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PARTE PRIMA.

INTRODUZIONE

1. LA TRADUZIONE NEL MONDO MODERNO

La traduzione è sempre esistita, anche se nelle grandi enciclopedie o nei manuali di linguistica ancora non se ne fa
cenno. Sulla proprietà letteraria della traduzione, poi, soltanto recentemente s’è avuta una qualche legislazione che
la tuteli. Il fatto è che finché l’interprete restava un subalterno continuava ad essere un semplice ‘artigiano’.
Oggi non è più così, perché la traduzione è diventata un fenomeno di massa, come emerge dall’Index
Translationum dell’Unesco (fondato nel 1932, ma attivo dal 1948) e dalla notevole importanza che ha assunto
anche la traduzione cinematografica rendendo l’attuale traduzione una vera e propria attività industriale.

2. QUALCHE DEFINIZIONE

Nel XVI secolo, grazie all’umanista francese Etienne Dolet1, si afferma il termine traducteur, che nel 1549,
insieme al termine traduction, troverà spazio in tre capitoli dell’opera Deffence de la langue française del Du
Bellay.

L’«interpres» e il «translateur»
Prima del XVI secolo, gli antichi termini francesi sono translater, translateur, translation, che appaiono nel XIII
secolo.
Prima di questo periodo, infatti, vigeva il latino interpres, interpretari che riuniva nella stessa parola l’operazione
compiuta sulla lingua orale e quella compiuta sulla lingua scritta. Dunque, sarà solo nel XII secolo che, con il
termine francese truchement, ci sarà una prima distinzione del primo termine (interprete) dal termine translateur.
La fine della latinità indica quindi una la prima distinzione specifica tra l’interprete, che opera sulla lingua orale, e
il traduttore, che opera sulla lingua scritta. Tale distinzione è valida tuttora perché relativa ad attività che si basano
su metodi ben differenziati se non addirittura contraddittori.
Per dare un nome a tale attività, all’inizio dell’era moderna nascono nuovi termini che si rifanno tutti alla medesima
metafora: ‘far passare’, ossia facilitare il passaggio da una lingua a un’altra, ‘trasportare’ in un’altra lingua il
significato di un idioma, idea già nel latino tra-duco, nell’italiano tradurre, nel francese traduire.

Versione e traduzione
Distinzione legata all’esegesi religiosa, nel 1657 Bryan Walton, dottore in teologia a Cambridge, non confonde tra
loro versione, versione interlineare, traduzione, interpretazione e parafrasi, forme di traduzione che entreranno
nella retorica classica fino agli albori del XIX secolo.
Nell’Encyclopédie la versione è ‘l’interpretazione letterale di un’opera’, più aderente alle strutture della lingua
d’origine e più asservita ai principi della sua costruzione analitica, mentre la traduzione bada maggiormente ai
significati ed è più attenta a renderli nella forma più conveniente alla nuova lingua. Si riconosce qui la distinzione
classica tra traduzione letterale e ‘le belle infedeli’, le traduzioni libere ma ben scritte, e anche tra traduzione
scolastica e traduzione letteraria.
In conclusione, l’arte del tradurre presuppone la versione, che d’altronde fa parte dei primi tentativi di traduzione.
Nell’uso moderno, tuttavia, si definirebbe traduzione il lavoro oggettivo, mentre la versione sarebbe una traduzione
connessa con le scelte più soggettive del traduttore.

La traduzione moderna
Oggi quando si parla di traduzione si intende:
a) la traduzione interlineare (posta fra le righe) o riga a riga (con testo a fronte). Sono sempre letterali,
soprattutto la prima, mentre la seconda può avere un po’ di libertà ma sempre nei limiti della riga o del
verso. Questi tipi di traduzione, se condannati da Paul Valery come ‘preparazioni anatomiche’, erano difese
da Benedetto Croce, che le considerava semplici strumenti didattici destinati a facilitare la comprensione
delle opere originali. Queste traduzioni letterali devono comunque essere sempre accompagnate dai testi
originali;
b) la traduzione letterale (ossia parola per parola). Corrisponde alla versione come la intendevano i traduttori
della Sacra Scrittura (per esigenze teologiche), gli Enciclopedisti e Croce. Questa forma non verrà qui
presa in considerazione;
c) la traduzione moderna propriamente detta, ossia il risultato di tutta l’esperienza passata, cioè cerca di
rispettare la lingua in ogni parola, in ogni sua costruzione, in tutti i suoi modi stilistici. Si preoccupa anche

1
E. DOLET, Manière de bien traduire d'une langue en l'autre, 1540.
1
di non violare la lingua in cui si traspone, rispettando lo spirito della lingua originale e quella in cui si
traduce, senza aggiungere né togliere nulla.

La traduzione come metafora


Oggi che si tende a ridurre la traduzione ad una serie di operazioni automatiche (scientifiche) non sembra inutile
confrontare il termine tradurre con i suoi usi metaforici.
Naturalmente, nessuno pensa che tradurre sia un’operazione simile a quella per cui un buon attore, o un buon
pianista, interpretano una parte o un pezzo musicale.
Certo, si può dire che uno stenografo ‘traduce’ una lettera in simboli stenografici, un telegrafista ‘traduce’ in
alfabeto Morse, un testo in Braille ‘traduce’ un testo stampato, ma queste operazioni si servono del verbo tradurre
soltanto in senso figurato.
a) Quando un messaggio orale passa alla sua forma scritta si parla di trascrizione, ma meglio parlare di
notazione (scriptio in latino), perché ‘trascrizione’ suggerisce l’idea del passaggio da una lingua ad
un’altra;
b) Quando un messaggio scritto passa da una scrittura a un’altra è un’operazione ben diversa, con regole ben
definite. Si tratta infatti di un cambiamento di codice, come il passaggio da un testo scritto a uno
stenografico, ad uno in alfabeto Morse o in caratteri Braille. Queste operazioni si chiamano
translitterazioni, se il passaggio è fatto lettera per lettera come, ad es., il passaggio dai caratteri cirillici a
quelli latini. Tutte queste operazioni ben diverse dalla traduzione, per cui non si ha bisogno di ricorrere al
significato. Infatti, lo stenografo, l’operatore Morse o Braille, possono eseguire il loro lavoro senza
comprendere neppure una parola del messaggio translitterato, mentre il lavoro del traduttore esige che si
risalga al significato della lingua originale per renderlo poi nella lingua in cui traduce.
Ecco allora che, quando si fa uso della parola tradurre, è bene attenersi a quanto suggerisce Emile Delavenay, che
rifiuta la parola tradurre quando c’è passaggio da un sistema di simboli ad un altro e l’accoglie invece quando c’è
trasposizione da una lingua ad un’altra2.

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E. DELAVENAY, La machine à traduire, Puf, Paris 1959.
2
PARTE SECONDA. CENNI STORICI

3. INTERPRETI E TRADUTTORI NELL’ANTICHITÀ

Ancora non esiste una storia della traduzione, nonostante alcuni tentativi di Edouard Cary, segretario della FIT
(Federazione Internazionale Traduttori), perché sarebbe un’opera immensa, dato che la traduzione è sempre esistita.

La traduzione proto-storica
Anche nelle tribù più isolate, l’uomo che traduce lo si ritrova sempre. Per l’etnografo austriaco Bernatzik, anche
nelle popolazioni più arretrate, quasi tutti parlano la lingua dei vicini o c’è un indigeno che la conosce e se ne fa
interprete. Quindi la figura dell’interprete si ritrova sempre: gli scribi in Asia Minore e nell’antico Egitto, gli
uomini-interpreti della Cina e dell’India arcaiche.

La traduzione antica
Il primo tentativo di traduzione si manifesta inizialmente in Asia Minore con la redazione in liste bilingue di parole
su tavolette di terracotta. Ma le prime riflessioni sull’arte del tradurre le ritroviamo a Roma, dove la letteratura si
può dire è nata dalla traduzione. Già Cicerone, traducendo i Discorsi di Demostene, pone il problema di fondo della
traduzione: se bisogna essere fedeli alle parole del testo (traduzione letterale) o al pensiero contenuto nel testo
(traduzione libera o ‘bella infedele’). La soluzione di Cicerone è già l’opzione fondamentale: «Li ho resi non da
semplice traduttore (ut interpres) ma da scrittore (sed ut orator). Non ho dunque ritenuto necessario rendere ogni
parola con una parola e tuttavia ho conservato intatto il significato essenziale, perché al lettore di queste parole non
interessa il numero ma per così dire il peso».
Orazio ribadisce lo stesso precetto e si esprime negli stessi termini per definire l’adattamento più che la traduzione.
Prima di Orazio la traduzione dei Settanta (III sec. a.C.) dell’Antico Testamento era stata un’impresa non
indifferente, a parte le critiche di san Gerolamo. Nell’era cristiana Evagro, amico di san Gerolamo, dimostra quanto
ormai fosse diffuso il giudizio di Cicerone: «Se la traduzione viene fatta letteralmente nasconde il significato del
testo». Ma sarà san Gerolamo a chiudere il periodo antico con un trattato sulla traduzione, il De optimo genere
interpretandi, tutto improntato sulle tesi di Cicerone che gli meritò il titolo di Patrono dei traduttori (V. Larbaud,
1946).

4. LA TRADUZIONE NEL MEDIOEVO

Fin dall’antichità, dunque, la traduzione ha un suo luogo definito come attività letteraria e prosegue nel Medioevo,
poiché la traduzione resta legata a esigenze pratiche. Cristianizzare, infatti, significava tradurre. Così l’Inghilterra
ha il suo Venerabile Beda (VIII sec.), l’Irlanda i suoi monaci di Bangor, la Germania il suo Notker (monastero di
San Gallo), i paesi slavi i loro Cirillo e Metodio, che crearono l’alfabeto cirillico. D’altronde, il passaggio dal latino
alle lingue neolatine si compie con una lunga serie di traduzioni. Così il primo testo letterario francese Cantilene de
sainte Eulalie (883) è l’adattamento in volgare di un cantico latino. Anche la traduzione profana ha lasciato le sue
tracce. Ricordiamo, ad esempio, il Serment de Strasbourg (842), l’atto di nascita ufficiale della nazione francese,
sarebbe la traduzione romanza di una minuta diplomatica in latino.
Altra ricca serie di traduzioni medievali è quella araba, quando, con l’aiuto di qualche ebreo, si traducono testi
ebraici, ma più spesso greci, di opere di medici, filosofi, astronomi, e molte opere greche torneranno a vivere a
Cordoba (dove visse Averroé) e Toledo.
Alla fine del XII sec. Maimonide, a commento di questa impresa araba, scrisse riprendendo Cicerone e san
Gerolamo: «Chi vuol tradurre e si propone di rendere una data parola con una sola parola che le corrisponda, durerà
molta fatica... Il traduttore invece deve chiarire lo svolgersi del pensiero e può giungervi solo cambiando a volte
tutto il complesso, rendendo un solo termine con più parole o più parole con una sola, finché il pensiero sia chiaro e
l’espressione comprensibile».

La scuola di Toledo
Incrocio tra cultura araba, ebraica e cristiana Toledo fu (dal XII sec.) la prima vera scuola di traduttori. L’opera di
Tolomeo, Averroé, Maimonide e il Corano vengono colà tradotti in latino. Tra i traduttori, spagnoli, inglesi e ebrei,
emerge Gerardo da Cremona.

Dante e la traduzione
Sebbene nessun paese offra nulla di simile alla scuola di Toledo, non mancano testimonianze sull’attività dei
traduttori. Dante, ad esempio, nel Convivio riprende sviluppandolo san Gerolamo: «Se qualcuno non capisce come
il fascino di una lingua sia alterato dalla traduzione, provi a tradurre Omero in latino parola per parola». E

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aggiunge: «Nulla cosa per legame armonizzata si può in altra trasmutare senza rompere tutta la sua dolcezza e
armonia».

5. IL RINASCIMENTO E IL RINNOVAMENTO DELLA TRADUZIONE

Il passaggio al Rinascimento segna un vero cambiamento qualitativo e quantitativo. S’è visto come nella traduzione
religiosa il Medioevo si attenesse al metodo letterale per una forma di rispetto reverenziale verso le Sacre Scritture.
San Gerolamo d’altronde scriveva che nella Bibbia anche l’ordine stesso delle parole è un mistero. Il principio
dominante era dunque che di un testo sacro si dovessero tradurre le parole una per una.
Al di là del campo religioso invece la situazione è completamente rovesciata: tradurre significava ora trasferire il
senso di un testo in un’altra lingua, adattarlo, riassumerlo, trasformarlo (col ‘rimaneggiamento’ o il ‘rifacimento’)
secondo le necessità e i gusti del tempo. Così fu per molte vite di santi e per poemi epici come la Chanson de
Roland. Considerazioni serie come quelle di Dante o Maimonide furono dunque eccezioni.
Con il Rinascimento e la nascita delle lingue nazionali viene a mutare anche la natura stessa dell’atto del tradurre.
Questo accade nel momento in cui la stampa incomincia a moltiplicare il numero dei lettori che ignorano il latino.
Inoltre, con la Riforma si avverte la necessità di una Sacra Scrittura tradotta nelle lingue nazionali e non secondo la
versione letterale, ma secondo un’interpretazione del vero significato dimenticato dalla Chiesa che non vuole
riformarsi. Inoltre, va scomparendo l’abitudine di chiamare volgari le lingue nazionali: se Du Bellay dice ancora ‘il
volgare francese’, già Dolet parla di ‘lingua francese’.
È l’epoca in cui Lutero traduce in tedesco la Bibbia, quando pubblica anche l’Epistola sulla traduzione (1530), ove
insiste sul fatto che, per tradurre, bisogna capire il senso intimo del testo.
Nello stesso periodo (1535) a Ginevra i calvinisti traducono la Bibbia in francese e i frati moravi in ceco. Nel 1611
è la volta della Bibbia in inglese (‘versione di re Giacomo’), primo esempio di inglese moderno come la Bibbia di
Lutero fu il primo esempio di tedesco moderno.
Si può dire dunque che alle guerre di religione s’accompagni una guerra delle traduzioni. La Chiesa cattolica,
infatti, autocratica, considera autentica soltanto la versione volgare antica (la Vulgata) e contro questa versione
letterale non tradotta tutti i riformatori si fanno difensori di una concezione democratica del testo sacro affinché,
rendendone accessibile il significato, sia alla portata di tutti. Il contrasto fra cattolici e riformati sul modo di
tradurre ha dunque un significato profondo.
Nella letteratura profana invece il numero delle traduzioni aumenta vertiginosamente, come anche le riflessioni
sull’arte del tradurre.
Dieci anni dopo l’Epistola sulla traduzione di Lutero Dolet pubblicherà un piccolo trattato (Il modo di ben
tradurre, 1540) con cinque regole fondamentali alide ancora oggi:
a) comprendere il significato del testo;
b) conoscere perfettamente la lingua originale e quella in cui si traduce;
c) non essere asserviti al significato letterale;
d) evitare latinismi;
e) cercare un ‘bello stile’, sciolto e soprattutto uniforme.
Quando nel 1548 T. Sebillet classifica la traduzione tra i generi letterari, non fa che rispecchiare l’atteggiamento di
Dolet e Du Bellay, per i quali il traduttore appartiene alla grande famiglia degli oratores, cioè degli scrittori.
L’anno seguente Du Bellay, in Deffence de la langue francaise, specifica: la lingua francese non è povera; le
traduzioni non bastano per dare una struttura perfetta alla lingua francese; sulla necessità di non tradurre i poeti.
Dal canto suo Montaigne si esprime contro il principio del Du Bellay che è impossibile tradurre i poeti.
In generale, dunque, si può dire che il Rinascimento rompe con la versio medievale legata strettamente alla
traduzione letterale e, ritrovando la grande tradizione di Cicerone, Orazio e san Gerolamo, ha saputo inquadrare i
grandi problemi.
Lo sviluppo della traduzione può misurarsi anche con l’improvviso moltiplicarsi dei dizionari bilingue e poliglotti e
col fatto che, se nel Medioevo s’era tentato di tradurre la Divina Commedia, sarà solo sul finire del XVI sec. che ne
uscirà la traduzione in versi dell’abate Grangier. Verso la fine del XVI sec. dunque la traduzione si avvia a
diventare un bene di consumo.

6. LA TRADUZIONE E IL CLASSICISMO

Fra il 1636 (data del Cid di Corneille) e il 1815, un elemento segna la storia della traduzione: l’affermarsi del gusto
francese, che con il suo razionalismo universalista tenderà verso il tipo di traduzione definito della ‘bella infedele’.
In questo periodo la traduzione non è ancora discussa nella sua legittimità. Non mancano gli epigrammi in merito:
Madame de Lafayette paragonava i traduttori ai domestici; per Montesquieu il traduttore ‘non pensa’; per Voltaire
‘non si possono conoscere i poeti attraverso le traduzioni’.

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Tuttavia, l’idea che domina il periodo classico è ancora di stampo medievale, e cioè che le due lingue classiche
sono lingue perfette e che le moderne sono inferiori, sono cioè idiomi più deboli (definizione già in Montaigne).
Così le traduzioni sono ora considerate alla stregua di un esercizio per la lingua francese, un mezzo per conferirle
quella perfezione di cui è priva.
Tuttavia, questa sopravvalutazione del greco e del latino si accompagna paradossalmente a un’idea opposta: la
convinzione cioè che il XVIII sec. abbia raggiunto la perfezione insuperabile della correttezza e del gusto, le regole
definitive della vita sociale ideale. Questo contrasto conduce così alla querelle des anciens e des modernes. I
‘moderni’ traducono gli ‘antichi’, ma poiché il secolo di Luigi XIV è il modello del buon gusto, quanto vi contrasta
dev’essere addolcito, francesizzato, modernizzato. Nasce così la tesi ‘modernista’ di Perrault (contro Boileau): «Il
ritmo delle parole non crea l’eloquenza; si deve badare solo al significato; per questo è più facile giudicare un
autore più attraverso il suo traduttore che attraverso una lettura diretta», avvalorando la tesi di Gaspair de Tende
(L’art de traduire, 1661) che le traduzioni francesi sono migliori degli originali.
Da qui a correggere in Omero e Dante ‘volgarità’ e ‘mostruose bizzarrie’ il passo è breve. Vale in questo senso
quanto Voltaire diceva di Perrot d’Ablancourt: «Traduttore elegante, ogni sua traduzione fu chiamata ‘la bella
infedele’».
Naturalmente questo quadro dell’età classica pone al suo centro la Francia. In Cecoslovacchia, intanto, Comenio
redige la sua versione libera della Praxis pietatis (1630). In Russia, Pietro il Grande e Caterina si regolano sugli
stessi parametri. I migliori scrittori sono anche i migliori traduttori.
Ma se in quei secoli la traduzione letteraria era alla ribalta, si sviluppano anche altre forme di traduzione. Già
Savonarola aveva pensato di istituire scuole per interpreti in vista della grande crociata. Ma la prima vera scuola di
interpreti nacque sotto i re di Francia, legati ai turchi da tradizionali rapporti diplomatici (dal 1535). Per formare
dragomanni di estrazione francese Luigi XIV istituì ‘l’ecole des enfants de langue’, scuola per interpreti
giovanissimi reclutati in Francia e inviati nei conventi dei Cappuccini a Istanbul. Nel XVIII sec., infine, la Russia
di Pietro il Grande, che necessitava di traduttori per l’occidentalizzazione del paese, creò per questo un’istituzione
ministeriale e sorsero le prime associazioni di traduttori.

7. LA TRADUZIONE NELL’ETÀ ROMANTICA

Nel periodo romantico la traduzione è ad una nuova svolta: si assiste al fiorire delle lingue nazionali e del
sentimento nazionale; le traduzioni sono più frequenti (si è più curiosi di ciò che avviene in altri paesi); nei paesi
oppressi si esalta la lingua nazionale; si traduce molto per ravvivare la cultura nazionale.
Inoltre, a partire da Lessing, la critica al gusto francese conduce alla nascita della storiografia moderna (si impara
a cogliere le differenze fra epoche e civiltà diverse), si pone in discussione l’assolutismo estetico del classicismo e
entra nel mondo della cultura la nozione di relatività dei gusti (M.me de Stael, De l’Allemagne, 1810).
Tutto ciò porta al risultato che le ‘belle infedeli’ non sono più modello di buona traduzione. Così le traduzioni
francesi di Shakespeare (1776-82) del Letourneur non soddisfano più; traducendo Il Paradiso perduto di Milton
Chateaubriand ritorna alla traduzione parola per parola.
In realtà la rivoluzione è in cammino. Dopo la Lettera semiseria di Crisostomo a suo figlio (1815) di Berchet, in
cui si deridono i canoni del Classicismo, già Hugo esprime il suo scherno per «quel che resta di Omero tradotto da
Bitaubé» e Puskin, parlando della traduzione del Paradiso perduto fatta dall’abate Delille, inventa l’ingiuria
suprema per un traduttore di «aver abbellito senza misericordia».
Siamo all’epoca in cui Augustin Thierry celebra la nascita del colore in storiografia, attribuendone il merito a quei
Martyrs in cui i Franchi appaiono per quei barbari che erano, che diverrà più tardi il metodo di lavoro cosciente di
Leconte de Lisle.
Ma questa è anche l’epoca in cui Goethe formula la tesi delle traduzioni integrali, primo tentativo di creare una
teoria della traduzione. Secondo il capitolo Traduzioni de Il divano occidentale orientale (1814-27), per Goethe
esistono tre tipi di traduzioni:
quella che rende l’originale in prosa riducendolo al suo contenuto; quella sotto forma di parafrasi (parodistisch),
ossia le ‘belle infedeli’ francesi del secolo precedente che Goethe ha in dispregio; la traduzione integrale, che rende
non solo il significato ma anche gli elementi metrici e ritimici dell’originale, riconoscendo implicitamente al
tedesco grande duttilità che rende le traduzioni tedesche assolutamente fedeli.
Il movimento contro le ‘belle infedeli’ raggiunge infine anche l’università francese, dove si riconosce che la tecnica
della traduzione letterale ha ormai preso il sopravvento.
M.me de Stael intanto diffonde l’idea che il gusto estetico è una nozione relativa e che esistono capolavori anche in
altre lingue anche se non corrispondono al buon gusto francese.
In realtà, dopo Thierry, la Francia dovrà attendere Leconte de Lisle per avere traduzioni integrali, punta estrema
della traduzione romantica: rendere tutto il colore mantenendo il complesso lessicale, la sintassi, la struttura metrica
o ritmica, conservando l’atmosfera linguistica, il secolo, la civiltà in cui quel testo è nato. La traduzione dell’Iliade

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di Leconte inizia infatti con questa avvertenza: «Il tempo delle belle infedeli è passato; è in atto un chiaro
movimento di ritorno verso l’esattezza del significato e la fedeltà al testo».

8. LA TRADUZIONE CONTEMPORANEA

Al termine di questa lunga storia della traduzione ci si aspetterebbe una certa unità di opinioni. Tutto il contrario,
perché sembra impossibile raggiungere un accordo se non su due o tre questioni generali di fondo.

Le lingue antiche
Ormai scomparsa la tendenza in base alla quale si riconduceva il testo originale al gusto del lettore (si cercava cioè
di ‘naturalizzare’ il testo), dopo Leconte de Lisle anche Le mille e una notte del Galland (1705) dovette lasciare il
posto a quella del Mardrus (1900), che riporta più vicini alla realtà del libro.
Così le traduzioni di vecchi testi egizi, sumeri, assiri, trassero profitto da questa evoluzione dell’arte del tradurre
che ha trovato nell’Iliade di Leconte il suo modello.
Tuttavia, in Italia, dove vigeva un gusto più accademico e classicheggiante, trovava elogio da parte di Croce la
traduzione dell’Iliade fatta da Vincenzo Monti (1825), poeta elegante ma al quale manca purtroppo il colore,
contrapposta a quella del Pascoli (1889) che, ispirata ai principi di Leconte, suggeriva al lettore che il poema
omerico non raccontava la storia di personaggi contemporanei del Parini.
In realtà, l’annoso conflitto tra ‘professori’ (più vicini alla versione letterale) e ‘scrittori’ (che cercano la fedeltà
totale ma intuitiva) ricompare periodicamente. Così la traduzione completa delle opere di Shakespeare fatta in
francese da un gruppo di scrittori ha sollevato le stesse dispute sorte all’epoca di san Gerolamo, mostrando ancora
una volta come la traduzione sia ancora un pomo della discordia.

Paradossi anglosassoni
Bohumil Mathésius, oggi il più grande traduttore dal russo al ceco, sostiene che «Un traduttore deve violare
l’autore quando è necessario, deve saper togliere, aggiungere e ricomporre e produrre così una sua personale
creazione letteraria». A questo paradosso si contrappone la pratica dell’etnologo inglese B. Malinowski (teoria
ripresa dalla scuola firthiana di Londra) che, per far capire la differenza di struttura mentale tra un capo tribù del
Pacifico e il lettore inglese ricorre a una specie di traduzione parola per parola ancora più meccanica delle
traduzioni letterali già note. Ne risultano così traduzioni ineleganti e di grande rozzezza linguistica che però
producono l’effetto voluto, allontanando il lettore dal suo mondo.
Ancora dall’Inghilterra giunge la teoria ben più comprensiva di Theodor Savory, secondo cui esistono almeno
quattro tipi di traduzione: quella fattuale, nella quale il lettore cerca solo un’informazione (operazione rigorosa
quando il fatto è descritto, nelle due lingue, dallo stesso punto di vista); quella narrativa, in cui il lettore cerca
un’informazione su un succedersi di fatti raccontati in un certo ordine (operazione rigorosa solo riguardo la
successione dei fatti); quella scientifica (che può raggiungere il rigore più assoluto); quella degli stili (possibile solo
se l’autore, il traduttore e il lettore sono sulla stessa lunghezza d’onda, operazione piuttosto approssimativa).
Pur nella sua veste empirica questa tesi suggerisce che esistono generi affatto diversi di traduzione e ciò non
dipende dagli autori, dal testo o dal traduttore, ma piuttosto dalle necessità che ogni lettore cerca di soddisfare.

Teorie sovietiche
In Urss si è sempre data molta importanza all’Arte di tradurre (K. Cukovskij 1930). Ma con l’Introduzione a una
teoria della traduzione (1953) di A. Fedorov vediamo il primo tentativo di elaborare una teoria scientifica completa
della traduzione. Per Fedorov la traduzione è innanzitutto un’operazione linguistica e qualsiasi traduzione deve
appunto avere la sua chiave nell’analisi linguistica.

Teorie francesi
In Francia Edouard Cary rifiuta di sopravvalutare l’aspetto linguistico della traduzione perché la considera
irriducibile a qualsiasi altra disciplina, un’arte che non si può ridurre all’oggettività delle leggi di una scienza.
Del resto s’è già proposta una classificazione teorica delle traduzioni basata su un altro principio, cioè che esistono
diversi tipi di traduzione, la cui legittimità dipende dai testi, dai traduttori e dai lettori, da cui si dipartono due
grandi classi di traduzioni: o si traduce in modo che il testo ‘naturalizzato’ e senza stonature realizzi
l’ambizione delle ‘belle infedeli’ senza essere infedele (ma senza conservare il colore della lingua, dell’epoca, della
civiltà d’origine) e cioè, come definiva Gogol il suo ideale di traduzione, ‘diventare un vetro così trasparente da far
credere che il vetro sia scomparso’; o si traduce parola per parola da dare l’impressione di leggere il testo nelle
forme semantiche della lingua d’origine, ossia l’opposto di quei ‘vetri trasparenti’ del primo, e non dimenticare il
‘colore’.
Nel primo tipo dunque per tradurre l’originalità di un’opera a volte si sacrifica l’originalità della lingua; a volte,
poi, si dovrà tradurre il ‘sapore’ del testo senza impegnarsi a riprodurne l’‘odore del secolo’; infine potrà accadere
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che per naturalizzare il suo testo il traduttore debba tradurre il sapore dell’opera senza cercare di rendere l’odore di
una civiltà totalmente diversa dalla nostra, creando in tal modo una distanza ancor più grande.
Per il primo gruppo, dunque, ci troviamo di fronte a tre diversi registri. Si aggiungano infine le varie
attualizzazioni, gli adattamenti, le trasposizioni, e avremo le forme più estreme della naturalizzazione di un testo.
Anche per il secondo gruppo esistono tre diversi registri a seconda che si voglia rendere l’originalità di un’opera
senza trascurare l’originalità della lingua, oppure ricreare fedelmente l’odeur del secolo, oppure rendere il sapore di
un’opera non disgiunto dalla civiltà di cui è espressione.
Completamente diversi i criteri con cui Vinay e Darbelnet (Stylistique comparée du francais et de l’anglais, 1958)
hanno proposto la loro classificazione dei fatti di traduzione, secondo cui tradurre risulterebbe sempre più difficile
salendo lungo la scala delle sette operazioni distinte che a torto chiamiamo ‘traduzione’:
- 1) imprestito, che trasmette direttamente il vocabolo straniero dalla lingua originale;
- 2) calco, un imprestito tradotto letteralmente (es. sottosviluppato vs. underdeveloped);
- 3) traduzione letterale parola per parola;
- 4) trasposizione, cioè sostituire una parte del discorso con un’altra senza cambiare il senso del messaggio
(es. after he comes back vs. al suo ritorno);
- 5) modulazione, cioè rendere il messaggio da un altro punto di vista (es. it is not difficult to show vs. è
facile mostrare);
- 6) equivalenza, il messaggio è tradotto con un messaggio diverso ma di senso uguale (es. comme un chien
dans un jeu de quilles vs. come un elefante tra le porcellane);
- 7) adattamento, con cui si cerca di tradurre una situazione intraducibile con un’altra simile.
A tutti questi tentativi vanno poi aggiunti alcuni nuovi lavori sull’attività dell’interprete, attività favorita dai trattati
di pace (J. Herbert, Le manuel de l’interpète, 1952) e profondamente diversa da quella del tradurre.
Il XX secolo, dunque, invece di fare una sintesi di tutte le esperienze valide si è caratterizzato per un notevole
fiorire di opinioni e teorie diverse.

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