’ostacolare l’installazione dell’URSS in una delle ex colonie
italiane71.
L’Italia, dopo la firma del trattato di pace, cercò di effettuare pressioni sul
Foreign Office, dato che non vi era incompatibilità alcuna tra il ritorno italiano in
Africa e gli interessi britannici sul continente, e sul Dipartimento di Stato, al quale
Tarchiani riferì che dare soddisfazione alla penisola significava contribuire a
mantenere un orientamento filo-occidentale delle sue istituzioni. Questa azione
diplomatica fu accompagnata, nei primi mesi del 1947, da una nota inviata dal
Ministro degli Esteri Sforza che invocava una revisione del trattato, ribadiva la
richiesta di trusteeship sulle colonie prefasciste affinché l’Italia realizzasse un regime
democratico in quei territori, con la collaborazione di arabi ed africani. Il Ministro
Sforza sembrava ondeggiare tra il desiderio di tenere conto di una nuova realtà che si
andava affermando e di cui sembrava consapevole, e la difesa, spesso anacronistica e
poco realistica, delle posizioni italiane in Africa. Ci furono contatti con alcuni
esponenti libici e della Lega araba, ma al di là di alcuni confronti non si andò per il
timore di essere accusati di doppio gioco da inglesi e francesi, ricordando
nuovamente che era necessario riprendere le vecchie colonie per un problema
demografico nazionale72.
Un memorandum confidenziale indirizzato al Foreign Office, ai primi di
Ottobre del 1947, fu l’inizio di una nuova offensiva diplomatica italiana per il ritorno
in Africa, in quanto veniva prospettato come interesse europeo, date le esigenze
britanniche sugli ex possedimenti coloniali, riprendendo i soliti temi demografici,
economici e sentimentali. Questa nuova impostazione nascondeva concezioni
anacronistiche e dimostrava che, la nuova strada impostata dal ministro Sforza, non
voleva trarre le logiche conseguenze di ciò che stava accadendo nel mondo coloniale.

71
Ibid., pp. 283-293.
72
Ibid., pp. 294-301.

147
La nuova linea italiana non venne accolta favorevolmente dai britannici
poiché si chiedeva nuovamente l’amministrazione di tutte le ex colonie e veniva
seguita la vecchia impostazione demografica del problema. La nota di Palazzo Chigi
precedette il viaggio del ministro Sforza a Londra, alla fine di Ottobre, dove fu
sollevato il problema coloniale, con il risultato di una generica promessa inglese con
la quale l’amministrazione militare avrebbe abbandonato la linea della durezza e che
prima di qualsiasi decisione si doveva aspettare le conclusione della Commissione
d’inchiesta73.
Il 3 Ottobre a Londra, con la riunione dei sostituti, prese avvio la procedura
prevista dell’Allegato XI del trattato italiano, affrontando l’interpretazione da dare
all’espressione “altri governi interessati”, alla stesura delle istruzioni per i membri
della Commissione d’inchiesta e le audizioni riservate ai rappresentanti dell’Etiopia,
dell’Italia e dell’Egitto. Il 7 Ottobre si adottò la proposta sovietica che intendeva con
tale frase le potenze alleate74, ed associate, firmatarie del trattato di pace italiano e, il
20 Ottobre, si decise che i governi interessati venissero ascoltati attraverso semplici
audizioni di pareri e, nello stesso giorno, furono approvate le istruzioni per la
Commissione d’inchiesta, che doveva raccogliere i dati sulla situazione politico-
economica dei territori, sondare i sentimenti delle popolazioni, senza contenere
alcuna raccomandazione circa l’assetto finale dei territori, e presentare i rapporti ai
sostituti non oltre il Giugno 1948.
Mentre la Commissione avrebbe svolto il suo compito tra il Novembre 1947 e
il Giugno 1948, i sostituti avrebbero ascoltato i pareri degli altri governi interessati,
ad iniziare dal vice Ministro degli Esteri etiopico, il 12 Novembre, che aveva
rinnovato ai sostituti la richiesta di restituzione dell’Eritrea e della Somalia
all’Etiopia, passando poi, il 19 Novembre, al rappresentante italiano,il nuovo
ambasciatore a Londra Gallarati Scotti, che dedicò gran parte del suo intervento ad
elogiare l’amministrazione italiana dei territori che aveva reso vantaggio alle
popolazioni locali. Infine, il 21 Novembre, il rappresentante egiziano lesse di fronte
ai supplenti un lungo promemoria in cui chiedeva il diritto di autodecisione per la
Somalia e confermava la proposta di indipendenza immediata e completa per la

73
Ibid., pp. 302-305.
74
Ne facevano parte, oltre alle quattro grandi potenze, anche: Australia, Belgio, Bielorussia, Brasile,
Canada, Cecoslovacchia, Cina, Etiopia, Grecia, India, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Ucraina,
Unione Sudafricana, Jugoslavia, Egitto e Italia.

148
Libia. Le dichiarazioni furono trasmesse dai sostituti, assieme alla documentazione
presentata dai rappresentanti dei governi interessati, alla Commissione d’inchiesta,
con la raccomandazione di esaminare se i dati e i fatti in esse citati fossero in
contrasto con quelli accertabili sul posto e, il 22 Novembre, deliberavano
l’aggiornamento della conferenza75.
L’azione della diplomazia italiana fu frenata dagli accertamenti della
Commissione quadripartita all’interno delle ex colonie e dall’accensione delle
tensioni latenti all’interno di questi territori, come ad esempio l’eccidio di decine di
italiani a Mogadiscio, l’11 Gennaio 1948, durante una manifestazione della Lega dei
Giovani Somali. Un altro punto a sfavore arrivò dalla Conferenza dei sostituti
quando, il 2 Febbraio, il sostituto britannico Charles, sottopose all’attenzione dei
presenti una nota riguardante la località di Bender Ziade, al confine tra la Somalia
italiana e il Somaliland britannico, proponendo immediate istruzioni affinché questa
località venisse incorporata in quest’ultimo territorio. A questa richiesta aderirono i
sostituti americano e francese ma ad essa si oppose il sostituto sovietico, la cui
proposta di chiedere al governo italiano un parere scritto sulla questione, prima di
incaricare la commissione di esaminarla, fu adottata76.
La delegazione sovietica, inoltre, chiese, il 15 Febbraio 1948,
l’amministrazione fiduciaria italiana per le tre colonie prefasciste, cercando di
avvantaggiare il fronte delle sinistre nella campagna elettorale in svolgimento in
Italia in vista delle elezioni nazionali del 18 Aprile. L’eventuale vittoria comunista e
il passaggio italiano sotto l’influenza sovietica allarmarono le potenze occidentali e
indussero gli statunitensi a sostenere sempre più attivamente il governo De Gasperi,
con aiuti economici e dichiarazioni di vario genere che, però, non toccarono mai né
la questione delle ex colonie né l’adesione alle richieste italiane da parte di Stati
Uniti e Gran Bretagna. Con la vittoria della Democrazia Cristiana, cadde ogni timore
anglo-americano e, da parte italiana, si cercò di barattare l’entrata della penisola nei
sistemi occidentali con il problema coloniale ma, si capì, che ciò non avrebbe fruttato
alcun vantaggio77.
La Commissione d’inchiesta, nella seconda metà del Maggio 1948, concluse i
suoi lavori, stendendo il rapporto finale sulla Libia. I risultati dovevano considerarsi

75
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 306-313.
76
Ibid., pp. 314-320.
77
Ibid., pp. 355-366.

149
come indicativi dei desideri delle popolazioni, ma non mancarono apprezzamenti
critici sull’attendibilità delle deposizioni raccolte. La Commissione, in maniera
unanime, constatò che non c’erano le condizioni necessarie per una piena ed
immediata indipendenza perché le popolazioni denunciavano una marcata carenza di
maturità politica e uno scarsissimo sviluppo economico.
La Commissione, dopo aver esposto i dossier, consentì agli altri governi
invitati a presentare le loro osservazioni sulle risultanze dell’inchiesta fra il 30 Luglio
e il 7 Agosto 1948, per trarre nuovi spunti e motivi a sostegno delle proprie tesi.
Gallarati Scotti, il 30 Luglio, richiese davanti ai sostituti l’amministrazione fiduciaria
italiana su Libia, Eritrea e Somalia, richiamando le conclusioni della Commissione, il
buon lavoro svolto nelle colonie e le simpatie delle popolazioni locali per gli italiani
e che, in caso di trusteeship, l’Italia si sarebbe richiamata agli statuti preliminarmente
fissati dalle Nazioni Unite. Il rappresentante etiope, invece, fece registrare una
novità: per la prima volta l’Etiopia rinunciava alle sue pretese sulla Somalia e non vi
accennava neppure. L’altro paese che avanzava pretese territoriali era l’Egitto, che
non mancò di ribadire il suo precedente punto di vista: indipendenza o trusteeship da
assegnare ad un paese membro della Lega araba e rettifiche di frontiera a suo favore
sulla Libia; cessione di Massaua all’Egitto; autodeterminazione per l’Eritrea e la
Somalia.
Gli altri governi espressero i loro punti di vista e ciò non era da trascurare alla
vigilia della scadenza del termine previsto dal trattato di pace, nella facile previsione
che le quattro potenze non sarebbero arrivate ad una conclusione comune, rinviando
la questione all’ONU. Dalle dichiarazioni di tali governi potevano invero dedursi una
diffusa propensione per il trusteeship, piuttosto che per l’indipendenza, e una certa
comprensione per le rivendicazioni italiane, o almeno per una parte di esse78.
I governi di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si consultarono per oltre un
mese, a partire dal 26 Luglio, sul futuro degli ex possedimenti italiani, ma
conseguirono solo in minima parte gli effetti sperati. Se fu confermata l’intesa per il
trusteeship italiano in Somalia, nessun accordo si raggiunse sulla Tripolitania e
sull’Eritrea e, con la facile previsione che i francesi non avrebbero abbandonato il
loro tradizionale punto di vista, dimostravano la difficoltà di conciliare le loro
posizioni sulle raccomandazioni dei sostituti.

78
Ibid., pp. 367-379.

150
Alla vigilia dell’incontro tripartito si era registrato, per la Libia, un parziale
allineamento dei francesi sulle posizioni degli anglo-americani, aderendo al
trusteeship britannico in Cirenaica se veniva accettato quello francese sul Fezzan. Se
su questi due territori c’era un accordo di massima, sulla questione della Tripolitania
erano difficili da conciliare le posizioni di Londra e Washington con quella di Parigi,
favorevole al mandato fiduciario italiano. Stando così le cose, il Segretario di Stato
Marshall propose il rinvio della questione, con il vantaggio di non scoprirsi di fronte
al governo italiano e, ritenendo plausibile che l’Assemblea generale avrebbe respinto
il trusteeship britannico in Cirenaica, suggerì il rinvio per l’intera Libia. Da parte
inglese non si voleva rinunciare al territorio cirenaico e chiese l’appoggio americano
per risolvere subito la questione mentre per l’Eritrea non si arrivò a nessun
compromesso, anche se c’era una estrema riluttanza a consentire all’Italia di tornare
su entrambe le frontiere dell’Etiopia79.
Il rapporto contenente le raccomandazioni per i Ministri degli Esteri, messo a
punto dai sostituti alla fine dell’Agosto 1948, si presentava come un elenco di
diverse proposte avanzate durante le varie audizioni delle quattro potenze, senza che
si giungesse ad un accordo finale. Era arduo pensare che i quattro Ministri degli
Esteri potessero concordare una soluzione entro il termine del 15 Settembre,
riuscendo a conciliare i progetti fin li proposti. Arenatisi i lavori, con l’Unione
Sovietica che cercava di rinviare la questione alle Nazioni Unite per indebolire gli
occidentali, i quattro rinunciavano a trattare ulteriormente e decisero di rimettersi
all’ONU e, alla scadenza dei termini, il Consiglio approvava la lettera con la quale si
comunicava al Segretario delle Nazioni Unite, Trygve Lie, che “la questione della
sorte delle ex colonie italiane è deferita all’Assemblea Generale, in conformità
all’articolo 23, paragrafo 3 dell’allegato XI del trattato di pace con l’Italia, affinché
l’Assemblea possa esaminare la questione nel corso della prossima sessione che si
inizia il 21 Settembre”80. Allo stesso tempo venne deciso di trasmettere alle Nazioni
Unite i rapporti della Commissione d’inchiesta e le raccomandazioni dei sostituti.

79
Ibid., pp. 380-388.
80
Testo in «Relazioni Internazionali», 1948, p. 639.

151
3.2.7 Il compromesso italo – inglese tra Bevin e Sforza

Con il rinvio della questione degli ex possedimenti italiani in Africa,


l’Assemblea generale era chiamata a svolgere un ruolo determinante sulla loro sorte,
dato che il suo giudizio avrebbe avuto un carattere vincolante per effetto di un
accordo tra le quattro potenze, anche se ciò non spogliava quest’ultimi dei poteri che
avevano assunto in tale materia. Alle Nazioni Unite la ricerca di una soluzione non si
presentava semplice, per via della maggioranza dei due terzi richiesta alla delibera
che costrinse l’Assemblea, già nella seduta del 24 Settembre 1948, al rinvio della
questione al primo Comitato, competente in materia politica e di sicurezza. A
margine di questa sessione di lavori, da parte italiana fu mantenuta la tesi minima
consistente nell’assegnazione immediata dell’amministrazione fiduciaria della
Somalia e il rinvio per il resto delle ex colonie, senza pregiudicare nulla.
Nell’autunno del 1948 il governo etiopico aumentò i contatti con gli anglo-
americani, ricevendo una conferma da Marshall sulla cessione di Massaua ed Asmara
all’Etiopia senza però metterlo per iscritto e anche gli stessi rapporti con i britannici
migliorarono dopo che, in Settembre, l’Ogaden venne restituito alle autorità etiopi,
senza però modifiche sostanziali al progetto di trusteeship temporaneo per l’Eritrea81.
L’azione anglo-americana conseguì dei risultati tra gli stati membri più
favorevoli alle tesi italiane poiché, la formula concordata dai delegati sudamericani, a
margine dei lavori assembleari, era basata sull’assegnazione del trusteehip somalo e
tripolino all’Italia, mentre la Cirenaica veniva assegnata all’Inghilterra e il Fezzan
alla Francia. Passando all’Eritrea, la maggioranza del gruppo era favorevole ad
affidarla all’Italia, salvo la parte meridionale da cedere all’Etiopia. Il governo
italiano, nell’impossibilità di far accogliere la propria proposta agli anglo-americani,
spinse per il rinvio dell’intera questione alla sessione primaverile del 1949, per paura
delle ripercussioni interne e sull’opinione pubblica circa l’esito dei lavori alle
Nazioni Unite. Da parte italiana, quindi, ci si preoccupò di mobiliate le delegazioni
amiche al fine di bloccare le proposte britanniche e statunitensi, considerate
catastrofiche a Roma.
La spinta decisiva al rinvio della questione venne dallo stesso Comitato
politico che, essendo pieno di ordini del giorno, non poteva affrontare la questione
con la massima attenzione nella sessione in corso e, nonostante la contrarietà del

81
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 397-404.

152
delegato sovietico e di quello britannico, fu rinviata alla seconda parte della terza
sessione dell’Assemblea generale, prevista per la primavera successiva. Il rinvio fu
accolto con soddisfazione dal Ministero degli Esteri perché era un successo della
diplomazia italiana e di una certa sua influenza, che le avrebbe consentito di bloccare
alle Nazioni Unite le soluzioni da essa non desiderate, nonostante non fosse un
membro dell’ONU. Un successo temporaneo, come commentato da Sforza, poiché i
paesi ostili alle tesi italiane avrebbero utilizzato il tempo a disposizione per
guadagnare più consensi possibili82.
Nei mesi disponibili tra il rinvio della questione e la ripresa dei lavori
assembleari, Palazzo Chigi cercò di consolidare l’appoggio dei paesi amici e di far
recedere Gran Bretagna e Stati Uniti dai loro progetti su Libia ed Eritrea. Per il
Ministro Sforza la chiave del problema era Londra e, nei colloqui tra l’ambasciatore
Gallarati Scotti e Bevin, il 16 Dicembre 1948, si percepì, da parte inglese, una certa
simpatia per le aspirazioni etiopiche sull’Eritrea e la viva preoccupazione per i gravi
disordini che comporterebbe il ritorno italiano in Tripolitania. In seguito ai colloqui
con i francesi, quest’ultimi offrirono la loro mediazione con gli anglo-americani e gli
italiani erano pronti a fare delle concessioni, con il Ministro Sforza che dichiarò la
disponibilità a rinunciare ad una parte dell’Eritrea. Con questa nuova strategia,
all’inizio del 1949, Palazzo Chigi inviò nuove istruzioni a Gallarati Scotti per
preparare un memorandum da presentare a Bevin, su un possibile mandato italiano o,
in alternativa, a discutere il conferimento dell’amministrazione fiduciaria alla
nascente Unione Europea, con l’intesa che sarebbe stata l’Italia ad esercitarlo in
nome dell’Europa. Sulla Tripolitania, invece, si chiedeva l’apertura di negoziati con
esponenti arabi, in vista di un accordo per l’immediata costituzione di uno stato
tripolino al quale l’Italia avrebbe prestato il suo appoggio, attraverso la conclusione
di un trattato italo-tripolitano, la possibilità di creare un vincolo federativo tra le
diverse componenti territoriali della Libia per soddisfare l’aspirazione della Lega
araba al mantenimento dell’unità libica.
Il completo silenzio su Cirenaica, Somalia e Fezzan, indicava un’adesione di
massima alle tesi inglesi su questi territori e quindi Palazzo Chigi concentrava la sua
azione sui due problemi che restavano il nocciolo dell’intera questione coloniale. I
due territori, però, erano al centro degli obiettivi strategici degli anglo-americani e
non si potevano inimicare, nel caso della Tripolitania, la popolazione araba, contraria

82
Ibid., pp. 405-414.

153
ad un ritorno italiano nella regione libica e nel caso dell’Eritrea un forte alleato
nell’Africa orientale come l’Etiopia. A prescindere dall’impegno di tutelare le
collettività italiane nei due territori, il trusteeship in Somalia costituiva ancora per gli
anglo-americani il massimo che si potesse accordare all’Italia83.
La terza sessione ordinaria dell’Assemblea generale si riunì a Lake Success
(New York) nell’Aprile del 1949 e la questione delle ex colonie italiane fu subito
affrontata dal Comitato politico, al quale era stata deferita, come descritto in
precedenza, fin dall’autunno del 1948. Per un mese, a partire dal 6 Aprile, si
alternarono le varie delegazioni nella presentazione dei propri punti di vista e si notò
subito l’estrema difficoltà a giungere ad un progetto unitario che raggiungesse la
maggioranza dei due terzi dell’Assemblea, a causa delle divergenze tra il gruppo
anglosassone e quello latino-americano circa il futuro dei territori libici, mentre
ormai si era creata una certa convergenza verso il trusteeship italiano in Somalia e le
aspirazioni etiopi sull’Eritrea.
Gli interventi di Dulles e McNeil, in apertura del dibattito, confermarono le
proposte concordate dalle due delegazioni nell’estate del 1948: amministrazione
italiana in Somalia, la cessione all’Etiopia dell’Eritrea orientale, comprese Asmara e
Massaua, una decisione a parte per la regione occidentale eritrea strettamente legata
al Sudan, l’amministrazione inglese in Cirenaica e il rinvio per la Tripolitania. Le
proposte avanzate da de Chauvel rilevarono che non era stata trovata un’intesa tra le
tre potenze occidentali, dato che i francesi raccomandavano la restituzione all’Italia,
sotto il controllo fiduciario dell’ONU, della Somalia, della Libia e dell’Eritrea
mentre certamente più remota era la possibilità di un compromesso tra occidentali e
sovietici, in una fase in cui la tensione Est-Ovest aveva ricevuto nuovo impulso dalla
conclusione del Patto atlantico, poiché quest’ultimi, tramite l’ambasciatore
Gromkyo, confermarono la proposta di trusteeship diretto delle Nazioni Unite su
tutte le ex colonie, formulata da Vishinski alla Conferenza parigina dei Ministri degli
Esteri il 14 Settembre 1948. A tale progetto aderirono interamente i cinque paesi
dell’Europa orientale84 e, sia pure in termini più generici e con qualche variazione,
l’India, il Pakistan, la Birmania, la Liberia e la Cina.
Al Comitato politico, l’11 Aprile, intervenne il Ministro degli Esteri Sforza,
che ricordò un generale orientamento per il mandato italiano in Somalia e la

83
Ibid., pp. 415-437.
84
Bielorussia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia e Ucraina.

154
contrarietà del governo italiano ad una cessione dell’Eritrea all’Etiopia, proponendo
un mandato italiano oppure il rinvio della questione, mentre per la Tripolitania
avanzava la candidatura del proprio paese all’amministrazione fiduciaria.
Successivamente, fu la volta delle principali organizzazioni politiche locali delle ex
colonie italiane, i cui interventi confermarono che non esisteva un orientamento
unanime in nessuno dei territori e le loro proposte non avrebbero inciso sul lavoro
del Comitato politico85.
La costatazione delle difficoltà a trovare una formula compromissoria tra il
gruppo anglo-sassone e quello latino-americano, convinsero Sforza a cercare un
dialogo diretto con i britannici per sistemare la situazione libica perché solo con i
voti favorevoli all’Italia, la Gran Bretagna poteva assicurarsi la maggioranza
necessaria per il trusteeship sulla Cirenaica. Determinante per la situazione fu la
scelta di opporsi al mandato britannico in Cirenaica se non fosse stata risolta in
favore dell’Italia la situazione in Tripolitania, decisione adottata dai delegati latino-
americani il 28 Aprile che, in via alternativa, su iniziativa del brasiliano Muniz,
proposero un progetto di sostanziale rinvio di ogni decisione in base al quale sarebbe
stata costituita, per ciascuna colonia, una commissione di cinque paesi con il compito
di studiare i termini dell’amministrazione fiduciaria e della futura indipendenza86.
Prendendo a balzo la situazione di stallo, il Ministro Sforza si recò a Londra a
trattare direttamente con Bevin, cercando una soluzione che, tra il 5 e il 6 Maggio
1949, venne raggiunta faticosamente e fu così strutturata:
a) per la Libia, trusteeship britannico sulla Cirenaica, francese sul Fezzan ed italiano
in Tripolitania. Nel periodo di transizione continuerà l’amministrazione britannica
che sarà assistita da un Consiglio consultivo composto da Stati Uniti, Regno Unito,
Francia, Italia, Egitto (o altro stato arabo) e da un rappresentante della popolazione
locale.
b) L’Eritrea, ad eccezione delle provincie occidentali, sarà ceduta all’Etiopia che,
mediante un trattato con le Nazioni Unite, darà garanzia di uno speciale statuto per le
città di Asmara e Massaua. Le provincie occidentali saranno incorporate nel vicino
Sudan mentre la Somalia sarà sottoposta ad un trusteeship internazionale e l’Italia ne
sarà la potenza amministratrice.

85
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 438-448.
86
Ibid., pp. 449-453.

155
Questo compromesso provocò reazioni negative in Libia, all’interno
dell’opinione pubblica italiana e della stampa della penisola, causata dall’illusione
dei governanti italiani di una ben diversa sistemazione della questione italiana e
all’interno del gruppo latino-americano, per la procedura adottata. Anche gli inglesi
stessi erano dubbiosi circa l’opportunità di presentare il progetto al Comitato
Politico, dato che era un accordo bilaterale stipulato al di fuori dell’ONU87.
Il 9 Maggio, allo scopo di superare il punto morto, Dulles suggeriva di
costituire un Sottocomitato di 16 membri con l’incarico di vagliare le diverse
proposte e di presentare al Comitato politico un progetto di risoluzione non oltre il 12
Maggio. Approvato il suo suggerimento, il giorno successivo il Sottocomitato si riunì
e decise di discutere, in via preliminare, l’ipotesi dell’indipendenza immediata e,
mancando l’accordo su di essa, il tipo di trusteeship da applicare ai territori in
questione. Infine, in ultima istanza, si sarebbe discusso in merito al rinvio ad una
successiva sessione dell’Assemblea generale. Essendo stato inoltre deciso di
discutere le suddette soluzioni territorio per territorio, fu affrontata anzitutto la
questione libica. Furono scartate sia la proposta di indipendenza immediata che
quella di trusteeship diretto delle Nazioni Unite e, nel momento in cui il
Sottocomitato si accingeva a discutere il progetto di trusteeship singolo, Clutton
interloquì dicendo che dopo la presentazione del suo progetto il 3 Maggio, la
delegazione britannica aveva preso in esame nuove formule suscettibili di essere
accolte dai latino-americani, sintetizzando il contenuto dell’intesa raggiunta e
presentando, nella seduta pomeridiana del 10 Maggio, le nuove proposte per iscritto,
ricalcando l’accordo trovato sulla Libia con l’Italia. Il progetto di risoluzione globale
fu approvato dal Sottocomitato con 10 voti favorevoli, 4 contrari e 1 astenuto, un po’
più di difficoltà ci fu per la questione libica, a cui si opposero energicamente i
delegati degli stati dell’Europa orientale, l’Egitto e l’Irak, in quanto la nuova formula
britannica costituiva un tentativo di riportare la questione delle ex colonie italiane sul
terreno delle trattative dirette88.
La questione ritornò all’interno del Comitato politico e il progetto basato sul
compromesso Bevin-Sforza fu oggetto di un acceso dibattito, nelle sedute del 12 e 13
Maggio, al termine del quale furono messe ai voti le proposte di indipendenza
immediata e di trusteeship decennale dell’ONU che furono entrambe respinte. Il

87
Ibid., pp. 454-462.
88
Ibid., pp. 463-465.

156
Comitato, in successione, prese in esame la risoluzione del Sottocomitato,
emendata89 e poi approvata con 34 voti a favore, 16 contrari e 7 astenuti, superando
la maggioranza richiesta dei due terzi, un buon viatico per la successiva
approvazione all’Assemblea generale, il cui dibattito iniziò il 17 Maggio dove la
risoluzione approvata dal Comitato politico fu oggetto di violenti attacchi da parte
dei delegati dell’Europa orientale, generando malumori e timori nelle delegazioni
britanniche ed italiane.
Nella tarda serata del 17 Maggio, cominciarono le votazioni e, se i paragrafi
relativi alla Cirenaica e al Fezzan riportarono la prescritta maggioranza dei due terzi,
ciò non avvenne per quelli pertinenti la Tripolitania e la Somalia. Venendo meno il
progetto compromissorio Bevin-Sforza, l’intero piano non poteva essere accettato
dalle delegazioni latino-americane che, insieme a molte altre, respinse
clamorosamente l’interno progetto. L’Assemblea prese in considerazione le altre
proposte, quella sovietica di trusteeship diretto delle Nazioni Unite e di indipendenza
diretta della Libia da parte dei paesi mediorientali, entrambe respinte. Né sorte
migliore ebbe un progetto che modificava quello latino-americano del 4 Maggio, che
contemplava il rinvio della questione al Comitato ad interim e la costituzione di una
Commissione d’inchiesta che avrebbe formulato delle raccomandazioni da presentare
alla successiva sessione dell’Assemblea90. Fu infine adottata a larghissima
maggioranza una risoluzione polacca che prevedeva il puro e semplice rinvio
dell’intera questione della disposizione delle ex colonie italiane alla quarta sessione
regolare dell’Assemblea generale91.

89
Gli emendamenti al piano Bevin-Sforza approvato in Sottocommissione sono: quello norvegese di
indipendenza automatica dopo dieci anni di trusteeship previa deliberazione in questo senso da parte
dell’Assemblea generale; quello britannico di sostituire l’Egitto con la Turchia nel costituendo
Consiglio Consultivo per la Tripolitania; quello etiopico che prevedeva la partecipazione dell’Etiopia
nell’eventuale fissazione di nuovi confini per l’Eritrea. Più sostanziale fu l’abolizione della clausola
relativa alla cessione dell’Eritrea occidentale al Sudan, la cui sorte restava in sospeso; cfr. Rossi,
L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 466-467.
90
Il comitato ad interim, noto anche come “piccola assemblea”, era un organismo ufficioso creato
dalle delegazioni occidentali, in cui l’Urss si oppose alla proposta latino-americana sostenendo
l’incostituzionalità di tale organo. Il delegato inglese vi si oppose per motivi diversi: egli dichiarò che
la presenza di una Commissione d’inchiesta avrebbe creato gravi imbarazzi all’amministrazione
britannica; cfr. Ibid., p. 470.
91
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 466-470.

157
3.2.8 La decisione finale delle Nazioni Unite sulle ex colonie italiane

L’esito negativo della votazione all’Assemblea generale indicò la necessità di


ricercare formule più gradite ad arabi ed asiatici, affinché si potesse raccogliere una
maggioranza meno precaria rispetto al compromesso Bevin-Sforza. Nonostante ciò,
per il Ministro degli Esteri italiano andava ricreata una forma di collaborazione con
gli inglesi per salvare il salvabile delle colonie prefasciste, cercando nuovamente un
accordo sulla falsariga di quello precedente. Gli inglesi, però, non avevano nessun
interesse a riesumare in una forma o nell’altra il compromesso, preferendo rimanere
liberi di agire per propri interessi, riconoscendo ufficialmente il diritto del popolo
cirenaico all’autogoverno, così da poter installare le desiderate postazioni militari.
Bevin sottopose al suo collega americano un progetto di dichiarazione
sull’autogoverno della Cirenaica ma il Dipartimento di Stato avrebbe dichiarato che
il provvedimento preso dalla Gran Bretagna non pregiudica in alcun modo il diritto
delle Nazioni Unite di decidere in merito sulla questione92.
La notizia della dichiarazione britannica sulla Cirenaica non prese alla
sprovvista il governo di Roma, dato che Palazzo Chigi aveva diramato un
comunicato in cui l’Italia dava il suo appoggio al desiderio di autogoverno e di
indipendenza nei riguardi dell’Eritrea e della Tripolitania. L’atteggiamento italiano
era già stato modificato dal Ministero degli Esteri prima della comunicazione inglese
poiché si considerava l’accordo Bevin-Sforza come l’ultima trincea a difesa delle
posizioni italiane, ed era ormai impensabile riproporlo negli stessi termini
all’Assemblea generale di Settembre e, perciò, gli andava data una veste nuova. È
anche vero che l’Italia avrebbe potuto bloccare nuovamente, come già accaduto in
precedenza, qualsiasi proposta che non fosse stata di suo gradimento, ma una simile
posizione non conveniva più al governo di Roma, per ragioni interne ed
internazionali.
La nuova strategia italiana aveva il pregio di portare l’Italia alla testa del
movimento anticolonialista, avrebbe salvaguardato assai meglio i suoi interessi
politici ed economici in quei territori e la presenza di consistenze comunità di italiani
in Tripolitania ed Eritrea avrebbe assicurato una posizione di primo piano e una
favorevole politica commerciale. Inoltre, la nuova tattica conteneva l’obiettivo di una
politica collaborativa con i paesi arabi, incoraggiando quest’ultimi in un

92
Ibid., pp. 479-487.

158
atteggiamento più favorevole al trusteeship italiano in Somalia. Infine, avrebbero
consentito al governo italiano di chiudere al più presto la partita coloniale e di
liquidare definitivamente una pendenza della guerra che non aveva certo giovato ai
rapporti con il Regno Unito e con gli altri paesi europei93.
Un nuovo tentativo con gli inglesi fu tentato il 6 Giugno, quando Palazzo
Chigi indirizzò all’ambasciata britannica a Roma una nota che illustrava,
nuovamente, il punto di vista italiano sulla Libia e la creazione di due stati distinti
che avrebbero concordato la forma della loro associazione con l’Italia e la Gran
Bretagna. Il Foreign Office replicò di essere disposto a discutere la questione,
invitando Palazzo Chigi a precisare in via preliminare l’autorità che avrebbe dovuto
sovraintendere all’insediamento del governo tripolino con il quale l’Italia sarebbe
entrata poi in relazioni, le misure da adottare nel periodo transitorio fino
all’autogoverno e i punti principali del trattato che avrebbe regolato l’associazione
con l’Italia. Il 24 Giugno, Sforza chiariva che: il governo tripolino sarebbe stato
designato da un’Assemblea costituente eletta dal popolo, le cui modalità sarebbero
state fissate da una speciale commissione; il trattato italo-tripolino si sarebbe
stipulato in base a liberi negoziati e riguardava la collaborazione politica ed
economica, il reciproco trattamento doganale, l’assistenza tecnica nei vari rami
dell’amministrazione, la difesa del territorio, il regolamento dei rapporti finanziari tra
i due stati e il contributo del lavoro italiano allo sviluppo del paese. Infine, sull’unità
libica, nonostante il favore degli stati arabi a tale soluzione, non c’era un accordo tra
le parti perché: per gli italiani avrebbe comportato delle difficoltà nei rapporti con la
sola Tripolitania mentre gli inglesi preferivano un Emirato sulla Cirenaica per
controllare più facilmente quel territorio94.
Le posizioni di Roma e Londra sull’Eritrea, invece, erano ritornate
inconciliabili, a causa dell’impossibilità per Bevin di recedere dal progetto di
annessione della quasi totalità del territorio eritreo all’Etiopia. A tale soluzione si
oppose Palazzo Chigi, riaffermando il principio dell’integrità dell’Eritrea e
proponendo, come soluzione ottimale, l’avviamento del paese all’indipendenza con
l’intesa che, non appena le Nazioni Unite avessero approvato questo principio, Italia,
Gran Bretagna ed Etiopia avrebbero elaborato un progetto inteso a darvi attuazione
da sottoporre ad una successiva sessione dell’Assemblea generale. Sforza non mancò

93
Ibid., pp. 488-494.
94
Ibid., pp. 495-497.

159
di manifestare agli americani il sospetto che l’obiettivo fondamentale degli inglesi
era di escludere completamente l’Italia dalla partecipazione allo sviluppo del Nord
Africa e, parallelamente, la diplomazia italiana aveva proposto l’avvio di
conversazioni quadripartite allo scopo di concordare un piano di soluzione comune
per l’imminente sessione dell’ONU, cosa che non andò giù agli statunitensi che si
mostrarono da subito riluttanti e di non essere in grado di ricevere tale programma95.
Il 14 Luglio, i britannici comunicarono agli americani il loro vero progetto
sulla Libia, che partiva dal presupposto di concedere all’interno paese
l’indipendenza, riguadagnando un po’ del prestigio perduto nel mondo arabo. La
Gran Bretagna si sarebbe posta come unica esecutrice delle raccomandazioni delle
Nazioni Unite, sostenendo che stavano già amministrando di fatto il paese e che il
futuro stato dovesse avere una struttura federale, con un ampio grado di autonomia
per la Tripolitania e che il trattato anglo-libico sarebbe stato negoziato nel periodo
transitorio, prima della proclamazione dell’indipendenza. Washington era favorevole
al piano britannico, divergendo solamente sul tipo di unità della Libia, che volevano
unica e non a vocazione federale per proteggere gli interessi militari americani della
zona96.
Gli interessi militari americani portarono quest’ultimi a sostenere
l’annessione dell’Eritrea all’Etiopia, così da poter concludere con quest’ultima un
accordo per l’uso degli impianti militati di Asmara e Massaua, e a fissare la data
d’indipendenza libica al 1 Gennaio 1952, o al massimo alla stessa data del 1953, in
modo da assicurare la protezione degli interessi statunitensi nell’area e per
concludere accordi circa l’uso permanente della base di Wheelus Field. Gli Stati
Uniti, fermo restando che sarebbe toccato alle amministrazioni britanniche e francesi
preparare l’indipendenza libica, avrebbero poi caldeggiato la creazione di un
Consiglio consultivo composto da Gran Bretagna, Francia, Italia, Egitto e Stati
Uniti97.
Nello stesso mese di Luglio, erano iniziate le conversazioni separate tra la
delegazione italiana e britannica a Londra, per concordare una linea politica unica da
portare alla prossima Assemblea generale, riguardante il riconoscimento della
Tripolitania e della Cirenaica come aree di influenza italiana e britannica, chiedendo

95
Ibid., pp. 498-501.
96
Ibid., pp. 502-504.
97
Ivi.

160
che entro sei mesi dalla risoluzione dell’ONU sarebbero state indette libere elezioni
in Tripolitania per formare l’Assemblea costituente e che dopo un anno il paese
avrebbe raggiunto l’indipendenza. L’Italia chiedeva che questo iter costituzionale
fosse condizionato alla conclusione di un trattato di cooperazione italo-tripolitano e,
nella stessa ottica della divisione della Libia in aree di influenza, raccomandava che
l’unità libica venisse congegnata in modo da assicurare ai singoli territori
un’autonomia tale da garantire una speciale posizione all’Italia in Tripolitania, alla
Gran Bretagna in Cirenaica e alla Francia nel Fezzan. Gli inglesi concordarono
pienamente con gli italiani sul principio dell’indipendenza libica ma si mostrarono
contrari all’idea di una Commissione internazionale che avrebbe dovuto vigilare
sull’attuazione del piano e giudicarono troppo breve il periodo transitorio proposto.
Nettamente respinta fu la proposta italiana di indipendenza per l’Eritrea. Il
Foreign Office spiegò che la spartizione di quel territorio serviva a tutelare gli
interessi britannici nella regione, dato che avrebbe contagiato il vicino Sudan. Un
promemoria consegnato ad Alessandrini dallo stesso Bevin alla fine di Agosto,
riassumeva il pensiero britannico in quattro punti:
a) Il governo britannico avrebbe proposto l’indipendenza per la Tripolitania e la
Cirenaica non appena possibile e senza alcun periodo intermedio di trusteeship;
b) la questione dell’unità libica avrebbe dovuto essere decisa dagli stessi abitanti
dopo l’indipendenza e nel frattempo le autorità amministratrici non avrebbero fatto
nulla che potesse pregiudicarla;
c) il governo inglese riconosceva inoltre la speciale posizione della comunità italiana
in Tripolitania e gli stretti legami economici di quel territorio con l’Italia;
d) il governo inglese restava infine favorevole all’incorporazione dell’Eritrea
all’Etiopia, salvo la provincia occidentale da cedere al Sudan mentre era nettamente
contrario all’idea di un’Eritrea indipendente sia per la debolezza economica, sia per
l’eterogeneità linguistica e razziale del territorio;
In altre parole, se era disposta a riconoscere gli interessi economici italiani, la
Gran Bretagna era viceversa decisa ad escludere un ruolo attivo dell’Italia nella fase
di preparazione all’indipendenza. Gli inglesi intendevano riservare unicamente a sé
questo ruolo in Tripolitania, come in Cirenaica, con o senza Consiglio consultivo
perché temevano una nuova reazione araba e perché, in una prospettiva di lungo
periodo, preferivano che in quel paese si affermasse stabilmente un’influenza
britannica o americana, piuttosto che italiana. Gli inglesi non riconoscevano più quel

161
parallelismo tra la posizione inglese in Cirenaica e italiana in Tripolitania, che aveva
rappresentato per gli italiani la vera sostanza del compromesso di Maggio. Al di là di
queste divergenze, l’allineamento di Roma, Londra e Washington sul principio
dell’indipendenza risolveva virtualmente la questione libica. Determinante era il
punto di vista italiano: soprattutto perché ad esso avrebbero aderito numerosi paesi e,
nel corso dell’estate, gli italiani si adoperarono per ottenere dai governi latino-
americani la conferma del loro appoggio alla nuova tesi indipendentista per la Libia,
come per l’Eritrea, oltretutto più consona alle tradizioni storiche del continente
sudamericano98.
Chi non si adattò facilmente al principio dell’indipendenza libica furono i
francesi, per paura di possibili contraccolpi indipendentisti nelle proprie colonie
nordafricane e, se gli statunitensi e gli inglesi non desideravano deteriorare i loro
rapporti con la Francia, non potevano neanche rinviare l’indipendenza della Libia.
Né maggiore entusiasmo suscitava negli anglo-americani l’idea francese di dare vita
ad un organismo internazionale, dotato di ampi poteri decisionali, che avrebbe
dovuto preparare la Tripolitania all’indipendenza, sottraendola all’amministrazione
britannica e creando uno stato cuscinetto tra la Cirenaica e la Tunisia. Tutto ciò
indicava un’avversione netta all’idea dell’unità libica, soprattutto all’idea di una
Libia unita sottoposta alla leadership del Senusso e consideravano le tre regioni
libiche come entità ben distinte tra loro e in quest’ottica si inquadrava la politica di
Parigi nel Fezzan, nel quale volevano mantenere un’influenza decisiva perché
considerato strategicamente importante e possibilmente ricco di risorse petrolifere99.
Ai primi di Luglio, su invito del governo britannico, l’emiro senusso si era
recato a Londra per definire con il Foreign Office le modalità di attuazione
dell’autogoverno. Il 16 Settembre, a seguito di queste trattative, l’amministratore
capo de Candole emanava un proclama che, nell’autorizzare l’emiro a promulgare
una costituzione, precisava i poteri del governo provvisorio senussita della Cirenaica,
poteri limitati all’amministrazione e alla legislazione interna, poiché le relazioni
estere e la difesa restavano affidate alla competenza del residente britannico. La Gran
Bretagna imponeva propri consiglieri finanziari e giuridici e si riservava la piena

98
Ibid., p. 510.
99
Ibid., pp. 512-516.

162
facoltà di revocare, modificare o emendare il proclama. Il 18 Settembre un nuovo
proclama fissava la data di entrata in vigore della Costituzione della Cirenaica100.
Il 20 Settembre 1949 si aprì a Flushing Meadows, New York, la quarta
sessione ordinaria dell’Assemblea, da cui emerse, fin dai primi interventi, un
generale orientamento favorevole all’indipendenza libica. In questi termini, dal 21
Settembre, si dichiararono il Segretario di Stato americano, per il quale l’Assemblea
doveva elaborare un piano per una Libia unita e indipendente da portare a termine in
non più di tre o quattro anni, e il Ministro britannico Bevin, che ricordò le promesse
fatte al leader senusso e auspicava una soluzione rapida per la Tripolitania. Altri
delegati ricordarono le aspirazioni e la prosperità degli abitanti come elemento
determinante di qualsiasi decisione e prospettarono l’indipendenza del paese, come i
rappresentanti di India, di El Salvador e del Pakistan. Più decisi nel richiedere
l’autodeterminazione del popolo libico furono i delegati iracheno, egiziano e
libanese. Questi orientamenti sarebbero stati poi confermati e precisati dal dibattito
che, a partire dal 30 Settembre, si sviluppò in seno al Comitato politico, in seduta a
Lake Success. All’interno di questa deputazione si sarebbe consolidato un
orientamento favorevole al trusteeship italiano in Somalia mentre ebbe bisogno di un
esame più approfondito il problema eritreo.
A Lake Success il problema delle ex colonie italiane seguì il solito iter:
conclusosi il dibattito preliminare, al quale intervennero anche il Ministro degli
Esteri italiano e i rappresentanti delle principali organizzazioni locali101, dal 15
Ottobre al 1 Novembre uno speciale sottocomitato elaborò un progetto di risoluzione
che, dopo essere stato approvato dal Comitato politico, fu sottoposto il 19 Novembre
all’approvazione dell’Assemblea generale102.

100
Ivi.
101
Il Comitato accolse infatti la richiesta italiana di partecipare alle discussioni senza diritto di voto e
istituì nuovamente un sottocomitato di 11 membri con il compito di vagliare le richieste delle
organizzazioni politiche locali che rappresentassero frazioni sostanziali della pubblica opinione. Tra il
6 e il 10 Ottobre furono ascoltati i rappresentanti delle seguenti organizzazioni: per la Libia, il
Congresso nazionale della Cirenaica, il Congresso nazionale della Tripolitania, la Comunità ebraica
della Tripolitania; per l’Eritrea il Blocco eritreo dell’indipendenza, il Partito Unionista, la Lega
musulmana indipendente, il Comitato rappresentativo degli italiani dell’Eritrea; per la Somalia, la
Lega dei Giovani Somali, la Conferenza della Somalia; cfr. Rossi, L’Africa italiana verso
l’indipendenza, cit., p. 518.
102
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p. 519.

163
I delegati inglese e statunitense proposero il programma che avevano deciso
di comune accordo durante l’estate: trusteeship italiano in Somalia e spartizione
dell’Eritrea tra Etiopia e Sudan perché, secondo McNeil, non significava lo
smembramento di un organismo vivente ma piuttosto la divisione di un’unità
completamente artificiosa nelle sue componenti, mentre Jessup si appellò a ragioni
etniche, linguistiche e religiose. L’intervento del rappresentante francese, il 1
Ottobre, confermò che il governo di Parigi si era rassegnato all’indipendenza della
Libia ma Courve de Mourville non nascose il rincrescimento transalpino, ribadendo
la proposta di trusteeship italiano in Somalia ed insistendo, sull’Eritrea, sulla
necessità di dare soddisfazione alle richieste etiopi e di rispettare le aspirazioni della
popolazione locale.
L’allineamento delle tre potenze occidentali sul principio dell’indipendenza
libica portò ad un nuovo progetto di risoluzione sovietico che concedeva
l’indipendenza immediata alla Libia, mettendo come condizione il ritiro del
personale militare straniero e la rimozione delle basi militari su tutto il territorio
entro tre mesi. Nel piano sovietico veniva concessa l’indipendenza all’Eritrea e alla
Somalia dopo un periodo di amministrazione fiduciaria di cinque anni e il
Trusteeship Council veniva incaricato di designare un amministratore dotato di pieni
poteri esecutivi e responsabile presso tale consiglio. Al di là dell’obiettivo
propagandistico, l’Unione Sovietica si riprometteva di intralciare i piano anglo-
americani nelle ex colonie perché non era da escludere che una parte delle sue
proposte potesse ottenere un consenso adeguato.
Un peso non trascurabile aveva il punto di vista del governo italiano che, il 1
Ottobre, con il discorso pronunciato dal Ministro Sforza, sintetizzò bene il
mutamento verificatosi nella posizione italiana ed esercitò un ruolo favorevole nel
consolidare la necessaria convergenza tra arabi e latino-americani. Le proposte del
Ministro italiano per la Libia sembravano combinarsi con quelle avanzate da McNeil
e Couve de Murville ed è in relazione a queste che devono essere valutate. Esse
riprendevano la vecchia formula dello stato contrattuale già riaffiorata durante
l’estate nei contatti confidenziali con gli inglesi e confermavano in pieno
l’aspirazione dell’Italia ad assicurarsi un ruolo preminente in Tripolitania, spiegando
la sostanziale inclinazione per la formula federale, che allineava Palazzo Chigi sulle
posizioni del Foreign Office e del Quai d’Orsay. Dall’ambizione italiana scaturivano
altri due corollari che costituivano i veri elementi di differenziazione rispetto alle

164
proposte anglo-francesi: Sforza invocava l’indipendenza immediata della Tripolitania
e poteri sostanziali per la Commissione di controllo che avrebbe dovuto sorvegliare
lo svolgimento di vere libere elezioni nel territorio, allargando l’adesione della
comunità italiana della Tripolitania a questo nuovo corso103.
La strategia della diplomazia italiana fu accolta con favore all’interno del
Comitato politico, aprendo la strada all’amministrazione italiana in Somalia e
all’indipendenza libica, grazie all’adesione dei paesi arabi ed asiatici e del gruppo
latino-americano alle proposte dell’Italia. Quest’ultimi, il 4 Ottobre, tramite il
delegato argentino Arce, invocarono l’indipendenza immediata di Libia ed Eritrea e
il mandato fiduciario italiano in Somalia che, in un certo senso, diventava merce di
scambio all’interno del Comitato politico per l’adesione di altri stati, ma le sei
risoluzioni presentate nel corso del dibattito confermarono una vasta intesa sulla
Libia e minore sulla Somalia, come confermavano le risoluzioni presentate dalla
delegazione statunitense, pakistana e di altre deputazioni104.
È vero che per la stessa Libia c’era da registrare qualche divergenza nel
Comitato, in particolar modo sulla durata del periodo transitorio, andando dalla
proposta di autogoverno immediata, sostenuta dal blocco sovietico, a quelle di Stati
Uniti, Irak e India che suggerivano periodi diversi per la preparazione alla piena
sovranità, con Francia e Gran Bretagna che propendevano per un periodo
sufficientemente lungo. Un altro punto di frizione fu la questione dell’unità libica, se
103
Ibid., pp. 524-528.
104
Il progetto americano prevedeva: 1) l’indipendenza della Libia entro tre anni, restando inteso che il
compito di definire la forma del futuro stato sarebbe spettato ai rappresentanti qualificati delle
popolazioni locali e che un Consiglio consultivo di sei membri avrebbe assistito le autorità
amministratrici; 2) cessione dell’Eritrea all’Etiopia, salvo la provincia occidentale da annettere al
Sudan; 3) trusteeship italiano in Somalia, con l’intesa che le Nazioni Unite avrebbero periodicamente
esaminato la situazione del territorio per accettare se esso fosse maturo per l’indipendenza. Il progetto
di risoluzione pakistano era analogo a quello statunitense per la parte sulla Libia mentre prevedeva
l’indipendenza entro tre anni per l’Eritrea, salvo l’accesso al mare per l’Etiopia attraverso Assab, e un
trusteeship decennale delle Nazioni Unite per la Somalia. Le restanti risoluzioni, a carattere parziale,
contemplavano: 1) l’indipendenza della Libia al più presto possibile e, in attesa del trasferimento dei
poteri ad un governo libico indipendente, le potenze amministratrici avrebbero riferito alle Nazioni
Unite in merito all’evoluzione politica di ciascun territorio (Irak); 2) la formazione di un’Assemblea
costituente libica con il compito di elaborare una Costituzione da sottoporre poi all’approvazione di
una speciale Commissione all’ONU: il tutto da realizzare nello spazio di due anni (India); 3)
l’indipendenza per la Somalia dopo dieci anni di amministrazione diretta delle Nazioni Unite
(Liberia); cfr. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 532-533.

165
a vocazione centralistica o federale, provocando divisioni tra i rappresentati delle
organizzazioni locali e tra gli stessi stati, con la linea britannica favorevole alla
soluzione federale dato che, l’11 Ottobre 1949, l’emiro promulgava una
costituzione105 per la Cirenaica. Infine, ci furono divergenze circa il ruolo delle
Nazioni Unite nel processo di preparazione dell’indipendenza e nei limiti del
controllo che l’ONU avrebbe esercitato nei riguardi delle potenze occupanti durante
il periodo transitorio. Il silenzio di McNeil su questo punto era significativo, data la
caduta della tesi del trusteeship, che implicava bene o male, un certo controllo delle
Nazioni Unite attraverso il Trusteeship Council, e a Londra non parve vero di poter
raccomandare un’amministrazione provvisoria affidata praticamente alle potenze
occupanti. Nonostante questi contrasti la via ad una soluzione libica era aperta106.
Il Comitato politico sulla questione libica era arrivato ad un accordo di
massima, agevolando l’intesa per un trusteeship italiano in Somalia mentre la
soluzione del problema eritreo era a rischio durante la quarta sessione, a causa
dell’adesione latino-americana alla proposta italiana che impediva qualsiasi
risoluzione a maggioranza qualificata. Allo stesso tempo, il compromesso che di
fatto si era stabilito tra gli schieramenti arabo-asiatico e latino-americano, tagliando
fuori l’Eritrea, finiva per attenuare l’ansia di risolvere subito la questione eritrea e
favoriva piuttosto la tendenza al rinvio. Che questa fosse ormai la tendenza lo
confermavano le proposte avanzate dalle delegazioni arabe: sebbene contrarie alla
spartizione, quest’ultime si dichiararono favorevoli ad un supplemento di indagine.
La questione eritrea restava dunque allo stato fluido e venivano confermati i timori
americani sull’estrema difficoltà di far passare la proposta di spartizione.
Il 7 Ottobre cominciò a farsi strada, all’interno della delegazione americana,
l’idea di una formula di compromesso capace di raccogliere un adeguato consenso
sulla questione eritrea. Se Clutton, membro della delegazione inglese, indicò a titolo
personale, di assegnare all’Etiopia le provincie eritree abitate da Cristiano-copti e
istituire una Commissione che avrebbe fissato i confini in base a criteri etnici ed
economici, la delegazione americana sembrava preferibile l’ipotesi di una
federazione di tutta l’Eritrea con l’Etiopia attraverso la persona dell’Imperatore.
105
La costituzione prevedeva un Parlamento monocamerale e un Gabinetto responsabile nei confronti
dello stesso emiro, che assumeva la carica di capo dello stato e di comandante delle forze armate
mentre il potere giudiziario era affidato a tribunali civili e religiosi e una sezione della carta
costituzionale era dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini; cfr. Ibid., p. 536.
106
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p. 537.

166
Questa formula avrebbe dato soddisfazione all’Etiopia e fugato i timori degli eritrei
circa il pericolo di cadere sotto il dominio di Addis Abeba, facendo salvi gli interessi
americani nel paese: essa prevedeva infatti il controllo etiopico sulla politica estera,
la difesa e le finanze nonché una completa autonomia locale sull’Eritrea107.
L’11 Ottobre, a seguito di una richiesta della delegazione argentina, il
Comitato politico decideva di creare nel proprio seno un Sottocomitato108 di 21
membri con l’incarico di esaminare i progetti presentati fino a quel momento e di
predisporre una o più raccomandazioni per il Comitato stesso. Il Sottocomitato tenne
ventinove riunioni, dall’11 Ottobre al 1 Novembre. Si partì dalla questione libica con
le varie delegazioni che votarono ad unanimità il principio d’indipendenza del paese,
trovando degli ostacoli sulla durata del periodo transitorio, sulla tipologia di stato e
sul ruolo delle Nazioni Unite, come già descritto in precedenza. Dopo un vivace
dibattimento, furono raggiunti degli accordi per adottare i seguenti principi da
includere nella raccomandazione finale:
a) indipendenza entro il 1 Gennaio 1952;
b) immediato avvio delle misure di trasferimento dei poteri;
c) nomina, da parte dell’Assemblea generale, di un Alto commissario, coadiuvato da
un Consiglio di dieci membri (Egitto, Francia, Italia, Pakistan, Gran Bretagna, Stati
Uniti e un rappresentante per ciascuna regione nonché un rappresentante delle
minoranze), con il compito di assistere le popolazioni libiche nella elaborazione di
una Costituzione e nella formazione di un governo indipendente.
Per la Somalia fu agevole raggiungere un accordo sul principio
dell’indipendenza dopo dieci anni di amministrazione fiduciaria. Il 18 Ottobre, dopo
aver respinto una proposta di tutela diretta e un’altra collettiva, il Sottocomitato
approvava il principio della tutela singola decennale con l’Italia quale potenza
amministratrice e l’inserimento, nella risoluzione finale, di alcuni principi
costituzionali, secondo una proposta avanzata dall’India. Contro il trusteeship
italiano votarono i paesi arabi che preferivano una tutela tripartita con l’Italia potenza
amministratrice.

107
Ibid., pp. 537-541.
108
Il sottocomitato risultò così composto: Argentina, Australia, Brasile, Cile, Cina, Cecoslovacchia,
Danimarca, Egitto, Etiopia, Francia, Guatemala, India, Irak, Liberia, Messico, Pakistan, Polonia,
Regno Unito, Stati Uniti, Unione Sovietica, Unione Sudafricana.

167
Assai dibattuta fu invece la questione eritrea, per la quale non fu possibile
trovare una soluzione maggioritaria e si dovette ricorrere al rinvio. In aggiunta ai tre
progetti già presentate da URSS, Stati Uniti e Pakistan, il Sottocomitato si trovò di
fronte a ben nove proposte di risoluzione. In sostanza, tutte le proposte si riducevano
alle seguenti: a) indipendenza, caldeggiata dai latino-americani; b) spartizione tra
Etiopia e Sudan, proposta da Stati Uniti e Gran Bretagna; c) tutela diretta dell’ONU
come proponeva la delegazione sovietica109.
Il 19 Ottobre, la delegazione americana presentò la sua proposta di
federazione tra Eritrea e Etiopia sotto la corona del Negus e, nella sua forma
definitiva, fu poi riproposta da Stati Uniti, Brasile, India, Irak e Liberia, prevedendo
un periodo decennale di federazione al termine del quale un plebiscito avrebbe
accertato i desideri degli eritrei circa la possibilità di una unione permanente con
l’Etiopia. Gli americani erano ansiosi di dare subito soddisfazione all’Etiopia,
considerata ormai una sicura alleata dell’Occidente e l’intransigenza italiana creò una
certa frizione nei rapporti tra Roma e Washington. Malgrado la velata minaccia del
Dipartimento di Stato di ritirare il proprio appoggio al trusteeship somalo, il Ministro
degli Esteri Sforza dichiarò agli statunitensi di essere convinto che la maggioranza
dei paesi membri dell’ONU preferiva l’indipendenza e che la nuova formula
nascondeva in sostanza un’annessione. Del resto, quando fu proposto, il progetto
americano non era gradito neppure al governo britannico, mentre lo stesso Bevin era
stato turbato da quella che appariva come un’iniziativa unilaterale degli Stati Uniti.
Un successivo scambio di idee tra le due delegazioni, a New York, contribuì
ad ammorbidire l’opposizione inglese alla formula federale, a condizione che il
trapasso dall’amministrazione britannica a quella etiopica avvenisse nel giro di sei
mesi. Il 22 Ottobre, McNeil dichiarava al Sottocomitato di preferire la proposta di
spartizione tra Etiopia e Sudan e di aderire, secondariamente, alla proposta di
federazione, precisando che gli inglesi non intendevano assumersi il compito di
garantire l’ordine interno durante il periodo di transizione110.
L’ammorbidimento inglese non fu sufficiente a sbloccare la situazione
all’interno del Sottocomitato, dato che il ribadito attaccamento italiano
all’indipendenza eritrea e l’opposizione etiopica al progetto di federazione resero
quest’ultimo improponibile. Il Sottocomitato spostò quindi la sua attenzione

109
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 542-543.
110
Ibid., pp. 545-546.

168
sull’ipotesi del rinvio e, dopo lunghe discussioni, adottò una proposta avanzata dal
Guatemala e dall’Australia, successivamente modificata da un emendamento
statunitense, che prevedeva la creazione di una Commissione delle Nazioni Unite, di
cinque membri, per accertare i desideri e i modi più idonei per promuovere il
benessere dell’Eritrea, per esaminare la disposizione del territorio e per presentare un
rapporto al segretario generale con una o più proposte che riterrà opportune per la
soluzione del problema eritreo. Furono invece respinte tutte le altre proposte,
compresa quella sovietica di trusteeship diretto delle Nazioni Unite. Le risoluzioni
sui singoli territori furono infine riunite in un unico progetto mentre un secondo
raccomandava la nomina di una Commissione per la designazione del Commissario
dell’ONU per la Libia.
Il 4 Novembre, il Sottocomitato presentò al Comitato politico il suo rapporto
con le risoluzioni approvate. Il dibattito generale, che si prolungò per cinque giorni,
rilevò un’estensione dei punti di convergenza rispetto alla fase preliminare dei lavori
del Comitato. La soluzione proposta per la Libia, incorporata nella sezione A del
rapporto, fu accolta con favore dalla maggior parte delle delegazioni, ad eccezione
della questione dell’unità libica che destò nuove discussioni e ad alcune proposte di
emendamento. A preoccupare gli inglesi era soprattutto una troppo rigida struttura
unitaria del paese mentre di gran lunga preferibile appariva ai britannici l’ipotesi di
uno stato federale, che avrebbe agevolato la soddisfazione degli obiettivi strategici
limitati alla sola Cirenaica. Gli statunitensi, invece, erano meno contrari degli inglesi
ad un assetto rigidamente unitario, per ragioni strategiche e militari affinché il
governo libico fosse retto da persone amiche. A ciò va aggiunto che la formula
unitaria sembrava la più gradita alle popolazioni locali e agli stati arabi, con i quali
gli americani intendevano mantenere le migliori relazioni.
Il 9 Novembre, si passò alla votazione al Comitato politico occupandosi,
inizialmente, della risoluzione sovietica, presentata fin dal 30 Settembre, e di quella
liberiana concernente solamente la Somalia, che furono entrambe respinte, per
passare successivamente all’esame del progetto del Sottocomitato. Il Comitato
politico approvò due emendamenti, uno pakistano e l’altro cinese, che chiarivano i
rapporti tra il Commissario dell’ONU e le autorità amministratrici della Libia.
Furono respinti, inoltre, due sostanziali emendamenti proposti dalla Polonia: il primo
prevedeva l’anticipazione al 1 Gennaio 1951 della data dell’indipendenza libica
mentre, il secondo, l’inserimento di Cecoslovacchia, Messico e Siria all’interno del

169
Consiglio consultivo al posto di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Una netta
opposizione alla sezione A, sulla Libia, e allo stesso progetto globale presentato dal
Sottocomitato fu manifestata soltanto dalle delegazioni del blocco sovietico, mentre
per la sezione B, sulla Somalia, si ottenne l’adesione della maggioranza ma
riaffiorarono dubbi e perplessità sulla disponibilità delle popolazioni locali a
collaborare con le autorità italiane. Ma le proposte dirette a far cadere questa
candidatura non raccolsero un consenso adeguato all’interno del Comitato111.
L’atteggiamento dello schieramento arabo confermò l’adesione definitiva al
trusteeship italiano in Somalia, ma in contropartita chiedevano garanzie a tutela della
popolazione locale attraverso un Consiglio consultivo che avrebbe affiancato
l’amministrazione italiana, composto dall’Egitto, dalla Colombia e dalle Filippine,
inserito come paragrafo nella sezione B di risoluzione. Fu da ultimo approvato un
emendamento latino-americano che autorizzava il governo italiano ad assumere
l’amministrazione provvisoria della Somalia, in conformità con i principi del sistema
di amministrazione fiduciaria internazionale, nel periodo intercorrente tra la
conclusione dell’accordo sul mandato fiduciario e la sua approvazione da parte
dell’Assemblea generale, emendamento che sarebbe poi figurato come ultimo
paragrafo della risoluzione riguardante la Somalia. Nessun emendamento correttivo o
aggiuntivo subì la sezione C relativa all’Eritrea e neanche un delegato si dichiarò
soddisfatto della proposta di rinvio, nell’impossibilità di raggiungere un accordo
maggioritario e di evitare una situazione di stallo che si sarebbe estesa anche alla
decisione sulla Libia e sulla Somalia.
Terminate le votazioni paragrafo per paragrafo, il 12 Novembre furono
adottate a larghissima maggioranza le singole sezioni della risoluzione nel suo
complesso, una risoluzione del Sottocomitato che si riferiva alla procedura per la
nomina del Commissario per la Libia e una proposta turco-argentina che assegnava
al Comitato ad interim dell’Assemblea il compito di studiare le procedure per la
delimitazione dei confini delle ex colonie. Non fu invece messo ai voti l’allegato
proposto dall’India: il Comitato deliberò che esso doveva considerarsi una semplice
raccomandazione che avrebbe dovuto servire da guida all’autorità amministratrice e
lo inserì come appendice al proprio progetto di risoluzione112.

111
Ibid., pp. 553-555.
112
Ibid., p. 557.

170
Il 19 Novembre il progetto del Comitato politico fu presentato all’Assemblea
generale e, nel dibattito che seguì, riemersero le posizioni assunte nei precedenti
organismi. I rappresentanti britannico e statunitense si dichiararono soddisfatti della
soluzione proposta per la Libia e la Somalia ma non nascosero il loro rincrescimento
per la mancata soluzione del problema eritreo. Courve de Mourville definì l’intero
progetto come un compromesso indispensabile al raggiungimento di un accordo, ma
non si trattenne dal dire che il termine proposto per l’indipendenza libica non era
assolutamente realistico alla luce delle informazioni raccolte dalla Commissione
quadripartita d’inchiesta. Un attacco ben più violento contro le raccomandazioni del
Comitato fu lanciato dai paesi slavi, i quali lanciarono una dura requisitoria contro la
risoluzione globale, definita una nuova versione del compromesso Bevin-Sforza,
dato che le potenze occidentali miravano ad istaurare in Libia un regime fantoccio.
Le sezioni relative alla Somalia e all’Eritrea furono inoltre violentemente
attaccate dall’Etiopia e dalla Liberia. Ma ormai qualsiasi tentativo di rimettere in
discussione il progetto del Comitato politico era destinato all’insuccesso, poiché una
vasta maggioranza considerava il problema come risolto e gli stessi delegati slavi
finirono per astenersi in sede di votazione113.
Conclusosi il dibattito, le tre risoluzioni vennero messe ai voti nella seduta
pomeridiana del 21 Novembre 1949, con precedenza alla votazione delle parti
essenziali. La risoluzione principale, approvata con 48 voti favorevoli, 1 contrario e 9
astensioni, risultò articolata in tre sezioni; A, B, C, dedicate rispettivamente alla
Libia, alla Somalia e all’Eritrea
Per la Libia si raccomandava la creazione di uno stato indipendente e sovrano
non più tardi del 1 Gennaio 1952. La costituzione del quale, compresa la forma di
governo, sarebbe stata fissata dai rappresentanti dei tre territori riuniti in Assemblea
nazionale con l’ausilio di un Commissario delle Nazioni Unite, assistito a sua volta
da un Consiglio di dieci membri comprendente i rappresentanti di Egitto, Francia,
Italia, Pakistan, Regno Unito, Stati Uniti d’America oltre che ad un rappresentante
per ciascuna delle tre regioni libiche e ad un rappresentante delle minoranze. Intanto,
le potenze amministratrici, in cooperazione con il commissario, avrebbero: a) avviato
immediatamente i procedimenti necessari per il trasferimento dei poteri ad un
governo indipendente debitamente costituito; b) amministrato i territori nel senso di
promuovere l’unità e l’indipendenza della Libia; c) sottoposto all’Assemblea

113
Ibid., p. 558.

171
generale un rapporto annuo sulle misure prese per attuare tali raccomandazioni.
Infine, una volta indipendente, la Libia sarebbe stata ammessa alle Nazioni Unite ai
sensi dell’articolo 4 dello Statuto114.
La Somalia avrebbe raggiunto l’indipendenza dopo dieci anni di
amministrazione fiduciaria, con l’Italia quale potenza amministratrice, restando
inteso che il termine decennale sarebbe decorso dalla data di approvazione della
relativa Convenzione da parte dell’Assemblea generale. Nell’esercizio delle sue
funzioni l’Italia si sarebbe avvalsa di un Consiglio consultivo composto dai
rappresentanti di Colombia, Egitto e Filippine, con sede a Mogadiscio. La
Convenzione per l’amministrazione fiduciaria sarebbe stata stipulata dall’Italia con il
Consiglio di tutela delle Nazioni Unite per essere quindi sottoposta all’approvazione
dell’Assemblea generale non più tardi della V sessione ordinaria. In attesa
dell’approvazione della Convenzione, l’Italia avrebbe assunto l’amministrazione
provvisoria del territorio impegnandosi a rispettare le norme dello Statuto
concernenti il sistema di amministrazione fiduciaria115.
Quanto all’Eritrea, era prevista la creazione di una Commissione composta
dai rappresentanti di Birmania, Guatemala, Norvegia, Pakistan e Unione Sudafricana,
che avrebbe visitato il territorio e tenuto in considerazione: a) le aspirazioni e il
benessere degli abitanti, nonché la capacità di quest’ultimi ad auto amministrarsi; b)
gli interessi della pace e della sicurezza in Africa orientale; c) i diritti e le aspirazioni
dell’Etiopia, in particolar modo su un adeguato sbocco al mare. La Commissione
avrebbe presentato il suo rapporto e le sue proposte al Segretario generale non più
tardi del 15 Giugno 1950 in modo da consentire l’esame della questione durante la V
sessione ordinaria dell’Assemblea generale. A sua volta il Comitato interinale
avrebbe predisposto un rapporto con le sue conclusioni da presentare alla V
sessione116.
A grande maggioranza furono anche approvate la risoluzione concernente la
nomina dell’Alto commissario per la Libia, in base alla quale uno speciale Comitato

114
La sezione sulla Libia venne adottata con 49 voti favorevoli, nessun contrario e 9 astensioni
(gruppo sovietico, Francia, Jugoslavia, Nuova Zelanda e Svezia); cfr. Rossi, L’Africa italiana verso
l’indipendenza, cit., p. 564.
115
La sezione sulla Somalia venne adottata con 48 voti favorevoli, 7 contrari (gruppo sovietico,
Jugoslavia ed Etiopia) e 3 astensioni (Liberia, Nuova Zelanda e Svezia); cfr. Ibid., p. 565.
116
La sezione sull’Eritrea fu approvata con 47 voti favorevoli, 5 contrari (gruppo sovietico) e 6
astensioni (Etiopia, Filippine, Grecia, Jugoslavia, Liberia e Svezia); cfr. Ivi.

172
composto dal presidente e da due vice presidenti dell’Assemblea generale, dal
presidente del Comitato politico e dal presidente del Comitato politico ad hoc,
avrebbe designato un candidato all’incarico di commissario, e quella relativa alla
delimitazione dei confini, nella quale veniva investito il Comitato interinale
dell’Assemblea generale di studiare la procedura da adottare per la delimitazione dei
confini delle ex colonie italiane e riferire in merito alla V sessione dell’Assemblea117.
Con la risoluzione del 21 Novembre 1949 si concludeva la lunga vertenza
delle ex colonie italiane, ad eccezione della questione eritrea, dopo ben otto anni di
conferenze e riunioni che hanno trascinato a lungo la questione, dati i problemi e le
preoccupazioni di ordine strategico e militare e dall’affermarsi della guerra fredda tra
le tre potenze occidentali, in particolar modo i britannici e gli americani, e l’Unione
Sovietica, soprattutto nel caso della Libia e dell’Eritrea, paesi importanti per la loro
posizione centrale sul Mar Mediterraneo e sul Mar Rosso.

3.3 La politica italiana sul problema coloniale (1945-1949)

Il dibattito sul futuro delle colonie, in Italia, sino alla fine della Seconda
guerra mondiale, impegna poche voci, a cominciare dagli stessi governanti, Pietro
Badoglio e Ivanoe Bonomi, delle stesse istituzioni dell’Italia repubblichina e libera
che non hanno i mezzi necessari per avere un quadro certo della situazione africana
e, infine, le idee e le istanze degli uomini politici che hanno ritrovato la libertà di
espressione con la caduta del fascismo, come Carlo Sforza, Don Luigi Sturzo,
Benedetto Croce, Gaetano Salvemini ed altri118.
Con la fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia riacquistò una parvenza di
autonomia sul piano della politica estera e i primi riferimenti si rifanno alla già citata
Conferenza di Postdam (17 Luglio – 2 Agosto 1945), con il governo italiano che
effettuò dei sondaggi presso Londra e Washington, in base ai quali il Ministro degli
Esteri De Gasperi inviò istruzioni agli ambasciatori Carandini e Tarchiani, nelle quali
emerse il punto di vista italiano sulle colonie prefasciste:
a) L’Italia desidera conservare le sue colonie prefasciste;

117
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 566-567.
118
Per uno studio più approfondito degli anni tra il 1943 e il 1945, riguardanti l’ambito coloniale, si
veda Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Nostalgia delle colonie, Mondadori, Milano
1992, pp. 3-16.

173
b) se sarà costretta a fare delle rinunce, queste dovrebbero riguardare soltanto il
grado di sovranità;
c) l’Italia ha bisogno delle sue colonie per convogliarvi l’eccesso della popolazione;
d) se la Gran Bretagna ha interessi in Cirenaica, l’Italia ne terrà conto, ma sul Gebel
dovrebbero restare i coloni italiani;
e) se l’Italia dovesse essere estromessa dall’Eritrea, che è la colonia primogenita, la
misura apparirebbe agli italiani gravissima; la sua annessione all’Etiopia, poi, la
riporterebbe indietro di mezzo secolo;
f) l’Italia è disposta a concedere all’Etiopia uno sbocco al mare, facilitandone
l’accesso al porto di Assab;
g) l’Italia è pronta ad accettare l’amministrazione fiduciaria sulla Grande Somalia, se
questa entità verrà realizzata119.
Istruzioni simili, modificate in considerazione del diverso atteggiamento
dell’URSS di fronte al problema coloniale, furono inviate all’Ambasciata di Mosca,
per insistere sul carattere non capitalistico, ma demografico, della colonizzazione
italiana. “In linea generale, è opportuno rilevare che tali istruzioni erano improntate
ad una certa elasticità: pur indicando una netta propensione per la piena sovranità
italiana sulle colonie prefasciste, esse non escludevano l’applicazione del regime di
amministrazione fiduciaria e mostravano, inoltre, comprensione per le esigenze
altrui”120.
L’idea di fondo italiana rimase la stessa anche durante la successiva
Conferenza di Londra, riguardante l’elaborazione del trattato di pace italiano,
attraverso due missive, inviate il 22 Agosto 1945, da parte del Presidente del
Consiglio Parri a Truman e dal Ministro degli Esteri De Gasperi a Byrnes. Il Primo
Ministro italiano, nella sua lettera, fu molto generico, limitandosi a chiedere
l’appoggio americano per una giusta pace, dato che una ingiusta potrebbe portare a
determinate conseguenze nei territori strappati all’Italia mentre il Ministro degli
Esteri, con il concorso e l’approvazione del governo, scriveva che l’Italia
democratica considerava le colonie come strumento di assorbimento della
manodopera in eccesso e che ciò non era in contrasto con la disciplina
dell’amministrazione fiduciaria. La lettera conteneva anche degli accenni riguardanti

119
MAE, Inventario delle rappresentanze diplomatiche, Francia e Russia, b. 337. Tel. Del 14 Luglio
1945; cfr. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, pp. 15-16.
120
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p. 95.

174
le due colonie la cui appartenenza all’Italia suscitava le più forti ostilità: Cirenaica ed
Eritrea.
Per far comprendere l’unità politica nei confronti del destino delle colonie,
anche il vice Presidente del Consiglio Pietro Nenni, leader del Partito socialista
italiano (PSI), indirizzò a Bevin, nei giorni precedenti l’inizio della Conferenza dei
ministri degli esteri, un messaggio che riassumeva nei seguenti termini la posizione
del suo partito: “Il Partito socialista italiano ha votato contro tutte le avventure
coloniali, dall’Eritrea alla Tripolitania. Nel 1936 ha preso nettamente posizione
contro la conquista dell’Abissinia. Allo stato attuale delle cose le colonie hanno per
noi un interesse nella misura in cui assorbono una parte della nostra mano d’opera e
attivano il nostro commercio. È sotto questo aspetto che ci interessano la
Tripolitania, l’altopiano cirenaico, l’Eritrea e la Somalia. Rettifiche di carattere
militare, le quali non alterino le nostre possibilità di lavoro, ci lasciano assolutamente
indifferenti”121. Se nelle occasioni ufficiali si allineava alla posizione del governo
italiano, di cui era vice-premier, Nenni fece considerazioni molto più vaghe in altre
occasioni, come in un articolo su l’«Avanti!», l’organo del Partito socialista, del 9
Settembre 1945: “Noi assoceremo volentieri i nostri sforzi ad una rivalutazione e ad
una riorganizzazione delle colonie che tenda a favorire gli interessi delle popolazioni
africane. Noi non intendiamo sottrarci all’obbligo di concorrere a riparare i danni che
alcuni paesi hanno subito per colpa dell’aggressione fascista”122.
De Gasperi, nella sua veste di Ministro degli Esteri, il 29 Settembre 1945,
fece una dichiarazione alla Consulta Nazionale sul lavoro diplomatico italiano alla
Conferenza di Londra e sugli sviluppi interni a quest’ultima riguardo il trattato di
pace, il futuro di Trieste e dei possedimenti africani. Nel parlare davanti
all’assemblea, De Gasperi riferì dei propri scambi di vedute con il Segretario di Stato
Byrnes e il Ministro degli Esteri francese Bidault in cui ripeté ancora una volta la
linea del governo italiano: le colonie sono indispensabili come sbocco demografico
per la popolazione della penisola e per il lavoro svolto dagli italiani in terra d’Africa.

121
Nenni a Bevin, messaggio del 5 Settembre 1945, FO 371, U 7538/50/70; cfr. Rossi, L’Africa
italiana verso l’indipendenza, cit., p. 136.
122
Pietro Nenni, I nodi della politica estera italiana, Sugarco, Milano 1974, p. 23.

175
Le sue parole vennero approvate con un lungo applauso da tutta la Consulta e, in
particolar modo, dal presidente dell’assemblea Carlo Sforza123.
Il dopo Londra fu caratterizzato da un’intensa azione diplomatica italiana, che
ebbe i suoi momenti più significativi nel viaggio a Londra dell’ambasciatore Cora124,
di quello dell’ex governatore dell’Harar Cerulli e nella redazione di un memorandum
sulle colonie italiane125, presentato alle grandi potenze alla fine di Ottobre. Per De
Gasperi, che illustrò la nota italiana in un telespresso di accompagnamento del 24
Ottobre a varie ambasciate, si elencavano una serie di motivi affinché le colonie
fossero restituite all’Italia, come, ad esempio, l’acquisizione tramite accordi
internazionali, oppure la valorizzazione dei possedimenti africani ad opera del
popolo italiano ed, infine, il ruolo di mediatore internazionale svolto dall’Italia nel
Mediterraneo e nel Mar Rosso. Il memorandum italiano ottenne solamente reazioni
negative da parte delle cancellerie a cui era stato inviato ma, nonostante ciò, Palazzo
Chigi continuò ad insistere sulla tesi del ritorno dell’Italia in Africa quale
amministratrice unica delle sue ex colonie.
Un punto di svolta per l’opinione pubblica e i partiti politici italiani venne nei
primi mesi del 1946, con una più ampia sensibilizzazione verso la questione
coloniale che poteva essere utilizzata dal governo come nuovo mezzo di pressione. In
questa direzione fu molto attivo il Ministero dell’Africa Italiana che svolse
all’interno un’azione di propaganda che trovò un buon sostegno in talune istituzioni
culturali, nelle associazioni di profughi e in certi gruppi economico-finanziari che
avevano lasciato vasti interessi in Africa. Vennero incoraggiate le pubbliche
manifestazioni dei profughi126 e alle associazioni di rimpatriati dall’Africa fu
suggerita l’opportunità di inviare al Consiglio dei Ministri degli Esteri ordini del

123
Atti della Consulta Nazionale. Discussione dal 25 Settembre 1945 al 9 Marzo 1946, Tip. della
Camera dei Deputati, Roma 1946, pp. 96-98; cfr. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p.
211.
124
Giuliano Cora era stato Ministro ad Addis Abeba nel periodo fascista. Nel dopoguerra era fra i più
ascoltati consiglieri del governo in materia coloniale.
125
Per una lettura integrale del memorandum si veda Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza,
cit., pp. 157-159.
126
Il primo Congresso nazionale dei profughi d’Africa si svolse a Roma nel Febbraio 1946 e fu
seguito da pubbliche manifestazioni dei profughi nelle principali città.

176
giorno, appelli, telegrammi, messaggi, ecc., mentre le rappresentanze all’estero
furono invitate a svolgere un’azione di propaganda presso le collettività locali127.
Tra le istituzioni culturali, particolarmente attivo fu il Centro di studi
coloniali di Firenze che organizzò un convegno dal 29 al 31 Gennaio 1946, dedicato
all’esame di alcuni aspetti dell’azione italiana in Africa riguardante: la
colonizzazione agricola; la politica indigena; i rapporti economici tra madrepatria e
colonie; gli studi coloniali in Italia e, infine, vennero approvati alcuni ordini del
giorno. La mozione finale ribadiva i seguenti punti:
a) l’Italia si era insediata nelle sue modeste colonie africane con il pieno e preventivo
accordo delle grandi potenze, svolgendovi una proficua opera di avvaloramento;
b) le ragioni che avevano spinto le potenze a consentire la cooperazione italiana nel
continente africano erano ancora valide;
c) l’Italia, con i suoi quarantacinque milioni di abitanti, non poteva vivere senza un
minimo di respiro coloniale;
d) non venisse inflitta al popolo italiano l’umiliazione di essere privato dei frutti del
proprio lavoro;
e) si consentisse all’Italia di restare in Africa nell’interesse dell’Italia non meno che
del progresso africano e della pace mondiale128;
Anche i grandi giornali di opinione come «Il Messaggero», «Il Tempo», «Il
Corriere d’Informazione», «Il nuovo giornale d’Italia», pubblicarono molti articoli
sull’Africa e sulle colonie italiane ma nacquero, in questi mesi, periodici e bollettini
finanziati dalle associazioni di profughi o da gruppi di interesse, come «La voce
dell’Africa», «Il Pioniere» e il «Notiziario della Associazione fra le Imprese Italiane
in Africa». Queste riviste erano nate con lo scopo di influenzare l’opinione pubblica,
trattando esclusivamente la questione delle colonie italiane riguardo il loro futuro
status politico e il ritorno dei profughi in Africa.
In questo periodo furono più frequenti le dichiarazioni dei leader di ogni
tendenza politica che andavano a coincidere con la posizione ufficiale del governo
mentre i giornali di partito dedicavano al problema uno spazio sempre maggiore.

127
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 211-212.
128
Università degli Studi di Firenze, Centro di Studi Coloniali, Aspetti dell’azione italiana in Africa,
Firenze 1946. Atti del Convegno di studi coloniali (Firenze, 29-31 Gennaio 1946); cfr. Rossi, L’Africa
italiana verso l’indipendenza, cit., p. 213.

177
Pietro Nenni, nella doppia veste di segretario del Partito socialista italiano e
di vice Presidente del Consiglio, durante i suoi colloqui con Bevin riaffermò
l’aspirazione italiana a conservare almeno l’amministrazione fiduciaria delle sue
colonie mentre, in un discorso a Genova, il 4 Febbraio, aveva accusato che la
rinascita economica del Mezzogiorno fu sacrificata all’imperialismo africano
aggiungendo: “Senonché ingenti mezzi sono stati impiegati nelle colonie e l’Italia ha
un interesse primordiale a difendere in Africa il lavoro e i lavoratori italiani senza
fare ostacolo al solo programma legittimo e giusto: l’Africa agli africani”129. Nel
discorso pronunciato al Congresso socialista di Firenze, l’11 Aprile, Nenni ripeté:
“Siamo stati contro tutte le guerre coloniali e consideriamo suprema opera di civiltà
favorire l’emancipazione e l’indipendenza delle popolazioni africane. Non abbiamo
opposizione di principio contro il trusteeship, specialmente se applicato a tutte le
colonie europee in Africa o in altri continenti. In Libia come in Eritrea noi abbiamo
soltanto da difendere gli interessi dei contadini e dei lavoratori italiani pionieri di
civiltà”.
Inaugurando la campagna elettorale il 5 Maggio 1946 a Roma, Nenni premise
che l’epoca coloniale era passata, che l’Africa sarà degli africani nel giro di qualche
decennio e che il principio di trusteeship andava interpretato come un primo passo
verso l’indipendenza. Infine, all’Italia interessava solo difendere il lavoro degli
italiani, concorrere a preparare l’indipendenza dei “territori alla conquista dei quali i
socialisti negarono sempre il loro voto”. In altre parole, la posizione assunta dal
leader socialista oscillava tra il desiderio di tutelare le posizioni italiane in Africa,
alcuni principi ideali e la riaffermata necessità di risolvere in via prioritaria la
questione meridionale. “Mezzo secolo fa – proseguì Nenni – ci mandarono nel Mar
Rosso a cercare la chiave del Mediterraneo; poi Mussolini per venti anni ha tolto il
sonno ai nostri ragazzi raccontando loro che soffocavano nel Mediterraneo e che
bisognava ad ogni costo aprirsi una via. Tutte storie. I nostri problemi sono in casa
nostra, non fuori. Il più grave è la questione meridionale. Se l’Italia non risolve la
questione meridionale, essa può andare in Africa, può conquistare imperi, ma resterà

129
«Avanti!», 5 Febbraio 1946. Si veda anche il corsivo Pro e Contro apparso su l’«Avanti!» del 16
Febbraio 1946. Alle elezioni del 2 Giugno 1946 il Partito socialista ottenne oltre quattro milioni e
mezzo di voti (20,7%).

178
sempre un paese inadeguato a fare non dico una politica imperialista, ma financo una
sua politica nazionale”130.
Tesi simili sosteneva il Partito Repubblicano italiano (PRI) che, alle elezioni
del 2 Giugno 1946, rappresentava il 4 per cento dell’elettorato, e il cui organo di
stampa si occupò assai raramente del problema durante la prima metà del 1946.
Dopo l’indifferenza di Pacciardi, su «La Voce Repubblicana» si scriveva che: “è la
questione che ci interessa di meno e accetteremmo volentieri la tesi di Bevin, che
fosse per il momento accantonata”131. La questione venne presentata in occasione del
Congresso del Partito nel Febbraio 1946: “Noi fummo sempre contrari alle imprese
coloniali, alle aggressioni imperialistiche…Perciò abbiamo il diritto di dire la verità.
Il lavoro degli italiani nelle colonie va rispettato ed apprezzato. E non si può
chiamare imperialismo l’emigrazione ed espansione in Africa di pacifici lavoratori
che cercano la terra da lavorare e fecondare. Si deve poter continuare a lavorare e
operare in Africa come lavoratori liberi, non come schiavi”132. Così, le “ragioni
superiori di giustizia internazionale”, considerate come il motivo più valido della
restituzione delle colonie all’Italia133, si identificarono, infine, nell’argomento
demografico, come appare evidente in questa nota anonima, apparsa su «La Voce
Repubblicana» del 1 Maggio 1946: “Il laburismo non riconosce giusto che i
lavoratori italiani trovino uno sbocco almeno nelle nostre poco appetibili colonie, dal
momento che ogni altra via è loro preclusa ? L’imperialismo britannico ha
indubbiamente la sua logica, e saremmo degli ingenui se volessimo contestarla; ma il
laburista Bevin che sostiene l’unione di tutti i territori somali sotto l’amministrazione
britannica, ci farà la cortesia di dimostrare, non a noi, ma al mondo ignaro, che
l’amministrazione coloniale italiana non ha finora giovato alle popolazioni
indigene…I vincitori si spartiscono pure le spoglie delle colonie italiane, se lo
credono opportuno, ma ai lavoratori italiani aprano le vie del libero, dignitoso,
fecondo lavoro in tutti i paesi dove la terra è ricca e immensa, e la popolazione è
scarsa. Questo è il vero problema coloniale italiano”134.

130
Pietro Nenni, Una battaglia vinta, Edizioni Leonardo, Roma 1946, pp. 106-107 e 142.
131
Anon., Verso il trattato di pace, «La Voce Repubblicana», 7 Febbraio 1946, p. 1.
132
C. Facchinetti, Intervento di C.Facchinetti sulla politica internazionale al Congresso del Partito
Repubblicano, in «La Voce Repubblicana», 3 Febbraio 1946, p. 1.
133
E. Terracini, La pace e l’Italia, in «La Voce Repubblicana», 23 Aprile 1946, p. 1.
134
Anon., Anche la Libia ormai è perduta, in «La Voce Repubblicana», 1 Maggio 1946, p. 1.

179
La Democrazia Cristiana (DC) che, secondo i risultati elettorali del 2 Giugno,
rappresentava buona parte dell’opinione pubblica italiana, a parte l’intervento alla
Consulta Nazionale di Cingolani il 16 Gennaio e le numerose dichiarazioni di De
Gasperi, trovò un buon oratore in Don Luigi Sturzo che tornò molte volte su questo
argomento sulla rivista «Nazioni Unite», in cui motivava l’attribuzione del
trusteeship all’Italia sulla base degli interessi economici poiché “il paese fiduciario se
non vi ha interessi propri e diretti, non potrà essere obbligato ad anticipare denaro a
vuoto…e il paese mandatario dovrà considerare la colonia come paese che fa parte
del proprio complesso economico, altrimenti la colonia andrà in malora”135.
Successivamente, Don Sturzo ricorda, inoltre, il cospicuo numero di italiani nelle tre
colonie e il problema demografico che veniva, anche in questo caso, collegato al
problema di trovare sbocchi alternativi. Infatti, “le colonie non hanno un interesse
economico decisivo, ma rappresentano quelle sole terre dove l’italiano potrà
emigrare trovando ancora le sue leggi e la sua bandiera, visto che la Tunisia è chiusa
per gelosie oggi ingiustificate, e che la ripresa dell’emigrazione in buone condizioni
sarà ritardata per lungo tempo dalle difficoltà ed incertezze dell’economia
mondiale”136. Non meno importante per Don Luigi Sturzo era la funzione di
equilibrio che l’Italia aveva all’interno del bacino del Mediterraneo, “il mare di tutti
in pacifica convenienza”137. Anche «Il Popolo» appoggiava la tesi ufficiale,
rilevando che “essa avrebbe dovuto essere accolta fin dal primo momento. Si sarebbe
così reso subito giustizia al nostro paese e si sarebbe evitato di sollevare, fra i tanti,
un altro problema che ha palesato l’esistenza di profondi dissensi fra le maggiori
potenze”138.

135
«Nazioni Unite», 1 Febbraio 1946: articolo ripubblicato con il titolo La sorte delle colonie italiane,
in, La mia battaglia da New York, Garzanti, Milano 1989, pp. 401-405; cfr. Rossi, L’Africa italiana
verso l’indipendenza, cit., p. 218.
136
Dichiarazione rilasciata all’«INS» il 7 Marzo 1946 e ripubblicata con il titolo Per una vera pace
con l’Italia, ivi, pp. 408-410; cfr. Ivi.
137
Commentando la rinuncia russa alla Tripolitania Don Sturzo scriveva: “C’è per la Russia un tale
interesse verso Trieste fino ad abbandonare (o fingere di abbandonare) la richiesta di Tripoli e del
Dodecanneso” (Le sorti dell’Italia a Parigi, in «Il Mondo», New York; articolo ripubblicato in La mia
battaglia da New York, cit., p. 413). Già in precedenza Don Sturzo aveva respinto le accuse di cattiva
amministrazione coloniale in epoca prefascista rivolte da alcuni all’Italia in Inghilterra e negli Stati
Uniti; cfr. Ivi.
138
Anon., Le colonie, in «Il Popolo», 14 Maggio 1946, p. 1.

180
Anche il Partito liberale italiano (PLI) era deciso a sostenere il diritto italiano
al trustreeship singolo sulle colonie, dato che aveva reagito vivacemente alle pessime
notizie diffuse all’epoca della Conferenza di Londra. All’interno della Consulta
nazionale, dopo le dichiarazioni di De Gasperi del 29 Settembre 1945, era stato Luigi
Einaudi a sollevare la questione il 16 Gennaio 1946, durante il dibattito sulle
questioni di politica estera, in conseguenza dell’esposizione del Ministro De Gasperi
del 12 Gennaio che non conteneva alcun riferimento alle colonie. Einaudi,
premettendo di non essere mai stato un colonialista e di essersi sempre battuto contro
l’imperialismo, cercò di dimostrare il diritto/dovere dell’Italia a partecipare
all’attuazione dell’amministrazione fiduciaria, incentrando il suo intervento sulla tesi
che l’Italia aveva soddisfatto proprio quei principi che sarebbero stati poi sanciti
nella Carta di San Francisco, riportando dati statistici relativi allo sviluppo delle
colonie da parte italiana. Rigettava in maniera netta un ritorno delle colonie sotto
sovranità italiana e l’amministrazione fiduciaria di più stati perché le riteneva
soluzioni contrarie all’interesse delle popolazioni autoctone. Rimaneva il trusteeship
singolo all’Italia, più consono “all’elevazione dei popoli indigeni, in guisa che essi
meritino di diventare indipendenti e conservino con la madrepatria quei vincoli di
affetti…e di interesse che noi avremmo potuto e saputo creare nel tempo in cui ne
eravamo i tutori”139.
Il giornale del partito, «Risorgimento Liberale», in alcuni articoli, partendo
dal presupposto che le grandi potenze nutrivano nei riguardi delle colonie italiane,
aveva sottolineato che la presenza di comunità italiane avrebbe costituito una “fonte
continua di serie preoccupazioni per chiunque voglia stabilirvi le basi avanzate della
sua sicurezza imperiale. Perciò il meno che ci si possa attendere da
un’amministrazione nominalmente fiduciaria ma in realtà strategica e imperiale delle
nostre colonie da parte di una grande potenza straniera, è la estromissione dolce o
violenta della popolazione coloniale italiana”140. L’articolo fa riferimento alla Gran
Bretagna, che aveva tutto l’interesse al mantenimento dello status quo.
Il Consiglio nazionale del Partito liberale, in un ordine del giorno approvato il
22 Giugno, dopo aver ricordato i vari sacrifici effettuati dall’Italia per la conquista e
la valorizzazione delle sue colonie, esprimeva l’auspicio che “il governo italiano, in

139
Atti della Consulta Nazionale, cit., pp. 307-312; cfr. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza,
cit., p. 220.
140
Anon., Italiani indesiderati, in «Risorgimento Liberale», 20 e 24 Febbraio 1946.

181
nome dell’attiva, fattiva cobelligeranza…faccia valere il diritto dell’Italia alle nostre
colonie, a riconoscimento dei ricordati enormi sacrifici e dell’opera di civilizzazione
e di colonizzazione nelle stesse dall’Italia compiuta”141.
Il Partito comunista italiano (PCI), che rappresentava poco meno del 20 per
cento dell’elettorato, affrontò il problema coloniale molto di rado, specie finché non
naufragò la richiesta russa nei confronti della Tripolitania, ad eccezione della presa di
posizione di Togliatti a favore di questa soluzione, che destò reazioni negative
nell’opinione pubblica. Oltre a ciò, su «L’Unità» venne dato scarso rilievo alla
questione delle colonie per i primi mesi del 1946, anche in considerazione delle
notizie su questo problema che sono messe in una posizione secondaria rispetto ad
altri temi142.
La risoluzione finale del 5° Congresso nazionale del Partito comunista
italiano, approvata l’8 Gennaio 1946, non accennava direttamente alla questione
coloniale ma voleva “rivendicare per l’Italia una pace giusta, che tenga conto del
contributo volontariamente dato dal popolo italiano nello schiacciamento del
fascismo”143. All’interno della Consulta, l’onorevole Spano presentava così la
posizione del PCI sul problema delle colonie: “Le colonie italiane mediterranee, per
esempio, andranno all’Italia ? Molto bene. O andranno ai Libici ? Noi comunisti
rispondiamo: molto bene, e forse anche meglio, certo anche meglio. Ma se le colonie
italiane nel Mediterraneo dovessero andare, ad esempio, ad una potenza che di
colonie ne ha già troppe, noi non saremmo d’accordo”144.
La posizione espressa dall’On. Spano era molto vaga e venne precisata dal
segretario Togliatti all’apertura della campagna elettorale per l’Assemblea
Costituente, il 5 Maggio 1946. “Gli Alleati - dichiarò allora il leader comunista

141
«Risorgimento Liberale», 23 Giugno 1946.
142
“Noi consideriamo - aveva scritto Togliatti su «L’Unità» del 14 Settembre 1945 – la questione del
Mediterraneo non secondo le scemenze imperiali del fascismo, ma secondo la vecchia tradizione
italiana, per cui quanto maggiore sarà il numero degli Stati interessati al regolamento di questa
condizione, tanto maggiori saranno per noi le garanzie di indipendenza”. L’unico articolo di fondo
apparso nel primo semestre del 1946 e riguardante indirettamente il problema (Anon.,Ragazzi senza
mamma, in «L’Unità», 17 Febbraio 1946, p.1) sosteneva il diritto delle migliaia di profughi italiani
della Tripolitania di tornare in Africa. cfr. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p. 221.
143
Anon., Testo della risoluzione finale del 5° Congresso Nazionale del Partito Comunista, in
«L’Unità», 9 Gennaio 1946, p. 1.
144
Atti della Consulta Nazionale, cit., p. 357; cfr. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p.
221.

182
italiano – avevano il diritto di prendere quello che serviva loro, che era loro
necessario; ma di questo bisogna che venga tenuto conto quando si tratta di
conteggiare i danni che dobbiamo pagare. Così per le colonie. Noi abbiamo detto:
riconosciamo che là vi sono dei frutti del lavoro italiano, ma riconosciamo che oggi
per ricostruire l’Italia non abbiamo bisogno delle colonie. E si tratta il problema
generale di equilibrio del Mediterraneo, noi dobbiamo riconoscere che è
nell’interesse dell’Italia che al bacino del Mediterraneo abbia accesso il maggior
numero possibile di Stati perché questo è un fatto che non può come sua
conseguenza che quella di migliorare la posizione internazionale del nostro
Paese”145.
Gaetano Salvemini teneva una posizione simile a quella comunista,
sostenendo la tesi che le colonie, una volta tolte all’Italia, venissero messe in conto
riparazioni146. “La sola cosa che conservereste – ammoniva in una lettera ad un
amico nel Maggio del 1946 – sarebbero gli stipendi da pagare agli impiegati coloniali
e le spese che dovreste sopportare per tenere alla catena gli indigeni che di voi non
ne vogliono sapere”147. Suggerendo ad Ernesto Rossi un appunto da inviare al Partito
socialista, nel Luglio 1946, prospettava che: “Niente colonie. L’Italia, come popolo
lavoratore ed emigrante, non ha mai ricavato che spese, di cui hanno approfittato
solamente appaltatori, funzionari, civili e militari e scarsissimi nuclei di coltivatori e
piccoli commercianti, la cui ragion d’essere sarebbe mancata se fossero mancati i
fondi su cui vivevano appaltatori e funzionari civili e militari. Chi ha conquistato
militarmente le colonie se le tenga pure, o le dia a chi vuole. Gli italiani rifiutano
anche di amministrarle a loro spese sotto la sorveglianza dell’ONU. Se l’ONU o
chiunque altro crede di utilizzare la competenza tecnica acquistata da italiani
nell’amministrazione coloniale, gli italiani ne saranno incantati; ma non si pretenda

145
Anon., La Repubblica che nascerà il due Giugno dovrà essere una Repubblica democratica che
garantisca libertà e giustizia sociale, in «L’Unità», 7 Maggio 1946, p.1. Qualche giorno prima
Togliatti aveva dichiarato all’inviato speciale di «Paris-Presse»: “Le nostre colonie costituiscono un
peso per noi, e la mia opinione è che, per la sua ricostruzione, l’Italia non ne ha bisogno” («Paris-
Presse», 1 Maggio 1946); cfr. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p. 222.
146
Salvemini a Reale, lettera del 20 Marzo 1946, in G. Salvemini, Lettere dall’America 1944-1946,
Laterza, Bari 1967, p. 239; cfr. Ivi.
147
Salvemini a Calamandrei, lettera del 16 Maggio 1946, ivi, p. 281; cfr. Ivi.

183
che i contribuenti italiani continuino a salassarsi affinché l’ONU e dietro all’ONU,
Inghilterra e Francia succhino da quelle ossa il poco midollo che hanno”148.
Nei mesi successivi l’attenzione politica italiana e del governo fu attirata dalle
varie conferenze internazionali preposte alla stesura del trattato di pace che, dopo
moltissime audizioni e tentativi italiani di ammorbidirlo, venne successivamente
approvato e firmato dall’Italia il 10 Febbraio 1947. Appena reso noto il testo
definitivo, cominciò a montare una certa indignazione all’interno dell’opinione
pubblica italiana, ponendo in seria difficoltà il governo. Nenni, davanti a questa pace
punitiva ed indeciso sul da farsi, chiese un parere a don Luigi Sturzo il quale
manifestò l’idea che il governo non doveva inviare a Parigi nessuno a firmare il
trattato perché non ne ha i poteri, che sono riservati alla Costituente, per cercare di
creare uno stato d’animo favorevole alla firma e per dimostrare ai paesi vincitori il
risentimento popolare per questa imposizione così dura. Nenni, però, non riuscì a
portare avanti il suo lavoro perché si dovette dimettere nella prima metà del Gennaio
1947, a causa della scissione all’interno dei socialisti che dette vita al Partito
socialista democratico italiano (PSDI), con segretario Saragat. Il suo ultimo atto fu
una nota inviata ai ministri degli esteri dei quattro in cui scrisse: “Il Trattato urta la
coscienza nazionale specie per le clausole territoriali. In queste condizioni il Ministro
degli Esteri si trova nella necessità di formulare le più espresse riserve e di chiedere
che sia riconosciuto il principio della revisione del Trattato sulla base di accordi
bilaterali cogli stati interessati, sotto il controllo e nell’ambito dell’ONU”149.
Il 1 Febbraio, con la costituzione del nuovo governo De Gasperi, Sforza
successe a Nenni e, nonostante la contrarietà al trattato, inviò a firmare il marchese
Antonio Meli Lupi di Soragna, subordinando la sua firma alla ratifica
dell’Assemblea Costituente. In sede di ratifica, il Ministro Sforza nota, nella sua
relazione presentata all’Assemblea il 27 Giugno 1947, le deficienze e le
incongruenze delle dichiarazioni astratte contenute nel Preambolo e crede che, a
nome del Governo, la ratifica non debba essere negata né ritardata. Alla
Commissione per i trattati internazionali, la relazione di maggioranza, relatore
Giovanni Gronchi, osserva che “documenti come questo trattato alla cui elaborazione
l’Italia non è stata ammessa, non si discutono; ma o si approvano subendo uno stato
di necessità o si respingono accettando ogni conseguenza del rifiuto”. La

148
Salvemini a Rossi, Allegato alla lettera del 12 Luglio 1946, ivi, p. 321; cfr. Ibid., p. 223.
149
Nenni, I nodi della politica estera italiana, cit., p. 53.

184
maggioranza della commissione, di fronte al problema, ha riconosciuto come
inevitabile la prima soluzione e, come aggiunse Gronchi: “d’altra parte, segni non
dubbi, che è lecito rilevare in manifestazioni ripetute e autorevoli, consentono di
confidare in una migliore giustizia per l’Italia” 150. La relazione di minoranza, firmata
dall’on. Nitti, considerando appunto che mancava ancora la ratifica dell’URSS e “che
la ratifica anticipata dell’Italia non farebbe uscire dalla situazione di armistizio e
sarebbe delusoria per tutto il popolo italiano”, conclude contro la ratifica immediata.
Durante la discussione alla Camera dei Deputati, avvenuta tra il 23 e il 31
Luglio 1947, la rinuncia preventiva alle colonie venne indicata da più parti come
inaccettabile. Per Benedetto Croce, quelle colonie che l’Italia ha “acquistato col suo
sangue, amministrate e portate a vita civile ed europea col suo ingegno e con
151
dispendio delle sue tutt’altro che ricche finanze” . Meuccio Ruini precisò che
l’Italia non voleva ritornare al vecchio tipo di colonie: “Vogliamo un tipo nuovo, che
esce da quello storico, che non sull’avviamento all’indipendenza delle popolazioni
indigene e insieme sulla collaborazione con le altre potenze nello sforzo comune” 152.
Il 29 Luglio, Togliatti, parlando all’Assemblea Costituente, la richiama alla
considerazione degli errori commessi non solo dal fascismo ma dall’antifascismo.
“Degli errori del fascismo il trattato rappresenta la sanzione. Degli errori dei Governi
antifascisti il trattato rappresenta la formula meno favorevole di quel che avrebbe
potuto essere”153. Anche Nenni riconobbe che “da un piano di valorizzazione
dell’Africa, l’Italia e gli italiani non possono essere esclusi. Nessuno, su questi
banchi, pensa che l’Italia possa tornare in Africa come potenza conquistatrice,
oppressiva, sfruttatrice; tutti pensiamo che l’Italia deve tornare in Africa come
elemento di progresso e di civiltà, come alleata naturale del mondo arabo nello
sforzo teso verso l’indipendenza del mondo nero” 154. Nella votazione del 31 Luglio,
l’autorizzazione alla ratifica del trattato è votata con 262 favorevoli, 68 contrari e 80
astenuti.

150
Giacomo Perticone, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni
parlamentari, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1965, pp. 161-162.
151
Benedetto Croce, Discorsi parlamentari, Bardi, Roma 1966, p.209; cfr. Del Boca, Gli italiani in
Africa Orientale, cit., p. 32.
152
Perticone, La politica coloniale dell’Italia, cit., p. 163.
153
Ibid., p. 164.
154
Ivi.

185
“Il problema delle colonie, anche se non è sentito nel paese come quello della
Venezia Giulia, tocca comunque, secondo i risultati di un’indagine Doxa, il 18,1 per
cento degli italiani, i quali ritengono la perdita dei territori africani come la
mutilazione più dolorosa”155. Questa minoranza era combattiva e possedeva gli
strumenti necessari, tra cui alcuni organi di informazione e spazio sui quotidiani
nazionali, per portare avanti la propria battaglia. Una minoranza che venne tenuta in
considerazione e con grande attenzione dal governo e dalle opposizioni come ricordò
l’«Avanti!» qualche anno dopo, screditando il Congresso dell’Africa Italiana del
1947 e gli esponenti dei partiti proletari che vi parteciparono.
Per i partiti al governo, dopo l’uscita di comunisti e socialisti nella primavera
del 1947, i profughi non costituirono soltanto dei voti, ma una cassa di risonanza che
poteva essere usata per motivare le tesi via via sostenute. De Gasperi, Sforza e il
sottosegretario Brusasca utilizzarono tutte le manifestazioni ufficiali per esprimere
solidarietà e vicinanza ai profughi italiani. Il 16 Settembre 1947, il giorno in cui
entrò il vigore il trattato, l’appello di De Gasperi andò oltre, rivolgendosi all’intera
cittadinanza italiana: “Questa mia voce accorata ma ferma giunga consolatrice anche
negli accampamenti dei profughi dell’Africa e fra gli italiani rimasti nelle antiche
colonie, che furono rinnovate economicamente ed elevate a civiltà dal tenace lavoro
e dal duttile ingegno dei nostri colonizzatori…”156. Carlo Sforza, invece, dichiarò che
“noi agiremo per i gruppi italiani rimasti in Africa, per i nostri interessi in Africa, li
difenderemo perché sono italiani e perché sono carne della nostra carne; ma anche
perché mostreremo e faremo sentire al mondo che la presenza degli italiani in terre
africane, che prima di noi erano deserti, costituisce un beneficio comune per
l’Europa”157.
“Sulla scia delle dichiarazioni governative e mentre la commissione
quadripartita svolge la sua indagine nelle tre ex colonie italiane tra il Novembre 1947
e il Giugno 1948, sulla stampa italiana si svolge un nuovo e più ampio dibattito, reso
particolarmente aspro e turbolento da alcuni avvenimenti, come la strage dei 54
italiani a Mogadiscio, l’improvvisa decisione di Mosca di appoggiare le
rivendicazioni di Roma sulle sue ex colonie e le elezioni politiche del 18 Aprile

155
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 32.
156
Anon., De Gasperi invita al coraggio, alla dignità e alla fiducia nella sicura rinascita del paese, in
«Il Popolo», 16 Settembre 1947, p. 1.
157
Perticone, La politica coloniale dell’Italia, cit., p. 291.

186
1948”158. Questo episodio fece assumere a tutti i partiti un atteggiamento patriottico
sul tema coloniale ed erano d’accordo affinché l’Italia rimanesse in Africa, anche se
con diverse rivendicazioni, metodi di ottenimento e alleanze da coltivare.
La questione africana, già durante i negoziati per il trattato di pace e negli
appuntamenti successivi, aveva offerto ai partiti di destra (nazionalisti, monarchici,
neofascisti) l’opportunità di criticare l’azione governativa e delle potenze occidentali,
in particolar modo dagli inglesi che erano i responsabili principali della perdita delle
colonie. La linea adottata dal Governo italiano fino a quel momento, trusteeship
italiano sulle tre colonie prefasciste, portò molti inconvenienti sul piano interno dato
che era una proposta irraggiungibile per le motivazioni che si davano come l’eccesso
di popolazione e l’azione civilizzatrice italiana in terra africana. “Rigidamente
allineati su queste posizioni erano non soltanto i democristiani, ma anche i
repubblicani e i socialisti saragattiani, che dal Dicembre 1947 facevano parte della
coalizione governativa, nonché i liberali. Significativamente anche la Chiesa
cattolica, con tutto il peso che esercitava su una parte assai vasta dell’opinione
pubblica, si muoveva in questa direzione”159. In alcuni articoli, i toni utilizzati da
«Civiltà Cattolica», autorevole organi dei Gesuiti, richiamavano un nazionalismo
simile a quello dei movimenti di destra che denunciava le clausole coloniali del
trattato di pace, attaccando la politica inglese e la stupidità dei Grandi.
Le sinistre seguivano da tempo, con molta attenzione, la questione africana e,
non solo i socialisti, ma anche i comunisti, assunsero un atteggiamento nazionalista.
La posizione socialista era dal principio chiara: erano favorevoli al ritorno italiano in
Africa e, nel breve periodo in cui Nenni fu Ministro degli Esteri, tra l’Ottobre 1946 e
il Gennaio 1947, aveva sostenuto questa tesi con un’azione personale diretta.
L’impostazione colonialista respingeva il vecchio metodo, dato che il ritorno in
territorio africano era sollecitato nel rispetto dei principi sanciti dalla Carta dell’ONU
e nella tutela dei lavoratori italiani. Questo impianto, però, dall’inizio del 1946 era
condiviso dai liberali, dai repubblicani e dai democristiani.
Meno uniformità c’era nell’atteggiamento comunista, interessati soprattutto
alle riforme strutturali della società italiana e contrari, per tradizione ideologica, a
tutto ciò che potesse riallacciarsi al colonialismo. Dal Maggio 1946, però, quando
l’URSS abbandonò la richiesta di amministrazione fiduciaria della Tripolitania, i

158
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 36.
159
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., pp. 322-323.

187
comunisti italiani assunsero un atteggiamento filo-coloniale e, dopo la loro
esclusione dal Governo, nel Maggio del 1947, criticarono aspramente il Gabinetto De
Gasperi per non sostenere sufficientemente la causa italiana contro le pretese anglo-
americane. I fatti di Mogadiscio, a pochi mesi dalle elezioni, furono utilizzati dalla
stampa di sinistra per la campagna contro le potenze occidentali e il Governo: “La
responsabilità inglese non elimina quella del nostro Governo”, scriveva «L’Unità»,
precisando che “i tragici fatti di Mogadiscio gettano una luce cruda sull’insufficienza
dell’azione diplomatica di Palazzo Chigi”160. L’intesa anglo-americana per la base
della Mellaha era poi venuta a rafforzare queste tesi e titoli come “La Libia interessa
agli Anglo-americani come centro di offesa militare”161, oppure “Sforza plaude alla
conquista americana di Tripoli”162, confermando il senso di impotenza italiano da
parte dei partiti di destra, acuito da quelli di sinistra con la politica di aggressione nei
confronti dell’URSS. Era naturale che socialisti e comunisti mettessero in evidenza
l’iniziativa sovietica di appoggio all’Italia sul tema coloniale, qualificata come “un
gesto di amicizia in una delle questioni più importanti della politica italiana”163 e
accolta con piacere dalla stessa destra estrema164.
La questione coloniale così fu inserita dalla propaganda del Fronte Popolare,
nello scontro preelettorale con i partiti filo-occidentali, elevando i socialisti e i
comunisti a paladini della richiesta di trusteeship italiano e corteggiando i numerosi
coloni rimpatriati, data la facilità per la propaganda socialcomunista di porre in
antitesi l’atteggiamento sovietico di apertura nei confronti degli italiani e gli incidenti
di Mogadiscio. Anche in questo caso sui giornali di sinistra cominciarono le accuse
al governo di “rinuncia alle colonie” per cederle all’imperialismo anglo-americano e,
in un’intervista rilasciata a «L’Unità» il 2 Marzo 1948, l’on. Scoccimarro affermò
che “le nostre colonie sono in pericolo…a un punto tale che Tripoli e Bengasi sono

160
Anon., Gli inglesi deportano gli italiani sostenendo di proteggerne l’incolumità, in «L’Unità», 15
Gennaio 1948, p. 4.
161
Anon., La Libia interessa agli Anglo-americani come centro di offesa militare, in «Avanti!», 18
Gennaio 1948.
162
«L’Unità», 17 Gennaio 1948.
163
«Avanti!», 17 Febbraio 1948.
164
Si veda ad es. il seguente commento apparso su «L’Ora d’Italia» del 20 Febbraio 1948: “Il gesto
della Russia è il benvenuto fra tutti gli Italiani, comunisti o no…Ringraziamo il Governo di Mosca per
l’imbarazzo in cui ha messo coloro che ci vogliono cacciare dall’Africa”; cfr. Rossi, L’Africa italiana
verso l’indipendenza, cit., p. 325.

188
ormai trampolini dell’imperialismo anglo-americano, ad onta degli sforzi della
Francia e dell’Unione Sovietica per far ritornare al nostro paese quelle colonie”.
Anche gli Occidentali, come l’URSS, cercarono di influenzare le elezioni
italiane per paura delle conseguenze della vittoria del Fronte popolare che avrebbe
fatto passare la penisola all’interno della sfera di influenza sovietica con la perdita di
una posizione di grande importanza nel Mediterraneo. Già dal Novembre 1947,
venne suggerito dal Consiglio di sicurezza nazionale statunitense, una serie di
iniziative di carattere economico dirette a sostenere il Governo De Gasperi con
l’obiettivo di far rimanere l’Italia nell’alleanza occidentale, utilizzando la potenza
politica, economica e, se necessario, militare.
“Ne conseguiva che le elezioni italiane non potevano essere considerate come
un affare puramente interno: esse costituivano invece un test decisivo nello scontro
tra Est e Ovest in una fase storica in cui la divisione del mondo in blocchi stava
giungendo ad un punto di non ritorno. La creazione del Cominform nell’Ottobre del
1947, il totale fallimento della nuova conferenza dei Ministri degli Esteri, riunitasi a
Londra tra il Novembre e il Dicembre per discutere le questioni della Germania e
dell’Austria, il colpo di Stato comunista a Praga alla fine del Febbraio 1948: erano
queste le nuove manifestazioni che tra la fine del 1947 e gli inizi del 1948
contribuirono ad approfondire la già consistente divisione tra Oriente ed Occidente e
la preoccupazione occidentale di contrastare l’ulteriore ampliamento della sfera
d’influenza sovietica”165.
La campagna elettorale si trasformò in un infuocato dibattito sulla scelta tra
URSS e USA: “come mai era avvenuto prima, le questioni internazionali
galvanizzarono l’opinione pubblica”166. I temi dell’elezione non furono i problemi
concreti per la società italiana come il progresso economico, i problemi del
Mezzogiorno o la riforma agraria ma gli aiuti del Piano Marshall, la revisione del
trattato di pace, la crisi cecoslovacca ecc. Fu, in particolar modo, il tema concreto
degli aiuti americani a trascinare la competizione sul terreno internazionale: la
propaganda dei partiti di governo filo-occidentali insistette su questo argomento
come una carta di sicura presa sull’elettorato mentre il Fronte socialcomunista lo
delineava come lo strumento principale di asservimento all’imperialismo americano.

165
Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, cit., p. 328.
166
Ivi.

189
La questione delle elezioni del 18 Aprile 1948 si risolse con la netta vittoria
della Democrazia Cristiana, che ottenne da sola 12 milioni di voti, ossia il 48 per
cento, contro gli 8 milioni del Fronte popolare, pari al 31 per cento, indicando una
scelta favorevole del popolo italiano verso l’Occidente, eliminando il timore degli
anglo-americani che era stato incoraggiato dalla sicurezza con cui il Fronte aveva
pronosticato un suo clamoroso successo.
Dopo la sconfitta elettorale e l’inserimento dell’Italia nel campo occidentale,
si cominciò a rilevare, nella stampa di sinistra, un distacco dalle vecchie tesi coloniali
come si può evincere da un articolo apparso su «Italia socialista», dal titolo Non
vogliamo le colonie in cui Ernesto Rossi attacca i giornali di destra che hanno
iniziato a riprendere il tema con argomenti futili e ormai obsoleti come l’eccesso di
popolazione, il rifornimento di materie prime, uno sbocco per i nostri prodotti,
insomma, tutti motivi che vengono utilizzati per risvegliare i sentimenti nazionalistici
degli italiani. Successivamente, Rossi indica che il compito della stampa di sinistra è
quello di rispondere a questa propaganda spiegando all’opinione pubblica la verità
sulle colonie, “invece i giornali comunisti per mantenersi in linea con la politica
estera sovietica, tengono bordone ai giornalisti reazionari, protestando contro la
nefanda ingiustizia dei paesi capitalistici che non vogliono restituire le colonie e
manifestando la loro indignazione per l’offesa inflitta al nostro onore nazionale. E
l’«Avanti!» praticamente tace”167.
Pochi giorni più tardi arrivò la replica dell’«Avanti!», con un articolo di
Riccardo Lombardi dal titolo Politica coloniale? in cui, dopo aver ricordato gli
articoli di Rossi e la tesi anticolonialista di Salvemini, ancora valida per i socialisti,
ammise che “non c’è dubbio che la questione delle rivendicazioni coloniali ha
esercitato qualche seduzione, negli ultimi anni, perfino sull’opinione socialista,
sull’opinione cioè che dovrebbe, per istinto oltreché per tradizione, risultare
impermeabile a qualsiasi illusione”. Fatta autocritica, prosegue affermando che: “È
tempo che i temi e le formule della politica coloniale siano riproposte all’opinione
socialista non già nella loro rozza formulazione falsamente sentimentale e falsamente
patriottica, ma nel loro reale e non equivoco significato reazionario…Prima di
redimere e di civilizzare la Libia, si cominci col redimere dalla miseria,

167
«Italia socialista», 27 e 28 Agosto 1948.

190
dall’analfabetismo, dalla mancanza di case, di strade, di acqua, i territori coloniali,
che, per la nostra vergogna, abbiamo ancora in Patria”168.
Due settimane dopo, sempre sull’«Avanti!», Giuseppe Lupis attaccò la
politica coloniale di Sforza, scrivendo: “Se dobbiamo tornare in Africa, dobbiamo
tornare non come diretti amministratori, ma come consiglieri e come controllori”169.
Il 24 Settembre, parlando alla Camera dei Deputati, Nenni sostenne che i socialisti
non potevano disinteressarsi dei profughi dall’Africa perché “sono in gioco gli
interessi concreti di alcune decine di migliaia di lavoratori italiani, coloni,
commercianti, imprenditori di lavori. Si tratta di 180.000-200.000 profughi i quali
vivono in condizioni miserevoli nel nostro paese. L’opera di civilizzazione da loro
compiuta, a lato o ai margini degli orrori delle guerre coloniali, pone o ripropone il
diritto della nostra presenza in Africa, nei limiti di una presenza atta a preparare le
condizioni dell’autogoverno delle popolazioni indigene”170. Come si evince da questi
articoli non c’è omogeneità di vedute all’interno del PSI e “forse ha ragione Riccardo
Lombardi quando precisa come abbiamo visto, che «una sottile vena di mentalità
colonialista ha continuato e continua a serpeggiarvi»”171.
Qualche settimana più tardi, esattamente il 16 Ottobre 1948, alla Camera dei
Deputati ebbe inizio il dibattito sul disegno di legge sullo stato di previsione della
spesa del Ministero dell’Africa italiana per l’esercizio finanziario 1948-49, in cui
vennero ripresi i temi politici sugli ex possedimenti italiani d’oltremare. Reginaldo
Monticelli, deputato della Democrazia Cristiana, ribadì che non si poteva continuare
con la vecchia mentalità coloniale, aggiungendo: “Oggi noi dobbiamo adattarci alle
nuove esigenze che sono state create dalla guerra e dalla situazione internazionale,
per cui non si può più parlare di interessi politici o di interessi militari, ma si deve
parlare esclusivamente di interessi commerciali e di interessi di scambio”172. Inoltre,
“Noi dobbiamo affidarci alla collaborazione internazionale a nome della nostra
millenaria civiltà, e dobbiamo far si che l’Italia ritorni in Africa senza segni
imperialistici e di conquiste, né per controllare porti o aeroporti, ma soltanto in base

168
«Avanti!», 4 Settembre 1948.
169
«Avanti!», 18 Settembre 1948.
170
«Avanti!», 25 Settembre 1948.
171
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., pp. 38-39.
172
La discussione alla Camera dei Deputati del 16/10/1948, sullo stato di previsione della spesa del
Ministero dell’Africa italiana per l’esercizio finanziario 1948-49, è possibile leggerla integralmente al
seguente link: http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0109/sed0109.pdf .

191
a un mandato fiduciario che deve provenire da una investitura internazionale”173.
Giuseppe Lupis, del Partito Socialista Democratico Italiano, aggiunse: “noi,
purtroppo, siamo tagliati fuori dal gioco delle grandi potenze al cui giudizio e al cui
arbitrio – se vogliamo – rimane la soluzione di un problema che, può dirsi, interessa
in modo vitale gli italiani tutti. Ciò tuttavia, non deve farci perdere di vista la meta
ch’io ritengo non solo, non secondaria, ma addirittura principale del ritorno del
nostro lavoro in Africa, quale che possa essere l’assetto definitivo che verrà
riconosciuto a quei territori”174. Gaspare Ambrosini, della DC, concluse il suo
intervento chiedendo: “Quale è la possibilità che resta a noi ? Quella di sottoporre
all’ONU la soluzione legittima, equa e conveniente per tutti, cioè l’applicazione
dell’articolo 82. Così, appoggiandoci alle disposizioni dello Statuto dell’ONU,
prospettiamo la questione. Che, se gli altri chiudono gli occhi per non vedere, o sono
sordi per non sentire, sicuramente la responsabilità non sarà nostra; ma noi dovremo
fino all’ultimo momento battere questa via e parlare con assoluta onestà e
chiarezza”175.
Il 1 Dicembre iniziò alla Camera la discussione sulle mozioni Nenni e
Giacchero riguardo la politica estera del Governo De Gasperi. Il problema coloniale
venne preso in considerazione molto marginalmente all’interno degli interventi dei
deputati, dato che il tema principale di quei mesi di politica estera fu l’ingresso
dell’Italia nel Piano Marshall e quindi nella sfera d’influenza occidentale, a conferma
dell’esito delle votazioni del 18 Aprile 1948.
Il problema coloniale fu l’argomento principale dell’intervento dell’on. Russo
Perez, del Gruppo Misto ed ex deputato dell’Uomo qualunque, che criticò l’azione
dell’Unione Sovietica, “la Russia domandò parte delle colonie italiane; e nel
Settembre del 1945 chiese esplicitamente il mandato sulla Tripolitania”176, e
l’atteggiamento britannico poiché “è nelle abitudini di quel paese, alla fine di ognuna
delle molte guerre alle quali sovente costringe l’Europa, portare alla sua mensa
qualcuna delle briciole raccolte dal desco dei più poveri”177. Continua con un

173
Ivi.
174
Ivi.
175
Ivi.
176
La discussione alla Camera dei Deputati del 01/12/1948, sulle mozioni Nenni e Giacchero riguardo
la politica estera del governo De Gasperi, è possibile leggerla integralmente al seguente link:
http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0144/sed0144.pdf .
177
Ivi.

192
giudizio negativo per l’operato del Conte Sforza, che rifiutò la proposta di riprendersi
solamente la Somalia, aggiungendo: “se un Ministro si rifiuta una soluzione
mediocre e finisce con l’ottenere una migliore, è scusabile; ma se, per abbracciar
troppo, stringe nulla, non può sfuggire alla censura del Parlamento e alla condanna
del Paese”178. Il 2 Dicembre, nel continuo dei dibattito parlamentare sulle mozioni di
opposizione, l’on. Adonnino, della Democrazia Cristiana, nel suo discorso
all’Assemblea pone come un punto grave la situazione degli ex possedimenti
d’oltremare anche se vede positivamente l’appoggio dei paesi latinoamericani e della
Francia in questa battaglia, grazie all’azione diplomatica del governo De Gasperi,
continuando: “Per le Colonie. La lotta è aperta, grave, serrata; le sue stesse alterne
vicende, il suo stesso prolungarsi nel tempo, dimostrano a chi non voglia tapparsi gli
occhi, l’azione del governo appassionata, vigile, abile!”179. Il 3 Dicembre, il Ministro
degli Esteri Sforza rispose alle dichiarazioni dei deputati intervenuti precedentemente
al suo intervento e, replicando all’on. Russo Perez, disse: “gli inglesi erano pronti a
darci la Somalia e far rientrare i lavoratori italiani nelle altre colonie e ad offrirci
emigrazione nelle loro…gli rispondo che una soluzione così mediocre siamo sempre
in tempo ad accettarla, ma che l’opinione pubblica italiana non la troverebbe
soddisfacente, tanto più che le possibilità di emigrazione sono aleatorie dal punto di
vista pratico. Nelle nostre ex colonie il ritorno dei profughi è dubbio, se non si creano
le condizioni di lavoro che lo facilitino, cosa questa che non potrebbe esser fatta se
non da una amministrazione italiana. Infatti l’attività che i nostri coloni svolgevano
era direttamente connessa con la presenza dell’Italia e con i legami economici
esistenti fra quei territori e l’Italia”180. Il 4 Dicembre, durante il suo intervento, il
deputato liberale Cocco Ortu disse: “Per quanto riguarda le colonie, ferma restando
la nostra preferenza per il regime della porta aperta a tutti i lavoratori, per tutti i
possedimenti, è ovvio come, non potendosi ottenere – come è nostra legittima
aspirazione – l’immediato mandato su tutte le terre d’oltremare (Eritrea, Somalia,
Tripolitania e Cirenaica), nelle quali l’Italia liberale andò con il consenso di tutte le

178
Ivi.
179
La discussione alla Camera dei Deputati del 02/12/1948, sulla continuazione delle mozioni Nenni e
Giacchero riguardo la politica estera del governo De Gasperi, è possibile leggerla integralmente al
seguente link: http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0145/sed0145.pdf .
180
La discussione alla Camera dei Deputati del 03/12/1948, sulla continuazione delle mozioni Nenni e
Giacchero riguardo la politica estera del governo De Gasperi, è possibile leggerla integralmente al
seguente link: http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0146/sed0146.pdf .

193
Potenze e che secondo solenni impegni non dovrebbero esserci contese, la soluzione
di procrastinare la decisione ci sembri la meno peggiore, nella speranza che nel
frattempo possa esservi una distensione internazionale che elimini od attenui i motivi
strategici che sono stati avanzati”181.
Il 26 Maggio, successivamente al voto contrario alle Nazioni Unite sul
compromesso Bevin-Sforza, ci furono delle interpellanze parlamentari al Presidente
del Consiglio e al Ministro degli Esteri sul suddetto patto, se possa essere ripreso in
considerazione nuovamente, e sugli sviluppi internazionali riguardanti gli ex
possedimenti italiani in Africa. Russo Perez e, nell’intervento susseguente, l’on.
Cutitta, criticano aspramente il governo per non aver saputo gestire il problema
coloniale a livello internazionale, collezionando solamente fallimenti, di cui l’ultimo
è solamente la conseguenza delle politiche sbagliate dei vari governi che si sono
succeduti dal dopoguerra fino a quel momento. Una critica costruttiva viene invece
dall’on. Treves, membro del gruppo parlamentare dei socialisti di Saragat, che “se ha
un senso il rigetto del compromesso Bevin-Sforza, io credo che noi dobbiamo
esaminare la posizione dei piccoli Stati riguardo a questo progetto. È stata, in un
certo modo…un’affermazione di indipendenza e di libertà sovrana di ogni piccolo
stato…Noi abbiamo creduto, una volta messici d’accordo con i «grandi», che tutto
era fatto, che avevamo l’approvazione in tasca. Ebbene, signori, noi che siamo
democratici, dobbiamo pure ammettere che ha un valore positivo, anche se ai nostri
danni in questo momento, questo senso di indipendenza e di singolare valore di tutti i
membri dell’Organizzazione delle nazioni unite. Ma il compromesso Bevin-Sforza è
stato anche respinto…perché dalla maggioranza dell’ONU esso venne considerato
troppo favorevole al nostro paese”182. Un punto di vista molto interessante venne
espresso dall’on. Ambrosini della Democrazia Cristiana: “Onorevoli colleghi,
giacché l’argomento tanto appassiona il paese, è doveroso – perché tacendo noi non
faremmo interamente il nostro dovere – aggiungere altre considerazioni che
investono il problema generale dell’Africa non più soltanto dal punto di vista
speciale della sorte delle nostre colonie, ma anche dal punto di vista, complessivo e
di più ampia portata, relativo a tutti i territori non indipendenti dell’Africa, cioè in

181
Ivi.
182
La discussione alla Camera dei Deputati del 26/05/1949, sulle interpellanze parlamentari sulle
votazioni alle Nazioni Unite del compromesso Bevin-Sforza, è possibile leggerla integralmente al
seguente link: http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0241/sed0241.pdf .

194
concreto alla maggior parte dei territori del continente africano”183. Il Ministro
Sforza rispose alle suddette interpellanze e concluse il suo intervento difendendo
l’accordo preso con Bevin: “Vagliato ogni elemento in mio potere, eseguiti taluni
sondaggi, mi convinsi che a Londra avrei ottenuto garanzie maggiori che
all’ONU….perché la nostra missione civilizzatrice in Africa noi non potremo
assolverla che essendo amici dell’Inghilterra…Sapevo bene che rischiavamo penosi
sacrifici di cui solo in avvenire avremmo trovato altrove dei compensi. Ma - ditemi –
oggi che il compromesso di Londra è stato respinto non solo dai sovietici e loro
alleati ma da quasi tutti gli Stati asiatici, non abbiamo noi avuto la prova matematica
che l’accordo era per noi migliore di qualunque altro compromesso che avremmo
potuto subire ?”184.
Le forze politiche italiane ritornarono a discutere del problema coloniale
durante il dibattito per lo stato di previsione di spesa annuale per il Ministero degli
Esteri e, ancora una volta, fu l’on. Treves a immettere la questione coloniale
all’interno della discussione: “Era inevitabile che la situazione generale del mondo si
ripercuotesse anche sui problemi coloniali; ed era quindi inevitabile che l’Italia
dovesse fare dei sacrifici, dolorosi ma necessari. Se si riuscirà a salvare il principio
dell’indipendenza, se si riuscirà non solo ad ottenere il mandato fiduciario sulla
Somalia, che sembra garantito, ma una certa protezione generale ed effettiva del
lavoro e dell’emigrazione italiana verso quei territori; se l’Italia, In altre parole,, non
sarà esclusa da quella che è l’opera collettiva per lo sviluppo verso l’autonomia
sempre più completa dei territori d’oltremare, penso che noi potremmo dire di aver
chiuso un capitolo doloroso in piena dignità, e forse con qualche vantaggio per
l’avvenire del paese”185. L’on. Giolitti, deputato del PCI, criticò aspramente la
politica estera del governo dal 1945 al 1949 perché: “La realtà è che mai ci siamo
trovati di fronte a una politica più insulsa, più inetta e più colpevole. Se consideriamo
quelle che sono state le speranze fallaci date al popolo italiano quando si sapeva che
la realtà era diversa; se consideriamo quelli che sono stati gli obiettivi indicati dal
Governo; se consideriamo quelle che erano le nostre possibilità…se consideriamo
l’assoluta inefficienza…dei mezzi impiegato per perseguire quegli obiettivi e per
183
Ivi.
184
Ivi.
185
La discussione alla Camera dei Deputati del 20/10/1949, sullo stato di previsione di spesa annuale
del Ministero degli Affari Esteri, è possibile leggerla integralmente al seguente link:
http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0328/sed0328.pdf .

195
ottenere i risultati che si volevano ottenere; se paragoniamo tutto questo con i
risultati ai quali siamo giunti, veramente non occorrono altre parole per definire e
qualificare tutta la politica estera del Governo e particolarmente su un problema così
bruciante per il nostro popolo qual è il problema delle nostre ex colonie”186. Il giorno
successivo, l’on. Viola della DC prese la parola in difesa dell’operato del governo:
“Va invece riconosciuto al Ministro, onorevoli colleghi, il merito di aver capito che,
non potendo noi riavere la Libia e l’Eritrea, bisognava cercare di accattivarsi
l’amicizia dei popoli arabi; perché, se l’Inghilterra, che voleva per sé queste colonie,
ha finito col comprendere che non valeva la pena di giocarsi l’amicizia dei popoli
arabi…Io confido che l’Eritrea non sarà spartita, che l’Eritrea avrà anch’essa la sua
indipendenza; e confido anche che la Somalia ci verrà definitivamente restituita”187.
Pietro Nenni, invece, ebbe dei seri dubbi sulla dichiarazione di Sforza del 1 Ottobre
all’Assemblea generale in cui, per la prima volta, dichiara di essere favorevole
all’indipendenza della Libia come unità e non divisa nelle tre regioni (Fezzan,
Tripolitania e Cirenaica), sotto la sovranità dell’emiro della Senussia, perché
rimarrebbe comunque sotto l’ombrello britannico e non arriverebbe ad un
autogoverno vero e proprio.
La discussione sul bilancio dei ministeri fu l’ultima occasione per un dibattito
parlamentare, sulle questioni di politica estera, prima della decisione dell’Assemblea
generale delle Nazioni Unite del 21 Novembre. I giornali italiani, nel mese tra la fine
del dibattimento e la risoluzione dell’ONU, tennero in considerazione il problema
delle ex colonie solamente quando ci furono delle novità da parte dei vari organi
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
L’organo del Partito repubblicano italiano, «La Voce Repubblicana», dette
una prima notizia il 3 Novembre nella sua rubrica giornaliera sugli Affari Esteri sui
lavori del Sottocomitato dei 21, così come accadde nei successivi numeri del
quotidiano in cui si dettero telegrafiche notizie sullo svolgimento delle attività del
sottocomitato. Al contrario, «L’Unità» dette spazio alla notizia e reputò importante la
decisione presa “in quanto anche in seno al Comitato politico sarà ormai difficile

186
Ivi.
187
La discussione alla Camera dei Deputati del 21/10/1949, sul dibattito sullo stato di previsione di
spesa annuale del Ministero degli Affari Esteri, è possibile leggerla integralmente al seguente link:
http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0330/sed0330.pdf .

196
separare un problema dall’altro e le manovre anglo-americane intese a legare l’una a
l’altra decisione a baratti di corridoio avranno minore possibilità di riuscita”188.
Il 9 Novembre, «L’Unità» concesse spazio alla proposta del delegato polacco
sull’indipendenza della Libia, sulle idee per creare il Comitato consultivo e venne
data notizia “delle consultazioni svoltesi in questi giorni a Tripoli, tra
l’amministratore britannico per la Tripolitania Barkley e numerosi capi e notabili
locali…L’Inghilterra tenterebbe dunque in Tripolitania un colpo di mano simile a
quello attuato in Cirenaica alla vigilia della riunione dell’ONU: un governo locale
«indipendente» la cui politica estera è dettata dal Foreign Office”189. «La Voce
Repubblicana», l’11 Novembre, e anche «L’Unità» del giorno precedente, dettero la
notizia della votazione della Commissione politica dell’Assemblea generale sui vari
paragrafi riguardanti la Libia, la sua indipendenza e la creazione del Comitato
consultivo190. Nei giorni successivi, i due quotidiani in prima pagina trasmisero la
notizia della quasi sicura immediatezza del mandato sulla Somalia, indicando la
proposta argentina del trapasso dei poteri con i britannici nel più breve tempo
possibile e viene data notizia della questione eritrea che venne differita al 1950 per le
difficoltà di trovare una soluzione comune al problema191.
Il 16 Novembre vennero riportati i commenti americani sulle decisioni prese
al Comitato politico sul futuro delle ex colonie italiane: “Il «New York Times»
afferma anche che il Piano complessivo sarà sanzionato dalla Assemblea perché
soddisfa le Potenze occidentali, in quanto tiene la Russia fuori dal Mediterraneo. Al
tempo stesso, il blocco arabo sarà soddisfatto per l’indipendenza della Libia, mentre
il grande gruppo Latino-Americano si ritiene soddisfatto per l’assegnazione della
Somalia all’Italia”192. Nei giorni successivi ci furono delle piccole notizie sulla
questione fino al 22 Novembre quando si dette ampio spazio al voto finale
188
Anon., La questione delle ex colonie italiane sarà discussa e decisa nel suo complesso, in
«L’Unità», 2 Novembre 1949, p. 4.
189
Anon., L’Inghilterra prepara in Tripolitania un colpo di mano come sulla Cirenaica, in «L’Unità»,
9 novembre 1949, p. 4.
190
Anon., L’Italia rappresentata nel Consiglio per la Libia, in «La Voce Repubblicana», 11
Novembre 1949, p. 1.
191
Anon., Forse immediato il mandato sulla Somalia, in «La Voce Repubblicana», 13 Novembre
1949, p. 1; Anon., L’Italia amministrerà fiduciariamente la Somalia, in «L’Unità», 11 Novembre
1949, p. 1.
192
Anon., Commenti americani alle decisioni per le Colonie, in «La Voce Repubblicana», 16
Novembre 1949, p. 1.

197
all’Assemblea generale e, “da tutti gli interventi può risultare quasi con assoluta
certezza quale sarà l’esito della votazione: e cioè l’approvazione con la necessaria
maggioranza delle proposte della Commissione politica” citando anche le
dichiarazioni dei delegati statunitense, libanese e britannico tutte favorevoli e
concilianti con il progresso effettuato dall’Italia democratica e con le sue capacità di
portare nel tempo concesso all’indipendenza e alla modernizzazione della
Somalia193. Anche «La Stampa» da molto spazio alla vicenda, il cui corrispondente
da New York Gino Tomajuoli aprì il suo articolo complimentandosi con la
diplomazia italiana: “L’Italia ha vinto oggi la sua prima battaglia diplomatica…La
vittoria è stata sanzionata dalla schiacciante votazione favorevole dell’Assemblea
generale, la maggiore registrata fino ad ora in una questione che per due anni ha
costituito una delle cause di separazione del mondo”194.
Il 23 Novembre, «La Voce Repubblicana» concesse ampio spazio alla notizia
sulla votazione favorevole al progetto finale sulle ex colonie italiane e
“particolarmente, si insiste nel riconoscere la validità dell’azione italiana, che è valsa
l’adesione alla tesi più giusta…la nostra delegazione…è stata vivamente
complimentata al termine dell’Assemblea…Non è senza significato che entrambe le
decisioni siano di sommo interesse per l’Africa, in cui dovrà realizzarsi la più piena
collaborazione internazionale. A questa collaborazione l’Italia parteciperà con il
pieno diritto che le dà la sanzione ufficiale delle Nazioni Unite, pur non facendo essa
parte dell’organizzazione internazionale…”195. Come si evince da questa parte
dell’articolo il giornale repubblicano da ampio credito alla diplomazia e alla politica
estera italiana per questo successo in ambito ONU, considerato il fatto che l’Italia
non era un paese membro delle Nazioni Unite. Il 24 Novembre vennero riportate le
considerazioni dei giornali inglesi e statunitensi sulla risoluzione ONU, in cui il
«Washington Post» e il «New York Times» si dimostrarono positivi per l’azione
dell’Assemblea generale e per la bravura italiana nell’arrivare a questo compromesso

193
Anon., Stasera il voto finale sulle colonie italiane, in «La Voce Repubblicana», 22 Novembre
1949, pp. 1,4.
194
Gino Tomajuoli, La votazione definitiva all’Assemblea dell’ONU, in «La Stampa», 22 Novembre
1949, p. 5.
195
Anon., Riconosciuto all’Italia il diritto di cooperare allo sviluppo dell’Africa, in «La Voce
Repubblicana», 23 Novembre 1949, p. 1.

198
mentre, dall’altro lato, il «Daily Telegraph» criticò la non accettazione delle richieste
etiopiche ma reputò buona la fine di questo problema a livello internazionale196.
In conclusione, la politica italiana è rimasta compatta sulla questione
coloniale fino a che ci furono i governi di unità nazionale, dato che tutti i partiti che
facevano parte del governo erano concordi nel ritenere un diritto quello di riavere i
possedimenti in Africa, indispensabile per la ripartenza economica del paese, per far
emigrare l’eccedenza di popolazione verso i propri territori africani ed altre
motivazioni. Con la frattura governativa della primavera del 1947 e l’uscita
dall’esecutivo di comunisti e socialisti, la questione coloniale è diventata una corsa
ad accaparrarsi le simpatie di quella fetta di popolazione che, come scritto in
precedenza, aveva a cuore il suddetto problema. Anche la stampa nazionale ha fatto
si che questo tema si inasprisse con il passare degli anni, cercando sempre un capro
espiatorio, in particolar modo la Gran Bretagna, contro cui inveire perché non ci
venivano restituite le colonie.

3.4 L’amministrazione fiduciaria italiana in Somalia (1950-1960)

Con l’approvazione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite della


risoluzione n.289 del 21 Novembre 1949, l’Italia tornava nuovamente in Somalia
dopo quasi un decennio, dal quel 1941 che decretò la fine dell’Africa Orientale
Italiana e dell’Impero fascista. L’accordo di tutela per la Somalia venne ratificato,
successivamente, dal Trusteeship Council il 27 Gennaio 1950 e dall’Assemblea
generale, a New York, il 2 Dicembre 1950. Il Parlamento italiano, con
l’approvazione della legge n. 12 dell’8 Febbraio 1950, garantì la copertura
finanziaria dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (AFIS),
anticipando l’impegno formale delle istituzioni repubblicane ad assumersi tale
mandato, che fu definitivamente approvato dal Parlamento nel 1951, quando venne
ratificato l’Accordo di tutela, che conteneva alcune clausole speciali o supplementari
rispetto alla disciplina generale del Trusteeship Council. Tra le più importanti si
ricorda l’obbligo dell’indipendenza, la fissazione di una scadenza, in questo caso
decennale, del termine del mandato e che i compiti di controllo e di vigilanza, che
normalmente spettavano al Trusteeship Council, vennero demandati all’United

196
Anon., Primi commenti e rilievi sulle decisioni dell’ONU, in «La Voce Repubblicana», 24
Novembre 1949, p. 1.

199
Nations Advisory Council of Somalia (UNACS), organo consultivo composto da un
rappresentate egiziano, uno filippino e uno colombiano con funzioni di monitoraggio
e controllo verso l’operato dell’amministrazione italiana197.
L’orizzonte dentro al quale si muoveva il mandato italiano anticipava, di circa
un quindicennio, quella che prese il nome di cooperazione allo sviluppo, cementando
la collaborazione dell’Italia con i paesi di nuova indipendenza e in particolare con
quelli che erano stati i due referenti essenziali nella vicenda della sistemazione delle
ex colonie: Etiopia ed Egitto. L’utilità geopolitica che la nuova Italia democratica
ricercava nel mandato somalo si sarebbe rilevata molto limitata rispetto agli auspici,
aumentando le tensioni con il governo etiope e complicando il rapporto con le
autorità egiziane. Anche a Mogadiscio si restava scettici su tale cambiamento, dato
che le istituzioni italiane non erano riuscite a rompere con il passato a causa della
mancanza di condanne per i trascorsi coloniali198.

3.4.1 I preparativi per il ritorno italiano in Somalia

I primi contatti tra le autorità britanniche ed italiane, per il ritorno di


quest’ultime in Somalia, avvengono già nell’autunno del 1948, dopo che la questione
delle ex colonie italiane viene deferita alle Nazioni Unite per mancanza di accordo
tra le quattro potenze. Al contrario, invece, c’è un’unità d’intenti sul ritorno in
Somalia dell’Italia tramite un mandato fiduciario delle Nazioni Unite. In
preparazione di un eventuale restituzione del territorio, le autorità britanniche e
italiane cominciarono un lento avvicinamento che preoccupava la Lega dei Giovani
Somali (LGS), partito anti-italiano, per l’atteggiamento anglosassone che screditava
pubblicamente la sua politica pansomala.
La mossa inglese favorisce l’azione dell’Italian Liaison Officer, il console
Raimondo Manzini, che cerca di migliorare la situazione della comunità italiana e di
recuperare le posizioni perdute, attribuendo un ruolo primario agli strumenti di
diffusione come la stampa e la radio che, però, si rileveranno scarsamente efficaci
per difficoltà tecniche e di lontananza dall’Italia ma, in particolar modo, per la
sbagliata propaganda che deve andare nella direzione che il ritorno della penisola in

197
Antonio M. Morone, L’ultima colonia. Come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Editori
Laterza, Bari 2011, pp. 45-49.
198
Ivi.

200
Somalia significhi un autentico New Deal per la popolazione indigena. L’azione di
Manzini, al contrario delle istruzioni ricevute da Roma, si concentra su contatti con il
sultano di Migiurtina, degli Sciaveli Olol Dinle e con altri, il che fa supporre che
agisca con la piena connivenza del British Military Administration (BMA)199.
Le manovre italo-britanniche non sfuggono all’attenzione dei dirigenti della
Lega, sempre più preoccupati di rimanere isolati e, delusi dalla Gran Bretagna,
affidano le loro speranze all’ONU, attraverso petizioni che, già dal 20 Settembre
1948, ricordarono alla Commissione d’inchiesta delle quattro potenze che avevano
chiesto il non ritorno dell’Italia sotto qualsiasi forma mentre in un documento del 24
Ottobre, inviato al segretario generale Trygve Lie, precisano i motivi per cui c’è
questa avversione nei confronti del ritorno italiano200. Le tesi leghiste vengono
illustrate alla Camera dei Comuni, il 29 Novembre 1948, all’interno di un rapporto
che certifica la posizione minoritaria del movimento, dato che la maggior parte della
popolazione vuole il ritorno italiano. La reazione leghista è immediata e violenta e,
per bocca del suo presidente Hagi Mohamed Hussein, minaccia di mostrare
l’abbaglio delle autorità britanniche, attraverso scontri, sparatorie e combattimenti. Il
5 Ottobre, vista la presenza alle varie sessione dell’ONU della rivale Conferenza
della Somalia e alla vigilia delle decisioni dell’Assemblea generale, i giovani somali
si mobilitarono verso il quartiere dove si consumò l’eccidio dell’11 Gennaio 1948,
ma la prova di forza fallì201 e la BMA ristabilì l’ordine a Mogadiscio202.

199
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., pp. 202-203.
200
I motivi illustrati a Lie sono: a) noi desideriamo costituire la Grande Somalia e, permettendo
all’Italia di ritornare, non potremo mai sperare di raggiungere il nostro obiettivo; b) l’Italia è povera e
non è neppure in grado di mantenersi da sola, il che vorrà dire per noi il completo abbandono; c)
l’Italia desidera i nostri territori perché è sovrappopolata, il che significa che affollerà il nostro paese
con gente che entrerà in competizione con noi in ogni settore della vita; d) noi somali siamo stati
privati di ogni istruzione nei 50 anni del regime italiano; e) ci è stato proibito di costruire associazioni
o partiti politici, mentre non c’era libertà di parola e d’azione; f) siamo stati espulsi dal mondo
dell’economia perché gli italiani hanno monopolizzato tutto, costringendoci a diventare peoni, custodi,
interpreti, cuochi, autisti e facchini; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 204.
201
La prova di forza dei giovani somali fallì a causa del mutamento radicale della situazione in
Somalia perché la Lega non dispone dell’appoggio dei Daròt del Nord, non può avvalersi della
complicità della polizia, non ha più una rete di protezione all’interno della BMA, dato che il personale
è quasi interamente cambiato e non può sperare che il governo locale tolleri nuovi disordini; cfr. Ibid.,
p. 205.
202
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., pp. 204-205.

201
Mentre si avvicina il giorno del ritorno dell’Italia in Africa, la corrispondenza
tra Roma e Mogadiscio si infittisce in maniera rilevante, anche perché Manzini è
stato raggiunto da altri funzionari, il console Bacci di Capaci e Pompeo Gorini, che
costituiscono il gruppo avanzato della costituenda Amministrazione fiduciaria
italiana della Somalia. Un punto importante, oltre al personale amministrativo,
riguarda il piccolo esercito che l’Italia, in base all’art. 6 dell’Accordo di Tutela, si
impegna a trasferire in Somalia per garantire l’ordine e la pace. Alla sua costituzione
concorrono i Comiliter di Napoli, Bari, Milano, Padova, Firenze e Roma i quali
cominciano ad addestrare le truppe a partire dal 15 Agosto 1949 che, una volta
pronte, verranno trasferite a Napoli entro il 1 Dicembre 1949 sotto il comando di
Arturo Ferrara, buon conoscitore della Somalia visti i suoi passati coloniali.
L’addestramento procede in base alle indicazioni del Piano Caesar, elaborato
dagli inglesi in previsione di cedere la Somalia alla potenza mandataria, che prevede
una forza di 6.500 uomini, considerati troppo onerosi dal governo italiano. L’8
Gennaio 1950, Ferrara parte per Mogadiscio con un pugno di funzionari e ufficiali
che costituiranno la Missione italiana di collegamento, i cui compiti sono:
raccogliere notizie sulla situazione somala; applicare le norme del Piano Caesar;
esaminare la possibilità di ridurre i tempi di sbarco; compiere sopralluoghi alla
frontiera, non ancora definita, con l’Etiopia. Infine, eseguire un primo reclutamento
di 1.200 camali somali, necessari per le operazioni di scarico in previsione di un
possibile sciopero dei portuali203. Ferrara, accordatosi con il colonnello Cracknell,
ottenne l’arruolamento immediato, prima del trapasso dei poteri, di personale somalo
volontario, da scegliersi tra gli ex ascari necessario per la costituzione di tre
battaglioni, grazie all’invio di alcuni ufficiali italiani che ebbero il compito, dal
Febbraio 1950, di inquadrare ed addestrare i reparti somali. Il trasporto da Napoli ai
vari porti somali dell’intero Corpo di Sicurezza, compresi i funzionari dell’AFIS,
venne compiuto tra il 2 Febbraio e il 2 Aprile 1950, diviso in due scaglioni.
L’arrivo del corpo di spedizione italiano in Somalia avviene nella più assoluta
normalità, così come gli spostamenti all’interno del paese per dare il cambio agli
inglesi, come previsto da Gorini. Il trapasso dei poteri avviene il 1 Aprile 1950,
davanti al palazzo del governatore, dove vengono letti una serie di messaggi da parte
delle autorità italiane e britanniche, con un solo incidente di rilievo dovuto a una
rissa tra componenti della Lega e della Conferenza a Bardera, che non viene

203
Ibid., p. 209.

202
drammatizzato quando, l’8 Aprile 1950, il primo amministratore dell’AFIS,
Giovanni Fornari, riceve nel palazzo del governatore i rappresentanti delle
popolazioni somale e delle comunità straniere per cercare un’unione d’intenti tra le
rappresentanze del popolo, garantendo un’apertura con chi collabora e grande
severità per chi si opporrà.

3.4.2 L’amministrazione Fornari

Giovanni Fornari, quando nell’Aprile 1950, si insedia a Mogadiscio come


amministratore dell’AFIS, trova una situazione che non lascia spazio a repliche, dato
che i primati della Somalia sono tutti negativi. Il tasso di analfabetismo tocca il 99,40
per cento della popolazione, soltanto 20.000 persone vivono in case di muratura, tutti
gli altri in baracche e tende. C’è un medico ogni 60.000 abitanti e 1.254 posti letti nei
dieci ospedali distribuiti su tutto il territorio nazionale, che è una volta e mezzo
l’Italia. La guerra mondiale e l’occupazione britannica hanno poi inferto un severo
colpo all’economia somala, quella promossa e controllata dagli operatori italiani.
Nel Rapporto italiano all’ONU per il 1950, si insiste sulle opere costruite
durante il colonialismo per lo sviluppo economico della Somalia, come ad esempio i
canali e le opere di irrigazione, l’attività mineraria, la pesca oceanica e il cattivo stato
di manutenzione, se non la perdita totale, delle vie di comunicazione. Una domanda
lecita che si fa Angelo Del Boca è “Come può l’Italia portare all’autosufficienza
economico-sociale, in appena dieci anni, un territorio così diseredato ?...Valeva
proprio la pena di lottare cinque anni per ottenere un mandato, che imporrà
sicuramente all’Italia pesanti sacrifici e forse anche amarezze e delusioni ?”204.
Se i motivi ufficiali, già visti nei precedenti paragrafi, venivano
continuamente enunciati da parte del Primo Ministro De Gasperi e dal Ministro degli
Esteri Sforza, furono gli alti funzionari, che spesso mal consigliarono il governo, a
enfatizzare i meriti dell’Italia in Africa coprendone le vergogne. In particolar modo,
gli impiegati del Ministero dell’Africa Italiana (MAI)205, che non aveva più ragione

204
Ibid., p. 222.
205
Il MAI fu soppresso il 29 Aprile 1953, in base alla legge n. 430, che provvedeva anche a distribuire
le sue competenze ad altre amministrazioni, come gli Esteri, gli Interni, la Difesa, le Finanze e il
Tesoro. L’AFIS era però già passata agli Esteri sin dal 15 Gennaio 1952. Al momento della
soppressione il MAI aveva 10.866 funzionari, 8.348 dei quali, però, erano stati già da tempo distaccati

203
di esistere, videro nel ritorno in Somalia la sola occasione per continuare ad
esercitare la loro influenza e a praticare i loro metodi colonialisti e fascisti, ormai
superati dai tempi.
È in gran parte di questi funzionari del MAI che l’ambasciatore Fornari si
avvale per portare avanti l’apparato fiduciario che ha il compito di amministrare e
portare all’indipendenza la Somalia206. Al vertice di questo apparato politico-
amministrativo c’è l’amministratore, nominato con decreto del Presidente della
Repubblica, con pieni poteri di legislazione, amministrazione e giurisdizione, è anche
capo supremo dell’esercito ed è coadiuvato da un segretario generale, anch’esso di
nomina presidenziale, con compiti di collaborazione e di sostituzione. I servizi che
dipendono dall’amministratore sono raggruppati in sei direzioni generali207, che
costituiscono la base organizzativa dei futuri ministeri dello stato somalo.
L’organizzazione territoriale, infine, comprende sei commissariati regionali,
suddivisi a loro volta in ventotto residenze. Alla fine del 1950, per far funzionare
questo apparato, ci sono 4.426 persone, di cui 760 italiani208, 3.641 somali e 25 di
altre nazionalità209.
Il 25 Maggio 1950, mentre Fornari è intento a dare al paese l’assetto
organizzativo descritto in precedenza, arriva a Mogadiscio il sottosegretario
Brusasca, accompagnato da alcuni alti funzionari del Ministero per l’Africa italiana e
del Ministero degli Affari Esteri (MAE), per accertare le condizioni politiche, sociali
ed economiche della Somalia e per poter organizzare più efficacemente l’AFIS.
Durante il suo soggiorno, che si protrae per sedici giorni in cui visita il paese e si
intrattiene con notabili e politici somali, incontra alcuni esponenti della Lega dei
Giovani Somali, tra cui Aden Abdulla Osman, che riserva un atteggiamento molto
critico nei confronti del ritorno italiano, dovuto alla paura che l’Italia rimanga in

presso altre amministrazioni dello stato e 575 erano ancora in servizio nei territori delle ex colonie
italiane; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 222.
206
Al 15 Ottobre 1950 il personale italiano dell’AFIS giunto dall’Italia comprendeva 176 elementi del
MAI, 23 a contratto del MAI e 50 dei ministeri delle Finanze, Pubblica Istruzione, Grazia e Giustizia e
del Commercio Estero; cfr. Ibid., p. 223.
207
All’inizio, e sino al 1952, l’amministrazione centrale era divisa in 16 uffici competenti per settori
ben definiti e che abbracciavano tutte le possibili attività; cfr. Ivi.
208
Dei 760 italiani, 308 erano arrivati dall’Italia fra Aprile e Dicembre del 1950; 82 erano funzionari
che erano stati mantenuti in servizio durante l’occupazione britannica; 370 erano stati assunti
localmente dalla BMA; cfr. Ivi.
209
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 223.

204
Somalia ben oltre il 1960 e che possa riproporre le politiche utilizzate durante
cinquant’anni di colonialismo. L’incontro si conclude su toni più pacati e, pur
riaffermando le sue riserve, la delegazione leghista si impegna a collaborare
lealmente con l’amministrazione italiana, promessa ribadita il 9 Giugno dal Comitato
direttivo della Lega. Brusasca fu molto ottimista circa la situazione che si andava a
creare nella popolazione somala, le cui uniche preoccupazioni riguardavano il
disorientamento e l’incertezza nel settore economico, provocati dal cambio di
moneta210, e una frattura tra gli organi di governo e la popolazione, dovuta allo
stabilimento di nuove istituzioni con un rinnovato personale.
L’ottimismo del sottosegretario venne in una certa misura confermato nella
relazione politica che Fornari inviò a Roma il 21 Luglio e che coprì i primi quattro
mesi di attività dell’AFIS. Riferisce che l’azione energica dell’amministrazione ha
conseguito il risultato di far rispettare la legge ma, nonostante ciò, la Lega dei
Giovani Somali continua nella sua opposizione, a dispetto delle ripetute dichiarazioni
di voler collaborare. Le cause principali del continuo contrasto furono alcuni articoli
di giornale contro l’AFIS, usciti sui quotidiani di Aden, di Addis Abeba e il Cairo, e
la presentazione di memoriali indirizzati a Fornari stesso e al Consiglio Consultivo
riguardo l’incarcerazione di leghisti e la durezza usata dalla polizia contro di loro. Lo
stesso amministratore capo, dopo aver mostrato severità e rigore e, in seguito, un
atteggiamento più pacifico e clemente per poter eliminare alcune armi
propagandistiche alla Lega, decide di utilizzare l’astuzia e la corruzione. Nella
successiva relazione politica di Ottobre, il capo dell’AFIS comunica di aver
conseguito qualche successo provocando defezioni nella Lega e interrompendo le
sovvenzioni che giungevano ad essa da alcuni notabili delle comunità araba ed
indiana.

210
Con l’ordinanza n. 14 del 15 Maggio 1950 fu istituito il «somalo» (abbreviato in So), suddiviso in
centesimi e con parità aurea di grammi 0,124414 di oro fino, corrispondente a quello dello scellino
East Africa, che il somalo era destinato a sostituire. Al cambio, un somalo valeva lire 87,50. Il nuovo
ordinamento monetario della Somalia era stato curato da Giuseppe Paratore, presidente della
Commissione per le Finanze e il Tesoro del Senato; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit.,
p. 225.

205
L’atteggiamento tenuto dall’AFIS e da Fornari viene elogiato dai tre membri
del Consiglio Consultivo211 nel loro primo rapporto alle Nazioni Unite, inviato il 1
Agosto 1950, in cui si precisa la sua soddisfazione per il miglioramento della
pubblica sicurezza ed elogia la decisione di amnistiare i delitti politici. Diverso è
ovviamente il giudizio leghista che, nei due memorandum inviati all’ONU il 18
Ottobre e il 9 Novembre 1950, descrive la presenza dell’Italia in Somalia come
un’autentica occupazione e, se nel primo documento accusa l’utilizzo di vecchio
personale dell’AOI e di aver ristabilito l’antica struttura dell’amministrazione
fascista, nel secondo le imputazioni sono più circostanziali e pesanti. L’AFIS viene
incolpata: 1) di cercare di distruggere la Lega con squadracce della Conferenza; 2) di
alimentare le divisioni tribali, causando scontri con morti e feriti; 3) di tentare con
ogni mezzo di soffocare il nazionalismo somalo; 4) di utilizzare, ai più alti incarichi,
ex fascisti come Benardelli, Capasso, Comella, Chapron, Ducati, Soleri; 5) di fare
uso sistematico dei codici penali fascisti212.
Le polemiche nei confronti dell’AFIS provengono anche dalla popolazione
italiana di Mogadiscio, sia ai molti che non nascondono la loro nostalgia per il
passato regime, che ai pochi, che professano idee democratiche. I primi incolpano
l’AFIS di aver completamente abbandonato le ricerche dei colpevoli dell’eccidio di
Mogadiscio, di elargire agli ex ascari somali somme ingentissime per arretrati e
pensioni mentre i danneggiati dell’11 Gennaio 1948 sono ancora in attesa di
risarcimenti. Le accuse che provengono dallo sparuto ma combattivo gruppo dei
progressisti pongono invece l’accento sul comportamento dei funzionari dell’AFIS,
sotto il profilo politico, professionale e morale, come riferito dall’avvocato Bona alla
direzione centrale della Democrazia Cristiana e da Luigi Massimini, proprietario di
un grosso emporio a Mogadiscio e corrispondente di alcuni giornali italiani. Altre
critiche sono mosse dai rari giornalisti italiani che visitano l’ex colonia e da esperti
del mondo africano che seguono passo dopo passo l’esperimento somalo. Un articolo
che colpisce profondamente Brusasca è quello di Gregorio Consiglio su «Africa», dal
titolo Ardua Somalia, in cui si critica l’organizzazione amministrativa adottata in
Somalia perché riproduce schemi e sistemi anteguerra, ed è una struttura pesante per

211
Il Consiglio Consultivo, che risiedeva in permanenza a Mogadiscio, e che era in costante contatto
con il vertice dell’AFIS, era composto dai rappresentanti della Colombia, dell’Egitto e delle Filippine;
cfr. Ibid., p. 226.
212
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 227.

206
l’obiettivo che si è dato l’Italia. Sarebbe stato saggio, continua, creare qualcosa di
nuovo e snello, aderente alla situazione con persone capaci ed esperte, munite di
ampi poteri. Tra le altre cose che non vanno nell’AFIS c’è anche la mancanza di
programmi nel campo dell’agricoltura e precisa che, se c’è poco commercio, la colpa
è del sistema di controllo degli scambi e delle valute213.
La valanga di critiche che piomba sulla scrivania di Brusasca spinge
quest’ultimo a mantenere su Fornari una pressione notevolissima bersagliandolo di
lettere e telegrammi. Ciò che l’ex partigiano Brusasca non può sopportare,
innanzitutto, è che la Somalia sia diventata un covo di fascisti, proprio dove la nuova
Italia nata dalla Resistenza cerca di fare, in campo coloniale, il suo esame di
riparazione. Quasi ogni giorno il sottosegretario invita Fornari ad accertare qualsiasi
episodio che non va, propone suggerimenti e lo incita a tenere sotto controllo tutto e
tutti.
Una questione ancor più spinosa per Fornari sarà quella del finanziamento
della macchina amministrativa per l’anno 1951-52, i cui fondi sono stati decurtati di
un quarto. Minaccia le dimissioni se non viene ripristinato l’originaria somma e
affronta il delicato argomento della dipendenza dell’AFIS dal MAI. Nonostante le
provocazioni, Fornari rimane al suo posto e cerca di risolvere i due problemi più
urgenti: quello di ridurre il personale dell’AFIS, costoso e sproporzionato alle
esigenze, e quello di accelerare i tempi dell’edificazione istituzionale del nuovo Stato
somalo, anche in vista della presentazione all’ONU del primo rapporto annuale. Già
iniziato nell’Ottobre 1950, il rimpatrio dei militari del Corpo di Sicurezza viene
accelerato nei primi mesi del 1951. Al 20 Luglio, dei 5.688 soldati sbarcati l’anno
prima, ne restano in Somalia 2.021. Alla fine dell’anno sono soltanto 1.108, per
scendere a 740 nel corso del 1952 e a 692 nel primo semestre del 1953. Dopo queste
riduzioni il Corpo di Sicurezza appare già fortemente somatizzato, comprendendo
infatti 1.348 indigeni contro 692 italiani, mentre nella polizia i somali sono 1.925
contro 275 nazionali214.
Se lo snellimento del Corpo di Sicurezza non presenta particolari ostacoli,
ben più arduo, per Fornari, è il compito di costruire i pilastri istituzionali del nuovo
stato. Per far partecipare alla vita pubblica le popolazioni somale, l’amministratore
aveva già istituito, il 27 Luglio 1950, i Consigli di residenza, formati da capi

213
Ibid., pp. 228-231.
214
Ibid., pp. 233-234.

207
tradizionali e da esponenti dei partiti moderni, i quali avevano la funzione di
esprimere pareri su tutte le questioni interessanti le circoscrizioni territoriali, come le
misure concernenti l’agricoltura, i lavori pubblici, l’istruzione, la fiscalità e la
transumanza. Un secondo passo l’aveva compiuto il 26 Settembre 1950, aprendo a
Mogadiscio la Scuola di preparazione politica ed amministrativa, con lo scopo di
formare il primo nucleo di funzionari necessari all’organizzazione politica ed
amministrativa del futuro stato215.
L’iniziativa più importante di Fornari per la costruzione del nuovo stato
somalo è la costituzione, il 30 Dicembre 1950, del Consiglio territoriale, l’organo
centrale consultivo e rappresentativo di tutto il paese. Composto da 35 membri, dei
quali 28 somali, esso cerca di conciliare, in base ad una oculata ripartizione dei seggi,
le tendenze tradizionali e quelle dei partiti politici, sforzando di garantire un minimo
di rappresentanza anche alle categorie economiche e alle minoranze razziali216. Il
passo successivo porta all’istituzione dei Consigli municipali a Mogadiscio e nelle
città capoluogo di residenza. Alla fine del 1951 sono già 35 e funzionano sotto la
direzione del residente, assistito da un consiglio composto da un numero di membri
che oscilla tra 6 e 12 e che sono stati designati dai Consigli di residenza217.
Assolti gli obblighi di mandato nei termini prescritti, Fornari può inviare
all’ONU il rapporto annuale sull’attività dell’amministrazione fiduciaria, relazione
che viene presa in esame dal Consiglio di tutela l’8 Giugno 1951 e approvata il 10
Luglio con 11 voti favorevoli e 1 contrario, quello dell’Unione Sovietica. In questo
frangente arrivano i complimenti del Ministro Sforza a Fornari per il riconoscimento
internazionale dell’opera dell’AFIS in questo primo anno di amministrazione ma le
cose continuano a non andar bene in Somalia e, sul tavolo di Brusasca, arrivano
denunce, lagnanze, moniti e suggerimenti mentre Fornari si accorge che la missione
che gli è stata affidata va oltre le sue aspettative e capacità. A complicare la
situazione per l’Amministratore arrivano alcuni scontri tra le cabile dei Marehan e
degli habarghider ad Ado, in Ogaden, a causa dei soliti diritti sull’acqua e, quando
arriva un gruppo di militari italiani per ricomporre la situazione, rimangono sul
terreno alcune decine di morti. Il 1 Agosto 1952 scoppiano disordini a Chisimaio,
215
I corsi, di durata triennale, furono tenuti da docenti universitari, magistrati ed alti funzionari
italiani. Gli iscritti al primo anno furono 39.
216
Il Consiglio territoriale comprendeva anche quattro italiani: Francesco Boero, Francesco Bona,
Antonino Falcone e Celestino Gandolfi.
217
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 235.

208
provocati da scontri tra fazioni politiche, in cui rimangono uccisi due carabinieri
italiani e un ispettore di polizia somalo.
Fornari, nel suo ultimo rapporto sulla situazione somala inviato a Roma il 25
Settembre 1952, fu severo con gli italiani del luogo, che avrebbero potuto spianargli
la strada e invece gliel’hanno disseminata di ostacoli e trabocchetti mentre rivela
molta comprensione per gli uomini della Lega, che pure non gli hanno risparmiato
un’opposizione tenace, ritenendola l’unica forza politica della Somalia dotata di
programmi e di ideali. Inoltre, sostiene che, se anche ci fosse il pieno appoggio dei
giovani somali, sarebbe necessario aiutare il paese anche dopo il 1960,
assicurandogli un’assistenza tecnico-finanziaria o creando una federazione tra i due
paesi218.
Con l’uscita di scena all’inizio del 1953, dalla scena somala,
dell’ambasciatore Fornari, si conclude il periodo più difficile e discutibile della
gestione dell’AFIS dato che, per quasi tre anni, ad avere il sopravvento sulle buone
intenzioni e sui programmi innovatori è ancora la burocrazia retrograda e nostalgica
del MAI, che trova i suoi più logici alleati negli esponenti della comunità italiana di
Somalia. Fornari resiste e non ricorre che in pochi casi alla politica della forza, ma
non riesce, come avrebbe voluto, ad inaugurare una politica nuova e autenticamente
progressista. Il giudizio della Lega sul periodo della gestione Fornari è severo, a
causa dell’opposizione ai movimenti nazionali somali e dei capi dell’AFIS, ancorati
al vecchio sistema coloniale, decisi a ripetere le stesse consuetudini del recente
passato.

3.4.3 L’amministrazione Martino

Con l’avvento di Enrico Martino il 23 Febbraio 1953, comincia una nuova


fase per l’AFIS il cui primo risultato fu la risoluzione, in maniera definitiva,
dell’ordine pubblico. Se il 1953 è ancora funestato da alcuni incidenti a Bosaso, in
Migiurtina, e soprattutto dall’uccisione, in Maggio, del consigliere territoriale Osman
Mohamed Hussein, del partito HDMS, il 1954 trascorre invece senza gravi incidenti,
come riferisce il Sottosegretario agli Esteri Vittorio Badini-Confalonieri, e ancor più
tranquillo è il biennio 1955-1956, come si evince dai rapporti italiani inviati
all’ONU.

218
Ibid., p. 237.

209
Questi progressi nel ristabilimento dell’ordine pubblico sono ottenuti non
soltanto per l’opera di persuasione e pacificazione condotta tra i capi delle cabile
perennemente in conflitto per motivi di pascolo e di pozzi d’acqua, ma anche per la
lenta ma inarrestabile marcia di avvicinamento tra l’AFIS e la Lega dei Giovani
Somali. Questo poté avvenire grazie alla politica della biada, in contrapposizione con
quella del bastone, che tende ad anticipare le stesse richieste della Lega, ad affrettare
il processo di somalizzazione, cioè il trasferimento dei poteri dagli italiani ai somali.
Il fatto che determina una svolta nella politica dell’AFIS è l’indiscusso
successo della Lega nelle elezioni amministrative del Marzo 1954, che costituiscono
la prima grande consultazione popolare in Somalia. Stimolati da un’intensa
propaganda elettorale organizzata sia dai partiti somali che dall’AFIS, il 28 Marzo
38.119 elettori sui 50.740 iscritti a votare, il 75,1 per cento degli aventi diritto, si
presentarono alle urne in 35 municipalità per eleggere 281 consiglieri. La Lega, che
ha presentato proprie liste in tutte le circoscrizioni cittadine, raccolse 17.982 voti, il
47,7 per cento dei suffragi, conquistando 141 seggi. L’HDMS, nonostante il sostegno
dell’amministrazione italiana, ottenne 8.198 voti e 57 seggi. I rimanenti seggi
andarono ai venti raggruppamenti minori, che ottennero appoggio e finanziamenti
dall’AFIS219.
Il successo del 28 Marzo, anche se scontato, superò tutte le previsioni fatte
dai dirigenti dell’AFIS e lo stesso Martino, trovò il lato positivo della situazione: “è
forse per questo loro successo che i dirigenti del partito si sono convinti delle reali
intenzioni del governo italiano, allontanando da essi preconcetti sospetti…Dopo le
elezioni essi sono venuti da me e non hanno mancato di assicurarmi del loro
apprezzamento per quanto l’Italia sta facendo in Somalia e del loro desiderio di
collaborare in quest’opera”220. Non soltanto Martino si assume la difesa d’ufficio
della Lega dei Giovani Somali, ma fa intendere che il merito della vittoria di
quest’ultimo è in parte anche dell’AFIS, che ha garantito libere elezioni e ha fatto
funzionare perfettamente la macchina elettorale.
La svolta del 1954, se da un lato migliora i rapporti con la Lega e allenta certe
tensioni, dall’altro scontenta i partiti della Conferenza, i quali si ritengono relegati al
ruolo di utili e semplici comparse, nonostante le passate promesse. E, proprio per

219
Ibid., p. 242.
220
Enrico Martino, Due anni in Somalia, Stab. Tip. dell’AFIS, Mogadiscio 1955, p. 65; cfr. Del Boca,
Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 242.

210
questo, il Sottosegretario Baldini-Confalonieri suggerisce di accentuare l’assistenza
alle altre forze politiche per far affermare i tre partiti principali filo-italiani: HDMS,
Gruppo Democratico, Giovani del Benadir.
Da questa affermazione si può comprendere come l’incontro tra l’AFIS e la
Lega sia dovuto alla speranza di trarre vantaggi, conservando una certa autonomia
d’azione, insieme a reciproci sospetti e diffidenze. Per l’amministrazione italiana, la
politica della svolta è più strumentale che nuova, limitandosi a smussare gli angoli
della vecchia senza uno sforzo coraggioso per modificare il suo modo di governare e
di edificare il nuovo stato somalo. I risultati delle prime elezioni amministrative
hanno conseguenze immediate sulle posizioni e sull’organizzazione dei partiti
somali, i quali, per la prima volta, sono stati messi in grado di fare un bilancio della
loro attività e hanno potuto compiere una valutazione realistica degli orientamenti del
corpo elettorale. In base a questa stima, sei fra i partiti moderati221 decidono di
fondersi dando vita ad un’unica formazione, il Partito democratico somalo,
semplificando così notevolmente il quadro politico del paese222.
L’AFIS, proseguendo nell’edificazione del nuovo Stato, prende due
iniziative: quella di attribuire ai Consigli municipali poteri deliberativi su di un
vastissimo campo di attività amministrative e quella di affidare la direzione degli
affari municipali non più al capo del distretto, nel cui ambito si trova la municipalità,
ma ad un commissario nominato dall’Amministratore, rendendo così possibile
affidare a somali ritenuti capaci la funzione di capi delle amministrazioni. Il 6
Settembre 1954, poi, venne effettuato un altro passo in avanti con la firma del
decreto che istituisce la bandiera somala, un rettangolo azzurro con la centro una
stella a cinque punte a rappresentare le cinque somalie, issata per la prima volta,
accanto a quella italiana e delle Nazioni Unite, il 12 Ottobre 1954 223.
Un altro punto portato avanti dall’AFIS guidata da Martino è il processo di
somalizzazione del personale che, come riferisce lo stesso Amministratore al
Consiglio territoriale l’8 Marzo 1955, procede speditamente attraverso “l’inserimento
di somali in posti direttivi e di responsabilità. I capi Distretto somali sono oggi 6, i
vice-capi Distretto 15. Passo importante, quindi, se si considera che i distretti sono

221
Unione patriottica della Somalia, l’Unione nazionale somala, l’Associazione della Gioventù Abgal
e l’Hidaiet Islam Scidle Mobilen.
222
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., pp. 243-244.
223
Morone, L’ultima colonia, cit., p. 90.

211
30. Quarantotto Comandi di Polizia, su 69, sono affidati a ufficiali e sottufficiali
somali. Quasi tutti gli uffici postali e doganali sono ormai diretti da somali…Cinque
funzionari somali siedono, quali assistenti, a fianco di direttori italiani nelle
principali branche dell’Amministrazione Centrale…Se si considera che siamo
soltanto a metà strada per l’indipendenza del territorio, questi sono dati
confortanti”224. Alla fine del 1955, il personale amministrativo civile risulta costituito
da 4.213 somali, 662 italiani e 22 di altre nazionalità.
L’ultima fatica di Martino, prima di lasciare il posto ad Anzillotti, è
l’elaborazione del progetto di ordinanza inteso a trasformare il Consiglio territoriale
in assemblea elettiva, e cioè a creare un’assemblea rappresentativa fondata sul
suffragio universale. La legge elettorale destinata a dar vita alla nuova assemblea
viene discussa a lungo dal Consiglio territoriale, il quale tiene presente l’esigenza di
fondo di conciliare due strutture sociali, due organizzazioni comunitarie e due modi
di vita diversi: da una parte la vecchia Somalia, tribale, tradizionalista, pastorale,
tenacemente legata al passato e ai vincoli etnici e religiosi; dall’altra, la nuova
Somalia in via di formazione e di consolidamento, quella delle popolazioni attive
della città e dei villaggi, che aveva già dato vita alle municipalità elettive, che si era
organizzata in partiti, che aveva assimilato rapidamente modi di vita più moderni e,
per assicurare la rappresentanza a due settori sociali così diversi, si decise di
utilizzare un sistema elettorale misto, diretto ed indiretto. Le popolazioni che vivono
nelle amministrazioni municipali, quindi sedentarie, votano direttamente e a scheda
segreta. Le popolazioni nomadi e seminomadi, che rappresentano il 70 per cento
della popolazione totale, votano invece indirettamente ed a suffragio pubblico225.
Se la gestione Martino può apparire più positiva di quella di Fornari, va fatto
osservare che Martino ha potuto avvantaggiarsi di tutto il lavoro preparatorio del suo
predecessore e ha anche potuto evitare errori e intuire più facilmente le giuste
soluzioni. Esaminando il 6° rapporto delle Nazioni Unite, con il quale si chiude la

224
Martino, Due anni in Somalia, cit., pp. 130-131; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit.,
p. 245
225
Riuniti in scir, l’assemblea tradizionale di tutti gli uomini validi di una cabila, i nomadi
nominarono i loro rappresentanti elettorali, i quali, in possesso di un numero di voti pari ai votanti dei
rispettivi scir, elessero a loro volta, il giorno delle elezioni, a voto segreto e diretto, i rappresentanti
delle proprie circoscrizioni. Gli scir furono tenuti sino al 30 Novembre 1955, data che segnò la fine
delle operazioni elettorali di primo grado; cfr. Ibid., p. 248.

212
gestione Martino, apprendiamo che, al 31 Dicembre 1955, l’Italia ha dato un
contributo totale di 45 miliardi e 284 milioni per spese civili e militari della Somalia.
Una parte notevole di questa somma è stata impiegata nel settore
dell’istruzione, La popolazione scolastica, che nel biennio 1949-50 era di 3.000
unità, sfiora nel 1955-56 le 25.000. Altri 44 allievi frequentano l’Istituto superiore di
discipline giuridiche, economiche e sociali, istituito nel 1954 e che comprende
quattro corsi, mentre altri 155 giovani sono ospiti in Italia di università, istituti
superiori e scuole militari. Meno brillante risulta il bilancio sulla salute pubblica,
nonostante le spese per questo settore rappresentino il 14,50 per cento delle spese
ordinarie del bilancio dell’AFIS. Nonostante la costruzione di nuovi edifici, alla fine
del 1955 non ci sono che 1.927 posti letti in tutta la Somalia, uno ogni 651
abitanti226.
Un bilancio inesorabile sui primi cinque anni di AFIS viene fatto dal
sottosegretario Baldini-Confalonieri, la cui attenzione si indirizza verso la situazione
economico-finanziaria che versa in pessime condizioni a causa dell’incertezza
dell’intervento finanziario italiano227, per la mancanza di credito a media e a lunga
scadenza, che paralizza alcuni settori dell’iniziativa privata nella pesca, nella
meccanizzazione, nelle industrie tessili e nel settore agricolo, dove viene privilegiata
la monocultura bananiera e, di conseguenza, i duecento concessionari italiani. Un
altro punto che non sfugge al sottosegretario è quello militare, con la sua assurda
struttura che è in contrasto con le necessità attuali della Somalia e con le sue esigenze
nel futuro, considerando il costo totale di esercito e forze di polizia che supera il 30
per cento della spesa totale dell’AFIS.

3.4.4 L’amministrazione Anzillotti

L’amministratore Anzillotti subentra il 1 Gennaio 1956 ad Ernesto Martino,


trovandosi di fronte già al primo test politico nazionale per l’AFIS. Le elezioni
politiche vengono tenute il 29 Febbraio 1956 e ancora una volta la Lega dei Giovani
Somali ottiene uno straordinario successo conquistando la maggioranza assoluta con
226
MAE, Rapport du Gouvernement italien à l’Assemblée Générale des Nations Unies sur
l’administration de la Somalie placée sous la tutelle de l’Italie, Janvier 1955 – Décember 1955, Istituto
Poligrafico dello Stato, Roma 1955, p. 199; cfr. Ibid., p. 250
227
Si è passati dai nove miliardi iniziali ai cinque miliardi e mezzo dell’esercizio 1954-55, al di sotto
dei quali non è pensabile alcun programma organico di sviluppo economico e sociale.

213
43 dei 60 seggi destinati alla popolazione somala. La prima Assemblea legislativa
somala assume questa configurazione: 43 deputati alla LGS, 13 alla HDMS, 3 al
Partito democratico somalo, 1 all’Unione Marehan, 10 alle minoranze, ossia 4
deputati italiani in rappresentanza dei 4.669 membri della comunità, 4 arabi per i
30.000 connazionali domiciliati in Somalia, 2 indo-pakistani per le rispettive
comunità che raggiungono insieme un migliaio di persone228.
Le prime elezioni generali si sono svolte nella più assoluta calma ma esse
vengono ugualmente criticate, tanto dal Consiglio di tutela dell’ONU che dal
Consiglio consultivo, per la doppia procedura di voto, che ha dato luogo a brogli ed
altri inconvenienti. I due organi di controllo delle Nazioni Unite suggeriscono
pertanto di migliorare il sistema elettorale, in vista delle elezioni del 1959 per
l’Assemblea costituente, e di realizzare anche il censimento delle popolazioni
nomadi, in modo da consentire loro di esprimersi con il voto diretto. Uno dei primi
atti dell’Assemblea, che aveva inaugurato il 30 Aprile la prima legislatura, è
l’approvazione della legge 7 Maggio 1956, n. 1, che istituisce il primo governo
autoctono della Somalia. Strutturato in cinque ministeri (Affari interni, sociali,
economici, finanziari e generali), il governo somalo ottiene, a partire dal Gennaio
1957, la piena responsabilità dei suoi atti di governo e di amministrazione. In base al
grande successo ottenuto nelle elezioni, viene chiamata a formare il primo governo la
Lega dei Giovani Somali, la quale designa, come primo Ministro, Abdullahi Issa
Mohamud, già segretario generale della LGS nel 1947. Nello stesso anno vengono
raggiunti altri due traguardi di notevole importanza: con il decreto n. 16 del 1
Gennaio 1956, Anzillotti scioglie il Corpo di Sicurezza e rimpatria il personale
italiano, mentre quello somalo viene assorbito dalle Forze di Polizia della Somalia229,
e, con l’ordinanza n. 5 del 2 Febbraio 1956, viene approvato il nuovo ordinamento
giudiziario che rimpiazza quello fascista del 20 Giugno 1935230.
Con il 1956 anche il processo di somalizzazione raggiunge il culmine: ormai
tutta l’organizzazione territoriale e periferica è affidata a funzionari somali, mentre
l’inquadramento graduale degli elementi idonei ad assumere responsabilità tecniche
ed amministrative negli uffici centrali è curato dallo stesso Governo somalo. Ormai,

228
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 248.
229
Al 31 Dicembre 1959, su di un contingente complessivo di 3.775 uomini della polizia, soltanto 51
erano italiani, in qualità di istruttori; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 250.
230
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., pp. 249-250.

214
nel personale dell’AFIS, gli italiani sono soltanto 621 contro 4.380 somali e
caleranno anno per anno, per arrivare, al trapasso dei poteri, a 33 italiani occupati in
posti di responsabilità negli uffici amministrativi e giudiziari. Per il comando delle
Forze di Polizia della Somalia, il cambio al vertice avverrà solamente nel Dicembre
1958, quando Mohamed Abshir Musse prende il comando e non resterà che un
modesto nucleo di carabinieri con compiti di addestramento231.
L’AFIS, a partire dal 1956, accelera i tempi soprattutto sul terreno politico
per dotare il nascente stato degli ultimi organismi per l’autogoverno. Il 30 Settembre
l’Assemblea legislativa approva il nuovo assetto degli enti locali con l’istituzione del
Consiglio municipale, della Giunta e del sindaco, a somiglianza dell’ordinamento dei
comuni in Italia. Il 1 Dicembre 1957 viene promulgata la legge con la quale si
stabilisce lo status di cittadinanza somala. Con un decreto del 6 Settembre 1957,
l’amministratore Anzillotti nomina un comitato politico232 ed uno tecnico233 con
l’incarico di elaborare gli studi preparatori per la Costituzione della Somalia. La
legge n. 15 del 25 Giugno 1958 introduce infine, per la prima volta in Somalia, il
suffragio universale, diretto, libero e segreto234. Se i progressi nel settore politico e
sociale235 sono percepibili, ben più limitati sono quelli ottenuti nel campo
dell’economia. Se nei primi quattro anni del mandato, l’AFIS ha dovuto
principalmente riparare i danni causati dalla guerra e dall’incuria e creare un minimo

231
Al comandante Ferrara erano succeduti i seguenti ufficiali: il colonnello Antonio Nani, il
colonnello Giuseppe Massaioli, il tenente colonnello Dino Mazzei e il tenente colonnello Cesare
Pavoni. Dirigeva i servizi di sicurezza Giuseppe Santovito; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa
Orientale, cit., p. 270.
232
Alla presidenza del Comitato politico fu chiamato il presidente dell’Assemblea legislativa. Gli altri
membri erano: il primo Ministro, i ministri, il sottosegretario della presidenza del Consiglio, i vice-
presidenti dell’Assemblea legislativa, alcuni deputati, tre funzionari amministrativi somali e un
rappresentante di ogni partito politico presente nell’Assemblea legislativa; cfr. Ibid., p. 273.
233
Del comitato tecnico facevano parte 13 italiani (docenti universitari, magistrati ordinari e speciali,
funzionari amministrativi) e 9 somali.
234
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 273.
235
Qualche risultato si ottenne nel campo dell’istruzione. Dal 1950 al 1959 il numero delle località
fornite di scuole primarie passò da 28 a 164 e il numero degli allievi, fanciulli ed adulti, da 6.466 a
40.994. Creato nel 1954, l’Istituto superiore di discipline giuridiche, economiche e sociali fu
trasformato nel 1957 in Istituto superiore di diritto e di economia. Nel 1959 subì un’ulteriore
trasformazione e diventò l’Istituto universitario della Somalia. Dal 1952 al 1959 furono concesse 711
borse di studio a studenti somali e, di questi, nel 1960, 531 avevano completato i loro studi ed erano
rientrati in patria; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 273.

215
di infrastrutture, dal 1954 vara un piano settennale di sviluppo da 11 miliardi di lire,
più della metà riservati al potenziamento dell’agricoltura e della zootecnica. Nello
stesso periodo vengono investiti dai privati 13,5 miliardi, assorbiti per il 40 per cento
da ricerche petrolifere236, per il 30 per cento da investimenti agricoli e per il 20 per
cento da investimenti industriali. Ma i benefici di questi investimenti pubblici e
privati sono troppo esigui, non sufficienti a determinare un sensibile aumento della
produzione totale né ad incrementare nella misura necessaria il gettito delle entrate
pubbliche237.

3.4.5 L’amministrazione De Stefano e l’indipendenza della Somalia

Mario Di Stefano prende il posto di Anzillotti il 9 Ottobre 1958 e traghetterà


il paese all’indipendenza quasi due anni più tardi. Il suo primo atto ufficiale fu, tre
giorni più tardi il suo insediamento, l’incontro con il Primo Ministro Abdullahi Issa
Mohamud e i membri del governo per comunicare loro che l’Italia è disposta a
fornire alla Somalia i seguenti aiuti nei primi anni dopo l’indipendenza: a) assistenza
tecnica nella misura massima di 250 tecnici e di 80-100 borse di studio da usufruirsi
in Italia, per una spesa annua di un milione e mezzo di dollari USA; b) un contributo
finanziario del controvalore di mezzo milione di dollari; c) la continuazione
dell’assorbimento della produzione bananiera della Somalia. Dopo questa
comunicazione, venne convocata una riunione straordinaria del governo e, nel
documento finale inviato a Di Stefano, si accettò il contributo di Roma238.
Questo accordo tra la Lega e l’AFIS fa capire ancor di più come era difficile
la situazione nei primissimi anni in Somalia, ma ciò non assicurava la perfetta
tranquillità del paese, necessaria per concludere nel migliore dei modi la creazione
degli organi statali. Il maggior partito di opposizione, l’Hisbia Destur Mustaqil
Somali (Partito costituzionale indipendente somalo), accusò la Lega di
monopolizzare le cariche pubbliche e di costruire lo Stato in base ai propri piani
politici, dato che i giovani somali sono per la creazione di uno stato unitario
fortemente centralizzato mentre l’HDMS si batte per uno stato federale che consenta

236
Negli anni cinquanta agivano in Somalia la Mineraria Somala, del gruppo ENI, la Sinclair Somal
Corporation, la Froibischer Ltd. e la Standard Vacuum Oil Co., ma le esplorazioni e le numerose
perforazioni non condussero a nessun risultato; cfr. Ibid., p. 274.
237
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 250.
238
Ibid., p. 275.

216
ampie autonomie regionali, minacciando la costruzione nel sud della Somalia dello
stato separato dei Dighil-Mirifle. La tensione è anche alimentata da insanabili
contrasti e rivalità all’interno della stessa Lega. La storia di questa crisi è quella di
Hagi Mohamed Hussein, uno dei tredici padri fondatori della LGS e suo presidente
sino al 1953, quando il partito comincia la sua marcia di avvicinamento all’Italia. In
quell’anno egli lascia Mogadiscio per stabilirsi al Cairo, dove frequenta l’università
Al Azhar e l’istituto di belle arti. Profondamente turbato dalla svolta filo italiana
della Lega, Hagi Mohamed Hussein inizia, da Radio Cairo, una violentissima
campagna contro Aden Abdulla Osman e Abdullahi Issa Mohamud, che si
succedono, nel triennio 1954-57, alla presidenza del partito, invitando tutti i somali
del Corno d’Africa a ribellarsi contro gli europei e gli etiopi per realizzare subito la
Grande Somalia239.
La grande notorietà pubblica che hanno le sue trasmissione radiofoniche fa si
che, nel Luglio 1957, venga rieletto presidente della Lega. Richiamato in patria per
guidare il partito, Hagi Mohamed Hussein si pone alla testa della fazione pro-araba e
pro-egiziana, mettendosi subito contro l’AFIS, sostenendo che la promessa di
indipendenza fatta dall’ONU e dall’Italia è soltanto un inganno, incitando ad opporsi
alla tutela italiana e ad avvicinarsi al pansomalismo. L’ala moderata della Lega,
guidata dal presidente dell’Assemblea legislativa, Aden Abdulla Osman, e dal capo
del governo, Abdullahi Issa Mohamud, non tollera però a lungo il nuovo indirizzo
imposto dal partito e, dopo circa un anno di presidenza di Hussein, il 22 Maggio
1958, riescono a farlo radiare dalla Lega dei Giovani Somali. L’espulsione del leader
filonasseriano provoca una scissione nella Lega e la nascita di un nuovo soggetto
politico, la Greater Somalia League (GSL), alla quale aderisce anche il Partito
socialista somalo, sorto nel 1956 e di tendenze marxiste. Con questa scissione la
Lega accentua ancor di più le sue simpatie per l’Occidente mentre la GSL eredita dai
giovani somali il radicalismo dei primi tempi, respinge gli aiuti dell’Occidente,
aderisce al movimento afro-asiatico, reclama l’unificazione dei territori somali con
tutte le forze240.
La scissione non indebolisce la Lega, e lo confermano i risultati delle elezioni
amministrative del 20 Ottobre 1958, le prime che vengono tenute a suffragio
universale e che vedono un’affluenza ai seggi dell’85,5 per cento degli aventi diritto

239
Morone, L’ultima colonia, cit., pp. 102-105.
240
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 277.

217
al voto. Su 663 seggi, la Lega ne conquista 416, l’HDMS se ne aggiudica 175 mentre
il nuovo partito di Hagi Mohamed Hussein ne ottiene soltanto 36. All’indomani delle
elezioni amministrative, quattro partiti (HDMS, GSL, Partito liberale dei giovani
somali e l’Unione dei giovani del Benadir) cercano di costruire una comune
piattaforma di opposizione, in occasione del dibattito all’Assemblea legislativa sulla
nuova legge elettorale. Lo scontro politico su questo provvedimento si fa così acuto
ed insanabile che i quattro partiti di opposizione dichiarano che non parteciperanno
alle elezioni generali dell’8 Marzo 1959.
Per scongiurare una brutta figura per il nascente stato somalo, il primo
Ministro Abdullahi Issa Mohamud, fa alcuni passi distensivi, prorogando di tre giorni
il termine ultimo per presentare le liste dei candidati e rivolgendo ai partiti di
opposizione, il 13 Gennaio 1959, un accorato appello a non andare incontro ad una
posizione di isolamento. Nonostante ciò, tuttavia, il primo Ministro somalo considera
la rinuncia alle elezioni come un atto di slealtà nei confronti della Somalia,
autorizzandolo ad utilizzare qualsiasi mezzo in suo potere, attraverso scontri tra la
polizia e gruppi di dimostranti dei partiti di opposizione, il cui culmine fu a
Mogadiscio il 24 e 25 Febbraio, con un bilancio di due morti e diciassette feriti.
Ritenendo la GLS principale responsabile dei disordini, la polizia arresta il
presidente del partito, Hagi Mohamed Hussein, e 280 dei suoi partigiani mentre
chiude le sedi della formazione politica e proibisce i suoi comizi241.
Quel che è certo è che il 4 Marzo 1959, dopo la messa al bando della GSL e
la decisione degli altri partiti d’opposizione di boicottare le urne, la LGS si presenta
da sola alle elezioni generali, conseguendo una facile e schiacciante vittoria. Su 90
seggi, ben 83 vanno alla Lega, 2 al Partito liberale dei giovani somali e 5 al
frammento di HDMS che ha ignorato l’ordine del partito di boicottare le elezioni242. I
risultati plebiscitari provocano però proteste e malumori fra i somali e perplessità tra
gli osservatori stranieri. Il membro egiziano del Consiglio Consultivo invia all’ONU
un dettagliato rapporto sui fatti invitando l’organizzazione a provvedere perché
vengano indette nuove elezioni che siano più regolari e che consentano alle
minoranze di giungere in parlamento243.

241
Ibid., pp. 278-279.
242
Questi deputati confluiranno poi nella Lega, lasciando all’opposizione un solo parlamentare.
243
Morone, L’ultima colonia, cit., pp. 122-124.

218
Prendendo atto del successo leghista, l’amministratore Di Stefano affida
l’incarico di formare il governo, per la seconda volta, ad Abdullahi Issa Mohamud
che costituisce l’esecutivo il 27 Giugno 1959. La seconda Assemblea legislativa
aveva iniziato i lavori un mese prima, affrontando alcuni fondamentali problemi di
natura istituzionale, a cominciare dalle modifiche alla legge elettorale,
all’ordinamento della cittadinanza somala, all’istituzione dell’esercito e
all’attribuzione dei poteri costituenti all’Assemblea legislativa. Fatto molto
apprezzato dalle autorità fu la presenza di una folta rappresentanza governativa
italiana alla cerimonia di apertura dell’Assemblea somala. I sentimenti di amicizia
per un’Italia solidale e generosa sono autentici ma, con la ormai formata architettura
istituzionale somala che comincia a funzionare, l’AFIS comincia a pesare, se non ad
infastidire. Lo si vede il 25 Agosto 1959, quando l’Assemblea legislativa adotta una
risoluzione che reclama l’immediata indipendenza della Somalia, fissata invece per il
2 Dicembre 1960. L’Italia non si oppone ad anticipare la data e presenta alle Nazioni
Unite la richiesta somala che non è accolta immediatamente con favore. Il 5
Dicembre, l’Assemblea Generale dell’ONU approva la proclamazione anticipata
dell’indipendenza somala e fissa la data del 1 Luglio 1960244.
A poco più di un mese dalla decisione delle Nazioni Unite, con la legge 8
Gennaio 1960 n. 6 vengono attribuiti poteri costituenti all’Assemblea legislativa e
viene anche stabilito che, nei confronti dell’Assemblea costituente, l’Amministratore
non debba esercitare il potere di sanzione e quello di promulgazione, che si era
riservati nei riguardi dell’Assemblea legislativa. Vengono chiamati a far parte del
comitato, essendo l’Assemblea composta quasi interamente da deputati della Lega,
20 membri che non ne fanno parte e che rappresentano i partiti politici e le
organizzazioni economiche, sindacali e religiose del paese. Ma l’HDMS, la GSL e
l’Unione nazionale somala si rifiutano di designare i loro rappresentanti, cosicché
soltanto 16 membri esterni partecipano ai lavori. Il comitato di redazione inizia la
propria attività il 29 Marzo 1960, avendo come testi di base per la discussione un
progetto presentato dal Ministro per la Costituzione, Mohamed Scek Gabiou, e le
proposte formulate dal già citato comitato tecnico. Dopo 51 sedute, il 9 Maggio
conclude i lavori e presenta il progetto all’Assemblea, la quale dedica alla

244
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 281.

219
discussione 42 sedute e approva la carta costituzionale il 21 Giugno 1960, alla vigilia
dell’indipendenza245.
La Carta era formata da 105 articoli, suddivisi in preambolo, principi generali
dello Stato, diritti e doveri fondamentali del cittadino, organizzazione dello Stato,
garanzie costituzionali, disposizioni transitorie e finali. La forma di governo era il
parlamentarismo a tendenza equilibratrice con un rafforzamento del ruolo del Capo
dello Stato. Il Parlamento monocamerale votava la fiducia al governo, che nella sua
collegialità riconosceva al Primo Ministro la responsabilità dell’indirizzo politico. La
Carta somala recepiva in tema di diritti e doveri del cittadino e dell’uomo i contenuti
della Dichiarazione universale del 1948246.
Mentre la Somalia brucia le tappe per arrivare alla scadenza del 1 Luglio
1960 con tutti gli organismi statali funzionanti, anche nel confinante Somaliland gli
inglesi accelerano i tempi per mettersi alla pari con l’AFIS sulla strada del progresso
costituzionale. I gruppi politici più rappresentativi dei due paesi, a cominciare dai
primi giorni del 1959, sottoscrivano manifesti comuni nei quali precisano per la
prima volta la ferma intenzione di giungere al più presto all’unione dei due territori.
Nel Febbraio 1959, nell’annunciare che nel 1960 anche il Somaliland avrà la
sua Costituzione, il Segretario di stato alle colonie Alan Lennox-Boyd dichiara che il
governo inglese è favorevole all’unione delle due Somalie appena avranno raggiunto
l’indipendenza. L’annuncio, se suscita soddisfazione a Mogadiscio e Hargheisa,
provoca la reazione negativa del governo etiopico per paura dell’inizio del progetto
inglese della Grande Somalia e la conseguente destabilizzazione dell’Africa
orientale. Da questo momento in avanti, i due territori marciano speditamente ed
insieme247.
Il 17 Febbraio 1960 si tengono le elezioni generali nel British Somaliland248 e
tutti e quattro i partiti in lizza hanno in programma la fusione con la Somalia. Il 6

245
La Costituzione entrerà provvisoriamente in vigore il 1 Luglio 1960 e dovrà, entro un anno da tale
data, essere sottoposta a referendum popolare, al quale saranno chiamati a partecipare tutti gli elettori.
Il referendum si tenne il 25 Giugno 1961 e diede questi risultati: votanti 1.948.348; voti favorevoli,
1.756.216; voti contrari, 183.000; schede nulle, 9.132; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale,
cit., p. 282.
246
Morone, L’ultima colonia, cit., pp. 176-177.
247
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 283.
248
Nel Somaliland vinse le elezioni il Somali National League, che aveva ottenuto 20 dei 33 seggi del
Consiglio legislativo. Leader del SNL era Mohamed Hagi Ibrahim Egal.

220
Aprile i deputati del nuovo Consiglio legislativo di Hargheisa chiedono alla Gran
Bretagna l’immediata indipendenza del territorio e Londra, rispondendo
favorevolmente a tale rivendicazione, fissa la data del 26 Giugno 1960. Non
essendovi più ostacoli sulla via dell’unione fra i due territori, tra il 16 e 24 Aprile si
riuniscono a Mogadiscio i delegati della Somalia e del Somaliland per definire le
modalità della fusione. I punti essenziali della risoluzione finale sono: a) il
Somaliland e la Somalia costituiranno il 1 Luglio 1960 la repubblica di Somalia,
conformemente ai voti unanimi dei rispettivi parlamenti. La nuova repubblica sarà
unitaria, democratica e parlamentare; b) l’Assemblea legislativa della Somalia e il
Consiglio legislativo del Somaliland si fonderanno il 1 Luglio 1960 per costituire
l’Assemblea nazionale; c) la nuova Assemblea nazionale eleggerà il Presidente della
Repubblica; d) i partiti al potere nei due territori costituiranno un governo di
coalizione; e) la capitale della nuova repubblica sarà Mogadiscio, sede
dell’Assemblea nazionale e del governo; f) le due regioni amministrative del
Somaliland e le sei regioni della Somalia costituiranno il territorio della nuova
repubblica, divisa in otto regioni amministrative249.
Nel pomeriggio del 30 Giugno, la bandiera italiana, così come quella delle
Nazioni Unite, venne fatta scendere alle 18:00, come tutti gli altri giorni, dinanzi alle
sole autorità e l’AFIS cessò ufficialmente di funzionare alle 16:00 del 30 Giugno,
quando l’ultimo amministratore, Mario Di Stefano, si imbarcò su di un aereo diretto
a Nairobi. Poco dopo giunse la delegazione italiana, capeggiata dal Ministro della
Pubblica Istruzione, Giuseppe Medici, e della quale fece parte anche il
Sottosegretario agli Esteri Carlo Russo che presenziò alla cerimonia che alla
mezzanotte tra il 30 Giugno e il 1 Luglio sancì l’indipendenza somala, affinché si
firmassero i trattati italo-somali come il trattato di amicizia, l’accordo di pagamento e
di assistenza finanziaria e la convenzione consolare. Nella maniera più discreta,
l’Italia lascia l’Africa e chiude l’ultimo capitolo della sua avventura coloniale,
cominciata quasi 90 anni prima sulle rive del Mar Rosso.

3.4.6 Dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana: un bilancio finale

Il bilancio decennale dell’AFIS non è stato un successo e, anche se non


avesse avuto problemi nei primi anni di amministrazione e avesse commesso molti

249
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 284.

221
meno errori, nel termine perentorio dei dieci anni non sarebbe stata in grado di
strappare la Somalia dalla povertà politica ed economica. Lo sbaglio, se c’è stato, è
di aver accettato a scatola chiusa il mandato e di aver delegato, a realizzare il nuovo
stato, non certo l’Italia migliore. Il primo e più grave atto di presunzione dell’AFIS è
quello di sostenere di aver realizzato in Somalia una democrazia parlamentare,
esemplare e funzionante ma che, nella realtà dei fatti, si dimostrerà negli anni
successivi troppo fragile sotto l’attacco del cabilismo e dei gruppi neocolonialisti. I
motivi di questa debolezza vanno ricercati nel preciso disegno del neocolonialismo
italiano, di preparare, tramite l’AFIS, una classe dirigente pronta a continuare a
servirlo e a servire ogni interesse coloniale. Le tappe della formazione di questa
classe dirigente, disposta a mediare gli interessi stranieri, le abbiamo viste
ricostruendo il rapporto tra la Lega dei Giovani Somali e l’amministrazione
fiduciaria italiana, in cui il partito viene, a mano a mano, svuotato dei contenuti
sociali e progressisti fino alla scissione dell’ala oltranzista, venendo premiata con il
potere politico e la graduale immissione nelle attività economiche del paese250.
Il fallimento dell’AFIS non è soltanto politico, è anche economico dato che,
alla scadenza del mandato italiano, la Somalia resta un paese poverissimo, senza
infrastrutture e destinato a decenni di continui sussidi esteri. Le enormi somme spese
dall’Italia in questi dieci anni, cifre che variano dai quasi 90 miliardi di lire del
rapporto finale del governo italiano fino ai 200 miliardi stimati da alcuni studiosi e
giornalisti, non sono andate in investimenti produttivi ma per pagare le spese
dell’AFIS, in particolar modo le altissime retribuzioni dei funzionari, per il
funzionamento dell’apparato amministrativo, per le agevolazioni lecite e non lecite
(auto, servitù, arredamento di case, viaggi in Italia) e per la liquidazione del
personale. In altre parole, la gran parte del denaro stanziato dall’Italia per la Somalia
è rientrato nella penisola sotto varie forme e lo si vede, ad esempio, dal reddito pro-
capite somalo, tra i più bassi al mondo. Emanuele Savignone muove degli appunti
negativi sulla gestione economica dell’AFIS a partire dal fatto che “buona parte dei
finanziamenti italiani si traduceva in aiuti diretti o indiretti alla bananicoltura, e
quindi nel sovvenzionamento di un’attività priva di futuro e distruttrice di ricchezze,
quasi completamente in mano, oltre tutto, di connazionali”251. Alessandro Pazzi,

250
Ibid., pp. 298-300.
251
Emanuele Savignone, La Somalia ad una svolta ?, in «Questitalia» n. 141, dicembre 1969, pp. 33-
34; cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 301.

222
invece, muove due appunti all’AFIS: quello di non aver svolto un’opera più attiva
per ricercare i capitali necessari allo sviluppo della Somalia presso i numerosi fondi
internazionali per le aree depresse e quello di essersi sovralimentato per compiacere i
suoi funzionari, impedendo di eseguire una parte degli investimenti necessari a
favorire il decollo della Somalia.
Infine, l’AFIS ha fallito l’obiettivo di dare alla Somalia dei confini sicuri e
definiti. La mancata delimitazione della frontiera con l’Etiopia, soprattutto nella zona
dell’Ogaden, costrinse l’ex colonia a potenziare il suo piccolo esercito distraendo
così ingenti somme dagli investimenti produttivi, in particolar modo in forniture di
armi fatte con molta discrezione dall’Italia. La mancata definizione dei confini illuse
i somali che il processo di riunificazione dei territori di lingua somala potesse
compiersi più facilmente. Tale progetto, indirizzato verso l’Ogaden e il Northen
Frontier District keniano, porterà a passi falsi nella politica estera, a cominciare dalla
rottura diplomatica con la Gran Bretagna, fino all’isolamento in tutte le conferenze
panafricane. La democrazia parlamentare creata dall’AFIS avrà vita breve, nove
anni, e verrà sepolta dal solo organismo efficiente del paese, l’esercito, nel cui
ambito alcune forze sono andate sviluppandosi in senso progressista dinanzi alla
graduale degenerazione della prima repubblica somala252.

252
Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., pp. 303-305.

223
CONCLUSIONE

L’Africa non è stata più la stessa da quando, nell’Ottocento, i paesi europei


decisero di spartirsi il continente tra loro, determinati a sfruttarne le risorse e il
territorio per trasferire la popolazione in eccedenza in Europa. Gli stati fuoriusciti
dalla decolonizzazione sono soltanto una creazione dell’Occidente, dato che non
esistevano nell’era precoloniale, costruiti in base ad accordi tra i vari paesi europei
interessati. Confini, istituzioni, costruzioni partitiche sono un retaggio di ciò che
l’Europa ha lasciato in eredità all’Africa, con successive guerre tra stati ed etnie
diverse, foraggiate dal fatto che non esisteva altro modo per imporsi al di fuori
dell’impiego della forza, coadiuvato dal razzismo dilagante nelle colonie.
Oggetto di studio di questo testo è la decolonizzazione africana e le sue
contraddizioni di fondo, analizzate in profondità da storici ed accademici che ne
hanno tirato fuori l’essenza controversa di questa ritirata europea dall’Africa. Ciò è
visibile anche nei due casi presi in esame in questo elaborato, ovvero la guerra
d’Algeria e le vicende occorse negli anni quaranta alle ex colonie italiane. Nelle due
vicende esaminate si nota come i punti affrontati nella prima parte, quella dedicata
agli studi storiografici sulla fine del colonialismo e sui decenni postcoloniali, si
ripropongano, con aspetti e sfaccettature diverse, nelle due situazioni prese in esame.
Il passato coloniale ha influito notevolmente sugli eventi successivi in questi
paesi dato che in entrambi i casi c’è stato un colonialismo violento e di conquista e,
anche se effettuato in periodi distinti, ha lasciato ferite indelebili nelle popolazioni
locali, a tal punto che, nell’episodio algerino, ha dato vita alla ribellione contro i
francesi per i soprusi subiti in più di cento anni di dominazione. Nel caso italiano,
invece, non c’è stata una vera e propria decolonizzazione se non nel caso somalo ed
anche qui si riscontrano delle affinità con i punti generali analizzati dalla storiografia
poiché vengono ereditati problemi di non poco conto, con stati creati dagli italiani
come l’Eritrea e la Somalia, con quest’ultima che avrà difficoltà crescenti nel corso
dei decenni successivi.
I problemi successivi alla proclamazione dell’indipendenza, siano essi politici
o economici, sono anch’essi dovuti al lascito europeo e alla vecchia organizzazione
del potere coloniale, tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento. A livello
politico, le problematiche sono dovute alla distribuzione e al mantenimento
dell’organizzazione governativa coloniale che si basava sull’appoggio incondizionato

224
della borghesia indigena che, una volta giunta al potere con l’indipendenza, ha
continuato ad utilizzare i metodi coloniali di governo attraverso la manomissione del
multipartitismo e l’arrivo al partito unico al potere che delegittimava le assemblee
legislative ed aveva lo scopo di porsi come l’unico difensore dell’unità nazionale dai
vari tribalismi ed etnicismi. Ciò si è perpetrato, in seguito, attraverso la
manomissione della situazione politica interna degli stati africani, grazie
all’appoggio delle vecchie élite civili e militari e del capitalismo internazionale. Tali
difficoltà si riscontrano in Algeria, dove il Fronte di liberazione nazionale si erge a
partito unico, eliminando la concorrenza di altre formazioni partitiche, già dal 1963,
e con Ben Bella inaugura la dittatura monopartitica di stampo socialista. Nel 1965 ci
sarà il primo colpo di stato militare del colonnello Boumedienne a cui seguirono
violenti disordini, arresti in massa di militanti di sinistra, condanne all'esilio e la
nascita di nuove organizzazioni armate antigovernative. In Somalia, già durante
l’amministrazione fiduciaria del nostro paese, viene scelto come interlocutore
politico principale la Lega dei giovani somali che si erge come l’unica forza
veramente nazionale e in grado di unire le varie tribù del paese. Anche qui, dopo
alcuni anni in cui lo stato sembra stabilizzarsi attorno alla forma costituzionale uscita
dall’indipendenza, si ha un colpo di stato da parte del generale Siad Barre nel 1969,
che guiderà il paese fino al 1991, anno di inizio della guerra civile e della
disgregazione dello stato somalo che dura ancora oggi.
Sulla questione economica, la decolonizzazione non ha fatto altro che
accentuare il divario tra le economie europee, ed occidentali, e quelle degli stati
africani, lasciando insoluto un problema di una certa gravità dato che con ciò le ex
colonie rimangono ancor oggi legate a doppio filo agli stati industrializzati,
attraverso il sistema degli aiuti allo sviluppo e la continuità dei rapporti privilegiati
degli europei con le borghesie e i governi africani, strutturati da decenni di
colonialismo. Gli studiosi lo chiamano neocolonialismo, un nuovo tipo di
dominazione che imponeva i suoi dogmi economici sui paesi più deboli con il
perdurare della dipendenza economica dal potere coloniale, l’integrazione in blocchi
economici coloniali, l’infiltrazione economica attraverso investimenti di capitale,
prestiti, aiuti, concessioni ineguali e mezzi finanziari controllati dalle potenze
coloniali. Non più un dominio diretto basato su una struttura amministrativa e
militare d’oltremare, dispendiosa per le casse pubbliche dei paesi occidentali, ma la
penetrazione nel lato debole di questi stati, quello economico, lasciando una specie di

225
contentino con la libertà politica conquistata a cavallo tra gli anni cinquanta e
sessanta. In Algeria, nonostante la lotta di liberazione portata a compimento con il
raggiungimento di accordi con il nemico francese per l’indipendenza del paese
vengono inserite delle clausole che richiamano il neocolonialismo e riguardano
aspetti militari ed economici: “l’accordo prevede il pieno accesso alla sovranità da
parte dell’Algeria, senza interferenze francesi nella nomina dei dirigenti statali
garantendo l’integrità politica e territoriale dello stato algerino mentre la Francia si
vedeva riconosciute alcune sue prerogative: avrebbe tenuto in Algeria 80.000 soldati
per tre anni conservando per cinque anni i poligoni per gli esperimenti nucleari e le
basi aeree nel Sahara e sarebbe rimasta per quindici anni con un regime d’affitto
nella base navale di Mers el Kébir. Le compagnie petrolifere francesi mantennero le
concessioni già operanti e si assicurarono un trattamento di favore sulle nuove
esplorazioni per un periodo di sei anni. Con tutti questi vantaggi non si poteva dire
che l’era del colonialismo fosse stata completamente cancellata, ma la situazione
riaffermava una concezione del FLN: non buttare a mare i francesi ma distruggere
l’inumano giogo coloniale che andava avanti da più di un secolo”. Anche qui si nota
come gli europei, in questo caso i francesi, cercano di accaparrarsi ciò che reputano
importante per la loro economia e la loro strategia politica internazionale passando
sopra i diritti vantati dagli algerini in materia di idrocarburi e di sovranità nazionale
nei riguardi di esperimenti nucleari e basi militari.
Anche nel caso somalo si riscontrano le difficoltà e le ingerenze
europee, italiane in questo caso, che sono state portate alla luce dagli studi
storiografici e non di questi decenni. Già l’idea di mandato fiduciario anticipava, di
circa un quindicennio, quella che prese il nome di cooperazione allo sviluppo,
cementando la collaborazione dell’Italia con i paesi di nuova indipendenza e
l’esperienza decennale non fece altro che lasciare insoluta la situazione economica
della Somalia, aiutando gli imprenditori italiani che cercavano fortune in quel paese
oppure chi già operava come gli addetti alla bananicoltura. Un settore che si era
sviluppato durante i decenni di colonialismo italiano e che reclamava la sua parte
durante il periodo transitorio di amministrazione del nostro paese. Riprendendo una
parte del testo scritto in precedenza: “dal 1954 – l’AFIS - vara un piano settennale di
sviluppo da 11 miliardi di lire, più della metà riservati al potenziamento
dell’agricoltura e della zootecnica. Nello stesso periodo vengono investiti dai privati
13,5 miliardi, assorbiti per il 40 per cento da ricerche petrolifere - portate avanti da

226
compagnie straniere come l’ENI -, per il 30 per cento da investimenti agricoli e per il
20 per cento da investimenti industriali. Ma i benefici di questi investimenti pubblici
e privati sono troppo esigui, non sufficienti a determinare un sensibile aumento della
produzione totale né ad incrementare nella misura necessaria il gettito delle entrate
pubbliche”. Si rimarca nuovamente il neocolonialismo in questo caso, dato che viene
dato via libera ai privati occidentali di investire e di occupare l’economica di un
paese povero come la Somalia, per sfruttarne al massimo le poche risorse naturali di
cui dispone. Questa decisione si ripercuoterà nel periodo successivo all’indipendenza
dell’ex colonia, che rimarrà un paese poverissimo, senza infrastrutture e destinato a
contare sui sussidi esteri per decenni i successivi e, difatti, ancora oggi, ha il Pil e il
reddito procapite tra i più bassi del mondo.
Un punto di relativo interesse riguarda la questione culturale tra l’Occidente e
l’Oriente, come fu posta alla fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta da
Edward Said con il saggio Orientalismo e che ha dato il via ad un filone di studi che
prende il nome di Postcolonial Studies. Tale branchia di studi cerca di comprendere,
analizzare ed approfondire gli effetti culturali della colonizzazione sui popoli
indigeni. Questione che è accentuata al massimo nel caso africano, dove la nozione
di alterità viene utilizzata per elevare l’Occidente rispetto alle popolazioni indigene a
livello storico, politico, filosofico ed antropologico. Il problema principale è da
ricercare del mancato sviluppo di un’organizzazione educativa e universitaria che
potesse portare ad uno studio più approfondito della realtà africana nelle sue
diversità, per poter elevare la civiltà indigena al cospetto delle altre culture. Ciò è
risultato difficile, se non impossibile, anche per un altro motivo: la maggioranza
degli studiosi africani ha effettuato i suoi studi in Occidente, riprendendo gli schemi
utilizzati dagli europei e riutilizzandoli per le questioni africane, come ad esempio la
struttura in classi che non è così marcata in Africa come in Europa. Fanon, nel suo
saggio I dannati della terra, ci spiega che, secondo il suo pensiero, una cultura
nazionale africana dovrebbe essere creata dai partiti politici al potere ma ciò contiene
una contraddizione, dato che sono composti da intellettuali formati in Occidente che
ricercano un collegamento con la cultura precoloniale e più precisamente
continentale, che distingua l’uomo nero da quello bianco.
La guerra d’Algeria, in Francia, dopo la sua fine sparisce dal panorama
culturale e politico del paese, grazie anche agli indulti presentati dal governo
transalpino, a discapito delle verità che vengono nascoste e sotterrate, e di una

227
cultura nazionale che si vuole lasciare alle spalle tale evento. Già durante il conflitto
le istituzioni francesi fanno di tutto affinché non si sappia niente sul suolo
metropolitano di cosa succeda davvero in Nord Africa e, ne è d’esempio, la storia
delle torture da parte del reparto paracadutisti del gen. Massu ad Algeri che ritorna
fuori nei primi anni duemila con il processo al suo sottoposto gen. Aussaresses per
tortura ed esecuzione sommaria. Questo avvenimento ha scioccato l’opinione
pubblica francese, dato che si scopre la verità dopo circa quarant’anni di omertà e di
cancellazione pubblica, così come successe per il governo fantoccio dei nazisti della
Repubblica di Vichy. Parentesi che sono state cancellate totalmente dal panorama
nazionale ma che, in questo caso, ritornano a galla dopo decenni di buio assoluto.
Come ben spiega il saggio di Andrea Brazzoduro, Soldati senza causa. Memorie
della guerra d’Algeria, solamente nel 1999 lo stato ha riconosciuto che è stata
combattuta una guerra in Nord Africa, certificando la falsità di termini come
pacificazione e mantenimento dell’ordine, e dal 2007 i veterani d’Algeria hanno
cominciato a raccontare la propria storia al di là del Mediterraneo, cercando di
tappare un buco di omertà che non rendeva di certo onore alla Francia e ai suoi
principi repubblicani1. Anche in Italia l’argomento è poco toccato da parte della
storiografia di casa nostra e fanno eccezione alcuni saggi come quello di Gianfranco
Peroncini, Il sillogismo imperfetto. La guerra d’Algeria e il Piano Pouget,
un’alternativa dimenticata, il testo di Calchi Novati, Storia dell’Algeria
indipendente, che riprende la storia di questo paese fino ai giorni nostri partendo
dalla colonizzazione francese e alcune traduzioni tra cui il testo di Benjamin Stora,
docente di storia del Maghreb a Parigi, La guerra d’Algeria, e quello di Alistar
Horne, Storia della guerra d’Algeria, 1954-1962. Guardando alla decolonizzazione
in generale c’è stato un approccio più ampio al problema, dovuto anche alla
grandezza dell’impero coloniale francese, che ha permesso di avere molti studiosi e
storici che si sono occupati di tale argomento.
In Italia, diversamente da quanto accaduto in Francia, gli studi sulle colonie
africane sono stati pochi ed intrisi dalle vecchie idee colonialistiche che hanno
convissuto nella cultura del nostro paese fino agli anni settanta e ottanta, quando ci fu
un ricambio generazione di studiosi ed accademici che utilizzarono un nuovo
approccio sulle problematiche della decolonizzazione africana e sull’immediata fine

1
Andrea Brazzoduro, Soldati senza causa. Memorie della guerra d’Algeria, Laterza, Bari 2012, pp.
10-12.

228
dell’impero coloniale italiano così come era stato studiato all’estero, sia da italiani
che da studiosi di altre nazionalità. Se fino alla Seconda guerra mondiale tale
disciplina rimase appannaggio dei funzionari coloniali italiani e di accademici in
combutta con il regime fascista per dare lustro all’italianità esportata in Africa, ci si
sarebbe aspettati un cambiamento di mentalità con il Secondo dopoguerra e la perdita
delle colonie ma, come dimostra la diatriba politica internazionale che è stata
abbondantemente analizzata in precedenza, le vecchie idee coloniali di popolamento
europeo nelle colonie e lo sfruttamento economico di tali territori ritornano a
giustificare il rientro dell’Italia in Africa. Si dovrà aspettare gli anni settanta e una
nuova leva di storici per avere una liberazione degli studi storiografici sulle ex
colonie italiane e sulla decolonizzazione in generale, portato avanti da personalità
importanti come Giorgio Rochat, Angelo del Boca, Alessandro Triulzi e Giampaolo
Calchi Novati che portano novità rilevanti nel mondo accademico italiano rispetto
alla visione ristretta che avevano i loro predecessori come Carlo Giglio e Teobaldo
Filesi, troppo legati al vecchio tipo di ricerca storica italiana. Riprendendo ciò che ho
scritto in precedenza, ci sono dei limiti oggettivi nella storiografia italiana
riguardante l’Africa e le ex colonie dato che la decolonizzazione degli studi africani è
avvenuta in ritardo, non c’è stata collaborazione tra studiosi critici del colonialismo e
non e manca un approccio moderno allo studio dell’Africa sulle lingue, costumi ed
altro.
In altre parole, gli studi francesi ed italiani risentono dell’eredità coloniale,
ancora forte a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta, e solamente con il passare
degli anni viene fatta un’analisi più distaccata della decolonizzazione, ovviamente
più approfondita in Francia, dato l’immenso impero d’oltremare dei transalpini,
mentre in Italia si dovrà aspettare gli ultimi decenni del Novecento e i primi del
ventesimo secolo per avere un punto di vista imparziale su tali temi e, in particolar
modo, sulle vicende occorse alle ex colonie in Africa.
I punti presi in considerazione in precedenza fanno da conferma alla tesi di
fondo di questo testo, ovvero che l’Europa non ha abbandonato la propria funzione di
colonizzatore in Africa, ha solo cambiato il metodo di supremazia passando da un
controllo diretto ad uno indiretto formato dal binomio capitalismo – élite indigene
compiacenti con cui continua ad avere voce in capitolo in quel continente. Ne sono
la prova lo sfruttamento delle risorse naturali africane come nel caso nigeriano e
libico, in cui le più grandi compagnie petrolifere, tra cui l’Eni, hanno aperto nel corso

229
dei decenni grandi impianti lasciando le briciole alle popolazioni locali. E che dire
delle operazioni militari francesi in Ciad e Mali ? Operazioni fatte solamente per
mantenere lo status quo e poter continuare a sfruttare questi due paesi ricchi di uranio
per le centrali nucleari sul territorio metropolitano. Un esempio recente viene dalla
Tanzania, dove le vecchie coltivazioni sono state sostituite da una pianta da cui si
ricava un biocarburante con cui sostituire l’olio combustibile per le centrali
termoelettriche2. Sono tutti esempi di come la decolonizzazione è riuscita a metà
poiché è stata ottenuta la sovranità politica delle ex colonie ma, per come erano state
strutturate durante il colonialismo e per gli accordi presi poco prima
dell’indipendenza, sono rimaste doppiamente legate all’Occidente, con quest’ultimo
che ha visto un guadagno in questo: non si spende più per mantenere direttamente
territori oltre confine ma si ottengono e si custodiscono comunque vantaggi
economici, sfruttando le ex colonie africane per le loro materie prime. I
neocolonialisti avevano visto lungo in questo e, con l’esempio dell’America latina,
avevano pronosticato che ancora per decenni si perpetrasse il dominio europeo e
occidentale sull’Africa.
Per questo è stato scelto come titolo il tramonto del colonialismo europeo in
Africa perché il dominio europeo non è terminato negli anni sessanta ma si è espanso
anche ai paesi occidentali che non avevano imperi coloniali e alle economie
emergenti, basti pensare alla Cina che sta investendo negli stati africani come
l’Angola, facendo continuare quella sensazione di inferiorità e di sfruttamento che gli
africani pensavano di aver definitivamente salutato nel 1960, il cosiddetto anno
dell’Africa.

2
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/03/05/news/africa_la_green_dis_economy-
30257116/ .

230
BIBLIOGRAFIA

FONTI PRIMARIE:

 «Africa: rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italo-


africano», 1984
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