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La Psicologia e la fede matura

La psicologia serve per valutare la «maturità» dell’esperienza di fede. Se lo scrive su «La


Civiltà cattolica» padre Giovanni Cucci, allora c’è da credergli. Nel numero appena
uscito padre Cucci fa riferimento alla «psicologia del profondo» ed agli studi –
pionieristici per l’epoca e mai superati – compiuti negli anni Sessanta e Settanta dal
gesuita Luigi Rulla, che aveva seguito decine di candidati al sacerdozio prima e dopo
l’ingresso in seminario.

Il punto di partenza è la «complessità» della psiche umana, soprattutto in tre diverse


sfumature che hanno risvolti importanti nella vita di fede. La prima si condensa
nell’espressione «non voglio» quando cioè in maniera deliberata si attua un
comportamento (voglio/non voglio pregare). Secondo: quando si dice a se stessi: «non
faccio» magari perché ho impegni più urgenti o devo rispondere a richieste impellenti
che mi impediscono di soffermarmi sulle mie esigenze. Ed infine abbiamo il «non
posso» tipico delle persone con gravi limiti psicologici.

Padre Cucci giudica il «non faccio» come «la situazione più pericolosa» per la fede
perché l’individuo si racconta mille giustificazioni, ha una «facciata» verso gli altri per
nascondere la vera realtà e le sue vere intenzioni. Secondo padre Cucci si tratta di un
atteggiamento frequente nei seminari tipico di quei «ragazzi d’oro» portati ad esempio
ed ammirati da professori e formatori. Ragazzi che si trovano schiacciati dal ruolo che
altri hanno imposto e non trovano il tempo per chiedersi se davvero desiderano
quell’esperienza che hanno cominciato. E a lungo andare «si trovano intrappolati dal
peso degli onori e dell’ammirazione» , arrivando col tempo a lasciare il seminario o,
peggio ancora, il sacerdozio magari dopo anni. La «maschera dell’ipcorisia», spiega
padre Cucci, deve venire svelata per consentire un vero confronto con se stessi
altrimenti la persona vivrà una vita falsa.

Segnali di falsità si possono individuare scrutando con attenzione altri atteggiamenti.


Ad esempio «le esplosioni improvvise di rabbia sono un segnale preoccupante di una
situazione irrisolta». O anche il «transfert»: cioè vivere le relazioni con le figure di
autorità, siano i professori o formatori in seminario sulla falsariga dei rapporti imbastiti
nella famiglia di origine.
Il «transfert» troppo accentuato, come dimostrano le ricerche di Rulla, esplicitamente
citate da Cucci, fin dagli anni Settanta, e soprattutto quando non viene individuato dai
formatori e riconosciuto dai soggetti, rischia di avvelenare l’esperienza religiosa. Perché
porta a vivere i rapporti con gli altri sulla base delle irrisolte dinamiche infantili e in
maniera non autentica.

Un altro aspetto che il gesuita Cucci definisce negativo è «il pensiero magico». Come
quando di fronte ad un evento tragico la persona di (apparente) fede si chiede perché
Dio lo abbia permesso. In questi casi occorre riconoscere in tali atteggiamenti una fede
«molto distante dalla fede evangelica». Ed infine l’ultimo aspetto negativo preso in
considerazione è la «rigidità», tipica dei gruppi più fondamentalisti, che siano cattolici o
meno.

«La rigidità è la maschera di una profonda insicurezza, è il rifiuto di accogliere la


complessità e la varietà di temperamenti, sensibilità, percorsi di vita. Si tratta di
atteggiamenti e problematiche di tipo psicologico – conclude il gesuita – che rischiano
di diventare un grave ostacolo per l’esperienza di fede». Dunque è necessario sempre
«un lavoro di conoscenza di sé».

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