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Johann Wolfgang von Goethe

LA FIABA DEL SERPENTE VERDE


E DELLA BELLA LILIA

Illustrata da
DAVID NEWBATT

CambiaMenti
Prima edizione 2006, ristampa 2016
pubblicato da Wynstones Press, Stourbridge England
www.wynstonespress.com

Titolo originale
The Fairy Tale of the Green Snake and the Beautifull Lily

© Dawid Newbatt and Tom Raines 2006

2019 EDITRICE CAMBIAMENTI


I EDIZIONE
ISBN 978-88-96029-37-4

Johann Wolfgang von Goethe


La fiaba del serpente verde e della bella Lilia
Illustrata da David Newbatt

EDITRICE CAMBIAMENTI sas


40068 S. Lazzaro di Savena (BO) – Via F. Orsoni, 5
www.cambiamenti.com
cambiamenti@cambiamenti.com

Copertina ed editing
Giuseppina Pistillo

Approfondimento di Tom Reines


Traduzione di Giordana Rossetti

E’ vietata la riproduzione dell’opera o di parti di essa


con qualsiasi mezzo, compresa la stampa, copia fotostatica,
microfilm, e memorizzazione elettronica,
se non espressamente autorizzata per iscritto dall’Editore,
salvo piccole citazioni in recensioni o articoli.
INDICE

Prefazione di David Newbatt pag. 6

La fiaba del Serpente verde e della bella Lilia pag. 7

Appendice: due note su Goethe e Newbatt pag. 42

Approfondimento di Tom Raines pag. 44

Illustrazioni di David Newbatt:

I - Mezzanotte pag. 9

II - Mattino pag. 17

III - Mezzogiorno pag. 19

IV - Crepuscolo pag. 23

V - Mezzanotte pag. 29

VI - Mattino pag. 35

VII - Mezzodì sfolgorante pag. 39

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Prefazione

Questo libro è frutto della volontà di recuperare e illustrare la traduzione


originaria di Thomas Carlyle di questa “preziosa” fiaba di Goethe e svelare
un processo di sette momenti che si svolge nel corso della storia.
Il lavoro su questo progetto si ispira alle ricerche di Paul Marshall Allen e
Joan Deris Allen che nel libro The Time is at Hand! spiegano il perché La
fiaba del serpente verde e della bella Lilia di Goethe si ispirerebbe all’opera
rosacrociana del XVI secolo di Johannes Valentinus Andreae, intitolata Le
nozze chimiche di Christian Rosenkreutz. La storia narra di un viaggio di
evoluzione interiore e iniziazione della durata di sette giorni, ciascuno dei
quali caratterizzato da atmosfere, barriere e sfide specifiche.
Ho tentato di illustrare la fiaba di Goethe attraverso sette immagini
che esprimono una differente qualità per ognuno dei diversi momenti
della giornata: dalla Mezzanotte della scena di apertura all’Alba; poi a
Mezzogiorno e verso Sera, Mezzanotte fino alla Mattina successiva per
terminare con il Mezzodì sfolgorante. Ho cercato di rendere l’idea di una
sorta di geografia della storia e del susseguirsi degli eventi che in essa si
svolgono.
Il mio interesse per questa fiaba risale a molti anni fa e mi ha accompagnato
per tutto il tempo in cui ho lavorato nelle comunità di bambini e adulti con
bisogni speciali. Mi è capitato molte volte di partecipare alla sua messa
in scena o recitazione, ragione per cui ho avuto modo di riconoscerne il
valore nell’agire in profondità sullo sviluppo della persona e ogni qual
volta si entri in contatto con le vite degli altri.

David Newbatt 2006.

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La fiaba del Serpente verde
e della bella Lilia

di

Johann Wolfgang von Goethe

traduzione di Thomas Carlyle

Questo testo, nell’originale, è la riproduzione in stile


della traduzione pubblicata per la prima volta nel
Prater’s Magnum del 1832, e presente anche in un
volume di opere scelte di Thomas Carlyle.

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I - Mezzanotte
Nella sua piccola capanna vicino al grande fiume, che una forte pioggia
aveva gonfiato e fatto straripare, dormiva sdraiato il vecchio barcaiolo,
provato dalle fatiche del giorno. Nel bel mezzo della notte fu svegliato da
voci forti: erano viandanti che volevano essere traghettati.
Uscito, vide due grandi fuochi fatui sospesi che volavano avanti e indietro
sopra la sua barca attraccata. Dissero di essere tremendamente in ritardo e
che avrebbero già dovuto essere sull’altra sponda.
Il vecchio non tergiversò: prese il largo e virò con l’abilità che lo
contraddistingueva, tagliando la corrente. Nel mentre i due forestieri
ondeggiavano ed emettevano sibili in una lingua molto veloce e sconosciuta;
di tanto in tanto facevano uscire risate sonore, saltellando sulla falchetta,
sui sedili e sul pavimento della barca.
“La barca ondeggia! – gridò il vecchio. – Se non state fermi andrà sotto
sopra. State seduti fuochi!”.
A quelle parole risposero con grasse risate, prendendolo in giro e
agitandosi più che mai. Il vecchio sopportò pazientemente le malefatte e
di lì a poco raggiunse l’altra sponda.
“Questo è per il vostro disturbo!” – dissero i viandanti a gran voce,
scrollandosi di dosso monete d’oro sonanti che caddero sul pavimento
bagnato della barca.
“Santo Cielo, cosa state facendo? – gridò il vecchio. Mi volete rovinare!
Se anche una sola moneta cadesse nell’acqua, la corrente che non tollera
l’oro si scatenerebbe con onde altissime, che inghiottirebbero me e la mia
barchetta. E chissà che sorte toccherebbe a voi! Ecco, riprendetevi l’oro”.
“Non possiamo riprenderci nulla di quello che ci siamo scrollati di dosso”
– dissero i fuochi.
“Allora mi gravate del compito di ammucchiarle, portarle a riva e metterle
sotto terra” – disse il vecchio raccogliendo le monete nel suo cappello.
I fuochi saltarono giù dalla barca, ma il vecchio gridò: “un momento: e il
mio compenso?”.
“Se non accetti l’oro, lavori per niente” - gli risposero. “Sappiate che posso
essere pagato solo con frutti della terra”.
“Frutti della terra? Li disprezziamo e non li abbiamo mai assaggiati”.
“Non posso farvi andare se prima non mi promettete di portarmi tre
cavolfiori, tre carciofi e tre cipolle grandi”.
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I fuochi volevano filarsela motteggiandolo, ma si sentivano inspiegabilmen-
te legati al suolo: era la sensazione più sgradevole che avessero mai provato.
Si impegnarono a pagarlo il prima possibile con quanto aveva chiesto; lui
li lasciò andare e se ne andò. Era già lontano, quando lo richiamarono:
“Vecchio! Ascolta, vecchio! Abbiamo dimenticato la cosa più importante!”.
Ma era lontano e non li sentì. Si era fatto trasportare dal fiume, in un punto
roccioso dove l’acqua non arrivava mai. Voleva interrare l’oro funesto. Lì,
tra due grandi rocce, trovò un baratro profondissimo; vi gettò l’oro dentro
e tornò alla sua capanna.
In quel baratro giaceva il buon serpente verde, svegliato dal tintinnare delle
monete. Non fece in tempo ad accorgersi del loro scintillìo che le aveva già
inghiottite di gusto, in un battibaleno. Non si fece sfuggire nemmeno quelle
finite nelle fessure tra le rocce.
Le aveva appena inghiottite e subito ebbe una bella sensazione; sentiva il
metallo fondersi dentro di sé e spandersi in tutto il corpo. Con sua enorme
gioia si accorse di essere diventato trasparente e luminoso. Tempo prima
gli avevano detto che sarebbe potuto accadere; adesso aveva comunque il
dubbio se la luce sarebbe durata. La curiosità e il desiderio di garanzie per
l’avvenire lo portarono fuori dalla tana. Voleva vedere chi avesse gettato
quel metallo prezioso. Non trovò nessuno. La cosa più bella era ammirare
la sua sembianza, quella radiosità piena di grazia che emanava passando
tra le radici e i cespugli, illuminando l’erba con la sua luce. Le foglie
sembravano smeraldi, i fiori impregnati di nuovo vigore. Invano attraversò
i boschetti appartati, ma la sua speranza crebbe quando vide da lontano, in
aperta campagna, una luce simile alla sua. “Se riuscissi a trovare uno come
me!” – disse in lacrime affrettandosi verso quel posto. La fatica che fece
strisciando nelle paludi e tra le canne gli diede non pochi pensieri; anche se
gli piaceva vivere su secchi prati montani o tra crepacci rocciosi, mangiando
erbe aromatiche e dissetandosi con la rugiada leggera e fresche acque di
fonte, per amore di quell’oro e con la speranza di quella luce meravigliosa
era disposto a tutto.
Alla fine, dopo molti sforzi, raggiunse una pozza d’acqua coperta di giunchi
nella palude, dove i due fuochi fatui stavano saltellando avanti e indietro.
Uscì allo scoperto e si avvicinò, salutandoli; era contento di incontrare due
signori affabili e della sua famiglia. Si avvicinarono lentamente a lui, volando
sopra la sua testa e ridacchiando alla loro maniera, dissero: “Signor cugino,
se appartenete alla linea orizzontale non significa niente.
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Siamo imparentati solo per la somiglianza, guardate (a quel punto le due
fiamme si alzarono il più possibile, assottigliandosi) come dona questa
altezza a noi signori della linea verticale! Non prendertela a male, caro, ma
quale famiglia può vantarla? Da quando esistono i fuochi fatui non ce n’è
mai stato nessuno seduto o disteso”.
Il serpente si sentì a disagio in quella compagnia, perché poteva alzare
la testa più che poteva, ma sentiva di doverla piegare di nuovo a terra per
muoversi, e mentre prima nell’oscuro boschetto era straordinariamente
soddisfatto del proprio aspetto ora, davanti a quei cugini, il suo splendore
sembrava diminuire ogni momento di più e temeva che sarebbe scomparso
del tutto.
In quell’imbarazzo, domandò in fretta se quei signori potessero dirgli
da dove provenisse l’oro caduto poco prima nel dirupo; lui pensava che
si fosse trattato di una pioggia d’oro venuta direttamente dal cielo. I
fuochi fatui risero e scuotendosi fecero cadere una moltitudine di monete
d’oro sonante intorno. Il serpente le inghiottì velocemente. “Alla vostra
salute, signore – dissero i due damerini – possiamo offrirvene ancora”. Si
scrollarono di nuovo più volte e a gran velocità, al punto che il serpente
riusciva a malapena a inghiottire il prezioso pasto. Il suo splendore prese
ad aumentare visivamente; splendeva di una luce davvero bella, mentre
i fuochi si erano assottigliati e abbassati, senza tuttavia perdere il loro
buon umore.
“Vi sarò debitore a vita – disse il serpente, una volta ripreso fiato dopo
il pasto - Chiedetemi quello che volete e farò tutto ciò che è in mio
potere”.
“Molto bene – risposero a gran voce i fuochi. Allora sai dirci dove
dimora la bella Lilia? Portaci alla sua casa e al suo giardino; non c’è un
momento da perdere, siamo impazienti di cadere ai suoi piedi”.
“È un favore che non posso farvi – disse il serpente sospirando
profondamente – la bella Lilia dimora, ahimè, sull’altra sponda”.
“L’altra sponda? Ma noi ci siamo stati, in una notte tempestosa! Il fiume
crudele ci divide. Non possiamo chiedere al vecchio di tornare?”.
“Sarebbe inutile - disse il serpente – infatti se lo incontrate vicino alla
riva, pronto a partire, non vi farà salire. Può portare chiunque da questa
parte, ma nessuno dall’altra laggiù”.
“Questo sì che è un bel guaio! – dissero i fuochi – Non c’è altro modo
di attraversare il fiume?”.

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“Sì, ma non in questo momento. Io stesso, signori, posso portarvi di
là, ma non prima di mezzogiorno”. “Non ci piace viaggiare a quell’ora”.
“Allora potrete farlo di sera, passando sull’ombra del grande gigante”.
“Ma come?”.
“Il grande gigante non vive lontano; con il corpo non può fare nulla, le sue
mani non riescono a muovere una paglia e le sue spalle neppure a portare un
fagotto; tuttavia la sua ombra può molto, anzi tutto. All’alba e al tramonto
diventa dunque fortissimo. Di sera basta sedersi sul dorso della sua ombra:
mentre lui cammina piano verso la riva, l’ombra permette di attraversare il
fiume. Se vorrete farvi trovare verso il mezzogiorno in quel punto del bosco
dove i cespugli si protendono nel fiume, sarò io stesso a portarvi dalla bella
Lilia e a presentarvela. Se invece il mezzodì non vi piace, all’imbrunire non
vi resta che andare all’ansa rocciosa laggiù e recarvi dal gigante: di certo vi
riceverà come si deve”.
Con un accenno di inchino, i fuochi si allontanarono. Il serpente in fondo
non era scontento di essersi sbarazzato di loro, perché poteva in parte
godersi lo splendore della sua luce e in parte soddisfare una curiosità che
per molto tempo l’aveva turbato in modo particolare.
Nel dirupo dove spesso andava strisciando aveva fatto una scoperta
singolare. Infatti, benché dovesse strisciare su e giù per quell’anfratto
senza luce, riusciva a distinguere gli oggetti con il senso del tatto. In
genere incontrava solo prodotti della natura di forma irregolare; talvolta si
attorcigliava tra gli spuntoni di un grande cristallo, talaltra sentiva punte e
filamenti di argento puro e portava alla luce le gemme sparse che trovava.
Eppure, non senza sorpresa, in una roccia chiusa su tutti i lati si imbatté in
oggetti che rivelavano l’opera creatrice dell’uomo. Pareti lisce su cui non
poteva arrampicarsi, angoli acuti e regolari, colonne ben modellate e, cosa
più strana, figure umane su cui si era avviticchiato più di una volta e che
sembravano di bronzo o di un marmo molto levigato. Ora voleva aggiungere
a quelle esperienze il senso della vista e trovare in quel modo conferma di
ciò che fino a quel momento erano solo supposizioni. Credeva di riuscire a
illuminare tutta la volta sotterranea con la sua luce e, d’un tratto, sperava di
riuscire a scoprire la natura di quegli oggetti curiosi. Si affrettò e sulla solita
strada trovò la fessura da cui aveva accesso al rifugio. Una volta arrivato sul
posto si guardò intorno con grande curiosità e, malgrado la sua luce non
riuscisse a illuminare tutti gli oggetti intorno, quelli più vicini a lui erano
visibili.
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Con stupore e reverenza guardò verso una nicchia splendente, dove era
posta l’immagine in oro di un nobile re. In altezza l’immagine superava
quella di un uomo, ma nella forma somigliava a una persona bassa piuttosto
che alta. Il suo corpo ben fatto era avvolto da un mantello disadorno e una
ghirlanda di foglie di quercia teneva insieme i suoi capelli.
Il serpente non aveva fatto in tempo a vedere quella figura venerabile che il
re cominciò a parlare e domandò: “Da quale luogo arrivi?”.
“Dagli abissi dove abita l’oro” – disse il serpente.
“Cos’è più bello dell’oro?”.
“La luce” – rispose il serpente.
“Cos’è più consolante della luce?” - domandò il re.
“Il dialogo” - rispose il serpente.
Durante la conversazione diede un’occhiata furtiva di lato e si accorse
di un’altra splendida immagine. Era un re d’argento, in posizione seduta;
aveva una figura slanciata e piuttosto posata, coperta da una veste decorata;
la corona, la cintura e lo scettro erano coperte di pietre preziose. Aveva
un’espressione di orgoglio sul viso e sembrava sul punto di parlare, quando
una venatura di un colore indistinto sul muro di marmo d’improvviso si
illuminò e inondò il tempio di una luce gioiosa. In quello splendore il serpente
vide un terzo re, fatto di bronzo, seduto, di corporatura robusta, appoggiato
al suo bastone, con una ghirlanda d’alloro e più simile a una roccia che a
una persona. Cercò di vedere anche il quarto re, che era il più distante, ma il
muro si aprì e la venatura brillante aprendosi, come fa la luce, sparì.
Un uomo di media statura entrò, passando dalla fessura tra le rocce, e attirò
l’attenzione del serpente. Era vestito come un contadino e aveva in mano
una piccola lampada, con una fiamma immobile che attirava lo sguardo e
in modo tutto particolare: senza generare alcuna ombra, illuminava tutta la
volta.
“Perché sei venuto, dato che abbiamo la luce?” - chiese il re d’oro.
“Sapete che non posso illuminare l’oscurità”.
“Il mio regno è alla fine?” - chiese il re d’argento.
“Tardi o mai” – ribatté il vecchio.
Con voce tonante il re di bronzo domandò:
“Quando sarà il mio momento?”.
“Presto” – replicò il vecchio.
“A chi mi unirò?” – chiese il re.
“Ai tuoi fratelli maggiori” - disse il vecchio.

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“Che ne sarà del più giovane?” – domandò il re.
“Si siederà” – rispose il vecchio.
“Non sono stanco” – esclamò il quarto re, con voce roca.
Mentre la conversazione proseguiva, il serpente si era addentrato lentamente
nel tempio e aveva guardato tutto; in quel momento si trovava di fronte al
quarto re. Stava appoggiato a una colonna. La sua notevole figura era più
pesante che bella, ma non si riusciva a distinguere di che metallo fosse.
A ben guardare era un amalgama dei tre metalli di cui erano fatti i suoi
fratelli. Ma non sembravano fusi insieme alla perfezione: il bronzo era
cosparso di venature irregolari d’oro e d’argento che davano alla figura
un aspetto sgradevole.
Nel frattempo il re d’oro chiese al vecchio: “Quanti segreti conosci?”.
“Tre” – rispose. “Qual è il più importante?” - disse il re d’argento. “Quello
manifesto” – replicò l’altro.
“Vuoi manifestarlo anche a noi?” - disse il re di bronzo.
“Quando conoscerò il quarto” – rispose il vecchio.
“Che mi importa?” – mormorò il re composito in sottofondo.
“Io conosco il quarto” – disse il serpente. Si avvicinò al vecchio e gli
sussurrò qualcosa all’orecchio. “È giunta l’ora!” – esclamò il vecchio a gran
voce. Il tempio riecheggiò, le statue di metallo risuonarono e in quell’istante
il vecchio sprofondò a occidente e il serpente a oriente, entrambi entrando
a gran velocità tra le fessure rocciose.
Tutti i punti in cui passava il vecchio si riempivano subito dopo d’oro,
poiché la sua lampada aveva la straordinaria facoltà di trasformare la
pietra in oro, il legno in argento, gli animali morti in pietre preziose, e di
distruggere tutti i metalli. Ma per mostrare quel potere, doveva brillare da
sola. Se era presente un’altra luce accanto, emanava solo un bel chiarore e
ravvivava tutto ciò che era animato.

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II - Mattino
Il vecchio entrò nella sua capanna costruita sul pendio della collina e
trovò la moglie in preda a una grande afflizione. Era seduta accanto al
fuoco in lacrime e non riusciva a darsi pace.
“Me sventurata!” – esclamò.
“Non ti avevo detto di non andartene stanotte? Cosa è successo?” -
chiese tranquillo il marito.
“Te ne eri appena andato – disse lei singhiozzando – quando due
viandanti chiassosi si sono presentati alla porta: li ho fatti entrare senza
pensarci su. Sembravano due persone distinte e oneste. Erano vestiti di
fiamme, li si poteva prendere per fuochi fatui. In un battibaleno erano in
casa e, da veri manigoldi, hanno iniziato con i loro ossequi a non finire,
al punto che se ci penso mi imbarazzo”.
“Quei signori avranno scherzato – ribatté il marito sorridendo – tuttavia,
considerata la tua età, avrebbero fatto meglio a limitarsi alla semplice
cortesia”.
“Ma quale età! – gridò la moglie – smetterai mai di parlare della
mia età? Quanti anni ho? Semplice cortesia! So il fatto mio. Guarda i
muri come sono diventati, guarda le vecchie pietre, che non vedevo da
cent’anni. Si sono ingoiati ogni granello d’oro a una velocità che non ti
puoi immaginare.
E non smettevano di assicurarmi che fosse meglio dell’oro comune.
Divorati i muri, sembravano più vivaci e in quei pochi attimi sono diventati
più luminosi e grandi. Di nuovo si sono fatti impertinenti facendomi le
moine.
Mi chiamavano loro regina e scrollandosi hanno fatto cadere monete
d’oro ai loro piedi. Guarda che scintillio là sotto la panca! Ma che
disgrazia! Il nostro cane ha mangiato una o due monete e guarda, è
lì morto nel camino. Povera bestia! Che disperazione! L’ho visto solo
quando se ne sono andati; altrimenti non avrei promesso di pagare il loro
debito al barcaiolo”.
“Quale debito?” - replicò il vecchio.
“Tre cavoli, tre carciofi e tre cipolle, ho detto che me ne sarei occupata
io in giornata e li avrei portati al fiume” – rispose la moglie.
“Puoi fare loro questo favore – disse il vecchio – potrebbero tornarci
utili”.
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“Se ci torneranno utili non so, ma lo hanno promesso”.
Intanto il fuoco ardeva piano; il vecchio coprì i carboni con la cenere
e mise da parte le monete d’oro scintillanti, di modo che la sua lampada
potesse brillare da sola, di una luce molto viva. I muri tornarono a coprirsi
d’oro e il cane si trasformò nella pietra d’onice più bella che si possa
immaginare. L’alternanza di colori bruni e neri rendeva quella pietra
preziosa un’opera d’arte straordinaria.
“Prendi il tuo cesto” – disse il vecchio – e mettici dentro l’onice. Poi
prendi tre cavoli, tre carciofi e tre cipolle, mettili intorno al nostro cagnolino
e porta tutto al fiume. A mezzogiorno il serpente ti porterà dall’altra parte.
Vai a fare visita alla bella Lilia, dalle l’onice e lei con un tocco lo farà
resuscitare, così come ogni volta che tocca un essere vivente lo uccide. Il
cane sarà il suo compagno fedele. Dille di non piangere, che presto sarà
libera, che può considerare la più grande disgrazia come la più grande
fortuna, perché è giunta l’ora”.
La vecchia riempì il cesto e appena fu giorno si mise in cammino. Quando
il Sole spuntò alto sull’altra sponda del fiume, che rifletteva la sua luce, lei
camminava a passi lenti poiché il cesto le pesava sulla testa, ma non era
l’onice a pesare. Quando portava cose inanimate non sentiva il peso, al
contrario: il cesto era come se le volasse sopra la testa. Ma portare verdure
fresche o un piccolo animale era troppo per lei. Aveva camminato per
qualche tempo di malumore e a un tratto si spaventò, perché era quasi finita
sull’ombra del gigante che si estendeva sopra la pianura. A quel punto alzò
gli occhi e vide quel mostro di gigante risalito dopo un bagno nel fiume,
non sapendo come evitarlo. Appena lui la vide la salutò scherzosamente e
le mani della sua ombra afferrarono subito il cesto: con abilità presero un
cavolo, un carciofo e una cipolla e li portarono alla bocca del gigante, che
risalì il fiume e lasciò in pace la donna.

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