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Antonio Spinosa...
CESARE: UN GRANDE GIOCATORE...
ARNOLDO MONDADORI EDITORE.
Dello stesso autore nella collezione le scie murat: Tiberio...
(3 1986 Arnoldo Mondadon Editore S.p.A., Milano I edizione ottobre 1986.
SOMMARIO...
9 11 calcolo dei dadi.
Parte prima...
15 IL SEGNO DI VENERE.
La toga sconveniente.
Parte seconda...
145 IL SEGNO DI MARTE.
Il nuovo mondo.
Park krza.
259 IL SEGNO DI GIOVE.
L'alloro e il diadema.
445 Itinerario bibliografico.
IL CALCOLO DEI DADI
Ognuno ha il suo Cesare.
Questo apparente paradosso ha fatto nei secoli la fortuna d'uno dei massimi
protagonisti della storia e lo rende tuttora attuale, aperto alle più
contrastanti interpretazioni.
Cesare è un prisma: ogni faccia presenta una realtà diversa dalle altre.
Con lui si ha il sospetto che nell'enigma risieda l'immortalità.
La sua vita ci attrae col miraggio di scoprirne il segreto, mentre si ottiene un
risultato più esaltante, quello di veder sorgere dalle pagine del passato un
Cesare che è soltanto nostro, un Cesare come lo vede ciasc-uno di noi.
Con lui si capisce, come non mai, perché la storia si riscriva e si rilegga in
conti nuazione.
Cesare, chi sei?, chiedeva Cicerone, dubbioso intellettuale, e dirà che i
posteri avrebbero potuto rispondere meglio dei contemporanei, una volta
scomparsi sia l'odio sia l'amore che un personaggio così glorioso e discusso
suscitava nel mondo. Cicerone sbagliava.
Il giudizio su Cesare era destinato a oltrepassare i normali sentimenti, e
difatti hanno via via continuato a ripetersi la stessa domanda uomini d'azione,
pensatori, storici, letterati e poeti.
E arduo dire se egli sia stato soprattutto un conquistatore o il fondatore di un
nuovo ordine, o l'una e l'altra cosa insieme.
Aveva in mente fin dall'inizio l'idea di abbattere la repubblica già cadente o
si deve alle circostanze la costruzione d'una monarchia assoluta e personale?
Ognuno I O Ccsarc
risponde a suo modo a questi interrogativi, difficili di per se stessi, ma che
sono nulla di fronte al quesito dei quesiti: .< Cesare fu una fortuna per Roma o
una disgrazia? )~.
Di certo si può rispondere con un'altra domanda: < Se a Roma si toglie Cesare,
che cosa resta di Roma? ,.
Un grande filosofo diceva che quando rivolgiamo lo sguardo al passato, non
vediamo che rovine.
Può essere vero, ma dalle rovine emerge viva la figura di Cesare in
tutta la sua complessità, come una forza della natura che ha lasciato
l'impronta.
La sua costruzione politica è andata lontano, come arrivavano da lontano le sue
idee.
Forse non sapeva come e quando avrebbe potuto attuarle, ma certamente le aveva
ben ferme dentro di sé, sostenute da un'immensa sete di gloria e da una furiosa
ambizione.
Nel quadro della rivoluzione romana, quelle idee risalivano alle riforme agrarie
e sociali dei Gracchi, ed erano passate attraverso le realizzazioni di Mario,
suo zio, e di Cinna, suo suocero.
Cesare era un patrizio fattosi democratico che si batteva per il popolo
cercandone l'appoggio.
In nome dei populares, il nemico da sconfiggere era l'egoistica e rapace
oligarchia senatoriale, senza disdegnare il ricorso alle più plateali forme di
demagogia, favorendo più o meno segretamente l'eversione di Catilina e la
violenza di ribaldi come Clodio il bello , suo alleato e insidiatore della
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moglie Pompea.
Il suo fu un lungo disegno, tortuoso e assai contrastato, punteggiato di
complotti abortiti, fino a quando il pugnale di un controrivoluzionario, Bruto,
non colpì nel segno.
Cesare era uomo tenace e ostinato che non si lasciava scoraggiare.
Impassibile e paziente, al tempo stesso fantasioso e appassionato, tutte qualità
che egli poneva al servizio dei suoi obiettivi, a mano a mano che li
individuava.
Per prime rivelò le doti di uomo politico, capace di destreggiarsi tra le
rivalità, lefactiones del Foro, del Senato, delle Assemblee popolari salendo al
consolato
In gioventù aveva sì militato e vinto in Asia e in Spagna, meritando una corona
civica con le ambite fronde di quercia, ma solo a quarantadue anni apparve in
lui il grande generale e il conquistatore che sottomette la Gallia e raggiunge
la sconosciuta Britannia attraverso una estenuante guerra novennale.
Furono o no nove anni di preparazione al colpo di Stato? Prevedeva Cesare di
dover saltare un fiumicello per impossessarsi del potere e rincorrere dovunque
Pompeo in fuga e poi i superstiti difensori dell'oligarchia? Sulla scena
dominava ancora per quattro anni e mezzo di guerra civile la figura del generale
vittorioso che impediva all'uomo di governo di esprimersi compiutamente.
L'Europa, l'Asia, l'Africa lo tenevano lontano dall'Urbe.
I suoi nemici non vincevano, ma lo costringevano a una vita di soldato
errabondo.
Le vittorie definitive di Farsalo e di Munda arrivarono un po' troppo tardi.
Cesare tornava a Roma ~Il'età di cinquantacinque anni.
Doveva stringere i tempi di quella sua costruzione politica che, per quanto
affrettata e rimasta incompiuta, ha consegnato il suo nome ai posteri ogni qual
volta si voglia indicare la concentrazione di tutti i poteri dello Stato nelle
mani d'un'unica persona.
Nacque una forma di regime personale, sostenuto dalle armi e dal popolo, che
tuttavia fu chiamato cesarismo ~ molto dopo, a metà Ottocento nella temperie
napoleonica.
Strano destino per un grande innovatore, realizzatore della dittatura a vita,
unificatore del mondo, tanto che qualcuno ha visto in lui, sul terreno degli
ordinamenti civili, il precursore del cristianesimo.
Non meno singolare la sorte della monarchia di cui egli poté soltanto gettare il
seme, una soluzione istituzionale che si chiamerà impero e che gli sopravviverà
per cinque secoli.
Nemmeno il suo immediato successore, Ottaviana, poté fregiarsi con facilità del
titolo di imperatore e chiamarsi Augusto, tanto radicati erano in Roma i
sentimenti repubblicani.
Cesare non
i" 1 2 Ccsarc
Dal giorno in cui pronunciò queste parole mise al dito, senza mai più
separarsene, un anello con l'effigie di Venere discinta e armata.
La dea recava nella mano destra una piccola statua della Vittoria, a somiglianza
d'una Venere greca detta Nicefora e cioè portatrice di vittoria.
Sotto la protezione di Venere si erano posti i romani fin dai tempi delle guerre
puniche, ed essa era perciò nelle sue varie figurazioni la dea dell'amore e del
successo.
Enea, come racconta Virgilio, incontrava sua madre in una densa nube perché
nessuno la scorgesse, e la descrive splendente come una rosa.
La chioma effondeva un odore d'ambrosia, una veste fluente le scendeva ai piedi,
il suo incedere era davvero divino.
Non è possibile dire se Cesare già pensasse di porre alla base della sua futura
azione politica i princìpi della teocrazia e della regalità, immaginando un
monarcato universale e assoluto come unica possibilità di salvezza per Roma,
sull'esempio del re macedone.
L'ascendenza divina lo avrebbe differenziato dagli altri uomini sui quali egli
avrebbe potuto esercitare il predominio proprio perché fornito di un dono
soprannaturale, d'una grazia celeste, il charisma di cui parlavano i greci.
Non c'era modo migliore per imporsi alle gigantesche figure di Pompeo e Crasso
che dominavano la scena politica, militare e finanziaria della repubblica.
Facendo risalire le sue origini alla più bella delle dee e al più saggio fra gli
antichi re di Roma, metteva in difficoltà un pomposo generale e uno spietato
affarista.
Egli era il primo romano a vantare origini divine e giocò tale carta con fredda
determinazione, spiazzando i due concorrenti che non potevano tenergli testa in
fatto di progenie divine e tanto illustri da confondersi con i fondatori
dell'Urbe.
Cesare sapeva bene quanto contassero in quei tempi a Roma la nascita e il nome
per chi volesse prevalere.
Altrimenti che ci stanno a fare gli alberi genealogici?, chiede Giovenale,
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stemmata quidfaciunt?
Il successivo funerale della diletta moglie Cornelia, morta a soli trent'anni,
non ebbe un palese rilievo politico, sebbene non fosse meno fastoso delle
esequie tributate alla vedova di Mario.
Anche in questo caso egli volle pronunciare una laudatio, e contravvenne alle
norme che consentivano di dedicare orazioni funebri soltanto alle donne morte in
tarda età.
L'iniziativa d'infrangere un'antica consuetudine e di recitare pubblicamente dai
Rostri le lodi alla giovane moglie scomparsa, gli guadagnò nuovi favori delle
masse che lo stimarono uomo compassionevole e affettuoso.
A questo risultato puntava il patrizio che cercava il consenso della plebe.
Il giovane Cesare aveva davvero attirato l'attenzione di tutta Roma.
Di alta statura, magro ma forte, elegante fin troppo, occhi scuri, fronte
spaziosa, guance pallide, zigomi sporgenti, naso diritto e largo, bocca grande,
capelli neri inanellati e odorosi di cinnamomum, questo un rapido ritratto
giovanile di Cesare che aveva aspetto aristocratico e voce vibrante.
Il suo sguardo era mutevole, dolce e severo.
Lo definivano folgorante come quello di uno sparviero.
Cicerone decantava la bellezza di Cesare.
Velleio Patercolo, di poco posteriore, scrisse di lui come del più bell'uomo di
Roma, del più acuto per ingegno e del più ricco per nobiltà d'animo.
Appiano lo paragonò ad Alessandro per avvenenza e vigoria fisica.
Intriso d'epicureismo, era pieno di debiti e di donne, più attento ai mutamenti
della moda che alle vicende politiche dell'Urbe.
Affascinante e assai raffinato portava la cintura della toga un po' lenta, con
gusto femminile; ed effeminato era pure il suo gesto usuale di grattarsi la nuca
con un sol dito, per non guastare la pettinatura, mentre teneva divaricato verso
l'alto il mignolo affusolato.
Per i licenziosi ephebi romani era un modello di accuratezza greco-ellenistica.
A lui si ispiravano i giovani per atteggiarsi, abbigliarsi, vivere mollemente
tra vizi raffinati, insoliti amori e debiti immensi.
Era sempre ammirato nei festosi ed eleganti conviti che si celebravano nelle
ville tra le ombre dei giardini in riva al Tevere o lontano da Roma, sul lido di
Baia, attratti dalla bellezza del luogo e dalle sorgenti d'acqua calda, pretesto
per bagni, chiacchiere e baci.
Era infinitamente preso dal suo aspetto esteriore, per cui non solo si faceva
spesso tagliare i capelli e radere la barba con grande accuratezza, diligenter,
ma si sottoponeva anche a frequenti depilazioni del corpo, compresi il petto e
le gambe.
Eppure offriva l'immagine d'un'eleganza involontaria, un po' pigra e indolente.
Anche in seguito la cur~ corporis lo occuperà quanto gli affari di Stato.
Fra gli storici di tutti i tempi che hanno descritto la giovinezza di Cesare, un
giudizio di Mommsen appare tra i più vivi: ..Cesare aveva trascorso gli anni
giovanili come allora solevano passarli i figli delle famiglie nobili.
Anche lui aveva libato dal calice della vita mondana tanto la schiuma quanto la
feccia, aveva recitato e declamato, studiato letteratura e fatto versi, avuto
amoretti d'ogni specie ed era stato iniziato in tutti i misteri della scienza
della toletta, come nell'arte ancor più misteriosa di sempre far debiti e di non
pagarli m~i ".
Prima di essere folgorato a Cadice dall'immagine di Alessandro Magno, si può
dire che, negli anni della svagata giovinezza, il modello di Cesare sia stato
Alcibiade, il geniale e stravagante generale ateniese dal f,ascino
irresistibile, l'androgino che indossava solo sopravesti di pregiatissima lana
di Mileto.
E anche i primi richiami a Enea ebbero nel suo animo un'origine estetizzante.
Il mitico progenitore del popolo romano arrivò sulle coste italiche già
preceduto da una fama di molle ed effeminato frigio, semiviri Phrygis.
I suoi nemici si proponevano di insozzare nella polvere i suoi capelli stillanti
mirra e arricciati con un ferro arroventato, crinis/vibratos calido ferro
murraque madentis, come scrive Virgilio.
Era entusiasmante sapere che Enea, in mezzo ai disagi dello sfollamento di
Troia, rluscisse egualmente a curare la propria persona, a usare il calamistro,
l'attrezzo necessario all'ondulazione della chioma.
Cesare nacque a Roma, nel misero quartiere della Suburra presso il Foro, il 13
luglio del 100 a.C., e ancora oggi c'è chi si chiede se la sua nascita sia stata
per Roma una fortuna o una disgrazia.
L'estate era torrida quell'anno.
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Il quartiere, che si stendeva in una vasta e cupa depressione della città, era
fittamente abitato da liberti, piccoli artigiani e commercianti, da schiavi
fuggitivi, imbroglioni e perdigiorno d'ogni risma.
Le strade, anguste e tortuose che risalivano verso il colle Esquilino, erano
oppresse dalla calura fra nugoli di mosche attratti da luride taverne e da
latrine puzzolenti, fra torme di cani e gatti che razzolavano nei mucchi
d'immondizie, accanto alle prostitute più derelitte.
Anche la casa di Cesare era modesta, sebbene si distinguesse dalle altre per un
atrio con giardino e fontana.
La sua famiglia, i Giuli, per quanto patrizia era decaduta da tempo e non
nuotava nell'oro; né suo padre, Caio Giulio Cesare, che secondo la costumanza
romana aveva dato a lui primogenito i suoi stessi nomi, rivestiva cariche
importanti.
Alla sua morte, avvenuta improvvisamente a Pisa una mattina mentre s'infilava i
calzari, era soltanto uno dei pretori mariani.
I Giuli ormai sfiguravano davanti alle venti o trenta grandi famiglie patrizie
dell'epoca, come quelle dei Domizi e dei Pompei.
Il nome di Cesare, in quegli anni, non aveva alcun valore politico; né era
ovviamente l'emblema del potere, il simbolo d'una monarchia personale che molti
secoli più tardi si chiamerà <-cesarismo", a indicare con magnificenza e
solennità, con spietatezza e violenza, la suprema dignità del capo assoluto.
Caesar allora, in punico, non significava altro che elefante, e un antenato dei
Giuli aveva ucciso uno di quei pachidermi in una battaglia contro i cartaginesi,
meritando l'appellativo.
Cesare stesso se ne gloriava e, da pontefice massimo, farà coniare una medaglia
con l'immagine di un elefante che schiaccia un serpente.
L'elefante come rappresentazione del dominatore e il serpente del dominato.
Secondo un'altra etimologia, il cognome di Caesar era stato imposto alla
famiglia poiché uno degli avi venne ~lla luce mediante la sectio caesarea, cioè
il taglio cesareo.
E il nascere così era considerato di buon augurio.
C'era anche chi diceva che un lontano progenitore avesse occhi azzurri (caesi
ocull) e una folta capigliatura (caesaries).
Nel Medioevo, in cui immensa e immaginifica fu la fortuna del condottiero, si
attribuivano direttamente a lui, e tutte insieme, queste qualità.
Unico figlio maschio, attirò le cure dei genitori, ma sarà soprattutto la madre,
la bella e virtuosa Aurelia, a imprimergli un segno duraturo di nobile
educazione, anche perché egli aveva perduto il padre alla giovane età di
quindici anni.
Aurelia fu paragonata a Cornelia e ad Azia.
Tacito scrive: Cornelia, madre dei Gracchi; Aurelia, madre di Cesare; Azia,
madre di Augusto, educarono i loro figli in modo da renderli grandi uomini .
Aurelia apparteneva alla famiglia dei Cotta, antica e patrizia.
Tre suoi cugini erano senatori, Caio, Marco e Lucio Cotta.
Aveva anche due figlie, Iulia maior e Iulia minor che sarà nonna di Ottaviano
Augusto.
Giovinetto, Caio Giulio andò presto a lezione presso un celebre grammatico del
tempo, Marco Antonio Gnifone, proveniente dalla Gallia e istruito ad
Alessandria.
Gnifone aveva aperto una scuola di ~rammatica e di retorica in Roma, e il
ragazzo fu il suo migliore allievo, rivclando eccezionale memoria e singolare
capaCità d'espressione.
Imparò a poetare in latino e rapidamente apprese il greco che divenne la sua
seconda lingua.
Seguì gli insegnamenti del poeta greco Archia che aveva lasciato Antiochia per
fondare nell'Urbe una pubblica scuola frequentata dai virgulti della nobiltà
romana.
Si appassionò infine all'astronomia, alla matematica e alle scienze naturali.
Scrisse in quegli anni il ricordato Elogio di Ercole, oltre a una tragedia,
Oedipus, che si ispirava al mito del figlioamante di Giocasta.
In poche settimane raccolse, trascrivendoli in versi, i motti più famosi che
passavano di bocca in bocca a Roma.
Primeggiò ben presto in eloquenza gareggiando con i migliori oratori e raccolse
in un volume, De Divinatione, i dibattiti preliminari alla scelta degli
accusatori nei processi.
Tutto ciò non lo teneva lontano dalle esercitazioni militari che si svolgevano
in Campo Marzio.
La madre sapeva bene che il mestiere delle armi avrebbe garantito a un romano il
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successo politico più che l'oratoria e il poetare.
In famiglia, Cesare godeva dell'esempio di un grande generale, Caio Mario, che
aveva sposato sua zia Giulia.
Egli non era ancora venuto alla luce quando Mario, guadagnandosi il titolo di
terzo fondatore di Roma dopo Romolo e Camillo, salvò l'Italia e l'Urbe dal
turbine barbarico dei teutoni e dei cimbri.
Tra il 102 e il 101 a.C. sconfisse gli invasori in due memorabili battaglie, ad
Aquae Sextia~ (Aix-en-Provence) nella Gallia meridionale e ai Campi Raudii nella
pianura di Vercelli.
Caddero complessivamente più di centosessantamila germani, una immane
carneficina compiuta con l'intento di distruggere le orde barbariche, terribili
e gigantesche, che cercavano un posto al sole e che nella loro marcia verso il
sud avevano già tutto devastato.
Mario era di umili origini, proveniva da un villaggio montuoso, Arpinum
(Arpino), in territorio dei volsci, i cui abitanti già godevano della
cittadinanza romana.
Da giovane fu contadino, (<stancandosi con l'aratro altrui,., ricorda Giovenale,
e, sotto le armi, cominciò la sua folgorante carriera da soldato semplice.
Si nobilitò sposando Giulia, ma trasse vera gloria dalle sue grandi ~mprese
militari, fin dalla vittoria in Africa contro il re numida Giugurta.
La gens Giulia, a dispetto delle origini patrizie, si associò politicamente al
gruppo popolare dei mariani.
Il generale arpinate si affezionò al nipote di cui lodava il talento guerresco,
e ne divenne il primo maestro nell'arte bellica, mentre risuonavano gli atroci
clamori della guerra sociale in cui gli alleati italici centro-meridionali, i
socii, erano insorti reclamando la concessione della cittadinanza romana per
aver sempre combattuto negli eserciti della repubblica vittoriosa.
Le diuturne esercitazioni in Campo Marzio rafforzarono il fisico del giovane che
per nascita appariva delicato e femmineo.
Caio Giulio amava soprattutto cavalcare, sapeva mantenersi in sella tenendo le
mani intrecciate dietro la schiena mentre il cavallo correva a tutta briglia.
In tal maniera aveva pronte ambo le mani all'uso della spada padroneggiando la
cavalcatura con la sola forza delle gambe.
Aveva carattere fermo e appariva ognora dominato dalla calma, anche nei momenti
in cui gli esplodeva nell'animo l'ira.
Era affabile con tutti e ciò gli procurava l'affetto di sempre più vasti strati
popolari.
Per essere più vicino al popolo percorreva a piedi le strade di Roma, anziché in
lettiga come invece usavano fare gli appartenenti alla sua classe sociale.
Egli, patrizio, era attratto dal partito dei populares il quale, pur nei limiti
della nomenclatura politica dell'antica Roma, difendeva princìpi di democrazia.
I populares si contrapponevano agli optimates che rappresentavano gli interessi
dell'oligarchia senatoria, aristocratica e conservatrice.
Gli ottimati accusavano i popolari di ricorrere alla violenza e alla demagogia.
Il legame con Mario aveva influito sugli orientamenti politici del giovane Caio
Giulio che del resto era nato sotto il sesto consolato del grande generale
arpinate.
L'homo novus Mario era il campione del popolo, a lui si doveva l'affermazione
dei populares fin dai giorni della guerra giugurtina.
Questo partito si proponeva la sconfitta dei nobiles che per irresponsabilità,
inettitudine e corruzione avevano gettato la repubblica in una crisi profonda.
Bisognava perciò cambiare metodo cominciando a preferire nelle persone il merito
piuttosto che la nascita.
Cesare ancora imberbe si schierò con Mario subendo in seguito le persecuzioni di
Silla quando questi, come capo dell'oligarchia senatoria, assunse definitiva
mente il potere e impose ai romani una spietata dittatura sostenuta dalle armi.
Da oltre un secolo Roma non aveva più visto un dittatore sulla sua scena
politica.
L'obiettivo di Silla era di abbattere per sempre il potere del popolo e di
consegnarlo interamente nelle mani dell'aristocrazia.
Egli aveva marciato per la seconda volta sull'Urbe travolgendo tutte le
resistenze in una estenuante e feroce guerra civile condotta contro il governo
dei popolari.
Era sbarcato a Brindisi dopo aver sconfitto Mitridate re del Ponto, non senza
aver saccheggiato le città asiatiche per infliggere una lezione al sovrano che
aveva sterminato in una sola giornata ottantamila soldati fra romani e italici.
In Grecia aveva devastato la stessa Atene per punirla di essersi associata al
feroce re e per rispondere con la violenza alla violenza.
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Nella guerra civile apparvero al fianco di Silla due grandi generali, Pompeo e
Crasso, che acquis~eranno sempre più rilievo e potenza.
Silla, cui fu possibile conquistare il potere grazie al loro prezioso
contributo, impose la dittatura alla repubblica.
Disumana fu la sua vendetta contro i popolari attuata soprattutto con l'inaudita
emissione di liste di proscrizione da lui stesso escogitate e per la prima volta
poste in atto nella storia delle crudeltà politiche.
Figurarono negli elenchi quaranta senatori e milleseicento cavalieri.
Erano tanti, sicché, con coraggio, un certo Furfidio gli si rivolse gridando: <.
Lasciane vivere alcuni, almeno avrai su chi comandare ".
Ma Silla il salassatore replicava che doveva punire il partito popolare dei
mariani responsabile d'indicibili massacri e rovine.
Ogni giorno veniva pubblicata una tavola di proscrizrone con i nomi delle
persone da trucidare.
In forza di quelle liste tutti avevano il diritto di uccidere ovunque e comunque
i proscritti, i cui eredi perdevano i loro beni mediante confische e vendite
all'asta.
Erano previsti premi in denaro, due talenti, ai delatori e agli accusatori dei
proscritti; mentre erano minacciate gravi pene, compresa la morte, a chi si
azzardava a proteggerli.
Scattò in tanta ferocia una lunga spirale di delitti poiché in quell'immane
bagno di sangue si poterono attuare spietate vendette personali anche contro
cittadini del tutto estranei alle lotte politiche.
Caio Giulio qualche anno prima, quando era ancora forte il predominio dei
populares, aveva ricevuto dallo zio Mario la designazione a flamen Dialis,
sacerdote di Giove.
Ed era un ragazzo appena quindicenne.
Alta era la dignità del sacerdote di Giove riservata ai patrizi.
Insieme ad altri due sacerdo~es a ~ui inferiori e che erano chiamati a compiere
sacrifici in onore di Marte e di Quirino (Romolo), egli assisteva il pontefice
massimo nelle funzioni sacre.
Il nome di flamen derivava da un filo di lana bianca che ornava il berretto di
questi celebranti e che era tratto dal vello d'una pecora sacrificata al dio
supremo.
I flamines non potevano mai separarsi dal loro copricapo, e da esso pendevano
due lacci annodati sotto la gola, mentre alla sua sommità figurava un ramoscello
d'olivo.
La designazione a f7amen Dialis fu accolta con disappunto dal giovane poiché
l'incarico, per quanto prestigioso, contrastava con le sue aspirazioni e la sua
indole.
Troppi e paralizzanti erano gli obblighi cui doveva sottostare il sacerdote di
Giove, innumerevoli i divieti.
Non poteva cavalcare e ciò per lui, amante dei cavalli, sarebbe stato assurdo.
Né poteva allontanarsi da Roma per più di due giorni in considerazione degli
impegni d'ufficio.
Doveva essere ognora pronto a celebrare sacrifici e pertanto doveva mantenersi
sempre puro evitando di toccare carne cruda e di ingerire bevande o cibi
fermentati.
Per la stessa ragione era tenuto a star lontano dalle armi e dai morti.
Era inoltre obbligato a unirsi esclusivamente con la legittima consorte che non
avrebbe mai potuto ripudiare.
Non poteva infine candidarsi a cariche pubbliche, sebbene di tanto in tanto si
ammettessero eccezioni.
Morto Mario, alla testa dei popolari e alla guida della repubblica era salito
Cinna.
Cicerone, che non era certo un popularis per quanto dicesse talvolta di esserlo,
condannava Mario e Cinna come fautori della strage dei più illustri seguaci
sillani, e icasticamente scriveva: <.
Lumina civitatis exstincta sunt , i luminari dello Stato si spengono.
Il giovane Cesare, per volontà dei suoi familiari, strinse rapporti di parentela
con Cinna sposandone la figlia Cornelia.
Per contrarre questo matrimonio, che avrebbe dovuto aprirgli le porte della
carriera politica, fu costretto a divorziare da un'altra giovane donna,
Cossuzia, che la madre gli aveva fatto sposare un paio d'anni prima, attratta
dalla cospicua dote della fanciulla e incurante delle sue origini plebee.
Cesare, sposo di Cossuzia, era proprio un ragazzo e indossava ancora la veste
dei giovinetti, bordata di rosso, lunga fino ai piedi.
IlI
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Con Cornelia tutto andava meglio per Caio Giulio, ma di Iì a tre anni, in una
spaventosa alternanza di fazioni fra vittime a migliaia in uno Stato in preda al
terrore, Silla riconquistava con ferocia il potere.
Cesare venne a trovarsi in una situazione particolarmente difficile essendo
nipote di Mario e genero di Cinna.
Il giovane, pur non avendo avuto occasione di prendere parte attiva alle lotte
fratricide tra mariani e sillani, subì egualmente la vendetta di Silla che gli
ordinò di divorziare da Cornelia.
Cesare, mostrandosi irremovibile, non volle lasciare la moglie.
L'amava sinceramente e da lei aveva già avuto una figlia, la piccola Giulia.
Arrendevole fu invece Pompeo il quale, pur essendo potentissimo, si adeguò ai
voleri del dittatore sposandone la figliastra Emilia dopo aver ripudiato la
moglie Antistia.
Né si formalizzò davanti al particolare che la nuova sposa gli arrivava in casa
incinta, a sua volta costretta a un repentino divorzio.
Pompeo trasse considerevoli vantaggi dallo scambio, mentre Cesare pagò a caro
prezzo l'audace rifiuto.
Gli fu revocata la designazione a sacerdote di Giove, e non se ne dispiacque
molto perché la carica non gli era particolarmente gradita, ma non poté fare
buon viso a cattivo gioco quando gli sequestrarono il patrimonio insieme a
quello di Cornelia.
Inoltre il suo nome apparve nelle liste di proscrizione.
Silla di persona lo aveva aggiunto in coda all'elenco dei proscritti promettendo
una forte taglia a chiunque lo avesse catturato vivo o morto.
Non gli rimaneva altra scelta oltre quella di fuggire precipitosamente da Roma.
Si travestì da contadino e raggiunse i boschi della Sabina braccato dai sicari
del dittatore.
Trovò molte protezioni, asilo e sostentamento.
Vagava in continuazione da un rifugio all'altro e non dormiva mai due volte
nello stesso giaciglio.Durante l'affannoso girovagare cadde ammalato, in preda
alla malaria.
Negli incubi notturni gli appariva Silla, gli occhi fiammeggianti e crudeli, la
chioma rosseggiante, il volto scavato e cosparso di chiazze bianche.
Indebolito dalle febbri, i suoi spostamenti si fecero lenti e difficoltosi tanto
che gli inseguitori poterono una notte acciuffarlo.
Cesare aveva diciannove anni e già in quella circostanza dimostrò di possedere
una buona dose di sangue freddo e di abilità.
La sua personalità, sebbene ancora in formazione, ebbe il sopravvento sul capo
dei persecutori, Cornelio Fagita, che in realtà si rivelò un individuo venale e
pronto a ogni conveniente baratto.
Cesare gli propose un patto: gli avrebbe corrisposto egli stesso la taglia, lì
su due piedi, e Fagita avrebbe sempre potuto dire ai suoi compagni di non essere
riuscito a rintracciare il fuggiasco; così facendo Fagita si sarebbe oltre tutto
risparmiato la fatica di trasportare a Roma un prigioniero tanto malmesso in
salute da rendere difficoltoso il viaggio.
Il capo dei sicari si lasciò convincere e intascò il denaro, ma il giovane
dovette egualmente riprendere le sue peregrinazioni per sfuggire a numerosi
altri sicari che ancora perlustravano quei boschi alla ricerca dei proscritti
antisillani colà riparati.
A Roma, la madre Aurelia lo proteggeva amorevolmente.
Così, quando Caio Giulio già stava per lasciare l'Italia, volendo imbarcarsi a
Brindisi su una nave che avrebbe dovuto trasportarlo in Asia, fu raggiunto
dall'annuncio imprevisto del perdono.
Silla aveva revocato la proscrizione cedendo alle preghiere delle Vestali e di
un suo seguace, Caio Aurelio Cotta, celebre oratore e cugino di Aurelia.
Divennero famose le risentite parole rivolte dal dittatore agli intercessori di
Cesare nel concedergli la grazia dopo lunghe esitazioni: Sia fatta la vostra
volontà, una buona volta, e tenetevelo pure questo ragazzo.
Ve ne pentirete.
Lo volete salvo a ogni costo, ma prima o poi egli sarà la rovina del patriziato
che insieme abbiamo difeso.
Concluse l'intemerata con alcune parole profetiche: Io vedo molti Mari in un
solo Cesare~>, Nam Caesari mulJ;os Marios inesse.
Il ragazzo poté tornare a Roma dove la sua esistenza subì una prima svolta.
Era ancora il giovane elegante che frequentava i migliori salotti della città,
ma in lui maturò il disegno di impegnarsi in un'impresa militare.
La sua ricercatezza neghittosa infastidiva il dittatore, il quale ancora una
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volta espresse su di lui un giudizio che sarebbe passato alla storia: Guardatevi
da quel giovane che cinge la toga in maniera sconveniente, come una ragazza".
Erano parole tali da indurre lo stesso Cesare a non abbassare la guardia al
cospetto di Silla il quale, per quanto ora mostrasse di tollerarlo, nutriva pur
sempre nei suoi confronti un forte rancore.
Decise di abbandonare Roma una seconda volta e di cogliere l'occasione per
mutare vita.
Eppure quel suo comportamento frivolo ed effeminato nascondeva anch'esso un
significato politico.
Era una maniera per opporsi silenziosamente all'austerità dei repubblicani
barbogi.
Voleva dare di sé al popolo un'immagine lieta fra quei volti severi e uggiosi
degli ottimati.
Il terreno appariva fertile perché ormai l'Urbe, mediante le conquiste nel
Mediterraneo, si era aperta a nuove e licenziose concezioni.
Il rigoroso moralismo romano, quello antico del soldato e del campagnolo, veniva
scosso dall'irrompere di dissolutezze orientali.
Le tentazioni del piacere erano a portata di mano da quando in Grecia i leE ~
n~ri ~v~v~no mparato a Immergersmn ogm sorta dl godlmentl e a considerare la
stessa omosessualità una delle più voluttuose raffinatezze .
Il modo migliore per cambiare vita era di indossare le armi e di partire
volontario per una remota provincia.
Essendo figlio di senatore poté rivestire il grado di ufficiale.
Si mise agli ordini del propretore della provincia d'Asia, Marco Minucio Termo,
che pure era un fedele sillano, e ne divenne il suo aiutante, contubernalis.
Da Silla il propretore aveva ricevuto l'incarico di fronteggiare gli eserciti di
Mitridate di nuovo insorto contro Roma; doveva anche ridurre all'impotenza la
ribelle benché nobile Mitilene, capitale dell'isola di Lesbo.
La città rifiutava di pagare le gravose tasse che Roma le imponeva.
Fu quindi saccheggiata dai soldati del propretore, dopo un lungo assedio cui
partecipò attivamente anche Cesare mostrando doti di acutezza intellettuale, di
resistenza fisica e di coraggio.
Gli fu conferita la corona civica con fronde di quercia, una delle più ambite
ricompense alla virtù militare.
Cesare, che a Roma sfuggiva Silla, in Oriente, ponendosi al di sopra delle
parti, difendeva con lealtà la repubblica dalle minacce dei nemici esterni.
Minucio Termo prese a ben volere il giovane ufficiale e lo ammise rapidamente
nella cerchia dei collaboratori e degli amici.
Gli affidò missioni speciali di natura diplomatica come quando lo mandò in
Bitinia a sollecitare dal re alleato Nicomede IV l'invio della promessa
flottiglia di molti vascelli destinati a dar man forte ai romani nell'assedio
navale del porto di Mitilene~ Cesare conosceva ottimamente il greco, e questa
era la lingua in uso presso il re alleato.
Tra gli agi della corte orientale di Nicomede e i suoi paradisi risorse in Caio
Giulio, allora ventenne, tutto il gusto per la vita oziosa e dissoluta.
Si trovava nel suo ambiente fra marmi, ori, tappeti, giovani deliziosi e
mirabili fanciulle.
Nicomede mostrò di avere un debole per lui e gli concesse senza discutere la
flotta che prese il largo alla volta di ~itilene dove Minucio Termo l'attendeva.
Cesare però, consegnate le navi al propretore, fece all'istante marcia indietro
col prete~to di dover riscuotere certi denari in nome di un liberto suo cliente.
La notizia del ritorno in Bitinia fu sufficiente a scatenare un coro di commenti
maliziosi.
A Roma si mormorava che l'ufficialetto aveva ottenuto da Nicomede così
facilmente le navi per essersi donato a lui.
E senza molti complimenti lo soprannominarono la .< regina di Bitinia.
Lo immaginavano perfino n-elle succinte vesti di un Ganimede coppiere del re
durante un banchetto di corte, insieme ad altri viziosi giovinetti belli e
allegri quanto lui.
Svetonio non perde l'occasione di fare della maldicenza a buon mercato, anche
perché di tanto in tanto, a distanza di anni, rispuntava sulle labbra di
qualcuno il ricordo dei particolari rapporti intercorsi fra l'inviato romano e
Nicomede.
La familiarità col re di Bitinia, osserva Svetonio, espose Cesare a ogni
dileggio; fu quella una macchia che gli procurò grande e perenne obbrobrio.
L'antico biografo trascrive anzitutto i noti versi di Licinio Calvo che
dicevano: ..
Quanto oro ebbe la Bitinia / e quanto ne ebbe lo stuprator di Cesare ,>.
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Aggiunge altre piacevolezze ripetute da questo o da quel personaggio in discorsi
pubblici o in conversari privati.
Caio Giulio di volta in volta è definito .~ rivale della regina di Bitinia , .
sponda interna della lettiga reale , stalla di Nicomede ~, .. bordello di
Bitinia ".
Dagli editti di un console, Marco Calpurnio Bibulo, il biografo estrae un
insulto cocente col quale si intendeva colpire la sfrenata ambizione di Cesare
che già manifestava tendenze monarchiche.
Bibulo infatti, suo sfortunato collega nel consolato del 59, riprenderà la
vecchia accusa che lo dipingeva come regina di Bitinia, per poi soggiungere: ..
Questa regina, una volta aveva voluto un re, ora vuole un regno .
Nella foga diffamatoria Svetonio cita i versi satirici d'un paio di canzonette
che i legionari un po' brilli cantarono il giornO del trionfo del condottiero
sui galli seguendone il carro lungo la via Sacra.
Da sempre i soldati romani avevano la piena libertà di intonare, fra gli inni di
gioia, versi piCCanti e scurrili all'indirizzo dei loro comandanti.
Il giorno del trionfo dei generali era il giocoso saturnale dei legionari.
Uno dei canti burleschi suonava così: ..Cesare ha SOttOmeSSO le Gallie,/ ma
Nicomede ha messo sotto lui./ Oggi trionfa Cesare che le Gallie ha sottomesso,/
non trionfa Nicomede che ha messo sotto lui .
E un altro diceva: .<cittadini~ badate alle vostre mogli: è arrivato l'adultero
calvo./ Si è fottuto, in Gallia, l'oro; qui, ciò che vuole lo prende a prestito
".
Il piatto forte dell'antico biografo era costituito da alcune affermazioni di
Cicerone.
Questi, riferendosi sempre ai fatti di Bitinia, aveva un giorno scritto in una
delle sue lettere che Cesare, .. il discendente di Venere, introdotto nella
Camera del re, si era coricato con indosso una veste di porpOra nell'aureo letto
regale, e colà aveva perso il fiore della giovinezza .
In un'altra occasione, replicando in pieno SenatO a Cesare che, nel raccomandare
la causa di Nisa figlia di Nicomede, ricordava i benefici ricevuti da quel re,
esclamò bruscamente: ..Lascia stare questi argomenti, te ne pregO, poiché
nessuno ignora che cosa egli ha dato a te e Ciò che tu hai dato a lui .
Infine sempre Cicerone, parlando dell'amore di Cesare per Servilia, madre di
Bruto, e richiamandosi alle voci secondo cui il suo avversario aveva fatto
assegnare per un nulla alla nobildonna vasti possedimenti messi all'asta, disse
con malizia: ..
In realtà l'affare è stato anche migliore poiché dal prezzo dichiarato bisogna
dedurre la Terza parte .
E ciò perché era opinione comune che Servilia arrivasse a favorire gli amori di
Cesare con la propria figlia Terzia.
Come si vede l'oratore si dilettava con giochi di parole: parlava di tertia
pars, che significava il .-terzo~ di un tutto, per far sì che i suoi ascoltatori
intendessero Terzia.
Insomma Caio Giulio, conclude Svetonio, era incline alle libidini.
Vi sciupava immense somme di denaro e, non avendo grandi beni di famiglia, era
costretto a indebitarsi.
-Disonorò numerose matrone del patriziato insieme ad alcune regine d'Africa e
d'Oriente; cedette a molti uomini e altri attrasse a sé, con la sua natura di
bisessuato.
Tanta era la sua fama di sodomita e di adultero che un consolare suo accanito
avversario, Curione padre, poté dire di lui in un pubblico discorso: ~<Egli è
marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti, omnium mulierum uirum ct
omnium virorum mulierem.
L'accusa di sodomia rimbalzò via via nei secoli fin nelle terzine del
Purgatorio. Cesar, triunfando,/ regina contra sé chiamar s'intese, >, scrive
Dante con chiara allusione ai canti dei legionari che ironizzavano sugli in
naturali rapporti del loro generale.
Sempre fuggendo da Silla, il giovane irrequieto prese ancora una volta il largo
passando in Cilicia dove si mise agli ordini del proconsole Publio Servilio
Isaurico il quale combatteva i terribili pirati che infestavano i mari asiatici.
Breve fu il servizio militare in Cilicia poiché, sopraggiunta la notizia della
morte del dittatore, egli stimò opportuno tornare a Roma sebbene la scena
politica fosse dominata dal Senato conservatore e i tribuni del popolo
apparissero del tutto esautorati.
Caio Giulio aveva ventidue anni.
Erano saliti al consolato Marco Emilio Lepido, incoerente e ribaldo che aveva
più volte cambiato partito, e Quinto Lutazio Catulo, onesto e pigro.
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Essi militavano su sponde opposte.
Mentre il primo intendeva abbattere l'intera costruzione legislativa innalzata
da Silla e affermare il suo potere, il secondo, che aveva perso il padre in
seguito a un ordine di morte dato da Mario personalmente, rappresentava gli
ottimati e i sillani.
Lepido pose in atto una ribellione.
Allo scadere del consolato pretendeva con le armi in pugno che glielo
rinnovassero.
Aveva organizzato un esercito in Etruria e, sollevando il partito degli italici,
lo volse contro l'Urbe in una vera e propria marcia su Roma, mentre il Senato
tardivamente lo dichiarava nemico pubblico.
Ma venne sconfitto in Maremma dalle truppe di Pompeo e di Catulo, ambedue capi
della fazione di Silla.
Il ribelle, inseguito dalle truppe senatoriali, si rifugiò in Sardegna dove in
breve morì afflitto dall'irreparabile tracollo di tutte le sue speranze, e non
meno colpito dalla notizia d'un pubblico adulterio consumato dalla moglie
Apuleia, donna da lui molto amata.
Era la fine di ogni cosa.
Saggiamente Cesare aveva evitato di aggregarsi a Lepido che pure, al suo ritorno
a Roma, lo aveva accolto con onore dandogli la possibilità d'una rapida carriera
politica.
Tutti si aspettavano che il giovane si schierasse con questa opposizione, ma
egli temporeggiava.
Non si fidava di Lepido, e inoltre gli appariva chiaro che il colpo di Stato
antioligarchico era destinato all'insuccesso sia per le scarse capacità del
promotore sia per l'inadeguatezza delle forze sovvertitrici.
Eppure Lepido faceva grande affidamento su di lui, così ammirato dal partito
democratico.
Lepido pensava anche di offrirgli l'occasione di vendicarsi di Silla che aveva
vilmente oltraggiato la memoria di suo zio Mario facendone dissotterrare le
ceneri per disperderle nelle acque dell'Aniene.
Il fatto che il giovane non avesse seguito Lepido né approvato la folle
rivolta, non nascondeva un suo ripensamento politico.
Egli rimaneva un oppositore dell'oligarchia, ma un oppositore attento e
circospetto che non amava gettarsi allo sbaraglio.
In quei giorni, a sedizione repressa, preferì lottare contro i suoi avversari
con l'arma della parola.
In giudizio accusò di concussione un consolare sillano, Cneo Cornelio Dolabella,
che era strettamente legato agli esponenti più conservatori del Senato i quali
naturalmente, facendo blocco intorno a lui, ne ottennero l'assoluzione anche con
l'ausilio di due illustri avvocati, principi del Foro, Quinto Ortensio Ortalo e
Caio Aurelio Cotta.
Quest'ultimo che pure era imparentato con Cesare, essendo cugino della madre, e
che in altre occasioni gli aveva mostrato simpatia, non risparmiò nessuna delle
sue arti oratorie per salvare Dolabella.
E dire che il consolare sillano aveva davvero depredato la Macedonia
approfittando della sua carica di governatore d,ella provincia orientale.
Dolabella, sicuro di sé, ebbe l'ardire di riprendere nel corso del processo le
antiche ingiurie anticesariane, chiamando il suo accusatore cuscino della
lettiga di Nicomede .
L'anno successivo Caio Giulio tornò alla carica con una nuova azione
giudiziaria.
Davanti a Marco Lucullo, pretore di Macedonia, addebitò gravi colpe a un
comandante di cavalleria sillano, Caio Antonio Ibrida, zio del futuro triumviro
Marco Antonio.
Lo accusò di aver barbaramente saccheggiato le popolazioni greche durante il
rientro di Silla dall'Asia, e questa volta l'avrebbe avuta vinta se Caio
Antonio, vistosi alle strette, non si fosse improvvisamente appellato ai tribuni
della plebe sostenendo l'illegalità di un procedimento in cui egli, romano,
doveva difendersi in Grecia contro greci.
Cesare ottenne egualmente vasta fama da questi processi, tanto da essere subito
annoverato tra i maestri della parola.
Dimostrò qualità di oratore abilissimo, serrato ed elegante.
La sua eloquenza, priva di affettazioni, era definita splendida, magnifica e
piena di nobiltà.
I suoi gesti erano solenni e ampi, sebbene talvolta apparissero un po'
concitati.
Tacito scrive: .<Leggiamo sempre con ammirazione quelle orazioni .
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
IV
Indispettito dalle sconfitte giudiziarie, Caio Giulio, sentendosi ancora
insicuro nell'Urbe, si decise a lasciare una terza volta l'Italia e s'imbarcò
per Rodi con l'intenzione di riprendere gli studi interrotti.
Del resto nell'isola greca, bella e ospitale, si recava la migliore gioventù
romana desiderosa di frequentare le scuole di filosofi e retori celebrati.
Tre anni prima vi si era fermato Cicerone abbeverandosi all'insegnamento di due
eccelsi maestri del tempo, Posidonio e Apollonio figlio di Molone.
Nel viaggio un po' tortuoso verso Rodi, l'esule volontario incappò in una brutta
avventura che avrebbe potuto avere serie conseguenze senza una sua forte
presenza di spirito.
Il giovane percorreva con circospezione i mari d'Asia sapendoli infestati da
corsari ferocissimi, ma, nonostante la sua prudenza, giunto con una piccola nave
davanti all'isoletta di Farmacussa, a sud di Mileto, fu scorto da una dozzina di
vascelli pirati che incrociavano quelle acque.
Venne catturato tra urla di gioia dei corsari i quali, considerando il cospicuo
seguito di quel viaggiatore, intuirono di avere a che fare con un personaggio
importante e danaroso.
Issarono la preziosa preda sulle loro spalle mentre si davano a canti e balli
sfrenati.
Quei pirati erano di nazionalità cilicia e appartenevano quindi alla peggiore
risma di malfattori.
Avevano fama di essere le genti più sanguinarie del mondo.
Cesare tuttavia fu all'altezza della situazione e, quando i sequestratori gli
chiesero il pagamento di un riscatto di venti talenti come prezzo della sua
libertà, scoppiò in una rumorosa risata.
Poi disse: Voi non sapete chi avete fatto prigioniero.
Venti talenti sono pochi.
Io ve ne darò cinquanta~>.
I corsari rimasero a bocca aperta.
Ripresisi dallo stupore consentirono al prigioniero di inviare i suoi servi in
diverse città vicine in cerca del denaro.
Ciò poteva avvenire in forza di una legge romana che imponeva l'esborso del
riscatto alle popolazioni dei luoghi antistanti alla zona di mare dove si fosse
verificato il sequestro.
Tale norma aveva per base la supposizione che i pirati provenissero dai lidi
vicini e che quindi fosse giusto costringere i loro connazionali di terra ferma
a pagare il prezzo delle aggressioni corsare.
I servi impiegarono una quarantina di giorni per reperlre la somma necessaria a
restituire la libertà al loro padrone.
La prigionia sulla nave pirata trascorse in un clima imprevisto grazie alla
straordinaria sfrontatezza di Cesare che con la sua condotta teneva a bada i
carcerieri.
Ed essi, un po' smarriti, un po' sorpresi, non sapevano che cosa fare.
Attribuivano l'impudenza di Cesare all'incoscienza della giovane età e
accettavano da lui rimbrotti e perfino ordini.
Sembrava che Cesare, osserva Plutarco, fosse circondato da una guardia del corpo
e non da feroci sequestratori.
Egli li trattava con tale disdegno che, quando aveva voglia di dormire, imponeva
loro di far silenzio.
Spesso li chiamava a raccolta perché ascoltassero le poesie che andava scrivendo
per impiegare le lunghe e pigre giornate di prigionia.
Se i pirati non si mostravano entusiasti dei versi, li accusava di essere dei
barbari, dei poveri ignoranti meritevoli solo della forca.
Esplicitamente li minacciò più volte di appenderli a un palo, e i carcerieri si
divertivano alle sue sfuriate.
Gli consentirono di prender parte alle loro esercitazioni marinare e alle feste
in cui il vino scorreva a fiumi tra montagne di carne arrosto.
Cesare fingeva di stare al gioco.
Dalle città costiere pervenne alfine il denaro del riscatto ed egli lo versò
nelle mani dei corsari i quali, mantenendo gli impegni, si affrettarono a
lasciarlo libero.
Durante i giorni di cattività aveva avuto tutto il tempo di ideare un piano di
vendetta che ora poteva mettere in atto Ripresa la sua nave raggiunse la vicina
Mileto dove con discorsi appassionati convinse le autorità a fornirgli
rapidamente una flotta e truppe armate allo scopo di assalire e sorprendere i
pirati nei loro covi, per annientarli e ammonire quanti altri mai ardissero
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
attentare alla libertà dei cittadini romani.
In un solo giorno poté raccogliere uomini e vascelli, tanto che la notte
successiva, improvvisatosi duce e ammiraglio, fu addosso ai corsari che se ne
stavano allegramente e tranquillamente sulle loro imbarcazioni in una insenatura
di quelle coste a godersi il suo riscatto.
Molti ne uccise e numerosi altri ne imprigionò.
Li trascinò con tutte le loro navi e i grandi tesori, dei quali Cesare si
dichiarava legittimo proprietario considerandoli bottino di guerra, nella città
di Pergamo dove risiedeva Marco Giunio, il proconsole della provincia asiatica.
A lui infatti spettava il compito di condannare a morte i prigionieri, ma il
magistrato romano, che già pensava di ricavare dalla loro vendita all'asta come
schiavi consistenti somme di denaro, non lo ascoltava.
Cesare subodorò l inganno e tornò rapidamente nelle prigioni di Pergamo.
Battendo sul tempo il proconsole li tirò fuori dalle carceri e li fece tutti
impiccare, attuando così la minaccia che aveva spesso rivolto loro col sorriso
sulle labbra e nell'animo il desiderio di vendicarsi.
Compiuta questa impresa, Caio Giulio poté finalmente raggiungere l'isola di Rodi
e presentarsi all'illustre retore greco Apollonio di Molone.
Frequentò le sue lezioni traendo grande profitto dall'arte dell'eloquenza,
sebbene nei processi contro Cornelio Dolabella e Caio Antonio, avesse già
dimostrato di possedere, a detta dello stesso Cicerone, ccelse qualità di
oratore.
Del resto Apollonio non ammet:eva alle lezioni che giovani di raro talento
intellettuale e di ;traordinaria inclinazione per la retorica e l'eloquenza al
-me di godere del loro profitto.
Il maestro greco non aveva ~imestichezza con il latino, si richiedeva pertanto
che i ;uoi allievi romani fossero necessariamente bilingui.
Gli oratori in quei tempi erano assai stimati, e per i gio~ani l'oratoria era la
via migliore per acquistare il favore iel popolo.
Chi si presentava al magistrato nella veste di ccusatore col proposito di far
trionfare virtù e giustizia asiolveva a un compito di particolare rilevanza
sociale.
I ma3istrati della repubblica e ogni amministratore romano ~rano tenuti a freno
dal timore di un'accusa che in qualiasi momento avrebbe potuto sorprenderli
nell'esercizio ~elle loro funzioni.
In ragione di ciò un abile accusatore ~veva tutte le possibilità di assurgere
alla gloria di difensore della patria.
Breve fu la permanenza di Caio Giulio sull'isola, forse non più d'una ventina di
giorni.
Il giovane fu improvvisamente e nuovamente indotto a riprendere le armi dalla
notizia della invasione della provincia romana d'Asia da parte di Mitridate re
del Ponto i cui eserciti facevano strage di legionari.
Nicomede, morendo, aveva donato all'Urbe per testamento il suo regno di Bitinia,
e Mitridate reagiva con le armi all'annessione operata dai romani e da lui
ovviamente considerata un grave pericolo.
Di sua iniziativa, senza ricevere alcun incarico ufficiale, Cesare lasciò Rodi
e, raggiunta l'Asia, vi raccolse a sue spese e con straordinaria rapidità alcune
milizie volontarie anticipando l'arrivo delle più lente legioni romane.
L'azione ebbe successo, le truppe di Mitridate furono ricacciate indietro da
quei soldati raccogliticci e Roma approvò il gesto un po' avventato del giovane
ardimentoso, che ovviamente non mancò di lasciare il comando e di affidare il
suo piccolo esercito alle legioni che sopraggiungevano a operazioni concluse.
Cesare vagava in Asia senza una meta precisa, e aveva già ventisette anni.
Considerava i pirati tra i più pericolosi nemici della repubblica per essersi
impadroniti dei mari e volle perciò affrontarli nuovamente ponendosi questa
volta agli ordini di un magistrato romano, che però non meritava la sua fiducia,
il pretore Marco Antonio che doveva passare alla storia per le sue sconfitte,
con l'appellativo di Cretico, e per essere il padre del famoso triumviro.
Anche quest'ultima impresa, come le precedenti, non si protrasse a lungo poiché
Cesare, per intercessione dei suoi amici, fu richiamato nella capitale dove
inaspettatamente gli avevano conferito la sacra dignità pontificale in
sostituzione di suo zio Caio Aurelio Cotta recentemente scomparso.
Il giovane si mise subito in viaggio imbarcandosi su una navicella a quattro
remi con un seguito ridotto di due amici personali e dieci servi.
Attraversò l'Adriatico temendo di essere nuovamente aggredito dai corsari che
non gli avrebbero perdonato lo scherzetto delle impiccagioni.
Tanto era il timore del pur ardimentoso Caio Giulio che un giorno credette
confusamente di vedere alcune navi pirate all'orizzonte.
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Legò un pugnale alla coscia e afferrò una spada, pronto ad affrontare il nemico,
ma ben presto dovette constatare come quella visione fosse soltanto il frutto
della sua agitata immaginazione.
Gli alberi delle supposte navi non erano altro che quelli di un boschetto,
svettanti ai bordi d'una piccola isola in avvistamento.
Compiuta la traversata e sbarcato a Brindisi arrivò sano e salvo a Roma
percorrendo la via Appia.
Fu accolto con gioia dalla madre e dai sostenitori che lo presentarono al
collegio dei pontefici di cui era stato chiamato a far parte.
Accettò di buon grado la nuova nomina che gli conferiva prestigio e che, a
differenza della carica di flamen Dialis, non imponeva alcun sacrificio alla
carriera politica d'un giovane ambizioso come lui.
Quindici erano i pontefici.
Dipendevano dal pontefice massimo e a tutti loro spettava la promulgazione delle
leggi sacre, la giurisdizione sui sacerdoti, l'amministrazione dei riti pubblici
e privati.
Alla dignità di pontefice l'anno successivo Cesare aggiunse l'elezione a tribuno
militare, un avanzamento che si verificava con il consenso del popolo e che dava
la misura di quanto egli fosse amato.
In questo clima sconfisse con facilità il suo pericoloso concorrente, Caio
Popilio.
Con manifesto orgoglio infilò al dito l'anello d'oro e cinse alla vita la corta
spada detta parazonium, simboli esteriori d'una dignità tenuta in grande
considerazione tra i soldati.
Da tribunus militum aveva il comando di dieci centurioni e mille uomini.In
alternanza con altri ventitre tribuni militari, rientrava nei suoi compiti
addestrare i soldati, detenere le chiavi delle fortezze dove erano custodite
armi e munizioni, sorvegliare le sentinelle, soprintendere alla cura degli
infermi, intervenire nelle controversie dei militari.
La dignità di tribunus militum costituiva un passaggio obbligato per i giovani
nobili che ambivano alla vita pubblica.
Ottenuto questo incarico, il primo che egli ricevesse per suffragio popolare,
Cesare non prese però parte ad alcuna azione bellica, preferendo svolgere, nelle
sue vesti di ufficiale superiore, compiti sedentari in seno all'amministrazione
militare o azioni più propriamente politiche tendenti a rafforzare il partito
dei populares.
Difatti, scrive Svetonio, spalleggiò coloro che cercavano di restaurare il
potere dei tribuni della plebe scosso e indebolito dalla dittatura di Silla.
Si adoperò per la revoca dei provvedimenti d'esilio che erano stati conseguenza
della guerra civile.
Un giorno salì sui Rostri, e, sostenendo ardentemente una legge proposta dal
tribuno della plebe Plozio, ottenne il ritorno in patria d'un suo giovane
cognato, Lucio Cinna, insieme a tutti quei cittadini che avevano seguito Lepido
nella ribellione antioligarchica.
La Spagna romana era messa a rumore da un grande e valoroso generale di stirpe
sabina, Quinto Sertorio, seguace di Mario, che si era ribellato a Roma contro le
proscrizioni di Silla e che di fronte a quelle (< liste fatali era diventato
esule e fuggiasco.
Il giovane Cesare se ne stava nell'ombra mentre il governo senatorio, sconfitto
Lepido, volgeva tutta la sua attenzione alle gesta di Sertorio che in Spagna,
alla testa di un buon numero di emigrati democratici, aveva costituito un
controgoverno e teneva a bada con le sue truppe barbariche, inizialmente scarse
e malmesse, l'armata di Metello Pio inviato dal partito aristocratico dominante.
All'impotenza delle legioni romane il generale ribelle contrapponeva i più
efficaci metodi della guerriglia.
Disorientate, le truppe di Metello erano vittime di continui agguati e
trabocchetti.
Sertorio dominava su celtiberi e lusitani.
Volendo governare la Spagna con le leggi di Roma, di cui si sentiva il legittimo
rappresentante, aveva dato vita a un Senato composto da trecento personaggi
scelti tra le file dell'emigrazione.
Il suo esercito si era via via rafforzato e apparve addirittura invincibile con
l'apporto dei soldati di Lepido fuggiti dopo la sconfitta del loro capo e che un
altro generale ribelle, Marco Perperna, aveva condotto in Spagna.
Sertorio era pronto a passare le Alpi per marciare sull'Italia, e ~ià ~li
spa~noli lo chiamavano il secondo Annibale, a poco più di cento anni di
distanza dal primo, anche perché era cieco d'un occhio come il generale
cartaginese.
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In attuazione del suo piano si era accordato col re del Ponto Mitridate, sempre
ostile alla repubblica, che gli forniva quaranta navi e la considerevole somma
di tremila talenti per ottenere in cambio l'Asia in caso di vittoria.
Ma a Roma i patres si preparavano a inviare in Spagna l'uomo più ardimentoso del
momento, Cneo Pompeo, il giovane generale non ancora trentenne che già si era
ricoperto di gloria sconfiggendo in Sicilia e in Africa i seguaci di Mario.
Per queste imprese Silla gli aveva tributato un trionfo e lo aveva solennemente
appellato Magnus, mentre sceglieva per sé l'epiteto di Felix che stava a
significare Fortunato e dispensatore di fortuna.
Nonostante il minaccioso Pompeo, non poteva dirsi prossima la fine di Sertorio
la cui vita era stata una grande avventura.
Partito da Norcia nelle semplici vesti di eques, Sartorio rivelò fin da giovane
un grande valore militare e politico.
Combatté contro i cimbri e i teutoni; con Cinna partecipo all'occupazione di
Roma condannando tuttavia il terrorismo dei mariani.
Non eliminò mai nessuno per odio personale né commise alcuna violenza: questo
scrive di lui Plutarco ricordando gli anni terribili in cui Cinna e Mario si
abbandonavano a ogni soperchieria.
Fu pretore in Spagna dove si fece amare dalle popolazioni trattandole con
umanità, a differenza degli altri governatori che erano superbi, arroganti e
famelici.
Alleggerì il peso dei tributi, sollevò la gente dall'obbligo di alloggiare i
soldati nelle città, e costrinse infine le truppe a erigere i loro quartieri
invernali nei suburbi dei centri abitati.
Sertorio, che si aspettava di essere attaccato dai generali della restaurazione
sillana, cercava di ottenere l'appoggio degli iberici.
Approntò un esercito, ma non poté reggere al poderoso urto di Roma.
Costretto a fuggire dalla Spagna vagò a lungo senza una meta e sempre inseguito,
dovunque ponesse piede, dai soldati di Silla.
Fu sballottato in mare da furiose tempeste nel suo continuo andare ramingo.
Sbarcò in più porti della penisola iberica, anche sulle rive atlantiche, e alla
fine diresse le vele della sua piccola flotta verso l'Africa approdando sulle
coste della Mauritania.
Assalito dalla tribù del luogo, fu ricacciato in mare.
Durante la nuova peregrinazione unì le sue navi a quelle dei corsari cilici
compiendo con loro varie uscite piratesche.
Un giorno sentì parlare dell'esistenza di certe Isole Fortunate ,> che si
trovavano, a sentire i racconti dei marinai, oltre le Colonne d'Ercole, non
troppo distanti da Cadice.
Voleva raggiungerle preso da rapido entusiasmo per un luogo magico, dove il
clima era dolce, carezzevoli le brezze, rare le piogge, fertile il terreno, e
dove tra il fico e l'ulivo, tra il latte e il miele avrebbe potuto finalmente
vivere lontano dal frastuono delle guerre e dalle sopraffazioni dei tiranni.
Ma i pirati che non credevano alle favole, non vollero seguirlo.
L'esule, cui all'ultimo minuto mancò l'animo di gettarsi da solo in una impresa
un po' folle, non poté fare altro che riprendere con loro la strada dell'Africa
per tentare un secondo sbarco in Mauritania.
Sotto le mura di Tingi (Tangeri) si scontrò con l'esercito del generale Pacciano
che Silla aveva colà inviato in aiuto di Ascali, pretendente al trono dei
maurusi.
La sua vittoria fu completa e, a conclusione della battaglia, egli uccise lo
stesso Pacciano che aveva avuto l'ardire di affrontarlo con la spada in pugno.
Padrone ormai di Tangeri e dell'intera regione si comportò da principe liberale.
Ma fu anche indiscreto al punto da far scoperchiare un immenso sepolcro, lungo
sessanta cubiti, in cui, secondo una leggenda libica, doveva trovarsi lo
scheletro gigantesco del mitologico Anteo strangolato da Ercole.
Tangeri non era che una tappa del suo affannoso girovagare, sebbene avesse per
un attimo pensato di ritirarsi nella solitudine delle < Isole Fortunate .
Già progettava un altro viaggio quando dalla Spagna gli pervenne l'invito dei
lusitani i quali, entusiasti del suo travolgente successo sul generale sillano,
lo invitavano ad assumere il comando supremo delle loro forze armate con poteri
assoluti.
Tornare in Spagna, dopo esserne stato scacciato un anno prima dall'esercito del
Senato romano, lo riempiva di soddisfazione.
Corse tra i lusitani ed estese il suo potere ad altre regioni le cui tribù lo
accoglievano spontaneamente.
Diede vita a uno Stato romano-iberico che aveva per capitale la bella città di
Osca (Huesca), organizzò un forte esercito, istituì a sue spese una scuola
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militare, aprì un collegio dove si insegnava ai giovani il latino e il greco,
amministrò la giustizia sforzandosi di interpretare le usanze del luogo.
Sfruttò anche le superstizioni per accrescere la sua influenza, come avvenne con
il culto del cervo, un animale che i lusitani onoravano sommamente ritenendolo
incarnazione della loro grande dea cacciatrice.
Il caso volle che un contadino gli regalasse una giovane cerva bianca che gli si
affezionò docilmente.
La cerbiatta lo seguiva ovunque, ed egli colse l'occasione per far credere che,
attraverso la bianca bestiola, si teneva in contatto con le divinità.
La cerva gli prediceva il corso degli eventi, gli svelava molti segreti e gli
dava saggi consigli.
Ma non era che un trucco.
Grande era la potenza di Sertorio il quale ormai dominava su buona parte della
Spagna contrapponendosi a Roma.
Non appariva strano chiedersi chi fossero a metà degli anni 70 i padroni del
mondo, gli spagnoli o i romani, e quali dei due popoli dovesse obbedienza
all'altro.
Sertorio già si accingeva ad attaccare l'Italia quando Pompeo ottenne dal Senato
l'ordine di annientarlo.
Il Magno, pur essendo un semplice cavaliere, partì insignito di un'autorità
proconsolare.
La cosa era illegale, ma i senatori non avevano altra scelta nell'indicare lui,
in quanto i consoli in carica non vollero lasciare Roma per affrontare il
temibile Sertorio.
L'orgoglioso Pompeo, che aveva appena sconfitto gli antioligarchi in Etruria,
non si abbassò a rientrare nell'Urbe dove avrebbe dovuto rendere omaggio al
Senato.
Preferì subito arruolare nuovi legionari e prendere prima dell'inverno la via
delle Alpi, seguendo però, tra il Po e il Rodano, un percorso diverso da quello
prescelto a suo tempo da Annibale e indubbiamente sottoposto al controllo delle
truppe nemiche.
Sertorio oppose una resistenza accanita infliggendo varie sconfitte al grande
Pompeo, le più umilianti delle quali ebbero per teatro la città di Lauro (Puig)
nei pressi di Sagunto e il fiume Sucro Uucar) dove Pompeo ricevette un colpo di
spada a una gamba.
Ebbe salva la vita soltanto perché gli iberici si attardarono a depredare la
sella del suo cavallo tempestata di gemme.
La guerra fra i due generali romani si protrasse per più di tre anni sempre
sospesa tra sorti alterne.
Poi volse a favore del giovane proconsole, mentre le truppe sertoriane, che
cominciavano a disertare, venivano festosamente accolte nelle file pompeiane e
in quelle di Metello che pensava di potersi rifare dell'umiliazione subita in
precedenza.
Fu questa volta proprio Metello, più dello stesso Pompeo, a mettere alle strette
il generale ribelle il quale però cadde per mano di Marco Perperna che lo tradì
e lo fece uccidere a pugnalate durante un banchetto al segnale convenuto, cioè
al rumore d'una tazza che andava in frantumi sul pavimento.
Senza questo vile gesto istigato da Pompeo, ben più ardua sarebbe stata la
conclusione d'una guerra che si prolungava da otto anni.
E tale consapevolezza avviliva profondamente il popolo romano.
Caio Giulio, il cui nome non si ascrisse nella lunga avventura sertoriana,
rimase estraneo anche alla feroce guerra servile capeggiata da un abile e
atletico gladiatore trace, Spartaco, il quale dal 73 al 71, movendo dal ludus di
Capua, infiammò l'Italia con un esercito di disperati che si spinse a minacciare
le porte dell'Urbe.
Che cosa faceva Cesare in quegli anni? Il tribunato militare lo tenne occupato
soltanto per tutto il 73, poiché la carica aveva durata annuale.
La stessa dignità di pontefice non lo impegnava troppo, eppure egli preferì
trascorrere gran parte di quel movimentato periodo nella vicina cittadina di
Nemi, allietata da un piccolo lago sulle cui sponde si faceva costruire una
lussuosa casa di campagna, un edificio che ben presto volle abbattere essendogli
venuto a noia.
Svetonio, lungi dal rilevare l'assenza del giovane ventinovenne dai grandi
avvenimenti, preferisce ironizzare sul particolare che Cesare, sebbene ancora
non ricco e per di più carico di debiti, si desse alle spese pazze facendo e
disfacendo una villa.
In realtà Cesare non trovava modo di esprimersi.
I capi degli eserciti erano in quegli anni di fede sillana e ai loro ordini egli
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non intendeva più militare.
Né poteva seguire Sertorio in Spagna.
Pur considerandolo vicino a sé ideologiCamente~ giudicava senza dubbio le sue
gesta un'avventura priva di sbocchi.
Come non prenderne le distanze? Intuitive erano le ragioni che lo inducevano a
far da spettatore anche durante la contemporanea guerra di Spartaco.
All'inizio tutti sottovalutarono la ribellione degli schiaVi e pOi, mentre il
pericolo si faceva più sensibile, Cesare probabilmente pensava che la difesa
della repubblica spettasse al partito oligarchico su cui gravava la
responsabilità di governo.
La guerra degli schiavi esplose a Capua per iniziativa d'una settantina di
gladiatori che, nella più famosa scuola gladiatoria del tempo, si esercitavano
con le armi agli spettacoli popolari.
Stanchi di mettere a repentaglio la vita fra tante angherie e sofferenze, essi
decisero di sollevarsi in nome della libertà, giocando il tutto per tutto e
facendo leva sulla loro grande abilità di combattenti.
Del resto non avevano niente da perdere se non le loro catene.
Già si erano avute in Italia e nelle province altre sollevazioni di schiavi, più
gravi fra tutte quella esplosa in Sicilia alcuni decenni prima.
Mommsen scrive che il cancro del proletariato degli schiavi rodeva le midolla
di tutti gli Stati dell'antichità"; bastava una scintilla, prosegue, per far
divampare una materia così infiammabile, per mutare il proletariato in un
esercito insurrezionale.
La scintilla nel 73 ebbe nome Spartaco.
Egli fu l'animatore d'una rivolta che ancora oggi viene esaltata dai movimenti
rivoluzionari e che ha ispirato a Marx alcune sue pagine sulle origini del
comunismo.
Spartaco, che il filosofo di Treviri definisce come la genuina espressione del
proletariato antico , appare come il campione della libertà e dell'eguaglianza
nell'egoistico mondo dei latifondisti e dei capitalisti romani.
Proveniva da una nobile famiglia della Tracia.
Era stato arruolato fra gli ausiliari dell'esercito romano, ma poi, avendo
disertato, si era dato al brigantaggio sui monti.
Catturato era stato fatto schiavo e quindi inviato in Campania alla scuola dei
gladiatori tra i quali emerse, non solo per le doti fisiche, ma anche per
intelligenza e nobiltà d'animo.
Egli si pose alla testa della rivolta.
Intorno al nucleo iniziale dei gladiatori che senza armi erano evasi dalla
scuola di Capua, si riunirono ben presto più di duecento schiavi.
Tutti insieme, dopo aver rubato da una taverna della città spiedi e lunghi
coltelli da cucina e dopo aver assalito un piccolo presidio militare
asportandone le spade, ascesero le pendici del Vesuvio.
Vi si rifugiarono come belve rabbiose apprestandosi a rintuzzare un attacco
dei soldati romani ormai sulle loro tracce.
La loro impresa aveva già fatto rumore, tanto che Spartaco fu raggiunto da altri
schiavi fuggiaschi, da gente diseredata di ogni risma, da altri suoi
connazionali traci oltre che da germani e da galli come Crisso ed Enomao che
divennero i suoi luogotenenti.
Roma inviò ai piedi del vulcano il propretore Claudio Glabro forte di tremila
uomini con l'ordine di accerchiarli.
Il generale fu però giocato dai rivoltosi i quali, non visti, riuscirono
atleticamente a evitare l'assedio precipitando a rotta di collo per vie
sconosciute lungo le pendici del monte.
La sortita ebbe fortuna, e l'iniziativa tornò a Spartaco che con la sua banda
assalì di sorpresa i soldati romani cogliendoli alle spalle e battendoli in
poche ore.
I ribelli non credevano ai loro occhi per l'insperato successo ottenuto su
truppe disciplinate e giudicate invincibili.
La vittoria entusiasmò contadini, mandriani e pastori.
Essi Sl aggregarono ai rivoltosi e da quel momento le schiere di Spartaco non
erano più costituite soltanto da poveri schiavi, ma anche da liberi italici
stanchi di essere sfruttati dalle classi possidenti che dominavano la
repubblica.
Schiavi e liberi cittadini romani erano finalmente uniti.
I ribelli s'inorgoglirono e, mentre le loro orde continuavano a infittirsi fino
a costituire incredibilmente una forza di settantamila uomini, furono tentati di
marciare su Roma.
Avevano ancora sconfitto via via un pretore, Publio Varinio, e i due consoli in
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carica, Gellio Publicola e Lentulo Clodiano.
DisDonevano ormai d'una cavalleria avendo rapidamente domato alcuni branchi di
cavalli con i quali si erano imbattuti nel loro cammino.
Si fornirono di scudi intrecciando vimini e ricoprendoli con pelli di pecora.
Fusero il ferro delle loro catene per ricavarvi spade e dardi.
Spartaco avrebbe voluto risalire la penisola, valicare le Alpi e riacquistare la
libertà tornando nelle sue terre.
Ma gli era impossibile tenere a freno quell'orda famelica che seminava ovunque
lutti, razziava bestiame e raccolti, saccheggiava città e villaggi in Campania,
in Lucania, nell'Apulia, nel Sannio. I seguaci di Crisso si opponevano con
violenza ai piani di sganciamento e Spartaco decise di separarsi da loro.
Mentre Crisso, con i suoi celto-germani, riprendeva le scorrerie in Apulia, il
trace puntò risolutamente verso il nord con trentamila uomini.
Crisso fu sconfitto e ucciso in uno scontro nel Gargano.
Spartaco, dimentico della secessione, ne vendicò la memoria in maniera
spettacolare.
Impose a quattrocento soldati romani, suoi prigionieri, di sfidarsi in una
immane tenzone sacrificale in cui molti trovarono la morte.
Il trace, che nel suo cammino a ritroso era già entrato nella pianura padana, fu
affrontato nei pressi di Modena dal proconsole della Cisalpina, Caio Cassio
Longino, forte di un esercito di diecimila uomini.
Longino ebbe la peggio e l'orda dei rivoltosi, rincuorata dalla nuova vittoria,
impose a Spartaco di rinunciare all'idea di uscire dall'Italia perché si facesse
marcia indietro e si puntasse su Roma.
Il trace tornò sì sui suoi passi, ma, scendendo lungo il litorale adriatico,
preferì prudentemente non affrontare la capitale.
Nel Piceno sconfisse ancora una volta i romani aprendosi la via verso la Lucania
dove disponeva di sicure roccaforti.
Roma si sentiva minacciata né pvteva tollerare oltre quella orribile scorreria
di schiavi che avevano umiliato propretori e pretori, consoli e proconsoli
infliggendo loro terrificanti disfatte.
Il Senato tolse alfine il comando delle operazioni ai consoli Gellio e Lentulo
per affidarlo con poteri eccezionali a Marco Licinio Crasso che era un ambizioso
pretore di idee sillane e al tempo stesso un avido capitalista.
Crasso veniva colpito personalmente nei suoi immensi possedimenti dalle
incursioni dei rivoltosi e, come lui, subivano gli stessi danni tutti i ricchi
proprietari terrieri.
Questo era un motivo di più per affrontare Spartaco con estrema decisione.
Ma il trace continuò a vincere.
Crasso aveva armato a sue spese dieci legioni.
Nel Piceno uno dei suoi luogotenenti, Mummio, alla testa di due legioni
d'avanguardia, fu sbaragliato e i soldati superstiti si misero in salvo con la
fuga.
Il pretore reagì ordinando una folle e feroce decimazione.
Raccolse in un campo i cinquecento legionari che erano fuggiti per primi.
Li suddivise in cinquanta gruppi di dieci unità e mise a morte un soldato per
ciascuna decina, estraendolo a sorte.
Questo spietato sistema di punizione militare era caduto in disuso da tempo, e
il pretore volle esumarlo per dimostrare quanto fosse deciso a vincere la guerra
contro i rivoltosi.
Impartita questa dura lezione ai fuggitivi, Crasso assunse direttamente il
comando delle operazioni.
Spartaco, indebolito, arretrò fino a Reggio Calabria da dove, con l'aiuto
prezzolato di alcuni pirati cilici, pensava di attraversare lo stretto di
Messina per sbarcare in Sicilia e infiammarvi le masse degli schiavi isolani.
Ma i pirati, che pur avevano intascato il compenso pattuito, mancarono
all'appuntamento.
Erano scomparsi, scrive Plutarco, sulle ali del vento .
All'antico gladiatore non rimaneva che ripararsi nelle foreste dell'Aspromonte.
Già vi si sentiva al sicuro quando, con sua somma sorpresa, le sentinelle gli
portarono la notizia che i soldati ~i Crasso stavano scavando un colossale
fossato lungo l'intero istmo, alla strozzatura della punta dello stivale, da
mare a mare.
Quel fossato, rinforzato da un muro, imprigionava e isolava le orde dei
rivoltosi che, rinchiuse in una sacca tra il mare e la trincea, non avevano
possibilità di rifornirsi.
Non c'era altro da fare che sfondare il blocco.
L'inverno era rigido, alta la neve.
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Spartaco, in una notte di tempesta, osò il tutto per tutto e riuscì a portare
buona parte del suo esercito al di là dell'immane fossato dopo averlo ricoperto
per un tratto con terra e rami d'albero.
Grande fu il dispetto di Crasso.
Egli dovette riprendere a inseguire le orde nemiche temendo perfino che
tentassero nuovamente di marciare su Roma.
L'Urbe era sempre in agitazione.
Il Senato, sconvolto da una guerra di cui non si scorgeva la fine, accolse con
favore un'originaria richiesta di Crasso volta e far intervenire nel conflitto
le truppe di Lucullo dalla Macedonia e quelle di Pompeo dalla Spagna.
Spartaco, che si dirigeva su Brindisi, apprese che Lucullo stava effettivamente
per sbarcare nel porto di quella città dopo aver sconfitto Mitridate.
Fece allora una diversione prima verso la Campania e poi verso la Lucania, in
una continua e disperata scorribanda punteggiata di nuove razzie. Spartaco
vagante, lo chiama Orazio.
In Lucania, sul Bradano, entrò in contatto con le legioni di Crasso.
Intuì che quella era la battaglia decisiva.
Con gesto solenne ma non meno disperato, o per compiere un rito sacrificale? -
si avvicinò al suo cavallo e lo abbatté con un colpo di spada, mentre esclamava:
Se vincerò ne avrò di più belli e forti prendendoli ai nemici, se perderò non
avrò più bisogno di cavalli .
E si gettò alla ricerca di Crasso.
Nel pieno del combattimento fu ferito al pube.
Cadde in ginocchio e, appoggiandosi allo scudo, continuò a mulinare la spada
fino all'ultimo respiro.
Si spegnevano con lui i fermenti di rivoluzione sociale che tuttavia i ribelli
non erano riusciti a suscitare compiutamente in tre anni di stragi e di rovine.
Le spoglie del gladiatore, confuse in una moltitudine di sessantamila cadaveri
di rivoltosi, non furono mai ritrovate.
Crasso aveva vinto e già si amareggiava per essersi lasciato andare a chiedere
il rinforzo di Pompeo che egli non amava.
I soldati ricordavano un episodio che rendeva bene l'idea di quanto egli fosse
invidioso del giovane e fortunato Pompeo.
Un giorno a Roma, un tale in sua presenza aveva esclamato: <.
Ecco, arriva Pompeo il Grande ", e Crasso, di rimando, aveva chiesto un po'
indispettito: (<Grande quanto? .
Ora Pompeo era in arrivo.
Veniva a dargli man forte quando era tutto finito.
Il Grande si scontrò in Etruria con una retroguardia di cinquemila spartachiani
e ne fece strage.
Da maestro della propaganda inviò un messaggio al Senato per solennizzare
l'impresa con una frase a effetto: ..Crasso ha vinto il male battendo gli
schiavi in campo aperto, io ho estirpato la radice della guerra .
Gli diedero ragione accordandogli il trionfo, a un tempo per la vittoria sui
servi ribelli e per quella su Sertorio.
Crasso non ricevette che un'ovazione, ma, grazie alle sue aderenze, poté
egualmente fregiarsi d'una corona d'alloro e non di semplice mirto com'era in
uso per l'ovatio.
Per mostrarsi più grande di Pompeo tentò un recupero di ferocia teatrale facendo
erigere seimila croci lungo la via Appia da Capua a Roma sulle quali furono
affissi altrettanti rivoltosi.
VII
riuniti.
Catilina poteva contare sia sull'appoggio di Cesare, sia su quello di Crasso il
quale spingeva altresì la candidatura di Caio Antonio Ibrida a secondo console,
essendo questi rientrato nel Senato dopo l'espulsione.
Catilina e Antonio erano dunque i candidati dei popolari.
Tanto era forte la personalità di Catilina quanto era insignificante quella di
Antonio.
A Roma dicevano che mentre il primo non aveva paura né del cielo né della terra,
il secondo tremava perfino davanti alla propria ombra.
Cicerone, sostenuto dai nobili, pronunciò in Senato un abile discorso, in ~oga
candida come si conveniva ai concorrenti.
Chiamò Catilina bieco miserabile e gli ricordò tutti i suoi crimini.
Con lo stesso vigore richiamò alla memoria dei padri coscritti le ruberie di
Caio Antonio.
Vinse clamorosamente le elezioni con un subisso di voti, mentre Antonio,
battendo di poco Catilina, diventava suo collega al governo. Mi avete affidato
la repubblica, disse Cicerone rivolgendosi al popolo e ai senatori, una
repubblica turbata da leggi pericolose e da gesti sediziosi.
I buoni cittadini sono pieni di timore, e i cattivi pieni di speranza.
Dal Foro è fuggita la fiducia, dalla repubblica la dignità.
Ma ora risplende in tante tenebre la mia voce.
non guaSta~rl si sia proposto un aZdl llO StatO romanon Cesare chiedeva l'esilio
perpetuo, e così concluse il suo uOm Siml iare la costituzione e a parlare
Cesarediscorso: Voi, patres conscTip~i, potreste pensare che io voquella di rVed
I senato s'alzò dunqdue e la pena di mort~lia rimandar liberi costoro a
ingrossare le file dell'esercito ~ell a.ul,ui alcuni oratri~ nel ch on aCCenti
aCcorati ~di Catilina? No davvero.
Penso che sia giusto confiscare i Prima dl . avevanO elenCat C . .nti.
Vergini e adqoro averi, tenerli prigionieri lontani da Roma nei munici per i
Cngilulra uerra e le SVenture dellbVidine dei vincitor~i più sicuri, e che
nessuno possa per l'avvenire proporre crudelta de .at gmadri Costrette alla i
incendi, cadaverl.l Senato o trattare con l'Assemblea popolare la loro
libelescenfi rapl l; Saccheggiati~ maSSacr ~ si a queste immagazione.
Chi contravverrà a questa risoluzione, sarà dicase ue e lutt Ovunque ~el
riChffettiVamente i congiur~iarato dal Senato nemico dello Stato e del bene pub
sa g Cesare diSSe che al temP stessO i giud~iCo.
ni dl mrte' na pena severa~ mal llera ProV orr E difficile dire se l'orazione di
Cesare fosse ispirata merltaVa O farSi guidare dal a OnvintO che
qualSi~clusivamente dal desiderio di non violare le leggi e non
non dVevantà del Crimine e SnlCtti Commessi da quqlche dalla volontà di salvare
la vita ai congiurati.
Molti
sCellerati- ~.S are crudele~ piChevn l o invece dire ch~gne d'un pontefice
massimo.
Mommsen invece ritiene in sé non ml 1 PcPon perSone Simili- Lg morte non è Che~e
Cesare abbia fatto di tutto per salvare i rivoltosi e giustanza crude I mi
appare inefficace Il sventura~ lungi l~a il suo discorso pieno di velate minacce
nel senso che pena di mrte E,ssa nel dolore e ne ia li affanni.
La m~ giorno i popolari si sarebbero inevitabilmente vendicati sonn ete mentO, è
la fine di c~è luog né p~3quel delitto.
I~essere un tor osa Oltre la tOmbalnonofferenze~ non i~l discorso raggiunse
l'effetto di disorientare l'assemdisSlve O~gn r la gioia.
Quanfi~ nel e? :R.
A cominciare dal proponente Giunio Silano, il quale dolore ne Pete COme una
liberaZilne d,un Coraggios~e tutto era il secondo marito di Servilia e sapeva
delcan la. md. orso d'un ate occu t ualunque cosa p~trigo che la legava a Caio
Giulio, molti senatori modifi~ra ll Isc Sfidare chiunque e q~ . unta di di~no il
loro iniziale punto di vista per rimettersi sul terfenSore pronto a luto? poi
parl In P mminat~ della legalità e intanto accettare un rinvio della sedu98
C~sa~ ll scgno di V ~ .
La toga sconvcni ~ 99
ta come aveva suggerito Tiberio Claudio Nerone (che sarà padre dell'imperatore).
Perfino Quinto Cicerone, fratello del console, sostenne l'esigenza di non
ricorrere a misure eccezionali.
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Marco Tullio si allarmò, temette che Cesare potesse averla vinta e riprese la
parola per insistere nella richiesta di condanna a morte. ~ Sta a voi decidere,
>, disse, con lo stesso scrupolo e la stessa forza di quando avete iniziato
questa discussione.
E in gioco la vostra sicurezza e quella del popolo romano, delle vostre mogli e
dei figli, delle are e dei focolari, dei santuari e dei templi, delle case e
degli edifici di tutta la città, del governo e della libertà, è in gioco la
salvezza d'Italia e di tutta la repubblica.-
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Scoperta a Roma la congiura, giustiziato Lentulo e I suoi adepti, si diffuse il
panico fra i seguaci di Catilina in Etruria.
Molti si dileguarono avendo perduto la speranza di ottenere un premio dalla
rivolta.
Catilina si dispose disperatamente a marciare verso la Gallia narbonese per
costituire nella città libera di Marsiglia una base d'azione, ma fu raggiunto
dagli eserciti di Metello Celere e di Caio Antonio Ibrida il quale, sebbene
riluttante, aveva pur dovuto muoversi.
Ma al momento dello scontro, Antonio lasciò il comando al luogotenente Marco
Petreio, e per giustificarsi disse falsamente che la gotta lo costringeva a
letto.
Prima di far suonare le trombe di guerra, Catilina volle parlare ai suoi soldati
che vedeva timorosi e sfiduciati.
Disse di sapere che le parole non facevano d'un codardo un eroe.
Li riuniva solo per dar loro qualche consiglio e spiegare le ragioni della sua
decisione di accettare battaglia.
Avrebbero potuto trascorrere la vita in esilio con somma vergogna o vivere a
Roma di carità, ma ciò appariva intollerabile a veri uomini.
Nella situazione in cui si trovavano non potevano mancare di coraggio.
Non si passava infatti dalla guerra alla pace se non da vincitori, perché
sperare di salvarsi con la fuga era pura follia.
Solo l'audacia è come un muro incrollabile. ..Noi, milites, abbiamo un vantaggio
sui nostri nemici.
Essi non hanno alcun interesse a battersi per il potere di pochi, per la gloria
degli oligarchi; noi invece ci battiamo per la patria, la libertà, la vita. Nos
pro patria) pro libertate, pro vita certamus.
Si combatté con ferocia nelle valli presso Pistorium (Pistoia) fino a quando il
capo dei rivoltosi colpito da una freccia cadde a terra, accanto all'aquila
d'argento che si diceva fosse la stessa voluta da Mario nella guerra contro i
cimbri.
Con la scelta di quel vessillo Catilina intendeva collegare la sua impresa alle
gesta d'ispirazione popolare dell'eroico ~enerale arpinate.
Ma fu tutto inutile perché l'oligarchia sconfisse il ribelle.
Catilina fu trovato che respirava appena, mentre sul volto conservava l'indomita
fierezza che aveva avuto da vivo, come Sallustio volentieri gli riconosce.
La testa dell'insorto staccata dal corpo fu inviata da Antonio al Senato.
XII
Il grande assente era Pompeo, ma tutti agivano con l'idea, incubo o speranza,
del suo ritorno a Roma, un ritorno ormai imminente poiché Mitridate, il più
pericoloso nemicO esterno della repubblica, era morto e seppellito.
Cesare mostrava di volersi schierare con Pompeo e indurlo a prendere posizione
contro l'oligarchia.
Nella capitale, superato il primo momento di euforia per l'esecuzione dei
congiurati, riprese vigore l'opposizione al Cicer, anche nelle maniere più
plateali.
Un episodio suscitò particolare scalpore.
Il console, allo scadere della sua carica, era salito sui Rostri col proposito
di lodare anCora una volta il suo anno di governo.
Non aveva nemmenO aperto bocca quando il neotribuno della plebe Metello Nepote,
un filopompeiano che agiva naturalmente per conto del Magno, gli gridò: (< Chi
non ha permesso agli aCcusati catilinari di difendersi non può difendere se
stesso".
Gli ingiunse di pronunciare il semplice giuramento, richiesto ai magistrati in
procinto di lasciare la loro carica e che consisteva nel dire di non aver nulla
operato ai danni dello Stato.
Ma Cicerone, sorprendendo tutti, inventò lì per lì una nuova formula e giurò che
la repubblica era stata salvata unicamente dalla sua opera di statista.
Qualcuno poi scrisse che egli aveva salvato la repubblica soltanto per
Vantarsene.
Del resto egli aveva esclamato: Oh fortunata e rinata Roma sotto il mio
consolato ,>, o fortunatam natam me consule Romam.
Già prima che il capo dei rivoltosi cadesse nella battaglia di Pistoia, i
cesariani volevano che Pompeo e il suo esercito tornassero in patria armati per
difendere la repubblica dai catilinari, come dicevano, ma in realtà, come
pensavano, per mettere in crisi Cicerone e l'oligarchia senatoriale.
Secondo una proposta di Metello Nepote, il grande generale doveva essere
richiamato con un plebiscito alla testa del suo esercito, e a questo fine il
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neotribuno sommuoveva le assemblee popolari.
Cesare era d'accordo, ma ancora una volta si levò contro di lui Catone il quale
con vigore esclamò in Senato: Fino a quando avrò un alito di vita, Pompeo non
entrerà nella nostra città con le armi in pugno, .
Convocata l'Assemblea popolare perché si votasse sulla proposta di Metello,
esplosero tumulti e disordini.
Metello, nel tentativo di garantirsi il controllo della situazione e
predisponendosi a carpire voti con ogni mezzo, aveva schierato nel Foro una
banda di uomini armati composta da forestieri, gladiatori e schiavi, tutti
prezzolati.
Il popolo ondeggiava nel Foro.
Ces~re e Metello erano vicini, seduti sui più alti gradini del tempio dei
Dioscuri.
Sopraggiunse Catone che, con fare arrogante, prese posto tra i due col fine
evidente di disturbare la loro assonante conversazione.
Intanto esclamava, protendendosi verso la fila sottostante:
Che uomo audace e vile, questo Metello: árruola una massa di persone contro una
sola, inerme e indifesa...
Un liberto fece per leggere la richiesta ~i plebiscito, ma Catone glielo impedì.
Metello prese lui il papiro per proseguirne la lettura, e ancora una volta
intervenne Catone strappandoglielo di mano.
Il tribuno, che ne conosceva a memoria il testo, continuò a recitarlo come se
niente fosse successo, fino a quando un seguace di Catone non lo fece tacere
mettendogli una mano sulla bocca.
Si scatenò una zuffa tremenda tra le fazioni contrapposte~ mentre Catone veniva
colpito da una gragnuola di pieI 06 Ccsa~
tre ~bbe però la peggio ~letello che fuiCostrett I ampo dl ll'i laSciò Roma per
ragg deva in pa pompe e metterl al Crrente ddaqva che si Sottraeva alla l ~;
Catone e alla cospirazionc~C c ~v~- ~b~
gar caro l'offesa inferta alla Phe abbandOnava l'Urbe per il prim caso di un
tribunl . armi 11 Senato reagìdpri rifugiar~Pt llo del tribunatO. sOspese anChe
aveva mOSsO i tratura. pOiche da pre.
Itra giasse la saCrSanta un dito per impedire che sl.n stgitO Catone.
Cesare non gnita di trilbunigiOrn~ tener cont dellia prie glustizia~ ma
Plutarco scrive che il console Caio Cesare si diede ad adulare i più poveri e a
sollecitare la distribuzione di terre.
Bastava ciò per riconoscere in lui un pericoloso rivoluzionario e per
scatenargli contro l'irruenza di Catone.
Il neoconsole formulava una nuova riforma agraria, ed era deciso a tutto pur di
evitarle la fine ingloriosa della legge proposta da Rullo quattro anni prima.
Molti ed immensi possedimenti erano nelle mani di pochi e, mentre crescevano le
ricchezze di questi, diminuivano le già scarse sostanze d'una plebe vastissima e
affamata.
Ben trecentoventimila miserabili cittadini romani non vivevano che d'un pugno di
grano gratuitamente distribuito dalla repubblica.
La riforma proposta da Cesare era ispirata alle riforme dei Gracchi tanto che lo
accusarono di comportarsi più da tribuno della plebe che da console.
I patricii e gli equites, danneggiati dalla legge, si agitavano come ossessi e
gli rovesciavano addosso tutto il loro odio.
Roma tornava ai tempi impetuosi dei Gracchi, quando, sei-sette decenni addietro,
i due tribuni avevano cercato di scardinare il sistema del latifondo.
Lo stesso destino che aveva travolto Tiberio e Caio Gracco poteva da un giorno
all'altro abbattersi anche su Cesare perché immensi erano gli interessi che la
riforma colpiva.
Egli aveva la sensazione di muoversi fra cospiratori pronti ad attentare in ogni
momento alla sua vita.
C'era una logica nella sua azione politica.
Ideologicamente discendeva da Mario il quale aveva tratto ispirazione proprio
dai Gracchi.
Chi ha scritto che l'ultimo dei Gracchi, raggiunto dal colpo mortale, gettò
contro il cielo un pugno di polvere e che da quella polvere nacque Mario? Caio
Gracco trovò la morte in un tumulto.
La sua testa divelta dal tronco fu svuotata e riempita di piombo fuso da un
persecutore perché gli ottimati avevano promesso di pagarla a peso d'oro.
Cesare, con la nuova riforma, si richiamava ai Gracchi, pronto a sfidare ogni
pericolo.
Come loro aveva sofferto allo spettacolo desolante delle deserte terre d'Etruria
dove lavoravano pochi diseredati.
Era necessaria una legge che cedesse ai cittadini romani le terre usurpate dai
ricchi e dai possidenti, che sanasse ingiustizie e speculazioni.
Leggeva le frementi orazioni dei due tribuni.
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Esaltanti erano alcune parole di Tiberio Gracco rivolte alla plebe e ai soldati
che non ricevevano il dovuto: Perfino le fiere hanno una tana e un ovile per
ripararsi, mentre coloro che hanno combattuto per l'Italia e sono andati
incontro alla morte, non hanno altro da godere che l'aria e la luce: non hanno
casa, e senza abitazione vanno errando con le loro donne e i figli.
I comandanti li ingannano quando, prima delle battaglie, li esortano a
combattere per i loro templi e i loro sepolcri, perché in tanta moltitudine
della plebe romana non v'è chi abbia un altare domestico o una tomba in cui
possano riposare le ceneri degli antenati.
Essi combattono e muoiono per difendere il lusso e le ricchezze altrui.
Sono chiamati i padroni del mondo, e non posseggono nemmeno una zolla di terra.
La nuova legge proposta da Caio Giulio prevedeva la distribuzione di terre, sia
per andare incontro alle esigenze dei più poveri proletari urbani sia per
consentire a Pompeo di tener fede alle promesse fane ai suoi veterani.
Con questa legge si ripartivano le terre di proprietà statale in Italia, l'ager
publicus, a esclusione delle fertili distese della Campania e dei demani di
Volterra sottoposti a particolari norme.
Poiché il territorio pubblico non era sufficiente, si prevedeva l'acquisto di
possedimenti privati a prezzi equi evitando espropriazioni forzate.
Il denaro necessario all'acquisto dei lotti lo si doveva reperire dalle
conquiste di Pompeo e dalle pubbliche rendite.
Ai beneficiati si faceva divieto di alienare le terre fino a quando non fossero
trascorsi vent'anni dall'assegnazione, e ciò per evitare possibili speculazioni.
Una commissione composta di venti persone aveva l'incarico di attuare la legge.
La commissione doveva attenersi scrupolosamente alle prescrizioni, non disponeva
di poteri speciali e la sua stessa ampiezza doveva essere una garanzia di
democraticità.
La precedente rogatio di Rullo prevedeva invece una commissione di dieci
componenti con vastissimi poteri decisionali.
Come ulteriore prova di obiettività, Cesare non volle entrare a far parte dei
venti .
Vi incluse tuttavia Marco Azio Balbo, suo cognato per aver sposato sua sorella
Giulia minore, e ovviamente gli stessi Pompeo e Crasso.
Nel presentare al Senato la Lex Iulia Agraria invitò calorosamente i padri
coscritti a studiarla con attenzione e serietà, poi concluse dicendo: ..
Sono pronto ad apportarvi le modifiche che voi suggerirete.
Il dibattito andò ben diversamente poiché la legge faceva paura di per sé agli
ottimati, con o senza emendamenti.
Le si oppose con violenza l'altro console, Bibulo, mentre i pa~res con meschini
espedienti ne ritardavano la discussione.
Quando alfine non fu più possibile rinviarne l'esame, Catone tornò alla sua
vecchia tattica dilatoria.
Ripeteva di continuo che nulla si doveva mutare nella costituzione della
repubblica e che le novità erano dannose.
Parlava da più ore ed era chiaro che la sua orazione aveva un unico scopo,
arrivare al termine della seduta senatoriale per impedire che si prendesse una
decisione.
Così aveva fatto quando, parlando per un'intera giornata, aveva sottratto il
trionfo a Cesare.
Ma ora il suo avversario era più forte, si tro~aVa al vertice dello Stato e
disponeva di ben altri poteri: quelli che la carica gli attribuiva e quelli che
si prendeva da se stesso. ];)ifatti Cesare al colmo dell'irritazione, pur
mantenendo una calma apparente, chiamò un accensuS, un usciere, e gli diede un
ordine: <.Arrestate Catone~.
L'oratore venne allontanatO dalla Curia e condotto in carcere.
Alcuni senatori, abbandonando rumorosamente l'aula, lo seguirono a testa alta.
Uscì anche Marco Petreio il quale, nel rispondere al console che lo rimproverava
di lasciare il Senato senza attendere la conclusione della seduta, disse:
Preferisco di~ddere il carcere con Catone anziché rimanere in quest'aula con
te~.
Cesare, sorpreso dal coraggio di Petreio e pentito di essersi lasciato
trascinare dall'ira, fece scarcerare all'istante il suo ostinato oppositore.
Ma congedando i senatori non rinunciò a pronunciare parole sferzanti e
minacciOse: Patres conscripti, vi avevo chiamato a giudici e arbitri assoluti di
questa legge per consentirvi, prima di presentarla al popolo, di modificarla
qualora non vi fosse piaciuta.
Voi non vi siete nemmeno degnati di darle uno sguardo, e quindi sarà soltanto il
popolo a decidere su di essa.
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Convocò rapidamente l'Assemblea popolare.
Bibulo e Catone rinnovarono in questa sede le loro critiche nient'affatto
intimoriti dalle urla e dagli schiamazzi della plebe.
Bibulo pensava di poter bloccare il cammino della riforma opponendole il veto,
ma si ingannava.
La pressione popolare era insostenibile.
Ci furono incidenti a ripetizione.
Catone, che aveva cominciat a vomitare ingiurie contro Cesare, fu assalito e
malmenato~ mentre Bibulo inseguito dalla folla dovette rifugiarsi nel tempio di
Giove Statore.
Cesare chiamò davanti all'Assemblea popolare Pompeo e Crasso i quali difesero
pubblicamente la rogatio che, com'era naturale, avevano apprOntato da triumviri
insieme con il console.
Sui Rostri, Cesare aveva alla sua destra il grande generale e alla sinistra il
dives.
Erano osannati da un'immensa folla ondeggiante, in preda a profonda agitazione.
Il console chiese a gran voce a Pompeo: Approvi tu questa legge? ~>.
Il generale di rimando, orgoglioso di essere nuovamente acclamato come un eroe,
esclamò: Sì, l'approvo~. Se qualcuno userà la forza per impedirne il passaggio,
scenderai in campo dalla parte del popolo? chiese ancora il console.
E Pompeo: Certamente, lo farò.
A chi minaccerà con la spada, opporrò spada e scudo ~>.
Le strade di Roma già brulicavano dei suoi veterani pronti a riprendere le armi.
Amaro è il commento di Plutarco: Mai Pompeo aveva detto o fatto in tutta la sua
vita, fino a quel giorno, cosa tanto odiosa~.
E ciò avveniva perché ormai il grande generale era interamente succube della
volontà sovvertitrice del giovane console.
La plebe a Roma era ancora padrona della piazza.
Bibul~ riprese tuttavia coraggio e, lasciato il tempio di Giove Statore dove si
era rifugiato, corse verso il tempio di Castore e Polluce con l'idea di
interporre il veto alla legge.
Egli stava osservando il cielo, diceva, e lo vedeva carico di nubi per una
pioggia imminente.
Ciò bastava per bloccare una legge poiché una disposizione religiosa prescriveva
che mentre Giove vibra la folgore e lascia cadere la pioggia, non è permesso
trattare di affari con il popolo .
I consoli, i pretori, i tribuni potevano opporre l'intercessio dopo aver letto
nel gran libro celeste.
Se poi piovesse realmente o no era cosa del tutto trascurabile.
Cesare, benché pontefice massimo, non si lasciò fermare da quegli ostacoli
d'ordine religioso e diede egualmente l'avvio alle votazioni.
La plebe stringeva da presso Bibulo il quale andava gridando: Per quest'anno,
almeno fino a quando io sarò console, non avrete la riforma.
No, non l'avrete~.
Ma subì nuove aggressioni, ancora più cruente e umilianti.
Alcuni scalmanati bastonarono i suoi littori riducendo in pezzi i fasci; altri
giovinastri ~ ettarono in pieno volto un canestro di escrementi umani.
Quest'ultimo assaltc della folla lo mise definitivamente in fuga e segnò la
vittoria di Cesare, l'indomani confermata dal voto favorevole delle tribù.
Al testo della legge vi era stato aggiunto un codicillo col quale si imponeva ai
senatori, pena la squalifica e l'esilio, un giuramento di obbedienza nei
confronti della riforma.
Tutti piegarono la testa, perfino l'irremovibile Catone su consiglio suadente e
interessato di Cicerone. Catone forse non ha bisogno di Roma"> gli diceva il
Cicer, ma Roma ha certamente bisogno di Catone"> non si poteva rischiare di
essere banditi dall'Urbe proprio nel momento in cui essa era in balìa di quanti
ne tramavano la rovina.
Tutta la plebe seguiva il triumvirato.
Cesare era in esso il personaggio più affascinante sebbene molti, compreso
Cicerone, fossero convinti che Pompeo ne decidesse le linee d'azione.
Ora più che mai, parte dell'aristocrazia era schierata con Pompeo e i cavalieri,
mentre affaristi e capitalisti erano con il dives Crasso.
Bibulo, sconfitto da Cesare, si sentì tradito dal suo partito e dalla codardia
dei senatori.
Il triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso aveva funzionato ottimamente mostrando
vitalità e pericolosità tanto sconfinate che i romani cominciarono a capire di
vivere sotto una nuova tirannide.
Fu allora che Bibulo si chiuse in casa senza più uscirne per i rimanenti otto
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mesi del suo consolato. Da quel momento Cesare, nota Svetonio, governò lo
Stato da solo e secondo il proprio arbitrio. ~ Di fatto c'era un console unico
al vertice della repubblica.
Alcuni begli spiriti appartenenti all'antica nobiltà repubblicana, un giorno
fecero trovare affisso nel Foro un documento che recava a mo' di firma non già i
nomi dei due consoli Cesare e Bibulo, bensì quelli di Giulio e di Cesare per
ironizzare sul dispotismo cesariano.
Anche il popolo faceva del sarcasmo sulla situazione e circolarono due versetti
così concepiti: Nulla accade sotto Bibulo~ ma tutto sotto Cesare succede~ / non
riesco a vedere proprio nulla che sia fatto sotto Bibulo.
Bibulo stesso, dal suo ritiro, vergava libelli ingiuriosi contro il più abile
collega ed emetteva proclami che però sbiadivano senza effetto sui muri della
città.
Fu proprio lui a coniare in quei mesi il ricordato insulto col quale accusava
Caio Giulio di pratiche omosessuali cui si era abbandonato venti anni prima in
Asia alla corte di Nicomede.
Un insulto che diceva: Cesare, cioè la regina di Bitinia, una volta aveva voluto
un re, ora vuole un regno~.
Già di larvata monarchia si poteva parlare in un consolato in cui il solo a
comandare era Cesare avendo platealmente esautorato il più debole collega di
governo.
L'opposizione di Bibulo si esauriva in una sterile esercitazione verbale e
verbosa, per quanto Cicerone se ne mostrasse entusiasta nelle sue lettere ad
Attico.
Paragonava il console sconfitto a un nuovo Archiloco, ritenendolo come lui
mordace.
Affermava che Bibulo, grazie ai suoi editti, era arrivato all'apice della gloria
per una strada insolita, poiché oggi nulla è più popolare quanto odiare i
popolari ~>.
Gli editti di Bibulo erano inefficaci, ma Cicerone gioiva solo a vedere che
piacevano alla gente.
Scrive: Sono affissi dovunque e la folla s'addensa a tal punto da arrestare la
circolazione.
Curiosità vana, la gente guardava e passava oltre.
Chi rinunciò del tutto alla vita politica fu il generale Lucio Lucullo che
appoggiava Bibulo e Catone.
Era accorso in loro aiuto ai comizi elettorali, ma Cesare lo affrontò duramente
rivolgendogli gravi minacce e non meno gravi accuse di concussione.
Il generale si gettò ai suoi piedi implorando perdono e giurando che si sarebbe
ritirato a vita privata.
Cosa che fece dedicandosi nelle sue magnifiche ville a un'esistenza punteggiata
di pranzi fastosi com'era costume degli arricchiti, senza più seguire gli
avvenimenti di Roma fino a quando non uscì di senno sotto l'azione di droghe e
filtri d'amore che un liberto gli somministrava.
Ormai padrone del campo, Cesare diede mano a una seconda legge agraria che
danneggiava la nobiltà ben più profondamente di quella appena approvata.
Essa sanciva la distribuzione ai plebei dell'agro campano, quel territorio
fertilissimo che, per non ferire troppo violentemente il Senato, era stato
escluso dalla precedente riforma e che comprendeva buona parte della Campania.
La terra veniva distribuita ai diseredati e ai poveri, ai padri che avessero tre
o più figli, i proletarii.
In pochi giorni si presentarono ben ventimila capi famiglia indigenti che si
trovavano nelle richieste condizioni.
L'ager Campanus, mediante antiche e nuove usurpazioni, era nelle mani dei ricchi
senatori e pertanto Cesare, con la nuova legge, colpiva al cuore gli
aristocratici privandoli della loro maggiore fonte di guadagno e di potenza.
Circa centomila persone popolarono quelle terre alleggerendo Roma dei più
sediziosi nullatenenti.
Capua, che da oltre centocinquant'anni era stata privata della propria autonomia
amministrativa per aver fiancheggiato Annibale, poté nuovamente costituirsi in
città.
Divenne una fiorente colonia romana, colonia Iulia Feltx, risalendo dalla
condizione di semplice magazzino dell'Urbe in cui era caduta, secondo
un'espressione dell'arpinate.
Si levò ancora una volta a protestare Catone, ma per breve tempo poiché Cesare
lo fece di nuovo trascinare in prigione strappandolo a viva forza dalla tribuna
del Senato.
Mentre tra le guardie percorreva la strada che lo conduceva al carcere, Catone
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continuava a inveire contro i suoi persecutori.
Molta gente si mostrava sensibile alle sue parole, ed era quella, dice Plutarco,
la parte migliore del popolo.
Tuttavia, era gente che taceva e non muoveva un dito per scongiurare la
paventata caduta della repubblica.
Lo stesso Cicerone non aveva difficoltà a riconoscerlo: Perché tentare di
illuderci? Roma è perduta e ogni cosa peggiora.
Tota periit.
Dove andremo a finire? .
xv
Cesare diede in sposa a Pompeo la sua unica figlia Giulia,
per suggellare mediante un legame matrimoniale l'alleanza con un così autorevole
collega del triumvirato.
Da tempo questo tipo di affari apparteneva al costume romano, e spesso avveniva
che un matrimonio precedesse, anziché seguire, una unione politica.
Il console si mostrò incurante del fatto che la ragazza fosse appena
diciassettenne e che il marito avesse trent'anni più di lei.
Giulia, che Cesare aveva avuto da Cornelia, era già fidanzata con l'eccellente
Servilio Cepione, ma ciò non costituì un ostacolo ai progetti del padre tanto
più che al giovane fu promessa in cambio la figlia di Pompeo, la quale a sua
volta avrebbe dovuto rompere il fidanzamento con Fausto figlio di Silla.
Cesare stesso, che tre anni prima aveva ripudiato Pompea per non essersi
dimostrata al di sopra di ogni sospetto, convolò a nuove nozze unendosi, sempre
per ragioni politiche, con la giovane e affascinante Calpurnia, figlia di
Calpurnio Pisone Cesonio.
Era il suo quarto matrimonio, e sarà l'ultimo.
L'anno successivo, secondo i piani, al consolato salì proprio Pisone che si
prodigò per far ottenere al genero importanti comandi militari.
Cosa assolutamente necessaria a Cesare perché, al termine del consolato, non Si
ritrovasse privo di poteri, nel momento in cui i suoi atti di governo potevano
essere impugnati dagli avversari come ant ~ titll7i~n~li Catone levò una fiera
protesta definendo intollerabile il sistema di prostituirsi l'un l'altro il
potere a prezzo di matrimoni e di procurarsi scambievolmente incarichi, province
ed eserciti per mezzo di donne.
Ma nemmeno Catone era immune da colpe in questo campo.
Egli stesso per ragioni politiche aveva dato sua figlia Porcia in sposa a Bibulo
ed era arrivato addirittura a prestare sua moglie Marcia a Quinto Ortensio.
Nei suoi libelli intitolati gli Anticatones, Cesare se ne scandalizza, e
Plutarco invece definisce questi fatti di difficile spiegazione quanto
l'intreccio di un dramma.
Quinto Ortensio, celebre oratore e spirito bizzarro, era un grande estimatore di
Catone, tanto che un giorno gli chiese in moglie la figlia Porcia, che pure era
già sposata a Bibulo, desiderando anch'egli ~. seminare ~ nel generoso terreno
di Porcia.
Fece uno strano discorso a Catone.
Se più uomini degni, disse, hanno discendenti comuni, le loro virtù si
moltiplicano.
E se Bibulo era ancora affezionato alla moglie, egli gliel'avrebbe restituita
non appena Porcia gli avesse dato un figlio.
Catone nicchiò e allora Ortensio rivelò le sue vere intenzioni: voleva sua
moglie Marcia, per la stessa esigenza di moltiplicare le loro virtù.
Non si sa bene come l'irreprensibile Catone, che aveva rifiutato di dare in
prestito al <.degno>) Ortensio la figlia Porcia, gli concedesse invece la moglie
Marcia che in quei giorni aveva messo incinta per la quarta volta.
Durante il suo consolato del 59 Cesare esplicò un'attività frenetica dormendo
poche ore per notte, accantonando perfino il suo interesse per le belle matrone
romane che figuravano tuttavia fra i suoi più accesi sostenitori.
Dovette continuare a rivolgersi alle Assemblee popolari per far votare le sue
leggi ostacolate dal Senato.
Fece ratificare gli atti proconsolari di Pompeo in Oriente; gratificò Crasso, e
se stesso perché cointeressato negli affari del dives, riducendo di un terzo le
somme che gli appaltatori delle imposte dovevano versare all'erario; affrontò la
questione dell'Egitto dichiarando Tolomeo Aulete amico e alleato di Roma e
intascando, insieme a Pompeo, i seimila talenti che il re egizianO offriva per
ottenere questa sistemazione contrastata dai patres.
Accordò privilegi ai municipi e si mostrò longanime con le province, ponendo un
freno ai latrocini dei governatori.
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La legge in proposito ottenne perfino l'appoggio di Catone, di Cicerone e del
Senato, oltre che della plebe.
Elargì favori a chiunque potesse essergli utile.
Offriva denaro, cene e benefici.
Era quello l'.. indoramento dei seguaci, l'inauratura dai risultati sicuri.
E, scrive Svetonio, se c'era qualcuno che osasse opporglisi, sapeva ben farlo
desistere col terrore.
La sorte subita da Lucullo ne era un chiaro esempio.
Agli occhi dei nemici di Cesare la situazione si era fatta insostenibile.
Cesare, più che come un console, si comportava da monarca.
Cicerone se ne lamentava nelle sue lettere ad Attico e parlava esplicitamente di
regnum: Ora viviamo proprio nella tirannia di un regno, ed è una tirannia
insopportabile.
Non voglio più occuparmi di politica .
L'arpinate tremava di paura per la sua sicurezza.
Dice ad Attico: Ti scriverò in modo velato, e tu mi capirai.
Nelle nostre lettere io mi chiamerò Lelio e tu Furio.
Scriverò per enigmi.
Mehercule, non vi fu mai nulla di più vile, turpe e odioso per gente di ogni
classe e ogni età rispetto ai tempi che viviamo.
Tutto è perduto .
Cesare, incurante delle vociferazioni e del malcontento, pensava solo e
perennemente al futuro, a consolidare il suo potere.
Indusse perciò un tribuno della plebe, Publio Vatinio, a proporre una legge
plebiscitaria che gli assegnasse il governatorato della Gallia cisalpina e
dell'Illiria, con tre legioni stanziate ad Aquileia, non appena fosse uscito dal
consolato.
La proposta, che veniva presentata all'Assemblea popolare, contrastava di netto
con una precedente decisione riduttiva e sommamente ridicola presa dai patres
per umiliarlo.
I senatori avevano escogitato il trucco di dichlarare province proconsolari due
miserablll reglom al sud d'Italia, Silvae Callesque, Boschi e Sentieri, e gliele
avevano attribuite come proconsolato.
Con la legge di Vatinio, che passò trionfalmente, si bloccò la manovra degli
ottimati.
E Cesare ebbe inoltre sia la facoltà di nominare a piacimento i propri legati
sia il potere di fondare una colonia di cinquemila cittadini ai piedi delle Alpi
cui si diede il nome di Novum Comum (Como).
Pompeo fu particolarmente lieto della nuova colonia avendo suo padre Strabone
già ripopolato quel luogo, e peraltro la cosa riaccendeva in tutti i transpadani
la speranza di ottenere la cittadinanza romana, il che avvenne in seguito
proprio per iniziativa dello stesso Cesare.
Fra i cinquemila coloni stanziati in Como figuravano anche cinquecento greci.
L'aspetto più rilevante della Lex Vatinia de provincia Caesaris, già di per sé
sovvertitrice, era costituito dal fatto che il comando sarebbe durato cinque
anni invece di uno solo come imponevano le norme.
Il potere del proconsole si estese ulteriormente essendo venuto a mancare
Metello Celere che aveva ottenuto la Gallia transalpina.
Gli fu affidata anche questa terza provincia con l'aggiunta di una quarta
legione, e stavolta per volere del Senato che intendeva evitare di trovarsi
ancora davanti a un plebiscito dal quale sarebbe uscito perdente.
Svetonio commenta che Cesare, gonfio d'orgoglio, non seppe contenersi.
In piena Curia si vantò di aver ottenuto ciò che desiderava nonostante
l'opposizione e le lacrime dei suoi nemici, e aggiunse: Da questo momento in
poi potrò camminare da padrone sulle vostre teste .
Un senatore, richiamandosi alla vecchia accusa di omosessualità, disse, per
denigrarlo, che la cosa non sarebbe stata facile a una donna.
E Cesare, con un placido sorriso sulle labbra,
rispose: In Siria regnò Semiramide e le Amazzoni dominarono gran parte
dell'Asia.
Dione Cassio non crede che Cesare abbia potuto dire di essere pronto a camminare
~ lle teste dei senatori.
Era una frase più gratuita che impudente: .Sempre in grado di controllare le sue
reazioni egli non avrebbe mai offeso qualcuno a vuoto~>.
Il console, ognora guardando al futuro, mise in atto un piano per far eleggere
un suo uomo alla carica di tribuno così come mediante nozze politiche s'era
garantito un successore amico nella persona di Calpurnio Pisone Cesonio, di cui
aveva impalmato la figlia.
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Per il tribunato la scelta cadde sul tristemente noto Publio Clodio il bello
che appena due anni prima aveva compromesso la reputazione di Pompea penetrando
travestito da donna nei suoi appartamenti.
Clodio aveva scandalizzato tutta Roma, ma Cesare lo aveva egualmente difeso,
nascostamente, e con lungimiranza poiché pensava che un giorno gli sarebbe
servito.
E quel giorno arrivò.
Clodio apparteneva al patriziato discendendo dai Claudi, ma in realtà era un
accanito avversario degli ottimati.
La sua aspirazione era di diventare tribuno della plebe, dignità cui non poteva
ascendere essendo patrizio.
C'era un modo per aggirare l'ostacolo: diventare plebeo.
La traductio ad plebem era possibile mediante una richiesta di adozione da parte
di una famiglia plebea.
Fu un giovanissimo plebeo, Publio Fonteio, a richiedere l'adozione di Clodio Non
fu difficile a Clodio trovare chi fosse disposto tra i ple bei ad adottarlo.
Difatti la scelta era caduta su Publio Fonteio per il semplice fatto che i due
erano notoriamente legati da vincoli omosessuali.
Fonteio era appena ventenne, e quindi il figlio che adottava aveva diciotto
anni più di lui.
A Clodio non mancava che l'assenso di Cesare il quale, nella veste di pontefice
massimo, doveva esaminare la questione.
Il console temporeggiava.
Voleva sì servirsi del giovane, ma ne temeva la violenza e lo spirito di
vendetta.
Divenuto plebeo e investito dell'autorità tribunizia, uno dei primi bersagli di
Clodio sarebbe stato Cicerone che gli aveva sgretolato l'alibi nel famoso
processo di sacrilegio.
Cesare, che ancora cercava di ~uadagnare a sé il Cicer, tardava a emettere il
parere sulla richiesta di adozione.
Ma Cicerone fece un passo falso.
Proprio in quei giorni, parlando in un processo per concussione contro Caio
Antonio Ibrida, lungi dal limitarsi a difendere l'imputato, rivolse nella foga
oratoria pesanti accuse all'indirizzo di Cesare.
Il console non mancò all'istante di ripagarlo rompendo ogni indugio e approvando
la traductio ad plebem di Clodio.
Il neoplebeo saliva al tribunato mentre Caio Giulio esauriva l'anno di consolato
e si accingeva a partire per le Gallie.
L'opera del nuovo tribuno gli fu sommamente utile in quanto gli sbarazzò la
scena politica romana di due pericolosi avversari quali erano Catone e lo stesso
arpinate.
Questi erano i capi dell'opposizione senatoria.
Bisognava a ogni costo separarli e renderli innocui.
Catone fu allontanato dall'Urbe con un pretesto.
Gli fu infatti assegnata una missione all'estero: egli doveva recarsi nella
ricchissima Cipro per detronizzare il re Tolomeo, fratello dell'Aulete, e
ridurre l'isola nella condizione di provincia.
Il tribuno mandò a chiamare il suo nemico e con fare mellifluo gli disse che si
fidava solo di lui, uomo onesto, nell'impresa di Cipro cui erano connesse
rilevanti operazioni finanziarie.
Catone gli rispose che aveva capito tutto: l'offerta della missione in terra
lontana nascondeva un tranello per scacciarlo da Roma, era una beffa, non un
favore né un riconoscimento delle sue capacità.
L'ottimate aveva alzato la voce nel fare le sue rimostranze, ma Clodio, urlando
più di lui, gli disse: Se non accetti la missione come un favore, dovrai
subirla come una punizione .
Detto questo, sottopose al popolo la relativa legge e Catone, senza alcun
seguito e privo di protezione, dovette imbarcarsi alla volta di Cipro dove
rimase per più di due anni e dove poté solo godere per qualche tempo della
compagnia del nipote giovinetto Marco Giunio Bruto.
Poi, per allontanare Cicerone, l'irrequieto tribuno propose una legge con la
quale si condannava all'esilio, alla
famosa pena dell'interdictio aquae et ignis, chiunque causasse o avesse causato
la morte di un cittadino romano negandogli la possibilità di difendersi.
La legge non faceva nomi e tanto meno si riferiva apertamente a Cicerone, ma il
reale bersaglio era proprio lui.
Si intendeva colpirlo rifacendosi alla sua condotta di cinque anni prima quando,
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investito dell'autorità consolare~, aveva voluto l'esecuzione dei seguaci di
Catilina senza istruire un regolare processo.
Il Cicer credeva di essere ancora forte e di poter contrastare i piani di
Clodio: Se egli mi chiamerà in giudizio ", scriveva al fratello Quinto, .<tutta
l'Italia si leverà come un sol uomo in mia difesa e io ne uscirò con
moltiplicata gloria .
L'arpinate s'illudeva che la popolarità dei triumviri fosse già in declino.
Esagerava nel valutare la portata e il significato di alcuni episodi in cui
Cesare e Pompeo non avevano riscosso il consueto entusiasmo cui erano abituati.
Si beava nel raccogliere e diffondere le battute corrosive che circolavano sul
conto di Cneo.
E scriveva: ..Quanto odio suscita Pompeo, il cui soprannome di Magno invecchia
già come quello di Ricco, di Dives, dato a Crasso.
Non c'è più nessuno che sopporti l'attuale penosa situazione con la mia stessa
pazienza ~.
Talvolta ai giochi gladiatorii avveniva che si levassero fischi all'indirizzo
dei triumviri, e Cicerone era pronto a commentare: ..
I nostri demagoghi, questi democratici dei triumviri, hanno costretto ormai
anche gli uomini più schivi a imparare l'arte del fischio ".
'` Un giorno, ai giochi Apollinari, l'attore tragico Difilo . alluse a Pompeo
gridando: ..Con la nostra miseria ti sei fatto Magno , nostra miseria tu es
Magnus.
Ci fu un profluvio di applausi, e Cicerone osserva compiaciuto che Difilo
~- dovette ripetere quel verso un migliaio di volte.
Mentre ancora il pubblico applaudiva entrò nel teatro Cesare.
Come per incanto, tutti smisero di battere le mani e sul teatro cadde un
silenzio glaciale.
Alcuni minuti Pi~ tardi scoPPiO invece un nuovo lunghissimo applauso quando
apparve sugli spalti un giovane ottimate, Scribonio Curione, che sarà poi
sospettato di voler uccidere Pompeo.
Sembrava di essere tornati, nota Cicerone, ai tempi in cui si soleva
entusiasticamente applaudire ai grandi personaggi quando ancora esisteva una
repubblica.
E aggiunge: ..Cesare andò su tutte le furie.
Ora i demagoghi sono diventati di colpo nemici dei cavalieri, poiché questi
hanno osato alzarsi in piedi ad applaudire Curione.
Minacciano di abrogare la legge Roscia [che riguardava i posti a teatro
riservati agli equites] e la stessa legge frumentaria.
XVI
Clodio si faceva forte dei nuovi consoli e degli stessi triumviri, benché questi
mostrassero pubblicamente di non appoggiare le sue azioni terroristiche.
Ma ora bisognava prendere una decisione sulla sua legge contro le esecuzioni
decretate senza processo.
Il giovane e vendicativo tribuno convocò l'Assemblea del popolo alle porte di
Roma dove Caio Giulio, in veste di proconsole, era trattenuto dal comando
militare che gli vietava l'ingresso nell'Urbe in preparazione della partenza per
la Gallia.
L'assemblea si svolse nel Circo Flaminio.
Cesare, pur confermando quanto aveva detto cinque anni prima nell'opporsi al
procedimento sommario voluto da Cicerone e che aveva portato alla morte dei
catilinari, non mancò di disapprovare la legge in quella parte che puniva fatti
appartenenti al passato.
A Clodio questo bastava.
A lui interessava che il proconsole ribadisse la condanna della illegalità
commessa da Cicerone contro i congiurati di Catilina.
Ma ebbe anche di più perché la legge fu approvata nella sua interezza.
L'oratore non aveva più vie d'uscita, e fu cosa completamente vana che anche
molti senatori si vestissero a lutto per dimostrargli la loro solidarietà.
Sfiduciato, egli decise di partire volontariamente per l'esilio, ancor prima che
venisse ufficialmente decretata la sua sorte.
Nel lasciare la città ascese al Campidoglio dove depose in onore di Minerva
un'immagine della dea fino a quel momento custodita e venerata nella sua
abitazione.
Il simulacro recava la scritta: A Minerva guardiana di Roma~, custodi Romae
Minervae.
L'atto di devozione gli servì poco.
Clodio, saputo che l'oratore aveva abbandonato l'Urbe, ordinò alla sua marmaglia
di saccheggiargli la casa sul Palatino e la villa di Tuscolo.
Subito dopo lo fece bandire con un decreto del PoPolo cui a~iunse un editto in
forza del quale nessuno, entro cinquanta miglia dall'Italia, poteva prestargli
assistenza: gli si negava cioè ogni forma di riparo, l'acqua e il fuoco.
L'esilio di Cicerone si prolungò per poco meno di un anno e mezzo.
SPirava il consolato del 59 quando riapparve sulla scena la bieca figura di
Lucio Vezio che quattro anni prima aveva accusato Caio Giulio di complicità
nella congiura di Catilina.
Ora, a detta di Svetonio, Vezio si presentava in un ruolo dlverso, come
partigiano e agente segreto cesariano.
Durante un'Assemblea popolare, in una grigia giornata d'autunno, venne sorpreso
nel Foro con indosso un pugnale.
Condotto in giudizio davanti al Senato disse che si apprestava ad assassinare
Pompeo su istigazione di alcuni giovani ottimati, organizzatori di una congiura,
e fece i nomi di Scribonio Curione, il loro capo; di Marco Giunio Bruto, figlio
di Servilia amante di Cesare; e di Lucio Emilio Paolo, che già si era scagliato
contro il Magno.
Aggiunse che ll pugnale gli era stato fornito da Caio Settimio, scrtba del
console Bibulo.
A queste parole <. tutti si misero a ridere ~" scrive Cicerone, perché parve
assurdo che l'attentatore non potesse procurarsi da solo un pugnale e dovesse
riceverlo dal console.
Inoltre accusare Bibulo non aveva senso perché, qualche giorno prima, era stato
proprio lui a mettere sull'avviso Pompeo.
Per quanto riguardava poi l'asserita partecipazione di Lucio Emilio Paolo,
bastava osservare, per far cadere l'accusa, che Paolo in quel periodo si trovava
in Macedoma con l'incarico di questore.
In Senato il giovane Curione, chiamato a deporre, si difese brillantemente
dimostrando l'infondatezza di tutte le accuse del perfido agente il quale fu
condotto in prigione se non altro perché trovato m possesso di un'arma.
Cesare volle che Vezio parlasse davanti al popolo.
Dall'alto dei Rostri il provocatore modificò la versione del giorno prima.
Non ripeté il nome di Bruto, e ciò fece pen nostro bel gio <~ Se mi vuoi bel per
muoverti, c
Clodio si fac, triumviri, bencì non appoggiare gnava prendere I cuzioni
decretate tribuno convocò ma dove Caio Gi dal comando mil in preparazione d si
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
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L'atto di de~ che l'oratore aveva a marmaglia di saccheg di Tuscolo.
Subito dol: popolo cui aggiunse u.
142 C~lat i beccato durante la notte,eVan mformato su tutto, e si serviva di un
codice cifrato
sare che ll Consolef a i ali quelli di Lucio Lucullo e dilui pazlentemente
formulato per inviare e rice ne aggiunse altr 'barb q A C~icerone riservò un
aCCenn(gi inComprensibili a chi non fosse della cio do di un consolare, oratore
abilissim~he assoldare maZzieri in ,~rado di f diretto parlanl paIatino A
sentire ~lezio, il consolarcce degli avversari che aggredivanO in o i d e zadi
reclutare unapersonadis~li seguaCi Gli rendeVanO la i diffi aveva espresS I eslg
nl repubblica da una tirannia mdeva d'ammo, anzi riusciva a chiudere i conti in
tti
cidere per salvare a ~uando si concluse il suo consolato, i nuovi pretori Caio
cOngetture.
Secon f d to da PompeO- SVetom;e non meno pesanti: aveva dissipato i fondi
pubblici
tare fang sull iliga della viCenda non potevan n T ~ ;o~rattutto Lucullo che
eralto perché Cesare aveva
ed Enobarbo cadde
i Cicerone e ~u ~ u~ ~V~--A`~-i no mostra di sapideSse di non farne nulla.
Di rincalzo sopragglunse i;
giuratO P implicato nella congiuradi Cuiv~ della plebe Lucio Antistio che gli
anche Catone era ale ~a di prove nemmen l~O~rsonalmente in giudizio, ma Cesare
appell d i 1 ,eSecutOre materl ;i Vigenti che vietavano di perseguire un
cittadino as parte di neSsuno . .n Cui si svolgevan le lotte pO~a Roma al
serviziO della repubblica ne bloccò l'ini
~ra queStlil Cll bblica 11 cOnSolato di Cesare - Il prOCOnsole era infatti alle
porte dell'Urb tramonto del a r P anche se la popolarità dell'uo~P pOteva
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
vedere~ in procinto di raggiungere 1 G lli mente CntraStat' d- Cicerone era
sempre alta- ~e SCriVe che vi si trovava cum magnO exercitu I 1; SpettO delle
llluslm I . iOne e sapeVa contene~to da lui capeggiato in quel momento era di
modeste
lio aveva in P g om lotti OSCuri e le pubbliche ~ini, formatO da veterani e
volonta i renti aVverse~ I Cs P a Scegliere i suoi agenti seg g qu e a e sul
Rodano.
G ~un~.
IL SEGNO Dl MARTE Il nuovo mondo Il proconsole Caio Cesare sostò per più di due
mesi alle porte di Roma, protetto dall'imperium, il potere che lo metteva al
sicuro da qualsiasi incriminazione. Impiegò tutto quel tempo a difendersi dalle
accuse e a tessere una rete di relazioni che gli consentisse di raggiungere la
provincia con una certa tranquillità.
Cercava insomma di guardarsi le spalle.
I suoi avversari non avrebbero lasciato nulla di intentato pur di colpirlo e di
ferirlo nel prestigio.
Al vertice della repubblica figuravano due consoli, otto pretori e dieci tribuni
della plebe.
I consoli gli erano favorevoli, anche perché dovevano in gran parte a lui
l'elezione, il suocero Calpurnio Pisone e il pompeiano Aulo Gabinio.
Fra i pretori gli erano apertamente ostili Memmio e Domizio.
Amico gli era il tribuno Clodio e nemico un altro tribuno, Antistio.
Doveva assolutamente mantenere legati a sé tutti gli altri e convincere gli
incerti.
Fu prodigo di doni e di promesse.
Lo sarà sempre, scrive Svetonio, per rendere possibile l'elezione di magistrati
suoi partigiani e impedire l'ascesa dei candidati che non si impegnavano a
sostenerlo durante le sue lunghe assenze da Roma.
Pretendeva dagli alleati giuramenti e impegni scritti.
Cesare si attardava ancora a poche miglia dall'Urbe quando gli arrivò la notizia
che il popolo nordico degli elvezi, premuto dai germani, stava per invadere la
provincia narbonese al fine di raggiu~gere e occupare le fertili regioni
galliche della costa oceanica.
Era il marzo del 58.
Bisognava muoversi subito.
A quarantadue anni, indossato il purpureo manto proconsolare e accompagnato dai
littori
con i fasci, partiva per le Gallie.
Era elegante e raffinato anche nell'abbigliamento militare.
Smaglianti erano i suoi mantelli e preziose le armature per rendere omaggio
all'irrinunciabile gusto estetico che lo animava e per farsi meglio riconoscere
dai suoi soldati.
L'eleganza era un vessillo e un messaggio di potere.
Anche alle sue truppe imponeva armature cesellate, dorate e argentate, perché in
battaglia le difendessero con maggiore accanimento.
Non lo attendeva una guerra di conquista, ma soltanto un'azione difensiva, come
appariva dalle prime avvisaglie.
Certamente però egli era pronto a ogni sviluppo.
Nonostante l'ostruzionismo degli avversari poteva disporre di tutto il
necessario: uomini, denaro, armi, cavalli, muli, vestimenti.
Partiva con l'idea di aver ottenuto un potere straordinario che lo distanziava
dai suoi stessi alleati Pompeo e Crasso, oltre che dal Senato e dagli altri
magistrati romani.
In particolare gli eventi gli avevano conferito un ruolo imprevisto.
Egli non era soltanto il proconsole che lasciava l'Urbe per prendere possesso
della provincia, ma il generale che si accingeva a difendere con le armi i
confini dei possedimenti romani.
Il popolo celtico degli elvezi - stanziato fra il lago di Costanza, il Rodano e
la catena del Giura - si preparava da più di due anni alla trasmigrazione deciso
a uscire dalle aspre montagne e dalle mortali paludi delle regioni native alla
ricerca di terre allietate dal sole.
Durante la preparazione dell'esodo gli elvezi persero in un complotto il loro
capo e ispirat6re, il nobile Orgetorige, ma non rinunciarono alla colossale
impresa.
Si era messo in marcia un popolo intero.
Gli elvezi, prima di muoversi, diedero alle fiamme le città e i villaggi, dove
avevano abitato, per non lasciar nulla ai germani e per impedire a se stessi di
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
essere presi dalla tentazione di tornare indietro.
L'orda si rifornì di farina per tre mesi e si pose in cammino su innumerevoli
carri carichi di masserizie.
Trasmigravano in più di trecentosessantamila tra uomini, donne e bambini.
Novantamila erano abili alle armi, più che sufficienti a mettere in agitazione
Roma, i cui cittadini si appassionarono immediatamente alla vicenda seguendola
con curiosità mista a timore.
Più che di un'invasione si poteva parlare di un passaggio che gli elvezi
pretendevano di attuare attraverso la provincia narbonese per raggiungere le
terre della costa oceanica.
Ma Cesare, che si rendeva conto della pericolosità della gigantesca
trasmigrazione, fu d'un balzo sul Rodano, pronto a impedire la violazione del
suo territorio.
In solo otto giorni, a marce forzate, fu a Genava (Ginevra) dove gli elvezi
intendevano attraversare un ponte di pietra sul fiume.
Il viaggio poté essere così rapido poiché Cesare aveva già pensato di istituire
lungo il percorso che collegava l'Urbe alla provincia romana una serie di
stazioni per il cambio dei cavalli.
Si crede che sia stato lui, da console, a inventare questo servizio per rendere
più sollecite le comunicazioni.
Gll elvezl gh mviarono degli ambasciatori, nobilissimos civita~is, per
chiedergli l'autorizzazione a transitare sul ponte, pacificamente.
Il proconsolé prendeva tempo.
Aveva già mosso l'unica legione, la Decima, di cui disponeva nella provincia
narbonese.
Mentre gli elvezi attendevano impazienti la risposta, ordinò di abbattere il
ponte e di costruire bastioni e muraglie turrite dal Rodano ai monti Giura per
un tratto di diciannove miglia.
Alla fine disse: ..
No, non si passa ".
Ai trasmigranti non rimase da fare altro che provare una nuova via.
Presero un cammino duro e difficile, a differenza del primo tragitto che sarebbe
stato certamente agevole.
Tentarono cioè di scavalcare la catena del Giura e di procedere verso l'Oceano
penetrando nelle terre abitate dai sequani (Besancon) e dagli edui (Bibracte).
A rigore il proconsole non aveva più alcun motivo di impedire l'avanzata degli
elvezi poiché l'evento si svolgeva al di fuori della sua provincia, nella Gallia
indipendente.
Ma affrontò egualmente gli invasori col pretesto che gli edui, antichi alleati
dei romani, gli avevano chiesto di intervenire in difesa del loro territorio.
Inoltre egli considerava che per la Gallia narbonese, una regione aperta, tutta
in pianura e oltremodo ricca di grano, fosse estremamente pericoloso avere come
confinante un popolo bellicoso e ostile.
Non si poteva lasciare spazio a gente che in passato si era già macchiata di
molti delitti ai danni dei romani.
Parlando con efficace commozione, Cesare ricordò ai legionari come la tribù
elvetica dei tigurini (Zurigo) avesse ucciso cinquant'anni prima il console
Lucio Cassio e costretto il suo esercito a passare sotto il giogo, sub iugum
m~ssum.
Quel popolo era ancora guidato da un principe assai coraggioso, Divicone.
Il generale romano e il capo elvetico, ormai vecchissimo, si scambiarono alcuni
messaggi in cui ognuno esaltava a suo modo il remoto scontro.
Fu proprio sui tigurini che Cesare diresse le sue legioni.
Li sbaragliò, e al termine della battaglia esclamò con soddisfazione: Questa
tribù elvetica umiliò il popolo romano.
Ora, per caso o per volontà degli dèi immortali, essa è la prima a pagare la
pena>).
Disse pure che finalmente aveva avuto modo di vendicare sia le offese pubbliche
sia quelle private, poiché per mano dei tigurini era caduto anche il legato
Lucio Pisone, avo della sua nuova moglie Calpurnia.
Non gli mancava la memoria e sapeva metterla a frutto.
Mentre lasciava sul posto il legato Tito Labieno, decise di rientrare con veloci
marce nella Gallia cisalpina per arruolarvi due nuove legioni e trarre dai
quartieri d'inverno le tre formazioni dislocate ad Aquileia, senza chiedere
alcun permesso al Senato.
Con una considerevole forza di quarantamila uomini, attraversando le Alpi per la
via più breve, tornò a fronteggiare i trasmigranti.
I due eserciti si scontrarono davanti a Bibracte (Autun), capitale degli edui.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Nel corso d'una battaglia interminabile ci fu un momento in cul i romani stavano
per avere la peggio.
Cesare dovette rifugiarsi in una piazzaforte da dove, rincuorati i soldati, poté
riprendere il combattimento.
Gli portarono il cavallo che egli rifiutò esclamando: Lo prenderò dopo la
vittoria, quando inseguiremo il nemico.
Ora si deve andare all'attacco , e, ordinando anche ai tribuni militum di non
montare a cavallo, si mise alla testa dei legionari che con le spade in pugno
muovevano a piedi.
Aveva voluto lasciare i cavalli negli stazzi affinché tutti, soldati e
ufficiali, fossero eguali nel pericolo e nessuno fosse tentato di fuggire.
Avevano ingaggiato una battaglia troppo importante per poterla perdere, ne
sarebbe seguita la rovina dell'esercito romano.
A notte fonda furono gli elvezi a subire una grave e definitiva sconfitta.
I trasmigranti dovettero rinunciare al loro sogno solare.
Cesare costrinse i superstiti, ridotti a un terzo delle forze iniziali, a
tornare con le donne e i figli da dove erano venuti: vi dovevano ricostruire le
città e i villaggi che partendo avevano incendiato.
Ciò per impedire che la terra disertata richiamasse i germani d'oltre Reno, i
quali, attraversando il fiume, sarebbero diventati confinanti della Gallia
narbonese.
Il territorio degli elvezi venne poi annesso alla provincia romana.
Si chiudeva così la prima delle otto guerre galliche, e in essa Cesare aveva
pienamente dimostrato di possedere eccezionali doti di condottiero.
Aveva già compiuto i quarantadue anni e, fino a quel momento, il suo campo
d'azione era stato la politica.
Rapidi e brevi erano stati i suoi precedenti impegni di carattere militare, ma
nella Gallia rifulse il suo genio di ~rande ~enerale.
Un generale che però faceva politica, che poneva le sue battaglie al servizio
d'un piano più vasto.
In Gallia aveva saputo cogliere prontamente l'occasione che gli si era
presentata trasformando in guerra di conquista l'azione bellica che aveva avuto
un'origine difensiva.
Estendeva così senza pari il suo potere personale; rastrellava, nelle antiche
province e nelle nuove terre, oro e argento per l'erario e per se stesso.
Metteva in moto un grande meccanismo che lo avrebbe condotto lontano sulla
strada della gloria e del potere assoluto, la meta da lui perseguita.
Certo, egli non poteva immaginare che cosa gli avrebbe riservato il futuro, ma
indubbiamente sapeva inserirsi nel corso degli eventi nel tentativo di piegarlo
al suo gioco.
Roma si era estesa in Oriente grazie alle imprese di Silla, Metello Cretico,
Lucullo, Pompeo, e aveva posto i confini sull'Eufrate.
La repubblica aveva però tralasciato di rafforzare la sua presenza nei territori
al di là delle Alpi verso Occidente, e a essi il nuovo proconsole aveva rivolto
lo sguardo.
Occorrevano nuove terre per fare Roma più grande e poi si doveva reagire alle
minacciate invasioni dei germani.
Il piano strategico non sorse nella mente di Cesare in un solo giorno, furono
gli eventi a determinarne la formazione.
I romani possedevano al di là delle Alpi soltanto la Gallia narbonese, bagnata
dal Mediterraneo.
Era questa la provincia per antonomasia, da cui il successivo nome di Provenza.
A nord, la Gallia ancora indipendente, terra incognita a Roma, era assai più
vasta, abitata dai celti che i romani chiamavano galli, dai belgi e, a ovest,
dagli aquitani. Gallia est omnis divisa in partes tres", scrive Cesare nella
prima riga del De bello gallico, come ogni scolaro, per quanto svogliato e
disattento, ricorda per tutta la vita.
Il proconsole aveva prescelto come provincia da governare la Gallia cisalpina
per non essere troppo ~ontano da Roma e poter tornare d'un balzo nella capitale
in caso di necessità.
Inoltre in quella zona risiedevano i transpadani.
Cesare era molto legato a quel popolo e agiva affinché ottenesse la cittadinanza
romana.
La Gallia cisalpina equivaleva all'Italia settentrionale, comprendeva tutta
l'opulenta vallata del Po; il confine con il territorio della repubblica romana
era segnato a est da un fiumicello destinato a diventare famoso, il Rubicone, e
a ovest dal Magra.
Sgominati gli elvezi, rimaneva aperto il capitolo del popolo svevo (Brandeburgo)
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
capitanato da Ariovisto, il re germanico che aveva ottenuto dallo stesso Cesare,
durante il suo consolato, il riconoscimento delle conquiste in Gallia e il
titolo di amicus dei romani.
Nella guerra contro gli elvezi il proconsole, pur difendendo gli interessi di
Roma, aveva salvato la Gallia dagli invasori.
I capi tribù galli gli riconoscevano apertamente questo merito e vollero
incontrarlo tutti insieme per tributargli un solenne ringraziamento, ma
soprattutto per discutere con lui, e segretamente, il modo di arrestare le mire
espansionistiche di Ariovisto.
I celti gli chiedevano addirittura il permesso di indire un concilio gallico per
poi sottoporgli i loro problemi.
In tal maniera Cesare, che non aveva più alcun motivo plausibile per trattenersi
nel territorio indipendente della Gallia, veniva a trovarsi nella posizione di
protettore personale di quelle genti spaurite.
Acquistava il diritto di intervenire contro l'iniuria di Ariovisto, e di
conseguenza metteva l'Urbe al ripa~o dal pericolo germanico.
Tutto ciò gli faceva enormemente piacere poiché coincideva con la sua voglia di
predominio.
Sciolto il concilio, il capo eduo filoromano Diviziaco narrò al proconsole tutta
la storia delle infiltrazioni germaniche, mentre gli altri principi gli si
gettavano ai piedi piangendo.
I capi sequani si dicevano pentiti di aver chiamato, per volontà di egemonia nei
confronti di altre tribù, la gente di Ariovisto che in breve aveva occupato un
terzo della loro regione e ora reclamava altri spazi.
I galli temevano di essere del tutto scacciati dal loro territorio sotto la
spinta degli invasori germanici i quali, in centoventimila~ avevano traversato
il Reno attratti dalla fertilità dell'agro gallico rispetto alla povertà di
quello germanico.
In pochi anni, dicevano, la Gallia sarebbe diventata Germania.
I capi tribù gallici parlarono di Ariovisto come di un uomo barbaro, iracondo e
temerario che li dominava con superbia e crudeltà.
Imponeva pesanti tributi, prendeva in ostaggio i figli delle persone più nobili
e li sottoponeva a ogni tortura se ai suoi ordini e alle sue ingiunzioni non
fosse seguita la più assoluta obbedienza.
Caio Giulio, rassicurati i galli, inviò ambasciatori ad Ariovisto per proporgli
un incontro a metà strada fra le loro due residenze, ma il capo svevo rispose
con disprezzo che non si sarebbe mai mosso. Chi è Cesare?, chiese con superbia.
E che vuole da me? Se io avessi avuto bisogno di qualcosa da questo Cesare,
sarei andato da lui.
Ma visto che è il romano a chiedere di parlarmi, venga lui da me. Nonostante
l'insolenza e l'arroganza del barbaro, il proconsole si astenne dal compiere per
primo un gesto di ostilità.
Tanto più che formalmente ancora sussisteva il patto di amicizia fra Ariovisto e
Roma.
Spedì invece nuovi messaggeri al re per mostrargli tutto il suo stupore: così
poco riconoscente era Ariovisto che pure aveva avuto dall'Urbe e da Cesare
stesso grandi attestazioni di stima? Come era possibile che il re si rifiutasse
perfino di incontrarlo? Ma se le cose stavano così, aggiunsero gli ambasciatori
romani, Cesare era costretto a esternargli a distanza le sue ingiunzioni: non
fare attraversare il Reno da altri germani; restituire tutti gli ostaggi;
restaurare la pace.
Anche nella nuova risposta Ariovisto mostrò tutta la sua traCotanza.
Anzitutto si mise superbamente all'altezza di Roma dicertdo: Io comando nella
Gallia da me sconfitta, come voi romani comandate nella vostra Gallia.
I miei diritti sono eguali ai vostri n. Ius esse belli, era diritto di guerra,
proprio come gli avevano insegnato i romani.
Poi sfidò apertamente Cesare a dargli battaglia: Se mi lascerete in pace,
avrete tutto da guadagnare.
Ma se volete attaccarmi, fatelo pure.
Chi si è scontrato con me ha avuto sempre la peggio, e anche Cesare si accorgerà
quale sia il valore degli invitti germani, esercitatissimi nelle armi, rotti a
tutto poiché da quattordici anni conducono una nomade esistenza ~.
Gli uomini di Ariovisto avevano infatti migrato a lungo fra inenarrabili
privazioni e si erano poi stanziati nelle regioni dei sequani per averli difesi
dagli edui alleati di Roma.
Accorsi i romani in aiuto dei loro protetti, Ariovisto prudentemente non era
intervenuto.
Fu in quella occasione che Cesare, console, e il Senato gli concessero il titolo
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
famoso di rex amicus et socius po~puli romani.
Ora Ariovisto si mostrava ostile.
In quei giorni non si arrivò all'incontro fra il generale romano e il capo
barbaro il quale continuò imperterrito a devastare i territori delle tribù
galliche e a perseguire l'obiettivo di raggiungere le coste dell'Oceano.
Cesare disse di non poter sopportare oltre la iattanza del nemico, e passò
all'azione.
In verità non si aspettava da Ariovisto che quel comportamento per sentirsi
legittimato ad attaccarlo in nome del Senato e del popolo romano.
Raggiunse a marce forzate Vesontium (Besancon), la capitale dei sequani, e vi
stabilì un presidio per evitare che fosse Ariovisto a occuparla, poiché,
possedendo quel fortino, si godeva d'un enorme vantaggio strategico.
Mentre si preparava ad affrontare gli svevi, divampò tra i legionari, fomentati
da elementi anticesariani, un'ondata irresistibile di panico all'idea di doversi
battere con genti sconosciute di cui si favoleggiava la possanza e la ferocia.
I mercanti che avevano avuto la ventura di incontrarsi con i germani parlavano
di loro come di uomini giganteschi incredibilmente crudeli e valorosi in guerra.
Dicevano che essi al loro cospetto non erano riusciti a sopportarne lo sguardo
belluino.
Spaventati da queste descrizioni, molti legionari decisero di fare testamento.
Nei Commentari Cesare illustra fin nei minimi particolari la situazione di
terrore che si era creata tra le file del suo esercito.
I primi a spaventarsi furono i tribuni militari e i prefetti che avevano voluto
seguirlo per amicizia benché privi di esperienze belliche.
Invasi dalla paura chiedevano di potersene tornare a casa e intanto se ne
stavano rimpiattati nelle loro tende.
Cesare, pur trattando la questione con insofferente sarcasmo, parla di amicitiae
causa, ma Plutarco è più severo e scrive che a mostrar paura furono specialmente
i giovani nobili che si erano aggregati alla spedizione con la speranza di
passarsela bene e di far quattrini.
Il panico si diffuse a poco a poco anche tra i vecchi soldati, tra i centuriones
e i prefetti di cavalleria.
Deciso a porre un freno a ciò, il proconsole riunì il consiglio chiamando a
parteciparvi anche i centurioni.
Li rimproverò e li lusingò.
Fu minaccioso e suadente.
Perché tanta paura?, chiese.Non avete più fiducia nel vostro valore e
nell'abilità del vostro generale? Al tempo dei nostri padri, i soldati romani
già sbaragliarono questo nemico, e ora voì avete dimenticato questo fatto. Caio
Mario respinse cimbri e teutoni, per cui egualmente gloriosi furono l'esercito e
il comandante.
Anche nella sollevazione degli schiavi di Spartaco, i germani furono sgominati.
Poi, perché temerli se di recente sono stati sconfitti dagli elvezi i quali, a
loro volta, sono stati battuti dai romani? State certi, milites, Ariovisto non
vincerà! Qualcuno teme che voi non mi seguirete? Ebbene io darò l'ordine di
muovere e vedrò subito se in voi prevale il senso dell'onore e del dovere o la
paura.
Se davvero nessuno dovesse seguirmi, partirò con la sola Decima legione sul cui
valore non ho dubbi.
Questa legione diventerà allora la mia coorte pretoriana. ~> A sentire Dione
Cassio ben altre furono le ragioni che condussero i legionari sull'orlo della
sedizione.
Lo storico greco premette che non fu tanto l'esigenza di contenere l'avanzata
degli svevi a costringere Cesare a prendere le armi contro quel popolo, quanto
la sua smisurata bramosia di gloria: il generale non cercava che pretesti per
impossessarsi di nuovi territori e passare alla storia come un grande
conquistatore.
Dione incalza perciò affermando che i legionari romani mormoravano contro la
pretesa del loro comandante di voler scatenare una nuova guerra senza averne il
diritto, senza aver ottenuto un decreto del Senato: e per questi motivi stavano
per abbandonarlo, decisi a non più eseguire gli ordini di un folle ambizioso.
Sia stata l'una o l'altra la ragione della minacciata rivolta, resta il fatto
che Cesare, grande oratore, riprese con il suo discorso il controllo
dell'esercito.
Tutti confermarono la volontà di combattere ai suoi ordini, non soltanto contro
soldati, ma anche contro bestie feroci come sembravano essere i temuti germani.
Alzate le insegne, signa ferentes, le legioni romane erano nuovamente in marcia
e in soli sette giorni si approssimarono alle truppe di Ariovisto, dislocate in
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Alsazia.
Questa volta fu il re svevo ad aver paura.
Fece sapere al proconsole di essere disposto a incontrarlo, e per giustificare
il suo ripensamento disse che accettava il colloquio poiché Cesare era arrivato
fino a lui.
Il proconsole, evitando di sottilizzare, si mostrò lieto dell'iniziativa del
barbaro e si preparò al convegno.
Il re svevo gli offriva finalmente l'occasione sperata, un incontro che avrebbe
dimostrato a tutti quanto provocatorio fosse l'atteggiamento dei germani e
quanto fosse necessario l'intervento delle legioni romane.
Cesare non doveva convincere di ciò soltanto il Senato, ma anche i suoi stessi
soldati.
Catone tuonava contro di lui.
Già aveva cominciato a dire che bene avrebbero fatto le legioni a consegnarlo al
nemico.
Come luo~o dell'incontro dei due comandanti, fu prescelta una collinetta che, a
eguale distanza dagli accampamenti contrapposti, dominava la vasta pianura
d'Alsazia.
E Caio Giulio che descrive il sito: Planities erat magna et in ea tumulus
terrenus satis grandis ~..
In una giornata plumbea, sia Cesare sia Ariovisto mossero verso la collina
scortati dagli squadroni di cavalleria, più di quattromila uomini per parte.
Lo scenario e il movimento delle truppe avevano qualcosa di teatrale, e anche
questo rientrava nel gioco di Cesare affinché i suoi soldati avessero
l'impressione di partecipare a un grande evento che in realtà ai suoi occhi era
già scontato.
Le due formazioni di cavalieri si arrestarono ai piedi della piccola collina,
mentre i due generali raggiungevano lo spiazzo soprastante scortati solo da
dieci cavalieri ciascuno.
La tensione era grande.
Tutti apparivano inquieti, ma Ci fu egualmente un attimo di ilarità quando il
proconsole decise di sostituire i dieci cavalieri galli della scorta con
altrettanti soldati della Decima legione.
Lo scambio era dettato dall'esigenza di essere accompagnato in quel frangente da
uomini più che sicuri, e uno dei dieci prescelti trovò il modo di scherzare su
quella decisione.
Fra l'allegrezza generale disse che Cesare dava ai soldati della Decima più di
quanto aveva promesso.
Aveva detto di volerne fare i suoi pretoriani e invece li promuoveva addirittura
cavalieri.
L arguto legionario giocava sul doppio senso dell'espressione.
Diventar cavaliere, se equivaleva a entrare nella cavalleria militare,
significava anche ottenere l'iscrizione all'ordine equestre che era secondo
soltanto a quello dei senatorn
In sei mesi, dalla fine di marzo alla metà di settembre del 58, il condottiero
romano aveva vinto due grandi guerre e segnato un confine che durerà più secoli.
Quei sei mesi gli sembrarono probabilmente troppi, tanto che nei Commentari amò
accorciarli e scrivere di aver compiuto l'impresa in una sola estate, una
aestate duobus maximls bellis confectis.
Conclusa la campagna condotta contro gli svevi, in nome dell'indipendenza degli
edui, si guardò bene dal ritirare le sue truppe dalla Gallia libera.
Le acquartierò nei pressi di Besancon ponendole agli ordini di Labieno, senza
che nessun decreto del Senato lo autorizzasse a ciò e senza preoccuparsi di
ferire la coscienza e gli interessi di popoli indipendenti.
La sua decisione poteva essere considerata come un colpo di Stato, oltre tutto
assai originale perché compiuto contro Roma lontano da Roma.
Così disposte le cose nella Gallia centrale ripartì verso la Cisalpina a nord
del Rubicone, il fiume che divideva quella provincia dall'Italia.
Qui svolgeva le funzioni di governatore presiedendo le assise giudiziarie,
conventus; ma il suo pensiero dominante era di tenere sotto controllo la
situazione politica interna, il che gli era attualmente più facile essendosi
riavvicinato a Roma.
Plutarco è duro con Cesare.
Senza mezzi termini scrive che il proconsole accentuava nella Cisalpina la sua
politica demagogica alla ricerca di nuovi consensi e sempre più vaste clientele:
era riverito e corteggiato, diventava sempre più popolare.
Molti personaggi romani andavano a fargli visita ed egli li colmava di doni o li
irretiva con grandi promesse.
Era la solita azione di indoramento.
Insomma <. quando Cesare non sbaragliava i nemici con le armi dei romani,
attirava e soggiogava al suo volere i romani con le ricchezze dei nemici ~..
Non si trattenne a lungo nella Cisalpina poiché gli giunse la notizia che i
belgi, il popolo stanziato al nord della Gallia, si stavano preparando alla
guerra per fronteggiare una temuta invasione del suo esercito.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Era, quella, una logica conseguenza del suo comportamento.
Tuttavia furono proprio i belgi, con i loro fondati timori, a offrirgli il
pretesto per riprendere le armi.
I belgi possedevano un terzo della Gallia, ed erano popolazioni forti e
bellicose.
Insieme ad altre tribù, si riunirono in concilio istigati da coloro che
rifiutavano sia la dominazione dei germani sia quella dei romani, e anche da
coloro che non sopportavano il predominio degli edui alleati di Cesare.
Il concilio decise la costituzione d'una lega e l'arruolamento di un formidabile
esercito di trecentomila soldati per contrastare omnium furorern gli intuibili
piani d'invasione cesariana.
Il comando supremo venne affidato a Galba, valoroso re della tribù dei suessioni
(Soissons) che schierava cinquantamila uomini, pareggiando da sola le forze
romane.
Cesare, per eccitare gli animi dei suoi legionari, parlava di un complotto del
nemico, di una cospirazione contro Roma.
Poi trasse rapidamente due nuove legioni dalla Cisalpina inviandole nella
primavera del 57 a Tito Labieno in territorio dei sequani.
Ancora una volta agiva di propria iniziativa senza autorizzazioni, il che
comportava, come prima conseguenza, l'assunzione personale di tutti gli oneri
finanziari per il sostentamento e l'equipaggiamento delle truppe: grano, armi,
vestiario, carri, cavalli, muli.
Poteva però prelevare a piene mani somme immense dai bottini bellici, dai
tributi dei provinciali, oltre che dal ricavato dei molti prigionieri venduti al
mercato degli schiavi.
Come era già avvenuto nelle guerre contro gli elvezi e Ariovisto, tornò a
giocare sulle divisioni politiche che dilaniavano anche al loro interno le tribù
galliche fra partiti filoromani e partiti antiromani.
Avute dal popolo filoromano dei senoni (Sens) preziose informazioni sul luogo di
concentramento delle forze nemiche, si risolse egli stesso a partire.
In quindici giorni fu ai confini dei belgi ottenendo subito che il popolo dei
remi (Reims), abbandonata la lega antiromana, si ponesse sotto la sua
protezione.
I remi festeggiavano l'arrivo delle truppe giuliane e ne accettavano l'egemonia
offrendo ostaggi pur di scuotersi di dosso il dominio dei confinanti suessioni,
cosa che aveva già fatto la tribù degli edui nella Gallia centrale per opporsi
ai sequani, loro tradizionali avversari.
L'alleanza con i remi gli consentì di attaccare i belgi nei pressi del ponte sul
fiume Axona (Aisne), di sconfiggerli, di incalzarli, di battere e di mseguire a
una a una tutte le tribù che avevano preso parte al famoso concilio antiromano,
a quella conferenza che egli chiamava propagandisticamente il complotto contro
l'Urbe per offrire a se stesso un pretesto all'aggressione.
Alcune di quelle tribù, come i nervi (Bavai), combatterono strenuamente, altre
si arresero senza ingaggiare battaglia.
Furono fatti prigionieri a migliaia e ridotti in schiavitù.
Cesare si mostrò spietato con gli aduatuci (Mosa) che ai suoi occhi avevano
troppe colpe: discendevano dai cimbri e dai teutoni, erano di razza germanica,
erano dei ribelli avendo ripreso le armi dopo essersi arresi.
Anche i legionari attraversarono momenti critici, come quando i nervi, forti di
sessantamila uomini, costrinsero in un'imboscata la cavalleria romana alla fuga.
Soltanto il coraggio personale di Caio Giulio riuscì a salvare la situazione e a
rovesciare le sorti dello scontro.
Il gener~le, accortosi della situazione, scese da cavallo.
Strappò uno scudo dalle mani d'un soldato e si gettò furente nella mischia
raggiungendo la prima linea della Dodicesima legione.
I militi incoraggiati dalla presenza del comandante, in conspectu imperatoris,
affrontarono l'esercito nemico e lo sbaragliarono.
Ripresero forza perfino i feriti che si alzarono da terra per ricominciare a
combattere.
La rotta dei belgi fu completa: di sessantamila combattenti ne rimasero in vita
cinquecento.
Il proconsole fa di questo episodio cruciale, in cui rifulse la sua temerità e
che si svolse sul fiume Sambre, una descrizione impareggiabile per densità
drammatica, concisione stilistica e ritmicità del periodare.
L'effetto si dissolve in ogni possibile traduzione, eppure l'operazione va
tentata a vantaggio di chi non conosce l'antica lingua del Lazio: Cesare,
arringata la Decima legione, era accorso all'ala destra dello schieramento dove
vide che i suoi erano incalzati da presso e che i soldati della Dodicesima
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
legione, per aver raccolto in un sol luogo i vessilli, si ostacolavano l'un
l'altro nel combattimento.
Altre cose vide: tutti i centurioni della Quarta coorte erano stati uccisi,
trucidato l'alfiere e smarrito il vessillo.
Quasi tutti i centurioni delle altre coorti erano stati uccisi o feriti e il
valoroso primipilo Publio Sestio Baculo aveva ricevuto tanti e così gravi colpi
da non potersi più reggere in piedi.
Tutti gli altri erano spauriti, alcuni delle ultime file già si ritiravano per
sottrarsi ai dardi, mentre i nemici avanzavano e ci spingevano ai fianchi.
La situazione si era fatta critica e non c'erano rinforzi da far intervenire.
Allora Cesare, non avendo con sé lo scudo in quel momento, ne strappò uno dalle
mani di un soldato delle ultime file e avanzò fino alla prima linea.
Chiamati per nome i centurioni, or questo ora quello, esortati i militi, diede
l'ordine di riportare avanti i vessilli e di allargare le file dei manipoli
perché si potessero maneggiar meglio le spade.
La sua apparizione infuse speranza e ridiede coraggio ai soldati; ciascuno di
essi, in presenza del proprio comandante, volle fare del suo meglio anche allo
stremo delle forze, e l'impeto del nemico venne arginato ~>.
Le foreste erano le naturali difese dei barbari, le paludi erano immense
trappole per l'esercito invasore.
I belgi intrecciavano tra loro i rami degli alberi per ostacolare la marcia dei
legionari che si dovevano aprire la strada a colpi d'ascia.
Cesare procedeva a piedi alla testa delle truppe affaticate e usava una scure
bipenne.
La sua forza e la sua resistenza erano inimmaginabili in un uomo emaciato,
languido e pallido in volto.
Tutta la sua energia sembrava esclusivamente racchiusa nei neri occhi lucenti.
Egli era il primo a calarsi nel fango delle paludi o ad attraversare i fiumi a
nuoto, quando l'urgenza impediva di gettare un ponte.
Ma i romani, appena potevano, costruivano formidabili macchine da guerra che
gettavano lo sgomento tra le file nemiche le quali, nella loro barbarica
fantasia, le consideravano opere sovrumane.
Sbigottiti rimasero gli aduatuci quando per la prima volta videro entrare in
azione le torri semoventi.
All'inizio, spiando i legionari intenti a costruire una torre colossale, li
avevano derisi.
Dall'alto delle loro fortificazioni si rivolgevano ironicamente a quegli uomini,
la cul bassa statura, brevitas corporum, era tale da farli sembrare dei nani al
loro confronto.
Come avrebbero mai potuto mettere in movimento quel gigantesco mostro di legno?
Ma quando videro che quegli ometti riuscivano davvero a muovere la torre con
l'ausilio di rulli e di corde e che il mostro meccanico si dirigeva
minacciosamente verso le loro fortificazioni, furono assaliti dal panico e
gettarono le armi dal sommo delle mura dell'oppidum che non li avrebbe più
potuti difendere.
Si diedero alIa fuga urlando che certamente i romani facevano la guerra con
l'aiuto degli dèi, poiché mettevano in moto con t~nta rapidità ed efficacia
macchine così alte e terribili.
Senza falsa modestia Cesare si gloria delle sue vittorie.
Soggiogata tutta la Gallia, omni pacata Gallia, scrive nei Commentari, grande
divenne la sua fama presso i popoli barbari che gli offrivano ostaggi e
promettevano ubbidienza.
In realtà egli aveva vinto non soltanto sulla Gallia, ma anche sul Senato.
I patres, accantonate le esitazioni sulla illegittimità del suo operato,
decretarono feste di ringraziamento della durata di quindici giorni, un onore,
sottolinea Cesare, che non era mai stato tributato a nessun altro .
Per lo stesso Pompeo era stata decretata alcuni anni prima una supplicatio agli
dèi di appena dieci giorni.
Come era avvenuto nel 63 per il Magno, che aveva sconfitto Mitridate, ancora una
volta la proposta era partita da Cicerone, nel frattempo riammesso a Roma
proprio grazie all'opera svolta in suo favore dal proconsole.
Non solo per riconoscenza l'oratore chiedeva che si concedesse quell'onore a
Cesare, ma anche perché ciò rientrava in un suo tortuoso gioco politico, come
appare dalle sue lettere e come riferisce Dione Cassio.
Tra l'altro lo storico greco testimonia di un Cicerone che andava scrivendo
segretamente in quei tempi un libello volto a screditare Cesare.
E Cesare lo ripaga con eguale moneta dimenticando di fare nei suoi Commentari il
nome dell'infido avvocato cui malgrado tutto doveva l'onore della lunga
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
supplicatio.
Una supplicatio, lo dicevano tutti, che però il Cicer aveva sollecitato in odio
a Pompeo.
Gallia pacata, ma non completamente poiché scoppiavano dovunque rivolte e
disordini, mentre Caio Giulio tornava in Italia a nord del Rubicone, e poi si
recava in Illiria con il desiderio di conoscere nuovi popoli e altre regioni.
Rimanevano in Gallia i suoi luogotenenti a presidiare le terre sottomesse.
Contemporaneamente una legione veniva inviata a liberare i passi alpini dai
briganti che rendevano pericoloso il transito dei mercatores italici.
Era questo un intervento di rilevanza economica teso a facilitare i commerci e
le comunicazioni a beneficio di Roma.
La legione giuliana operò soprattutto nelle zone degli attuali Gran S.
Bernardo e Sempione.
Plutarco, nell'accennare al ritorno del generale al di qua delle Alpi, riprende
il tema della politica demagogica e corruttrice di Cesare; lo accusa di lavorare
ancora e sempre per avere l'Urbe dalla sua parte appoggiando con ogni mezzo,
lecito e illecito, con denaro e altro, i candidati alle cariche pubbliche, i
quali una volta eletti lavoravano per accrescere la sua potenza.
A Roma le vittorie in Gallia avevano reso ancor più popolare la figura di
Cesare, un grande condottiero che sconfiggendo in soli due anni nemici
estremamente pericolosi come gli elvezi, gli svevi, i belgi - aveva esteso i
domini della repubblica e portato le insegne romane in fertili e ricche terre
dell'Occidente sconosciuto da cui si potevano ricavare larghe messi e
consistenti tributi.
Nei conversari delle matrone si ironizzava sul fatto che ciò si doveva
nientemeno che a un generale su cui gravava la taccia di effeminatezza.
Si stentava a credere che Cesare non fosse più quello di una volta, che avesse
abbandonato le vecchie abitudini e abbracciato una nuova vita di combattente
tenace e di stratega geniale.
Ora egli non conquistava più cuori, ma terre.
Ben presto Caio Giulio fu richiamato in Gallia dall'esplosione d'un nuovo
conflitto, quello causato dalla potente tribù atlantica dei veneti insediata
nell'odierna Bretagna.
Nell'inverno del 56 la tribù, col sostegno della non lontana isola della
Britannia, si ribellava alle truppe del giovane Publio Crasso cui aveva mostrato
di sottostare.
Il proconsole si sorprese della nuova rivolta, per quanto potesse aspettarsela
avendo assoggettato i veneti senza alcuna provocazione da parte loro.
Sorse una nuova lega antiromana, non paragonabile per potenza a quella dei
belgi, ma egualmente temibile.
La coalizione fu chiamata armoricana, dal nome della re~ione costiera in cui
agiva.
Il proconsole avanzava con l'esercito, ma le truppe anfibie dei veneti avevano
lasciato le loro città per asserragliarsi con ogni risorsa su alcuni promontori
che sorgevano all'estremità di sottili lingue di terra difficilmente accessibili
per il gioco delle maree.
Con la bassa marea le navi si incagliavano sui fondali, e con l'alta marea
veniva preclusa agli assalitori ogni operazione via terra.
Cesare, intuendo che avrebbe potuto battere i nemici solo per mare e non
investendo le loro fortezze terrestri, diede ordine di costruire rapidamente una
flotta sulle rive della Loira, il fiume che sfocia nell'Oceano.
Le navi romane furono però approntate con criteri mediterranei, cioè con legni
leggeri come l'abete e il faggio, e si rivelarono inadatte al grande mare.
Era la prima volta che imbarcazioni romane combattevano sull'Oceano, in acque
così diverse e tempestose.
Le navi dei barbari erano invece fatte di quercia, un legno robusto, assai
resistente ai colpi dei rostri; i loro bordi erano tanto alti da rendere
difficile l'uso degli arpioni a chi avesse voluto agganciarle.
Avevano vele fatte con pelli e cuoi flessibili.
Non disponevano di rematori, e questo era il loro unico punto debole.
Il giovane luogotenente Decimo Bruto Albino, che comandava la flotta giuliana,
trascorse alcuni mesi in infelici scaramucce con i veneti, fino a quando il
proconsole non ebbe l'idea di colpire il nemico proprio nel punto debole.
Pensò che, essendo le navi dei barbari prive di rematori, per immobilizzarle
sarebbe bastato abbatterne le vele.
Ma come? Impiegando contro di esse, appositamente adattate, le famosefalccs, le
affilate falci murali che negli assedi terrestri servivano a sloggiare dalla
sommità delle fortificazioni i soldati difen sori.
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Cesare, ammiraglio, fece preparare un gran numero di falci speciali inchiodate
in cima a lunghe pertiche.
Ne illustrò l'uso ai legionari i quali con entusiasmo montarono sui loro
vascelli e affrontarono la flotta nemica impugnando le nuove armi.
Le agitavano intrepidamente e a colpo sicuro recidevano a una a una le funi che
legavano le vele agli alberi delle navi celtiche.
Le vele prive di sostegno cadevano e le imbarcazioni non potendo più sfruttare
la forza dei venti, rimanevano immobili alla mercé degli assalitori.
Nella decisiva battaglia navale, che si svolse presso il fiordo DarioTitum, la
vittoria arrise a Cesare, e i veneti rinunciarono a compiere altre azioni
belliche piegandosi nuovamente alla potestà romana.
Come era già avvenuto con gli aduatuci, Cesare anche questa volta fu spietato
nel colpire il nemico sconfitto.
E molti secoli dopo Napoleone gli rivolse un meritato rabbuffo.
Arrivato nella città di Vannes, capitale dei veneti atlantici, il proconsole
disse che era suo dovere vendicare la morte degli ambasciatori romani avvenuta
per mano della lega: non c'era da fare altro che giustiziare i cittadini veneti
più autorevoli, omni senatu necato, e vendere tutti gli altri come schiavi.
Anche questo comportamento sarà preso di mira da Napoleone.
Nelle sue osservazioni dirà che Cesare si era comportato in maniera detestabile
non avendo alcun diritto di abusare così atrocemente della vittoria.
Ne giudicherà ingiusta e politicamente errata la condotta: la giustizia e la
politica consentono di punire soltanto alcuni capi, mentre impongono di
rispettare la regola di non infierire sui prigionieri.
Napoleone si addentrò nella ricerca delle ragioni che portarono alla sconfitta
della Gallia, e nella sua argomentazione non mancò di fare un accenno
all'Italia.
Sono ragioni difficili da individuare, diceva, ma non si può escludere che la
causa principale della sconfitta risieda nello spirito di isolamento dei popoli
gallici i quali non avevano né senso di nazione né di provincia essendo dominati
dall'amor di municipio, un amore individualistico che più tardi tanto nocque
anche all'Italia: lo spirito di famiglia o di municipio sarà sempre il maggiore
ostacolo allo spirito nazionale e alle idee di libertà.
Da quella divisione derivava il fatto che i galli non avessero un esercito ben
addestrato e quindi né arte né scienza militare.
Tutto ciò portava Napoleone a concludere che, se la gloria di Cesare si fosse
fondata esclusivamente sulla conquista delle Gallie, non sarebbe stata una
grande gloria.
Sui sentimenti libertari dei galli, Caio Giulio sostiene qualcosa di diverso.
Nel tentativo di giustificare la sua aggressione, afferma di essere stato
costretto a muovere l'esercito perché solo così avrebbe potuto impedire ad altre
genti galliche di unir~i alla lega dei veneti.
Egli capiva come mai i galli fossero pronti a levarsi in armi.
Non c'era nulla di più logico, osserva, <~in quanto tutti gli uomini aspirano
naturalmente alla libertà e odiano la schiavitù ".
Nonostante la vastità delle conquiste giuliane, la situazione in Gallia rimaneva
tesa anche perché sia i britanni, che avevano dato man forte alle tribù galliche
dell'Atlantico, sia i germ~ani, in continua pressione sul Reno, si mostravano
irrequieti e pronti a fomentare nuove ribellioni antiromane.
Cesare però conferiva scarso peso a queste minacce, e sollecitava il Senato ad
annettere le terre conquistate erigendole a province.
Aveva bisogno di ciò per mettere in imbarazzo gli avversari politici che
nell'Urbe avevano ripreso a tramare contro di lui con maggiore pericolosità.
Alcuni di essi, opponendosi alla costituzione in provincia delle nuove terre,
ironizzavano sulla sua richiesta.
Mettevano in luce come la conquista non fosse minimamente consolidata, come la
penetrazione fosse tanto superficiale che in ampie zone della Gallia non avevano
mai visto un legionario romano, e come molte nazioni si erano dichiarate alleate
di Roma, ma non schiave di Cesare.
IV
Il generale tornò ancora una volta nella Cisalpina, che era la base del suo
potere militare, per meglio tenere sotto controllo gli avvenimenti di Roma e
cercare di volgerli a proprio favore.
Nell'Urbe, se da una parte cresceva la sua popolarità, dall'altra si
approfondiva la divisione fra democratici e ottimati.
Cresceva la confusione, e sempre più numerosi si facevano i tumulti nelle
pubbliche piazze, fomentati sia dai gladiatori al soldo di Clodio il ribaldo -
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il quale, esaurito il tribunato era stato eletto edile - sia dalle bande del
nuovo tribuno della plebe Tito Annio Milone che gli contrapponeva i suoi stessi
metodi di violenza delinquenziale.
I partigiani di Clodio erano finanziati da Crasso, quelli di Milone da Pompeo, e
anche questo contrasto dimostrava quanto il triumvirato fosse ormai in criSl.
Una crisi accentuata dal fatto che il Magno e il dives erano entrambi ingelositi
dai successi cesariani.
Caio Giulio si serviva sfrontatamente di Clodio, che gli avversari definivano
suo agente provocatore.
Ma non sempre Clodio stava ai suoi ordini, anzi una volta arrivò a proporre
l'annullamento degli atti del generale.
Un bel paStiCCio.
Nel frattempo era tornato Cicerone dall'esilio, e subito l'oratore cercò di
riavvicinare il Magno al Senato e di trarlo dall'isolamento agro-dolce che egli
consumava tra le braccia della giovane Giulia nella villa albana.
In quegli anni Pompeo, scrive Plutarco, si lasciò infiacchire dalla
passione che nutriva per la bella sposa.
Cicerone proponeva di affidare al Magno la cura dell'annona, essendo assai
critica la situazione alimentare della capitale.
L'incarico
doveva però essere integrato da particolari poteri degm del generale, come un
imperium proconsulare di cinque anm, la disponibilità dell'erario, il comando
d'una flotta per garantire i rifornimenti e combattere i pirati che assalivano
le navi onerariae.
Era una buona occasione che avrebbe potuto riportare il generale tra le file
degli ottimati, ma il Senato, per gelosia nei suoi confronti, non seppe
coglierla, e gli concesse solo la cura dell'annona, umiliandolo profondamente.
In quel frangente tornò alla luce un'aspirazione di Pompeo che nessuno più gli
attribuiva: egli voleva nuovamente un comando militare.
Ne fece esplicita richiesta quando nell'Urbe apparve a reclamare soccorso il re
d'Egitto Tolomeo Aulete che i suoi oppositori avevano scacciato dal trono con un
colpo di mano.
Il Magno chiese di comandare l'esercito destinato a restaurare il re ..
flautista~ in Alessandria, ma ancora una volta i padri coscritti gli negarono
l'incarico.
Pompeo entrò in collisione con Crasso il quale a sua volta pretendeva lo stesso
comando.
Il triumvirato si era frantumato, e in più le inaudite violenze di Clodio
screditavano sensibilmente i popolari.
Il Magno era tornato in pieno nella lotta politica dopo l'eclissi albana e, per
dar prova di essere a cinquant'anni sempre in possesso d'una giovanile energia,
si gettò a capofitto a procurar derrate ai romani.
Le sue navi viaggiavano in lungo e in largo per il Mediterraneo cariche di grano
proveniente dalla Sardegna, dalla Sicilia, dall'Africa.
Egli appariva come invaso da un delirio, e in quei mesi di frenetica attività
marinara se ne usCì con una esclamazione che ebbe un'immensa fortuna tanto da
arrivare in tutta la sua freschezza ed efficacia fino ai nostri tempi:
..Navigare necesse est, uivere non est necesse~.
E~li navi~ava sì perché Roma non morisse di fame, ma~soprattutto per imporre il
suo dominio che ormai impallidiva al confronto delle conquiste di Cesare.
Caio Giulio si rese conto che bisognava correre ai ripari per restituire un
minimo di vitalità e unità al morente triumvirato, tanto più che all'orizzonte
si profilava per lui personalmente una grave minaccia: il pernicioso Lucio
Domizio Enobarbo, cognato di Catone e suo vecchio avversario, nel candidarsi al
consolato del 55, aveva fatto sapere che era sua ferma intenzione proporre, una
volta eletto, la revoca del governatorato di Cesare in Gallia e in Illiria allo
scopo di impugnarne gli atti e di trascinarlo in giudizio.
Tale pericolo non era da sottovalutare.
I triumviri, pensò Cesare, dovevano assolutamente incontrarsi per discutere
insieme la situazione e quindi adottare energiche contromisure.
Egli si trovava a Ravenna, ma come luogo della conferenza propose Luca (Lucca),
la città più a sud della Gallia cisalpina.
Crasso aveva già raggiunto il proconsole a Ravenna per fargli un quadro della
confusa situazione romana e per metterlo al corrente di un'ultima novità
negativa: Cicerone, ~ssecondando i nemici di Cesare e di Pompeo, aveva sostenuto
con vigore in Senato la necessità di abolire la legge che sanciva la
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distribuzione delle terre in Campania, e ciò con il pretesto di procurar denaro
fresco all'erario esangue.
Cesare si sdegnò per l'ingratitudine dell'oratore che doveva a lui il ritorno a
Roma, e non durò fatica a convincere il dives dell'utilità dell'incontro a tre.
Fu assai meno semplice persuadere Pompeo.
Caio Giulio gli faceva sapere da ambasciatori fidati che volentieri, in
compagnia di Crasso, gli sarebbe andato incontro nella città di Lucca, dove il
Magno di lì a poco sarebbe passato diretto in Sardegna a rastrellar derrate.
Dopo lunghe tergiversazioni anche Pompeo accettò la proposta del collega, e la
conferenza poté svolgersi a metà aprile.
Roma fu messa a rumore dalla notizia della risor~ente alleanza.
Bastò l'annuncio della riunione perché molti personaggi, che apparivano incerti
o addirittura nemici del triumvirato, corressero nuovamente a schierarsi con
Cesare, Pompeo e Crasso.
A Lucca, durante le riunioni dei tre grandi, convennero più di duecento senatori
per fare atto di omaggio nei loro confronti e dichiararsi disponibili a seguirli
ovunque.
Numerosi erano i magistrati presenti che disponevano d'imperio, come Appio
Claudio Pulcro propretore della Sardegna e Quinto Metello Nepote proconsole
nella Spagna citeriore, tanto che per le strade della città cisalpina
circolavano più di centoventi littori, quando non stazionavano davanti alla casa
del proconsole.
C'erano anche uomini e dame d'ogni ceto, provenienti dall'Urbe e dalle province,
che volevano festeggiare il condottiero.
Cesare colmò tutti d'oro e di speranze, come scrive Plutarco che definisce
l'incontro di Lucca una cospirazione volta a una nuova suddivisione del potere
fra i tre congiurati e all'abolizione della costituzione romana.
I colloqui fra i tre grandi si svolsero a porte chiuse, lontano da orecchie e
occhi indiscreti, per cui non si venne subito a conoscenza dell'intesa colà
raggiunta.
Grande fu egualmente l'agitazione in Senato.
Cesare, Pompeo e Crasso salvarono il triumvirato, anzi lo rafforzarono
sottoscrivendo un nuovo impegno di collaborazione diretto a impedire che le più
importanti leve del potere cadessero nelle mani degli avversari.
E il miglior modo per scongiurare tale iattura consisteva nell'impossessarsene
saldamente.
Così venne stabilito che Pompeo e Crasso avrebbero presentato la loro seconda
candidatura al consolato per l'anno seguente; un loro successo avrebbe non solo
comportato la fine di Lucio Domizio Enobarbo, il più pericoloso dei nemici, ma
soprattutto il prolungamento di altri cinque anni del proconsolato di Cesare
nelle Gallie, un incarico già vicino alla scadenza del primo quinquennio; in più
si sarebbe consentito al generale di portare a dieci il numero delle legioni a
lui sottoposte e sostenute a spese delle finanze pubbliche.
Al termine del consolato, Pompeo avrebbe ottenuto il governo della Spagna per
cinque anni e Crasso quello della Siria insieme al comando della guerra contro i
parti, mentre Cesare, conclusa la sua decennale esperienza nelle Gallie, si
sarebbe riservato il diritto di chiedere un secondo consolato.
Infine il consolare Aulo Gabinio, il più smodato adulatore di Pompeo, avrebbe
ricondotto Tolomeo Aulete sul trono di Alessandria senza ascoltare il Senato e
intascando i grossi donativi offerti dal re flautista,> a lui e al Magno.
Firmata l'intesa, Cesare riprese la via della Gallia transalpina richiamato
dall'esplosione di altre rivolte, mentre Pompeo e Crasso, nuovamente
rappacificati, tornarono insieme nella capitale dove si misero subito al lavoro
per la realizzazione del loro piano.
Tutti e tre erano i veri padroni di Roma; la loro forza li metteva in condizione
di decidere a tavolino la spartizione del potere, sicuri del successo e
indipendentemente dalla volontà del Senato che sapevano di poter piegare ai loro
disegni.
Insomma il triumvirato, quella sorta di alleanza privata, aveva nuovamente nelle
mani i destini della repubblica potendone orientare a proprio piacimento le
scelte e i programmi.
Nei giorni in cui erano ancora incerte le voci sulle possibili candidature dei
due triumviri al consolato, si svolgevano ovunque animate discussioni. -Vogliono
la fine della repubblica, >, urlavano gli ottimati.
In piena Assemblea del popolo il console Lentulo Marcellino, ch'era stato legato
di Pompeo contro i pirati e che ora lo accusava di tradimento, chiese al
generale di dire una volta per tutte se aspirava o no alla suprema magistratura,
e Pompeo gli rispose senza rispondere, come una sibilla: .-Forse che sì, forse
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che no .
Più apprezzato fu Crasso il quale alla stessa domanda disse: ~ Farò ciò che mi
sembrerà utile alle fortune di Roma .
L'atteggiamento assunto da Cicerone all'indomani dell'accordo di Lucca, fece
capire anche ai più svagati come davvero i tre grandi avessero riconquistato
tutto il potere e come la sorte di ogni romano dipendesse nuovamente dalla
vitalità della loro intesa.
Quindi Cicerone, con uno dei suoi consueti voltafaccia, si schierò con i
triumviri, prendendo pubblicamente posizione in Senato fra lo smarrimento e la
rabbia degli ottimati che credevano di averlo dalla loro parte.
Egli sapeva di essersi cacciato in un .. ginepraio~, e lo scrive all'amato
fratello Quinto: ..Mi carissime et suavissime frater~, gli diceva.
Proprio del giovane Quinto si era servito Pompeo per inti~orire il Cicer,
un'operazione che gli riuscì con facilità avendo il triumvirato ripreso il
sopravvento.
Quinto, nel chiedere a Cesare e a Pompeo il sostegno per far rientrare
dall'esilio il fratello ne aveva garantito la condotta, nel senso che l'oratore
non si sarebbe più opposto agli atti dei tre personaggi e che anzi li avrebbe
difesi.
Pompeo pretendeva ora da Quinto che il Cicer rispettasse questi impegni.
Cicerone cominciò ad appoggiare i triumviri con una semplice omissione:
disertando cioè la seduta del Senato dove, in seguito a una sua precedente
proposta, si sarebbe dovuto discutere la revoca della legge cesariana sulla
divisione dell'Agro romano.
Bastò la sua assenza a bloccare ogni tentativo di revisione della riforma
agraria, in una seduta senatoriale che fu così tumultuosa da sembrare
un'Assemblea del popolo.
C'era in ballo un'altra questione: addossare all'erario, secondo le richieste di
Cesare, il costo delle quattro legioni che egli aveva arruolato senza
autorizzazione assumendone personalmente il peso finanziario; bisognava inoltre
accordargli la disponibilità di dieci legati, da lui nominati, invece degli otto
che gli erano già stati concessi.
Questa volta l'appoggio di Cicerone fu netto e scoperto.
Altrettanto chiaro fu il suo atteggiamento quando si dovette decidere
sull'assegnazione delle province per il 55, e c'era, con Catone in testa, chi
voleva sottrarre a Cesare le Gallie.
L'oratore pronunciò in Senato un formidabile discorso a favore del suo vecchio
nemico ricorrendo ad argomentazioni giuridiche - non erano ancora scaduti,
disse, i cinque anni dell'imperium - ed esaltando la figura del proconsole, un
conquistatore che .~ portava tutta la Gallia sotto il dominio di Roma.
Lo interruppero: .(Non eri nemico di Cesare? .
Rispose: (( Posso mai essere nemico di chi con lettere, con annunci, con la fama
fa continuamente arrivare alle mie orecchie i nomi di nuove genti e nazioni
vinte, di nuove terre conquistate? .
Il Senato tumultuava, la discordia era grande, summa dissensio, ma Cicerone
vinse facendo perfino arrestare il catoniano Favonio che pretendeva di rimettere
la questione al giudizio del popolo.
Nell'intimo, si vergognava un po' del voltafaccia.
Lo scrisse in una lettera all'amico e suo editore Attico- chiamava palinodia,
usando un termine greco, la sua orazione sulle province consolari, il discorso
col quale sosteneva la necessità di confermare al proconsole l'incarico nelle
Gallie.
Aveva avuto motivi di dissapore con Cesare, aggiunse, come in occasione del suo
esilio, ma l'interesse pubblico doveva prevalere sui rancori privati.
Era passato dalla parte dei triumvi~i? Lo rimproveravano per questo? Ebbene, era
tempo che lo facesse. (( Era inutile che io continuassi a girare intorno al
boccone che mi toccava inghiottire. Cicerone cercava di giustificare la nuova
alleanza con la perfidia degli ottimati: (( Mi hanno tradito.
E visto che coloro i quali non hanno più alcun potere non mi vogliono per amico,
devo cercare amici fra coloro che possono.
E ora che io cominci ad amare me stesso, dal momento che non riesco a farmi
amare da quella gente .
Nel riconoscere di aver sbagliato a opporsi tanto a lungo ai triumviri, conclude
così la lettera: (( E vero, sono stato proprio un bel 1 asino ".
L'orazione sulle province consolari eccitò i romani per tutto l'inverno del 56.
In essa Cicerone riconosceva al condottiero di aver scoperto un nuovo mondo, di
essersi inoltrato in terre del tutto sconosciute.
Cesare aveva condotto la guerra contro i galli, mentre prima di lui, diceva
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l'oratore, i romani si erano limitati a respingerne gli attacchi.
Perfino Mario non penetrò in quei territori. (( Ben diverso è il piano di Caio
Cesare.
Egli non solo pensa che si debba far guerra a chiunque sia in armi contro il
popolo romano, ma anche che tutta la Gallia debba esser ridotta sotto il nostro
dominio.
Così, mentre ha sbaragliato in combattimento le grandi e bellicose genti dei
germani e degli elvezi, ha atterrato gli altri popoli, domandoli e
soggiogandoli.
Quelle regioni e quelle genti, che nessuna memoria letteraria, nessuna voce,
nessuna fama aveva reso note, il nostro condottiero, il nostro esercito e le
armi del popolo romano le hanno percorse in lungo e in largo.
Ed ecco la figura di Cesare che dona a Roma nuovi e più remoti confini.
Possedevamo, patres conscripti, soltanto un sentiero nella Gallia.
Le altre zone erano occupate da genti o nemiche al nostro dominio o infide o
addirittura sconosciute e in ogni caso da popolazioni spietate, barbare e
bellicose.
Oggi finalmente i confini di quelle regioni sono le frontiere del nostro impero.
La natura, non senza una provvidenza divina, aveva dato all'Italia il baluardo
delle Alpi.
Se quella via di accesso fosse stata aperta alla ferocia delle orde galliche,
mai l'Urbe sarebbe potuta essere la sede del sommo imperio.
Ma queste Alpi ora si abbassino.
Al di là di esse fino all'Oceano non vi è più nulla che l'Italia possa temere.
Cesare poteva dirsi soddisfatto di avere dalla sua l'insigne oratore il quale
naturalmente garantiva col nuovo atteggiamento la propria incolumità, nei
confronti del sempre minaccioso Clodio, e un sicuro avvenire all'amato fratello
Quinto che era legato di Pompeo in Sardegna.
Il Cicer, suo tramite, offriva al proconsole e all'intero triumvirato il
sostegno di larga parte degli intellettuali romani per natura critici e
diffidenti d'ogni sorta di predominio Inoltre, con la sua riconosciuta abilità
oratoria, avrebbe difeso gli amici del triumvirato, onesti o truffaldini che
fossero.
Il giovane Quinto, ch'era poi divenuto luogotenente di Cesare in Gallia, offrì
all'oratore nuovi motivi per far mostra della sua riconoscenza.
Cicerone parlava continuamente dell'((indimenticabile e divina generosità del
proconsole, ne esaltava i successi, le (( tante vittorie ~, le grandi gesta>,.
Il più autorevole difensore del regime repubblicano, nota Carcopino, era
passato al campo nemico, trasformandosi nel portavoce dei triumviri e nello
strumento per l'esecuzione dei programmi cesariani".
I triumviri facevano paura, tanto che il semplice annuncio delle candidature a
console di Pompeo e Crasso, indusse i <. galantuomini e i ben pensanti ,>, come
li chiama Plutarco, a ritirarsi dalla competizione.
Rimase in lizza soltanto Lucio Domizio Enobarbo, istigato da Catone di cui aveva
sposato la sorella Porcia.
Lo stoico gli diceva che era in gioco la libertà dei romani minacciata dai
tiranni e non soltanto la conquista d'una carica.
Le elezioni a console si svolsero in un clima di violenza, mentre Cesare inviava
nell'Urbe un gran numero di soldati affinché votassero per Pompeo e Crasso e
inceppassero la macchina elettorale di Domizio.
Esplosero qua e là sanguinosi conflitti.
Pompeo temeva la concorrenza di Domizio e tramò un agguato ai suoi danni.
Volendo impedirgli l'ingresso ai comizi gli lanciò contro una banda di
prezzolati che con le armi in pugno gli sbarrò il passo mentre di buon mattino,
quasi al1 alba, si accingeva a metter piede nel Foro.
Il servo che lo precedeva con una fiaccola per illuminargli la strada, cadde a
terra colpito a morte.
Domizio aveva al suo fianco Catone, tornato nel frattempo dalla bugiarda
missione di Cipro.
Lo stoico fu a sua volta ferito.
Benché sanguinante esortava il cognato a non disertare il campo e a farsi
coraggio.
Ma Domizio non fu all'altezza della situazione e fuggì per chiudersi in casa.
Nulla poteva più frenare in quelle elezioni Pompeo e Crasso che infatti
trionfarono ottenendo il consolato, ed era la seconda volta che raggiungevano il
massimo incarico di governo.
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La vittoria rivestiva un particolare valore perché i due magistrati, legati da
un patto di ferro, non si sarebbero ostacolati nell'esercizio del loro potere,
come invece avveniva quando i consoli militavano in partiti opposti.
I triumviri si assicurarono anche l'elezione di tutti i pretori e di otto
tribuni della plebe su dieci.
Catone, che puntava a una pretura straordinaria, fu invece bocciato.
Il tribuno Caio Trebonio, attuando le intese di Lucca, facilitò l'assegnazione
della Spagna a Pompeo e della Siria a Crasso.
I due tribuni che avversavano il triumvirato opposero inutilmente il veto e
altrettanto inutilmente Catone cercò di prendere tempo con uno dei suoi discorsi
fiume.
Trebonio, irritato dalle sue lungaggini, lo fece condurre in prigione.
La proverbiale onestà dell'ottimate si era alquanto offuscata poiché, al ritorno
da Cipro, non aveva saputo produrre un quadro esatto del suo bottino: aveva sì
impressionato il popolo mostrando nel Foro innumerevoli oggetti d'oro, grandi
quantitativi di gemme e di stoffe preziose, tutta roba radunata durante la sua
missione che aveva per scopo l'annessione dell'isola sottratta a Tolomeo, ma
nessun documento ufficiale attestava che non gli era rimasto niente fra le dita.
I rendiconti, giurava e spergiurava Catone, erano stati inghiottiti dalle acque
del mare durante il tempestoso viaggio di ritorno.
Ma gli credevano in pochi.
A completare l'opera dei triumviri, Cesare ottenne la richiesta proroga di
cinque anni del suo proconsolato.
Già si trovava in Gallia, mentre Pompeo aveva inviato suoi luogotenenti nella
provincia spagnola, preferendo compiere brevi viaggi in Campania accanto alla
giovane moglie o starsene a Roma a presiedere i lavori di costruzione di un
immenso teatro per ventimila persone da lui voluto.
Ed era il primo teatro in pietra che si elevava nella capitale.
Pompeo aveva un debole per i giochi, gli spettacoli musicali, i combattimenti di
belve.
Consacrando il teatro, che prese nome da lui, organizzò un combattimento in cui
i gladiatori uccisero cinquecento leoni e diciassette elefanti.
Caddero anche alcuni gladiatori.
Si assistette per cinque giorni consecutivi al più terrificante spettacolo mai
visto prima, e la plebe portò alle stelle la sua popolarità, mentre Cicerone e
le persone colte arricciavano il naso.
Che piacere può esserci, si chiedevano, nel vedere un povero uomo sbranato da
una belva o qualche belva trafitta da un ferro? Quegli uomini e quelle bestie
non avevano forse un triste e comune destino?
Crasso aveva fatto vela per la Siria, con la certezza, nella guerra contro i
parti, di moltiplicare le sue già cospicue fortune e di rafforzare la sua
posizione politica con una gloria militare, perché allora come non mai soltanto
le armi davano in Roma un effettivo potere agli ambiziosi.
Si doveva essere alla testa di un esercito per dettare legge.
Egli aveva indubbie capacità militari e intendeva sfruttarle, sebbene avesse
oltrepassato la sessantina e all'aspetto sembrasse più vecchio.
In realtà avrebbe preferito puntare sull'Egitto ritenendolo una regione ancor
più ricca, ma Cesare lo aveva indotto ad accettare il proconsolato d'Asia.
Mosse da Brindisi piuttosto alla leggera e durante la traversata, affrontata in
pieno inverno, perse molte navi e molti soldati.
Invase senza sforzo la Mesopotamia, ma si attardò a razziarne le popolazioni
tanto a lungo da lasciare ai parti tutto il tempo per prepararsi al
contrattacco.
Quando si scontrò con il nemico si accorse dell'errore compiuto.
Per di più i parti erano guidati da un geniale Surena il quale, oltre ad aver
costituito un esercito di professionisti, aveva mirabilmente addestrato
diecimila arcieri a cavallo.
Il Surena si rivelò imbattibile e Crasso subì una spaventosa sconfitta nella
battaglia di Carre.
La disfatta dei romani fu irreparabile.
Crasso vi perse il figlio Publio, che Cesare gli aveva inviato dalla Gallia alla
testa di mille valorosi cavalieri, e cadde egli stesso in un'imboscata tesagli
dal comandante nemico, sicché i parti poterono riprendersi la Mesopotamia.
Crasso fu il primo dei triumviri a perdere la vita in un attentato, una sorte
cui sarebbero tragicamente soggiaciuti anche gli altri due, Pompeo e Cesare.
Da precise informazioni dei suoi agenti segreti, Caio Giulio aveva avuto
notizia, nell'inverno del 55, di un nuovo movimento di germanici: soldati, donne
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e bambini.
Le tribù degli usipeti e dei tenteri, tallonati dagli svevi, avevano
oltrepas~ato in massa il Reno nei pressi della foce penetrando in Gallia.
L'invasione, diceva il proconsole romano, era realmente minacciosa perché si
erano messi in viaggio non meno di quattrocentomila persone.
Così giustificava il suo nuovo intervento con la pericolosità del movimento
migratorio.
Il generale lasciò subito Ravenna, dove si trovava, per raggiungere il suo
esercito.
Questa volta i galli, invece di chiedere l'aiuto di Roma contro l'invasore come
avevano fatto per opporsi ad Ariovisto, si accordarono con i germani.
Cesare temeva una simile evenienza poiché considerava le tribù galliche volubili
e sempre desiderose di novità.
Era gente curiosa e credula che, al passaggio dei mercanti, si raccoglieva
intorno a loro nelle piazze per ascoltarne i racconti e poi prendeva l'una o
l'altra decisione sulla base di ciò che aveva udito, senza preoccuparsi d'altro.
I galli avevano inviato messaggeri ai germani per incitarli a passare il Reno,
unire le loro forze e affrontare i romani.
Potevano anche contare sul sostegno dei britanni i quali, a loro volta,
attraverso l'Oceano avrebbero spedito armi e uomini, come avevano già fatto
nella guerra dei veneti.
Cesare, che si era posto l'obiettivo primario di scoraggiare le mire
espansionistiche dei germani, nascose il suo sdegno e non rinfacciò ai galli di
aver favorito l'invasione.
Anzi, invitò i loro capi a una conferenza per mettere a punto un piano d'attacco
e ricacciare i germani.
Sosteneva la necessità di difendere insieme il paese dalle orde barbariche e,
dopo qualche discussione, ottenne dai belgi un cospicuo reparto di cavalleria
che egli unì alle sue forze.
Mosse contro il nemico il quale, sorpreso e intimidito dalla rapidità della sua
avanzata, gli inviò un'ambasceria.
I germani, dissero i messaggeri, erano venuti in quei luoghi perché scacciati
dalla loro patria; essi offrivano ai romani la loro amicizia, pronti tuttavia a
prendere le armi se attaccati.
Cesare intendeva il Reno come una frontiera invalicabile in difesa delle sue
conquiste, e perciò rispose che non era possibile un'amicizia con loro fino a
quando rimanevano in Gallia; tutto al più avrebbe potuto aiutarli a sistemarsi
nelle terre degli ubi, sulla destra del fiume, ai quali avrebbero potuto dare
man forte contro le violenze degli svevi.
I germani chiesero tre giorni di tempo affermando di voler riflettere sulla
proposta, ma in realtà per attendere l'arrivo della loro cavalleria già in
marcia.
Cesare, cui non sfuggirono le intenzioni del nemico, non concesse la tregua.
Annunciò che comunque sarebbe andato avanti per non più di quattro miglia al
solo scopo di rifornirsi d'acqua.
Il che equivaleva ad accordare una sospensione di un giorno, e quello fu per lui
un giorno fatale: la cavalleria gallo-romana v~nne attaccata a tradimento dalla
cavalleria nemica e riportò una grave sconfitta pur essendo in cinquemila,
mentre i germani avevano gettato all'attacco appena ottocento cavalieri.
La reazione di Cesare fu tanto pronta quanto spietata, mentre i germani ebbero
un comportamento piuttosto ingenuo.
All'indomani dell'agguato i capi e gli anziani delle due tribù germaniche si
presentarono al proconsole dicendo di voler spiegare i motivi dell'accaduto: i
comandanti della cavalleria avevano dato battaglia senza sapere della tregua.
Ora i germani se ne scusavano e chiedevano di aprire una nuova trattativa per
una reale sospensione dei combattimenti.
In effetti, come subodorava il generale, essi proseguivano nella loro <. perfida
simulazione o, cioè chiedevano ancora tempo per ordire altri inganni.
Cesare li fece arrestare tutti, e rapidamente fu addosso ai nemici senza che
questi potessero rendersi conto di ciò che succedeva e senza poter decidere che
cosa fare essendo i loro capi lontani e prigionieri.
Gli accampamenti dei germani furono rasi al suolo e innumerevoli - forse
quattrocentomila, a sentire Cesare - furono i morti e i feriti; ben pochi, e fra
essi donne e bambini, riuscirono a passare il Reno, anche perché molti vennero
travolti dalle acque impetuose del fiume.
Il proconsole si era sentito autorizzato a dare quella risposta annientatrice
dalla rottura della tregua.
L'eco della strage si ripercosse a Roma dove Catone, sempre in agguato non meno
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di un nemico in armi, ripeteva a gran voce in Senato la sua singolare proposta
di consegnare il folle generale ai germani da lui massacrati in dispregio dei
diritti delle genti.
Coloro che invece volevano ringraziare gli dèi con pubblici sacrifici per le
vittorie romane si compenetravano delle ragioni del condottiero che in piena
tregua era stato aggredito a tradimento.
Catone perseverava nelle denunce: il pericolo per la repubblica non proveniva
dai germani o dai galli, ma da Cesare; offriamo sì sacrifici agli dèi, diceva,
ma per farci perdonare di aver dato i natali a un simile uomo e affinché non
ricada sui nostri soldati la punizione che deve colpire lui, unico responsabile
d'una guerra ingiusta, bellum iniustum.
Il proconsole non desistette dall'attuazione del suo programma bellico e
attraversò il Reno dopo aver fatto costruire nei pressi dell'odierna Coblenza un
ponte in legno sulle violente acque del fiume.
Fu un'opera Immane, condotta a termine in soli dieci giorni dall'abbattimento
degli alberi al legamento dell'ultima travicella della carreggiata.
Era il primo ponte che veniva gettato su quel fiume, come era la prima volta che
un esercito romano passava il Reno, e a comandarlo era Cesare.
Egli entrava in territorio germanico con l'intento di compiervi un'azione
dimostrativa, non per occuparlo stabilmente.
Il Reno era per lui il confine a difesa naturale della zona d'influenza romana,
e difatti per secoli non si ripresentò su quelle acque la minaccia germanica.
Voleva provare al nemico di essere in grado di inseguirlo fin sulla porta di
casa, di dargli una severa lezione per dissuaderlo dal ritentare un'invasione.
Penetrò nel territorio dei sicambri che, presi dallo spavento, gli lasciarono
libero il passo.
Ordinò di incendiare i villaggi e di razziare i raccolti di grano, poi fece
marcia indietro.
Dopo diciotto giorni - certo di aver raggiunto tutti gli obiettivi: incutere
paura ai germani, vendicarsi dei sicambri che li avevano sostenuti, aiutare gli
ubi suoi alleati a liberarsi dalla pressione degli svevi - era già nuovamente in
Gallia col suo esercito.
Tornava indietro non volendo peraltro inoltrarsi in terre sconosciute,
disseminate di foreste impenetrabili e di immense paludi.
Diede l'ordine ai soldati di distruggere il ponte che pure era una delle sue più
mirabili opere d'ingegneria militare.
Plutarco giudicava la rapidità di costruzione del ponte come qualcosa del tutto
incredibile anche a chi vi avesse personalmente assistito.
Napoleone, in un acre commento, critica l'entusiasmo del biografo greco per il
ponte e sostiene che quell'opera non aveva nulla di straordinario.
Essa poteva essere condotta a termine non in dieci, bensì in sei giorni.
Non soltanto al ponte sul Reno s'interessa l'imperatore nelle pagine dedicate
all'attraversamento del fiume e al successivo balzo in Britannia, ma ancora una
volta definisce ingiuste e contrarie al diritto delle genti le repressioni
operate da Cesare.
Non ne approva la condotta nei confronti dei germani, e si mette dalla parte di
Catone.
Altri, come Camille Jullian nella sua monumentale storia della Gallia, chiama
l'attacco alle due tribù germaniche la più volgare delle operazioni di Cesare e
la più vile delle sue azioni .
Agli occhi di Napoleone le scorrerie di Cesare oltre il Reno e oltre l'Oceano
furono del tutto premature.
L'imperatore afferma che il proconsole dovette abbandonare la riva destra del
fiume dopo soli diciotto giorni, senza aver fatto nulla di notevole, perché gli
svevi corsero alle armi, si riunirono in assemblea generale e lo minacciarono da
presso costringendolo a uscire subito da quelle terre.
Alla stessa stregua definisce un insuccesso la tentata invasione della
Britannia, un'azione del tutto improvvisata che ridondò a suo disonore.
Aggredì l'isola con due legioni appena, mentre ne sarebbero occors~ almeno
quattro, ed ebbe solo la buona idea di ritirarsi, il che poté fare senza
perdite.
Napoleone si inserisce fra coloro che considerano le incursioni in Germania e in
Britannia come il fallimento dei grandi progetti cesariani, volti alla conquista
di quei paesi.
In verità non era questo l'obiettivo del proconsole.
Egli, più realisticamente, intendeva rafforzare il suo dominio in Gallia, non
solo aggravando la soggezione dei celti con nuove imprese militari, ma anche
dimostrando loro di essere in grado di colpirli come e quando voleva.
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Ecco che Cesare tornando sulla riva sinistra del Reno pensava di aver fatto
abbastanza, come scrive nel Bellum gallicum, per la propria gloria e
nell'interesse di Roma.
Lo aveva fermato il timore dell'ignoto? Forse no.
Se a trattenerlo dal proseguire l'avanzata nelle terre germaniche era stata la
paura di inoltrarsi in regioni sconosciute, un sentimento opposto lo indusse
subito dopo ad affrontare l'0ceano e a mettere piede in Britannia.
Diceva di essere attratto dall'idea di capire l'indole di quei popoli, gli
ultimi, ai confini del mondo~>, e di voler imparare a conoscere un'isola ancora
misteriosa agli stessi galli dirimpettai.
Tutto questo sapeva di retorica o di affermazioni poste a contorno di qualcosa
di più sostanzioso.
La realtà era infatti un'altra, e nemmeno Cesare la nascondeva interamente:
urgeva dare testimonianza della potenza dell'Urbe anche s~ quelle terre.
Troppe volte i barbari che vi abitavano avevano sostenuto i galli nelle loro
ribellioni antiromane.
E a lui personalmente non bastavano gli allori mietuti ricacciando indietro i
germani.
Sebbene affermasse il contrario, ne cercava altri volgendo sempre più l'occhio a
Roma per rafforzarvi, con l'eco di tante azioni vittoriose di condottiero e di
conquistatore, la sua popolarità, mentre si precisava in lui il progetto di un
dominio assoluto su una repubblica da abbattere e da trasformare.
Come una furia ripercorse tutta la Gallia, a velocità portentosa.
Nemmeno in quei giorni mancò di tenere impegnati gli uffici della sua
segreteria.
Stando a cavallo dettava contemporaneamente cinque o sei lettere a più scribi
che lo seguivano in lettighe colme di carte e di documenti.
Dormiva sempre meno, poche ore per notte, e sempre in viaggio, su un carro o in
una lettiga.
La grande mole di lavoro che egli riusciva a svolgere con rapidità
impressionante e la molteplicità degli interessi politici, militari, storici,
letterari, cui dedicava quotidianamente l'attenzione, erano le più evidenti
caratteristiche che rivelavano la forza del genio.
Anche di notte consultava i messaggi dei luogotenenti o prendeva i primi appunti
per una sua opera, in due volumi, De analogia, dedicata a Cicerone, in cui
affrontava sottili questioni grammaticali.
Un lavoro da linguista compiuto nel fragore della guerra.
I suoi primi lettori erano i generali che lo attorniavano, appassionati
anch'essi di lettere, poeti come Quinto Cicerone, o storici come Aulo Il zio .
A Roma erano in polemica tra loro due scuole lin~uistiche.
L'una propugnava le regole dell'analogia e aveva Cesare tra i suoi fautori;
l'altra, rappresentata da Cicerone, difendeva i princìpi dell'anomalia.
Al De analogia di Cesare si contrapponeva il De oratore dell'arpinate.
Nel suo trattato il generale suggeriva agli scrittori di seguire la via della
ratio che conferiva alla lingua basi solide e certe.
La consue~udo invece induceva all'arbitrio personale, alle anomalie
ingiustificate e alla retorica.
L'indipendenza dalle regole, sostenevano gli analogisti, impediva la chiarezza
espressiva e intorbidava la lingua.
Celebre divenne una perentoria esortazione cesariana: Ricordalo sempre e
imparalo a memoria: evita le parole strane e inusitate come il navigante sfugge
gli scogli ,>.
Il trattato grammaticale era per Cesare anche la sua preparazione stilistica ai
Commentari che scriverà con agile penna: il Bellum gallicum nel 52, sconfitto
Vercingetorige, e il Bellum ciuile nel 46 alla vigilia della battaglia africana
di Tapso.
Il De analogia, pur essendo un testo d'erudizione, non poteva probabilmente
essere del tutto alieno da preoccupazioni politiche, in quanto Cesare non
cessava mai di sentirsi un soldato e un capo partito.
E verosimile che egli volesse attaccare Cicerone e Catone per via indiretta,
fingendo di parlare d'altro.
Nell'agosto del 55 Cesare decise di salpare diretto in Britannia.
Era necessario affrettarsi per non essere sorpresi dall'inverno.
L'impresa appariva entusiasmante e al tempo stesso paurosa.
La gente non sapeva nulla di quelle terre, nemmeno se fossero un continente o
un'isola.
Si credeva che oltre l'Oceano la notte avesse la durata di tre mesi.
Il generale chiese notizie sulla Britannia ad alcuni mercanti, gli unici che vi
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si erano avventurati, ma nessuno seppe dire qualcosa di preciso sull'estensione
del territorio, sul numero degli abitanti e i loro costumi di guerra, sulla
conformazione dei porti.
Caio Cesare, come aveva avuto la gloria di passare per primo il Reno con un
esercito, ora si accingeva a cogliere un altro primato: solcare l'Oceano ed
entrare per primo in un mondo sconosciuto, alla ricerca di
nuovi orizzonti.
Fece scendere la flotta lungo il Reno, e la notte del 27 agosto mosse dal porto
di I~ius (Boulogne-surMer) a una distanza di circa trenta miglia dall'isola.
Aveva caricato le truppe su ottanta navi leggere, le ac~uariae, e i cavalli su
diciotto vascelli speciali chiamati appunto hippogogae.
Con due legioni affrontò i britanni che già s'erano preparati a ostacolare le
operazioni di sbarco sulle scoscese coste dell'isola.
I legionari temevano la profondità del mare e indugiavano a saltar giù dalle
navi, fino a quando l'aquilifero della Decima leE~ione li incora~iò urlando: Oh
commilitoni, vogliamo portare l'aquila romana in una nuova terra o vogliamo che
il nemico ce la strappi di mano? ".
Raggiunta la spiaggia, a nord della odierna Dover, i legionari ebbero la meglio
sui britanni, ma non poterono inseguirli mancando di cavalieri le cui navi si
erano perdute nell'attraversamento del mare.
Il nemico, che subito aveva chiesto di trattare la pace, si riebbe poco dopo
dallo spavento constatando che i romani erano in difficoltà: in una furibonda
tempesta molte navi al largo della costa erano state danneggiate e rese
inutilizzabili; altre, soprattutto quelle che trasportavano la cavalleria e che
finalmente erano arrivate in vista della Britannia, erano state risospinte verso
la Gallia con tutti i loro occupanti.
Come portare avanti la spedizione e rifornirsi di vettovaglie, ora che il numero
delle navi a disposizione era così ridotto? Per prima cosa bisognava gettarsi
sui campi di grano del nemico, ma i britanni erano all'erta.
I romani avevano falciato il grano un po' dovunque nella zona.
Solo un campo era ancora intatto e i barbari, intuendo che presto anche quello
sarebbe stato invaso, si erano nascosti in armi nottetempo per attaccare di
sorpresa i mietitori.
Difatti i soldati romani, arrivati sul posto, già falciavano il grano quando
furono circondati dalla cavalleria e dai carri
nemici.
Erano carri da guerra a due ruote, assai robusti, trainati da cavalli veloci.
L'apparizione di quegli strumenti bellici, sconosciuti agli invasori, gett-ò lo
scompiglio tra i mietitori che nel frattempo avevano deposto le armi per meglio
operare nella raccolta.
I britanni impiegarono i loro carri in altre azioni.
Ogni carro trasportava più soldati i quali, giunti con gran frastuono e
lanciando dardi nel mezzo delle truppe nemiche, saltavano a terra e combattevano
a piedi, per poi risalire sui cocchi.
In tal maniera, osserva Cesare, i britanni univano alla mobilità della
cavalleria la stabilità della fanteria.
I le~ionari si disorientarono. non solo per la novità della tattica, nouitate
pugnae, ma anche per l'orribile aspetto dei britanni, horridiores adspectu, che
si tingevano d'azzurro il volto, il petto e le braccia.
Si radevano le guance e l'intero corpo, mentre portavano i capelli lunghi e i
baffi spioventi.
Molti soldati romani caddero su quel campo di grano e il rosso del loro sangue
apparve come il rosso dei papaveri.
Accorse Cesare che però ancora una volta dovette rinunciare a inseguire il
nemico.
I britanni tornarono all'attacco, ma la loro sortita si risolse in una disfatta.
Chiesero nuovamente di aprire trattative di pace, al che il proconsole si fece
anzitutto consegnare un gran numero di ostaggi.
Alcune usanze di quel popolo lo impressionarono particolarmente.
Annotò che avevano mogli in comune a gruppi di dieci o dodici persone, specie
tra fratelli, tra padri e figli.
I nati dalle loro unioni molteplici erano considerati figli di colui che per
primo aveva posseduto la donna ancora vergine.
Non mangiavano carne di lepre, di gallina e di oca come imponeva la loro
religione.
Si nutrivano soprattutto di latte.
Non c'era tempo perché Caio Giulio ingaggiasse una vera guerra, magari chiamando
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
rinforzi dal continente.
L'equinozio d'autunno era vicino e tutto consigliava di limitare l'azione romana
a una ricognizione dell'isola, ripromettendosi di tornare con un esercito ben
altrimenti poderoso.
A soli quindici giorni dallo sbarco, Cesare e i suoi soldati, il 12 settembre
facevano nuovamente vela per i porti della Gallia, con le rimanenti navi
rappezzate alla meglio.
L'audace spedizione in Britannia entusiasmò il popolo romano sebbene alcuni
parlassero di fuga dall'isola attuata, dicevano, con la stessa precipitazione
con cui i cesariani vi erano sbarcati.
Ma i più mostravano una piena esultanza.
La gente apprendeva i particolari dell'impresa dalle lettere del vittorioso
proconsole, ex litteris Caesaris.
Cicerone disse che al cosPetto di questa impresa, impallidiva anche la figura
di Caio Mario .
Il Cicer non stava più nella pelle.
Aveva perfino accantonato il timore d'una ventilata dittatura.
Scrive al fratello Quinto, che seguiva Caio Giulio: Fammi dipingere questa
Britannia.
Tu mi dai i colori, io userò il pennello.
Lo stesso Catullo, il poeta che non amava Cesare e che sempre lo punzecchiava
con versi scurrili, quella volta lo chiamò grande, colpito dalla temerità
dell'azione compiuta tra i britanni così orribili e lontani, hoJribilesque
ultimosque britannos.
Il Senato, sempre più prono e avvilito, decretò un rito di ringraziamento agli
dèi ancor più prolungato dei precedenti.
Le manifestazioni durarono venti giorni, ma a esse non partecipò Cesare che si
era fermato nel quartiere generale della Gallia cisalpina a presiedervi le
sessioni giudiziarie e a preparare i piani di costruzione di una nuova e ben più
robusta flotta in vista d'un secondo attacco contro l'isola misteriosa, l'ultima
Britannia virgiliana.
Breve fu la sosta.
Egli dovette partire sollecitamente per l'Illiria avendo appreso che il popolo
dei pirusti, stanziati nell'Albania settentrionale, operava incursioni
devastatrici ai confini della provincia.
Al suo cospetto i pirusti si scusarono, ma il generale pretese la consegna di
ostaggi e il risarcimento dei danni accertati da un apposito comitato.
Sistemata la questione tornò, altrettanto fulmineamente, sulle coste dell'Oceano
dove, mentre preparava la nuova invasione della Britannia, teneva a bada le
bellicose tribù della Gallia che non gli ubbidivano.
I galli si rifiutavano di prestargli aiuto.
Tacevano su tutto ciò che sapevano dell'isola.
Il più infido degli edui, Dumnorige, non volle seguirlo nella spedizione
affermando che gli dèi glielo proibivano, essendo la Britannia la terra madre
del druidismo.
Cesare pretendeva assolutamente di averlo con sé, ed egli non ebbe scelta che
fuggire.
Ma, inseguito dalla cavalleria romana, fu ra~iunto e trucidato.
In compenso Cesare aveva un'altra valida guida in un principe britannico che
aveva lasciato la sua terra per unirsi a lui.
Il proconsole aveva già ordito un pretesto per aggredire l'isola una seconda
volta: due sole tribù della Britannia gli avevano inviato gli ostaggi pattuiti,
tutte le altre se ne erano astenute.
Ciò andava punito.
Più di ottocento vascelli erano pronti a salpare, ed erano assai diversi dalle
fragili navi della spedizione dell'anno prima, più bassi e larghi, adatti ai
mari del nord e alle coste rocciose dell'isola dov'era arduo sbarcare.
A favorire la partenza, sul far della sera del 20 luglio 54 si levò un leggero
vento, l'Africo famoso e beneaugurante.
Partirono cinque legioni e duemila cavalieri pieni di entusiasmo.
I cavalieri erano in massima parte di nazionalità gallica.
Delle ottocento navi della flotta, ben duecento appartenevano ad affaristi
privati che si erano aggregati alla spedizione con la speranza di sfruttare
nuove popolazioni e conquistare nuovi mercati.
Tanta era la fiducia che le imprese di Cesare ormai suscitavano nella gente.
Il nemico, che occupava le alture della costa britannica, fu preso dallo
sgomento allo spettacolo di quell'immensa parata di navi e fuggì riparandosi
all'interno dell'isola.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Nella tarda mattinata del giorno successivo Cesare poté sbarcare senza alcuna
difficoltà su di una spiaggia in pianura da lui individuata durante la
precedente esplorazione.
Scelto un luogo adatto per erigervi l'accampamento, s'inoltrò di notte per
dodici miglia alla ricerca di un contatto con le armate britanne.
All'alba ci fu subito uno scontro che Sl concluse con fl successo deglmnvasorl
grazle ad abili manovre della cavalleria.
I britanni si rifugiarono nelle selve vicine e Cesare per il momento non li
inseguì non conoscendo i luoghi.
L'indomani, quando aveva già iniziato l'inseguimento, gli arrivò la notizia che
durante la notte una tempesta violentissima aveva distrutto quaranta navi della
sua flotta.
Accorse sul posto e diede ancora un po' di respiro al nemico, dovendo impiegare
il maggior numero di legionari a riparare rapidamente i guasti provocati dal
fortunale.
Era bastata quella sosta, che si protrasse per una decina di giorni, a rianimare
i britanni.
Quando il generale riprese a combatterli si avvide che essi si erano rafforzati:
molte genti avevano rinserrato le file affidando il comando supremo della guerra
a un capo valoroso, Cassivellauno, e accantonando antiche rivalità per
affrontare uniti le legioni romane.
Cesare avanzava, sebbene lentamente, tra imboscate e azioni di guerriglia che
disorientavano i suoi soldati e li esponevano a gravi rovesci.
I britanni non combattevano mai in grosse formazioni e la loro cavalleria
fingeva di ripiegare per ingannare gli inseguitori.
Il proconsole riconosceva che i legionari erano impreparati ad affrontare un
nemico mobile e imprevedibile.
Egli reagiva devastando i raccolti e provocando incendi dovunque.
Istruiva lestamente i suoi uomini a compiere azioni di guerriglia per tenere
testa alle truppe di Cassivellauno le quali si erano nel frattempo riparate
oltre il Tamigi in una zona che poi prese il nome di Londinium.
In un solo tratto il grande fiume poteva essere passato a guado.
Cassivellauno fece disseminare quel punto di pali aguzzi conficcati sotto le
acque e nascosti dalla corrente per bloccare l'invasore, ma Cesare condusse
egualmente il suo esercito al di là del Tamigi.
I legionari, immersi fino al collo nelle gelide acque del fiume e impediti nei
movimenti, erano bersagliati dai dardi del nemico.
Incitati dal loro generale non si persero d'animo e poterono mettere in fuga i
britanni che però nel ritirarsi tendevano sempre nuovi agguati; si nascondevano
in selve intricate e all'improvviso assalivano con i loro carri micidiali la
cavalleria di Cesare quando osava spingersi troppo avanti.
Gli ardimentosi isolani disponevano di ben quattromila carri da guerra, e questa
era la loro arma se~reta.
Tra uno scontro e l'altro i legionari s'inoltrarono in quel territorio
sconosciuto fino a prendere d'assalto la principale fortezza di Cassivellauno,
eretta nei pressi d'una località che prenderà il nome di Verulamium (Saint
Albans).
L'oppidum era ottimamente difeso da boschi e paludi, da trinceramenti e fossati.
Cesare lo attaccò da due lati con una irresistibile manovra a tenaglia,
infliggendo ai britanni una sanguinosa sconfitta.
Il nemico tentò ancora una mossa a sorpresa.
Volendo tagliare ai romani la via del mare e dei rifornimenti si gettò numeroso
sul loro accampamento navale, ma ancora una volta fu battuto.
Finalmente Cassivellauno - preoccupato del fatto che altre genti isolane si
erano unite a Cesare un po' per paura degli invasori, un po' in odio
all'egemonia esercitata dalla tribù dei catuvellauni - inviò ambasciatori al
generale per offrire la resa.
Cesare non ebbe difficoltà ad accettare l'atto di sottomissione.
Il suo maggior timore era che tra i popoli gallici scoppiassero nuove rivolte,
ed aveva perciò fretta di tornare sul continente prima che le acque della Manica
fossero sconvolte dalle furiose tempeste invernali.
Il 21 settembre era di nuovo in Gallia nel sicuro porto di Itius, al termine
d'una spedizione ch'era durata due mesi.
Aveva dimostrato ai britanni, e non solo a loro, la potenza e l'audacia di Roma,
aveva per primo messo piede su una terra nuova, ed ecco che poteva lasciarla non
senza aver imposto gravosi tributi annui alle popolazioni sconfitte e ordinato
la consegna di molti ostaggi e di grandi quantitativi di grano.
Non ritenne tuttavia opportuno stabilire un contingente di truppe romane a
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
presidio dell'isola.
Trovò Cesare in Britannia le smisurate perle di cui parla Svetonio e che
avrebbero addirittura indotto il proconsole, bramoso di ricchezze, a compiere la
traversata? Non si è mai saputo nulla di preciso in proposito.
Tuttavia Cicerone scrive che sull'isola non si rinvenne neppure un'oncia
d'argento né alcun'altra preda preziosa.
Era però noto a tutti che, con le azioni in Britannia, in Gallia e in Spagna, il
generale aveva ammassato grandi tesori.
In Britannia catturò migliaia di uomini e li vendette come schiavi; in Gallia
rastrellò oro a non finire per smerciarlo in Italia e nelle province a tremila
sesterzi la libbra, tanto che i britanni e i galli immiseriti .< battevano i
denti , secondo un'espressione di Catullo.
Cesare era ormai l'uomo più ricco del mondo.
Con una parte delle sue sconfinate risorse poté abbellire Roma.
Fin dal 54 ordinò la costruzione dei Saepta lulia, i recinti marmorei in cui si
riunivano i comizi elettorali, ai piedi del Campidoglio, e di un nuovo
Diribitorium, il grande edificio adibito allo spoglio dei voti.
Proprio in mezzo al Foro restaurava la Basilica Emilia utilizzando antiche
colonne, ed erigeva la Basilica Giulia.
Contemporaneamente incaricò Cicerone e l'amministratore dei suoi beni, il
cavaliere Caio Oppio, di acquistare un terreno per costruirvi il Foro Giulio
volendo ampliare l'antico Foro ormai insufficiente alle funzioni di una Roma
capitale di un dominio che si estendeva dalla Gallia transalpina alla Siria.
Si dovettero espropriare numerose abitazioni private, e agli iniziali sessanta
milioni di sesterzi da lui stanziati fu giocoforza aggiungerne altri quaranta,
molti dei quali finirono certamente nelle tasche di Cicerone e di Oppio.
Attraverso solleciti messaggi, Cesare ebbe nel campo di Ravenna la notizia del
senatus consul~um ultimum all'alba dell'I 1 gennaio.
Appresi i fatti di Roma, quibus rebus cognitis, il generale riunì l'esercito e
parlò ai veterani di Gergovia e di Alesia.
Li concionò con estremo vigore, ma brevemente perché non c'era tempo da perdere.
Egli era stato dichiarato nemico pubblico, disse, con una norma illegale, quella
del consultum ul~imum, di cui i patres già da molti anni si servivano per
calpestare l'autorità dei tribuni del popolo e il loro diritto di veto.
Addossò tutta la responsabilità della imminente guerra civile alle ingiustizie
del nemico perpetrate ai suoi danni in ogni occasione, ai danni di un generale
che con le sue legioni aveva combattuto per nove anni un gran numero di
battaglie vittoriose, sottomettendo la Gallia, tenendo a bada la Germania,
sbarcando in Britannia.
I soldati accolsero le sue parole con alte grida di approvazione per lui e con
urla di rabbia per Pompeo.
Giurarono di vendicare col sangue le offese al loro comandante e ai tribuni
delle plebe.
Cesare otteneva quanto voleva: aveva convinto i legionari della necessità di
difendere al suo fianco i diritti del popolo che i pompeiani avevano violato
come testimoniava la presenza dei due tribuni fuggiti da Roma.
Poteva così scrivere nel De bello civili che, conosciuta la volontà dei soldati,
cognita miliíum voluntate, mosse per la guerra.
Pur essendo pronto ad agire e avendo già l'esercito in armi, ostentava la
massima calma.
In segreto, in base ai suoi ordini, soltanto pochi centurioni, alla testa d'un
piccolo gruppo di valorosi militi, passarono il vicino confine tra la Gallia
cisalpina e l'Italia peninsulare entrando come truppe d'avanscoperta in Ariminum
(Rimini), la prima città nel territorio della repubblica.
Quei soldati si presentavano, alle popolazioni smarrite, con aspetto pacifico e
senza altre armi che il gladio.
Il generale non era ancora uscito da Ravenna dove finse di interessarsi in
un'arena al combattimento di gladiatori che si esercitavano nella loro arte.
A sera tornò a casa.
Fece un bagno più lungo e più caldo del solito, poi si mise a tavola per cenare
magnificamente in comp;3gnia di amici, magistrati e generali, parlando
serenamente con i commensali e ascoltando i musici.
Bevve
una sola coppa di vino, senza allontanarsi dalle sue abitudini.
Difatti Catone diceva: .<E il primo uomo che si sia messo a rovinare la
repubblica senza essere ubriaco.
A notte inoltrata Cesare lasciò il triclinio pregando gli ospiti di proseguire
tranquillamente a banchettare.
Sarebbe tornato di lì a poco.
Invece, non visto, saltò sù un cocchio tirato da due cavalli e si diresse alla
volta di Rimini.
Un forte vento aveva spento i lumi indicatori, sicché sbagliò strada.
La gravità del momento lo turbava.
Trattenne i cavalli nella loro corsa, quasi volesse trattenere se stesso.
Scese dal carro e proseguì a piedi, come a voler prendere tempo per riordinare
le idee.
Giunse alfine sulla sponda d'un fiumicello chiamato Rubico (Rubicone) dal colore
rossastro delle acque.
Era il fiume che cercava, quello del de ~ti ncl.
Partc tcrza
?~.
n i cOmmilitoni~ Scribonio CUrlnle lo ole << La
tua vittoria ci farà nuovamente cittadini dl Roma.
OInp gli indugi poiché il partito avverso vacilla.
Il rinvio an; neggia chi è pronto.
Il genero vuol scacciare dal potere I suocero, e tu non puoi dividere il mondo
con nessuno.
De ino ~ uny~ 11 generale era chiuso ir~ rn~io
l~io t
sciuto, assai bello e di alta statura, fu Vlsto sedere u gine del fiume, mentre
suonava un flauto.
Accorsero ad ascoltarlo pastori, soldati e trombettieri.
All'improvviso lo sconosciuto tolse di mano la tromba a uno di questi e,
suonando di gran forza il segnale di battaglia, si slanciò verso il fiume
raggiungendo d'un balzo l'altra riva.
Cesare allora si scosse e ordinò: Si vada.
Il dado è tratto ~>, alea tracta est.
E l'esercito passò il fiume, violando il confine ed entrando in territorio
romano.
La cavalleria era scesa in acqua per prima.
S'era fermata in mezzo al fiume, di traverso, per opporre un argine all impeto
della corrente e consentire ai fanti di transitare più facilmente.
Insieme ai legionari romani guadavano il fiume anche numerose coorti di galli e
di iberici.
Solenne era la scena e gravida di conseguenze, ma nel Bellum civile Cesare non
cita l'attraversamento del Rubicone, un attraversamento che invece tanto
infiamma ogni immaginazione poiché superare quel fiumicello significava passare
dalla repubblica alla monarchia.
Né vi appaiono le sue più celebri parole: <II dado è tratto, certamente
pronunciate in quanto riferite da Asinio Pollione, degno di fede.
Il generale, più semplicemente e concretamente, presenta se stesso già in marcia
verso Rimini: Ariminum cum ea legione proficiscitur.
Era alla testa di cinquemila legionari e trecento cavalieri.
Subito dopo chiamò dai quartieri invernali della Gallia le altre otto legioni,
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
con l'ordine di seguirlo.
La grandezza del momento, proiettata nel futuro, è evocata da Dante in una
celebre terzina: Quel che fe' poi ch'elli uscì di Ravenna/ e saltò Rubicon, fu
di tal volo,/ che nol seguiterìa lingua né penna>.
Alea tracta est, un'esclamazione che comunemente veniva pronunciata da coloro
che si gettavano in un'impresa rischiosa e disperata da cui non si poteva più
tornare indietro, e che Cesare, azzardando quel giorno la conquista del mondo,
rese famosa e immortale.
Essa sorgeva dall'ambiente militare in cui Caio Giulio era immerso.
I soldati romani usavano giocare a dadi durante le tregue e I turni di guardia.
Era il loro svago prediletto, e non c'era nulla di più naturale che Cesare si
richiamasse a quel gioco.
Rifacendosi ai dadi, egli si poneva inoltre implicitamente sotto la protezione
della dea progenitrice dei Giuli.
Venere era anche la dea della fortuna.
Tractus Venerius chiamavano i romani la migliore combinazione del gioco dei
dadi.
Il <. colpo di Venere garantiva la vittoria.
E poi, non diceva Platone che la vita dell'uomo è simile a una partita a dadi?
Cesare, nell'esclamare: Si vada.
Il dado è tratto , non mancò di premettere con sagacia a questa usuale battuta
altre parole ancor più dense di significato. Si vada dove i prodigi degli dèi e
l'ingiustizia dei nemici mi chiamano. Egli accomunava il colpo di Stato al
colpo di Venere.
Faceva appello al volere delle divinità che lo spingevano ad agire, ed era cosa
giusta per un discendente di Venere.
Ma ora, al di là del Rubicone, non si era più ai tempi della prima rivelazione
della parentela divina quando cercava semplicemente di affermare il proprio
prestigio personale.
Il gioco si era fatto pesante e la protezione degli dèi doveva calare su
un'impresa temeraria, degna del più grande giocatore d'azzardo della storia.
Un'impresa che aveva per scopo la fondazione d'una monarchia cui era necessaria
la legittimazione divina per essere sacra e inviolabile.
Rapidamente Cesare, guidando la Tredicesima legione, entrò in Rimini senza
incontrare resistenze.
Parlò alle truppe schierate.
Chiese ai soldati un giuramento di fedeltà, mentre si strappava le vesti sul
petto nello slancio del discorso, a testimoniare quanta pena costasse a un
romano prendere le armi cantro altri romani.
Fece grandi promesse.
Alzando la mano sinistra per mostrare l'anello con l'immagine di Venere che
aveva al dito, esclamò con commozione: Mi priverò volentieri di questo anello
pur di ricompensare tutti coloro che stanno per difendere il mio onore ~.
Così scrive Svetonio.
In realtà Cesare aveva saputo accendere lo sdegno dei legionari non Soltanto in
nome del suo onore offeso, ma soprattutto in difesa dei diritti del popolo che
Pompeo e una mostruosa oligarchia avevano così vilmente umiliati.
L'occupazione di Rimini gettò l'Urbe nella disperazione.
Tutti apparivanO sorpresi dal gesto di Cesare che aveva ardito violare i confini
dello Stato e che ora minacciava di marciare su Roma alla testa di un esercito
entusiasta.
Pompeo fu duramente biasimato in Senato.
Dove erano, gli chiedevano, le legioni sfiduciate e disfatte che non vedevano
l'ora di abbandonare Cesare al suo destino? Come aveva potuto credere alle
fand~nie di Labieno? E adesso come si sarebbero difesi se l'esercito di Pompeo
era in Spagna e le due legioni tolte a Cesare erano percorse da fremiti
antioligarchici? Il pretore Favonio gli si rivolse in piena Curia
rinfacciandogli ogni millanteria: Ebbene~ aspettiamo che tu batta la terra col
piede .
Il popolo manifestava nelle strade.
Molti volevano ancora che ambedue i contendenti lasciassero gli eserciti.
Non c'era altro modo per scongiurare una guerra fratricida.
La plebe era convinta che la crisi fosse precipitata solo perché Pompeo, per
superbia, per cupidigia di potenza e per cecità, non aveva voluto accettare le
proposte concilianti del proconsole.
Il Senato, sempre scosso dai tumulti, decise alfine di inviare ambasciatori a
Cesare, cosa che una prima volta era stata boriosamente respinta.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Arrivarono nel campo di Rimini due messi: Lucio Cesare, congiunto del
proconsole, e il pretore Lucio Roscio.
Parlavano a nome di Pompeo, ma nel campo si diffondeva il sospetto che essi
perseguissero l'obiettivo di prendere tempo per consentire ai pompeiani di
riaversi dalla sorpresa e di organizzare un piano di riScossa.
Pompeo, dissero i due ambasciatori, si scusava con Cesare: il loro generale non
intendeva offendere il proconSole; il Magno aveva agito per il bene della
repubblica anteponendo l'utile dello Stato alle sue relazioni private; poi
soggiunsero che alla stessa stregua Cesare avrebbe dovuto deporre la passione e
non adirarsi così gravemente con i suoi nemici perché, credendo di colpire loro,
nuoceva alla repubblica.
Cesare ascoltò e, per quanto gli apparisse chiaro che quelle parole non gli
dessero soddisfazione, affidò ai messi una risposta molto lunga e articolata con
l'idea di far ricadere sempre più evidentemente su Pompeo ogni responsabilità
del conflitto. La dignità della repubblica, disse, è stata sempre per me la
prima cosa, preferibile alla vita. Ricordò il plebiscito che gli consentiva di
presentarsi al consolato in absentia e come i senatori gli avessero strappato
questa concessione volendo privarlo di sei mesi di governo per costringerlo a
tornare a Roma da privato cittadino.
Ricordò inoltre la sua proposta di lasciare insieme gli eserciti, lui e Pompeo,
e come non aveva potuto ottenere neppure questo.
Anzi i pompeiani arruolavano soldati e muovevano le due legioni sottrattegli col
pretesto della guerra contro i parti. A che cosa mirava tutto ciò se non alla
mia rovina? Comunque io sono ancora pronto a un compromesso e a tutto sopportare
per amore della repubblica. Detto questo, rinnovò le sue condizioni: Pompeo
parta per la provincia di Spagna, entrambi i generali congedino gli eserciti, si
sollevi Roma dalla paura, si liberino i comizi.
Infine propose un incontro tra lui e il Magno: Pompeo venga a me o egli mi
permetta di andarlo a trovare, forse con i nostri colloqui potremo comporre ogni
dissidio ~>.
Pur svolgendo questi tentativi formalmente diretti a raggiungere un compromesso,
Cesare non mancava di far avanzare i suoi eserciti, e faceva bene perché la
risposta di Pompeo non servì a sbloccare la situazione.
Pompeo e gli oligarchi chiedevano infatti una cosa impossibile, volevano che
fosse lui a compiere la prima mossa.
Doveva all~istante lasciare Rimini, riattraversare il Rubicone, tornarsene a
Ravenna e licenziare il suo esercito.
Solo allora il Ma~no, sospesi gli arruolamenti, se ne sarebbe andato a governare
la Spagna.
Era una condizione ingiusta, iniqua condi~to, dichiarò Cesare, che incaricava
Marco Antonio di prendere Arre~ium (Arezzo) con cinque coorti pronte a scendere
lungo la valle dell'Arno.
Altre coorti penetrarono nel Piceno, feudo personale dei Pompei.
L'Urbe era sempre più in subbuglio con il popolo in preda a un incontenibile
sentimento di paura.
La confusione cresceva per il continuo afflusso di fuggiaschi che,
all'avvicinarsi di Cesare, si gettavano in massa nella capitale come torrenti in
piena.
Gli sfollati dormivano sotto i colonnati e nelle strade, i rifornimenti
alimentari erano ormai insufficienti.
Roma già si sentiva aggredita dalle legioni giuliane il cui arrivo si diceva
imminente.
Si immaginavano saccheggi, stragi, stupri e vendette.
La popolazione temeva quei soldati poiché molti di essi, soprattutto i
cavalieri, erano stati reclutati nelle Gallie e fra le tribù germaniche fedeli
al generale. <Arrivano i barbari, urlava la gente nel Foro.
I capi pompeiani agitavano altri spauracchi e dicevano: .-Cesare non è più un
comandante romano, è un nuovo Annibale alle porte di Roma.
Potevano dirlo, anche perché il proconsole ripercorreva lo stesso cammino del
cartaginese.
Il governo dei pompeiani decise di abbandonare Roma senza combattere, e partì il
17 gennaio diretto al sud confessando di non avere le forze necessarie a
difendere efficacemente la città.
Cesare aveva passato il Rubicone da cinque giorni.
La decisione pompeiana di rinunciare all'Urbe fu assai contrastata.
Tutte le critiche si appuntavano ancora una volta sul Magno.
Alcuni lo accusarono di aver tradito la fiducia dei romani - ma non diceva di
avere ai suoi ordini dieci legioni? - e tornarono a proporre un accomodamento
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con l'altro generale.
Si alzò a parlare Catone, ancora offeso per aver perso le elezioni a console.
Gli occhi di tutti erano fissi su di lui.
Rimproverò i senatori di non avergli dato ascolto quando era ancora possibile
annientare Cesare.
Ricordò di averne previsto l'intento che era quello d'impossessarsi di Roma.
Avete trascurato le mie parole, non avete seguito i miei consigli.
E ora, oh cittadini, dovete temere un solo uomo e in uno solo dovete riporre le
vostre speranze di salvezza. Senza discostarsi dal consueto tono tenebroso
delle sue orazioni, concluse dicendo che si era fatto bene ad affidare il potere
assoluto proprio a Pompeo. ..
E dovere di chi compie i grandi errori, il porvi rimedio, esclamò lasciando
l'aula.
Pompeo in tutta fretta raggiunse Capua che era in pratica diventata la nuova
capitale della repubblica.
Doveva mettere in ~lv ~ ~n~rn~ leFittim ~ ;3F ~ lti
Lcll~usurpatore~ garantirgli le migliori e più prolungate ibilità d'azione.
Diceva che la repubblica non era den iro le mura di Roma, ma dove si trovavano i
consoli e i setori Obbligò molti patres e i personaggi più influenti delnobiltà
a seguirlo se non volevano incorrere nell'accusa
dire dei nostri soldati i quali, nel pieno d'un inverno spaventoso, in regioni
selvagge e gelide, hanno concluso la guerra con una passeggiata? ,>.
Tutti scrivevano a Cicerone.
Pompeo gli ordinava di raggiungerlo a Brindisi: Prendi subito la via Appia;
Cesare lo pregava di non fargli mancare il suo aiuto: Vieni da me con i tuoi
consigli, il tuo nome, la tua gloria.
Cesare fu in vista di Brindisi il 9 marzo.
Da cinque giorni il Magno aveva fatto partire alla volta di Durazzo i due
consoli con gran parte dell'esercito, mentre lui si rinchiudeva nella città
difesa da venti coorti.
Cesare disponeva d'una forza di sei legioni, quindi ben superiore a quella del
nemico.
Si fronteggiarono per nove giorni.
Mentre Pompeo faceva murare le porte di Brindisi, b~rricare le vie e le piazze,
scavare fossati rendendoli invalicabili con pali aguzzi conficcati a terra,
Cesare ordinava di gettare nelle acque del porto grossi macigni per chiudere
alle rimanenti forze avversarie la via del mare.
Ma nei punti più esterni, essendo l'acqua troppo profonda, lo sbarramento dei
macigni si rivelò irrealizzabile, si dovette proseguire l'ostruzione con
zatteroni contigui sormontati da torri armate.
Intanto i soldati delle opposte schiere si lanciavano da lontano nugoli di
frecce.
Si intessevano nuovi tentativi di pace in extrernis, ma tanta era la confusione
delle iniziative che nemmeno Cesare ci si raccapezzava più, come dimostrano le
contraddizioni in cui cadde a proposito di una missione svolta da Numerio Magio.
In una lettera dice che fu Pompeo a inviargli questo messaggero, mentre nei
Comrnentari afferma il contrario.
Nella lettera agli amici Oppio e Balbo annuncia di essere arrivato a Brindisi,
di aver posto il campo sotto le mura della città e di aver ricevuto Numerio
Magio che andava a lui con proposte di pace a nome del Magno.
Nel De bello civili scrive tutt'altra cosa, e cioè di essere stato lui a mandare
Magio da Pompeo, e che si era sommamente sor presO di non vederlo tornare con
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una risposta.
Forse la se| conda versione era la più vicina al vero, anche pel'ehé PlutarCo
offre ulteriori particolari in proposito.
Scrive che Nu ~ merio Magio era un seguace di Pompeo caduto prigioniero r del
proconsole il quale gli aveva restituito la libertà incaricandolo di svolgere
una missione pacificatrice presso il fuggitivo.
Ma Numerio si era guardato bene dal tornare nel campo degli inseguitori.
Cesare cercava sempre un accomodamento, o fingeva di cercarlo, per cui inviò un
nuovo ambasciatore al nemico proponendogli ancora una volta un colloquio a
quattr'occhi.
Ma Pompeo rifiutò con il pretesto che, essendo partiti i consoli, non si poteva
in loro assenza trattare un accordo
~h~
!
soli sobillatori.
Se ne individuarono centoventi, e dodici di essi, scelti a sorte, furono
giustiziati.
Ogni altra decisione sul minacciato e infamante congedo della legione fu
rinviata al giorno dell'arrivo in Apulia.
Uno dei centoventi legionari destinati alla decimazione si fece avanti con
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coraggio dichiarando la propria innocenza.
Con molte prove alla mano dimostrò di essere stato incluso senza colpa nella
lista dei sobillatori da un mendace centurione.
E Cesare decise di giustiziare il malvagio ufficiale al posto dell'innocente
soldato fra le urla di gioia dei commilitoni.
Voglio certamente essere amato da voi, disse il generale nella sua concione,
ma non posso conservare questo amore, o milites, a prezzo delle vostre mancanze.
Anche io vi amo, come fossi vostro padre.
Voglio il vostro bene, e non dovete credere che vi lasci fare cose dalle quali
derivino infamia e pericoli. Li esortò a non lasciarsi trascinare da brame di
cui ci si potrebbe un giorno pentire: Chi ha vinto i nemici non deve lasciarsi
vincere dalle passioni insensate.
E aggiunse alzando la voce: Perché mai dico tutto questo? Perché voi non siete
contenti, sebbene siate nell'abbondanza, riceviate premi e compiate fatiche che
vi onorano.
Non mi rivolgo certamente a tutti, poiché non tutti siete dello stesso animo, ma
soltanto a quelli che con la loro cupidigia fanno disonore anche agli altri.
Voi per la maggior parte ubbidite ai miei ordini e osservate le leggi della
patria.
Io ben conosco chi vi disonora.
Nulla sfugge alla mia attenzione.
Ho finto di non accorgermi di loro con la speranza che si sarebbero ravveduti.
Ma ora, vedendo che essi ardiscono sobillare gli innocenti, devo affrettarmi a
castigare i responsabili.
Se non si interviene sulla parte malata, il morbo si propaga a tutto il corpo.
Questo accade tra gli uomini e non meno negli eserciti.
Là dove il castigo non segue subito il crimine, i buoni non ottengono il premio
.
Disse che non si potevano chiamare romani coloro che si comportavano da barbari,
né potevano vantarsi di aver passato per primi il Reno e solcato l'Oceano se poi
si davano al saccheggio della patria come se fosse la Bretagna.
.< Ci siamo astenuti dal danneggiare i galli debellati, e ora deprediamo le
terre al di qua delle Alpi come fossimo cartaginesi o cimbri.
Sono convinto che la mia causa sia quella giusta e spesso ho invitato Pompeo
alla pace.
Spero di attrarre dalla mia parte l'intero popolo romano e tutti gli alleati, ma
se noi ci macchieremo di scellerataggini, io stesso perderò il diritto di
combáttere. Poi disse qualcosa di eterno: ..
Dobbiamo avere grandissima cura della giustizia.
Con essa la potenza delle armi può aver speranza in ogni cosa, senza di essa
nulla è sicuro.
Per essere ancor più convincente, ricorse ad alcune immagini.
Una casa non può esser ben regolata se i maggiori sono spregiati dai minori, e
così come può funzionare una scuola se gli scolari non rispettano i maestri?
Quale speranza di guarire può avere un malato che non esegua le prescrizioni del
medico? Quanto sicura può essere una navigazione se i marinai non obbediscono a!
pilota? Proseguì affermando che la natura ha costituito nel genere umano due
cose necessarie: che gli uni siano posti al comando e che gli altri siano pronti
all'obbedienza: A che mi gioverebbe essere disceso da Enea e da Iulo, aver
esercitato la pretura e il consolato, avervi portato fuor della patria, tenere
il proconsolato per così lungo tempo, se fossi costretto a cedere a taluno di
voi? Qual è mai il terrore che mi ci potrebbe trascinare? Forse la paura che
qualcuno di voi mi uccida? Ecco, il mio petto è nudo.
Preferirei incontrare la morte piuttosto che distruggere la maestà dell'imperium
e rinunciare alla grandezza d'animo richiesta dalla dignità del proconsolato .
Sapeva bene, disse, che tra i suoi legionari c'era chi voleva deporre le armi
perché stanco di combattere e chi intendeva addirittura andarsene da Pompeo.
Concludeva perciò con queste parole: Chi non vuol tenere lontani da sé simili
uomini? Chi non desidera che corra presto dal nemico tale razza di soldati?
Ebbene, questa milizia io stesso licenzio perché non saprei come chiamarla.
Altre mani prenderanno le armi, e voi sarete trattati in base alle leggi della
patria che mi consentono di attuare una severa decimazione .
Sedato l'ammutinamento, Cesare entrò in Roma ai primi di dicembre in veste di
dittatore per iniziativa di Marco Emilio Lepido.
Tutti stavano col fiato sospeso temendo chissà quali vendette e sconvolgimenti.
Incarnerà Silla o Catilina?, si chiedeva la gente nelle strade e nei circoli.
Egli non fu né l'uno né l'altro.
Era Cesare! Tornò nella capitale senza soldati, che aveva fatto proseguire per
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Brindisi, e si diede a riorganizzare la cosa pubblica a suo modo.
Lavorava dall'alba a notte fonda, dormiva pochissime ore e riuscì a varare
un'immensa quantità di provvedimeIrti in soli undici giorni, dal 2 al 13
dicembre.
Tanto breve fu la sua permanenza nell'Urbe poiché grande era la fretta di
riprendere la guerra contro le legioni di Pompeo in Oriente che ormai da un anno
si preparavano allo scontro decisivo.
Per soli undici giorni Cesare fu dittatore, poiché volle ristabilire subito la
legalità nelle magistrature supreme.
Convocò i comizi elettorali che elessero i nuovi consoli per l'anno successivo
ormai alle porte.
Egli fu naturalmente e finalmente eletto al consolato, avendo come collega e
docile alleato Publio Servilio Isaurico, da lui stesso prescelto.
Ancor prima di ascendere alla carica di console, e quindi ancora in nome del
potere dittatoriale, diede luogo a una rapida distribuzione delle cariche più
importanti, secondo i suoi voleri.
Marco Emilio Lepido, che aveva ben governato Roma in sostituzione dei consoli
fuggitivi, fu ricompensato della fedeltà con il governo della Spagna citeriore;
Quinto Cassio Longino fu confermato nel comando della Spagna ulteriore e Marco
Licinio Crasso in quello della Gallia cisalpina; Decimo Bruto, che aveva portato
alla vittoria la flotta giuliana davanti a Marsiglia, ebbe la Gallia
transalpina; andarono infine ad altri suoi seguaci la Sardegna e la Sicilia.
Non si preoccupò soltanto di consolidare il suo potere, ma pose mano anche alla
costruzione di un nuovo Stato attuando le prime riforme politiche e sociali alle
quali mirava da tempo.
Realizzò il suo antico proposito di concedere la cittadinanza romana ai
transpadani e agli abitanti di Cadice; concesse un'ampia amnistia per cui
richiamò a casa gli esuli repubblicani, a esclusione di Milone cui non poteva
perdonare l'assassinio di Clodio, e restituì onori e averi ai figli delle
vittime di Silla.
La situazione economica dell'Urbe era però disastrosa.
Il prezzo del grano e di ogni altro genere alimentare era salito alle stelle, la
circolazione del denaro era scarsa per la tendenza a tesaurizzare come sempre
avviene in tempi di guerra, la moneta era supervalutata, esosi erano gli
interessi sui prestiti.
Il popolo era carico di debiti e non poteva farvi fronte, i creditori ne
pretendevano con asprezza il pagamento in moneta contante e inoltre i beni che i
debitori cedevano a scontare erano scesi a valori irrisori.
I ricchi ottimati erano sconvolti dal timore che Cesare procedesse a una totale
cancellazione dei debiti in ordine alle sue idee di popularis, ma egli si mostrò
moderato nelle soluzioni volendo favorire i poveri senza rovinare i ricchi.
E decise di nominare commissioni censorie con il compito di stimare il valore
dei beni in base ai prezzi d'anteguerra affinché si cedessero ai creditori
secondo questa valutazione.
La plebe mugugnò.
Per rabbonirla ordinò una distribuzione straordinaria di grano e pose un freno
all'usura.
Poi, per contrastare l'accumulo di grandi quantità di denaro che si
raccoglievano in tutta segretezza, emanò un editto che proibiva di tesaurizzare
una somma superiore ai sessantamila sesterzi in contanti.
Infine per rinsanguare la circolazione del denaro trasformò in monete i preziosi
doni sacri custoditi sul Campidoglio e in altri templi.
Poté ricorrere a una così estrema misura approfittando del suo potere di
pontefice massimo.
Quel denaro fresco fu da lui utilizzato anche per pagare le truppe che già
protestavano a causa dei ritardi nella corresponsione della mercede.
Sulle monete fece imprimere l'immagine della Pietas e il suo nome, Caesar, col
titolo di imperator.
Erano quelli i primi pezzi d'argento a lui intitolati e costituirono un momento
fondamentale della sua irresistibile ascesa.
Con l'animo tranquillo, certo di aver bene operato per riportare a Roma pace e
stabilità, il console riprese il viaggio verso Brindisi.
Gli auspici gli si erano mostrati favorevoli.
Prima di lasciare l'Urbe, aveva parlato al popolo dall'alto dei Rostri.
In quel momento uno sparviero, sorvolando il Foro, aveva fatto cadere dal becco
una fronda d'alloro che era andata a posarsi sulla spalla di un littore a lui
vicino.
Era un episodio beneaugurante, si disse, così come si trassero presagi felici
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dalla fuga di un toro destinato al sacrificio nel tempio della Fortuna.
Il toro si era gettato in una vicina palude e l'aveva attraversata a nuoto.
Gli indovini diedero il loro responso: se Cesare fosse rimasto a Roma sarebbe
stato ucciso, se avesse invece passato il mare avrebbe avuto salvezza e
vittoria.
Il console era partito con questo viatico.
In città i ragazzi, trascinati dal vortice degli avvenimenti, giocavano a
Cesariani.~ e Pompeiani.., dividendosi in due partiti che si affrontavano a
sassate, come avveniva ai tempi delle guerre puniche quando si dividevano in
Romani ~ e Cartaginesi ~.
Breve fu la sosta di Cesare nella roccaforte brindisina.
Vi aveva concentrato dodici legioni e la cavalleria, già pronte a salpare
sebbene a ranghi ridotti a causa delle perdite subite in Gallia e nel lungo
viaggio dalla Spagna.
Cesare si lamentava del malsano clima della paludosa Apulia e soprattutto dei
dintorni di Brindisi, un clima che aveva aperto altri vuoti tra le sue file.
Rimpiangeva la salubrità delle terre di Gallia e di Spagna.
La stagione invernale poteva apparire un ostacolo a prendere il mare, e in
verità Pompeo in Grecia contava su questo elemento per continuare in
tranquillità a prepararsi allo scontro.
Il console puntava invece sulla rapidità delle mosse e sulla sorpresa.
Non aveva molte navi a disposizione, un centinaio appena, ma egualmente si
dispose alla grande traversata.
Decise di farsi seguire da non più di sette legioni e mille cavalieri, lasciando
a terra gli schiavi e i bagagli per far spazio ai soldati.
Aveva con sé uomini d'ogni provenienza, e già quella formazione composita dei
suoi eserciti era un'anticipazione del suo disegno unitario, un primo passo
verso l'unificazione, sotto un solo potere, di genti così diverse tra loro.
Lo seguivano le fanterie della Gallia belgica e dell'Arvernia; gli arcieri
provenivano dall'Aquitania; i cavalieri erano galli, germani e ispani, e pure di
ispani era formata la sua coorte pretoria.
Numerosi gladiatori si erano uniti a lui, lo amavano riconoscenti per averli
ognora sottratti alla morte nell'arena dei circhi quando il popolo era
impaziente di veder scorrere il loro sangue.
Nel porto di Brindisi le navi di Cesare erano pronte a salpare le ancore.
Il generale arringò le truppe che si accingevano a inseguire Pompeo.
Le esortò a essere certe della vittoria e a fare affidamento sulla sua
generosità nella distribuzione dei bottini.
Poi, in una notte in cui si era levato un vento propizio, diede l'ordine di
partire.
Era il 4 gennaio del 48.
Il giorno successivo sbarcò sulle coste dell'Epiro a Palaeste (Paljasa).
Fu anzi sbattuto malamente sugli scogli dai venti dell'inverno che si erano
levati furiosi.
Si ritrovava a sud di Aulon (Valona), tra due forti basi navali pompeiane, tra
Corcyra (Corfù) e Oricum (Paleocastro).
Poteva perfino dire che gli era andata bene in quanto durante la traversata non
si era imbattuto nei vascelli nemici.
Del resto Bibulo, il comandante della flotta pompeiana, mai avrebbe potuto
pensare che C~esare si sarebbe azzardato ad attraversare il mare in una così
tempestosa stagione.
Il console, appena preso terra, rispedì le navi in Italia a caricare il resto
dell'esercito, e questa volta Bibulo, messo sull'avviso, poté intercettarne una
trentina.
Le trovò vuote avendo esse appena cominciato il viaggio di ritorno verso la
penisola.
Bibulo sfogò la sua rabbia incendiandole e lasciando morire tra le fiamme gli
equipaggi.
Con le sue sette legioni a ranghi ridotti, Cesare doveva affrontare il ben più
poderoso esercito pompeiano che si componeva di undici le~ioni al £~ran
completo, in parte arruola~e in ItAlia e in parte sul luogo.
La supremazia di Pompeo sui mari era poi assoluta.
Si basava su una flotta di seicento navi alle quali il console non ne
contrapponeva che un centinaio.
La spedizione di Cesare aveva dunque tutte le caratteristiche d'un'avventura,
d'un azzardo pericoloso.
Avveniva in una situazione particolarmente critica per l'esercito giuliano.
Ma il costume di Cesare era sempre quello di sfidare la sorte, di tentare
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l'impossibile.
Ben presto, con veloci manovre, il console fu sotto le città di Orico e di
Apollonia le cui popolazioni si arresero.
Marciò quindi su Durazzo dove Pompeo aveva apprestato le sue più valide difese.
I due eserciti si fronteggiarono a lungo, per oltre due mesi e mezzo, senza che
nessuno dei due generali ardisse dare battaglia per primo.
Cesare fece nuove profferte di pace cui però nessuno più credeva, e meno di
tutti Pompeo.
Il console con monotonia rifece per l'ennesima volta il conto dei vantaggi e
degli svantaggi che il proseguimento della guerra avrebbe comportato per l'una e
l'altra parte, rilevando che il bene della repubblica richiedeva una pace
immediata.
Ma la pace appariva ancora irrealizzabile condizionata com'era al contemporaneo
abbandono dei due eserciti entro tre giorni.
Sempre in base alla proposta di Cesare i due generali, deposte le armi,
avrebbero dovuto peraltro inchinarsi alle decisioni del popolo e del Senato.
Pompeo giudicò il tutto come un nuovo tranello, ed era difficile dargli torto.
Egli sapeva di non poter contare sull'appoggio del popolo romano e si rendeva
conto di quanto nella capitale sarebbe stata debole la sua posizione politica al
cospetto di un Cesare investito della potestà consolare.
All'ambasciatore di Cesare, il Magno rispose sdegnato: Che cosa mi importa di
una vita o di una pace se parrà che io l'abbia avuta dalla generosità di Cesare?
.
Pompeo sperava di poter fiaccare la resistenza del nemico tenendolo bloccato
davanti a Durazzo, sulle rive dell'Apsus (Semeni).
Gli impediva con la flotta di ricevere viveri e rinforzi armati dall'Italia,
mentre egli si riforniva dalla Macedonia dove aveva posto il suo quartier
generale elevando la città di Tessalonica a sede di quella parte del Senato che
lo aveva seguito.
Il nuovo comandante della marina pompeiana era Scribonio Libone, succeduto a
Bibulo che era morto per le tribolazioni della guerra.
Libone perlustrava le acque con accanimento, e quindi le residue legioni
cesariane non ardivano lasciare l'Italia.
Cesare temeva, come spesso avviene nelle guerre civili, che volessero rimanere
neutrali per poi gettarsi tra le braccia del vincitore.
E allora decise di attraversare l'Adriatico e di correre a Brindisi per condurle
egli stesso nell'Epiro.
Tenne però segreto il suo proposito.
Una sera a cena, dicendosi stanco, finse di ritirarsi anzitempo sotto la tenda.
Il suo viaggio doveva essere ignoto a tutti, anche agli amici, se voleva
sfuggire alla vigilanza delle spie pompeiane.
Raggiunte in piena notte le rive dell'Apsus, s'imbarcò travestito da schiavo su
un piccolo battello con destinazione Brindisi, noleggiato per l'occasione da tre
suoi servi.
Tempestose erano quella notte le acque del fiume, e all'uscita di esso la
tartana rischiò addirittura di essere capovolta dalla violenza delle onde marine
che la ricacciavano indietro.
Il pilota s'impaurì, e aveva già dato l'ordine di tornare a terra quando lo
schiavo sconosciuto, che se ne era stato fino a quel momento rannicchiato e
silenzioso in un angolo dell'imbarcazione, sorse in piedi.
Avvicinandosi al nocchiero esclamò con tono deciso: (<Coraggio, uomo valente,
non cedere.
Tu porti Cesare e il suo destino.>.
Il pilota, commosso, fece ogni sforzo per proseguire la navigazione, ma troppo
forte era l'impeto dell'uragano.
Un rapace turbine .> involò le fragili vele per cui si dovette rinunciare alla
traversata.
Il console era sempre in attesa che arrivassero le legioni ancora ferme a
Brindisi agli ordini di Marco Antonio.
Avevano sciupato troppo tempo e Cesare inviò una severa lettera ai suoi, ad suos
severius scripsit, come egli stesso ricorda, affinché cogliessero il primo vento
propizio senza perdere altre occasioni di navigare.
Nell'Epiro l'esercito giuliano era ancora trattenuto sulla sponda dell'Apsus a
fronteggiare le forze pompeiane.
Le piogge avevano allagato l'intera campagna e gli acquitrini rendevano
difficili i movimenti.
I soldati dalle opposte rive del fiume avevano cominciato a scambiarsi alcune
amichevoli frasi, da concittadini.
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I pompeiani sulla destra del fiume e i cesariani sulla sinistra.
Molti fra loro si conoscevano o erano amici, e si dolevano di doversi fare la
guerra in quelle regioni lontane, mentre a Roma sarebbero stati fratelli.
Dalla riva del fiume il legato di Cesare, Publio Vatinio, gridava speranzoso ai
soldati pompeiani: Vogliamo mandarvi degli ambasciatori, cari concittadini.
Dall'altra parte gli rispondevano: La cosa è possibile.
I legionari erano già invasi dalla gioia, quando sopraggiunse Labieno.
Prese a inveire contro Vatinio e poi, allontanandosi dal fiume, esclamò:
Smettetela di parlare di accordi.
Non si potrà fare la pace se prima non ci viene portata la testa di Cesare.
Col passare delle settimane la situazione dei cesariani peggiorava.
Scarseggiavano i viveri ed era sempre più difficile ottenere rifornimenti
dall'Italia.
Il morale delle truppe era assai basso, quando alfine si ebbe la notizia che
erano arrivati i soldati di Marco Antonio: quattro legioni e ottocento
cavalieri.
Lo sbarco era avvenuto a nord di Durazzo invece che a sud, a causa dei venti
contrari.
I due tronconi dell'esercito cesariano si trovarono così separati, avendo nel
mezzo le truppe di Pompeo.
Una condizione del genere poteva essere positiva o negativa al tempo stesso, ma
il console preferì puntare sul ricongiungimento delle due parti, cosa che
avvenne rapidamente.
Nelle manovre che ne seguirono il Magno perse il contatto con Durazzo, cioè con
il retroterra, mentre conservava lo sbocco al mare, per cui non gli mancavano i
rifornimenti essenziali alla sopravvivenza.
Cesare, visto che Pompeo evitava di accettare battaglia, ebbe tutto il tempo di
costruire intorno all'accampamento nemico una serie di fortificazioni come aveva
fatto contro Vercingetorige nell'assedio di Alesia.
Il lavoro di fortificazione era disturbato dai pompeiani che muovevano nuclei di
arcieri e di frombolieri.
I cesariani si riparavano dai colpi indossando imbottiture e tuniche di cuoio.
Pompeo continuava a sottrarsi a una battaglia generale sempre convinto che i
cesariani avrebbero alla fine ceduto per consunzione.
Nel campo di Cesare le scorte di viveri erano terminate.
I soldati ormai si nutrivano di foglie strappate agli alberi.
Mangiavano una sorta di radice di erbe chiamata chara.
La mettevano a macerare nel latte e ne facevano un pane dal sapore acre, non
proprio disgustoso, e che comunque, pur bruciando la gola, placava il tormento
della fame.
Quei pani diventarono uno strumento di propaganda cesariana.
Ai soldati di Pompeo che gridavano ai loro avversari: Arrendetevi.
State morendo di fame , i cesariani rispondevano lanciandogli contro i pani di
chara per dimostrare come fossero disposti a compiere qualsiasi sacrificio.
Pompeo capì il pericolo di quella strana arma propagandistica e ordinò di
raccogliere e di far sparire i pezzi di pane d'erba perché le sue truppe non si
scoraggiassero allo spettacolo di tanta tenacia offerta dal nemico.
Dando quest'ordine commentava: Abbiamo a che fare con delle belve ,>.
L'ostinazione dei giuliani stava per essere premiata.
Difatti già il grano cominciava a maturare e i soldati avrebbero potuto nutrirsi
più umanamente.
Con soddisfazione Cesare scrive nei Commentari: Iamque frumenta maturescere
incipiebant .
I cesariani ripresero coraggio, si misero di buona lena a deviare il corso dei
fiumi per togliere l'acqua all'accampamento nemico.
La situazione si rovesciava, ora in difficoltà erano i pompeiani così a lungo
assediati.
Le loro sofferenze crescevano paurosamente, la sete era ormai insopportabile, si
diffondevano le malattie, le carogne dei cavalli e dei muli morti di sete
spandevano tutto intorno un lezzo nauseante.
Pompeo si vide costretto a uscire dal suo immobilismo.
Aveva sperato di sconfiggere il nemico con la tattica del logoramento, e invece
era lui a dover subire le conseguenze di un assedio prolungatosi contro ogni
previsione.
Rischiava di cadere vittima della sua stessa tattica.
Così decise di tentare lo sfondamento del blocco.
Ciò comportava una battaglia generale, cosa che Pompeo per ben diciotto mesi
aveva evitato.
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Agli inizi di luglio attaccò le formazioni nemiche in più punti occupando
posizioni fa vorevoli.
In un solo giorno vi furono sei battaglie, sia sotto Durazzo sia sotto le
fortificazioni giuliane.
Fortissimo fu l'impeto dei pompeiani che lanciarono tremila frecce contro la
sola ridotta di Cesare.
Il generale si difese validamente, i suoi centurioni si coprirono di gloria.
Quattro di essi rimasero accecati dai dardi del nemico.
Cassio Sceva, un centurione già famoso per le gesta compiute sul Rodano e in
Britannia, incoraggiò i timorosi, benché gravemente ferito.
Dava l'esempio battendosi come una pantera.
Un dardo gli cavò un occhio, ma non ne arrestò la furia.
Sul suo scudo si contarono centoventi fori provocati dalle frecce pompeiane.
Il console lodò assai il giovane ed eroico Sceva per aver ben meritato della
repubblica, gli donò duecentomila sesterzi e lo promosse sul campo.
Quel centurione diventava il simbolo della vittoriosa difesa cesariana, e
difatti Pompeo a sera tornò nei suoi accampamenti senza aver potuto forzare
l'assedio.
Il Magno ritentò l'operazione pochi giorni dopo, e questa volta ebbe successo al
punto che Cesare, mutando tattica, tolse il blocco a Durazzo per ripiegare su
Apollonia e poi raggiungere la Tessa~lia dove si sarebbe incontrato col
luogotenente Domizio Calvino per sbarrare la strada ai rincalzi pompeiani che
provenivano dall'Asia.
Lo scontro di Durazzo, che chiudeva la prima fase della lotta frontale fra i due
grandi condottieri, segnava una pesante sconfitta per Cesare le cui perdite
furono sensibili: novecentosessanta legionari, trentadue centurioni, cinque
tribuni militari.
Il nemico si impossessò inoltre di trentadue insegne.
Molti soldati cesariani si diedero alla fuga, trovando in gran parte la morte
schiacciati nelle fosse o nei terrapieni o sulle sponde del fiume in un clima di
terrore.
Il console tentò di far rientrare i superstiti in battaglia, ponendosi davanti a
loro.
Ma tutto fu inutile.
Anzi un fuggiasco, per aver via libera, osò alzare la daga su di lui e lo
avrebbe certamente colpito se lo scudiero di Cesare non lo avesse anticipato
troncandogli di netto una spalla.
Labieno fece innumerevoli prigionieri e li trucidò con barbara ferocia.
Ancora una volta Pompeo non spinse fino in fondo la battaglia, non sfruttò
appieno la vittoria, non si pose all'inseguimento del nemico battuto.
E Cesare poté dire: Oggi i pompeiani avrebbero colto la vittoria definitiva se
avessero avuto dalla loro parte un generale che sapesse vincere .
Il grave rovescio non lo scoraggiò.
Aveva già in mente un nuovo piano.
Raccolse le truppe e le arringò con vigore, incoraggiandole a proseguire la
guerra verso la vittoria finale.
Fu molto persuasivo: Non lamentatevi.
Ringraziate piuttosto la fortuna per aver conquistata l'Italia senza perdita
alcuna; per aver sottomesso le due Spagne,
contro gente bellicosissima, esperta e addestrata; per esservi impadroniti delle
province confinanti assai ricche di grano.
Ricordatevi con quale fortuna, in mezzo alle flotte nemiche, avete sani e salvi
attraversato il mare.
Se non sempre gli eventi sono favorevoli, bisogna darsi da fare per riparare
alla malasorte.
Dei danni attuali si può incolpare chiunque, ma non me.
Io avevo ra~iunto una posizione vantaggiosa per combattere, mi ero impadronito
del campo, avevo scacciato e sgominato i difensori.
Se un nostro smarrimento o qualche errore o anche il caso vi hanno tolto una
vittoria già acquisita e sicura, tutti ora dovete con il valore fare il
possibile per rimediare al danno subìto.
Se faremo questo, la sconfitta si muterà in vantaggio come avvenne a Gergovia.
E quelli che hanno avuto paura di battersi si offriranno spontaneamente alla
battaglia~.
Pompeo, dunque, non si diede a inseguire le legioni di Cesare che lasciando
l'Epiro ripiegavano verso la Tessaglia.
I pompeiani, imbaldanziti dalla vittoria, erano già convinti di aver vinto la
guerra ed esaltarono il successo nei messaggi inviati agli alleati.
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Fra i duecento senatori al seguito del Magno, molti pretendevano che egli
approfittasse della situazione per tornare in Italia e riconquistare Roma.
Egli stentava a convincerli dell'assurdità di tali propositi.
Diceva di non poter lasciare la Grecia senza aver prima colpito al cuore Cesare.
Se fosse ripartito avrebbe perso la fiducia e il sostegno degli alleati
orientali e avrebbe corso il rischio di veder tornare in Italia quel Cesare che
credevano definitivamente sconfitto.
Non sarebbe stato difficile al console usurpatore~ risalire le terre
dell'Illiria che gli erano rimaste fedeli e accorrere ad affrontare i pompeiani
sot~o le mura dell'Urbe.
Si accendevano discussioni a non finire.
Pompeo era criticato da ogni parte per la conduzione della guerra, e non solo in
tema di strategia bellica si accapigliavano i senatori.
Tuttavia la certezza della vittoria li inebriava.
Già si spartivano le spoglie del potere che non avevano ancora strappato dalle
mani del nemico.
Chi sarebbe stato il nuovo pontefice massimo in sostituzione di Cesare
sconfitto? Tre erano i maggiori pretendenti alla dignità sacerdotale: Domizio,
Scipione, Lentulo Spintere, e ognuno di essi era convinto di averne diritto o
per il sostegno dell'Urbe o per essere suocero di Pompeo o grazie all'età.
Nei loro litigi
non avevano alcun ritegno di affrontarsi a gran voce con epiteti offensivi e
accuse infamanti.
Lentulo si mostrava particolarmente ingordo e fiducioso da assegnare a se
stesso, fin da quel momento sotto le mura di Durazzo, i giardini che Cesare
possedeva sul Gianicolo e la sua villa di Baia.
Molti ufficiali incaricarono i loro agenti di accaparrare a Roma belle
abitazioni consone alla dignità di un proconsole, certi com'erano di tornare
presto nell'Urbe da vincitori.
~, La tattica del Magno, anche dopo Durazzo, tendeva |,~ sempre a logorare il
nemico facendogli mancare, con le i~ ~ sortite della cavalleria, i rifornimenti
ed evitando di mettere tutto in gioco negli scontri frontali degli eserciti.
Cesare ripiegava verso la Tessaglia e Pompeo lo seguiva distanziato per aver
sciupato il vantaggio della recente vittoria.
Nel corso del ripiegamento Cesare seppe essere ancora una ~- volta clemente e
spietato.
Saccheggiò Gomphi (Palaeo-Epi'~ ~ skopis) che aveva osato opporgli resistenza,
usò invece ogni riguardo con tutte le altre città tessaliche che, intimorite,
gli avevano spalancato le porte.
Non assalì Larissa entro la quale si erano raccolte le legioni capeggiate dal
suocero di Pompeo, Metello Scipione.
Un po' più a sud di Larissa, nella valle del fiume Epineo, Cesare si dispose
nuovamente alla guerra in attesa del nemico il cui esercito si ricongiunse
appunto a Larissa con le truppe di Scipione,
t convocati i comizi centuriati che del resto dovevano essere Dresieduti da lui~
e non si poté procedere alla elezione dei consoli.
Aumentavano invece i suoi poteri per decisione dello stesso Senato che ormai si
mostrava docile e remissivo.
Gli era stata riconosciuta anche la facoltà di dichiarare
a piacimento lo stato di guerra e di decidere sulla sorte dei nemici pompeiani.
Col suo ritorno nella capitale si convocarono finalmente i comizi, ed egli
stesso fu eletto console, console unico, per la durata straordinaria di un
quinquennio, a cominciare dall'anno successivo.
I disordini andavano placandosi, l'immagine della città era meno fosca, sebbene
ancora covassero qua e là focolai di rivolta e fosse più che mai necessario
risalire alle origini delle inquietudini.
La sua sola presenza aveva indotto a miti consigli anche i più facinorosi e
ribelli, come lo stesso Dolabella che chiese perdono per i suoi indicibili colpi
di testa.
In Campania però le legioni ancora si agitavano.
Fu spedito presso di loro il neopretore Sallustio Crispo, che si sarebbe poi
dedicato alla storiografia e soprattutto alla vita sfarzosa attingendo alle
ricchezze accumulate con estorsioni e malversazioni d'ogni genere.
Tentò di rabbonire i rivoltosi con l'assicurazione di aggiungere ai premi già
promessi mille denari a testa.
Egualmente i legionari lo minacciarono di morte, e a stento riuscì a fuggire
dagli accampamenti e a mettersi in salvo nella capitale dove fece a Cesare un
quadro drammatico della situazione militare.
I suoi inseguitori lo tallonarono fino alle porte di Roma.
Lungo la strada sfogarono la loro rabbia su cittadini inermi uccidendo anche due
senatori.
Grande fu la sorpresa dei romani quando si avvidero che sotto le mura della
città si era raccolto un vero e proprio esercito in rivolta pronto a penetrare
nell'Urbe, armi in pugno.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Tanti erano gli inseguitori di Sallustio.
Il dittatore inviò agli insorti alcuni messa~geri per chiedere che cosa
volessero.
La risposta fu: <.Vogliamo parlare con Cesare>,.
Era un buon inizio, e Cesare ne approfittò.
Giocò d'astuzia sapendo come prendere i suoi soldati.
Era pronto a incontrarli, disse, ad accoglierli in Campo Marzio, ma per entrare
in città dovevano deporre le armi fuori le mura.
I rivoltosi accettarono e si riversarono urlanti in massa nella grande piazza,
mentre le porte d'ingresso venivano presidiate dai pretoriani e dai fedeli
militi della Sesta legione.
Cesare si presentò a sua volta senza armi, con atteggiamento tranquillo.
Al suo apparire tutti ammutolirono, ed egli, dopo qualche attimo in cui rimase
pensieroso, esclamò: Parlate, vi ascolto .
Avanzarono in silenzio i più sfrontati fra i ribelli.
A pochi passi da lui presero a esporre le loro richieste e a lamentarsi con toni
drammatici.
Ricordavano le guerre combattute, le fatiche sostenute, i pericoli affrontati;
mostravano le loro ferite; chiedevano, alzando la voce, il pagamento del premio
cui avevano diritto e un immediato congedo.
Pensavano così facendo di spaventare il loro generale nell'imminenza d'una nuova
guerra in Africa.
Credevano di indurlo ad accettare qualsiasi condizione non potendo egli fare a
meno dei soldati.
Ma Cesare, mantenendosi quieto e sicuro, esclamò: Chiedete il congedo? Ebbene,
siete congedati, o quirites.
A quelle parole un moto di smarrimento attraversò i loro animi.
Cesare incalzò: Avrete i vostri premi quando avrò celebrato il mio trionfo con
soldati che non sarete voi ".
Nuovo moto di sconcerto e il gioco era fatto, i legionari erano ammansiti.
Cesare, fingendo di considerarli congedati all'istante, non li aveva chiamati
milites, come si usava con i soldati in servizio, ma semplicemente quirites,
come si conveniva a privati cittadini.
All'improvviso la scena mutò radicalmente.
I legionari smisero di protestare e cominciarono a implorare il perdono. .~Siamo
milites, gridavano, e vogliamo rimanerlo.
Cesare, portaci in Sicilia, portaci in Africa.
Siamo con te. "
Prima di muovere per la nuova guerra, cercò di riordinare a suo modo la macchina
dello Stato, dando ancora una volta prova d'una grande capacità di lavoro e
d'una inverosimile rapidità nelle decisioni, decisioni che però erano state a
lungo maturate Estese oltre misura il suo potere consolare sia favorendo
l'elezione di suoi sostenitori nei punti-chiave dell'amministrazione, sia
facendosi direttamente attribuire sempre nuove dignità.
Fu ascritto tra gli àuguri, fu autorizzato a sedere a vita fra i tribuni della
plebe, fu investito della facoltà di nominare i governatori delle province.
Al tempo stesso ampliò a proprio vantaggio il numerO dei pretori e dei
sacerdoti; fece entrare in Senato prefetti militari, centurioni, cavalieri di
bassa estrazione sociale e perfino provinciali come galli e spagnoli a lui
fedeli, rivoluzionando la composizione dell'assemblea tradizionalmente formata
da patrizi.
Infine tenne a bada la plebe, che ormai si aspettava la totale cancellazione dei
debiti, con misure parziali e moderate che però aprivano le porte a soluzioni
più radicali- Accolse solo in parte alcune delle proposte avanzate da Celio e
Dolabella, autorizzando la sospensione del pagamento degli affitti per un anno,
limitatamente agli inquilini più poveri.
I patrizi concentravano le forze dei fuorusciti pompeiani sia in Africa sia
nella Spagna ulteriore e Cesare avvertiva l'esigenza di affrontarli prima che si
riprendessero dall'intontimento di tante sconfitte.
Alla testa delle truppe anticesariane era asceso Tito Labieno, affiancato in
Africa da Catone, da Marco Petreio, dal suocero e da due figli di Pompeo.
Cicerone si era invece dissociato da loro, ma per farlo aveva atteso il rovescio
di Farsalo.
Non c'era più speranza di vittoria, diceva, e con questa convinzione rifiutò il
comando dell'esercito che gli offrivano.
Allora lo chiamarono traditore, lo assalirono con le spade sguainate e lo
avrebbero ucciso se non fosse intervenuto Catone a difenderlo.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Cicerone corse sulla via di Brindisi per incontrare Cesare che tornava a Roma.
Fra i due personaggi si svolse un colloquio più cordiale e costruttivo
dell'incontro inconcludente che avevano avuto un paio d'anni prima a Formia.
Cesare fu gentile con lui.
Vedendolo arrivare scese da cavallo, gli andò incontro e lo abbracciò.
Poi si appartarono e parlarono a lungo passeggiando lentamente.
Cesare, che pensava di averlo conquistato per sempre alla sua causa, gli fece
molti complimenti e paragonò la sua eloquenza a quella dei grandi oratori greci.
In Africa gli anticesariani si erano uniti a Giuba, re di Numidia, personaggio
crudele e arrogante che sognava di annettersi l'Africa romana, mentre i nemici
di Cesare si illudevano di aver conservato su quei lidi la repubblica e di
poterla riportare, un giorno non lontano, a Roma.
Disponevano in effetti di forze considerevoli, pari a quattordici legioni, che
si erano affiancate alle truppe del sovrano numida.
Sempre con l'idea di sorprendere il nemico, Cesare, dopo essersi fermato a Roma
meno di tre mesi, mosse verso l'Africa in pieno inverno, quando nessuno pensava
che egli avrebbe osato affrontare i mari tempestosi nella cattiva stagione.
A qualche giorno dal solstizio d'inverno, il 25 dicembre, cogliendo il vento
favorevole lasciò Lilybaeum (Lilibeo, in Sicilia), per puntare sulle coste
africane.
Era partito da Capua.
Seguendo una strada militare lastricata raggiunse la punta estrema della
Calabria, per poi prendere il mare e approdare appunto a Lilibeo, luogo del
raduno, in preparazione del grande balzo.
Aveva con sé sei legioni e duemila cavalieri, ma durante la navigazione le navi
incapparono in un violento fortunale.
Metà della flotta andò dispersa.
Soltanto tremila soldati e millecinquecento cavalieri poterono prendere terra a
Hadrumetum (Susa, nell'odierna Tunisia).
Cesare scese dalla sua grande nave profondamente colpito da quegli eventi.
Pensieroso, nel toccare terra davanti alle truppe schierate, inciampò e cadde
prono.
I soldati diedero in un urlo giudicando la caduta un avverso segno del cielo, ma
il generale volse a proprio favore il presagio con una pronta esclamazione:
Teneo te, Africa, ti tengo, Africa, e così dicendo baciò la terra, come se non
fosse caduto, ma avesse voluto di proposito toccare il suolo con le mani e le
labbra per impossessarsene simbolicamente.
I legionari accolsero la scena con alte grida di gioia.
Il resto dell'esercito vagò per più giorni nei mari sulle navi sballottate dalle
onde, prima di poter a sua volta approdare e dar man forte a Cesare che era
impegnato in una difficile battaglia a Ruspina, nei pressi dell'attuale
Monastir.
Una profezia del luogo affermava che gli Scipioni in Africa erano destinati a
rimanere sempre invitti e felici.
Il comandante nemico era Metello Scipione, suocero di Pompeo, e allora il
console, tra il serio e il faceto, volle contrapporgli un altro Scipione il
quale, pur essendo un discendente dell'Africano, era un personaggio senza
valore.
Gli storici antichi riferiscono che questo Scipione era chiamato Salvitone in
segno di obbrobrio, ma non spiegano il significato del nomignolo.
Comunque Cesare, durante la guerra africana, lo mise alla testa del suo esercito
o per burlarsi dell'altro Scipione, il comandante nemico, o per tenersi
effettivamente al riparo della predizione.
Metello Scipione, il vero Scipione, ripeté in Africa la tattica di Pompeo Magno
per cercar di logorare Cesare privo com'era di rifornimenti.
Evitava di ingaggiare battaglie frontali che potevano avere esiti decisivi, e
nel frattempo le truppe giuliane vedevano aggravarsi i loro disagi.
Cesare mancava di foraggio per i cavalli.
In situazioni disperate li sfamava con alghe marine dissalate mediante lavaggi
in acqua dolce.
Finalmente Metello Scipione, inorgoglito dai danni inferti ai cesariani, decise
di affrontare il nemico in una grande battaglia.
In preparazione di ciò si mise a costruire fortificazioni nei pressi della città
di Thapsus (Tapso), per poter disporre d'un luogo dove raccogliere le forze e
quindi muovere all'attacco.
Ma il console fu più rapido di lui.
Era sì accerchiato dalle truppe di Scipione, di Giuba e di Labieno-Afranio, ma
con veloci azioni riuscì a sorprenderle.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Si gettò su di loro sbaragliandole.
Gli elefanti da guerra del re Giuba, bersagliati dai cesariani, si spaventarono
e invece di avventarsi sul nemico retrocessero e travolsero infuriati la
fanteria di Metello Scipione.
Era il 6 aprile del 46.
L'impeto e la fulmineità con cui le legioni giuliane aggredirono i pompeiani
fecero supporre che quei soldati avessero attaccato il nemico senza attendere
l'ordine di battaglia del loro comandante.
Si diceva che il segnale fosse partito da un audace trombettiere che aveva
suonato la tromba avendo colto il momento favorevole all'assalto.
Ci fu in effetti una mossa istintiva, e Cesare probabilmente non la frenò
rendendosi conto che proprio quella spontaneità era la migliore garanzia di
vittoria.
Si affrettò quindi a urlare la beneaugurante parola d'ordine: Felicitas ~.
Plutarco riferisce l'opinione di alcuni storici secondo i quali Cesare realmente
non prese parte alla battaglia di Tapso perché, mentre schierava l'esercito, fu
colpito dal suo solito male, l'epilessia .
Ne aveva avvertito i sintomi e fece appena in tempo a farsi trasportare su
un'alta torre vicina, prima di cadere completamente in preda alle convulsioni.
L'espressione solito male fa pensare che Cesare fosse di frequente vittima di
attacchi epilettici.
In realtà ci sono poche testimonianze in proposito.
Lo stesso Plutarco, insieme a Svetonio, parla di altre due sole cadute e le
colloca nel 49, a Cordoba, e nel 44, a Roma, pur scrivendo più genericamente che
soffriva di frequenti mali di testa.
Ai tre casi ben individuati si aggiunge un quarto episodio cui si richiama Dione
Cassio localizzandolo nel 45 in Spagna.
Nel complesso si può dire che il temperamento di Cesare, ch'era quello d'un uomo
sommamente equilibrato, contrastasse con la natura propria degli epilettici
caratterizzata da irascibilità e repentini rnutamenti d'umore.
Né va trascurato il fatto che Cicerone nel suo attento e immenso epistolario non
abbia mai accennato a questo male in rapporto a Cesare.
I romani chiamavano l'epilessia morbus sacer.
Lo facevano dipendere dagli dèi, ma considerandolo un segno di malaugurio,
rimandavano i comizi quando uno dei suoi partecipanti veniva colpito da un
attacco epilettico.
Da questa usanza il male aveva preso anche il nome di morbus comitialis.
Sia stato o no Caio Giulio il protagonista principale della vittoria di Tapso,
rimane il fatto che luttuose furono per i pompeiani le conseguenze della
battaglia.
Metello Scipione e il re Giuba lasciarono sul campo cinquantamila morti, mentre
i giuliani non persero più di cinquanta uomini, a prendere per buoni i conteggi
di Plutarco.
Lo scontro ebbe altri esiti non meno drammatici per i nemici di Cesare.
Ci furono fughe disonorevoli e suicidi.
Metello Scipione prendeva il largo su una nave, ma, raggiunto dalla flotta
giuliana, si trafisse con la spada per non cadere prigioniero.
Lucio Afranio fu invece catttlrato e quindi sgozzato.
Marco Petreio e il re Giuba decisero di affrontarsi in un duello mortale al
termine d'un maestoso banchetto funebre.
All'incrociare delle armi, Petreio fu ucciso da Giuba, mentre questi, che a sua
volta non intendeva sopravvivere, si fece infilare da uno schiavo la spada nel
petto, quella stessa spada con cui un attimo prima aveva colpito Petreio.
Gli scampati da Tapso si riversarono nella vicina Utica, capitale della
provincia romana in Africa, governata da Catone.
Il popolo cadde in preda al terrore nell'apprendere la ferale notizia della
sconfitta di Tapso, e il governatore durò fatica a riportarvi un simulacro di
calma correndo da una parte all'altra della città.
Sperava di poter apprestare una resistenza riorganizzando le truppe sfuggite
alla carneficina di Tapso e liberando gli schiavi per farne nuove coorti.
Li esortava a tener duro, e si può credere che andasse ripetendo con ostinazione
un incitamento, Tyrannidem esse delendam ~>, come un'eco all'altro Catone che
reclamava la distruzione di Cartagine.
Urtò contro l'opposizione dei rappresentanti dei cittadini romani residenti in
Utica, e il suo piano fallì.
L'ira di Catone veniva sconfitta dal loro egoismo.
Quei romani d'Utica erano in gran parte negozianti, mercanti e banchieri che
prestavano il denaro a usura.
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Il governatore, avendo capito che non c'era più niente da fare, si ritirò nelle
sue stanze.
Era deluso e amareggiato.
Fece un lungo bagno, invitò gli amici migliori a cena e con loro parlò di
filosofia.
Aveva deciso di togliersi la vita quella notte stessa, ma durante il banchetto
tenne nascosto il suo proposito, sicché la discussione si svolse gradevolmente,
fino a quando gli ospiti cominciarono a intuire dalle sue parole la fine che
egli covava nell'animo.
Si diffuse nella sala l'afnizione, e tristi furono i commiati, sebbene Catone
desse a vedere di essere sereno e tranquillo.
Anche quella sera passeggiò lentamente per alcuni minuti in giardino, come usava
fare dopo il pranzo.
Poi si chiuse nella sua camera, dove s'immerse nella lettura d'un dialogo
platonico, 11 Fedone.
In esso Socrate, prossimo a morire per mano di un carceriere che gli porta la
cicuta, cerca di dimostrare l'immortalità dell'anima.
Come l'ateniese, anche Catone pensava che morendo sarebbe guarito dalla malattia
della vita.
Afferrata la spada che aveva in capo al letto, la estrasse dal fodero, se la
immerse nell'addome.
Emise un rantolo e cadde a terra insanguinato.
Al tonfo accorsero il figlio e il medico Cleante il quale cercò di salvarlo.
Rimise a posto le viscere uscite dallo squarcio che richiuse e fasciò.
Ma poco dopo Catone, ripresa coscienza, si tolse le bende e riaprì atrocemente
con le mani la ferita, per cui la morte ineluttabile lo colse fra strazianti
dolori.
Venne chiamato da quel momento con l'appellativo di Uticense che lo distingueva
dal bisavolo il Censore.
La sua scomparsa coincideva con il tramonto della repubblica che crollava sotto
i colpi di Cesare.
Egli aveva giudicato saggio togliersi la vita.
Cicerone commenta il fatto scrivendo che Catone aveva preferito darsi la morte
piuttosto che vedere il volto della tirannia, moriendum ei potius quam tyTanni
vultus adspiciendus fuit.
Altri dicevano che egli s'era tolta la vita temendo l'arrivo di Cesare.
Era più facile pensare che Catone con gesto stoico gettava il sangue del suo
sacrificio sul nuovo ordine nascente per mostrarne l'estrema pericolosità.
Cesare uccideva la libertà di Roma, Catone non aveva altra arma di denuncia che
il suicidio.
Se agli dèi, secondo Lucano, piacque la causa dei vincitori, a Catone piacque
quella dei vinti.
Victrix causa deis placuit, sed uicta Catoni.
In realtà la repubblica si era lentamente suicidata, e la libertà di Roma da
tempo non era che un ricordo.
Le responsabilità della fine ricadevano sul Senato, politicamente incapace,
moralmente corrotto, invaso dalla cupidigia di denaro.
Cesare nasceva dalla crisi stessa del mondo repubblicano, era l'uomo che i tempi
producevano.
Nel commentare il suicidio del suo avversario, egli volle privarlo d'ogni
significato politico, d'ogni valore emblematico per ridurlo a evento
strettamente personale.
Difatti entrando a Utica, così disse in greco: <.
Sono geloso di questa tua morte, Catone, che mi toglie la gloria di salvarti ".
La clemenza del dittatore si rivolse allora al figlio dell'irriducibile nemico,
lasciandogli il patrimonio di famiglia, e ad altri rilevanti pompeiani, compreso
suo cugino Lucio Cesare che, alla morte di Catone, gli si era prostrato ai
piedi, gettando le armi e aprendogli le porte di Utica.
Ma poco dopo il giovane Lucio fu egualmente trucidato.
La sua fine rimase misteriosa, non ne fu però incolpato il console sebbene il
giovane ne avesse fatto barbaramente uccidere i liberti e gli schiavi.
Svetonio aggiunge a questo proposito che Lucio fece fare a pezzi perfino >"
quoque, le belve che Cesare aveva apprestato per uno spettacolo pubblico.
E un quoque in grado di rivelare come presso i romani fosse più grave uccidere
gli animali di un circo che non i liberti e i servi.
Ancora clemente fu Cesare con i trecento mercanti romani di Utica che pure
avevano sostenuto finanziariamente Scipione.
Concesse loro la salvezza, previa confisca dei beni. Vi dono la vita, disse,
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ma ordino che i vostri beni in Utica siano posti in vendita.
Se vorrete, potrete riacquistarli voi stessi al prezzo che io dirò. " Dopo aver
sequestrato anche i tesori del re Giuba, divise in due la NumiJ ~ p p e o ne fu
presto allontanato con l'accusa di sfruttamento; la
parte occidentale fu attribuita a un re vassallo.
Alle città cadute in sue mani impose tributi in denaro, in frumento e olio.
Infine congedò i legionari più anziani premiandoli generosamente per il loro
lungo servizio.
La sua permanenza in Africa si era protratta per cinque mesi e mezzo.
Ripartì da quelle terre il 13 giugno del 46, ma invece di far subito vela verso
Roma si diresse sulla Sardegna dove giunse tre giorni dopo.
Sbarcato a Caralis (Cagliari) si trattenne sull'isola per tre settimane, assai
più del previsto poiché i venti contrari gli impedivano di riprendere il mare.
Con la visita alla Sardegna egli rendeva omaggio a un popolo da più di mezzo
secolo affezionato alla gens Iulia.
Prima di ripartire decise di conferire la cittadinanza romana ai cagliaritani e
di fondare una colonia a Turris (Porto Torres) col nome di Glonia Iulza Turres.
Ma anche su quell'isola non mancò di esercitare una rappresaglia imponendo una
multa ai maggiorenti di Sulci, colpevoli di aver ospitato la flotta pompeiana.
Sconfitti i pompeiani in Africa e visitata la Sardegna, Cesare rientrava
nell'Urbe il 25 luglio del 46.
Il popolo delirante invase le strade, riccamente addobbate, per farglisi
incontro e stringerlo in un grande abbraccio.
Ancor prima che egli tornasse in città, il Senato aveva deliberato una festa di
ringraziamento, lunghissima, di quaranta giorni, insieme all'attribuzione dei
pieni poteri.
Gli conferirono una nuova dittatura che questa volta aveva la durata di un
decennio, con il compito di riorganizzare lo Stato, rei gerundae causa.
Fu inoltre nominato per un triennio prefetto dei costumi, praefectus moribus,
affinché riformasse a suo piacimento le liste senatorie ed equestri, con
cancellazioni e nuove nomine.
Questa era una dignità inventata appositamente per lui, sembrando poca cosa
destinarlo all'antica carica di censore.
Inoltre non più il popolo, ma Cesare doveva indicare i magistrati.
Gli concessero la facoltà di esprimere in Senato, dove era assiso in posizione
elevata sullo scanno curule, il proprio pensiero prima di ogni altro oratore.
Poteva dare il via ai giochi circensi.
Sul tempio di Giove in Campidoglio si scolpì il suo nome e davanti alla statua
del dio supremo egli poteva lasciare il suo carro trionfale considerato oggetto
sacro.
Sempre in Carnpidoglio gli fu eretto un monumento equestre che recava la scritta
<~ E un semidio>) e che posava su un globo bronzeo in raffigurazione del mondo.
Cicerone era scontento. ..
Tutto dipende ora dalla volontà di uno solo.
Cesare non ascolta nemmeno i suoi.
Non prende consigli che da se stesso, così scrive non senza aggiungere però che
la situazione della repubblica non sarebbe stata migliore se avesse vinto
l'altro.
Anche molti cesariani erano preoccupati.
Sallustio infatti scrisse un'accorata lettera al dittatore per consigliargli la
clemenza. ..Sei tanto grande che la gente si è stancata di celebrare le tue
imprese e non tu di compierle.
Ora devi dare pacifico assetto a ciò che hai conquistato, e potrai farlo perché
fosti meno aspro tu nella guerra che altri nella pace.
Chi modera il suo potere con la clemenza è attorniato da uomini tranquilli, e
persino i suoi nemici sono con lui più sereni. "
.
t~, mentre al pompelam Sl tagliavano per ritorsione le
mani.
La guerra si faceva sempre più feroce.
Gli uni e gli altri si comportavano come belve, e ritenevano di averne tutte le
ragioni: i cesariani perché avevano dovuto riprendere a combattere quando
pensavano di aver già debellato il nemico, ai loro occhi rappresentato da una
masnada di ribelli e di banditi; i pompeiani perché, disperati, erano ormai alla
stretta decisiva oltre la quale c'era la morte e la fine dei loro ideali.
I pompeiani, nel loro furore, non risparmiavano le popolazioni civili
filocesariane.
Le massacravano barbaramente, gettando i cadaveri delle vittime dall'alto delle
mura delle città perché servissero da esempio a chiunque volesse ancora
sostenere Cesare.
Le città erano date alle fiamme nel momento dell'evacuazione.
A metà febbraio Ategua si arrese, e Cesare fu acclamato imperator dai suoi
soldati.
Era la terza salutatio, ma quella volta essa rivestiva un significato
particolare, un valore che superava i limiti d'una dignità militare.
Cneo ancora evitava di accettare battaglia insistendo nella tattica della
guerriglia fatta di insidie e di imboscate volte a sorprendere le truppe in
marcia e a impedire i vettovagliamenti.
Decise quindi di attestarsi un po' più a sud su un altopiano, nei pressi di
Munda (Montilla).
La sua era un'ottima posizione strategica, mentre le truppe cesariane apparivano
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in difficoltà per la presenza di vaste paludi.
Il fatto incoraggiò Cneo a schierare le sue legioni e a mostrarsi pronto allo
scontro.
Cesare non si lasciò sfuggire l'occasione che il nemico gli offriva, e diede il
suo segnale di guerra, Venus GenetTix, al quale Cneo rispose gridando la sua
parola d'ordine, Pietas.
La battaglia fu asperrima, e all'inizio si presentava sfavorevole ai giuliani
che disponevano di otto legioni contro le tredici legioni pompeiane.
I soldati di Cesare arretravano e si disperdevano paurosamente.
La sconfitta sembrava a tal punto irreparabile da indurre il generale a gettarsi
nella mischia alla ricerca della morte per non sopravvivere all'onta d'una rotta
disonorevole.
Scese da cavallo, strappò uno scudo dalle mani di un legionario e, a capo
scoperto, raggiunse come un pazzo le prime file mentre da ogni parte era fatto
segno dai dardi nemici.
Correva a destra e a sinistra in preda al furore.
Afferrava i fuggiaschi per trattenerli, inCoraggiava i portatori delle insegne,
pregava, malediceva. (<Vergognatevi, gridava. Vergognatevi di accettare una
sconfitta da una banda di ribelli comandati da due ragazzini.
Chi sono Cneo e Sesto se non degli stupidi sbarbatelli? Ma io, a cinquantacinque
anni, preferisco morire anziché cader vivo nelle loro mani. Il suo coraggio,
quelle parole infuocate e al tempo stesso disperate operarono un miracolo.
I soldati ebbero quasi l'impressione di riprendersi da un torpore e passarono al
contrattacco.
Nella nuova fase dello scontro, decisivo fu l'intervento della cavalleria che
prese alle spalle il nemico costringendolo alla fuga.
La battaglia si combatteva in un tetro silenzio.
Nessun canto guerriero si alzava dalle file dei soldati.
S'udivano solo incitamenti sordi e rabbiosi, pronunciati a denti stretti:
Ferisci, uccidi.
Ferisci, uccidi.
I pompeiani lasciarono sul terreno trentamila morti, tra i quali Labieno, mentre
i giuliani non ne ebbero più di mille.
Le tredici aquile delle legioni nemiche caddero tutte nelle loro mani, insieme
alle bandiere e ai fasci.
Si chiudeva così la lunga giornata del 17 marzo 45.
Sul luogo dello scontro germogliò una palma.
Un buon segno per Cesare che disse di aver combattuto quella volta non per
vincere, ma per salvare la propria vita, negando così indirettamente di aver
cercato la morte.
Era la sua ultima battaglia, a conclusione della guerra civile.
Il fato aveva voluto che lo scontro finale si svolgesse a breve distanza da
Cadice, la città in cui ventiquattro anni prima egli aveva giurato, davanti alla
statua di Alessandro, di cambiare vita.
La guerra civile era durata più di quattro anni, durante i quali Caio Giulio
aveva sconfitto i pompeiani dovunque, in Italia e in Spagna, in Tessaglia e in
Egitto, in Asia, nell'Africa romana e infine nuovamente in Spagna per la
vittoria decisiva.
Orazio si chiede se c'è un fiume che abbia ignorato la lugubre guerra, se c'è un
mare che non ne sia stato turbato, se c'è un lido che non sia stato bagnato
dalle itale stragi.
Il dittatore non rientrò subito a Roma dovendo ridurre all'impotenza altri
focolai di rivolta.
Gli scampati dalla sconfitta di Munda tornarono a rifugiarsi nella città che i
giuliani assediarono circonvallando le mura.
Poiché mancavano i materiali da costruzione, Cesare ordinò di radunare i
cadaveri che disseminavano il campo e di formare una sorta di terrapieno coi
loro corpi tenuti insieme con lance e picche.
Era un'operazione mai tentata prima nemmeno contro i barbari.
Un suo luogotenente occupò Munda mentre egli riservò a se stesso la vicina
Cordova e poi Siviglia e Cadice.
Sesto Pompeo, fuggendo da Cordova, mise a ferro e a fuoco la città.
A loro volta i giuliani, davanti alle fiamme che distruggevano i depositi delle
vettovaglie, si vendicarono sugli inermi abitanti massacrandone ventiduemila e
mettendone all'asta come schiavi altre migliaia.
Cesare, preso da pietà, volle piantare un platano su quelle rovine e su quei
lutti.
Ma fu ancora severo con le città che avevano favorito i pompeiani, imponendo
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loro gravosi tributi.
Si mostrò invece clemente con le città che avevano sostenuto le sue truppe e
accolto di buon grado il suo dominio.
Le multe e i tributi gli procurarono seicento milioni di sesterzi.
Ristabilì il potere di Roma sulle province spagnole, riportò la concordia tra le
fazioni, cosa che usava fare al termine d'ogni conquista.
Prima di lasciare Cordova ricevette da un suo luogotenente la testa di Cneo
Pompeo.
Il figlio primogenito del Magno, sebbene ferito a una gamba, aveva tentato la
fuga, ma, raggiunto da una coorte giuliana chiuse ingloriosamente la sua
esistenza.
Riuscì invece a mettersi in salvo il fratello Sesto, come seme velenoso di nuovi
giorni funesti.
A Cadice, Cesare tornò a visitare il tempio di Ercole, ma ora all'omaggio reso
agli dèi aggiungeva la depredazione volendo con ciò punire gli abitanti che si
erano schierati col nemico.
Sottrasse dal tempio il tesoro ivi custodito e lo spedì a Roma.
In quei pochi mesi, fra le imprese militari e l'opera di riorganizzazione delle
province iberiche, trovò il modo e il tempo di dedicarsi all'attività di
libellista.
Cicerone aveva scritto l'anno prima un elogio in memoria di Catone.
L'oratore, che attraversava una grave crisi finanziaria e psicologica, trovava
sollievo nel lavoro intellettuale.
Era senza un soldo, avendo prestato una forte somma a Pompeo nei giorni di
Durazzo.
Aveva ripudiato Terenzia, la vecchia moglie sempre più intrigante, altezzosa e
bisognosa di denaro, che lo aveva riempito di guai e di debiti.
Ma anche con la nuova compagna, la giovanissima Publilia, tutto andava per il
peggio.
Aveva infine perduto di parto Tullia, la dilettissima figlia, e si disperava di
non avere i mezzi necessari per costruirle un sacrario alla memoria.
Il Cicer, nell'opera dedicata a Catone, esaltava l'uomo ch'era stato il più
irriducibile avversario di Cesare.
Lo paragonava a un nume, lo descriveva come il più intemerato e perfetto dei
romani.
Cesare avvertiva l'esigenza di dare una spallata a questo mito per lui
pericoloso, e si mise al lavoro dispiegando tutte le sue doti di polemista.
Alla laudatio scritta da Cicerone rispose con una vituperatio contenuta in due
grossi rotoli di papiro, e diede ai libri il titolo di Anticatones, avendo
l'arpinate chiamato Cato il proprio.
Gli ambienti politici e intellettuali della capitale furono messi a rumore da
questo vivace scontro.
Poco meno d'un secolo e mezzo dopo, Giovenale riprende in una ~tir~ il rirnr~ e
lihri ~i Cesare scrivendo del famo sissimo scandalo che esplose a Roma quando
Clodio s'infilò sacrilegamente in casa di Pompea durante i riti solenni della
dea Bona interdetti agli uomini.
In versi osceni il poeta parla per allusioni dell'arpista (Clodio travestito da
donna) che .. introdusse un membro più grosso dei due Anticatones di Cesare in
quel luogo donde fugge perfino il topo , penem maiorem, quam sunt duo Caesaris
Anticatones.
Il topo fugge essendo conscio della sua maschilità, testiculi sibi conscius.
In quei tempi i papiri erano ancora arrotolati intorno a bastoncini d'avorio o
di legno.
Soltanto in seguito Cesare stesso, fra le sue riforme, inaugurò un metodo che
poi s'impose universalmente e che consisteva nello scrivere su papiri tagliati
in fogli sovrapposti l'uno all'altro e quindi rilegati.
Nella voluminosa vituperatio Cesare, con lieve ironia, prega anzitutto il
lettore di non paragonare il suo stile, ch'era quello di un soldato, alle
raffinatezze letterarie di un retore che aveva studiato a lungo eloquenza.
Poi passò a smontare a una a una le argomentazioni ciceroniane.
Non sono veri, scrive, i mirabili fatti che l'arpinate attribuisce a Catone al
fine di lodarlo.
Comunque, anche se veri, quei fatti non meritavano tanti elogi perché erano
stati compiuti in maniera truffaldina solo per soddisfare l'apparenza.
Tutt'altro che onesto e disinteressato era per lui l'Uticense.
Non aveva forse venduto per avidità di denaro la moglie Marcia al ricchissimo
Quinto Ortensio? Non aveva passato al setaccio le ceneri del rogo su cui aveva
bruciato il corpo del fratello per recuperarvi, avaro e sacrilego, l'oro del
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
funerale? E come mai le carte coi rendiconti della sua opulenta missione a Cipro
si erano perdute nel viaggio di ritorno a Roma? Non tutto il libello era però
un'invettiva aperta.
Talvolta esso dava dialetticamente l'impressione che il dittatore volesse lodare
e non accusare il virtuoso nemico.
Cesare libellista narra un episodio in cui alcuni conte~nosi cittadini rom~ni
e'imh~tton~ in lln Catone ubriaco che se ne andava barcollando di qua e di là.
Ma Cesare mostra quei morigerati cittadini confusi e pieni di rossore come se
fosse stato Catone a cogliere loro in fallo e non loro Catone.
L'opuscolo del Cicer dispiacque al dittatore anche perché egli non si attendeva
dall'arpinate uno scritto a favore dello stoico, ma piuttosto un'opera che
esaltasse la sua figura e la sua conquista, ora che si trovava incontrastato al
vertice dello Stato, così come aveva fatto Aristotele con Alessandro Magno.
xv
In tanto successo si preparava un complotto.
Cesare, dalla Spagna, si rimetteva in viaggio verso l'Italia.
Ancora una volta non puntò direttamente sull'Urbe.
Preferì fare una lunga sosta nella Gallia narbonese, onorato da numerosi
senatori che gli erano andati incontro insieme a Marco Giunio Bruto, Marco
Antonio, Caio Trebonio, tutti uomini del suo destino, in una maniera o
nell'altra.
Trebonio, che era stato duramente sconfitto dai pompeiani in Spagna, era
inquieto, ma teneva nascosti i suoi crucci.
Intorno a lui già si muovevano pericolose correnti anticesariane.
Egli stesso cercava di organizzare a Narbona un attentato alla vita di Cesare.
Aveva sondato con cautela la predisposizione di Antonio per attrarlo a sé, ma si
era reso conto della sua ostilità.
Stranamente Antonio non rivelò a Cesare l'approccio, e avrebbe avuto tutto il
tempo per farlo poiché da Narbona a Roma viaggiò accanto al dittatore sullo
stes~so cocchio.
Prima di entrare nella capitale, Cesare sostò per venti giorni nella sua villa
di Labicum (Labico) dove ricevette le maggiori personalità della repubblica che
gli rendevano omaggio.
Nella tranquillità del parco labicano scrisse segretamente il testamento con lo
scopo preciso di nominare suo erede principale Ottaviano, di adottarlo e di
trasferirgli il proprio nome perché gli succedesse nella guida del nuovo Stato
che stava costruendo.
Ottaviano era fi~lio di sua nipote Azia, e Cesare vedeva in quel giovane,
fragile e malaticcio, doti eccezionali che non si erano ancora rivelate a tutti.
Forse già leggeva in lui il nome di Augusto.
Intanto lo chiamava Caio Giulio Cesare Ottaviano, gli concedeva onori militari,
gli assicurava la successione anche alla carica di pontefice massimo e decideva
di inviarlo ad Apollonia in Illiria dove aveva concentrato un esercito pronto a
muovere contro i parti che minacciavano le province romane in Oriente.
Al termine della rapida parentesi labicana Cesare, ai primi di ottobre,
raggiunse l'Urbe.
Vi mancava da dieci mesi, e del resto sempre brevi erano state le sue permanenze
nella capitale.
Non gli rimanevano che sei mesi di vita, e quelli furono gli unici in cui dominò
davvero incontrastato su Roma.
Trovò tutto pronto per la solenne celebrazione del suo quinto trionfo.
Le insegne questa volta furono d'argento levigato.
Egli salì le scale del Campidoglio mentre il popolo lo acclamava .. liberatore .
Il Senato gli riconobbe quel titolo iscrivendolo nei fasti e decidendo la
costruzione d'un tempio alla Libertà.
Si rinnovarono gli spettacoli di gladiatori, le battaglie navali, le cacce ai
leoni, i combattimenti di fanti e cavalieri, gli scontri fra elefanti.
A chiusura delle feste si svolse un sontuoso banchetto di più giorni con la
distribuzione di quattro diversi vìni, il Falerno, il Chio, il Lesbo e il
Mamertino.
Cesare aveva ideato per sé una veste trionfale di porpora, ornata d'oro, le
scarpe erano rosse col tacco alto, sicché il suo nuovo abbigliamento era del
tutto ispirato a quello dei re romani.
Non si staccava mai dalla corona d'alloro, e la plebe maliziosamente diceva che
in tal maniera egli copriva la calvizie.
Gli onori e le cariche si moltiplicarono.
Nello scorcio del 45 ottenne una sorta di consolato continuo.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Era già console per cinque anni e l'alta dignità gli fu rinnovata per un
decennio.
Gli fu altresì riservata la nomina di metà degli edili, dei pretori e dei
questori.
Poté anzi aumentare il numero di questi magistrati, sicché gli edili da quattro
divennero sei, i pretori da quattordici salirono a sedici, i questori da venti a
quaranta.
Il tutto gli servì per mettere suoi uomini nei posti chiave dello Stato e per
ricompensare, come dice Cicerone, l' infernale muta di cani che lo aveva
sostenuto nell'ascesa.
Il suo atteggiamento, il cumulo delle dignità, l'ultimo trionfo celebrato non
contro stranieri ma contro province romane, diventavano elementi di propaganda
anticesariana nelle mani dei pompeiani superstiti e dei più irriducibili
difensori dell'antica repubblica morente.
Anche gli Anticatones venivano utilizzati contro di lui.
Nell'aprile precedente, quando a Roma era arrivata la notizia della rotta di
Cneo Pompeo a Munda, gli anticesariani avevano rinserrato le file.
I romani avevano appreso della definitiva sconfitta di Cneo il 20 aprile, alla
vigilia cioè dei Palilia, giorno in cui si celebrava da più di settecento anni
la nascita dell'Urbe.
Il popolo considerò come un segno fausto del cielo la coincidenza dei due
eventi, e, durante i festeggiamenti del 21 aprile, Cesare venne acclamato
fondatore d'una nuova Roma, pater patriae.
Mentre il popolo gioiva nelle strade e plaudiva al secondo Romolo, nelle ville
degli ottimati repubblicani dominava la rabbia e la disperazione.
In un clima di parossismo si cominciò a preparare il mortale complotto.
Si svolse nell'Urbe una processione in onore di Cesare, e l'ondivago Cicerone la
definisce una pillola amara, acerba pompa.
Quella processione assumeva un valore particolare, celebrava Cesare come Dio
Invitto e dava sostanzialmente l'avvio ai riti di divinizzazione del dittatore.
Un'aura di divinità già aleggiava intorno alla sua persona.
Quell'acerba pompa esasperò enormemente l'animo
dei repubblicani.
L'arpinate dice che perfino il popolo, sebbene filogiuliano, rimase silenzioso
al passaggio della Vittoria affiancata dalle imma~ini di Cesare. Un popolo
magnifico, commenta Cicerone ammirato di ciò, che non ha oggi applaudito neppure
alla Vittoria, a causa dell'indesiderato vicino.
Che cos'era ormai la repubblica per Cesare? Nient'altro che un nome senza corpo
né forma.
Nihil esse rem publicam, appellationem modo sine corpore ac specie, sono le
parole che Svetonio gli fa pronunciare, così come gli fa dire che Silla si era
mostrato un incapace, un analfabeta, Sullam nescisse litteras, il giorno in cui
aveva rinunciato alla dittatura.
Insomma, a sentire l'antico biografo, la sua tracotanza non aveva più limiti,
tanto che ormai usava dire frasi come queste: I cittadini devono parlarmi con
grande deferenza e avere per legge le mie parole .
Un giorno in cui l'aruspice gli aveva dato l'annuncio che le viscere della
vittima sacrificale erano infauste perché prive del cuore, egli avrebbe risposto
così: Le farò io propizie, quando vorrò .
Poi avrebbe soggiunto, forse con una punta di non intesa ironia: <.
Non c'è da meravigliarsi se una bestia manchi del cuore .
Era proprio radicalmente mutato Cesare? Aveva del tutto perduto la eletta
affabilità che lo aveva reso tanto popolare~ Dove erano la clemenza e la
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
bonarietà d'una volta? Lo storico antico Dione Cassio crede di aver individuato
il momento in cui ebbe inizio la sua trasformazione.
Scrive che Cesare non fece più nulla con moderazione, divenne orgoglioso quasi
fosse un dio immortale, da quando vide spuntare dalle rovine di Munda il
germoglio d'una palma, e cioè dal giorno della sua definitiva vittoria sui
pompeiani che la palma rendeva sacra.
394 Ctsa~c
Perse anche le più elementari forme di compitezza? Forse sì, a prendere per
buono un singolare episodio.
Egli, assiso al centro del tempio di Venere Genitrice, conces6e un'udienza al
Senato che gli si presentava al gran completo con nuovi decreti in suo onore.
Ebbene, all'apparire dei senatori, Cesare non si alzò dal seggio dorato su cui
era seduto né tributò loro il benché minimo segno di omaggio.
L'alto consesso se ne offese grandemente, non esclusi i senatori che dovevano a
lui personalmente la nomina, cioè quei famosi galli semibarbari.
Poteva arrivare a tanto il nobile Caio Giulio? Dione Cassio pensa di primo
acchito che egli abbia potuto compiere quell'errore fatale per distrazione, ma
poi offre una ben più curiosa e sommamente ridicola spiegazione.
Il dittatore soffriva in quei giorni di diarrhaea, e, a causa di questa
soccorrenza di ventre, non Sl era alzato dal seggio temendo di non riuscire a
trattenersi.
Così dicevano alcuni suoi amici intimi, ma non furono creduti perché al termine
della cerimonia Cesare lasciò il suo posto e se ne tornò senza fretta a casa.
Plutarco offre di tutto ciò un'ulteriore spiegazione e attribuisce lo sprezzante
comportamento del dittatore all'insorgere d'un attacco d'epilessia.
A detta del biografo fu lo stesso Caio Giulio a dare questa versione dei fatti.
Cesare si accorse subito di aver ecceduto con i senatori.
Tornando a casa, mostrava la gola a tutti ed esclamava: Sgozzatemi.
Sgozzatemin.
Non aggiunse altro.
Solo più tardi cominciò ad attribuire la colpa dell'accaduto alla propria
malattia.
Diceva che l'epilessia confonde le idee, il tremito ti prende all'improvviso e
non sei più responsabile di ciò che fai
XVIII
Era già mattina inoltrata.
Ansiosi i congiurati attendevano l'arrivo di Cesare nella Curia.
Temevano che per un qualsiasi imprevisto il loro piano potesse sfumare.
Plutarco però li presenta, almeno nelle prime ore di quel giorno cruciale,
sicuri e intrepidi.
Fra di essi c'erano dei pretori che, fuori della Curia, ascoltavano con calma e
umanità i litiganti, emettendo sentenze precise ed equilibrate, come se non
avessero altro per la testa.
Il biografo greco ne è ammirato, e quando il racconto lo porta a parlare di loro
come di cospiratori, si affretta ad aggiungere: Cospiratori? Chiamiamoli così .
Riferisce un alterco fra Marco Bruto e un contendente che non intendeva
accettare il suo giudizio. Mi appellerò a Cesare, disse il cittadino
insoddisfatto, e Bruto rispose, guardandosi intorno, come se volesse parlare a
tutti i presenti e non solo all'interlocutore: Credi che Cesare riuscirebbe a
impedirmi di agire secondo la legge? ".
La fermezza d'animo dei congiurati fu messa a dura prova nel corso della
mattinata da tutta una serie di episodi, tanto che fino alla fine essi non
furono certi di poter portare a compimento il loro piano delittuoso.
Publio Casca, il meno coraggioso dei Cospiratori, fu avvicinato da un amico che
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gli disse: Mi nascondi un segreto, ma Bruto mi ha detto ogni cosa>~.
Casca sbiancò in viso.
Credendosi scoperto già stava per giustificare in qualche modo la sua
partecipazione al complotto, ma l'altro incalzò scoppiando a ridere: Mi ha
detto, mi ha detto come hai fatto a diventare tanto ricco da poter concorrere
alla carica di edile .
Poco dopo un senatore, Popilio Lenate, si avvicinò a Bruto e a Cassio.
Li tirò in disparte dicendo: Sono con voi, e prego gli dèi perché possiate
portare a termine ciò che avete in mente di fare.
Ma affrettatevi perché tutti parlano del vostro segreto".
Bruto non ebbe il tempo di riflettere sul significato di quelle parole - la
congiura era davvero scoperta o Lenate si riferiva ad altro? - perché uno
schiavo gli portò la terribile notizia che la moglie stava morendo.
Porcia lo aveva visto la mattina nascondere il pugnale sotto la toga e uscire di
casa con l'aria d'un assassino più che di un vendicatore.
Erano trascorse alcune ore senza che dal Senato le fosse giunta alcuna notizia,
e la sua fibra, sebbene forte e resistente, non aveva retto all'ansia e al
timore.
Improvvisamente aveva perso i sensi.
Non dava più segni di vita e i servi l'avevano creduta morta.
Così portarono il ferale annuncio a Marco Bruto il quale, benché sconvolto, non
abbandonò gli altri congiurati nel momento supremo dell'azione.
Decimo Bruto non aveva finito di rivolgersi a Cesare con toni un po' aspri, un
po' suadenti, che già lo aveva preso per mano e lo tirava fuori del palazzo.
In quel momento cadeva davanti ai loro occhi nell'atrio una statua del dittatore
riducendosi in frantumi.
Nessun presagio poteva ormai trattenerlo.
Quante volte egli stesso aveva esclamato: Quod necesse est, necesse est euenire
Caesari ~? Ora saliva nella lettiga che lo avrebbe portato al Senato.
Anche quella mattina, come sempre, il popolo faceva ressa intorno a lui per
toccarlo, per porgergli una petizione.
Fra quella gente si fece strada un uomo alto e austero, un maestro di eloquenza,
il greco Artemidoro che aveva saputo qualcosa del complotto.
Artemidoro aveva in mano un piccolo rotolo nel quale aveva scritto poche righe
per scongiurare Cesare di non recarsi in Senato, ma lui, preso il rotolo,lo
passò subito a uno dei suoi segretari ripromettendosi di guardarlo più tardi.
Né diede ascolto alle parole del dotto amico che gli diceva sottovoce: Leggilo
tu solo.
Subito.
E importante .
In quel momento Caio Giulio fu distratto dalla vista di Spurinna, l'augure che
qualche giorno prima lo aveva messo in guardia dalle Idi di marzo.
Non poté trattenersi dal dirgli con una certa sufficienza mista a soddisfazione:
Sei un falso profeta.
Le Idi di marzo sono arrivate , e l'augure, triste in volto, temendo ancora di
aver ragione, rispose in un soffio: Ma non sono passate~.
Mentre Spurinna pronunciava queste parole, Cesare appariva davanti alla Curia.
Sul suo volto bianchissimo calava un'ombra, quasi un velo di timore come se egli
riandasse col pensiero agli eventi infausti di quei giorni. ~orse non gli era
sconosciuto il destino verso il quale si incamminava, ma la fortuna chiude gli
occhi a coloro che devono morire, osserva Petrarca narrando la vita del
dittatore.
Non c'era tempo per altre decisioni.
Come al passaggio del Rubicone, ancora una volta Cesare poteva esclamare: Il
dado è tratto ~.
Ma poteva farlo fra sé e sé, ora che attraversava la soglia del Senato, non
essendo più lui a condurre il gioco.
Il colpo di Venere ~> non era più suo.
Tutto era pronto al di fuori di lui.
La partita gli sfuggiva di mano.
Da protagonista si trasformava in vittima.
Da quel momento il suo destino era dominato da altri.
Ma anche per gli altri, i congiurati, quelle ore si erano presentate incerte e
aperte a ogni sbocco.
Via via essi avevano perso la sicurezza e la fierezza iniziali.
Ancora un piccolo imprevisto e il loro piano sarebbe crollato.
Già si trovavano sull'orlo della disperazione quando davanti al Senato comparve
la vittima designata.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
Il dittatore scese dalla lettiga adorna d'avorio, affiancato dai littori con i
fasces dorati.
Subito gli si avvicinò quel Popilio Lenate che poco prima aveva detto a Brutó e
a Cassio di conoscere il loro segreto.
Il senatore tratteneva a lungo Cesare, gli parlava all'orecchio con animazione,
sicché i congiurati, sbigottiti, temettero che gli stesse rivelando il
complotto.
Cadeva nel vuoto anche il loro attenta.o come erano già falliti quello dei
giovani cavalieri e il progetto di Cicerone, Lucullo e Catone che si diceva
avessero armato la mano di Lucio Vezio? Con rapide occhiate dense di
disperazione si erano già lanciati il messaggio estremo.
Stavano per mettere mano ai pugnali e darsi la morte, anziché cadere
prigionieri, ora che erano stati scoperti.
Ma Bruto poté fortunosamente capire che Lenate parlava a Cesare non per svelare
il complotto, ma per chiedergli un favore.
Bruto sorrise agli altri e il destino, che indicava la morte di Cesare, riprese
il suo corso.
L'incaglio era durato pochi attimi.
I congiurati avevano nascosto i pugnali tra le pieghe della toga, e avevano
dislocato nel vicino teatro di Pompeo cinquecento gladiatori dando loro a
credere di doversi preparare a scendere nell'arena per un combattimento in
occasione della festa popolare che si svolgeva proprio il 15 marzo in onore
d'un'antica divinità, Anna Perenna.
Ma in realtà li tenevano pronti a intervenire al loro segnale.
In atto di omaggio i patres conscripti si alzarono in piedi all'apparire di
Cesare il quale frettolosamente raggiunse il suo seggio dorato.
Con lunghi discorsi Trebonio tratteneva Marco Antonio sulla soglia della Curia
per tenerlo lontano nel momento dell'assalto e impedirgli di intervenire in
difesa di Cesare.
Marco Antonio, forte e coraggioso, costituiva un serio pericolo per i congiurati
che sulle prime avevano divisato di sopprimerlo insieme al dittatore, ma poi
Bruto li aveva dissuasi da ciò.
Diceva che il loro scopo, unico e nobile, era di salvare la repubblica
sopprimendone il tiranno in nome dell'unità del popolo.
Uccidere anche un solo cesariano, soggiungeva, distorceva il senso della loro
azione.
La gente non li avrebbe creduti amanti della repubblica, ma sostenitori di un
partito, quello di Pompeo.
Per fortuna dei congiurati, quella mattina Lepido, il magister equitum, non si
trovava a Roma.
Era impegnato con la cavalleria in una manovra nei dintorni della città, e anche
questa coincidenza stava a dimostrare come Cesare avesse trascurato di prendere
la benché minima precauzione in vista d'una seduta di fondamentale importanza,
indetta per cambiare la repubblica in monarchia, per conferirgli il nome di re,
anche se questo titolo avrebbe avuto valore nelle province e non nella penisola.
Appariva però chiaro a tutti come quella distinzione fra sovranità de facto e
sovranità de iure nascondesse un trucco, e come ben presto sarebbe caduta ogni
limitazione alla sua regalità.
I patres gli si fecero incontro.
L'aula non era affollata, sebbene si dovesse votare sulle sorti della
repubblica.
Ma si sapeva che tutto era già stato deciso fuori di essa, e inoltre si era
fatto tardi.
Alle undici passate Cesare non si era ancora visto, per cui molti se ne erano
tornati ai loro affari, stanchi di aspettare.
Il dittatore aveva accresciuto il numero dei componenti del Senato portandoli da
seicento a novecento e quindi a mille, eppure quel giorno nella sala non c'erano
più di sessanta senatori.
La colossale statua marmorea di Pompeo, con la spada sguainata in pugno, si
ergeva imponente al centro della grande aula circolare che appariva vuota.
I patres appartenenti alla congiura si erano avvicinati più di ogni altro al
dittatore, e Bruto li cercò a uno a uno con lo sguardo.
Non erano più di venti.
Una decina di pompeiani di varia natura, lo stesso Bruto e poi Cassio, Ponzio
Aquila, Cecilio Buciliano, un altro senatore che si chiamava anch'egli Cecilio,
Sulpicio Galba, Quinto Ligario, Rubio Ruga, Sestio Nasone, Marco Spurio.
Cinque cesariani delusi, Minucio Basilo, Decimo Bruto Albino, Publio Casca,
Tullio Cimbro, Caio Trebonio.
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Quattro o cinque tra catoniani e repubblicani di incerta tendenza ma non meno
fanatici, come Pacuvio Antistio 426 Ccsar~ scgno al (,~ovc.
L auoro ~ U a~
Labeone, Cassio Parmense, Petronio Turullio.
Tra i senatori che non avrebbero partecipato all'assalto, Bruto scorse Cassio
Longino, Cornelio Cinna, Domizio Enobarbo, Sesto Pompeo, Popilio Laenes e lo
stesso Cicerone.
Tullio Cimbro era quasi addossato a Cesare.
Gli parlava intensamente, gli chiedeva di richiamare suo fratello dall'esilio.
Cesare si mostrava insofferente.
Tullio Cimbro si faceva più insistente, e, come a richiamare la sua attenzione,
lo tirò per la toga.
Quello era il segnale che i cospiratori attendevano per estrarre i pugnali dalle
pieghe delle toghe e colpire la vittima.
Cesare poté appena accennare a una protesta contro il gesto di Cimbro.
Non aveva finito di dire: <~ Ma questa è violenza , che fu raggiunto dalla prima
pugnalata.
Da dietro lo aveva colpito Publio Casca, sotto la gola, verso la nuca, ma senza
forza perché treman~ te di paura.
Cesare, benché sanguinante, reagì con prontezza.
Riuscì a strappare il pugnale dalle mani dell'attentatore e con quell'arma lo
ferì a un braccio mentre esclamava: .< Maledetto Casca, che fai? ~>.
Poi, sempre brandendo il ferro, cercò di alzarsi, ma venne nuovamente raggiunto
da una pugnalata.
Nemmeno questo colpo fu mortale, e Cesare riuscì a mettersi in piedi.
Furente e atterrito corse, barcollante, da una parte all'altra della Curia,
mentre i congiurati lo inseguivano continuando a trafiggerlo.
Cassio lo ferì al viso e Buciliano alle spalle.
Gli altri senatori, sorpresi dalla fulmineità dell'agguato, erano come
inchiodati ai loro scanni, con gli occhi sbarrati, ammutoliti, incapaci di fare
un gesto.
Quello era il Senato che aveva giurato di difenderlo da ogni insidia, da ogni
pericolo.
Un Senato in cui neppure i cesariani sapevano prs)teggere il loro capo, il genio
più alto di Roma, l'uomo che si accingevano a proclamare re.
Così, un pugno di ribelli riportava lutti e sangue nella città.
Cesare era circondato da una selva di pugnali che i congiurati agitavano
urlando.
Lo colpivano da forsennati, lo aggredivano come fosse una belva nell'arena.
Si ferirono fra loro nella confusione.
Cesare urlava, fremeva, e ancora cercava di sfuggire al colpo fatale.
Nessuno accorreva in suo aiuto, non i senatori che egli aveva elevato a quella
dignità, i romani, gli italici, i galli, gli iberici.
Era allo stremo delle forze quando il suo sguardo già offuscato incrociò gli
spiritati occhi di Marco Bruto che gli vibrava una pugnalata all'inguine.
Cesare si accasciò, si avvolse il capo con la toga, e, guardando per l'ultima
volta l'assalitore, disse in greco: Anche tu, Bruto, figlio mio.
Sempre usava il greco nei momenti di più intensa emozione.
Non aggiunse altro.
Con queste parole di profonda disperazione si chiudeva la sua vita.
Esse erano come un lampo rivelatore che d'improvviso metteva a nudo la
drammaticità dell'evento: un assassinio politico sfociava in una terribile
tragedia umana e familiare.
Bruto aveva immerso il pugnale nelle carni d'un nemico che lo amava, d'un uomo
che tutto portava a credere fosse suo padre, ma l'odio politico travolgeva
nell'attentatore ogni altro sentimento.
E giusto ricordare un'ipotesi di cui si fece paladino un biografo minore, ma non
trascurabile, Umberto Silvagni.
Egli sosteneva, negli anni trenta del nostro secolo, che non a Marco Bruto, ma a
Decimo Bruto intendeva riferirsi Cesare con le sue ultime parole.
Ciò perché Decimo era stato adottato nel testamento del dittatore quale suo
erede e figlio. - Cesare diffidava di Marco.
Ben sapeva di non esserne amato, ne conosceva l'ambizione sfrenata, non
l'incluse nel testamento, non lo aveva trattato mai qual figlio, non v'era
ragione che così lo chiamasse in quell'istante supremo.
Amava e prediligeva, invece, Decimo, che giovanissimo aveva nominato suo legato
nella guerra gallica, al quale doveva la vittoria contro i veneti e l'altra
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contro Domizio Enobarbo a Marsiglia.
Decimo Bruto era rimasto fedele a Cesare anche durante la guerra civile, era tra
i suoi familiari più assidui e più cari. ~ Il corpo di Cesare si era aMosciato
ai piedi della statua del Magno alla quale ancora si appoggiava, ansimante e
insanguinato, mentre Marco Bruto lo colpiva.
Per una straordinaria coincidenza la vittima spirava sotto l'effigie dell'uomo
che più di ogni altro aveva attraversato la sua vita.
Aveva accolto Pompeo nella cerchia familiare dandogli in sposa la figlia Giulia
e lo aveva avuto come socio politico nel triumvirato, ma poi era tutto crollato
e se lo era trovato di fronte come il più irriducibile degli avversari.
Nel grande scontro fra i due giganti, Pompeo, sconfitto irrimediabilmente, era
caduto sotto un pugnale, e ora il suo vincitore subiva la stessa tragica sorte.
Cesare giaceva esanime in un lago di sangue.
I pa~res, che terrorizzati avevano assistito alla fulminea scena del delitto e
che erano rimasti impietriti sui loro scanni, si riscossero alfine
dall'incantamento.
All'immobilità seguì un furioso parapiglia.
Tutti insieme i senatori, urlando e gesticolando, si lanciavano verso la porta
per fuggire, mentre Bruto gridava per trattenerli: ..Non temete.
Solo Cesare doveva cadere o. Poi, col volto ispirato e levando in alto il
pugnale insanguinato, aggiungeva: ..
Vi abbiamo restituito la libertà .
Perdeva sangue da una mano perché anche lui era stato ferito da uno dei
cesaricidi che menava colpi all'impazzata.
Lo aveva colpito proprio Cassio nel suo furore.
Bruto gridava: ..
Il tiranno è morto.
Viva la libertà.
Viva il popolo romano ".
Tacque per un attimo, poi riprese a gridare acclamando Cicerone, ma nessuno lo
ascoltava nella psicosi della fuga.
L'orrore e il terrore si propagarono rapidamente in tutta Roma, mentre il
cadavere di Cesare, raccolto da tre schiavi impietositi, veniva trasportato su
una lettiga nel suo palazzo che già risuonava di pianti.
Un braccio pendeva all'esterno della lettiga, ed era il segno più impressionante
della morte.
Il corpo era straziato da ventitre ferite.
Il volto, benché contratto, appariva giovanile, non era quello d'un uomo di
cinquantasei anni.
La città era Scossa da tumulti.Alcuni dei congiurati, con le toghe ancora
macchiate di sangue, si riunirono sotto un portico.
C'era anche Bruto.
Volevano irrompere nelle stanze del dittatore per strappare dalle braccia di
Calpurnia il cadavere e gettarlo nel Tevere.
Si oppose Bruto.
A stento poté impedire quel gesto d'inutile barbarie.
Allora i congiurati urlarono: ..
Uccidiamo Marco Antonio ".
E ancora una volta s'erse Bruto gridando:..Si abbatte la tirannia uccidendo il
tiranno.
Gli altri non contano .Marco Antonio riuscì a lasciare Roma di soppiatto, nelle
vesti di schiavo.
Lepido ne seguì l'esempio senza muovere uno solo dei tanti uomini della sua
cavalleria di cui infinite volte s'era gloriato di essere il comandante.
L'Urbe era nelle mani del popolo che però non sapeva per chi e per che cosa
manifestare.
Ci furono delitti inesplicabili, saccheggi di negozi e di magazzini.
Le porte della città vennero chiuse, ma i disordini non avevano fine.
Si susseguirono paurosi fenomeni terrestri e celesti.
Sul Campidoglio lo scudo del dio della guerra cadde a terra quando vi giunse
Bruto seguito dagli altri Congiurati che ancora mostravano i pugnali
insanguinati.
Per più giorni il sole si oscurò, ..impietosito di Roma, miseratuS Romam, scrive
Virgilio.
Quasi a nascondere lo strazio in cui la città viveva.
Per sette notti consecutive apparve in cielo una grande cometa, sicché il popolo
credette, per l'abile suggestione dei cesariani, che il suo spirito fosse asCesO
tra gli dèi immortali, e Ottaviano due anni dopo, ordinando la divinizzazione
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
ufficiale dell'estinto, fece apporre una stella in cima a una sua statua.
La stella ricordava la cometa la quale, col nome di sidus Iulium, provava
l'assunzione di Cesare fra gli astri dell'universo, accanto agli altri corpi
celesti, Venere, Marte e Giove, che avevano innuenZato la sua esistenza terrena.
Il Tevere straripò, i monti tremarono.
L'Etna eruttò lava ardente e tanto fuoco da incendiare tutta la Sicilia.
Le fiamme si estesero oltre lo stretto anche a Regium come a infiammare l'Italia
intera.
Straripò l'Eridano travolgendo le selve e gli armenti, allagando i campi.
Dovunque s'aprivano voragini, .. piangeva l'avorio nei templi, sudavano i bronzi
delle statue~.
Bruto e i congiurati si affannavano a gridare che nessuno doveva temere di loro.
A poco a poco i senatori ricomparvero nelle vie di Roma, mentre il popolo si
raccoglieva nel Foro.
I cospiratori rimanevano rinchiusi sul Campidoglio, ch'era attorniato da un alto
muro, temendo di essere attaccati dai cesariani.
La situazione sembrò placarsi, e Bruto scese dal colle sul far della sera.
Giunto nel Foro, prese a parlare dai Rostri.
Diceva che era tornato il governo popolare repubblicano.
La plebe applaudiva e lo chiamava liberatore.
Diceva che Cesare aveva ucciso la repubblica, che la sua morte era inevitabile,
che la soppressione d'un tiranno era un antico diritto degli uomini amanti della
libertà.
La plebe protestava e lo chiamava assassino.
Appariva oltremodo difficile dominare una massa così ondeggiante fra opposti
sentimenti.
Parlò pure un altro congiurato, Cornelio Cinna, che ingiuriò trivialmente la
vittima.
Poi si strappò di dosso la veste militare, avuta da Cesare, per dimostrare
quanto odiasse il tiranno.
La folla, incollerita, minacciò di aggredire i cesaricidi che in gran fretta si
ritirarono nuovamente sul Campidoglio.
Bruto e
Cassio inviarono messaggeri a Cicerone che aveva approvato il loro gesto pur non
avendo partecipato al complotto.
Il vecchio consolare, che non poteva fare a meno di vergare fogli anche nei
momenti più turbinosi, aveva inviato al cospiratore Minucio Basilo un breve
biglietto grondante soddisfazione per la riuscita dell'attentato: .
Mi congratulo, sono felice.
Ho cura dei tuoi interessi".
Tibi gratulor, mihi gaudeo.
XIX
Né i congiurati né i cesariani sembravano avere il sopravvento.
I primi non erano certi di ottenere il favore popolare, i secondi non sapevano
ritrovare l'iniziativa.
Lo smarrimento dei cesariani fu però di breve durata.
Antonio e Lepido strinsero fra loro un patto che gettò il panico fra i
cesaricidi.
Lepido sarebbe asceso alla dignità di pontefice massimo, succedendo a Cesare, e
uno dei suoi figli avrebbe sposato una figlia di Antonio.
Anche Cicerone ebbe paura di quell'intesa, e subito sollecitò una sorta di
armistizio fra i due partiti per evitare che i cesariani, più forti e già
riorganizzati, usassero il pugno di ferro e dessero il via a un eccidio.
Il vecchio consolare mostrava a tutti l'assurdità della situazione: sul
Campidoglio si era rifugiata gente con l'animo di chi dovesse difendersi dai
galli invasori; altri nel Foro si preparavano ad assaltare quel colle come se vi
si fossero rinchiusi non romani ma cartaginesi.
Cesare era stato ucciso a ragione? I suoi assassini meritavano di essere puniti?
Rispondere a questi interrogativi, diceva Cicerone, significava correre verso
altre sedizioni.
Bisognava invece cancellare ogni vicendevole ingiuria, tornare in concordia come
se i luttuosi eventi non fossero stati che fenomeni naturali, grandine e
temporali.
L'oratore apparve convincente e si poté sottoscrivere la tregua, anche perché
ognuna delle parti pensava di trarre vantaggio da essa.
Ad appena due giorni dall'attentato, il Senato votò un'amnistia, concesse
l'immunità ai congiurati in nome della pacificazione.
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
I cospiratori scesero dal Campidoglio, ma vollero in ostaggio i figli di Antonio
e di Lepido.
Cesaricidi e cesariani si stringevano la mano.
Bruto si recò a cena da Lepido, e Cassio da Antonio.
Il fuoco continuava però ad ardere sotto la cenere, tanto che tra Cassio e
Antonio, a tavola, ci fu un momento di tensione quando il console chiese al
cesaricida se ancora nascondesse un pugnale tra le pieghe della toga.Cassio,
seccamente, rispose: ..C'è un pugnale per tutti i tiranni.
Anche per te se pensi di sostituirti a Cesare .
Tutto andava troppo in fretta, con una rapidi~à sconcertante.
L'indomani, in una nuova riunione, i padri coscritti arrivarono a decretare
onori e cariche agli uccisori di Cesare, come a cancellare il ricordo stesso del
sangue versato.
In cambio i cesariani ottenevano che il Senato votasse onoranze divine per
Cesare e che si confermassero tutti i suoi atti di governo.
Chi ne usCiva sconfitto? Chi vincitore? Il potere legale era ancora nelle mani
del console Marco Antonio e in quelle di Lepido che dispor~eva d'una coorte
pretoria e di molti gladiatori acquartierati sull'isola Tiberina.
I cesaricidi avevano indubbiamente evitato una vendetta che li avrebbe
sterminati, ma nello stesso tempo dimostrarono di non avere la forza per far
dichiarare Cesare tiranno e nemico, il che avrebbe legittimato il loro gesto.
Né poterono veder restaurata la repubblica.
Antonio, forte della sua carica di console, si era già impossessato di tutto il
denaro di Cesare, pubblico e privato, sia dei settecento milioni di sesterzi
destinati alla spedizione in Oriente, sia dei quattromila talenti custoditi in
casa da Calpurnia.
Si era altresì impadronito d'ogni carta dello scomparso, del testamento
custodito dalla Vergine massima delle Vestali e d'una grande quantità di oggetti
preziosi.
Come era nei suoi piani, la lettura del testamento suscitò la commozione
popolare e fu un punto di somma importanza a favore dei cesariani.
Cesare aveva pensato al popolo e non soltanto ai suoi eredi diretti.
Tre quarti del suo patrimonio passavano al diciannovenne Ottavio (a lui sarebbe
eventualmente succeduto Decimo Bruto Albino), un quarto a due suoi nipoti.
Al popolo romano egli donava trecento sesterzi a testa e gli immensi giardini
che si stendevano ai piedi del Gianicolo.
Questa generosità eccitò gli animi della cittadinanza.
Le donne piangevano per la riconoscenza e imprecavano contro gli assassini che
avevano stroncato la vita d'un governante magnanimO e caritatevole.
Antonio aveva un'altra freccia al suo arco, un solenne funerale in cui avrebbe
celebrato i meriti di Cesare per fare emergere in tutta la sua grandezza divina
la figura dello scomparso.
La mattina del 20 marzo, le spoglie del dittatore, portate a spalla nel Foro da
alti magistrati, furono collocate su un letto d'avorio ornato d'oro e di
porpora.
Il ricco catafalco si elevava all'interno di un'edicola aurea costruita per
l'occasione davanti ai Rostri a somiglianza del tempio di Venere Genitrice, la
dea cara a Cesare.
Per prima cosa Antonio volle che apparisse chiara a tutti la natura divina dello
scomparso.
E difatti un banditore, al suono delle trombe, elencò gli onori divini che il
Senato gli aveva tributato insieme alle dignità politiche.
Cesare non era soltanto padre della patria e dittatore perpetuo, egli era un
dio, il maggiore degli dèi.
Era Giove, Iuppiter Iulius.
Onorato e venerato da vivo in ogni forma, con il diritto di apporre alla sua
casa un frontone come se si trattasse di un tempio; con la concessione di un
pulvinare, il letto sacro sul quale si esponeva la sua immagine divina durante
le processioni rituali nei giochi CirCensi; con le più varie celebrazioni della
sua divinità che provenivano da ogni parte, da Costantinopoli dove si ergeva una
sua statua con le attribuzioni di Zeus o da Isernia dove avevano consacrato
degli ex voto al suo genio divino.
Lo avevano onorato e ve434 C~sarl
Dl glorno m glorr sempre plU come u conseguenze politich era stato che un delit
vivo che mai"> dicev; scrive che tutto anda~ mi risalgono verso la Arpino,
aggiunge con una stolta consolazion ma con coraggio puer non sradicato, e vedi
c~ pensa che per lui le cos sare: ((Godevo dei favol no anche da morto).
La dato la libertà, e tanto v~ ziché cambiarlo.
Arrossi cose, ma non le cancello
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
orte violenta accomunò Bruto e Cassio a Cesare.
Ilo sempio ~Ve ~ vepre anCora non aVrebbf rOre infinitmi apparvero subito
destinati ad attraverSare i secoli, sl la m P ~ . ((caSsio, tu Seiialtati ora
spregiati.
La Contrapp i i
ma dl dar d caSsio, ed eSCIam ~h virtù nlbbliCani non doveva avere più termine.
Cesare e Corpo esanim~ e ~Orente~ disse anCora anto una pal rimasero di fronte
anche dopo la morte a testimo mo rman ~ una COsa vera~ ma solt e anni dal
inconciliabilità di due miti opposti, simboli d'un bile, tu non sel v e non
erano pasSatl tr to che mai si concluderà tra potere e rivoluzione, dorutto di
loro finl di marZo~ otere è visto come oppressione e la rivoluzione come ino
delle Idl ~ alla libertà.
Questo è lo schema drammatico che la
ha via via tramandato di quello scontro, uno schema n corrisponde in pieno alla
realtà dei fatti.
ondo è sempre diviso fra chi venera Cesare e chi 3ruto.
Cesare - figlio ideale di Tiberio e Caio Gractinuatore della loro opera
rinnovatrice - era lui il ionario, il fautore d'una vasta riforma agraria, il
itore d'un sistema basato su una oligarchia senatoe concedeva spazio e poteri
soltanto al patriziato e hi effettivamente meritava di salire nella scala soli
partecipare al governo dello Stato.
Bruto era un tiCo rimasto fedele alle sue origini, e alle sue spalle i
rappresentanti degli interessi economici e potemente danneggiati dalla
rivoluzione giuliana.
veva aperto la strada alla rivoluzione con le imlitari.
Le conquiste e le vittorie erano la naturale l alla profonda azione politica e
istituzionale che avrebbe trasformato una repubblica decrepita in una grande e
vitale monarchia universale.
La guerra gallica aveva preparato la guerra civile ed entrambe erano necessarie
alla conquista del potere, così come la conquista del potere era essenziale per
difendere i diritti del popolo in un mondo unificato, al di là d'un
insufficiente governo della cittàStato .
Secondo la concezione cesariana, senza assommare tutti i poteri nelle mani d'un
solo uomo col sostegno del popolo, non si sarebbe mai riusciti a rovesciare il
vecchio ordinamento incapace di rappresentare le nuove realtà sociali emerse a
Roma, in Italia, nelle province e nelle nuove terre.
Il processo di accentramento si era però svolto con eccessiva rapidità perché il
dittatore, giunto tardi al potere assoluto, aveva avuto fretta di recuperare il
tempo impiegato nell'imporre il suo dominio.
La fretta fu cattiva consigliera.
Una trasformazione così totale dello Stato richiedeva maggiore cautela e più
lungo respiro.
La connaturata audacia del giocatore doveva essere temperata da una più profonda
considerazione del rischio.
L'aristocrazia e la classe conservatrice, sconfitte sui campi di battaglia,
presero la via del complotto ed ebbero in Bruto il braccio armato.
Bruto poté tuttavia apparire come il difensore delle libertà repubblicane, come
il giusto tirannicida secondo la morale dell'epoca, per il fatto stesso che
Cesare, pur volendo sinceramente rinnovare la società, aveva riportato l'odiata
monarchia a Roma.
Il tirannicida sarà di volta in volta esaltato e riprovato, nella mutevolezza
dei giudizi della storia, attraverso il Medioevo, l'Umanesimo, il Rinascimento,
la Rivoluzione francese, l'èra napoleonica, la retorica del fascismo.
L'esaltazione più sfrenata risale a Lucano, la condanna più drammatica e
sferzante è quella dantesca nel segno dell'aquila imperiale chiamata a unificare
il mondo.
Bruto, accanto a Cassio, fu precipitato nella più tenebrosa bolgia infernale
della Giudecca e condannato a essere maciullato dai denti di Lucifero, il
ribelle dei ribelli, perché subisse lo stesso destino di Giuda.
Sterile fu il gesto di Bruto.
Poté ritardare il conseguimento di alcuni obiettivi di espansione territoriale
che Cesare si era posto a distanza ravvicinata, come la conquista dell'Egitto
poi attuata da Ottaviano, o poté annullare l'imminente spedizione contro i
parti.
Ma il grande obiettivo politico, l'opera di cui il dittatore aveva gettato le
basi, l'impero che Ottaviano Augusto seppe costruire senza scrupoli e con
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Antonio Spinosa - Cesare un grande giocatore.txt
avvedutezza passando attraverso il principato, lungi dal perire col suo
ideatore, gli sopravvisse per cinque secoli in Occidente e per millequattrocento
anni in Oriente.
Cesare superava lo stesso Alessandro il cui dominio era andato rapidamente in
frantumi alla sua morte.
Sterile fu il gesto perché tutto incentrato sull'assassinio di un uomo, e privo
di un programma politico che fosse capace non soltanto di abbattere il
dittatore, ma anche la dittatura da lui instaurata.
L'odio sfrenato aveva indotto i congiurati all'improvvisazione.
Un gesto comunque sanguinoso, che non comportò il solo cesaricidio.
Gli seguirono altri quattordici anni di guerre civili prima che Augusto potesse
dettare incontrastato la legge che era sua e del suo predecessore.
Il vasto disegno di Cesare non era apparso subito chiaro.
Le riforme agrarie, le riforme sociali da lui promosse, certamente democratiche
e tendenti a migliorare le condizioni del popolo, si confondevano con i rigori
del monarca, sicché anche agli occhi delle masse popolari la sua opera appariva
ambigua e inesplicabile.
Le masse popolari erano tradizionalmente repubblicane.
A esse ripugnava l'idea stessa di monarchia fin da quando, detronizzato
Tarquinio il Superbo, i romani avevano giurato di non permettere più a nessuno
di regnare sull'Urbe.
Augusto si rese conto che per regnare doveva dire di non voler regnare.
Il rifiuto del potere assicurava il potere, e così nasceva il principato.
Alla finzione di Augusto seguì la sincera riluttanza di Tiberio che meritò
l'appellativo di Cesare controvoglia.
Il primo anello che univa Caio Giulio ai secoli futuri aveva dunque nome
Augusto.
Senza Cesare la storia non avrebbe avuto né principato né impero, sebbene la
crisi della repubblica fosse incontenibile, come erano intollerabili gli egoismi
e la corruzione delle classi dominanti.
Cesare doveva andare avanti, fino al sacrificio, per la sua strada disseminata
di pericoli.
Non aveva avuto nemici soltanto fra gli aristocratici, ma fra gli stessi tribuni
della plebe, come aveva dimostrato Ponzio Aquila che con ostentata insolenza non
si era levato in piedi al suo passaggio nel pieno d'una solenne cerimonia
pubblica.
Chi sia stato davvero Cesare non lo dissero i suoi contemporanei.
Né potevano dirlo poiché mancavano della necessaria prospettiva storica per
giudicare il valore d'un'azione profondamente innovatrice che era perfino in
contrasto con la coscienza comune dei romani del tempo.
Cesare guardava lontano, era troppo grande per poter essere valutato da una sola
generazione, e meno che mai dalla sua.
Egli preparava il futuro.
ITINERAR10 BIBLIOCRAFICO La vastità della bibhogralla cesariana induce
inevitabilmente il biografo ad annotare soltanto le opere che costituiscono le
tappe più significative dell'itinerario bibliografico da lui percorso nella
ricostruzione della figura del ..
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