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MIKE ASHLEY

STORIA DEI MAGAZINE DI FANTASCIENZA


PARTE TERZA
L'ERA DEL BOOM (1946-1955)
(The History Of The Science Fiction Magazine
Part 3 1946-1955, 1976)

INDICE

Introduzione
MICHAEL ASHLEY: Dalla bomba al boom
1946 (Astounding):
THEODORE STURGEON: Monumento
1947 (Fantasy):
ARTHUR C. CLARKE: I Fuochi dell'Abisso
1948 (Startling Stories):
HENRY KUTTNER: Adesso non guardi
1949 (Thrilling Wonder):
RAY BRADBURY: Caleidoscopio
1950 (Galaxy):
DAMON KNIGHT: Come servire l'uomo
1951 (Super Science Stories):
POUL ANDERSON: Grido alle stelle
1952 (Amazing Stories):
ROSS ROCKLYNNE: Volare più in alto
1953 (Amazing Stories):
RICHARD MATHESON: L'ultimo giorno
1954 (Galaxy):
ROBERT SHECKLEY: Giù le mani
1955 (Science Fantasy):
E.C. TUBB: La scommessa

APPENDICI

Bibliografie 1946-1955
Elenco delle riviste 1946-1955
Elenco dei curatori 1946-1955
Guida ai disegnatori 1946-1955
VIRGIL FINLAY
(Fantastic Story Quarterly, settembre 1952)

Copyrights

THE HISTORY OF THE SCIENCE FICTION MAGAZINE, PART


THREE, 1946-1955

Introduzione and Appendices, copyright 1976 by Michael Ashley; used


by permission of the author and the author's Cosmos Libertary Agency.

MEMORIAL toy Theodore Sturgeon, copyright 1946 by Street & Smith


Publications, Inc., for Astounding Science Fiction, April 1946. Reprinted
by permission of the author's agent, E. J. Carnell Literary Agency.

THE FIRES WITHIN by Arthur C. Clarke, copyright 1947 by Temple


Bar Publishing Co., for Fantasy, August 1947, Reprinted by permission of
the author and the author's agent, David Higham Associates Ltd.
DON'T LOOK NOW by Henry Kuttner, copyright 1948 by Better
Publications, Inc., for Startling Stories, March 1948. Reprinted by
permission of the author's agent, A. D. Peters & Co Ltd.

KALEIDOSCOPE by Ray Bradbury, copyright 1949 by Better


Publications, Inc., for Thrilling Wonder Stories, October 1949. Reprinted
by permission of the author's agent, A. D. Peters & Co Ltd.

TO SERVE MAN by Damon Knight, copyright 1950 by Galaxy


Publishing Corporation, for Galaxy Science Fiction, November 1950.
Reprinted by permission of the author's agent, E. J. Carnell Literary
Agency.

EARTHMAN, BEWARE by Poul Anderson, copyright 1951 by


Fictioneers Inc., for Super Science Stories, June 1951. Reprinted by
permission of the author's agent, John Farquharson Ltd.

THEY FLY SO HIGH by Ross Rocklynne, copyright 1952 by Ziff-Davis


Publishing Co., for Amaring Stories, June 1952. Reprinted by arrangement
with Forrest J. Ackerman.

THE LAST DAY by Richard Matherson, copyright 1953 by Ziff-Davis


Publishing Co., for Amazing Stories, May 1953. Reprinted by permission
of the author's agent, A. D. Peters & Co. Ltd.

HANDS OFF by Robert Sheckley, copyright 1954 by Galaxy Publishing


Corporation, for Galaxy Science Fiction, April 1954, Reprinted by
permission Of the author's agent, A. D. Peters & Co. Ltd.

THE WAGER by E. C. Tubb, copyright 1955 by Nova Publications Ltd.,


for Science Fantasy, November 1955. Reprinted by permission of the
author and the author's agent, E. J. Carnell Literary Agency.

Introduzione

A Walter Gillings
per i suoi servigi
in favore della fantascienza inglese.
Se avete letto il primo volume della serie, è superfluo che vi esponga le
mie intenzioni, ma spero che continuiate egualmente a leggere, in modo da
apprendere qualcosa sul conto di questo secondo. E se non avete visto il
libro precedente, permettetemi di spiegarmi.
Innanzi tutto, per «riviste di fantascienza» io non intendo i fumetti. È un
errore molto frequente, ed ha contribuito a portare le vere riviste di science
fiction ad un passo dalla fine. Queste ultime, che apparvero per la prima
volta nel 1926, pubblicavano racconti e romanzi, e non disegni grotteschi
con personaggi mirabolanti che urlavano frasi in gergo. Dieci racconti, che
rispecchiano la narrativa specializzata del decennio 1946-1955, sono
inclusi in questo volume. Vanno da Memorial Theodore Sturgeon, scritto
in conseguenza diretta degli orrori atomici di Hiroshima, al bizzarro e
inquietante The Last Day di Richard Matheson. Sono rappresentati altri
otto tra gli autori più grandi, inclusi Arthur Clarke, Robert Sheckley, Poul
Anderson, Henry Kuttner e Damon Knight.
Affinchè i racconti possano venire inquadrati nella giusta prospettiva, e
per dare un'idea più chiara delle riviste di fantascienza, tanto disprezzate e
spesso trascurate, ho incluso un'ampia storia della loro esistenza durante il
decennio. È il seguito del volume precedente, anche se qui la storia
differisce sotto un certo punto di vista. In questo caso, ho inserito nel mio
saggio in appendice preziose collaborazioni di quattro delle personalità più
importanti che hanno avuto parte nell'evoluzione della science fiction
britannica: Kenneth Bulmer, Gordon Lansborough, Philip Harbottle ed il
compianto John Carnell. Ognuno di loro ha contribuito con un breve
saggio sull'aspetto della produzione britannica cui è stato più strettamente
associato, ed in questo modo ha fornito un'idea chiara di ciò che avveniva
dietro le quinte. I quattro saggi appaiono stampati qui per la prima volta.
È incluso, inoltre, materiale nuovo sui retroscena del famigerato
«Mistero Shaver», mai pubblicato prima d'ora. Se pensate che Erik von
Däniken abbia l'ultima parola in fatto di alieni che visitano la Terra,
aspettate di aver letto le teorie di Shaver. Recentemente, sono stato in
contatto con il signor Shaver, il quale ha controllato e confermato tutto ciò
che ho scritto di lui, poche settimane prima della sua morte, avvenuta nel
novembre 1975.
Troverete inoltre notizie sulla nascita della scientologia, e sulle opere del
suo Sommo Sacerdote, L. Ron Hubbard.
I capricci e le svolte dell'evoluzione della science fiction dopo la
seconda guerra mondiale sono imprevedibili e affascinanti come un libro
giallo. Il fatto che tutta la fantascienza attuale debba la sua esistenza allo
sviluppo delle riviste e ai loro collaboratori è una prova della loro
importanza. Con questo libro, mi auguro di tramandarne il ricordo,
affinché non venga dimenticata la parte che hanno avuto nella storia della
letteratura del ventesimo secolo.

MICHAEL ASHLEY
Ottobre 1975

RINGRAZIAMENTI

Mentre la preparazione e la compilazione di questo tomo sono tutte


responsabilità mia (errori inclusi), il compito sarebbe stato molto più
difficile e il risultato molto più misero se non avessi avuto la preziosa
assistenza di molte persone. Ricordo William L. Crawford, John Eggeling,
Walter Gillings, Ejler Jakobson, Sam Moskowitz, Frank Parnell, Hector R.
Pessina, Richard S. Shaver, William F. Temple, J. Grant Thiessen, E.C.
Tubb, Donald A. Wollheim, e soprattutto Philip Harbottle, per la sua
straordinaria capacità di conoscere le cose giuste al momento giusto. A
loro, e a tutti coloro che posso aver involontariamente omessi, vadano i
miei più sinceri ringraziamenti.

L'ERA DEL BOOM


(1946 - 1955)

Michael Ashley
Dalla bomba al boom

1. L'Era Nucleare

«... tu sognavi la vita... una vita migliore... per il mondo, ma come


hai visto, gli avresti dato la morte!»
«Lo controlleremo.»
«L'avranno tutti gli uomini... i migliori ed i peggiori... E non ci
sono difese.»
«Libererà il mondo...»
«Lo distruggerà.»
Molti di voi avranno riconosciuto questo brano. È tratto dal racconto
The Power and the Glory di Charles Willard Diffin, che è stato
ripubblicato nel primo volume di questa serie per rappresentare il 1930,
l'anno in cui uscì su Astounding Stories (1). Diffin esprimeva le paure di
molti: che il risultato della vittoria dell'uomo sull'atomo significasse la fine
dell'umanità.
Quindici anni dopo l'apparizione del racconto, quelle paure non erano
più ipotetiche. Da sei anni, il mondo era testimone della seconda guerra
mondiale. Poi lunedì 6 agosto 1945, una bomba atomica esplose su
Hiroshima, seguita tre giorni dopo da un'altra su Nagasaki. La seconda
guerra mondiale finì subito... il Giappone si arrese entro una settimana. Il
mondo era entrato nell'era nucleare.
Scrivendo nel 1949, l'autore fantascientifico Theodore Sturgeon
rivelava:

«Ci sono buone ragioni per credere che, esclusi i pezzi grossi del
Progetto Manhattan e delle forze armate, gli unici al mondo che
compresero quanto era avvenuto il 6 agosto 1945 furono gli
aficionados della fantascienza... i fans, i direttori e gli autori.
Hiroshima mi fece un effetto tremendo. Conoscevo i fenomeni
nucleari: nel 1940 avevo venduto un racconto che parlava di un
metodo per separare l'isotopo 235 dall'uranio puro. Anni prima del
Progetto, e prima della guerra, noi avevano usato i congegni
dell'energia atomica, e scrivevamo vicende sulle implicazioni
filosofiche e sociologiche di questa nuova e terribile realtà della
vita.» (2)

Il racconto di Sturgeon, e molti altri simili erano stati pubblicati su


riviste di fantascienza ed erano stati letti dal gruppo elitario degli
aficionados ricordati più sopra. Prima della guerra, la fantascienza veniva
disprezzata dagli accademici come puerile narrativa d'evasione. Con
l'avvento dell'era nucleare, il grosso pubblico si accorse all'improvviso dei
progressi scientifici che in precedenza erano stati accettati come cose
normali soltanto dagli entusiasti della science fiction.
Una parte della produzione fantascientifica appariva in forma di libro,
ma anche questa, in maggioranza, era stata pubblicata inizialmente nelle
riviste specializzate. Gli sviluppi seguiti alla nascita della prima rivista,
Amazing Stories, nel 1926, sono già stati descritti, e consiglio il lettore
interessato a ulteriori dettagli di consultare il primo volume della serie. Nel
suo decennio iniziale, la science fiction produsse tre riviste principali, tutte
in America, dove Hugo Gernsback, emigrato dal Lussemburgo, aveva
fondato Amazing Stories. Quando la rivista gli sfuggì di mano nel 1929,
cominciò a pubblicare Science Wonder Stories, che nel 1930 si trasformò
in Wonder Stories. Nello stesso anno l'editore di pulps William Clayton
lanciò Astounding Stories, che durò fino al 1933. Quell'anno la testata fu
acquistata da una delle principali case editrici americane di pulps, la Street
& Smith. Con F. Orlin Tremaine insediato come direttore, e con una nuova
politica imperniata su racconti arditi e originali, Astounding divenne ben
presto la pubblicazione principale. Era ancora al vertice della popolarità
nel 1937, quando Tremaine passò la mano al leggendario John W.
Campbell, che la portò ad altezze anche più grandi. Campbell coltivò
talenti come Isaac Asimov, Robert Heinlein, Theodore Sturgeon, A.E. van
Vogt, L. Ron Hubbard, Fritz Leiber, L. Sprague de Camp, Lester Del Rey.
Quasi tutto il materiale fantascientifico più importante pubblicato tra il
1938 e il 1945 apparve sulle sue pagine: tra l'altro, la serie Foundation di
Asimov (3), le vicende della Future History di Heinlein e la serie City di
Simak.
Gernsback aveva abbandonato il campo fantascientifico nel 1936 e
Wonder Stories, con un nuovo direttore e un nuovo editore, venne
ribattezzata Thrilling Wonder Stories. Acquisì una gemella, Startling
Stories, ed entrambe si orientarono verso un pubblico più giovane.
Altrettanto fece la rinata Amazing Stories, anch'essa con un nuovo
direttore, ed una nuova sede a Chicago. L'anno 1939 vide l'inizio di un
boom delle riviste fantascientifiche pulp. Molte testate apparvero e
scomparvero, ma non lasciarono un'impronta durevole. La guerra e la
conseguente scarsità di carta e inchiostro portarono alla morte varie testate
fantascientifiche. Nell'inverno 1945-46 in America sopravvivevano
soltanto sei riviste specializzate. Erano Amazing Stories, Astounding
Science Fiction, Thrilling Wonder Stories, Startling Stories, Famous
Fantastic Mysteries (che puntava soprattutto sulla nostalgia ristampando
vecchi classici) e Planet Stories (che si dedicava interamente a vicende
interplanetarie con un taglio adatto ai ragazzi). C'erano anche due
pubblicazioni «di confine», Fantastic Adventures (compagna di Amazing)
e Weird Tales (la principale rivista americana del bizzarro, che era
sopravvissuta fin dal 1923 e pubblicava anche parecchia fantascienza). Il
tema di questo volume è l'effetto che l'avvento dell'era nucleare ebbe su
queste riviste e quindi sul corso della science fiction nei dieci anni
successivi.
La confraternita fantascientifica, in generale, si rivolgeva ad Astounding,
per cercare le nuove tendenze. Quasi tutte le altre pubblicazioni,
specialmente Amazing e Planet, preferivano la narrativa di evasione.
Astounding era diversa: e la sua scuderia di autori maturi, sotto l'occhio
sempre vigile di John W. Campbell (1910-1971) continuava ad ampliare i
confini della science fiction conquistando nuovi territori. I lettori già
consideravano superato il «tema» della bomba atomica. Era ancora fresco
nella loro memoria l'episodio di Deadline, un breve racconto tutt'altro che
eccezionale scritto da Cleve Cartmill e pubblicato sul numero del marzo
1944. In esso si narravano i tentativi d'un agente per evitare l'esplosione di
un ordigno nucleare. Lo spionaggio militare piombò su Campbell e
Cartmill accusandoli di aver violato la sicurezza, ma i due furono in grado
di dimostrare che il racconto era stato costruito su informazioni accessibili
in qualunque biblioteca pubblica. La science fiction salì un altro gradino
sulla scala della rispettabilità.
Infatti, le autorità dissero più volte a Campbell di limitare il numero e il
contenuto delle vicende nucleari che pubblicava, ma lui rifiutò. Tuttavia,
nel 1946 non c'era più bisogno di mantenere il segreto: la bomba atomica
era diventata una realtà. Perciò Campbell esortò i suoi autori ad esplorare
le conseguenze dell'era nucleare. La devastazione di Hiroshima e Nagasaki
aveva sconvolto il mondo. Anche la confraternita fantascientifica, che
aveva previsto tali risultati, non si era mai preparata, veramente, agli orrori
della realtà. E di fronte a quegli orrori, gli scrittori si lanciarono
energicamente nella produzione di una fiumana di opere che mettevano in
guardia contro il pericolo atomico.
Uno dei primi racconti pubblicati fu senza dubbio Memorial di Theodore
Sturgeon, apparso su Astounding nell'aprile 1946. Sturgeon invocava la
creazione di un monumento perenne per mettere in guardia le generazioni
future contro gli orrori d'una guerra nucleare. Poco dopo, scrisse Thunder
and Roses (Astounding, novembre 1947) che descrive gli Stati Uniti
devastati da un attacco atomico e narra come un uomo riesce a impedire il
lancio dei missili di rappresaglia, affinché le future generazioni possano
sopravvivere. In una guerra atomica combattuta in due, non potrebbero
esserci superstiti.
In un certa misura, l'Orrore della Bomba venne attenuato dall'immenso
sollievo causato dalla fine della guerra. Molti scrittori s'incaricarono di
sconvolgere i lettori presentando loro le conseguenze della guerra nucleare
totale. Amazing, nel maggio 1946, pubblicava Atom War di Rog Phillips.
In questo racconto, gli Stati Uniti vengono attaccati da un mitico paese che
minaccia di bombardare le principali città. L'Australia aiuta l'America, e
viene distrutta. Segue una guerra totale. Dura soltanto quindici ore, prima
che il mitico nemico venga annientato, ma muoiono settantacinque milioni
di americani. Phillips scrisse anche un seguito, So Shall We Reap!
(Amazing, agosto 1947) che esamina gli effetti della guerra e narra come il
fallout radioattivo produca mutazioni, in questo caso una nuova razza di
superesseri.
Le mutazioni causate dalle radiazioni atomiche divennero un tema
popolare in fantascienza subito dopo la guerra. Servirono come sfondo al
primo racconto venduto da Poul Anderson, Tomorrow's Children
(Astounding, marzo 1947), in cui un gruppo di scienziati dà la caccia ai
mutanti, ed al suo seguito, Logic, che sviluppa ulteriormente le
conseguenze. Henry Kuttner, in particolare, prese a cuore il tema. Way of
the Gods (Thrilling Wonder, aprile 1947), in cui i mutanti mettono le ali,
vengono perseguitati e sterminati, ebbe grande successo. Thrilling Wonder,
nell'agosto 1947, pubblicò Atomic! un altro racconto di Kuttner, in cui una
Guerra Finale, della durata di tre ore, lascia centinaia di cerchi mortali,
evitati dai superstiti, in cui si scoprono alcune forme bizzarre di esseri
senzienti. Lo stesso numero conteneva un secondo racconto di Kuttner,
Dark Dawn, sotto lo pseudonimo di Keith Hammond. In quel racconto, le
radiazioni minacciano l'esistenza d'una razza di esseri marini.
Nel luglio 1947, Astounding presentava The Figure di Edward Grendon
che, nonostante la sua brevità (appena 2000 parole) crea un effetto
tremendo. È ispirato agli effetti delle radiazioni sugli insetti, dopo le
esplosioni delle atomiche nel Nuovo Messico ed in Giappone. Cominciano
ad apparire insetti giganteschi, e quando due scienziati che fanno
esperimenti con sonde temporali riescono a recuperare un manufatto dal
futuro, restano inorriditi nello scoprire una statua dalle evidenti
connotazioni religiose che raffigura uno scarafaggio. Passarono sette anni
prima che Hollywood si rendesse conto della potenziale attrazione di simili
vicende e realizzasse il film Them! (1954) (4) su insetti giganti che
apparivano nel Deserto di Mojave. Come al solito, le riviste specializzate
avevano avuto l'idea per prime.
Entro un paio d'anni dalla bomba di Hiroshima, gli scrittori avevano
esplorato l'intero settore delle vicende che mettevano in guardia contro
l'atomica. Il campo era saturo, e i direttori chiedevano di smetterla anche
se vicende del genere avrebbero continuato ad apparire sporadicamente
negli anni successivi. La fantascienza «nucleare» era ormai ovvia, e ben
presto si sarebbe visto che, com'era esplosa la Bomba, in pochi anni
sarebbe esplosa anche la science fiction.
La differenza tra le riviste più importanti, dopo la guerra, era piuttosto
evidente. Astounding, ancora magistralmente dominata da John W.
Campbell, era di qualità superiore. Pubblicata dalla Street & Smith
Publications della East 42nd Street, New York, era stata l'unica rivista
specializzata a mantenere una cadenza mensile durante la guerra, poiché
aveva reagito alle restrizioni della carta prima sacrificando la sua
leggendaria gemella, Unknown Worlds, e poi cambiando formato e
passando da quello normale pulp (cm. 17,5 x 25) a quello digest (cm.
13,75 X 20) a partire dal novembre 1943. Essendo l'unico periodico
fantascientifico formato digest in vendita nelle edicole, dove si
ammucchiavano le riviste pulp, aveva un aspetto più distinto e maturo,
accresciuto dalle ottime copertine di William Timmins.
Nel frattempo, la rivale di Astounding, Thrilling Wonder Stories,
migliorava di numero in numero. Insieme a Startling Stories, era edita
dalla Standard Publications dell'East 40th Street, New York, e il nuovo
direttore di entrambe era Samuel Merwin, che aveva la stessa età di
Campbell. Sotto la guida dei precedenti direttori, Mort Weisinger e Oscar
J. Friend, si erano orientate soprattutto verso il pubblico dei ragazzi. Le
copertine erano tra le più sgargianti, e tutte opera di Earle K. Bergey. Più
di ogni altro disegnatore, Bergey finì per venire associato all'idea del Bug-
Eyed Monster, cioè una creatura aliena, bizzarra, con gli occhi stralunati,
impegnatissima a portarsi via una magnifica bionda in costume da bagno
nonostante l'eroismo del difensore umano. Merwin si sforzò di elevare la
posizione delle due riviste, soprattutto Thrilling Wonder, migliorando la
qualità delle vicende e la presentazione. Sebbene limitato dal formato pulp,
riuscì tuttavia ad ottenere copertine migliori da Bergey, come quella che
illustra il citato Way of the Gods di Kuttner. Merwin acquistò narrativa dai
maggiori autori di Astounding, come Murray Leinster, George O. Smith e
L. Sprague de Camp, e nel 1946-7 i lettori di fantascienza non
consideravano più le sue riviste come prodotti per ragazzi.
Una pubblicazione regolare e puntuale era Famous Fantastic Mysteries,
edita dalla All-Fiction Field Inc, sussidiaria della Popular Publications, la
più grande catena editoriale dei pulps. Era diretta da Mary Gnaedinger,
affettuosamente chiamata «la regina della fantascienza», negli uffici della
East 42nd Street, poco più avanti della redazione di Campbell. Famous
Fantastic Mysteries (che per comodità chiameremo FFM) era
sostanzialmente una rivista di ristampe, e attingeva all'enorme scorta della
fantascienza apparsa su Argosy e All-Story in quarant'anni. Negli ultimi
mesi aveva cambiato un po' la sua politica, includendo la ripubblicazione
di testi che in precedenza avevano avuto una distribuzione limitata, negli
Stati Uniti, sotto forma di libri. Come fonte della science fiction e della
fantasy «perdute», scritte da grandi nomi come Rider Haggard, William
Hope Hodgson, S. Fowler Wright e John Taine, era preziosa.
Planet Stories era senza dubbio la patria della space opera, perché non
ospitava altro che avventure interplanetarie, molte delle quali erano di pura
evasione. Veniva pubblicata dalla Fiction House dell'Eight Avenue, New
York, ed era diretta da Malcolm Reiss, sebbene quasi tutto il lavoro
redazionale, nell'aprile 1946, all'inizio della nostra panoramica, fosse
appena passato da Chester Whitehorne a Paul Payne. Planet era
eccezionale, perché tra le avventure spaziali si potevano trovare alcuni testi
sorprendenti. Racconti di Ray Bradbury, incluse molte delle sue Martian
Chronicles, più ingegnosi testi di Leigh Brackett e Fredric Brown,
assicuravano alla testata un largo seguito.
Alla fine del 1945 tutte queste riviste, tranne Astounding, mantenevano
una regolare cadenza trimestrale (la compagna di scuderia di Astounding,
Doc Savage, che pubblicava un romanzo d'apertura imperniato sulle
bizzarre avventure del personaggio così chiamato, usciva anch'essa
mensilmente). Quasi tutte le riviste impiegarono un anno o due per
riassestarsi e per darsi una diversa cadenza d'uscita, ma una di esse tornò
mensile quasi da un giorno all'altro, e prima della fine del 1946 era in testa
alle vendite. Si trattava di Amazing Stories, e la maniera in cui ci riuscì
costituì la grande sensazione del decennio. Al mondo della fantascienza,
infatti, portò ben altri brividi che quelli dell'atomica... il Mistero Shaver.

2. Un fenomeno chiamato Shaver

Il Mistero Shaver, o l'Impostura Shaver, come venne chiamato in


seguito, cominciò in realtà prima della fine della guerra, e quando questa si
concluse era già in pieno galoppo. La verità completa non è mai stata
raccontata, e questo volume include alcune rivelazioni mai pubblicate
prima sullo sbalorditivo episodio. Innanzitutto, permettetemi di esporre
semplicemente i fatti.
Nel settembre 1943 Raymond Palmer, il direttore di Amazing, ricevette
una lettera da Richard Sharpe Shaver, il quale abitava a Barto in
Pennsylvania. Presentava la chiave di un antico alfabeto che, secondo le
affermazioni di Shaver, era la lingua madre di tutte le altre: Il Mantong (5).
Palmer pubblicò la lettera nel gennaio 1944 su Amazing ed i lettori
reagirono vivacemente. Palmer iniziò una corrispondenza con Shaver, che
allora faceva il saldatore in una fabbrica bellica, perché si era fratturato
una caviglia cadendo a bordo di una nave, e perciò non era stato arruolato
durante la guerra. Palmer chiese a Shaver di scrivere per lui, e quello lo
accontentò con un romanzo breve intitolato Warning to Future Man. Il
testo venne visto, a quanto sembra, innanzi tutto dal direttore editoriale di
Amazing, Howard Browne, che gli diede un'occhiata e lo gettò nel cestino,
gridando «Che squilibrato è quel tipo!» Palmer, sempre a caccia del
sensazionale, decise di sfidare l'opinione di Browne. Prima ancora di
leggere il manoscritto, decise di stamparlo e di vedere quale sarebbe stata
l'opinione dei lettori. Warning to Future Man era ambientato molto avanti
il Diluvio, nella prima grande civiltà della Terra, che Shaver chiamava
Atlan. La storia era narrata da Mutan Mion, l'ultimo terrestre che lasciò il
nostro pianeta quando i Titani emigrarono, e riguardava una lotta tra due
fazioni, un Titano malvagio chiamato Zeit, ed una dea buona, Vanue.
Palmer rimaneggiò un po' la vicenda, cambiò il titolo in I Remember
Lemuria! e fece una sorpresa al pubblico di Amazing nel numero del marzo
1945. Il risultato fu fenomenale, e cominciò il Mistero Shaver. Ma Palmer
fu anche fortunato, perché alla Ziff-Davis accadde qualcosa al di fuori
dalla sua volontà.
Le restrizioni della carta avevano portato inevitabilmente alla scarsità di
roba da leggere, quindi tutto quello che veniva esposto nelle edicole si
vendeva. Harold G. Strong, direttore della distribuzione della Ziff-Davis,
decise che era inutile disperdere la dotazione di carta su tre riviste, quando
due si sarebbero vendute altrettanto bene. Perciò ricevettero il bacio
d'addio Mammoth Detective e Mammoth Mystery, allora dirette da Howard
Browne, e questo naturalmente non contribuì a rendere Palmer gradito agli
occhi di Browne. Poi Strong decise di far stampare e distribuire 50.000
copie di Amazing in più. Si vendettero, e per caso la decisione di Strong
venne a coincidere con quel tal numero del marzo 1945. Raggiungendo un
vasto pubblico, stanco della guerra, le teorie fantastiche di Shaver fecero
scalpore. Amazing, che di solito riceveva quaranta o cinquanta lettere al
mese, all'improvviso ne ricevette duemilacinquecento! Palmer capì di
essere il vincitore, e ammise di non capire il perché... ma perché guardare
in bocca a caval donato? Si assicurò altri racconti di Shaver, più articoli
vari, e tutto continuò ad andare a gonfie vele. Le vendite di Amazing
continuarono ad aumentare, e ben presto altre pubblicazioni s'interessarono
alla faccenda.
La rivista patinata Harper's del settembre 1946 pubblicò un articolo
Little Superman, What Now? di William S. Baring-Gould, che derideva il
Mistero Shaver, considerandolo frutto di una mente eccentrica. Subito,
Palmer reagì sostenendo il Mistero. Naturalmente, quella pubblicità era ciò
che cercava: se un libro viene proibito, le vendite salgono alle stelle.
Quindi, con il Mistero Shaver, più cresceva lo scandalo e più aumentava la
tiratura di Amazing. E si diceva che Ziff avesse concesso a Palmer un
sostanzioso aumento di stipendio, grazie all'incremento delle vendite.
Dunque, cos'era questo Mistero? Perché aveva causato tanta sensazione?
Chi era Richard Shaver?
Richard Shaver era nato mercoledì 8 ottobre 1907 a Berwick,
Pennsylvania. Suo padre era operaio: lavorava alle presse che sfornarono i
pezzi per le prime carrozze ferroviarie in acciaio. Sua madre era un'ex
maestra di scuola, che non aveva perso tempo nel dare ai cinque figli una
notevole istruzione prescolastica. Era anche una poetessa degna di nota, e
vendeva versi a pubblicazioni d'alto livello come Ladies Home Journal e
Good Housekeeping. Quando Shaver ebbe undici anni, la famiglia si
trasferì a Blomsburg, dove per un po' il padre fu proprietario d'un
ristorante. Terminati gli studi, Shaver fece vari lavori, da sovrintendente di
una società di giardinaggio a insegnante d'arte.
Il Mistero cominciò una sera, mentre leggeva il poema di Lord Byron,
Manfred: s'imbatté nel verso «Per un potere a te ignoto, tu non puoi mai
essere solo». Davvero non era solo? pensò Shaver. Poi, chissà come, ebbe
diverse visioni, sino a quando all'improvviso la ricezione s'interruppe,
come se qualcosa l'avesse troncata di proposito.
Questo episodio continuò ad ossessionare Shaver. Un giorno, quando
lavorava nell'Illinois, mentre chiedeva un passaggio per tornare in
Pennsylvania, fu arrestato per vagabondaggio e chiuso in carcere. Cercò di
stabilire di nuovo il suo contatto, supplicando «Tirami fuori di qui». Ecco
quel che racconta Shaver:
«Arriva una ragazza, guidando il carceriere, che si comporta
come un sonnambulo. Lui gira la chiave e mi lascia andare. La
ragazza ci guida entrambi lungo il corridoio, fino alla porta
esterna, che lui apre: e usciamo tutti e due. La seguii, incerto e
stordito, per circa un chilometro fuori dalla città, nel cuore della
notte. Poi penetrammo in una collina... una sezione si chiuse
dietro di noi alla maniera di "Sesamo, chiuditi!" ed entrammo.
C'era una quantità di scale e rampe e luce fioca, ed io sapevo che
"lei" era una specie di proiezione trasparente, ma bisognava
andarle vicino per vedere la differenza.
«Dunque entrai. Trascorsi un giorno o poco più parlando con
loro, e m'informarono della complessa situazione ereditata dai
nostri sconsigliati progenitori, i quali conservarono così bene il
segreto che oggi nessuno sa niente del loro passato. Decidemmo
che era necessario fare qualcosa per rimediare a tanta ignoranza.
Restai là soltanto ventiquattro ore o giù di lì, poi uscii e me ne
andai per la mia strada. Più tardi cominciai a scrivere opere di
narrativa su quel tema.»

Nella sua narrativa, Shaver affermava che, molti secoli fa, la Terra era
abitata da parecchie razze, incluse due di superesseri, i Titani e gli Atlan.
Erano immortali semidivini, ed avevano civiltà grandiose. Dopo un certo
periodo, si scoprì che il Sole emetteva radiazioni dannose. I superesseri
scavarono enormi, profonde caverne per salvarsi, e crearono sottoterra la
loro città, piene di poderosi macchinari. Ma le radiazioni continuarono a
far sentire i loro effetti: i superesseri invecchiavano e morivano.
Abbandonando la loro grande civiltà, lasciarono la Terra, e la razza
inferiore degli umani, che rimase, riuscì a penetrare nella rete delle
caverne, e scoprì i macchinari. Gli umani pasticciarono con quell'energia
sconosciuta, scatenando raggi pericolosi che trasformarono alcuni di loro
in malvagi degenerati. Gli esseri di questa razza vennero chiamati dero
(detrimental robot) (6) da Shaver, perché essi utilizzarono le macchine per
emettere altri raggi dannosi ed in tal modo influenzarono i pensieri di
coloro che vivevano in superficie. C'era anche la razza dei «tero», che
avevano buone intenzioni, ma furono i «dero» a suscitare maggiore
sensazione tra il pubblico della fantascienza.
Shaver sosteneva che, nelle viscere della Terra, nelle caverne, i «dero»
continuavano a operare, e che i raggi erano la causa di tutte le cattive
intenzioni del mondo. Vengono usati raggi diversi, soprattutto il «teleaug»
(telepathic augmentor), che permette di stabilire contatti tra le grotte e la
superficie (il mezzo di contatto di Shaver). I «dero» hanno dato origine
alle leggende del Piccolo Popolo, dei dèmoni e dei diavoli; sono loro che
causano tutti gli incidenti, i disastri e le catastrofi inesplicabili. Inoltre,
Shaver diceva che i Titani hanno tenuto d'occhio la Terra e ritornano di
tanto in tanto, rapiscono varia gente e compiono scorrerie nelle caverne per
procurarsi l'equipaggiamento. Questo spiegherebbe le tante sparizioni
misteriose, e anche gli avvistamenti degli strani «oggetti volanti non
identificati». Le teorie di Shaver, quindi, fornivano le ragioni per quasi
tutti gli eventi «inspiegabili.»
Nei suoi racconti, Shaver narrava molti avvenimenti del passato. Dopo I
Remember Lemuria! fu la volta di Thought Records of Lemuria (giugno
1945). Le «registrazioni del pensiero» del titolo sono strisce metalliche su
cui vengono appunto registrati i pensieri, e perciò l'ascoltatore può
riviverli. Tali registrazioni venivano trasmesse a Shaver dalle caverne per
mezzo del «teleaug.»
Erano vicende gradevoli, benché scritte in modo molto semplice, e se
fossero state considerate semplicemente come opere di narrativa, forse gli
eventi non sarebbero precipitati. Ma la confraternita fantascientifica andò
su tutte le furie perché i critici potevano ritenere il fenomeno Shaver come
la migliore science fiction e quindi considerare tutto il genere nella stessa
luce. Inoltre, erano incolleriti perché i racconti venivano sfacciatamente
presentati come realtà, con il risultato che gli estranei vedevano il mondo
fantascientifico come una gabbia di matti. Prima della fine del 1945
scoppiò una «guerra» tra Palmer e il fandom della science fiction.
Shaver voleva che i suoi racconti venissero presentati come realtà,
oppure era stato un trucco di Palmer per aumentare le vendite?
Oggi Shaver è incrollabile come lo era allora, e sostiene che la base di
tutti i racconti è vera. Palmer, all'inizio, non sapeva cosa credere, ma la
susseguente fiumana di migliaia di lettere da parte dei lettori che davano
ragione a Shaver convinse Palmer che doveva esserci qualche granello di
verità. Verso la fine del 1946, Palmer ammise che doveva esserci una base
vera; andò a trovare Shaver e udì anche lui le strane voci. Ma come si può
riconciliare tutto questo con il fatto che, nel 1955, Palmer scriveva
esasperato: «State a sentire! Di solito ero io a creare la trama dei racconti
di Shaver. Gran parte del suo "mistero" è uscito dalla mia mente»! (7)
In realtà, si può istituire un parallelo tra il Mistero Shaver ed il fittizio
Mito di Cthulhu di H.P. Lovecraft. Lovecraft racconta che la Terra era stata
abitata un tempo dagli Antichi, una specie sovrannaturale e ostile,
sopraffatta e bandita da una razza benevola, gli Dei Primigeni. I mortali
ignoranti, che talvolta violano i sigilli, aprono la via al ritorno degli
Antichi. È possibile che tutto questo avesse influenzato Shaver? È
possibile che Shaver non conoscesse i racconti di Lovecraft, anche se
all'inizio degli Anni Quaranta erano stati quasi tutti pubblicati in volume, e
Shaver ammetteva di essere un lettore insaziabile. Senza dubbio, Palmer li
aveva letti quando erano apparsi per la prima volta su Weird Tales, e può
darsi che ne avesse inserito i temi nei testi inviatigli da Shaver. Tuttavia
Shaver nega che vi siano mai state macchinazioni di questo genere:
sostiene che Palmer non fece altro che aggiungere l'elemento sesso nella
sua narrativa (7 bis).
È una faccenda affascinante. Soprattutto oggi, alla luce delle ulteriori
ricerche di autori come Erich von Daniken e Peter Kolosimo. Per esempio,
nel libro di von Daniken, The Gold of the Gods (1972) l'autore discute a
lungo un'enorme serie di caverne sotterranee nel Sud America,
evidentemente costruite da una razza evolutasi molte centinaia di anni or
sono. È possibile che siano le caverne lasciate dai Titani? La scarsità di
spazio impedisce di parlare a lungo del Mistero Shaver, anche se ci
ritorneremo più avanti. Mi auguro di aver aguzzato la vostra curiosità,
inducendovi a cercare gli scritti di Shaver, e a decidere da soli quale è la
verità.
L'incidente Shaver aveva disgustato i fans, ma sotto altri aspetti aiutò
molto la fantascienza. La tiratura di Amazing aumentò e ben presto
Fantastic Adventures tornò alla cadenza mensile. Le riviste potevano
pagare compensi più alti, e questo permise all'editore di fare altri
esperimenti negli anni successivi. Shaver scrisse vari racconti, oltre al suo
Mistero. Parecchie fantasie degne di nota apparvero in Fantastic
Adventures, mentre vicende storiche furono pubblicate da Mammoth
Adventure.
Per fortuna, Palmer non dedicò interamente Amazing a Shaver, sebbene
nel giugno 1947 uscisse un'edizione speciale «tutta Shaver», con quattro
lunghi racconti, più un riepilogo completo del Mistero. Palmer continuò a
presentare racconti di autori famosi. Aiutò anche scrittori nuovi,
soprattutto Rog Phillips, pseudonimo con cui è più noto Roger Phillips
Graham (1909-65). Dopo un anno o due dalla pubblicazione del suo primo
racconto, Let Freedom Ring (Amazing, dicembre 1945), appariva sotto una
ventina di pseudonimi con dozzine di racconti. Inoltre, era un sostenitore
del Mistero Shaver; e scoprì un libro bizzarro, Oahpse, che sarebbe stato
scritto nel 1882 da esseri intelligenti e millenari.
Poi c'era Chester S. Geier, che apparve per la prima volta su Amazing nel
dicembre 1942 con The Sphere of Sleep, a soli ventun anni. Geier era,
sembra, sordo come una campana, ma questo non tornava a discapito dei
suoi scritti. Era abile e levigato, ma sprecava le sue doti producendo
robaccia, anche se i suoi racconti erano solitamente sul livello medio di
Amazing. Geier s'invischiò nel Mistero. Organizzò lo Shaver Mystery
Club, e divenne direttore di The Shaver Mystery Magazine, che pubblicò a
puntate Mandark, ovviamente di Shaver, una vicenda ambientata al tempo
di Cristo, che persino Palmer giudicò troppo tabù per la pubblicazione.
Geier collaborò con Shaver in alcuni racconti, poiché era più svelto a
mettere insieme il manoscritto definitivo. Completò inoltre un racconto del
fratello maggiore di Shaver, Taylor Victor Shaver, che era morto
d'influenza prima di ultimarlo: e il racconto The Strange Disappearance of
Guy Sylvester, venne finalmente pubblicato su Amazing nel marzo 1949.
Gli altri due nuovi autori alla corte di Palmer erano i fratelli Livingston,
Berkeley e Herb. Herb, minore di otto anni, scrisse quasi tutta la sua
narrativa con lo pseudonimo di H.B. Hickey, e suoi racconti appaiono
ancora di tanto in tanto, sebbene Berkley abbia abbandonato da tempo il
campo fantascientifico.
I veterani apparvero su Amazing con minore regolarità durante questo
periodo, ma una memorabile pietra miliare fu la pubblicazione, nel
settembre 1947, della versione completa di The Star Kings di Edmund
Hamilton. Il romanzo, di 75.000 parole, presentava il personaggio di John
Gordon, che veniva trasferito duecentomila anni nel futuro, scambiandosi
di corpo con Zarth Arn, principe dell'Impero Medio-Galattico.
Il Mistero Shaver raggiunse il culmine durante il 1947. Poi la direzione
generale della Ziff-Davis cominciò a dare ascolto alle proteste che lo
definivano antiscientifico. Fino a quel momento, aveva lasciato fare a
Palmer ciò che voleva, ma dopo quelle lamentele si fece più attento e
chiese a Palmer di mettere la sordina. Il Mistero venne abbandonato a
partire dal numero del marzo 1948, ma era tutt'altro che finito, e altri
racconti di Shaver continuarono ad apparire. Quel periodo segnò l'inizio
della separazione tra Palmer ed Amazing Stories.

3. Di nuovo in Gran Bretagna


A differenza degli Stati Uniti, la Gran Bretagna non aveva riviste
fantascientifiche alla conclusione della seconda guerra mondiale. In
precedenza erano esistite tre pubblicazioni. Un settimanale per ragazzi,
Scoops, era apparso per breve tempo nel 1934, ma era tutt'altro che
memorabile. Poi un fan di Ilford, Walter Gillings, riuscì a interessare gli
editori della World's Work a includere una testata fantascientifica nella
serie Master Thriller, e nell'estate del 1937 nacque Tales of Wonder. Dopo
il primo numero di prova, aveva seguito una regolare cadenza trimestrale,
e nel 1938 la sua prima concorrente, Fantasy, era stata pubblicata da
Newnes, che da diversi anni si gingillava con quell'idea. Fantasy durò solo
tre numeri. A causa della guerra il suo direttore, T. Stanhope Sprigg, che
era nella Riserva della RAF, venne mobilitato, e con la sua partenza la
rivista morì. Tales of Wonder divenne progressivamente più smilza, ma
sopravvisse per sedici numeri, prima di chiudere nella primavera del 1942.
Walter Gillings era nell'esercito; ma vi restò poco. Poiché soffriva di
psiconeurosi, ritornò in borghese nel 1944, e si mise all'opera con un
vecchio amico, Benson Herbert. Herbert aveva venduto parecchi racconti a
Wonder Stories di Gernsback fin dal 1931, incluso un romanzo, The
Perfect World, che nel 1936 ebbe un'edizione rilegata inglese, con il titolo
Crisis! - 1992. Aveva anche una laurea in scienze per le ricerche radio. Nel
1944 organizzò l'Utopian Publications Ltd., con Walter Gillings come
direttore, e s'incominciarono a pubblicare volumetti stampati in qualche
modo, partendo con Girl in Trouble di E. Frank Parler. Con la scarsità
della carta, la situazione era la stessa esistente in America; tutto quel che
veniva stampato andava immediatamente a ruba, qualunque cosa fosse.
Herbert e Gillings non faticarono a vendere le loro pubblicazioni, dato che
soprattutto ostentavano in copertina ragazze nude; peraltro il materiale
nuovo era scarso... si trattava specialmente di ristampe americane. In
alcuni casi le raccolte di racconti potevano venire considerate come riviste
di ristampe, in particolare Strange Tales, che ebbe due numeri, nel febbraio
e nel marzo 1946. Contenevano materiale di prim'ordine di autori come
Ray Bradbury, Clark Ashton Smith, Robert Bloch, John Beynon
(Wyndham) e altri: andarono subito esaurite e oggi sono preziosi pezzi da
collezione.
Nel 1946, quando la guerra, finalmente, era solo un brutto ricordo, gli
editori cercavano di riaffermarsi, anche se le restrizioni sulla carta erano
ancora in vigore. Poiché tutto quel che veniva stampato si vendeva, c'era
da aspettarsi che il materiale scadente fosse non meno abbondante di
quello buono. La science fiction ne risentì. Nel 1946 l'editore londinese
Hamilton & Co. produsse una manciata di riviste infantili di grande
formato. Strange Adventures uscì per prima: comprendeva tre racconti di
uno scrittore di storie di gangster, N. Wesley Firth, che non sapeva quasi
nulla di fantascienza. Seguì una rivista gemella, Futuristic Stories:
entrambe ebbero un secondo numero in quello stesso anno. Poi,
fortunatamente, chiusero. Chiunque avesse imparato a conoscere la
science fiction su quelle riviste avrebbe tutte le ragioni di considerarla
robaccia puerile. Ma per fortuna, gli appassionati avevano già adocchiato
New Worlds.
Edward John Carnell (1912-71) aveva finalmente avuto fortuna. Già nel
1940 aveva intavolato trattative per produrre una rivista specializzata a
livello professionale. Poi, nel gennaio 1946, appena congedato
dall'esercito, Carnell incontrò a Londra il suo vecchio amico Frank Edward
Arnold. Arnold aveva appena convinto un piccolo editore a pubblicare una
serie di titoli di science fiction, e condusse Carnell a fargli visita portando i
piani per New Worlds. La casa editrice era la Pendulum Publications, ed il
responsabile era Stephen Frances che si entusiasmò e superò i problemi
della carta e della stampa. Carnell mise prontamente insieme il primo
numero e New Worlds, con il sottotitolo Fiction of the Future, arrivò in
edicola in luglio con il prezzo di 2 scellini. Pubblicava, come romanzo
breve d'apertura, The Mill of the Gods di Maurice G. Hugi (1904-47) e
l'affascinante scritto di fantasy, The Three Pylons di William F. Temple, il
cui classico, The 4 Sided Triangle era incluso nel primo volume di questa
serie. Il numero era completato da quattro racconti scritti dal più prolifico
autore della fantascienza britannica, John Russell Fearn, The Blackpool
Wonder, che tra il 1933 e il 1946 aveva avuto un posto di rilievo sulla
scena della narrativa americana.
Le vendite del primo numero furono disastrose, solo 3000 su 15.000
copie stampate. Carnell ritenne che la colpa fosse soprattutto della
trascuratezza della Pendulum, ed in parte della scialba illustrazione di
copertina, del disegnatore della casa editrice, Robert Wilkin. Lo stesso
Carnell progettò la copertina per il secondo numero, e l'illustrazione finale
fu opera di Victor Caesari. Era una scena con astronavi, ricavata da due
vecchie copertine di riviste americane. In vendita in ottobre, il secondo
numero andò esaurito, e la Pendulum mostrò una certa iniziativa, togliendo
la copertina di Wilkin dal primo numero invenduto e sostituendola con una
di Caesari. Rimesse in edicola, anche quelle copie vennero esaurite, il che
dimostra che i collezionisti devono stare attenti a controllare quale «primo
numero» possiedono in realtà. Se ha la copertina di Caesari, allora non è il
primo.
New Worlds era lanciata e cominciarono i progetti per il terzo fascicolo.
Gli appassionati furono ancor più incoraggiati quando, prima del Natale
1946, apparvero altre due riviste. Innanzi tutto, in ottobre, in concomitanza
con il secondo New Worlds, uscì una piccola pubblicazione, Outlands, «A
Magazine for Adventurous Minds». La copertina piuttosto pastorale, tutta
azzurra con una scena fluviale, non era la più adatta ad attirare l'occhio del
fan fantascientifico. Ma l'avrebbe attirato il titolo Pre-Natal di John
Russell Fearn, scritto sul margine superiore. L'onnipresente Fearn era
tornato alle stampe, e questa volta più vicino a casa.
Outlands veniva diretta da Leslie J. Johnson, da casa sua, a Liverpool.
Johnson, come forse ricorderete dal precedente volume, aveva contribuito
a fondare nel 1933 la British Interplanetary Society. Aveva collaborato con
John Russell Fearn ed Eric Frank Russell, ed il culmine fu la
pubblicazione della sua collaborazione con Russell, Seeker of Tomorrow,
su Astounding nel 1937 che è stato ristampato nel nostro precedente
volume. Con Outlands, Johnson presentava una rivista adulta con narrativa
fantastica gradevolissima di autori come Charnock Walsby, George C.
Wallis (un vero veterano tra gli scrittori britannici) e Sidney J. Bounds, la
cui prima vendita, Strange Portrait (una specie di Dorian Gray
aggiornato), appariva appunto sulla rivista. Il numero comprendeva anche
il necrologio di H.G. Wells, che era morto il 13 agosto 1946, un mese
prima del suo ottantesimo compleanno. L'uomo che, quasi da solo, aveva
reso popolare la science fiction in Gran Bretagna e aveva sognato le
meraviglie della scienza, era vissuto abbastanza a lungo per vedere gli
orrori della bomba atomica. La sua morte chiuse per sempre un'epoca e
aprì il sipario sull'era nucleare.
Un secondo numero di Outlands venne annunciato per dicembre, ma
non uscì mai, perché la distribuzione rifiutò di occuparsene. Tuttavia,
quello stesso mese, gli appassionati avrebbero trovato il primo numero di
Fantasy.
Non era la riesumazione della prebellica Fantasy di Newnes. In formato
digest, con una bella presentazione, era una creazione di Walter Gillings,
ed era edita dalla Temple Bar Publishing Company di Store Street, Londra.
Gillings stava preparando la rivista fin dal 1943 e aveva già raccolto
materiale sufficiente per nove numeri. Dato che New Worlds vendeva bene,
la Temple Bar lanciò la prima Fantasy, che andò egualmente esaurita.
Anche qui c'era John Russell Fearn, con il racconto d'apertura Last
Conflict; e soprattutto Arthur C. Clarke con Technical Error.
Arthur C. Clarke aveva pubblicato un paio di articoli scientifici su Tales
of Wonder prima della guerra. Arruolato nella RAF nel 1941, partecipò ai
primi esperimenti con il radar, e in seguito vendette un breve articolo a
Wireless World, intitolato Extra-Terrestrial Relays, che postulava tre
satelliti in orbita terrestre, usati per la televisione globale. Diciassette anni
dopo, il Telstar divenne una realtà. Quando Clarke seppe che Gillings
cercava materiale per una rivista nuova, gli mandò un'infornata di racconti,
e Gillings ne acquistò parecchi. Poiché il tempo passava e Fantasy ancora
non appariva, Gillings, ne restituì alcuni e gli consigliò di cercare di
venderli negli Stati Uniti. Clarke lo fece. John W. Campbell ne acquistò
due per Astounding: Loophole, che apparve nell'aprile 1946, e l'ormai
famoso Rescue Party (maggio 1946), in cui gli alieni esplorano la Terra
poche ore prima che il Sole si trasformi in nova.
Un secondo numero di Fantasy apparve nell'aprile 1947; e portava in
apertura l'affascinante racconto di Eric Frank Russell Relic, che parla
dell'atterraggio sulla Terra di un'antica astronave e delle successive
esplorazioni del suo occupante, un robot. Era presente anche Clarke, con
un racconto breve, Castaway, sotto lo pseudonimo di Charles Willis. Usò
un altro pseudonimo, E.G. O'Brien, per il racconto The Fires Within, che è
incluso in questo volume, e che venne pubblicato per la prima volta nella
terza Fantasy, agosto 1947... l'ultimo numero. Sebbene tutti fossero andati
esauriti, la rivista venne chiusa perché le restrizioni sulla carta costrinsero
gli editori a dare la preferenza a pubblicazioni più redditizie.
Il pubblico della science fiction, inoltre, non sapeva cosa pensare di New
Worlds. Dov'era finita? I primi due numeri erano apparsi in rapida
successione; eppure adesso, dopo un anno, non s'era più visto nient'altro.
Alla buon'ora, alla fine di ottobre del 1947, arrivò nelle edicole il terzo
numero. La Pendulum era incappata in problemi finanziari ed era in
curatela fallimentare; eppure, anche se il numero tre andò esaurito
immediatamente, non ci fu tregua. Quel numero comprendeva un breve
romanzo d'apertura, Dragon's Teeth di John K. Aiken, più Fantasia
Dementia, l'ultimo racconto di Maurice Hugi, che morì all'inizio del 1947,
a soli quarantatre anni. Arthur C. Clarke era di nuovo presente, sotto lo
pseudonimo di Charles Willis, con Inheritance. Questo breve racconto, che
parlava d'un figlio vissuto nel futuro previsto dal padre, venne acquistato
anche da John W. Campbell per Astounding: ora, questa rivista si vantava
di non ristampare mai nulla, e l'apparizione di Inheritance nel settembre
1948 rappresenta l'unica occasione in cui Astounding pubblicò un racconto
che era stato pubblicato precedentemente! Clarke stava cominciando sotto
i migliori auspici.
In seguito al disastro editoriale, la science fiction in Gran Bretagna era
piuttosto depressa nel Natale 1947 anche se, per ironia, continuavano a
tirare avanti le edizioni britanniche delle riviste americane. Due ristampe
raffazzonate di Amazing Stories erano apparse durante l'inverno 1946-47.
Un'edizione di Astounding piuttosto regolare era sul mercato fin dal 1939,
come pure la compagna di Astounding, Unknown. Era l'opera del
distributore più metodico della Gran Bretagna, l'Atlas Publishing Co., che
ridusse il numero dei racconti nell'edizione inglese e perciò la tenne in vita
molto tempo dopo che l'edizione madre aveva chiuso. Quando l'Atlas finì
per restare senza testi, dopo quarantun numeri, lanciò l'edizione britannica
di Thrilling Wonder. Perciò, anche senza Fantasy e New Worlds, gli
appassionati che non potevano acquistare le edizioni originali americane
potevano saziare i loro appetiti con le versioni abbreviate inglesi.

4. Incomincia il boom

Gli Stati Uniti tornarono alla normalità prima della Gran Bretagna.
Contemporaneamente alla transitoria flessione britannica, cominciarono ad
apparire le prime onde nel mare della fantascienza americana. Già
Amazing era tornata alla cadenza mensile, e alla fine del 1946 tutte le altre
pubblicazioni uscivano a mesi alterni, ad eccezione di Planet Stories, che
era sempre stata trimestrale.
Poi, nel febbraio 1947, uscì nelle edicole una rivista nuova di zecca, il
primo nuovo periodico americano da quando Uncanny Stories era apparsa
e scomparsa con un solo numero nell'aprile 1941. Si chiamava Fantasy
Reader, anche se il suo nome è così legato a quello della casa editrice, la
Avon Books della West 57th Street, New York, che viene solitamente
chiamata Avon Fantasy Reader. Si può sostenere che era soprattutto una
regolare antologia tascabile, come la presentava il direttore, Donald
Wollheim, nella sua introduzione al numero d'esordio, ma durante la sua
esistenza venne accettata come rivista. Era insolita, poiché aveva formato
digest, era stampata con una copertina patinata, e costava trentacinque
centesimi. Fino a quel momento le riviste di fantascienza, più care,
Astounding e Amazing, costavano soltanto venticinque centesimi, e altre ne
costavano soltanto quindici! Il fatto che Fantasy Reader vendesse bene
dimostrava che c'era un pubblico affamato.
Donald Wollheim era il direttore ideale per un simile progetto. Aveva già
fatto molto per rendere popolare il genere, nella sua veste di direttore della
prima antologia tascabile di fantascienza The Pocket Book of Science
Fiction era stato pubblicato nel maggio 1943 dalla Pocket Books Inc. di
New York, e aveva avuto un successo enorme. Includeva dieci racconti,
che andavano da By the Waters of Babylon di Stephen Vincent Benet, tratto
dalla Saturday Evening Post, a A Martian Odyssey di Stanley G.
Weinbaum, tratto da Wonder Stories. Le riviste specializzate risultavano
ben rappresentate: metà dei racconti vi erano apparsi per la prima volta, e
tre di questi venivano da Astounding.
Nel 1946, Wollheim lavorava per le riviste pulp della Ace di A.A. Wyn;
ma scrisse alla Avon Books per chiedere se interessava aggiungere una
testa di fantasy alla serie delle riviste di gialli e western. Il direttore,
Herbert Williams, si entusiasmò, e impegnò Wollheim con un contratto a
compilare Fantasy Reader. Non c'era una periodicità prestabilita; appena
un numero fosse andato in pareggio, sarebbe stato pubblicato quello
successivo. Il successo di Fantasy Reader fu tale che Wollheim accettò
l'invito di passare alla Avon. Poco dopo, Williams si dimise, e Wollheim
divenne direttore dell'intera gamma della Avon.
Per Fantasy Reader dimostrò la stessa acutezza di scelta che aveva
avuto con le sue antologie. Il primo numero si apriva con un classico
intrigo spaziale di Murray Leinster, The Power Planet, tratto dall'Amazing
del giugno 1931. Erano presenti anche William Hope Hodgson, A. Merritt,
H.G. Wells, August Derleth, Clark Ashton Smith, H. Russell Wakefield e
Lord Dunsany: una parata di stelle, con testi che spaziavano dalla science
fiction ortodossa agli spettri. Alla fine del primo anno, dopo quattro
pubblicazioni, Wollheim era riuscito a ristampare una superba panoramica
di tutti i nomi più grandi e dei classici riconosciuti nei campi della
fantascienza, del fantastico e dell'orrore, e Fantasy Reader stava già
diventando una rivista ricercatissima.
Nell'estate 1947 ebbe due rivali, il cui valore concorrenziale era minimo:
ma comportavano una differenza. In precedenza le pubblicazioni
specializzate provenivano tutte da New York o da Chicago, queste invece
giungevano dalla Costa Occidentale.
The Vortex era una rivista d'altissima classe, d'aspetto molto
professionale. Era diretta congiuntamente, da San Francisco, da due fans,
Gordon M. Kull e George R. Cowie, che pubblicavano e distribuivano
gratis questa specialità! Un volantino incluso chiedeva al lettore, se era
disposto a farlo, un'offerta di venti centesimi. Ottanta pagine in formato
digest contenevano cinque racconti, più una poesia e vari articoli. La
narrativa era divisa tra fantasy e science fiction anche se nessuno dei nomi
era famoso. (Forse erano pseudonimi dei direttori). Ognuna delle pagine
patinate portava un vortice colorato, simbolo di The Vortex: il costo del
progetto doveva essere suicida. Per questa sola ragione, non fu una
sorpresa se The Vortex non riapparve più. Grande è la devozione maniaca
dei fans...
Circa seicento chilometri più a sud di San Francisco sta Los Angeles,
patria del fan William L. Crawford, il cui nome forse ricorderete dal primo
volume, a proposito delle sue riviste semiprofessionali, Marvel Tales e
Unusual Stories. Adesso ricompariva con Fantasy Book, una rivista in
formato grande, di 40 pagine, in vendita a venticinque centesimi.
Crawford, nato nel settembre 1911, era stato attivissimo nel fandom
fantascientifico durante gli Anni Trenta, ma era scomparso dal settore con
la guerra. Riapparve nel 1945 pubblicando un volumetto, The Garden of
Fear, che raccoglieva cinque racconti tratti da Marvel Tales, incluso quello
che dava il titolo alla selezione, scritto da Robert E. Howard, e Celephais
di H.P. Lovecraft. Il volumetto si vendette bene e, dopo aver trovato un
distributore, Crawford decise di approfittare della situazione e di
pubblicare una rivista. Purtroppo, prima che fosse pronto il primo numero
di Fantasy Book, il distributore chiuse, e Crawford restò a secco. Di
conseguenza, con una tiratura di sole 1000 copie, pochissime arrivarono
nelle edicole fuori dalla California, e quasi tutte furono vendute per
abbonamento o attraverso librai specializzati.
Crawford riuscì a utilizzare i racconti acquistati per Marvel Tales. Per
esempio, il primo numero si apriva con People of the Crater, di Andrew
North. North era lo pseudonimo della scrittrice specializzata più venduta,
Andre Norton, che aveva affidato il manoscritto originale a Crawford
all'inizio degli Anni Trenta, insieme al seguito, Garan of Yu-Lac. Il
manoscritto andò perso, ma fu riscritto. People of the Crater venne
finalmente pubblicato sul primo Fantasy Book. Garan of Yu-Lac doveva
attendere fino al 1969 per venire stampato, e per giunta incompleto! Sono i
pericoli inevitabili per chi scrive fantascienza.
Sarebbe un'esagerazione affermare che Fantasy Book era una bella
rivista. Aveva un aspetto goffo ed una presentazione piuttosto trascurata,
ma in quel primo numero c'erano Robert Bloch e A.E. van Vogt con il suo
impronunciabile The Cataaaaa; più altri quattro racconti. Le illustrazioni
interne erano poche ma ben eseguite, e includevano disegni di Charles
McNutt, che in seguito divenne più noto come lo scrittore Charles
Beaumont.
Con il secondo numero, sempre in formato grande, la presentazione di
Fantasy Book declinò, anche se la narrativa era gradevole, in particolare il
classico di A.E. van Vogt, The Ship of Darkness, che cominciava con un
viaggio nel tempo all'anno 3.000.000 e la scoperta di un misteriosa nave
oscura. Ai collezionisti interesserà sapere che anche questo numero ebbe
due copertine diverse, a seconda della stampa. Un'edizione speciale, su
carta da libri, con una copertina piuttosto spaventosa di Lora Crozetti,
costava trentacinque centesimi, ed oggi è più facilmente reperibile.
Un'edizione da edicola, meno diffusa, al prezzo di soli venticinque
centesimi, aveva una copertina assai migliore di Roy Hunt. Ma era
stampata su carta pulp di pessima qualità ed oggi è piuttosto rara.
Deciso a pubblicare regolarmente, Crawford rivelò le sue ambizioni
incominciando un romanzo a puntate sul secondo Fantasy Book: The
Machine-God Laughs dello scrittore britannico Festus Pragnell. La trama,
che parlava di un super-robot e di agenti cinesi, bastava appena a tener
desto l'interesse dei lettori durante le sue tre puntate, apparse nel corso di
dieci mesi.
Al terzo numero, Fantasy Book uscì in formato digest, ma la copertina e
le illustrazioni interne, quasi tutte di Lora Crozetti, erano orrende. Era
ancora pubblicata su carta pulp, e niente migliorava il suo aspetto
squallido. Tuttavia, con il quarto numero Crawford abbandonò
saggiamente le illustrazioni nell'interno e ristampò in copertina un
piacevole bozzetto di Neil Austin, che in origine aveva accompagnato The
People of the Crater nel primo numero. La presentazione migliorò
costantemente, raggiungendo il culmine con il sesto numero, nel gennaio
1950. In formato digest più piccolo, con una copertina di Jack Gaughan,
che faceva così il suo esordio professionale, comprendeva 112 pagine e
pubblicava un romanzo breve, Scanners Live in Vain, che segnò l'inizio
della sorprendente carriera di Cordwainer Smith (8). È una vicenda cruda,
che narra la tetra esistenza dei Controllori la cui vita è dedicata alla
salvezza dell'umanità. Il racconto lasciò un'impressione indelebile nelle
menti dei lettori, tanto più che l'enigmatico Cordwainer Smith non
ricomparve sulle riviste fino al 1955. Smith era lo pseudonimo del
professore americano di politica asiatica, e consigliere militare, Paul M.
Linebarger (1913-66). Aveva una laurea e una libera docenza, parlava
cinese, tedesco, francese e spagnolo e leggeva russo, portoghese e
olandese. Il fatto che una personalità del genere potesse apparire in una
rivista di fantascienza a tiratura limitata con un racconto poi entrato nella
leggenda sottolinea quanto sia ricco di sorprese e storie complesse il
mondo della fantascienza.
Vi fu un'altra pubblicazione nuova nel gennaio 1948: The Arkham
Sampler, edita dalla Arkham House, del Wisconsin. L'Arkham House era
stata fondata nel 1939 da August Derleth e Donald Wandrei, per perpetuare
le opere di H.P. Lovecraft. Nel 1947 la casa editrice stata andando bene, e
Sampler, diretta da Derleth, uscì come rivista trimestrale per dare le notizie
sull'attività editoriale e per stampare e ristampare narrativa del genere
bizzarro e scientifico. Fu sulle sue pagine che vide la luce il classico
fantastico di Lovecraft, The Dream-Quest of Unknown Kadath. The
Arkham Sampler oggi è ricordata perché pubblicò preziose recensioni
librarie e commenti editoriali, con articoli di Lovecraft, Moskowitz, Bloch
e molti altri. Sul versante della narrativa si trovano, tra gli altri, van Vogt,
John Beynon Harris e Ray Bradbury. Dopo otto numeri trimestrali, le
vendite erano ancora insufficienti, perciò Derleth chiuse la rivista, che oggi
ha raggiunto prezzi altissimi.
Poiché Fantasy Reader e Arkham Sampler includevano sostanzialmente
ristampe, e The Vortex e Fantasy Book avevano una tiratura limitata, non si
può attribuire loro un'importanza fondamentale, quando si esamina il
secondo boom delle riviste fantascientifiche. La loro esistenza dimostra
che c'era un mercato, ma non hanno un'importanza estrema. Le vere
potenze erano i giganti di Street & Smith, Ziff-Davis, Standard e Popular,
e ogni movimento in loro favore indicava la rinascita delle pubblicazioni
di fantascienza.
La Ziff-Davis aveva cominciato a dimostrarlo quando il caso Shaver
aveva aiutato prima Amazing e poi Fantastic Adventures a riprendere la
cadenza mensile. Non solo: ma la direzione ripeté il trucco usato durante la
guerra, rilegando insieme tre numeri mensili consecutivi e vendendoli
come trimestrali, a partire dall'inverno 1947-8. La cosa continuò fino al
1951.
Ma fu alla Popular che si vide il primo segno dell'inizio del boom.
Nell'anteguerra, la Popular aveva pubblicato una covata di testate
fantascientifiche, che furono tutte sospese a causa della scarsità di carta, ad
eccezione di Famous Fantastic Mysteries (FFM). Ora, abolite le
restrizioni, fu dato il bacio della vita alla gemella di FFM, Fantastic
Novels. Il che sottolineava la popolarità di FFM, poiché durante la guerra
quest'ultima aveva più o meno fatto la parte di Novels ristampando
romanzi interi. La rinascita di Fantastic Novels sembrerebbe quindi
superflua: tuttavia fu accolta a braccia aperte. Ancora una volta presentava
la tendenza ai romanzi scientifici dello stile Argosy/All-Story, mentre FFM
continuava a presentare ristampe tratte da testi rilegati.
Il primo numero di Fantastic Novels della rinascita, con Mary
Gnaedinger di nuovo al timone, apparve nel marzo 1948, e si apriva con
The Ship of Ishtar di A. Merritt (9), che era stato pubblicato per la prima
volta a puntate su Argosy nel 1924, e nel 1938 era stato indicato da un
sondaggio tra i lettori di Argosy come il racconto più popolare mai
pubblicato dalla rivista. Ma l'edizione rilegata del 1926 aveva venduto
pochissimo. Quindi per la nuova generazione postbellica dei lettori era un
classico perduto, che meritava la riesumazione. Naturalmente, era
abbastanza facile, per Fantastic Novels, avere un buon successo. Far
rinascere una rivista con una politica già nota ai lettori non era difficile e
rischioso come il lancio di una novità. I lettori che seguivano FFM
probabilmente erano disposti a comprare la sua gemella, e con questa
certezza la Popular assegnò a Fantastic Novels una cadenza bimestrale,
alternandola a FFM. Ancora una volta, A. Merritt rappresentava le
fondamenta su cui costruire. Tuttavia, si aveva l'impressione che la
«vendibilità» di Merritt poteva essere spinta troppo in là, specialmente
quando nel dicembre 1949 la Popular lanciò A. Merritt's Fantasy
Magazine, aprendo con Creep, Shadow! l'ultimo romanzo pubblicato nel
1934. Merritt's Fantasy durò soltanto cinque numeri, ma non fu
un'indigestione di questo autore a causarne la fine. C'erano altre ragioni,
anche se ne riparlerò più avanti.
Quando Fantastic Novels si fu rimessa in carreggiata, la Popular pensò
ad un'altra delle sue testate sospese, e decise di riesumare Super Science
Stories. In origine, era stata la creatura di Frederik Pohl, quando nel 1939
si era rivolto a Rogers Terrill della Popular cercando d'interessarlo ad una
rivista fantascientifica. Super Science e la sua compagna Astonishing
Stories avevano avuto molto successo, ed erano state chiuse solo in seguito
alle restrizioni sulla carta e alla partenza di Pohl per la guerra. Pohl non era
tornato alla Popular. Dopo la guerra si mise a fare, con discreto successo,
l'agente letterario. L'editore associato della Popular, Alden H. Norton, si
rivolse invece a Ejler Jakobssen, l'uomo che aveva diretto gli ultimi numeri
di Super Science Stories. Jakobssen era un finlandese nato nel dicembre
1911 ed emigrato negli Stati Uniti nel 1926. Durante gli Anni Trenta s'era
dato ai pulps e nel 1943 era entrato alla Popular. Nel 1948 era capo di un
dipartimento che includeva anche FFM. Nell'estate 1948 era in vacanza.
Ecco il suo racconto: «Ero a otto chilometri dal telefono più vicino, e
facevo il morto sul lago, in una giornata insopportabilmente afosa, quando
un ragazzo in bicicletta comparve sulla spiaggia e gridò: "Chiami il suo
ufficio". Lo seguii per otto chilometri sino ad una fattoria, chiamai, e Al
Norton mi disse che Super Science Stories era stata resuscitata e aggiunta
al mio dipartimento».
La rivista riapparve nel gennaio 1949, presentava in apertura il romanzo
breve The Black Sun Rises di Henry Kuttner. La vicenda era stata offerta a
Super Science Stories nei suoi primi tempi, ma quando la rivista aveva
chiuso, era stata stampata nell'edizione canadese della rivista, uscita
dall'agosto 1942. L'edizione aveva continuato ad apparire bimestralmente
per tutta la durata della guerra, per ventun numeri, e aveva chiuso nel
dicembre 1945. Quando nacque la nuova Super Science, inizialmente
venne stampata anch'essa in Canada.
I collezionisti tendono a trascurare Super Science Stories. Eppure per un
certo periodo fu una rivista efficiente, che ospitava una quantità di vicende
interessanti e godibili scritte dai maggiori autori. Ray Bradbury veniva
pubblicato regolarmente, con racconti che includono il classico I, Mars, in
cui si descrive la situazione di un uomo solo sul Pianeta Rosso, e
Changeling, in cui un uomo fa fare parecchie copie androidi di se stesso
per soddisfare le sue amanti. Arthur C. Clarke apparve sulle sue pagine con
l'enigma intricatissimo The Wall of Darkness. Poul Anderson, che si stava
facendo rapidamente un nome, fornì parecchi racconti, incluso Earthman,
Beware! che è compreso nel presente volume. Inoltre, fu la prima rivista
che pubblicò un racconto di Chad Oliver, The Land of Lost Content,
apparso nel novembre 1950. Era anche un grosso mercato per il famoso
scrittore di gialli John D. MacDonald, che pubblicò diciannove racconti,
con il suo vero nome e due pseudonimi, nei quindici numeri della rivista.
Super Science Stories allettava gli appassionati includendo una rubrica,
Fandom's Corner, curata dal noto fan James V. Taurasi, recensendo
pubblicazioni dilettantistiche e fornendo notizie delle loro attività, mentre
Frederik Pohl collaborava con la rubrica di recensioni librarie The Science
Fictioneer. Per molti numeri, Ejler Jakobssen fu assistito da Damon
Knight. Jakobssen sceglieva e acquistava i racconti, mentre Knight
preparava i vari numeri. I due fecero esperimenti e incoraggiarono gli
scrittori a tentare nuove vie. Quasi trascurata, fu proprio Super Science
Stories a costituire il necessario anello di congiunzione tra Astounding e le
nuove riviste che stavano per comparire. Era l'utile corso di ripasso in cui
gli autori avevano la possibilità di ripensare il loro stile, preparandosi agli
eventi futuri.
La vicinanza con gli Stati Uniti dovrebbe indicare che in Canada
esisteva un buon pubblico per la fantascienza. E invece non era così. Senza
dubbio gli scrittori canadesi sono pochi, ed una rivista originale indigena è
una rarità. C'erano edizioni canadesi delle pubblicazioni americane, come
Super Science Stories appunto. Questa, e le versioni di Science Fiction,
Weird Tales e Uncanny Tales, consisteva solitamente di ristampe, più
qualche nuovo racconto di autori americani. Quindi fu una vera stranezza
quando, nel marzo 1949, apparve una rivista canadese completamente
originale... per di più in lingua francese, per la popolazione francofona.
Les Adventures Futuristes veniva da Montreal nel Quebec, dove circa
l'ottanta per cento della popolazione parla francese. È sorprendente che
tale pubblicazione non fosse apparsa prima, e ancora più sorprendente che,
quando finalmente arrivò, fosse quindicinale. Les Adventures Futuristes
presentava soprattutto storie incentrate su due supereroi, con stranezze
varie come un uomo sferico e piante parlanti. Dopo il sesto numero
divenne mensile, e poi sparì bruscamente dopo il decimo, nel settembre
1949. Oggi la rivista è molto rara, e negli annali fantascientifici è ricordata
come un'affascinante novità.
Dopo un anno o due un'altra rivista tutta canadese si affacciò sulla scena.
Brief Fantastic Tales era, più o meno, la rivista più piccola del settore,
poiché consisteva di 64 pagine in formato 13 X 9 e conteneva solo quattro
racconti. Era edita dalla Studio Publications di Toronto, Ontario, e costava
solo dieci centesimi. Non ricomparve mai più.
Nel 1949 accadde qualcosa che precorreva il futuro, se qualcuno avesse
avuto la preveggenza di accorgersene. I supereroi erano diventati parte
integrante della science fiction da più di due decenni. Negli Anni Trenta
molte pubblicazioni nuove erano state costruite intorno ad un personaggio
del genere: di solito c'era il romanzo d'apertura dedicato alle sue avventure.
Senza dubbio, la più famosa, nel campo delle riviste pulp era Doc Savage.
Il primo numero era apparso nel marzo 1933, edito dalla Street & Smith; e
durante la guerra aveva continuato ad uscire con regolare cadenza mensile.
Molte delle vicende d'apertura, scritte quasi tutte da Lester Dent (1904-
1959), sono riapparse successivamente in tascabili americani, è c'è anche
un'edizione britannica (10). Con circa 180 avventure, c'è da leggere in
abbondanza, per gli appassionati. Nel 1975 venne anche prodotto un film
su Doc Savage del maestro del cinema fantascientifico George Pal. Doc
Savage era una favolosa combinazione di erudizione scientifica,
stregoneria mentale e valore fisico, e non faceva altro che salvare la gente
dai pericoli più strani. Doc Savage era considerata una delle pubblicazioni
fondamentali delle riviste pulp, tuttavia, fra l'incredulità di molti, nel 1947
cominciò a saltare i mesi, divenne trimestrale, e poi chiuse con il numero
dell'estate 1949. L'ultima delle riviste dedicate ad un unico personaggio era
sparita.
E la causa principale della sua scomparsa era la sorprendente fioritura
dell'industria dei comics. Gli eroi dei fumetti, soprattutto Superman e
Batman, erano stati una proliferazione della science fiction prima della
guerra, e molti scrittori e disegnatori di fantascienza lavoravano per quelle
pubblicazioni. Mortimer Weisinger, direttore di Thrilling Wonder dal 1936
al 1941, abbandonò la rivista per diventare direttore di Superman e, più
tardi, dell'intera catena di comics associati. Nel 1949 questi supereroi, con i
loro fumetti «facili da seguire», conquistarono il cuore dei lettori più
giovani. Al confronto, la lettura di un intero romanzo era pesante. Con il
loro sviluppo, vi fu un corrispondente declino nelle vendite delle riviste
pulp, particolarmente dei pulps imperniati su singoli eroi.
La fine di Doc Savage lasciò un vuoto prontamente colmato dai fumetti.
Ma, se mai era necessario il colpo di grazia, la Popular decise di entrare
nella breccia con un eroe aggiornato, Capitan Zero.
Qui c'era un uomo reso invisibile da un'esplosione atomica, ma aveva
alcune qualità di antieroe, perché era goffo, miope e smemorato! La
Popular incaricò G.T. Fleming-Roberts, un autore di pulp che era apparso
regolarmente su quasi tutte le riviste gialle e del terrore dopo gli Anni
Trenta, di scrivere romanzi d'apertura, partendo con City of Deadly Sleep
nel novembre 1949. Fleming-Roberts portò una necessaria venatura
d'umorismo all'eroe del pulp, ma l'innovazione cadde su un terreno
insensibile. Captain Zero non attecchì mai, e dopo tre numeri divenne
invisibile quanto il suo protagonista.
Tuttavia il presidente della Popular, Henry Steeger, merita ogni elogio.
Con Fantastic Novels, Super Science Stories e Captain Zero, gli editori
s'erano mostrati coraggiosi e avevano corso un rischio, Captain Zero fallì,
ma le altre due pubblicazioni prosperavano, e questo, più il successo delle
testate già affermate, diede il via al futuro.
La fine dell'estate 1949 segnò la vigilia della tempesta. Alla stessa
epoca, l'anno successivo, ci sarebbero state circa dodici riviste nuove, due
delle quali erano destinate a far storia. Prima di buttarci in argomento,
perciò è opportuno considerare alcuni dei nuovi autori che avevano
esordito nei tre anni successivi alla conclusione della guerra, e alcuni dei
racconti più famosi apparsi in quel periodo.
Ho già nominato Arthur C. Clarke e Poul Anderson, due dei nomi più
grandi dell'immediato dopoguerra. Un altro fu William Tenn, pseudonimo
dell'americano di Londra Philip Klass, che aveva esordito a sua volta su
Astounding: la rivista manteneva il suo primato in fatto di coltivazione di
talenti in nuce. Il suo Alexander the Bait (maggio 1946) fu scritto tre mesi
dopo la fine della seconda guerra mondiale, mentre Tenn lavorava come
redattore tecnico per l'Aeronautica Militare. Il racconto usa questo sfondo
come base di uno sforzo concertato per raggiungere la Luna. Poi scrisse
Child's Play (marzo 1947) che incomincia con la consegna di un dono di
Natale dall'anno 2153 d.C. ad un uomo moderno, con conseguenze
agghiaccianti.
Nell'aprile 1947, Astounding presentava la prima vendita di H. Beam
Piper, Time and Time Again, su un chimico che trova la sua coscienza
interiore trent'anni nel passato, occupando il proprio corpo di adolescente
ma con la sua memoria futura. Questo avveniva in seguito ad una droga
analgesica che gli era stata somministrata dopo una ferita ricevuta nella
seconda guerra mondiale. Il racconto fu il più votato in un sondaggio tra i
lettori, battendo il gigante di quei tempi, A.E. van Vogt con il suo romanzo
breve Home of the Gods. La carriera di Piper era ormai lanciata, ed egli si
assicurò la popolarità con il secondo racconto, He Walked Around the
Horses (aprile 1948), che si apriva con la storica sparizione di un inglese,
Benjamin Bathurst, avvenuta in Prussia nel 1809. Piper postulava che
Bathurst fosse finito in un mondo parallelo, ed il racconto sviluppa il tema.
In seguito, è stato considerato un piccolo classico.
Un nome molto onorato in campo fantascientifico, nonostante la rarità
delle sue apparizioni, è quello di T.L. Sherred, che apparve su Astounding
nel maggio 1947 con una gemma sui viaggi nel tempo, E for Effort. Parla
di due scienziati che guadagnano un patrimonio producendo film storici
con registrazioni tridimensionali del passato. Anch'esso è considerato
come un piccolo classico, come pure l'opera di una scrittrice, Wilmar
Shiras, In Hiding (Astounding, novembre 1948) che narra dei problemi di
uno psichiatra alle prese con un ragazzo supranormale di dieci anni.
Wilmar Shiras era una delle tante scrittrici che cominciavano a lasciare il
segno nella science fiction. In precedenza erano state poche: i nomi più
famosi erano C.L. Moore (moglie di Henry Kuttner), Leigh Brackett
(moglie di Edmund Hamilton) e Leslie F. Stone. Poi, Astounding nel
giugno 1948 presentò That Only a Mother di Judith Merrill. Il racconto,
che parla di un bambino mutante considerato perfettamente normale da sua
madre, è una delle vicende più agghiaccianti del genere. Un'altra scrittrice
che debuttò a quell'epoca fu Katherine MacLean, il cui Defense
Mechanism comparve anch'esso su Astounding (ottobre 1949).
Anche i britannici stavano lasciando il segno in America, a parte Arthur
C. Clarke. Il londinese Peter Phillips produsse un racconto estremamente
originale, Dream Are Sacred (Astounding, settembre 1948), in cui uno
psicologo si proietta nella mente del suo paziente per poterlo guarire. Nel
febbraio 1949, Astounding vide l'esordio di Christopher Youd con
Christmas Tree, un commovente racconto natalizio ambientato lontano
dalla Terra. C.S. Youd era il vero nome di uno scrittore che di lì a poco
avrebbe acquisito fama internazionale con libri come Death of Grass: John
Christopher, che doveva rivaleggiare per un certo periodo con Arthur C.
Clarke per il titolo del più brillante autore fantascientifico britannico.
Aveva venduto un racconto breve a Walter Gillings per Fantasy nel 1946,
ma quel testo, Monster, non venne pubblicato fino al 1950. Anche i più
famosi autori inglesi del periodo prebellico stavano ricomparendo, dopo
essere stati congedati dall'esercito. Eric Frank Russell aveva scritto un
incredibile romanzo a puntate, Dreadful Sanctuary, apparso su Astounding
nel 1948. Incomincia con i razzi diretti alla Luna che non riescono a
lasciare la Terra, e finisce con la rivelazione che la Terra è in realtà un
manicomio della galassia! Se mai il talento e l'ingegnosità di Russell
avevano ancora bisogno d'una vetrina, adesso l'avevano. Lo scrittore aveva
già ricevuto innumerevoli elogi per il suo romanzo breve Metamorphosite,
che parlava di un mutamento dell'umanità nel corso di un millennio nel
futuro, e si stava aprendo quella strada che negli Anni Cinquanta avrebbe
fatto di lui uno degli autori fantascientifici più rispettati.
Anche John Wyndham rientrò nel gregge: sotto il nome di John Beynon
produsse Adaptation (Astounding, luglio 1949), su una bambina
condizionata a vivere in un ambiente alieno.
Lo stesso numero di Astounding pubblicava il primo lavoro
fantascientifico dello scrittore americano James H. Schmitz. Schmitz era
stato pubblicato per la prima volta su Unknown Worlds nel 1943 con un
lavoro di fantasy, ma Agent of Vega segnò il suo ingresso esplosivo nel
campo fantascientifico. Era un racconto ricco d'azione e di splendore, e
parlava della immensa Confederazione Vegana, della sua superpolizia e dei
suoi agenti segreti. The Witches of Karres, che aveva per protagoniste tre
bambine dotate di formidabili poteri psichici, uscì invece sull'Astounding
di dicembre.
Il luglio 1949 segnò l'esordio di Kris Neville con The Hand from the
Stars, in Super Science Stories, e la prima apparizione della firma di Cyril
Kornbluth, con The Only Thing We Learn, su Startling Stories. Kornbluth
aveva scritto e venduto decine di racconti, quand'era ancora adolescente, a
molte riviste agli inizi degli Anni Cinquanta, ma erano apparsi tutti sotto
vari pseudonimi. Quasi tutti quei nomi oggi sono stati dimenticati, ma
Kornbluth entrò nella leggenda dopo la sua morte, avvenuta nel 1958 a soli
trentacinque anni.
Probabilmente l'autore nuovo più notevole pubblicato per la prima volta
al di fuori di Astounding fu Jack Vance: The World Thinker era uscito su
Thrilling Wonder dell'estate 1945. Per i sette anni che seguirono, continuò
ad essere una delle colonne delle riviste Standard, creando memorabili
avventure planetarie, in particolare quelle della serie di Magnus Ridolph.
Per la verità, molti di questi suoi primi lavori contenevano elementi di
fantasy. Per esempio, The World Thinker è ambientato sul pianeta di
Laoome, il Pensatore dei Mondi. In una scena, Laoome perde il controllo
delle sue creazioni, con risultati bizzarri: per esempio, il sole si trasforma
in una gigantesca lumaca e, scendendo dal cielo, resta trafitto sugli enormi
pilastri spuntati dal suolo!
La scarsità di spazio consente appena di accennare all'opera degli
scrittori affermati di questo periodo. C'era il continuo successo della
coppia dei Kuttner, marito e moglie, che firmavano molto spesso Lewis
Padgett. Nel 1947 pubblicarono su Astounding due storie a puntate,
Tomorrow and Tomorrow, una cupa vicenda del futuro, e Fury (con la
firma di Lawrence O'Donnell), un'immane avventura ambientata su una
Venere turbolenta. Jack Williamson, che dal 1928 era un grande nome
della science fiction, continuava a scrivere meglio che mai. Il suo racconto
lungo The Equalizer (Astounding, marzo 1947) parlava di un'invenzione in
grado di trasformare tutti gli elementi; e fu seguito dal suo racconto
classico sui robot, ristampato più volte, With Folded Hands..., nel mese di
luglio. La storia, imperniata sui robot che sopraffanno la Terra con il loro
desiderio iperfilantropico d'aiutare l'umanità, è oggi considerato il
capolavoro del suo genere. Williamson produsse anche un seguito, molto
lungo, ... And Searching Mind, che venne pubblicato a puntate su
Astounding nel 1948.
L'instancabile E.E. Smith comparve con Children of the Lens, uscito a
puntate su Astounding (sorpresi?) a partire dal novembre 1947; in quel
periodo Isaac Asimov continuò a sfornare racconti della serie di
Foundation e di quella dei robot. A.E. van Vogt era presente con l'atteso
seguito di World of Null-A, The Players of Null-A, che incominciò su
Astounding nell'ottobre 1948. Tuttavia il suo sconvolgente racconto della
serie dei Negozi di Armi, The Weapon Shops of Isher, apparve nel febbraio
1949 su Thrilling Wonder, e questo ci ricorda il miglioramento della
qualità della rivista, e l'impegno con cui il suo direttore cercava di farne
una degna rivale di Astounding. Alla fine del 1949 si poteva affermare che
ognuna delle riviste principali era al suo meglio, anche se gli appassionati
veterani continuavano a rimpiangere l'Astounding dell'inizio degli Anni
Quaranta, l'Età d'Oro.
Era sempre più chiaro, inoltre, che la letteratura di fantascienza
diventava accettabile per il grande pubblico, anche se aveva ancora molta
strada da percorrere prima di perdere la cattiva fama associata alle
sgargianti riviste pulp d'avventura e alle loro copertine. La science fiction
veniva regolarmente pubblicata in antologie rilegate, soprattutto da
curatori come Donald Wollheim e Groff Conklin, ed una pietra miliare fu
la creazione di una serie annuale della miglior science fiction apparsa nei
dodici mesi precedenti... una formula popolare ancora oggi. L'idea fu di
Thaddeus E. Dikty ed Everett F. Bleiler. Bleiler si era da poco fatto un
nome tra gli appassionati per la sua colossale opera bibliografica, The
Checklist of Fantastic Literature (1948) che elencava oltre 5000 testi di
fantasy e science fiction. Poi, nel settembre 1949, apparve, curata da
entrambi, la selezione The Best Science Fiction Stories: 1949, edito da
Frederick Fell di New York. Includeva dodici racconti, dieci dei quali
erano apparsi per la prima volta sulle riviste specializzate. Andavano da
Mars is Heaven! di Ray Bradbury (Planet Stories) a Knock di Fredric
Brown (Thrilling Wonder). Per riassumere, sei provenivano da Astounding,
tre da Thrilling Wonder e due dall'esterno del campo fantascientifico.
Nell'agosto 1950 apparve una seconda antologia con tredici racconti del
1949. Astounding e Thrilling Wonder erano rappresentate da tre ciascuna,
più Startling, Planet e Fantastic Adventures, con uno per ciascuna. Dei tre
altri racconti, due provenivano dallo stesso numero della Saturday Evening
Posti
La Saturday Evening Post era uno dei principali periodici degli Anni
Quaranta, una rivista slick, cioè patinata, di argomento generale. Il fatto
che pubblicasse scrittori della fantascienza dei pulps indicava senza
possibilità di errore gli sviluppi imminenti. La Post aveva già pubblicato
science fiction in passato, ma di autori del mainstream che facevano
qualche raro volo nella fantasia e che, data la loro posizione, venivano
considerati rispettabili. Scrittori come Stephen Vincent Benet, Gerald
Kersh e Aldous Huxley avevano contribuito con racconti di questo tipo:
era una cosa accettabile. Anche Murray Leinster era accettabile, quando
scriveva con il suo vero nome, Will F. Jenkins. Jenkins era un rispettato
autore di western, un genere che veniva stimato molto di più ed aveva
vinto vari premi con i suoi racconti, compreso uno della prestigiosa rivista
Liberty. Ma Robert A. Heinlein? Quello era un nome che usciva diritto
diritto dai pulps fantascientifici. Heinlein aveva seguito il consiglio di
Murray Leinster. Oggi ricorda: «Parecchi anni fa, Will F. Jenkins mi disse:
"Ti rivelerò un segreto, Bob. Qualunque vicenda, fantascienza o no, se è
scritta bene, può venire venduta alle riviste patinate"» (11). Heinlein si era
già affermato come lo scrittore numero uno agli occhi del pubblico
fantascientifico. Perché non provare allora con il grande pubblico? Lo
fece... e immediatamente ebbe successo. The Green Hills of Earth, apparso
su The Saturday Evening Post dell'8 febbraio 1947, parlava del sacrificio
compiuto dal poeta cieco Rhysling per salvare un'astronave. Poi, in rapida
successione, vendette racconti a Argosy, Town and Country, e The
American Legion Magazine.
Ad un'incollatura lo seguiva Ray Bradbury, che aveva piazzato un breve
racconto fantastico, The Invisible Boy, su Mademoiselle nel 1945. Ben
presto cominciò a vendere fantasy e non fantasy ad una quantità di riviste
patinate. Poi riuscì a vendere fantascienza, come i suoi racconti delle
Cronache Marziane, Dwellers in Silence alla canadese MacLean's (15
settembre 1948) e The Silent Towns a Charm (marzo 1949). Il mercato
delle patinate canadesi accoglieva benissimo la fantascienza: John Russel
Fearn vendeva regolarmente romanzi alla Star Weekly di Toronto fin da
The Golden Amazon, nell'aprile 1945.
Adesso riviste come la Saturday Evening Post e Collier's che, a partire
dal 6 gennaio 1951, avrebbe pubblicato The Revolt of the Triffids di John
Wyndham, vedevano la fantascienza sotto una luce nuova. Era quasi
esclusivamente il risultato dell'era nucleare, che aveva destato l'interesse
del pubblico per la scienza ed il futuro dell'umanità, e aveva conferito una
nuova rispettabilità alla fantascienza. Questo, con l'aggiunta della nuova
generazione di autori specializzati che avevano perfezionato lo stile della
narrativa fantascientifica in contrapposizione al vezzo di scrivere trattati
scientifici camuffati da narrativa, predominante negli Anni Venti, o alle
molte assurde avventure per ragazzi del periodo prebellico. Leinster e
Heinlein avevano aperto le porte, e Bradbury demolì il muro. Da quel
momento gli scrittori seppero che, affinando lo stile, potevano vendere al
mercato delle patinate, molto più redditizio. E potevano vendere della
fantascienza molto semplice. Non c'era niente di eccezionale, dal punto di
vista dei lettori specializzati, nei racconti venduti da Heinlein alla Post,
anzi, erano abbastanza ovvi. Ciò che la rivista apprezzava era il suo abile
stile divulgativo.
E i pulps? All'improvviso, i loro autori migliori si erano aperti un
mercato che questi ultimi non potevano sperare di eguagliare, dal punto di
vista delle finanze e del prestigio. Ma la verità era che, pure se le riviste
patinate adesso prendevano in considerazione la fantascienza, questo
doveva essere piuttosto terra-terra. Qualunque scritto troppo sperimentale
o ardito veniva subito rifiutato, anche se per la confraternita
fantascientifica era tutt'altro che eccezionale. I pulps continuavano a
svolgere la loro funzione specializzata. Il primo passo, ovviamente,
consisteva nel liquidare l'immagine del pulp. E così apparve il dignitoso
Magazine of Fantasy and Science Fiction.

5. Incomincia la battaglia

Il primo numero di Magazine of Fantasy, com'era intitolato inizialmente,


recava la data dell'autunno 1949. Era pubblicato dal ramo Fantasy House
della Mercury Press, sotto la guida di Lawrence Spivak (oggi noto
produttore radio-televisivo), che era responsabile anche della prestigiosa
American Mercury e del famoso Ellery Queen's Mystery Magazine. Per 35
centesimi il lettore acquistava 128 pagine in formato digest. La copertina,
raffigurante una ragazza inseguita da un mostro verde, era una fotografia.
Le copertine fotografiche erano una rarità per le riviste di fantascienza,
anche se Palmer e Campbell avevano fatto qualche esperimento. La
copertina di Magazine of Fantasy era opera di Bill Stone e risultava molto
efficace.
Il racconto d'apertura era Bells on His Toes di Cleve Cartmill, ma quello
che attirò il maggiore interesse fu l'affascinante The Hurkle Is an Happy
Beast di Sturgeon, che Bleiler e Dikty avrebbero pubblicato in seguito
nella selezione Years's Best. La rivista era un ottimo misto di racconti
originali e di ristampe. Nel primo numero le ristampe erano quattro, e
andavano da Men of Iron di Guy Endore alla famosa storia di spettri di
Perceval Landon, Thurnley Abbey. In effetti, il primo numero segnava il
predominio del fantastico. Con il secondo (Inverno-Primavera 1950) la
testata diventò The Magazine of Fantasy and Science Fiction
(abitualmente abbreviata in F&SF) e la fantascienza ebbe più spazio.
Fin dall'inizio, F&SF chiese scritti di qualità. La gamma della narrativa
pubblicata dalla rivista era sconfinata, e includeva tutti i tipi di fantasia,
dalla science fiction ortodossa ai fantasmi. L'unica condizione era che la
vicenda doveva essere narrata magistralmente e splendidamente scritta. Si
potrebbe anche pensare che non era pretendere troppo, ma molti autori
famosi si accorsero che era difficile vendere a F&SF a causa del rigore dei
direttori.
I due direttori che si occupavano di F&SF erano Anthony Boucher e J.
Francis McComas. «Mick» McComas era entrato nell'editoria nel 1941, a
trentun anni. Si associò a Raymond J. Healy nel 1946 quando curarono
insieme l'antologia fantascientifica di 997 pagine, Adventures in Time and
Space, considerata ancora oggi una delle pietre miliari delle pubblicazioni
di fantascienza. Il vero nome di Boucher era William Anthony Parker
White, con questo nome firmò un racconto su Weird Tales del gennaio
1927. Boucher, nato a Oakland, California, nell'agosto 1911, allora aveva
soltanto quindici anni. Mantenne lo pseudonimo di Boucher per scrivere
fantasy e science fiction e usò H.H. Holmes per i gialli. All'inizio degli
Anni Quaranta pubblicò su Unknown un numero considerevole di brillanti
racconti fantastici, e si fece un nome nella fantascienza con il racconto sui
viaggi nel tempo The Barrier (Astounding, settembre 1942). I due direttori
avevano una completa conoscenza dell'intero campo della letteratura
fantastica e soprattutto non si erano limitati ai pulps.
F&SF ebbe un effetto ritardato a causa delle sue sporadiche apparizioni
iniziali, e anche perché sfuggiva facilmente, nella pletora di riviste nuove
che venivano lanciate in quel tempo. Ma quando gli autori si resero conto
delle capacità potenziali di F&SF, vi si adattarono. Un simile
cambiamento di rotta era avvenuto già una volta. Negli Anni Trenta molti
autori erano stati ben lieti di sacrificare la narrativa alla scienza, e poi nel
1938 Campbell aveva fermamente imposto la sua politica: lavori che
ponessero in risalto gli effetti della scienza anziché la scienza stessa.
Adesso Boucher e McComas mettevano l'accento sull'aspetto letterario.
Era inevitabile, ma c'era voluto molto tempo per arrivarci. Bisogna capire
che erano state necessarie una guerra mondiale e la Bomba!
Forse molti lettori specializzati avevano evitato di acquistare il primo
numero di Magazine of Fantasy. Ma dopo un mese soltanto assistettero
alla continuazione di una leggenda, con la comparsa di Other Worlds
Science Fiction.
Datato novembre 1949, il primo numero di Other Worlds faceva colpo.
In formato digest, per 35 centesimi offriva 160 pagine. Naturalmente
Astounding aveva lo stesso numero di pagine, ma la carta era di qualità
migliore. Other Worlds era realizzata con carta pulp pesante, e il suo
spessore di quasi un centimetro e mezzo dava l'impressione di offrire di
più per la stessa spesa.
La bella copertina di Malcolm Smith illustrava The Fall of Lemuria di
Richard S. Shaver. Sì, di nuovo lui. Come mai Shaver s'era messo a
scrivere per un'altra rivista? Anzi, chi era lo sconosciuto direttore della
rivista, Robert N. Webster, che nell'editoriale vantava ventisei anni
d'esperienza nel settore? Gli appassionati dovettero grattarsi la testa:
Robert chi?
Ma i fans avrebbero scoperto il segreto, presenziando alla World Science
Fiction Convention svoltasi a Cincinnati dal 3 al 5 settembre 1949. Ray
Palmer annunciò che aveva dato le dimissioni dalla Ziff-Davis per fondare
una casa editrice sua. Presentò i suoi progetti per Other Worlds e acquisì
una fan locale, Beatrice Mahaffey, come vicedirettore. Lei aveva appena
vent'anni, e quella era la prima Convention cui presenziava, e non
prevedeva certo ciò che l'attendeva!
Raymond A. Palmer, nato il 1° agosto 1910 a Milwaukee, era stato
investito da un camion, all'età di sette anni e aveva riportato una frattura
alla spina dorsale. La deformazione dava a Palmer un aspetto da gnomo,
ma lui rimediava alla scarsa presenza fisica con l'immaginazione e
l'energia. Dopo i suoi contatti con Shaver, aveva dimostrato un interesse
sempre crescente per l'occulto. Si può ben credere che inconsciamente,
Palmer era disposto ad accettare i «dero» quale causa diretta del suo
tragico incidente (e di quelli successivi) ed incanalava il suo odio verso di
loro, anziché verso l'umanità. Senza dubbio, era una via d'uscita come
un'altra. Palmer cominciò ad occuparsi attivamente del bizzarro. Oltre a
pubblicare il Mistero Shaver su Amazing, si fece campione della causa dei
dischi volanti, che dopo la guerra avevano cominciato a far notizia. Palmer
si legò al commerciante di attrezzature antincendio Kenneth Arnold, che il
24 giugno 1947, mentre guidava il suo aereo sopra il Monte Baker, nello
Stato di Washington, aveva avvistato una fila di nove misteriosi oggetti a
forma di disco (12). Indagò e si lasciò invischiare in una serie fantastica di
eventi che lo portò poi ad un vicolo cieco.
Palmer si mostrò interessato, e Shaver lo sostenne, poiché vedeva nei
dischi volanti un'altra prova delle sue teorie. Quando gli editori di
Amazing chiesero a Palmer di mettere la sordina al Mistero Shaver, lui si
preparò a rompere. Sebbene fosse ancora alle dipendenze della Ziff-Davis,
e fosse ancora nominalmente direttore di Amazing (Fantastic Adventures
era ormai diretta da William Hamling), Palmer compì i vari passi necessari
per fondare un'azienda sua, la Clark Publishing Company, a Evanston, un
sobborgo di Chicago. Nella primavera del 1948 lanciò il primo numero
d'una nuova rivista, Fate, dedicata all'occulto. Poiché il nome di Palmer
veniva ancora ostentato su Amazing, si creò lo pseudonimo di Robert N.
Webster. Fate, che all'inizio era trimestrale, aumentò presto la frequenza e
finì per diventare una classica pubblicazione dell'occulto. Anzi, esce
tuttora, anche se non ha più legami con Palmer. Dal 1954 apparve
un'edizione britannica e la testata esiste sempre, anche se le edizioni
americana e inglese oggi non hanno più rapporti.
Palmer stava abbandonando Amazing. Il Mistero Shaver aveva creato
attriti fra lui e gli appassionati di fantascienza, e spesso lui derideva i fans,
chiamandoli «quei pazzi». Naturalmente, questo giudizio non lo rese
simpatico al fandom, e alla fine Palmer decise di fare ammenda. A partire
dal marzo 1948 inaugurò sulla rivista la rubrica The Club House che
recensiva le pubblicazioni e le attività degli appassionati. Curata da Rog
Phillips, che divenne grande amico dei fans, fu accolta a braccia aperte e
riconosciuta in seguito come la più importante rubrica di quel genere di
tutte le riviste professionali. Quando il Mistero Shaver sparì da Amazing,
quasi tutti gli appassionati seppellirono l'ascia di guerra.
Poi il Mistero ricomparve su Other Worlds. L'editoriale di «Webster» era
un tipico prodotto di Palmer, e solo un novellino in campo fantascientifico
non l'avrebbe riconosciuto. «Webster» elogiava l'Amazing di Palmer e
lodava Shaver. Prometteva che Other Worlds sarebbe stata un montaggio
dei tipi di narrativa pubblicata su Astounding, Amazing e Thrilling Wonder,
più specialità esclusive. Ma, si affrettava ad aggiungere, si augurava che i
lettori proponessero le loro idee sulla politica definitiva che avrebbe
dovuto adottare la rivista.
Other Worlds ebbe successo. Le lettere pubblicate sul secondo numero
l'elogiavano: ce n'era persino una di Theodore Sturgeon.
Il nome di Palmer sparì dalla Ziff-Davis dopo il numero del dicembre
1949, e quindi apparve su Other Worlds. Alla Ziff-Davis il suo posto fu
preso da Howard Browne. Nato nell'aprile 1908, Browne era stato uno dei
vicedirettori della rivista, ma nel 1947 se n'era andato a fare lo
sceneggiatore a Hollywood. Ritornato per assumere la direzione di
Amazing e Fantastic Adventures, si affrettò ad annunciare l'intenzione di
riportare un po' di narrativa ben scritta nelle riviste e di non corteggiare gli
appassionati dell'occulto. Buttò via qualcosa come 7000 dollari di
materiale di Shaver già acquistato, e convinse gli editori a dare alle riviste
il formato digest, ad alzare i compensi e ad acquistare racconti e romanzi
dei migliori autori. La Ziff-Davis acconsentì, e Browne si mise all'opera.
Purtroppo, lo scoppio della guerra di Corea impose restrizioni, e Browne
fu costretto a mettere nel cassetto i suoi progetti e a soffrire ancora per
qualche anno... e «soffrire» è la parola giusta. Browne era sostanzialmente
uno scrittore di gialli, ed ha affermato: «Per la verità, la fantascienza mi
annoiava a morte...» (13). Tuttavia, il suo appello alla ragione ebbe effetto,
e Browne riuscì a produrre una coppia di riviste molto gradevoli.
Nel frattempo, Ray Palmer non si accontentava di avere una sola rivista
di fantascienza. Adesso che Fate e Other Worlds erano state lanciate con
successo, cominciò a fare progetti per creare una terza rivista, da intitolare
Imagination. Beatrice Mahaffey divenne ufficialmente direttrice facente
funzioni di Other Worlds, con il numero del marzo 1950, sebbene Palmer
avesse ancora molta influenza. Poi Palmer ebbe un altro incidente, e dal 4
giugno 1950 rimase paralizzato dalla cintola in giù. I medici erano certi
che si trattava d'una lesione permanente, ma Palmer era un lottatore. Non
volle arrendersi, e nell'anno seguente cominciò a mostrare i segni d'una
ripresa miracolosa.
Bea Mahaffey, perciò, si trovò di colpo sola, padrona assoluta di Other
Worlds, e tuttora inesperta. Accettò la sfida con molte paure, ma la spuntò
mirabilmente. Venne assunta un'assistente, Marge Budwig Saunder, con il
compito di provvedere alla prima lettura e ai lavori burocratici. A sua
volta, Bea Mahaffey si rivolse agli agenti e agli scrittori, e riuscì ad
acquistare lavori di autori famosi. Perciò, all'inizio della sua esistenza,
Other Worlds riuscì a salvarsi la reputazione. Sulle sue pagine
s'incontravano Theodore Sturgeon, Eric Frank Russell, Lester Del Rey,
William F. Temple, Poul Anderson, Fredric Brown, Robert Bloch, Gordon
Dickson... e tutti contribuivano a fare di Other Worlds una bella, gradevole
rivista. Ma naturalmente, Palmer non era completamente sparito dalla
scena. Il numero dell'ottobre 1951 cominciò a pubblicare a puntate il suo I
Flew in a Flying Saucer, attribuito congiuntamente a Ray Palmer e ad un
misterioso capitano A.V.G. Veniva presentato come narrativa basata sulla
realtà. Ray Palmer aveva ricominciato con i suoi trucchi.
E Imagination? Era stata accantonata dopo l'incidente di Palmer? I primi
due numeri erano già pronti, e la rivista uscì nell'ottobre 1950. Identica per
formato ad Other Worlds, portava il sottotitolo Stories of Science and
Fantasy, e doveva essere la rivista gemella, dedicata al fantastico, come
Fantastic Adventures era stata per Amazing. Ostentava una copertina
evocativa di Hannes Bok; il lungo racconto iniziale, The Soul Stealers, era
di Chester Geier, e altri collaboratori erano William Hawkins, Kris Neville,
Rog Phillips ed Edward Ludwig (al suo esordio). Anche Imagination ebbe
successo. Ma poiché Palmer era paralizzato e Bea Mahaffey era
completamente presa da Other Worlds, il futuro di Imagination sembrava
dubbio.
Nel contempo, un'altra casa editrice veniva fondata a Evanston, la
Greenleaf Publishing Company. Chi c'era dietro? William Lawrence
Hamling. Hamling era nato a Chicago nel giugno 1921 ed era diventato un
appassionato di science fiction da ragazzo. Frequentò la Lane Technical
High School di Chicago, e diventò direttore della sua rivista, che tirava ben
10.000 copie, Lane Tech Prep, in cui inseriva anche fantascienza. Con il
compagno di scuola Mark Reinsberg scrisse un racconto, venduto ad
Amazing nel 1938, ma Hamling non continuò subito la carriera di scrittore.
Nel 1940, però, iniziò a dirigere un fanzine dall'aspetto molto
professionale, Stardust, che durò cinque numeri, da marzo a novembre, e
pubblicò parecchie storie di autori famosi. Hamling venne chiamato dalla
Ziff-Davis a collaborare alla direzione di Fantastic Adventures nel 1946, in
un periodo in cui Palmer aveva problemi familiari; e si dimostrò così
efficiente che entrò alle dipendenze della Ziff-Davis, e nel gennaio 1948
divenne direttore facente funzioni di entrambe le pubblicazioni di cui
assunse la direzione effettiva allorché Palmer fondò la sua casa editrice.
Quando Browne lo sostituì ad Amazing, c'era in aria il progetto di trasferire
gli uffici editoriali da Chicago a New York. Hamling non voleva spostarsi,
e perciò nel 1950 si dimise e creò una casa editrice sua. Palmer gli passò la
sua Imagination, e Hamling ne assunse il pieno controllo con il terzo
numero (febbraio 1951). Andò tutto così liscio che quasi quasi si direbbe
fosse stato predisposto fin dal 1946!
La Popular Publications avevano sondato le acque del mercato delle
riviste di fantascienza e le aveva trovate favorevoli. Palmer s'era buttato a
fondo ed era riemerso con successo. Era troppo presto per parlare di
F&SF, ma era certo che a galla ci stava. Adesso toccava alla Standard
avventurarsi in acque più profonde.
La Standard decise di andare sul sicuro. Una rubrica molto popolare di
Startling Stories era la sua sezione di ristampe classiche, Hall of Fame.
Anche Famous Fantastic Mysteries, della Popular, era costituita quasi
interamente di ristampe, e aveva successo, Fantasy Reader della Avon si
affidava alle ristampe, e dopo undici numeri funzionava ancora. Perciò la
Standard si accinse a lanciare la sua rivista di ristampe... anzi due, una
trimestrale ed una annuale. Come le altre testate della casa, avevano
formato pulp. Fantastic Story Quarterly uscì nella primavera del 1950,
portando come romanzo d'apertura Hidden World di Edmond Hamilton,
tratto da Science Wonder Quarterly dell'ottobre 1929. Includeva anche un
racconto, Trespass, che segnava il debutto di Gordon R. Dickson, uno dei
più rispettati autori specializzati di oggi. Wonder Story Annual uscì
nell'estate 1950: era un cospicuo pulp di 196 pagine, contenente diversi
racconti lunghi, più il romanzo d'apertura, The Onslaught from Rigel di
Fletcher Pratt, tratto da Wonder Stories Quarterly dell'inverno 1932.
Sia Quarterly che Annual ebbero successo immediato. Insieme alle
pubblicazioni già esistenti contribuirono a rivitalizzare la science fiction, e
altri editori decisero che era tempo di scendere in campo.
Il primo fu Louis Silberkleit della Columbia Publications. Prima della
guerra aveva pubblicato Science Fiction, Future Fiction e Science Fiction
Quarterly, che erano andate tutte abbastanza bene. Charles D. Hornig era
stato il direttore, all'inizio, ma poi era stato sostituito da Robert Lowndes.
Quando le riviste furono chiuse, durante il conflitto, Lowndes restò alla
Columbia come direttore editoriale, responsabile di quasi tutti i pulps. Ma
quando il marzo 1950 vide la ricomparsa di Future combined with Science
Fiction Stories, Lowndes era di nuovo al timone.
L'apparizione di Future dimostrò definitivamente che la fantascienza
stava per arrivare al boom. Era anche la prima rivista che si estendeva
veramente nell'intero campo. Fino ad allora ogni rivista aveva avuto la sua
identità, ed era uscita ben poco dai propri confini. Da Astounding, capofila
della science fiction, giù giù passando per Thrilling Wonder, Amazing (che
era ancora una pentola in ebollizione), fino a Planet con il suo genere
space opera ed a F&SF con il suo panorama completo, ogni pubblicazione
aveva un suo territorio ben definito.
Ma adesso quei limiti cominciavano ad andare stretti. Dove poteva
inserirsi Future? Non aveva una sua politica indipendente, ed a differenza
di Other Worlds non pretendeva di essere un ibrido di tutte le riviste. Per
questo, e per il suo budget ridottissimo, Future non poteva essere altro che
una media delle altre riviste, presentando i migliori ed i peggiori autori
specializzati. Non aveva una sua scuderia regolare, e non aveva neppure
molte possibilità di acquisirla. Lowndes, come tutti gli altri direttori,
vedeva il materiale nuovo degli aspiranti scrittori, ma dato che il mercato
era in espansione, era sempre più probabile che i nuovi autori finissero
altrove. Il mercato stava cambiando rapidamente: non era più dei direttori,
ma degli scrittori.
Perciò Lowndes poteva solo limitarsi ad aspirare al meglio. Ma aveva un
vantaggio: era un direttore molto personale. Amava i contatti con i lettori,
mentre Campbell restava distaccato. Sebbene Lowndes avesse rotto con il
fandom della fantascienza durante gli Anni Quaranta, l'incoraggiante
reazione alla rinata Future riaccese il suo vecchio slancio, e ben presto
essa divenne la rivista personale. Il lettore aveva l'impressione di
conoscere il direttore, e di conoscerlo da sempre. A Lowndes questo
piaceva, e favoriva i rapporti tra lettori e scrittori. Di conseguenza,
incoraggiava gli scrittori, i quali sapevano che avrebbero trovato una
pronta reazione alla loro narrativa. Lowndes, inoltre, poteva contare sui
suoi vecchi amici in campo fantascientifico che avevano cominciato a farsi
un nome: James Blish, Frederik Pohl, Damon Knight eccetera. Tuttavia,
era chiaro che il materiale di qualità stava diventando meno frequente. Per
esempio, il primo numero includeva scrittori come Murray Leinster,
George O. Smith, Lester Del Rey e James Blish, tutti legati ad Astounding,
Super Science e Thrilling Wonder. La lotta per la sopravvivenza stava
iniziando e presto ogni rivista avrebbe cominciato la sua battaglia.
Future fu la prima rivista ad avere una personalità, ma non una politica.
Conservava il vecchio formato pulp; ma, con sole 114 pagine, poteva
mantenere un prezzo di copertina di quindici centesimi, il più basso sul
mercato. Ovviamente, questo contribuì ad assicurarle un pubblico, ma
senza dubbio ce ne sarebbe voluto uno molto più vasto per sostenere altre
nuove riviste.
E quel pubblico si materializzò miracolosamente. Sul mercato apparvero
altre pubblicazioni, ma sin dall'inizio il loro futuro non fu molto limpido. Il
maggio 1950, per esempio, oltre al ritorno di Future, vide l'uscita del
primo numero di Fantasy Fiction, una rivista formato digest diretta e
pubblicata da Curtis Mitchell dalla East 67th Street, New York. La
copertina, con una donna affascinante ed un teschio, era una fotografia,
opera anch'essa di Bill Stone. Sembrava una copia carbone di F&SF,
soprattutto perché anch'essa pubblicava materiale nuovo e ristampe.
L'unica differenza era che Mitchell includeva anche vicende «vere» del
bizzarro, come The Moose That Talked. Ma F&SF si era ormai conquistata
un pubblico fedele. Fantasy Fiction fece fiasco; un secondo numero,
ribattezzato Fantasy Stories, comparve nel novembre 1950. Poi sparì.
Poiché il mese prima aveva chiuso i battenti A. Merritt Fantasy, sembrava
evidente che la science fiction avesse ora la meglio sulla fantasy. Fantasy,
anzi, stava diventando una parola oscena, dal punto di vista commerciale.
Nel luglio 1950 uscì una rivista nuova, diretta da Donald Wollheim per
l'Avon Books. Ma era in formato pulp non digest. Intitolata Out of This
World Adventures, era una copia di Planet Stories, e tendeva al mercato dei
comics, poiché includeva una sezione di fumetti a colori. Era stata un'idea
dell'editore Joseph Meyers, che aveva ricevuto da un tipografo l'offerta di
stampare qualche pulps a prezzi convenientissimi. Propose di rilegare
insieme le pagine centrali dei fumetti e di lanciare una confezione «offerta
speciale». Sebbene i fumetti fossero ben illustrati da disegnatori come
John Giunta, e le trame, decenti, fossero opera di autori come John Michel
e Gardner Fox, l'idea strappò urla d'orrore ai fans tradizionalisti. Meyers,
comunque, era un tipo capriccioso, ed il tipografo lo giudicò poco serio.
L'offerta venne lasciata cadere, e Out of This World Adventures sparì poco
dopo il secondo numero, uscito in dicembre. Il marzo 1951, però, vide la
nascita di un altro pulp dal titolo Ten Story Fantasy (una testata inesatta,
poiché conteneva tredici racconti). Wollheim vi presentava un'ottima
selezione di testi, e non c'erano fumetti. Poi Meyers cambiò idea di nuovo,
e dopo un solo numero la rivista chiuse. Oggi, Ten Story Fantasy è
ricordata soprattutto perché segnò la prima apparizione di Sentinel of
Eternity di Arthur C. Clarke, (14) che in seguito diventò la base del film
spettacolare 2001: A Space Odissey. Quanti avrebbero pensato che un film
simile aveva avuto origine da una rivista pulp uscita con un solo numero e
oggi semidimenticata?
Wollheim mi dice che Meyers aveva spesso capricci del genere. Nel
1949 si era gingillato con l'idea di un pulp fantascientifico e Wollheim
aveva cercato e acquistato i racconti necessari. Poi Meyers aveva cambiato
idea, e la rivista non era mai uscita. Ma Wollheim pubblicò i racconti in
volume, come antologia tascabile, The Girl with the Hungry Eyes and
Other Stories. Il libro, una delle prime antologie fantascientifiche
composte interamente di racconti originali, è quindi una rivista travestita.
Come tascabile ebbe recensioni calorose, viene ricordata con molto
rispetto ed è diventata un pezzo da collezione. Sarebbe accaduto lo stesso
se fosse apparsa come pulp? Molto probabilmente sarebbe stata trascurata,
e oggi sarebbe dimenticata da tutti, esclusi i collezionisti più accaniti,
come Ten Story Fantasy. Questa è la giustizia del mondo delle riviste!
Meyers non ritornò all'idea del pulp. Wollheim, invece, riuscì a sfornare
una nuova rivista di ristampe formato digest, Avon Science Fiction Reader,
che ebbe un'ottima accoglienza.
Alla fine del 1950 i lettori e i direttori più attenti potevano far tesoro di
quello che stava accadendo nel mondo fantascientifico. Le riviste erano in
fase d'espansione. Già nell'estate del 1950 c'erano venti pubblicazioni,
mentre quattro anni prima erano soltanto otto. Erano sostenute soltanto
dagli stessi, fedeli appassionati? Questi costituivano una parte del
pubblico, ma non tutto. Nuovi lettori erano attratti dalla riviste, per
curiosità, e molti avevano scoperto la science fiction nelle antologie più
recenti e nelle riviste patinate. Perciò erano più attratti verso le riviste che
presentavano un aspetto maturo, ed i pulps non l'avevano. No, i pulps
erano in generale sostenuti dai fedeli appassionati della «vecchia guardia»,
e dai lettori più giovani che li scoprivano per la prima volta. Le riviste in
formato digest erano sostenute dagli stessi lettori, più quelli provenienti da
altri campi. Ovviamente, era in corso una battaglia tra pulp e digest, una
battaglia che avrebbe raggiunto il culmine nell'immediato futuro.

6. Scienza o ragione?

Nel 1950 non c'erano ancora dubbi sulla superiorità di Astounding dal
punto di vista qualitativo, ed uno dei nomi più rispettati era L. Ron
Hubbard. Nato Lafayette Ronald Hubbard a Tilden, Nebraska, nel 1911,
era già un autore regolare di narrativa avventurosa per i pulps come
Argosy quando nel 1938 fece la sua prima comparsa su Astounding con
The Dangerous Dimension, la spiritosa vicenda di un professore che
riusciva a trasferirsi da una dimensione all'altra. Con la sua abilità
d'intessere una trama affascinante e di portarla fino alle sue estreme
conseguenze, Hubbard divenne uno degli autori più apprezzati di
Unknown. Nello stesso tempo, scriveva eccellente fantascienza per
Astounding: soprattutto Final Blackout, pubblicato a puntate nel 1940, che
narrava l'ascesa al potere del «Tenente» in un mondo devastato da guerre
perpetue. Uscito in un periodo in cui il conflitto in Europa entrava nel
secondo anno, sebbene all'inizio si pensasse che sarebbe durata solo poche
settimane, fece colpo su molti lettori, e la controversia che ne risultò lanciò
il nome di Hubbard in primissimo piano. Dopo la guerra, con il trasparente
pseudonimo di René Lafayette, Hubbard produsse una serie
divertentissima, partendo da Ole Doc Methuselah (Astounding, ottobre
1947). Ole Doc, che aveva più di settecento anni, era un Soldato della
Luce, che viaggiava nell'Universo dispensando cure mediche, e finiva
sempre per lasciarsi coinvolgere in intrighi politici planetari anche quando
non avrebbe dovuto. I sette racconti della serie, che si concluse con Old
Mother Methuselah nel numero del gennaio 1950, ebbero una grande
popolarità.
I numeri di febbraio e marzo 1950 misero in primo piano il nome di
Hubbard con il suo controverso racconto a puntate, To the Stars, che
raccontava i sacrifici compiti dagli umani per esplorare le stelle. Fu quindi
con crescente interesse che i fans attesero l'Astounding del maggio 1950,
poiché Campbell aveva annunciato che avrebbe pubblicato un
importantissimo articolo di Hubbard con la proclamazione di una scienza
completamente nuova: la Dianetica. Contemporaneamente alla
pubblicazione dell'articolo, la Hermitage House di New York lanciò un
libro rilegato di Hubbard: Dianetics: The Modern Science of Mental
Health (15).
Libro e articolo causarono un'esplosione nella confraternita
fantascientifica. Cos'era la Dianetica? Era una scienza?
Hubbard postulava che la mente è essenzialmente divisa. La Mente
Analitica è la parte pienamente consapevole, che accumula e registra gli
eventi ed i pensieri quotidiani... la parte con cui in questo momento state
pensando a ciò che leggete. Ma c'è anche una Mente Reattiva che continua
ad accumulare informazioni anche quando la Mente Analitica è
occupatissima con qualche evento importante. Se la Mente Reattiva
s'interessa dei problemi che andrebbero risolti dalla Mente Analitica, molto
probabilmente la soluzione che trova è sbagliata, disastrosa per
l'interessato. Tutto questo è analogo a ciò che avviene quando un computer
ha due banchi memoria, uno dei quali non è conscio, ma rimanda
egualmente informazioni. Hubbard sostenne che mediante l'ipnosi si
possono cancellare i banchi memoria falsi, che causerebbero danni, con il
risultato che la persona diventa chiara... completamente sana di mente,
capace di pensare con chiarezza per risolvere un problema senza la
necessità di affidarsi a qualche soluzione precedente, che sarebbe
probabilmente errata.
Hubbard sosteneva che il suo metodo avrebbe guarito tutte le malattie
mentali. Era mai stata fatta un simile affermazione? Campbell era convinto
che Hubbard avesse fatto una grande scoperta. Un aspetto molto
interessante della faccenda è stato rivelato recentemente dallo scrittore
Alfred Bester, nel suo contributo, My Affair with Science Fiction, a Hell's
Cartographers (1975), curato da Brian Aldiss e Harry Harrison. Bester
ricorda una conversazione che ebbe con Campbell, dopo che questi aveva
ricevuto l'articolo di Hubbard sulla Dianetica e s'era precipitato a farlo
stampare. I commenti di Campbell furono:

«Lei non lo sa, non può saperlo, ma Freud è finito... La


psichiatria, quale la conosciamo, è morta... Freud è stato
annientato da una delle più grandi scoperte del nostro tempo... la
Dianetica... È stata scoperta da L. Ron Hubbard, che per questo
vincerà il Premio Nobel per la Pace» (16).

Campbell si fece campione della causa, e ben presto Hubbard riuscì a


creare la sua Dianetics Foundation. I pazienti accorsero a frotte, intorno a
lui e allo staff che aveva creato. Nello staff c'era anche il grande scrittore di
fantascienza A.E. van Vogt, che divenne «uditore»: uno che ascolta il
paziente mentre questi snocciola la sua vita passata sotto effetto del'ipnosi,
e in tal modo sgombra i suo banchi memoria. Se si ricorda che molti dei
romanzi di van Vogt, soprattutto Slan, parlavano di super menti, si
comprende che era inevitabile che si lasciasse attrarre dal fascino della
Dianetica. Un'altra firma incantata della «scienza» nuova fu Katherine
MacLean. Dedicatisi alla Dianetica, Hubbard, van Vogt e in certa misura
anche la MacLean abbandonarono la fantascienza, e fu una perdita
gravissima.
La medicina ufficiale si affrettò ad attaccare la «scienza» di Hubbard ed
a metterla in ridicolo, denunciandola come abietta ciarlataneria. Negli anni
seguenti, la Dianetica vide scismi e secessioni. Ironicamente, la prima
persona «chiara» doveva essere la seconda moglie di Hubbard, Sara. Ma
nel 1951, lei chiese il divorzio sostenendo che il marito era pazzo!
Campbell si decise finalmente a rinnegare la Dianetica nel 1951, ed il
mondo fantascientifico ritrovò la pace. Ma nelle sue varie incarnazioni la
Dianetica prosperò e Hubbard arricchì rapidamente. Si diceva che
Hubbard, quando era stato congedato dalla Marina nel 1946 (per
insufficienza psicologica) aveva dichiarato di essere insoddisfatto di
scrivere per i pulps e aveva pianificato una campagna per arricchire in
fretta. Quel piano era la Dianetica? In tal caso, funzionò veramente. A
metà degli Anni Cinquanta, quando la Dianetica si trovò alle prese con vari
garbugli legali, Hubbard si trasferì in Arizona, proponendo una nuova
dottrina, figlia della Dianetica, la Scientologia. Creò una Fondazione in
Gran Bretagna. L'organizzazione divenne una vera e propria religione. La
Chiesa della Scientologia. Poi nel 1963, Hubbard vendette ufficialmente le
sue azioni, per una somma enorme, e si ritirò sulla sua flotta di cinque
yacht, a navigare per il Mediterraneo. Oggi la Scientologia, bandita in
Gran Bretagna, prospera ancora. Quanti sanno che è la creatura di uno dei
maggiori scrittori di fantascienza dei pulps? (16 bis)
Nel 1950, quando la Dianetica investì il mondo della fantascienza come
un uragano, apparve evidente che molti puristi erano assai scettici nei
confronti delle teorie di Hubbard. E soprattutto, l'intera faccenda ricordava
qualcosa che ancora pesava sul mondo della science fiction... lo
shaverismo. Come le teorie di Shaver avevano conquistato Amazing e Ray
Palmer, così Astounding e Campbell si erano fatti sopraffare dalla
Dianetica. C'era qualcosa d'altro che affascinava il mondo marginale dei
maniaci... e all'improvviso i fedeli lettori di Astounding vacillarono. Per un
momento, Astounding non fu più l'inespugnabile bastione che era stata in
quegli ultimi quindici anni. E nel momento in cui era più vulnerabile,
arrivò Galaxy.
Il primo numero di Galaxy Science Fiction portava la data dell'ottobre
1950, lo stesso mese in cui Astounding pubblicava un altro articolo di
Hubbard sulla Dianetica, The Analytical Mind. Galaxy era in formato
digest, ben stampata su carta abbastanza bella, aveva 160 pagine e costava
venticinque centesimi. Il primo numero vantava quasi tutti i maggiori
autori della scuderia, e si apriva con la prima parte di un romanzo in tre
puntate, Time Quarry, di Clifford Simak, una avvincente vicenda di esseri
informi che affermano di dominare tutte le intelligenze viventi
dell'universo. Erano presenti anche Isaac Asimov, Fritz Leiber, Theodore
Sturgeon e Richard Matheson. Bastava il fascino di questi nomi a garantire
un pubblico numeroso, e poiché i racconti erano d'alto livello, secondo le
previsioni, il futuro di Galaxy fu assicurato.
La rivista era pubblicata dalla World Editions, Inc., della West 40th
Street, New York, e diretta dall'agorafobico Horace L. Gold. Gold
svolgeva gran parte del suo lavoro in casa, aiutato dalla moglie Evelin. Era
uno scrittore molto rispettato. Nato a Montreal, in Canada, nell'aprile 1914,
era cresciuto a New York e nella Nuova Inghilterra. Prima ancora dei
vent'anni vendette a F. Orlin Tremaine, allora direttore di Astounding
Stories, un racconto di fantascienza che apparve sul numero dell'ottobre
1934 sotto lo pseudonimo di Clyde Crane Campbell. Più tardi, A Matter of
Form, sotto il suo vero no nome, fu usato da John W. Campbell quale
esempio delle vicende sperimentali «nova» che desiderava pubblicare.
Narra la storia di un uomo che scambia la sua mente con quella di un cane
collie, e uscì su Astounding nel dicembre 1938. Gold scrisse parecchi
ottimi racconti per Unknown, e più tardi lavorò nello staff della Standard
Magazine, e questa esperienza e il suo lavoro successivo con due riviste di
gialli create da lui, gli furono molto utili con Galaxy.
Gli altri scrittori ascoltavano Gold, quando suggeriva loro nuove idee.
Era un maestro spartano, spietato nella sua decisione di ottenere il meglio
dai suoi autori. Ma quella politica gli fruttò molto rispetto, e alla fine diede
i suoi frutti. Lo scrittore e «storico» della fantascienza L. Sprague de Camp
scrisse di lui, nel 1953:

«Gold è un perfezionista zelante e impegnato. Impone livelli di


eccellenza letteraria ai suoi autori, i quali spesso si lamentano di
essere costretti a riscrivere e a revisionare all'infinito (17).

Come Boucher e McComas a F&SF, Gold voleva creare una rivista


letteraria che affascinasse il pubblico giunto alla science fiction dalle
riviste patinate e dai libri, nonché i seguaci di Astounding o Thrilling
Wonder. Fu una semplice coincidenza che apparisse quando Astounding era
più vulnerabile, e senza dubbio Galaxy avrebbe fatto centro
indipendentemente dalla situazione. Gold si affannò a sottolineare che
Galaxy era la rivista dei lettori. Nell'editoriale del secondo numero poneva
una serie di domande per sondare l'opinione del suo pubblico. E inoltre
affermava:

«Abbiamo sfidato gli autori a proporci temi che non si possono


vendere altrove... temi troppo adulti, profondi o rivoluzionari
perché altre riviste osino pubblicarli» (18).

Era una grossa affermazione impegnativa ed è difficile valutare se


Galaxy la mantenne o no. Come vedremo più avanti, la fantascienza stava
subendo un notevole processo di maturazione e senza dubbio Galaxy ebbe
un ruolo decisivo in quel cambiamento. Nel secondo numero c'era un
racconto di Damon Knight, To Serve Man, che era certamente originale per
la produzione di quel periodo. È incluso nella presente antologia.
Galaxy lanciò anche un concorso, per attirare il pubblico. In non più di
duecento parole, il concorrente doveva esprimere la sua opinione sui dischi
volanti. Alla fine del 1950, la rivista era impegnatissima a catturare lettori
e ad assicurarsi la supremazia su tutte la altre. Ma la cosa più importante
era convincere gli editori che l'iniziativa rendeva.
Questo fatto si rispecchia nella sorte di Worlds Beyond, un'altra rivista
formato digest, il cui primo numero recava la data del dicembre 1950. Era
edita dalla Hillman Periodicals, con sede in Fifth Avenue, New York. Il
direttore era Damon Knight, uscito dalla Popular Publications, e smanioso
di dirigere una rivista tutta sua. Worlds Beyond aveva 128 pagine, costava
venticinque centesimi, ma non aveva la presentazione ardita di Galaxy, e
ostentava una copertina piuttosto scialba di Paul Calle. La narrativa era
eccellente. Knight dimostrava una buona dose di discernimento nel
selezionare materiale nuovo e vecchio, riesumando un racconto perduto di
Philip Wylie, An Epistle to the Thessalonians, e pubblicando l'affascinante
racconto di William Temple sull'origine lunare dei gatti, The Smile of the
Sphinx, che era apparso per la prima volta dodici anni prima sulla
britannica Tales of Wonder. Nonostante l'accoglienza entusiastica, le
vendite iniziali furono scarse, e gli editori la eliminarono. Poiché erano già
stati preparati, uscirono il secondo e il terzo fascicolo, e anche se le
vendite migliorarono e la rivista era indubbiamente buona Hillman fu
irremovibile: Worlds Beyond doveva morire. Eppure, leggendo oggi quei
tre numeri, è difficile trovarvi un brutto racconto. La rivista è stata
saccheggiata dagli antologisti che ne hanno tratto racconti come Null-P di
William Tenn, The Acolytes di Poul Anderson e Like a Bird, Like a Fish di
H.B. Hickey. Era stato riservato un certo spazio per lanciare il romanzo
The Dying Earth di Jack Vance (19), che Hillman aveva appena
pubblicato, inserendone l'estratto su Liane il Viaggiatore, intitolato The
Loom of Darkness.
Ma purtroppo Hillman era convinto che Worlds Beyond non rendeva e la
rivista, quindi, sparì per sempre.
I mesi conclusivi del 1950 e quelli iniziali del 1951 trovarono il mondo
fantascientifico alle prese con un dilemma. Le riviste in formato digest se
la passavano bene, soprattutto F&SF, Other Worlds e Galaxy, anche se
insuccessi come Fantasy Fiction e Worlds Beyond potrebbero indicare il
contrario. Astounding era in formato digest da sette anni, e quindi non
poteva indicare una tendenza. Ma le riviste pulp non subivano perdite:
Thrilling Wonder, Startling, Amazing e Planet, andavano bene. Ma poi,
alla metà del 1951, tornarono a chiudere improvvisamente Super Science
Stories e Fantastic Novels. La Popular aveva deciso che presto la rivista
pulp si sarebbe estinta, e che sarebbero venuti di moda i tascabili, e voleva
tirarsi fuori prima della catastrofe. Tuttavia mantenne in vita ancora per un
po' Famous Fantastic Mysteries, confermandone la popolarità, ma anche
quella finì per soccombere nel giugno 1953. La rivista che aveva riportato
in vita i vecchi classici, e che aveva offerto ai suoi lettori alcune delle più
belle illustrazioni in bianco e nero dovute alla penna di Virgil Finlay e di
Lawrence Stevens passò alla leggenda (19 bis).
Tuttavia, proprio mentre la Popular chiudeva i suoi pulps, altri
aumentavano le loro cadenze. Nell'autunno del 1950, per la prima volta in
vita sua, Planet Stories, da trimestrale, divenne bimestrale. Lo stesso
editore lanciò una nuova grossa rivista pulp, 2 Complete Science
Adventure Books, che riuniva due romanzi completi, nuovi o ristampati, in
una sola pubblicazione, per il modesto prezzo di venticinque centesimi.
Poiché il primo numero (Inverno 1950) apriva con il nuovo romanzo di
Isaac Asimov, Pebble in the Sky, non poteva fare a meno di conquistare il
pubblico. Ebbe ancora più successo di quanto fosse stato previsto, e poiché
usciva solo tre volte l'anno, ogni numero era atteso con ansia. Era anche un
degno rivale della compagna in formato digest di Galaxy, Galaxy Science
Fiction Novel, che contemporaneamente aveva incominciato con il
classico di Eric Frank Russell, Sinister Barrier. La guerra tra pulps e
digests era ormai in atto!
Il successo di Planet Stories dimostrava comunque che c'era ancora un
pubblico enorme per la space opera d'azione, sebbene la fantascienza
stesse maturando in Astounding e Galaxy. Sotto la direzione generale di
Malcolm Reiss, Planet dal numero dell'estate 1950 era diretta da Jerome
Bixby. Sebbene restasse alla rivista un anno soltanto, fece parecchio,
perché pretese fin dall'inizio vicende scritte bene; e questo divenne il punto
di forza di Planet nei confronti degli imitatori. I racconti erano narrati
molto piacevolmente soprattutto quelli usciti dalle abili penne di Leigh
Brackett, Poul Anderson e Gordon Dickson. Duel on Syrtis di Poul
Anderson (marzo 1951), per esempio, che segue l'affascinante azione di un
terrestre sulle tracce di un alieno su Marte, è accattivante e godibile,
quanto quelli che si potevano trovare sulle altre pubblicazioni
contemporanee.
Poco dopo che Planet era diventato bimestrale Startling divenne mensile
per la prima volta, dimostrando che ormai era più popolare di Thrilling
Wonder. E la rivista di ristampe della Standard, Fantastic Story Quarterly,
aveva avuto un tale successo che adesso appariva bimestralmente,
diventando Fantastic Story Magazine.
La situazione, dunque, era questa: pro-pulp o pro-digest? Fu rivelatore il
caso di Marvel Science Stories. Durante il boom prebellico, Marvel era
stata la rivista più discussa sul mercato. Era la compagna fantascientifica
di Mystery Tales e di Uncanny Tales, che sottolineavano gli elementi
sessuali e sadici del genere terrore. Gli editori avevano cercato di ravvivare
la science fiction includendovi brani sexy. La cosa scandalizzò i puristi, ma
la rivista si vendeva bene alla massa del pubblico dei pulps; e questa fu
una delle ragioni del boom del 1939. Nel 1941 aveva chiuso i battenti e
ormai era stata quasi dimenticata. La sua ricomparsa nel novembre 1950,
perciò, fece inarcare molte sopracciglia. Robert Erisman ne era ancora il
direttore, ma l'uomo che sbrogliava tutto il lavoro più pesante era il
giovane Daniel Keyes, che dieci anni dopo avrebbe vinto un Premio Hugo
per il profondo ed efficace Flowers for Algernon. Keyes, che aveva solo
ventitré anni, era un giovane dotato che faceva sentire il suo influsso su
Marvel, e il livello saliva sorprendentemente di numero in numero. I primi
due erano in formato pulp, ma il terzo, uscito nel maggio 1951, era in
formato digest. Sebbene contenesse piacevole narrativa di Mack Reynolds,
Jack Vance, Richard Matheson e Arthur Clarke, le vendite non
migliorarono. Altri due numeri, in formato digest apparvero nell'agosto e
nel novembre 1951, poi per un po' di tempo non ne uscirono altri. I lettori
pensarono che Marvel si fosse nuovamente inabissata. Ma poi, nel maggio
1952 uscì un altro numero... in formato pulp. Quasi sicuramente la
Stadium Publishers non riusciva a mettersi d'accordo sul formato di
Marvel, né a capire se poteva vendere più un pulp o un digest.
Quale fu la soluzione? Il numero pulp di Marvel del maggio 1952 diede
la risposta. La rivista non riapparve più.

7. Mondi nuovi

Nel frattempo, che cosa succedeva in Inghilterra, dove erano ancora in


vigore il razionamento della carta e altre restrinzioni del tempo di guerra?
Il mio collega Phil Harbottle, che è stato consulente per le ricerche di
questa storia delle riviste di fantascienza, ha fatto uno studio speciale del
panorama fantascientifico britannico dell'inizio degli Anni Cinquanta, che
l'ha sempre affascinato. Il periodo in cui fu direttore di Vision of Tomorrow
gli permise di conoscere molti personaggi importanti di quel tempo.
«Quando non insistevo con loro perché mi fornissero racconti nuovi,»
ricorda spiritosamente Phil, «insistevo perché mi dessero informazioni su
quelli vecchi.»
I frutti di questa ricerca sono contenuti in una voluminosa
corrispondenza con quegli autori, direttori e fans. Molte delle lettere sono
in pratica storie personalizzate e saggi sull'evoluzione delle riviste
britanniche di fantascienza. Questi documenti autentici meritano di venir
pubblicati in volume, e Phil spera di usarli appunto così quando avrà
completato le ricerche. Nel frattempo li ha cortesemente messi a mia
disposizione, e nel paragrafo seguente potrò presentare un certo numero di
resoconti di prima mano della storia delle riviste di fantascienza
britanniche.
Il classico romanzo di Aldous Huxley, pubblicato per la prima volta nel
1932 e imperniato su una Terra del futuro, Brave New World, nel 1948
ebbe una nuova edizione rilegata in Inghilterra. Fu una piccola
consolazione per i fans, la cui coraggiosa New Worlds era sparita dopo tre
numeri l'anno prima. Il direttore John Carnell, però, non era disposto ad
arrendersi, ed era deciso a trovare un editore. Pubblicando il seguente
estratto dalla descrizione della rinascita di New Worlds, fatta dallo stesso
Carnell, voglio rendere il meritato omaggio al più grande direttore
specializzato britannico:

«L'inverno 1947-48, dopo la fine della Pendulum Publications,


fu un periodo triste, almeno per me, ravvivato solo dagli incontri
settimanali tra autori ed appassionati alla White Horse Tavern in
Fetter Lane. Le restrizioni sulle importazioni, instaurate in tempo
di guerra, erano ancora in vigore e le uniche riviste americane che
arrivavano erano quelle ottenute privatamente per scambio. Le
edizioni britanniche facevano molto per colmare la lacuna, ma
erano soltanto ombre delle riviste madri.
«In primavera, però, l'ottimismo rinacque, promosso soprattutto
dalla Convention fantascientifica di Pentecoste, tenutasi al White
Horse e presieduta da Walter Gillings. In quella riunione potei
informare i delegati che si stavano facendo i progetti per formare
una nostra casa editrice, di cui avrebbero potuto acquistare le
azioni. L'idea era nata innocentemente durante uno dei tipici
incontri del giovedì, durante le interminabili discussioni sulla
miopia degli editori, quando una voce anonima chiese: "Perché
non fondiamo noi una casa editrice? Potremmo pubblicare le
nostre riviste". Era un'idea che era già stata ventilata, ma non
l'aveva sentita ancora Frank Cooper, un ufficiale della RAF in
pensione che aveva investito parte della liquidazione in una
libreria a Stoke Newington, con un'ampia sezione fantascientifica.
Recentemente era entrato a far parte dei frequentatori abituali del
pub e afferrò al volo l'idea, offrendosi di procurarsi tutte le
informazioni necessarie per fondare una casa editrice.
«In pratica, si dovette ai suoi sforzi se venne finalmente stilato
il progetto della società, che fu approvato e inviato a circa
quattrocento persone, i cui nomi erano stati ottenuti da varie fonti.
Le azioni venivano offerte ad una sterlina l'una, con un acquisto
minimo di cinque. Una cinquantina di entusiasti sottoscrissero un
capitale iniziale poco superiore alle 600 sterline, che vennero
considerate sufficienti per lanciare la casa editrice. L'avvocato di
Frank si occupò dei dettagli, la moglie di Walter Gillings, Marge,
ideò il nome Nova Publications Ltd, e alla fine dell'anno il sogno
si avviava a tradursi in realtà.
«In pratica sei direttori attivi (a tempo perso e senza stipendio)
furono John B. (Wyndham) Harris, presidente; G. Ken Chapman,
tesoriere; Frank C. Cooper, segretario; Walter Gillings, pubblicità;
Eric C. Williams, abbonamenti; e il sottoscritto, John Carnell,
direttore editoriale. Trovammo una eccellente tipografia vicina a
Stoke Newington, il razionamento della carta venne tolto e i
distributori accettarono la nuova rivista. Nella primavera del
1949, la nuova società entrò in attività, e New Worlds 4 venne
preparato come numero di prova, formato demy (cm. 21,25 x
13,75), 96 pagine, in vendita a 1 scellino e 6 pence, con
previsione di una pubblicazione trimestrale. Il numero andò in
vendita in giugno, con un'astronave tradizionale in orbita di
frenata intorno alla Luna, disegnata da «Dennis», con illustrazioni
interne di White, un giovane studente d'arte che a quel tempo
alloggiava in casa nostra. Il contenuto era esattamente lo stesso
che era stato pianificato per la defunta edizione Pendulum. C'era
anche un vivace articolo di Arthur Clarke, intitolato The Shape of
Ships to Come, in cui postulava la possibilità di astronavi a forma
di manubrio da ginnastica per viaggi extraplanetari... usate
diciassette anni dopo per il film 2001.
«Per economia, la Nova provvedeva direttamente alla
distribuzione, un'impresa non da poco per un gruppo di dilettanti,
ma Frank Cooper ed il suo manager, Leslie Flood, si
dimostrarono all'altezza di quel compito monumentale ed a luglio
eravamo ormai sicuri di poter fare i piani per una regolare
pubblicazione trimestrale. Il numero cinque venne pubblicato in
settembre e il numero sei, datato Primavera 1950, nel gennaio di
quell'anno. Mentre il numero cinque era in corso di stampa, io ero
stato uno degli ospiti d'onore alla Settima World Science Fiction
Convention tenutasi a Cincinnati, con il viaggio parzialmente
pagato grazie all'interessamento di Forrest Ackerman e a
donazioni giunte dalle due sponde dell'Atlantico. Fui
completamente sopraffatto dalla generosità di una schiera di
editori, autori e fans americana verso il primo rappresentante della
Gran Bretagna che era andato a stabilire contatti negli USA.
Tornai pieno di idee e di utili conoscenze.»

New Worlds non si poteva confondere con le sue consorelle americane.


Le dimensioni, il formato e la politica riecheggiavano Astounding, ma
conservava un'atmosfera eminentemente britannica. Le copertine erano
meno sgargianti, e quindi attiravano più il lettore medio, anziché
l'elemento giovanile dei frequentatori di edicole, che erano affascinati dalle
clamorose copertine d'azione dei pulps degli Anni Quaranta. Era quasi
certo che, come avveniva per Astounding, l'età media dei lettori di New
Worlds era più elevata di quella dei lettori dei pulps. Anche i racconti
avevano un sapore inglese, quel senso della vita più tranquilla e riservata
che ci è tipica, anziché della tumultuosa esistenza americana di frontiera.
Molte storie di space opera americane venivano accusate di essere western
interplanetari. La mentalità britannica era diversa anche se alcuni autori le
imitavano. New Worlds stava raggiungendo un pubblico numeroso, in Gran
Bretagna, un pubblico che in precedenza aveva avuto a disposizione ben
poco materiale indigeno.
Dopo la fine di Fantasy, Walter Gillings aveva pubblicato privatamente
la sua Fantasy Review, dall'aspetto estremamente professionale, piena di
notizie, recensioni e informazioni su questo genere letterario. Dopo il
quindicesimo numero la ribattezzò Science-Fantasy Review, e altri tre
numeri apparvero fino alla primavera del 1950. Nel frattempo, venne
messa in atto la fase successiva del progetto Nova per produrre una rivista
sorella di New Worlds, Science Fantasy, diretta da Gillings. Il primo
numero, che incorporava Science-Fantasy Review, apparve nell'estate del
1950. Era di un formato digest più piccolo di New Worlds, aveva 96 pagine
e costava egualmente uno scellino e sei pence. Il racconto d'apertura era
The Belt di J.M. Walsh. Walsh (1897-1952) era un personaggio di rilievo
nel mondo della fantascienza britannica, poiché aveva venduto un
romanzo, Vandals of the World a Wonder Stories Quarterly di Gernsback
nel 1931. La mancanza di un mercato britannico aveva costretto Walsh a
dedicarsi ai gialli per guadagnarsi da vivere; tuttavia scriveva science
fiction appena poteva. The Belt, che racconta come un frammento cosmico
urti la Luna facendola deviare dalla sua orbita e poi facendola frantumare e
formare un anello intorno alla Terra, era scritto in uno stile altamente
professionale e indicava il buon livello della rivista. Se aggiungo che era
seguito da Time's Arrow di Arthur C. Clarke, questo basta a sottolineare la
qualità di Science Fantasy. Infatti, attingeva ai migliori racconti inediti che
Gillings aveva precedentemente raccolto per la Fantasy di Temple Bar.
Poiché Gillings, era un erudito collezionista oltre che direttore e lettore,
Science Fantasy includeva un'ottima selezione di articoli e recensioni. Uno
di questi pezzi, The Jinn in the Test-Tube di Herbert Hughes (Gillings)
esplorava le opinioni di coloro che stavano al di fuori della fantascienza
circa il boom americano, ed in particolare i commenti del rispettato
professor Jacob Bronowski, che aveva battezzato la fantascienza «il
folklore dell'era atomica».
Un secondo numero di Science Fantasy uscì nel gennaio 1951:
includeva il ristampatissimo History Lesson di Arthur C. Clarke. Era stato
pubblicato per la prima volta su Startling Stories nel maggio 1949, il che
dimostrava che Clarke stava sfruttando al meglio il boom. Poiché i mercati
si andavano allargando, sia in Gran Bretagna che in America, gli autori
potevano almeno vendere le loro opere più di una volta, e ricevere così un
compenso più adeguato per i loro sforzi.
Trascorse un anno intero prima della comparsa del terzo numero di
Science Fantasy, datato Inverno 1951-52. Adesso costava 2 scellini, era in
formato digest più grande, in armonia con quello di New Worlds, e non era
diretta da Walter Gillings, anche se era lui a firmare l'editoriale. Alla Nova
Publications era stato deciso che era antieconomico avere due direttori, ed
una votazione aveva assegnato a Carnell la direzione di entrambe le
riviste... la decisione fu influenzata dal fatto che produrre Science Fantasy
costava di più di New Worlds. Gillings perse anche il controllo di Science-
Fantasy Review, che sparì dalle pagine della rivista, lasciando il posto ad
altra narrativa. Tutto questo, aggravato da una tragedia familiare, costrinse
Gillings, l'uomo che era stato la principale forza motrice della creazione di
una rivista britannica di fantascienza dopo il 1934, a ritirarsi in buon
ordine. In pratica, non avrebbe più avuto una parte attiva sulla scena della
fantascienza professionale per quasi vent'anni. Per fortuna oggi è tornato
all'ovile, e forse verrà il giorno in cui dirigerà di nuovo una rivista di
fantascienza.
Science Fantasy continuò ad apparire irregolarmente come sorella
povera di New Worlds; le sue comparse spesso venivano ritardate perché,
sosteneva Carnell, non c'era buon materiale a sufficienza. Science Fantasy
non avrebbe mai raggiunto la popolarità di New Worlds, benché fosse in
genere di qualità letteraria superiore.
Dall'inizio del 1951, con le riviste della Nova che fungevano da spina
dorsale della fantascienza britannica, apparvero altre pubblicazioni, a
dimostrazione del fatto che il genere si vendeva. Purtroppo non erano
riviste relativamente mature e intelligenti come New Worlds o Science
Fantasy. Gli editori sfruttavano il pubblico affamato delle sue letture
preferite. Apparvero da un giorno all'altro nuove case che cominciarono a
sfornare tascabili fantascientifici mal stampati o d'infimo livello, scritti da
gente che conosceva poco o punto la science fiction. Ebbero la colpa di
violentare questo genere specializzato e di dar vita ad una prole fiacca,
puerile e malsana. Alcuni editori riuscirono ad assicurarsi la collaborazione
di scrittori esperti nel settore, e così pubblicarono alcuni romanzi decenti,
ma purtroppo erano quasi tutti dello stesso tipo, ed i tascabili
fantascientifici, in Gran Bretagna, venivano derisi come porcherie.
Uno dei peggiori colpevoli fu la casa editrice John Spencer & Co. di
Shepherds Bush, Londra. Nell'estate 1950 sfornò una quantità di riviste:
non una sola, ma quattro, tutte nello stesso formato digest simile a quello
dei romanzi tascabili, ma zeppe di racconti scritti appositamente. La prima
fu Futuristic Science Stories, che presentava Nightmare Planet di Norman
Lazenby, quello stesso che era apparso su Fantasy e New Worlds.
Purtroppo molti autori avevano ceduto alla tentazione di guadagnare
denaro in fretta collaborando a quel mercato. Lazenby era capace di
produrre buona fantascienza, ma perdere il tempo per scrivere con
eleganza non serviva a fargli guadagnare il pane. Alla fine passò alle storie
di gangster. A quel tempo gli editori dei tascabili pagavano comunque
pochissimo, e quindi bisognava sfornare più materiale possibile. Come
prima volta, al livello delle riviste di Spencer, Nightmare Planet era
sopportabile. Lo era anche Worlds of Fear di J.Austin Jackson. Jackson era
stato pubblicato da Fantasy tre anni prima e forse quel racconto era stato
scritto sullo slancio iniziale. Ma quando le pubblicazioni continuarono ad
apparire e la piccola scorta di narrativa ben scritta si esaurì, la qualità
precipitò velocemente. In rapida successione vennero Worlds of Fantasy,
Wonders of the Spaceways e Tales of Tomorrow. Alle riviste venne
associata una scuderia di nomi: Hamilton Donne, Frank Kneller, D.R.
Mencet, nessuno dei quali riuscì a produrre qualcosa di eccezionale.
Lazenby arrivò presto all'infimo gradino nel secondo numero di Futuristic
con Plasma Men Bring Death, ambientato su un pianeta Terra in miniatura,
chiamato Earthkin, invaso dallo spietato fuorilegge Arturo Korlin e dai
suoi Uomini-Plasma! Lo stesso numero presentava l'atroce Vultures of the
Void di Clifford Wallacem, che parlava delle eroiche imprese spaziali del
capitano Starlight e del suo compagno, Tubby Masters. Erano racconti
veramente orrendi come sembrano!
I lettori britannici di fantascienza soffrivano per la mancanza del loro
materiale preferito, ma non era questo che volevano. Per giunta, rovinava
la piazza dando un'impressione totalmente sbagliata e creando
un'atmosfera da immondezzaio. Fortunatamente, una crisi editoriale, nel
1951, tenne le riviste di Spencer lontane dalla piazza; riapparvero nel
1952, con roba anche meno interessante di prima. È difficile trovare
qualcosa da dire in loro favore. Tuttavia, fornirono un mercato che permise
agli scrittori di guadagnare qualcosa scrivendo materiale abborracciato,
mentre si concentravano su narrativa di migliore qualità. Inoltre, erano un
campo d'addestramento in cui gli autori potevano farsi le ossa. In questo
modo E.C. Tubb, il più prolifico scrittore britannico degli Anni Cinquanta,
vendette vari racconti sotto il nome di «Charles Grey», mentre scriveva
materiale di buona qualità per New Worlds. Anche Lan Wright, uno dei
fedeli della Nova, fece la sua prima vendita, Heritage, a Spencer. Era una
discreta vicenda sulla tattica della guerra spaziale, e uscì su Futuristic
Science Stories numero 6, all'inizio del 1952.
Le vendite delle riviste di Spencer furono sufficienti per tenerle in piedi
fino al 1954, e uscirono più di cinquanta numeri complessivi. È quindi
evidente che attiravano il pubblico, il quale, si spera, in seguito passò alle
riviste adulte. Certamente, la principale pubblicazione che serviva come
apprendistato per i giovani non era una rivista, ma un fumetto: Eagle.
Durante l'ultima parte del decennio 1940-50 crebbe in Gran Bretagna
l'opposizione al culto dei «fumetti dell'orrore» americani che, secondo
molti, avrebbero avuto un effetto negativo sulla psicologia dei
giovanissimi. I macabri dettagli raffigurati su certe pubblicazioni
inorridivano i genitori. Alla fine, una proposta di legge venne approvata in
Parlamento nel 1955, e bloccò l'importazione dei fumetti americani in
Gran Bretagna. Forse questo avrebbe lasciato un vuoto, se non fosse
esistita un'alternativa. L'intraprendente reverendo Marcus Morris aveva
proposto alla casa editrice Hulton un'impronta religiosa ed educativa.
Hulton accettò, e Morris preparò Eagle che uscì, con la massima
pubblicità, il 14 aprile 1950. Il personaggio principale era il famoso Dan
Dare. In origine, Morris lo aveva progettato come il reverendo Dan Dare,
ma fortunatamente Hulton lo modificò secondo una linea più tradizionale.
I fumetti di Dan Dare erano disegnati e creati da un ex artista della RAF,
Frank Hampson, che aveva acquisito una speciale tecnica realistica tale da
rivoluzionare l'arte del fumetto. Stampata su carta ottima, Eagle, aveva un
aspetto professionale superbo, e la pubblicità che l'aveva preceduta era tale
da indurre i genitori ad acquistarla prontamente per i loro figli. Il successo
fu notato da John Carnell nel suo editoriale di New Worlds dell'estate 1950,
che diceva tra l'altro:

«...mi ha fatto piacere sapere che questo settimanale nazionale


per ragazzi vende bene dovunque. Diretto da un ecclesiastico, che
l'ha ideato e progettato prima di presentarlo alla Hulton Press,
pubblica un'avventura a fumetti ambientata su Venere e vicende
fantascientifiche capaci di esercitare un forte fascino sui
giovanissimi. Non senza orgoglio, lo scrittore Clarke mi ha
informato di aver venduto un racconto ad Eagle» (20).

Se mai vi fu una pubblicazione per ragazzi che servì a reclutare nuovi


lettori per le riviste di fantascienza adulta, fu proprio Eagle. In buona
parte, era merito della compiuta conoscenza della science fiction da parte
di Hampson, e dalla straordinaria ispirazione dei suoi colleghi.
Hulton si rese conto delle possibilità potenziali della fantascienza grazie
a Dan Dare, e convocò vari membri del circolo londinese per consultarli.
William F. Temple ricorda con molta amarezza che venne interpellato per
dirigere un Dan Dare Annual. Temple impiegò parecchio tempo
commissionando racconti e articoli a tutti i principali scrittori, ed a
realizzare lui stesso un romanzo breve con Dan Dare protagonista. Ma i
progetti di Hulton non andarono in porto, anche se non per colpa di
Temple, che rispettò in pieno gli impegni presi. Andò tutto storto, e quando
finalmente apparve Dan Dare's Spacebook, non era più opera di Temple,
ed era soltanto l'ombra della concezione originaria. Temple riuscì a
rielaborare il romanzo nella successiva serie di «Martin Magnus».
Un disastro simile toccò a Herber J. Campbell, che faceva parte della
confraternita fantascientifica londinese. Fu incaricato da Hulton di
preparare una nuova rivista di science fiction. Preparò quattro numeri
pilato, ma poi scoprì che ancora una volta Hulton aveva cambiato idea, in
favore di una rivista gemella di Eagle, dedicata alle bambine e
naturalmente chiamata Girl.
Fortunatamente, l'esperienza ed i contatti che Campbell aveva preso nel
suo abortito lavoro editoriale non andarono perduti, perché diventò
direttore tecnico di una nuova iniziativa della Hamilton & Co., di
Goldhawk Road, Londra. Il responsabile della politica editoriale della
Hamilton era Gordon H. Landsborough. Non è un nome familiare come
appassionato del settore, ma fu un personaggio influente nella formazione
dell'espressione fantascientifica britannica. Con i Panther Books (della
Hamilton) e più tardi con i Four Square Books, Landsborough contribuì a
pubblicare in Gran Bretagna science fiction di qualità migliore. Oggi
editore fortunato e rispettato, Landsborough ricorda chiaramente i suoi
rapporti con la Hamilton... e la creazione di quella che doveva diventare
un'importante rivista specializzata, Authentic Science Fiction:
«Poche settimane dopo aver ricevuto il controllo dei cataloghi
della Hamilton, nel 1949, avevo apportato vari cambiamenti,
eliminato la vecchia robaccia e reclutato come autori giornalisti di
quotidiani, che erano attratti dai compensi più elevati. Non so
bene come reclutai gli scrittori di fantascienza, ma credo che
arrivassero rispondendo agli annunci pubblicati da World's Press
News. Erano uno strano assortimento, ma almeno rappresentavano
un miglioramento rispetto agli autori di gialli che avevo incaricato
di "far qualcosa di fantascienza". Quando leggevo i cosiddetti
lavori fantascientifici che erano apparsi di tanto in tanto nei
cataloghi della Hamilton, mi venivano i brividi. Quella robaccia
conteneva i semi dell'autodistruzione.
«Le mie opinioni venivano espresse talvolta in modo esplosivo.
L'editore se la prendeva bonariamente e diceva soltanto: "Sta
bene, trovi materiale migliore". Fu allora che venni autorizzato ad
offrire una sterlina ogni 1000 parole [circa tre pagine] per la
buona science fiction sebbene dovessi cercare di ottenerne il più
possibile a compensi inferiori!
«Mi pareva che con una simile massa di porcherie che si
disputava lo spazio in edicola e nelle librerie, noi dovevamo fare
qualcosa che si distinguesse, per crearci un pubblico fedele.
Perciò, dopo aver fissato un programma di due titoli al mese, misi
una striscia attraverso la copertina e li chiamai Science Fiction
Fortnightly. (21). Quei primi testi erano molto eterogenei... ma io
sostenni che la dicitura non avrebbe danneggiato le vendite e con
il tempo avrebbe contribuito a favorirle. Allora il mio editore ebbe
un'idea. Mi disse che gli sarebbe piaciuto produrre una rivista
mensile di fantascienza.
«Non ne fui entusiasta. Ero stato editore di periodici e sapevo
che il lavoro di quel genere era dieci volte maggiore di quello
necessario per produrre un breve romanzo. Avevo già abbastanza
da sgobbare. E poi, dove potevo trovare autori di buon livello per
riempire ogni numero, avendo da offrire solo una sterlina per
1000 parole? Quando insistetti per aumentare i compensi, l'editore
rabbrividì e cambiò argomento. Finalmente raggiungemmo un
compromesso. Avremmo prodotto una "rivista" nel formato
convenzionale dei tascabili, ma sarebbe consistita di un romanzo
di 35.000 parole [circa 100-120 pagine], con un breve pezzo
editoriale, ed un corto racconto come riempitivo. Science Fiction
Fortnightly morì, e nacque Authentic Science Fiction. La testata
era un'idea dell'editore. Io non ne ero estasiato, ma non sono il
tipo che discute per le inezie; almeno avrebbe avuto una sua
identificazione, e avrebbe attratto i lettori per i nostri testi,
superiori alla media.
«Authentic diventò la più grossa vendita costante di Hamilton.
Entro due anni, vendeva 20.000 copie, a due scellini, in confronto
alle 13.000 circa degli altri prodotti, che costavano 1 scellino e 6
pence.
«Qualche tempo dopo compresi perché Hamilton era stato così
ben disposto a lanciare una rivista di fantascienza. Un'editrice
londinese, l'Atlas, stava avendo un grande successo con l'edizione
britannica di Astounding, che a me sembrava molto più avanti di
quello che avevamo a disposizione in Gran Bretagna. Si diceva
che l'Astounding vendesse 40.000 copie al mese, e Hamilton non
voleva perdere l'autobus.
«Hamilton accettò d'impiegare disegnatori con qualche
conoscenza specifica, che apportarono un notevole miglioramento
rispetto a certi precedenti orrori privi d'ispirazione. Prima della
nascita di Authentic nessuno aveva fatto commenti favorevoli
sulle nostre copertine, perciò quando i complimenti cominciarono
ad affluire, mi resi conto che stavamo facendo progressi. Prima
Hamilton aveva pagato solo nove ghinee per una copertina, che
doveva recare per giunta anche il titolo, il nome dell'autore e lo
slogan pubblicitario aggiunti a mano. Il compenso salì a quindici
ghinee ed il lettering venne aggiunto separatamente.»

Authentic era stata lanciata nella prima settimana del gennaio 1951. Il
primo romanzo portava l'orrendo titolo di Mushroom Men from Mars, di
Lee Stanton (21 bis). Due settimane dopo fu seguito da Reconnoitre
Krellig II di Jon J. Deegan. Il romanzo fece conoscere ai lettori la Vecchia
Brontolona, una vecchia astronave strampalata e il suo equipaggio
variopinto (22). Quelle avventure spaziali, vivaci e senza pretese
divennero così popolari che apparvero altri romanzi della Vecchia
Brontolona, rinsaldando l'accettabilità di Authentic. La testata mutò da
Science Fiction Fortnightly in Science Fiction Monthly con il numero
nove, nel maggio 1951, e infine in Authentic SF nel settembre 1951.
Nell'ottobre 1952 il romanzo venne arricchito con un testo a puntate,
partendo da Frontier Legion di Sydney J. Bounds. Nel gennaio 1953
assunse un aspetto più spiccatamente da rivista, con articoli e racconti. A
quell'epoca Gordon Landsborough, che aveva diretto la pubblicazione con
lo pseudonimo di L.G. Holmes, aveva lasciato la Hamilton ed era stato
sostituito da Herbert J. Campbell.
Landsborough riprende il suo racconto:

«Un nuovo tipo di autore veniva attirato alla scuderia della


Hamilton. Bert Campbell, con la sua barba nera ed i suoi
eccellenti manoscritti, John Brunner che svolazzava nel mio
ufficio, Bryan Berry, S. Fowler Wright, Ken Bulmer, Syd Bounds
e molti altri. Scrisse per noi anche lo scientologo L. Ron Hubbard,
e così pure E. C. Tubb e Bill Temple. Altri due nomi che ricordo
sono Roy Sheldon e Jon J. Deegan. Avevo inventato questi due
nomi prima della nascita di Authentic. A parte alcuni scrittori
notissimi come John Russell Fearn, l'editore pretendeva sempre di
usare uno pseudonimo per gli autori. Si usava di proposito lo
stesso pseudonimo per parecchi scrittori, in modo che non
appartenesse a nessuno. Era un sistema per tenere in pugno un
autore perché non acquisisse mai fama con uno pseudonimo, e poi
passasse ad un altro editore portandosi dietro quel nome.
«Il guaio fu che, nonostante l'aumento dei compensi, non erano
ancora sufficienti per accendere l'entusiasmo dei buoni autori. Ma
avevo spinto il mio editore fin dove era possibile. A una sterlina
per 1000 parole si bloccò. E non è così che si costruisce un
impero letterario!
«Intanto Authentic continuava a rafforzarsi. Ma non andava
tutto bene. Mi era stato promesso pieno controllo sul catalogo di
Hamilton. E una delle prime cose che avevo fatto era stato
chiudere il rubinetto degli sgradevoli romanzi di gangster
americani, del tipo sexy-sadico. C'erano ancora alcuni in
preparazione, e con riluttanza li lasciai passare. Ma non volevo
più saperne.
«Perciò, un brutto giorno restai sbalordito quando l'editore
venne da me e disse che voleva mantenere in catalogo i suoi
romanzi americani di gangster. Avevano ancora un mercato
redditizio. Ci pensai sopra. Quei libri sadici erano noiosi, quando
non erano nauseanti; erano scritti così schifosamente che non mi
andava l'idea di rivederli. Perciò diedi le dimissioni.
«L'editore ci restò male, mi rese però un bell'omaggio. Mi
pregò di restare ancora per tre mesi e di trovarmi un successore.
In effetti, trovai due direttori per Hamilton: uno per i western e le
pubblicazioni "sofisticate", l'altro, veramente ottimo, per la mia
cara Authentic. Era Herbert J. Campbell.
«Bert era l'uomo adatto per quel compito... o meglio, era troppo
in gamba. Aveva scritto romanzi di fantascienza, ma l'avevano
lasciato raramente soddisfatto, e non c'era mai niente che fosse
davvero all'altezza delle sue esigenze. E questo è il segno
distintivo del buon direttore. Correggeva con riluttanza, ed era
incapace di bestemmiare, anche di fronte alle peggiori atrocità
intellettuali, come invece facevo io. Bert avrebbe dovuto avere la
fortuna di venire assunto da una grande casa editrice. Nonostante
questo, apportò considerevoli miglioramenti ad Authentic durante
il periodo in cui la diresse. Pochi anni dopo aver lasciato
Hamilton incontrai Bert: era evidente che ne aveva avuto
abbastanza del mondo dell'editoria. Stava studiando con impegno
per incominciare una carriera di ricercatore scientifico. Alla fine
ci riuscì e la science fiction lo perse. Oggi è uno scienziato
rispettato, autore di parecchi libri importanti sulla ricerca
celebrale, e quindi è un uomo felice.» (22 bis).

È più che probabile che fosse Campbell, l'autore che si nascondeva sotto
lo pseudonimo di Jon J. Deegan. Senza dubbio, la fantascienza britannica
deve molto ai suoi sforzi instancabili, e sono lieto di riconoscere i suoi
meriti.
Nel 1952 Authentic era ormai affermata e gareggiava in popolarità con
New Worlds. C'era tuttavia un'altra concorrente sulla scena, e veniva da
Glasgow, in Scozia. La rivista si chiamava Nebula, ed uno dei suoi
principali collaboratori sarebbe stato in seguito Kenneth Bulmer. Bulmer
era un grande ammiratore di Nebula, ed a questo punto gli lascio la parola:

«Quando, nell'autunno 1952, una nuova rivista di science


fiction apparve nelle edicole di Gran Bretagna, pochi lettori
avrebbero potuto prevedere che sarebbe diventata quello che
molti fans considerano la più amata delle riviste fantascientifiche
britanniche. Per diversi mesi erano circolate voci e dicerie
sull'imminente apparizione di Nebula prima che uscisse
veramente, perciò il numero d'esordio conteneva una rubrica della
posta con lettere di congratulazioni dei fans più eminenti di quei
tempi. Doveva essere una delle caratteristiche più spiccate di
Nebula: un continuo legame con il fandom ed un generoso
interesse per le sue attività.
«Il racconto d'apertura era Robots Never Weep, di E.R. James,
un postino dello Yorkshire. Era molto lungo, e riempiva ben 103
delle 120 pagine. Le dimensioni erano le stesse di New Worlds,
che aveva solo 96 pagine, ma i caratteri tipografici di Nebula
erano più grandi. All'epoca in cui Nebula irruppe sulla scena, New
Worlds aveva raggiunto il suo diciassettesimo numero, si era già
affermata nel formato che aveva utilizzato così bene e stava
pubblicando materiale che avrebbe reso famosi i nomi di molti
autori britannici. Authentic aveva ancora il suo piccolo formato, e
pubblicava materiale che non sarebbe migliorato fino a quando
Bert Campbell, diventato direttore, non avesse preso saldamente
in pugno la politica editoriale. La nuova rivista fu molto ben
accolta.
«Alle spalle dell'iniziativa non c'era una grande casa editrice e
neppure un gruppo di fans entusiasti, e non era neppure una cinica
pubblicazione opportunistica di editori puramente commerciali.
Era invece la creazione di un giovane appassionato scozzese, il
quale amava la fantascienza al punto da gettare tutte le sue magre
risorse in una rivista professionale. Peter Hamilton, tormentato
dalla cattiva salute che talvolta lo portava pericolosamente vicino
alla morte, era stato appena dimesso da un convalescenziario,
quando nacque Nebula. Uscendo in un momento in cui le edicole
erano inondate da orrendo ciarpame mascherato da fantascienza,
Nebula diventò subito una produzione di qualità e formò il terzo
ramo della science fiction britannica seria: Nebula, New Worlds e
Authentic.
«Durante i lavori della Convention fantascientifica del 1953,
tenutasi al Bonnington Hotel, a Londra, e nonostante l'inaspettata
presenza di L. Ron Hubbard, Peter Hamilton fece sensazione, con
il suo sereno buonumore e l'evidente dedizione al genere. Poiché
era astemio, restò debitamente sorpreso quando il comitato della
Convention soccombette in blocco alla tentazione di scrivere
un'altra pagina scarlatta nella storia della science fiction.
«Peter Hamilton lavorava continuamente per migliorare sotto
ogni aspetto la qualità della rivista, intavolando spesso dialoghi
con i lettori e invitandoli a collaborare all'evoluzione di Nebula. I
suoi editoriali erano invariabilmente vivaci ed onesti, con un
senso autentico di comunicazione tra direttore e lettore. Un
celebre fan, Walter Willis, teneva una regolare rubrica per i suoi
colleghi, e Forrest J. Ackerman forniva un notiziario
cinematografico.
«Molti autori oggi notissimi pubblicarono su Nebula, nel corso
degli anni, i loro primi racconti, spesso i primissimi. Brian Aldiss,
per esempio si vide accettare il suo primo racconto da Peter
Hamilton. Un altro fu Robert Silverberg, e così pure Bob Shaw.
Peter aiutava gli appassionati che volevano diventare scrittori.
Come dice Brian Aldiss: "Era un direttore comprensivo con i
principianti. Ed era anche un direttore paziente". Ma quasi tutti i
più noti scrittori dell'epoca erano ben lieti di pubblicare materiale
su Nebula. E tra gli altri c'era anche Bert Campbell di Authentic!
«Lo scrittore più prolifico e popolare era E.C. Tubb, che
realizzò l'impresa non trascurabile di apparire consecutivamente
dal numero due al numero undici, e che vinse più volte il Premio
per il Miglior Autore. Altri collaboratori prolifici erano William F.
Temple, Brian Aldiss, Philip High, Eric Frank Russell e il
sottoscritto. Tra altri nomi famosi troviamo Harlan Ellison, John
Rackham, John Kippax, Dan Morgan, James White, Arthur
Selling e il sempreverde Sydney Bounds.
«John Newman scriveva molti bellissimi articoli scientifici e,
firmando Kenneth Johns in collaborazione, si occupava degli
argomenti scientifici d'attualità nella rubrica in seconda di
copertina, che presentava materiale fotografico, unico a quel
tempo.
«Le copertine di Nebula erano eseguite da molti disegnatori,
compresi quelli notissimi nel campo, come Quinn e Rattigan,
Clothier e Hunter, e anche l'artista che Peter era fierissimo di aver
scoperto, il grande, compianto Ken McIntyre. A partire dal
decimo numero si aggiunse un'illustrazione in bianco e nero in
quarta di copertina, disegnata quasi sempre da Arthur Thomson.
Questo conferiva alla rivista un sapore immensamente
individuale, e le dava una dignità che nessuna pubblicità in quarta
di copertina poteva sperare di eguagliare.
Sebbene Nebula avesse spesso un aspetto dilettantistico, questo
contribuiva a creare un senso di amicizia, e poiché Peter pagava i
collaboratori più delle altre riviste professionali, Nebula,
nonostante il suo nome, non fu mai nebulosa.
«Forse si può riassumere ciò che significava Nebula ricordando
le parole di Ted Tubb: "... molti autori finirono per considerare
Nebula non solo come un altro mercato, ma come qualcosa con
cui potevano avere una particolare affinità emotiva... Gli autori
scrivevano per Nebula pensando solo secondariamente al
compenso finanziario: il desiderio di presentare un buon racconto
veniva sempre in primo piano... il direttore era sempre disposto a
fare esperimenti ed a pubblicare testi che altre riviste avrebbero
giudicato inaccettabili. Il risultato finale fu una specie di gestalt in
cui gli scrittori e i collaboratori sentivano che Nebula era la 'loro'
rivista, e che tutti facevano parte di una famiglia felice e ben
integrata."

È quindi evidente che, già alla fine del 1953, Nebula era diventata una
pubblicazione di prestigio e contribuiva a collocare saldamente la science
fiction britannica nel panorama mondiale. Perché era un panorama
veramente mondiale. La fantascienza non era più limitata agli Stati Uniti e
alla Gran Bretagna: fioriva dovunque. Perciò, prima di tornare agli USA e
al culmine del boom, diamo una breve occhiata all'evoluzione della rivista
specializzata all'estero.

8. Diluvio globale

Una rivista britannica di ristampe che apparve nel 1951 non proveniva
da fonti americane. Amazing Science Stories, una pubblicazione di grande
formato edita e Manchester, conteneva testi ripresi da Thrills
Incorporated... una rivista australiana.
L'Australia aveva avuto la sua parte di autori, soprattutto Alan Connell,
che aveva venduto diversi piacevoli racconti a Wonder Stories di
Gernsback all'inizio degli Anni Trenta. Ma non aveva una sua rivista di
fantascienza indigena fino a quando apparve Thrills Inc. nel marzo 1950:
era di 50 pagine in formato pulp e costata 9 centesimi. Era edita a Sydney
e attirava la produzione di autori locali che, non conoscendo bene la
science fiction, copiavano sfacciatamente dalle riviste statunitensi. Ben
presto i fans locali li smascherarono, con il risultato che, sebbene la rivista
continuasse ad usare alcune ristampe americane (ora riconosciute),
comparvero più testi originali australiani. La narrativa, tuttavia, era
prevalentemente per ragazzi, e non riusciva ad affermarsi. Norma K.
Hemming era probabilmente l'autore migliore, e in realtà era nata a Ilford,
nell'Essex. Era emigrata in Australia nel 1949, e suoi testi si trovano in
tutti gli ultimi sette numeri di Thrills Inc. Fu pubblicata anche dalle riviste
della Nova, durante gli Anni Cinquanta: purtroppo morì nel luglio 1960, a
soli trentadue anni.
Thrills Inc. crollò nel giugno 1952 dopo ventitré numeri, e le successive
pubblicazioni consistettero soprattutto di ristampe americane, con qualche
racconto originale australiano. I più noti fans del paese, Vol Molesworth e
Graham Stone, sbrigavano quasi tutto il lavoro di queste pubblicazioni, che
restavano tuttavia ben lontane da una vera rivista «indigena».
Gli australiani avevano il vantaggio di poter leggere la fantascienza
americana nella lingua originale. Ben diversa era la situazione in altri
paesi, che dovevano affidarsi alle traduzioni. Peraltro, quando il boom
della science fiction si diffuse in tutto il mondo, tali traduzioni apparvero
con frequenza sempre maggiore.
L'Argentina, per esempio, aveva avuto un pulp sporadico, Narraciones
Terrorificas, dal 1939 al 1950, con settantadue numeri in tutto. Poi venne
Hombres de Futuro, che vide tre numeri pulp, ripresi da Thrilling Wonder.
Ma la più importante fu Más Allá che uscì, nel giugno 1953, con una
cadenza mensile, pubblicata da un editore di Buenos Aires. All'inizio era
formata da ristampe, ma in seguito presentò molti lavori di autori
sudamericani, e durante gli Anni Cinquanta fu la principale pubblicazione
fantascientifica di quel continente.
La riviste svedese Veckans Adventy (Avventure settimanali), nel 1946
aveva un contenuto lontano dalla fantascienza e orientato su vicende
sportive e western. Questo settimanale era nato nell'ottobre 1940 come
Jules Verne Magasinet. Chiuse nel febbraio 1948 dopo trecentotrentun
numeri. La Svezia non avrebbe più avuto una grande rivista di fantascienza
fino al marzo 1954, quando i fratelli Kurt e Karl-Gustav Kindberg di
Jonkoping pubblicarono la loro rivista, Hapna! (Sbalordite), diretta da
Kjell Ekstrom. Era un mensile formato digest che all'inizio si affidava
soprattutto alle ristampe, ma più tardi allevò scrittori svedesi, come Bjorn
Nyberg, oggi conosciuto soprattutto per i suoi legami con L. Sprague de
Camp ed i racconti della serie «Conan» di Robert E. Howard. Hapna! creò
il fandom fantascientifico svedese e perciò è considerata importantissima
in quel paese.
È veramente una grande sorpresa che l'Olanda avesse una rivista
fantascientifica originale così subito dopo la guerra. Il fan Ben Abbas,
facendo tutto da solo, riuscì a pubblicare nel dicembre 1948 il primo
numero di Fantasie en Wetenschap. Il mensile, in formato pulp, ebbe
quattro numeri, fino a quando vari problemi ne resero impossibile la
continuazione; ma la rivista, che conteneva materiale di autori noti,
rappresenta un monumento agli sforzi degli olandesi in quei tempi difficili.
Quattro anni dopo apparve un'altra rivista olandese di fantascienza,
Planeet, che prendeva materiale da fonti britanniche, come la serie della
Vecchia Brontolona. Tuttavia, ne uscì un numero soltanto.
In quel periodo, il Messico aveva diverse riviste fantascientifiche che
pubblicavano traduzioni pirata da fonti statunitensi, senza pagare mai i
diritti. Per prima venne Los Cuentos Fantasticos, che cominciò di gran
carriera, pubblicando tre numeri nel luglio 1948. Ma in seguito apparve
con minore regolarità e chiuse dopo il quarantaquattresimo numero del
maggio 1953. Due anni più tardi uscì Enigmas, anch'essa con ristampe
statunitensi, che divenne altrettanto popolare.
La prima rivista fantascientifica in lingua italiana uscì nell'aprile 1952:
Scienza Fantastica, che pubblicò sette numeri formati da traduzioni
americane. Quando la rivista chiuse, il più grande editore italiano,
Mondadori, produsse una rivista quattordicinale, Urania, pubblicando
romanzi inglesi e americani. Urania fu un grande successo e le vendite
salirono a 50.000 copie per numero: la rivista diventò la principale
pubblicazione fantascientifica dell'area mediterranea (23).
La Francia rimase a lungo assente dalla scena fantascientifica, a parte
Conquêtes, che pubblicò due numeri soltanto prima della guerra, e V, che
sopravvisse appena ad una copia dopo la guerra. Ma nell'ottobre 1953
apparve un'edizione francese di F&SF, con il nome di Fiction, diretta da
Maurice Renault. Si affidava, all'inizio, alla rivista madre, ma negli anni
successivi prese l'abitudine di pubblicare regolarmente narrativa di autori
francesi e belgi, soprattutto Charles Henneberg e Gerard Klein.
La Germania è oggi considerata la patria di Perry Rhodan, che si
affermò negli Anni Sessanta. In precedenza, a parte un'enigmatica
pubblicazione, Kapitan Mors (24), esistita antecedentemente alla prima
guerra mondiale, la pubblicazione delle riviste fantascientifiche in
Germania cominciò solo nel 1953, sebbene la Germania avesse dato il
celebre film muto di fantascienza, Metropolis (1926) (25). Fu grazie agli
sforzi di Walter Ernsting che nacquero tre riviste. Utopia-Kleinband era
quella più chiaramente rivolta ai ragazzi; era imperniata su un
personaggio, e presentava un romanzo d'apertura sulle avventure spaziali
di Jim Parker. Utopia-Grossband pubblicava soprattutto ristampe e solo
quando nel dicembre 1955 apparve Utopia-Sonderband ci fu in Germania
la prima rivista di science fiction adulta, comprendente materiale nuovo e
ristampato.
Persino il Giappone aveva una rivista. Nel 1950 apparvero alcuni numeri
della versione giapponese di Amazing; poi nel 1954 fu pubblicato Seiun,
che uscì con un solo numero, in cui erano incluse quattro ristampe e tre
racconti indigeni.
Senza dubbio, ormai la science fiction aveva un pubblico mondiale, ma
tutti si ispiravano alle tendenze americane. Solo la Gran Bretagna aveva
molti autori locali che potevano dettare nuove tendenze, ma non erano
ancora arrivati a quella fase. Poiché però nel 1953 stava vivendo un boom
spettacolare, tutti gli occhi erano rivolti su quella scena per vedere come
andavano le cose.

9. Asfissia

Il numero crescente di pubblicazioni specializzate dimostrava che negli


Stati Uniti c'era un mercato redditizio. Con un pubblico molto più ricettivo
nei confronti della science fiction grazie ai progressi scientifici compiuti
dopo la guerra, se mai c'era stato un periodo propizio per l'espansione, era
senza dubbio quello.
Tutto ciò si rispecchiò nell'evoluzione dei film fantascientifici. Due
furono particolarmente influenti, in quel periodo Destination Moon (1950),
basato su un racconto di Robert Heinlein e prodotto da George Pal, che
cercava di mostrare con dettagli autentici il viaggio della prima astronave
alla luna; e The Day the Earth Stood Still (1951), basato sull'ottimo
racconto di Harry Bates, Farewell to the Masters, pubblicato su
Astounding nel 1940. In questo film, un ambasciatore di pace giunge da un
altro mondo per ricordare alla Terra i pericoli delle armi nucleari. I due
film ebbero un successo enorme e contribuirono a rinfocolare l'interesse
del pubblico per il nostro genere letterario (26).
La valanga si mise in moto.
Science Fiction Quarterly rinacque nel maggio 1951 sotto la direzione di
Robert Lowndes. Era un altro pulp, e sebbene pubblicasse testi gradevoli,
non presentava niente di straordinario, a parte Rogue Princess di L.
Sprague de Camp (febbraio 1952), un felice scherzo sui viaggi del tempo.
Durante il 1952, Future combined with Science Fiction Stories aveva
abbreviato la testata in Future Science Fiction; e in novembre, Lowndes
aggiunse un altro pulp alla sua scuderia, Dynamic SF. Includeva alcuni bei
racconti, I Am Tomorrow di Lester Del Rey e The Chapter Ends di Poul
Anderson in particolare; ma Dynamic rimase una pubblicazione media, e
sopravvisse sei soli numeri, per chiudere nel gennaio 1954. Nel frattempo
alla Columbia avevano avuto altre idee sulle riviste pulp, di cui parleremo
più avanti.
Nel marzo 1952 entrò in campo un nuovo editore, la catena Quinn di
Kingston, New York, con If, worlds of Science fiction. Il primo direttore
ingaggiato da Quinn fu Paul W. Fairman.
Fairman era un nome strettamente legato alle riviste della Ziff-Davis.
Era apparso per la prima volta su Amazing nel febbraio 1950 con No Teeth
fort the Tiger, e ben presto divenne uno dei tanti autori che collaboravano
sia con il loro vero nome sia con gli pseudonimi editoriali, soprattutto Ivar
Jorgensen. Due dei suoi racconti (The Cosmic Frame, tratto da Amazing e
Deadly City, tratto da If) vennero successivamente trasformati in film
(Invasion of the Saucer Men, 1955, e Target-Earth, 1954). I rapporti di
Fairman con la Ziff-Davis risultarono ovvii fin dai primi numeri di If. A
parte la narrativa di Howard Browne, Ray Palmer, Richard Shaver, Rog
Phillips e Milton Lesser, Fairman incominciò una serie intitolata
Personalities in Science Fiction, che prese l'avvio su If nel maggio 1952
con una puntata dedicata a Ray Palmer. Palmer rispose immediatamente su
Other Worlds del giugno 1952, chiarendo diverse cose.
Dopo aver diretto tre numeri, Fairman lasciò If per entrare nella Ziff-
Davis come direttore associato, lasciando Quinn a dirigere If tutto solo fino
a quando acquisì i servigi di Larry Shaw, dal maggio 1953.
Sebbene If non possa affermare di aver pubblicato qualche classico nei
suoi primi anni, certamente non presentava mai roba scadente. Il numero
del settembre 1953, per esempio, portava A Case of Conscience di James
Blish, uno dei primi esempi di fantascienza religiosa, con un prete che
atterrava su un pianeta dove non esisteva il peccato originale. Anche
Jupiter V di Arthur Clarke, sulla scoperta d'una statua sul satellite più
interno di Giove, apparve per la prima volta su If nel maggio 1953. La
descrizione migliore di If può essere questa: «era sempre piacevole».
Le riviste, adesso apparivano con rapidità tormentosa. Space Science
Fiction fu lanciata nel maggio 1952, diretta da Lester Del Rey. Del Rey
aveva saputo dal suo agente che era in preparazione una nuova testata
specializzata e che l'editore aveva bisogno di vari racconti lunghi, ma non
conosceva affatto il campo. L'editore era John Raymond, allora noto
soprattutto per le sue riviste erotiche. Il boom fantacientifico aveva indotto
il distributore di Raymond a consigliargli di entrare in scena. Del Rey andò
in redazione, e Raymond cominciò a chiedergli notizie sul settore. Alla
fine gli propose di dirigere la rivista, e sebbene Del Rey non ne fosse
entusiasta, sua moglie e diversi agenti letterari finirono per convincerlo.
Del Rey racconta: «Misi insieme in tutta fretta il primo numero con quello
che c'era a portata di mano. Il mio lavoro consisteva nell'acquistare,
preparare il menabò della rivista, correggere le bozze, e correre spesso in
tipografia. Scoprii che, per ogni numero occorrevano tre giorni effettivi di
lavoro.»
Nonostante la fretta, il primo numero di Space SF era di primissimo
ordine, con una splendida copertina di Paul Orban; si apriva con il
romanzo breve Pursuit dello stesso Del Rey, che parla di un inseguimento
e di vari poteri psi. Henry Kuttner riapparve con il divertente The Ego
Machine, e c'era anche Isaac Asimov con Youth. Space aveva formato
digest, 160 pagine e costava trentacinque centesimi.
Del Rey si dimostrò un eccellente direttore. Il secondo numero
includeva un'avventura di Conan di Robert E. Howard, The God in the
Bowl, completata da Sprague de Camp. Fu il primo dei molti racconti
nuovi di Conan che sarebbero apparsi in seguito. Del Rey fornì anche un
tetro, realistico romanzo della colonizzazione di Marte, Police Your Planet,
pubblicato su Space a puntate nell'anno 1953 con lo pseudonimo di Erik
Van Lhin.
Poi Raymond scoprì che un altro distributore voleva una rivista di
fantascienza, perciò propose a Del Rey di dirigere una seconda testata di
qualità inferiore, più dedita all'azione. Nacque così Science Fiction
Adventures, che uscì nel novembre 1952. Fu la prima delle quattro riviste
di questo nome. Del Rey figura come editore (sotto il suo vero nome di
Ramon Alvarez) e direttore (con lo pseudonimo di Philip St. John). La
rivista mirava ad un pubblico più giovane di Space, ma la narrativa era
tutt'altro che semplicista. Al contrario, apparvero alcuni testi molto maturi,
come The fires of Forever di Chad Oliver, che apriva il primo numero, e
che parla di una ricerca per salvare la Terra dall'estinzione. Oltre alla
buona narrativa, SF Adventures pubblicava anche una rubrica di recensioni
librarie di Damon Knight, The Dissecting Table (il titolo che aveva usato
per la sua rubrica su Worlds Beyond tre anni prima). Knight esordiva
sempre avvertendo i lettori che avrebbero potuto trovare pugnaci e
sgradevoli alcuni dei suoi commenti, ma che lui diceva quel che voleva
dire. Nel corso degli anni, questa insistenza guadagnò a Knight una tale
fama di critico che nel 1956 le sue recensioni vennero pubblicate in un
volume, In Search of Wonder, e quell'anno vinse uno speciale Premio
Hugo come miglior critico di science fiction.
Tra l'altro, le recensioni librarie stavano diventando una parte essenziale
delle riviste fantascientifiche. Nell'ottobre 1951, Astounding si prese P.
Schuyler Miller come recensore fisso nelle rubrica The Reference Library,
che in seguito scrisse regolarmente fino alla sua morte, avvenuta nel 1974.
Miller era il decano dei recensori fantascientifici, e ricevette anch'egli un
Hugo speciale nel 1963.
Nel marzo 1953 uscì la terza rivista di Del Rey, Fantasy Magazine, che
portava un altro racconto di Conan completato da de Camp, The Black
Stranger. Dal secondo numero divenne Fantasy Fiction: il cambiamento
era dovuto al fatto che la Ziff-Davis aveva minacciato di far causa per la
duplicazione della sua testata, Fantastic Adventures. Fantasy Fiction aveva
alcune splendide copertina di Hannes Bok e testi di qualità superba, e oggi
la rivista è un pezzo pregiato per i collezionisti. Purtroppo, durò solo
quattro numeri.
Per alcuni mesi si era progettato di creare una quarta rivista, Rocket
Stories. Uscì finalmente nell'aprile 1953: il direttore era Wade Kaempfert.
Rocket era un'imitazione in formato digest di Planet Stories e
comprendeva parecchi racconti ben scritti e maturi come Jackrogue
Second di John Jakes, nel primo numero, su un uomo che viene riportato in
vita e si trova di fronte alla rabbiosa opposizione di tutti quelli che
incontra.
Alla metà del 1953 però, era nato un dissidio con Raymond per la
situazione redazionale. Recentemente Del Rey mi ha raccontato tutta la
storia:

«Alla Raymond Publications c'era sempre una grande


confusione. Le riviste venivano programmate secondo il capriccio
dell'editore. (Come quando m'informò all'improvviso che le
riviste dovevano essere mensili... e poi non mantenne mai
l'impegno.) Mi convocava, oppure aspettava che andassi a ritirare
i manoscritti, poi mi annunciava che Space (o quel che era)
doveva uscire, ed io dovevo portare tutto il materiale pronto il
giorno dopo. (Tra parentesi, avevo piena autorità per quel che
acquistavo; John W. Campbell aveva chiamato Raymond e l'aveva
convinto che un direttore doveva avere mano libera; John era il
tipo che faceva favori del genere.) Comunque, questo significava
che dovevo mettermi in contatto con gli agenti, raccogliere
racconti, esaminare i manoscritti e preparare un numero per il
giorno dopo... andava quasi sempre così. Pagavano solo dopo la
pubblicazione, quindi non cercai mai di costituire una scorta; mi
capitava magari materiale che mi piaceva, ma per i racconti
d'apertura telefonavo agli agenti per chiedere quelli di cui già
conoscevo l'esistenza, oppure, per disperazione, ne scrivevo uno
io (spesso durante la notte). Era un modo atroce di dirigere una
rivista.
«Le pubblicazioni guadagnavano bene. Nonostante quello che
era stato detto, che Fantasy non era adatta al mercato, quella
rivista vendeva 70.000 copie a numero, SF Adventures un po'
meno (ma più di Galaxy). Poiché andavo in pareggio a 45.000
copie, già guadagnavamo parecchio. (Space e Rocket avevano
guai di distribuzione, ma erano anch'esse in attivo.) Ma invece di
reinvestire il denaro nelle riviste, Raymond lo spendeva tutto Dio
sa come, per ingrandire gli uffici, in altri strani progetti... Non
c'era mai denaro a disposizione, esclusi gli anticipi pagati dal
distributore dopo che le riviste venivano stampate.
«Gli feci una proposta per migliorare le riviste, pagando meglio
e più rapidamente, e per ottenere io stesso un compenso decente.
Dimostrai che bastavano poche copie vendute in più per
giustificarlo, e gli dissi che altrimenti sarei stato costretto a
dimettermi. Lui accettò. Ma non ne venne fuori niente. Poi un
giorno entrai in ufficio, deciso a fare una scenata (e magari a
dimettermi), perché avevo scoperto che alcuni autori non erano
stati pagati. Lui non c'era, ma il suo direttore artistico mi disse che
Raymond aveva nuovi progetti... il compenso massimo, per tutte
le riviste, doveva essere un centesimo a parola; niente più
illustrazioni eccettuate quelle del direttore artistico, e pagine
ridotte a 144. Lasciai detto che mi ero dimesso e me ne tornai a
casa.
«Raymond riferì a tutti che ero stato licenziato, ed il suo
avvocato minacciò di darmi querela per diffamazione, perché
avevo restituito i manoscritti agli autori dicendo loro che era
entrato in vigore il nuovo compenso. La mia risposta indusse
l'avvocato a dire a Raymond di lasciar perdere e di smettere di
mettere in giro storie sul mio conto.»

Raymond assunse un nuovo direttore, Harry Harrison. Harrison rifiutò di


occuparsi di Fantasy Fiction e l'editore assunse Fletcher Pratt, il quale
preparò un numero ma rifiutò di consegnarlo fino a quando gli autori
fossero stati pagati. Raymond non li pagò e lasciò perdere la rivista. Le
altre continuarono a tirare avanti ancora per qualche tempo sotto la
direzione di Harrison, ma Raymond si stancò della fantascienza e si
affrettò a chiudere le testate che ancora restavano. L'ultima a sparire fu SF
Adventures nel maggio 1954, quando aveva raggiunto un ottimo livello
con la pubblicazione a puntate del romanzo di Cyril Kornbluth su una spia
d'un mondo futuro dominato da governi corrotti, The Syndic.
Le riviste di Del Rey vengono affettuosamente ricordate come esempi di
buona narrativa, e dimostrano quello che può fare un direttore esperto e
capace, lottando contro l'esasperante muro d'ignoranza che moltissimi
editori oppongono alla science fiction. Space SF fu la prima rivista che
pubblicò un racconto di Algis Budrys, Walk to the World, nel novembre
1952. Vista in retrospettiva, la scomparsa di quelle testate fu una grande
perdita.
Nel 1952, Amazing s'era quasi liberata della nomea acquisita nel periodo
Shaver. Per qualche ragione inspiegabile, Browne cercò di sostituire al suo
fascino esoterico qualcosa di più «rispettabile», e cioè Master of the
Universe, una cosiddetta storia del futuro del 1975 al 2575, rivelata in un
manoscritto trovato al largo della costa spagnola. L'episodio, che fu
pubblicato su Amazing dall'aprile al novembre 1952, era tremendamente
noioso.
Browne, comunque, ricevette il benestare per ritentare l'esperimento
slick che si concretizzò nel marzo con la pubblicazione di Fantastic, datato
Estate 1952. Fantastic aveva formato digest, 160 pagine e costava
trentacinque centesimi. Aveva una copertina a sei colori di Barye Phillips,
più la riproduzione di un'opera d'arte in quarta copertina, più illustrazioni
interne a colori. Tra i racconti figuravano The Smile di Ray Bradbury,
What If di Isaac Asimov, l'affascinante Six and Ten are Johnny di Walter
Miller e soprattutto Professor Bingo's Snuff di Raymond Chandler. Le
vendite andarono così bene che Fantastic venne prontamente trasformata
da trimestrale in bimestrale. Gli editori, adesso, si rendevano conto che il
futuro dei pulps non era promettente, e trasformarono Amazing Stories in
un digest con il numero aprile-maggio 1953. Il prezzo, quindi, sali a
trentacinque centesimi e per stare sul sicuro, la cadenza di Amazing venne
alternata a Fantastic. Con il numero del maggio 1953, Fantastic
Adventures si fuse con Fantastic.
La prima Amazing nuovo formato puntava anch'essa al pubblico delle
riviste patinate. Il racconto d'apertura era Mars Confidential, un «servizio»
dei giornalisti Jack Lait e Lee Mortimer. Erano presenti anche autori
conosciuti dal pubblico delle slicks come Ray Bradbury, Robert Heinlein,
Theodore Sturgeon, Murray Leinster e Richard Matheson, il cui
sconvolgente The Last Day è incluso nel presente volume.
Browne meritò ogni elogio. Amazing compì la transizione in digest con
effetti tali da venire considerata un prodotto completamente nuovo, e
rinacque per lottare con rinnovato vigore.
Di passaggio, val la pena di ricordare che nell'estate del 1952 c'erano in
edicola due Fantastic: quella della Ziff-Davis, più Fantastic Science
Fiction. Poiché questa era una pubblicazione di formato grande con sole
48 pagine, si distingueva subito. Conteneva scadente narrativa per ragazzi,
per di più illustrata da disegnatori che lavoravano abitualmente per
fumetti. L'unico nome riconoscibile era quello di Walter Gibson, che aveva
scritto il romanzo d'apertura e dirigeva la rivista. Gibson era noto come
autore dei romanzi sul super investigatore The Shadow, le cui avventure
erano apparse sulla rivista omonima dal novembre 1931 all'estate 1949.
Gibson, in precedenza, aveva diretto Tales of Magic and Mystery l'effimera
rivale di Weird Tales, che era uscita con cinque numeri nel 1927-1928.
Fantastic SF ne ebbe anche meno: uno nell'agosto e uno nel dicembre
1952.
Per completare la confusione causata dai titoli, dopo Space SF di Del
Rey, nell'ottobre 1952 apparve, edito dalla Standard Magazines, Space
Stories. Ma era una rivista pulp e si capiva già che il pubblico non voleva
un nuovo pulp perciò chiuse dopo quattro numeri bimestrali.
Lo stesso avvenne per Tops in SF. Malcolm Reiss decise di sfruttare la
tendenza alle ristampe scavando negli archivi di Planet Stories per lanciare
un nuovo pulp: il suo titolo era Tops in SF. La prima pubblicazione, nel
mese di marzo 1953, dovette certamente attirare un suo pubblico; ma si
perdeva nel mare degli altri pulps, perciò con il secondo numero, in
ottobre, Reiss passò al formato digest. Era troppo tardi, e non servì a nulla:
Tops scomparve.
Apparvero sul mercato parecchie altre riviste effimere. Molte dovevano
essere state progettate prima che il boom arrivasse al culmine, per non
perdere l'autobus, e senza rendersi conto che l'affollamento sarebbe stato
eccessivo. Perciò le riviste erano soltanto una goccia nell'oceano, e non
aveva importanza che fossero belle o brutte. Se non avevano un'adeguata
esposizione in edicola, il pubblico non poteva comprarle perché non le
vedeva. Spesso fu questa, la ragione della loro dipartita prematura.
Per esempio, nel 1952 Wollheim abbandonò l'Avon Books e le sue due
riviste: Fantasy Reader e Science Fiction Reader chiusero, rispettivamente
dopo diciotto e tre numeri. Ma nel gennaio 1953 apparve l'ibrida Avon
Science Fiction and Fantasy Reader, curata dal direttore dei fumetti della
Avon, Sol Cohen. La rivista, in formato digest, conteneva tutti testi nuovi
(eccetto uno), di qualità elevata e firmati da tutti i nomi più importanti. Le
illustrazioni interne erano superbe e piuttosto erotiche, ma sebbene fosse
una pubblicazione superiore alla media, chiuse dopo il secondo numero, in
aprile.
Chester Whitehorne, che per un breve periodo aveva diretto Planet
Stories nel 1945, riapparve nel 1953 con una grossa rivista digest, Vortex
SF. Qui l'idea centrale consisteva in una pubblicazione piena zeppa di
racconti brevissimi: venti nel primo numero. La reazione del pubblico fu
incoraggiante, ed un secondo apparve sei mesi dopo, con venticinque
racconti. Ma quell'idea non poteva reggere a lungo... e non resse neppure
Vortex. Non ricomparve più. Ma Whitehorne era irriducibile. Rispuntò nel
1954 con una rivista molto logica, Science Fiction Digest, ulteriore prova
della popolarità di questo formato. L'idea era scegliere narrativa da tutte le
varie riviste patinate e no, creando in pratica un'antologia tipo Year's Best
in forma di rivista. Era una buona idea, e avrebbe dovuto funzionare. Ma la
scelta operata da Whitehorne lasciava molto a desiderare, la presentazione
anche, e nonostante pezzi eloquenti come My Experience with the
Supernatural di Ertha Kitt, SF Digest scomparve anch'essa dopo due
numeri.
A metà del 1953 sembrava che l'intero mondo editoriale fosse impazzito,
tanto più che in febbraio la Ballantine aveva incominciato una regolare
serie di antologie tascabili contenenti solo racconti nuovi, Star Science
Fiction Stories, curata da Frederik Pohl. Per gli scrittori di fantascienza
non era mai andata così bene: con le testate nuove che spuntavano ogni
giorno, quel che scrivevano si poteva vendere indifferentemente
dappertutto. I nuovi autori avevano ampie possibilità di piazzare i loro
prodotti e di fare esperimenti. Il risultato era che veniva pubblicata una
maggiore quantità di roba scadente, ma di regola appariva sulle
pubblicazioni minori. Le grandi riviste, Galaxy, Astounding, F&SF, grazie
ai compensi superiori e al prestigio, riuscivano ancora ad assicurarsi i nomi
migliori.
Uno degli eventi fantascientifici che nel 1953 destarono maggior
attenzione fu il ritorno di Hugo Gernsback. Gernsback se n'era andato nel
1936, quando aveva ceduto Wonder Stories alla Standard, ma la Gernsback
Publications aveva continuato a produrre varie riviste scientifiche. E
Gernsback teneva conferenze e di tanto in tanto pubblicava annuari
spiritosi, come Newspeek e Quip. Poi, il marzo 1953 vide il primo numero
di Science Fiction Plus. Non era né un digest né un pulp: era invece una
rivista slick, patinata, in formato grande (cm. 21,25 x 27,5) con 64 pagine.
Sicuramente, al prezzo di trentacinque centesimi, si sarebbe venduta.
Ovviamente, molti furono attratti dalla curiosità. Gernsback era
direttore-editore, e suo figlio, il quarantenne Harvey, era il direttore
esecutivo. Ma chi svolgeva il compito di leggere e scegliere il materiale,
scrivere le presentazioni e compilare la rivista, era Sam Moskowitz.
Moskowitz era un celebre fan che già si stava affermando come «storico
della fantascienza» con la sua cronaca del fandom organizzato, The
Immortal Storm (1954). Moskowitz acquistò narrativa da quasi tutti i
grossi nomi del campo, e riportò sulla scena famosi autori del passato:
Eando Binder, Raymond Z. Gallun, Richard Tooker e Harry Bates.
Gernsback ci metteva lunghi articoli scientifici, The World in 2046, oppure
World War III - In retrospect, più i soliti editoriali. In uno di essi, derideva
la pseudo science fiction che veniva pubblicata, sostenendo che gli scrittori
dovevano stare più attenti alla scienza di cui si servivano. A questo scopo
ideò un simbolo, con le lettere «SF» inserite in una sfera nera sormontata
da una stella, che andava messo accanto ad un racconto contenente nuove
idee scientifiche destinate certamente a realizzarsi nel futuro. Non era
accordato a molti testi, esclusi quelli dello stesso Gernsback!
Frank R. Paul ricomparve come direttore artistico, sebbene i suoi
disegni, di regola, illustrassero solo le estrapolazioni di Gernsback. I
racconti erano accompagnati da piccole foto degli autori. Erano riapparse
le vecchie rubriche di Gernsback, Science Questions and Answers, e
Science Quiz, e c'era persino un romanzo tradotto dal francese. Era
Wonder Stories lucidata e modernizzata. Il pubblico l'avrebbe accettata?
Le prime notizie erano favorevoli: SF Plus apparve con quattro numeri
mensili. Poi le vendite cominciarono a calare, e la regolarità ne risultò
sconvolta, fino a quando la rivista crollò nel dicembre 1953, dopo il
numero sette. Perché? Come slick non poteva perdersi nel mare dei pulps o
dei digest. Le riviste radiotecniche di Gernsback avevano una buona
distribuzione, quindi il problema non era questo. In sostanza, la causa
stava nell'atteggiamento del pubblico moderno. Nel 1953 era cresciuta
tutta una nuova generazione dai tempi della Wonder di Gernsback. Chi era
nato nel 1926, l'anno in cui era apparsa Amazing, aveva scoperto la
fantascienza, diciamo, all'età di quindici anni, nel 1941, al culmine
dell'Astounding di Campbell. I successivi sviluppi del genere erano stati i
suoi sviluppi. SF Plus era un anacronismo. Sebbene pubblicasse ottima
narrativa, come Spacebred Generations di Simak, Nightmare Planet di
Leinster e Strange Compulsion di Philip José Farmer, per il pubblico del
1953 la linea della rivista era troppo pesante, e i lettori temevano di
trovarsi impantanati in un concentrato di previsioni scientifiche.
Preferivano continuare a leggere Galaxy o Astounding.
La stessa riluttanza venne dimostrata nei confronti delle altre
pubblicazioni nuove. C'era Orbit SF, diretta da Jules Saltman, che sembra
una Galaxy dei poveri. C'era Cosmos Science Fiction and Fantasy che
sembra un Imagination per zone depresse. Il fatto che la rivista presentasse
racconti di Poul Anderson, Arthur C. Clarke, Robert Sheckley... o di
chiunque altro, non contava: quasi tutte le altre riviste ne pubblicavano.
Solo gli appassionati più incrollabili stanavano ogni pubblicazione, ma non
bastavano per tenere in piedi tutte le riviste. Il fattore vitale era la
tempestività: bisognava apparire in edicola al momento giusto per vendere.
Se arrivava all'edicolante un nuovo pacco di riviste quando gli scaffali
erano ancora pieni, quella rivista restava in una cassetta fino a quando si
trovava lo spazio, o qualcuno veniva a richiederla. Se era una rivista
nuova, difficilmente la gente la chiedeva, perciò, indipendentemente dalla
sua qualità, era spacciata. Eppure oggi, dopo un quarto di secolo, i
collezionisti danno la caccia a quelle riviste e spesso sbalordiscono nel
vedere i nomi degli autori, talvolta presenti con racconti di prim'ordine, e
si domandano: «Ma perché questa rivista ha chiuso?»
Louis Silberkleit, alla Columbia, decise di tentare e pubblicò una
Science Fiction Stories in formato digest e senza data. Questo significava
che il dettagliante non aveva una scadenza per le rese, e la rivista restava lì
finché c'era spazio in edicola, e invariabilmente finiva per essere messa in
mostra. Dopo solo quattro settimane, Science Fiction aveva venduto
abbastanza per giustificare un secondo numero, e Lowndes continuò con lo
stesso sistema. I numeri apparvero rispettivamente nell'agosto 1953 e nel
luglio 1954, e vendettero benissimo. Silberkleit era pronto, e nel giugno
1954 Future passò dal formato pulp a quello digest. Ma SF Quarterly no.
Si riteneva infatti che il pubblico continuasse a considerare i trimestrali
come qualcosa di speciale. Un Quarterly formato digest non sembrava
adatto, perciò rimase pulp.
È difficile capire perché Fantastic Universe sopravvisse, mentre altre
riviste crollavano. Era apparsa per la prima volta nel giugno 1953 al
culmine del boom, e avrebbe dovuto venire sommersa. Era pubblicata da
Leo Margulies della King-Size Publications, Park Avenue, New York, e
aveva una buona distribuzione, perché era compagna di The Saint
Detective Magazine, che vendeva molto. Era un punto a suo favore. Un
altro era il direttore, Sam Merwin. Il binomio Margulies-Merwin aveva
avuto grande successo negli Anni Quaranta con Thrilling Wonder, e gli
appassionati ne erano innamorati. Inoltre, per trentacinque centesimi si
aveva un digest di 192 pagine... più di qualunque altra rivista. Anche se il
numero delle pagine scese dopo il numero due, evidentemente aveva
catturato abbastanza lettori, nelle sue fasi iniziali, per assicurarsi un
pubblico.
Diversa fu la sorte di Spaceway, dell'infaticabile William Crawford.
Fantasy Book di Crawford era morta d'inedia, soprattutto per la mancanza
d'una distribuzione adeguata, dopo l'ottavo numero, nel gennaio 1951.
Poco dopo, Crawford fu incaricato di dirigere una nuova rivista, George
Pal's Tales of Space Conquest. Come avviene spesso con idee del genere,
non si concretò mai. Ma Crawford, che aveva stabilito rapporti con un
nuovo distributore, e aveva preparato e composto un numero di Pal, decide
di tentare con Spaceway. Il primo numero, in formato digest e datato
dicembre 1953, era fatto meglio di Fantasy Book, ma purtroppo la
distribuzione disertò. Crawford si ritrovò di nuovo in secco; continuò a
battersi validamente, ma con il capitale che si era ridotto, Spaceway
peggiorò rapidamente e divenne una pubblicazione trascurata. Crawford
riuscì ad accordarsi per un'edizione britannica, ma non bastò. Spaceway
arrivò al numero otto e chiuse nel gennaio 1955... ma non definitivamente.
Ray Palmer, che era tornato in circolazione dopo l'incidente, osservava
quel tumulto dall'esterno. Il boom della science fiction era incentrato su
New York e se la distribuzione non funzionava, di rado le riviste venivano
vendute al di fuori di quella città. Palmer era a Chicago, con la sua Other
Worlds, e l'unica concorrente era Imagination di William Hamling.
Naturalmente, nelle edicole c'erano anche altre riviste, ma Palmer aveva
maggiori possibilità di ottenere una buona esposizione per la sua. E così si
creò un miniboom. Nel giugno 1953, una nuova rivista specializzata
formato digest venne pubblicata da George Bell della Bell Publications, in
North Clark Street, Chicago. Era piuttosto bella e mirava in alto, e
presentava narrativa di prim'ordine firmata da grandi nomi. Ray Palmer si
buttò, e al terzo numero Universe era sotto il controllo di Palmer e di Bea
Mahaffey, e presentava eccellenti illustrazioni di Virgil Finlay, Lawrence
Stevens ed Edd Carter, tre dei più grossi nomi in circolazione. La gamma
della narrativa era molto variata, dal racconto di «stregoneria e spada» di
L. Sprague de Camp, The Hungry Hercynian, fino al racconto di Isaac
Asimov, Everest, che parlava dei marziani sul Monte Everest. Nel
complesso, era una buona rivista.
Poi Palmer ribattezzò Other Worlds, chiamandola Science Stories.
Quindi lanciò un'altra rivista, questa di narrativa dell'occulto, per dare una
compagna a Fate: e la chiamò Mystic. Sebbene sia al di fuori del campo
fantascientifico, la ricordo per il suo numero del gennaio 1954, in cui
Palmer parlava di nuovo del Mistero Shaver, esponeva le sue opinioni e
presentava la sua versione completa, basata sui fatti, in The Devil's Empire,
che racconta come Lucifero conquistò Atlan. Sorprendentemente
gradevole, rimane la vicenda meglio scritta dell'intero mito, e merita
ancora oggi di essere letta.
A Natale del 1953, dopo che l'ondata aveva superato la cresta, c'erano
ancora ventisette testate superstiti di science fiction, solo negli Stati Uniti.
Soltanto sette erano pulps. Persino Weird Tales era diventata digest nel
settembre 1953, ma per la rivista, che fin dal 1923 era stata la spina dorsale
della letteratura del bizzarro, la fine era prossima. Il colpo finale si ebbe
quando l'American News Corporation, il principale distributore dei pulps
rifiutò di continuare a occuparsi di questo tipo di pubblicazioni, perché non
rendevano più. L'industria dei fumetti stava fiorendo, le riviste patinate
erano molto più redditizie, e stava incominciando una linea nuova: Hugh
Heffner aveva appena lanciato la sua «rivista per uomini», Playboy, con
risultati sbalorditivi. Al distributore interessava soltanto guadagnare, ed i
pulps non rendevano. La stessa logica vale anche per le ditte di pubblicità,
che pagavano di più alle riviste patinate, perché avevano un pubblico
maggiormente numeroso. Anche se c'era un pubblico per i pulps, questi
vennero travolti da forze superiori, e restarono in secco. Ormai era troppo
tardi per cambiare, e troppo tardi per rimediare.
Weird Tales morì nel settembre 1954. Thrilling Wonder nel gennaio
1955. Fantastic Story Magazine nell'aprile 1955. Planet Stories nel giugno
1955. Startling Stories nell'ottobre 1955.
Alcune delle testate più illustri e più affermate in campo fantascientifico
sparirono così nel giro di un anno perché nessuno voleva più distribuirle.
Ma almeno se ne andarono a testa alta. Thrilling Wonder e Startling
erano state pubblicazioni di spicco, negli ultimi anni. Avevano subito un
colpo quando, nel 1952, era morto il più importante disegnatore delle loro
copertine, Earle Bergey. Era insostituibile: riassumeva il «sapore» delle
riviste, e le sue copertina con i BEM e le bionde in bikini rappresentavano
un'epoca. Ma era entrata in campo una nuova generazione di disegnatori,
come Alex Schomburg, Ed Emshwiller e Jack Coggins, che presero il
posto di Bergey rivelando stili e doti molto personali.
Samuel Merwin aveva diretto le riviste fino all'estate del 1951, quando
se n'era andato perché intendeva scrivere di più. Ma recensiva libri su
Amazing; poi diresse i primi numeri di Fantastic Universe e diede una
mano a Galaxy. Alla Standard il suo posto venne preso da Samuel Mines,
che a quell'epoca era forse il direttore con la mentalità più aperta. Voleva
testi di buona qualità letteraria, ma s'infischiava dei tabù, e lo dimostrò
pubblicando il racconto destinato a passare alla leggenda come il primo ad
aver introdotto il sesso in fantascienza, The Lovers di Philip José Farmer.
Uscì come trampolino di lancio per sondare la consistenza dei limiti della
science fiction. Vorrei avere a disposizione lo spazio necessario per
riprodurre integralmente quell'editoriale, non solo perché è pieno di buon
senso, ma perché mostra che Mines ebbe un ruolo importante
nell'ampliamento delle frontiere della fantascienza. L'editoriale diceva tra
l'altro:

«Da molto tempo sosteniamo che la science fiction deve essere


qualcosa di più di una scienza speranzosa; deve essere anche
buona narrativa. Deve contenere i necessari requisiti drammatici,
deve essere ben scritta, deve presentare personaggi reali, deve
essere sincera nei suoi valori emotivi come nel calcolare la
velocità di un'astronave a motore ultragalattico. Fino a quando
non si giungerà a questo, i recensori del Time continueranno a fare
paragoni sprezzanti con i western.
«Noi sosteniamo, che in fantascienza si può fare di tutto... e si
deve. In realtà, è la narrativa più ampia, perché non pone limiti
all'immaginazione. Molti autori fantascientifici che scrivono oggi
sono bravissimi nel loro genere, ma il genere è finito in un solco.
Continuano a scrivere le stesse storie che scrivevano quindici anni
fa...» (27).

Mines sfidò gli scrittori a fare esperimenti con temi arditi e presentò The
Lovers come la scoperta del decennio. Sperava che inducesse gli scrittori a
dirsi: «Santo cielo, non sapevo che potessimo fare cose simili in
fantascienza!» Lo stesso discorso sarebbe stato fatto da Harlan Ellison
nella sua antologia antitabù, Dangerous Visions, nel 1967. Ma qui lo
troviamo quindici anni prima, e su una rivista pulp.
In The Lovers gli umani atterrano su un pianeta dove gli abitanti,
umanoidi, sono metamorfosi di insetti. Le femmine, che assumono
l'aspetto di donne umane, possono riprodursi solo accoppiandosi con un
maschio umano. Dopo la gravidanza, la madre muore, e il neonato si nutre
della sua carne. Gli insetti, chiamati lalitha, sanno che una certa bevanda
impedisce la gravidanza. Quando uno degli umani s'innamora d'una lalitha,
crede che sia alcolizzata. Non conoscendo il vero scopo della bevanda, la
diluisce, e di conseguenza la lalitha concepisce e muore.
La vicenda è narrata splendidamente; e dimostrava che il sesso poteva
diventare parte integrante di un'opera fantascientifica senza essere osceno.
The Lovers fu senza dubbio una pietra miliare della science fiction, eppure
ci volle Samuel Mines per capirlo... il direttore d'una rivista pulp con la
testata un po' ridicola di Startling Stories (28). Se mai c'era stata una storia
di questo genere era proprio The Lovers che sorprendentemente era stata
rifiutata da Campbell e Gold, e forse non avrebbe mai visto la luce perché
allora Farmer non era ancora un grande nome. Segnò la sua prima
apparizione, e da allora la sua passione per il lavoro ha fatto di lui uno
degli autori più prolifici, originali e ammirati del campo.
The Lovers non rappresentò per Mines un successo isolato. Aveva
acquistato anche What's It Like Out There? di Edmond Hamilton, che uscì
su Thrilling Wonder nel dicembre 1952. Mines parla del racconto
nell'editoriale citato più sopra, dicendo che «è tanto lontano dalle sue
vicende di Capitan Futuro da convincere chiunque che è opera di un'altro
scritture» (29). Hamilton aveva scritto una precedente versione del
racconto nel 1933! Ma l'asprezza con cui descrive un troppo realistico
quadro della prima spedizione a Marte lo fece rifiutare a quel tempo da
tutti i direttori. Hamilton era diventato un autore stereotipo con le sue
calamità cosmiche che gli avevano guadagnato il nomignolo di World
Wrecker, «Sfasciamondi». Era impensabile un simile cambiamento rispetto
alla formula che era tipicamente sua e dei pulps.
Ma dopo la guerra, la science fiction aveva bisogno di realismo, e
finalmente gli scrittori scoprirono di poter rompere i vecchi stampi. The
Lovers aveva abbattuto la barriera del sesso, e in tutto il campo tradizioni e
tabù incominciarono ad andare a pezzi. La religione era stata sempre
sacrosanta, fino a quando ci mise le mani Ray Bradbury. Samuel Merwin,
a Thrilling Wonder, aveva acquistato The Man per il numero di febbraio
1949: racconta di un'astronave che atterra su un altro mondo e scopre che,
proprio il giorno prima, era giunto Cristo. In This Sign, in cui Bradbury
presenta Marte immune al peccato, fu acquistato da Ray Palmer, ma giorno
prima, era venuto Cristo. In This Sign, in cui Bradbury presenta Marte
immune al peccato, fu acquistato da Ray Palmer, ma fu pubblicato su
Imagination di Hamling nell'aprile 1951.
Ray Palmer acquistò molti dei racconti più discussi di Bradbury il che
dimostra che non era poi insensibile quanto molti lo ritengono. Sebbene
Bradbury fosse accettato dalle riviste patinate, Way in the Middle of the Air
fu rifiutato da Harper's e apparve invece su Other Worlds nel luglio 1950.
Descrive Marte, abitato da negri che si preparano all'apartheid quando
apprendono che sta arrivando un razzo carico di bianchi. Il seguito The
Other Foot, fu pubblicato invece da New Story nel marzo 1951. In questo
racconto, la vita sulla Terra è quasi estinta, ed i bianchi si riducono a fare i
lustrascarpe per i negri che li salvano.
L'esplosione senza precedenti delle pubblicazioni di fantascienza
all'inizio degli Anni Cinquanta aveva portato una nuova liberazione. Era la
conseguenza diretta dell'era nucleare, che aveva causato una maggiore
accettazione da parte del pubblico nei confronti della science fiction, e
questo a sua volta indusse gli autori a levigare lo stile e a migliorare il
prodotto, con il risultato che il genere ne uscì risplendente. Secondo i
criteri di oggi, la fantascienza dell'inizio degli Anni Cinquanta non sembra
molto «liberata», ma bisogna vederla con la mentalità degli Anni Quaranta.
Era veramente una rivoluzione.
Il boom americano aveva un'eco in Gran Bretagna, e anche se questo
non portò a tendenze progredite, rivelò molti nuovi talenti.

10. In Gran Bretagna

Anche durante gli Anni Trenta e Quaranta, quando i mercati locali di


fantascienza erano scarsi in Gran Bretagna, il paese aveva prodotto alcuni
scrittori eccezionali che avevano espugnato gli Stati Uniti. Prima erano
venuti John Russell Fearn e John Beynon Harris, poi Eric Frank Russell,
William F. Temple, Arthur C. Clarke e John Christopher. John Beynon
Harris era rinato di recente con il nome di John Wyndham e aveva ricevuto
accoglienze entusiastiche per il suo libro, The Day of the Triffids. Era
straordinario che la Gran Bretagna potesse produrre simili talenti con un
mercato interno trascurabile. Quello che il paese stava adesso per produrre
sulle varie riviste indigene era poi addirittura fantastico.
All'inizio del 1954 la Gran Bretagna aveva cinque testate principali.
Fortunatamente, tutte le riviste fantascientifiche di Spencer cessarono le
pubblicazioni durante il 1954, e rimase soltanto la più leggibile
Supernatural Stories, scritta quasi interamente da Robert Lionel
Fanthorpe. Altre pubblicazioni che è meglio dimenticare fecero brevi
apparizioni, come Space Fact and Fiction di Gerald Swan, formata quasi
tutta di ristampe e ancor più per ragazzi dei prodotti di Spencer; e Worlds
of the Universe, che ebbe un solo numero, e il cui racconto d'apertura
Waters of Eternity di Mark Denholm (J.R. Fearn), era leggibile, ma che,
presentando solo altri tre racconti non poté dimostrare di valere qualcosa.
Restavano così New Worlds, Science Fantasy, Authentic, Nebula ed una
nuova, Vargo Statten Science Fiction Magazine, apparsa nel gennaio 1954.
Nel mare dei tascabili britannici di fantascienza, buoni o cattivi, apparsi
dopo il 1950, una delle firme che più spiccavano era quella di Vargo
Statten. Era lo pseudonimo contrattuale di John Russel Fearn, il quale
adesso aveva trovato un mercato redditizio più vicino a casa... redditizio
solo perché riusciva a vendere tutto quel che scriveva, alla velocità con cui
riusciva a scrivere. Poiché si sapeva che Fearn aveva usato un esercito di
pseudonimi e poiché quasi tutti i tascabili britannici di science fiction
apparivano con pseudonimi, molti venivano considerati opera di Fearn.
Scritti tremendi, firmati con nomi spaventosi quanto il contenuto (Marco
Garron, Vector Magroon, Astron del Martia) contribuirono a rovinargli la
reputazione... sebbene non fossero opera sua! (29 bis).
Tuttavia la popolarità dei libri di Statten presso i giovani dotati di minor
spirito critico e presso un pubblico che in generale non conosceva i
concetti fondamentali della fantascienza portò a vendite enormi... i libri di
Statten vendevano più di tutto il resto che veniva esposto nelle edicole.
Questo indusse gli editori della Scion Ltd. di Avonmore Road, Londra, a
pubblicare la rivista. In formato pulp e stampata alla meno peggio, era
diretta dal direttore generale della Scion, Alistair Paterson (sebbene la
direzione fosse attribuita a Statten), e si rivolgeva ad un pubblico di
ragazzi. Il primo numero consisteva quasi completamente di testi di Fearn
sotto vari pseudonimi, ma era presente anche E.C. Tubb, un'altra colonna
della Scion. Tubb non era il tipo che adattasse il suo modo di scrivere al
pubblico giovanile: la sua opera era caratterizzata da una tendenza al truce
realismo. Scrisse un romanzo breve, The Inevitable Conflict, che fu
pubblicato a puntate nei primi tre numeri. Si apriva con la cruenta
descrizione di un uomo che si buttava da un tetto e precipitava vicino a un
ignaro passante! Con il numero quattro, la produzione era enormemente
migliorata e, con il passaggio al formato digest, la testata divenne Vargo
Statten British Science Fiction Magazine. La storia successiva della rivista
viene narrata qui per la prima volta dal mio collega, Phil Harbottle, devoto
cultore di Fearn:

«Poi ci fu un sovvertimento. La Scion Ltd, come molti altri


editori britannici, pubblicava fiumane di romanzi western e di
gangster. I primi erano innocui, ma gli altri, della categoria resa
popolare da Hank Jansen, erano vicende sessuosadiche mal
scritte, come ha già fatto osservare Gordon Lansborough. Molti si
spingevano troppo in là per la Commissione di Vigilanza, che era
piuttosto conservatrice a quei tempi, e contro gli editori colpevoli
furono intentate, e vinte, diverse cause. Cominciò la grande
campagna per fare pulizia, una reazione viscerale naturale contro
la robaccia pruriginosa ammannita dagli editori più cinici. La
Scion era colpevole quanto gli altri, e si buscò una multa
salatissima. Il consiglio di amministrazione litigò per stabilire di
chi era stata la colpa del fiasco, poiché i libri incriminati
risalivano effettivamente ad una precedente direzione. La Scion
era stata un'azienda di successo, e faceva gola ad una grande
società, la Henry Squire Co. Ltd, che stava fagocitando una
quantità di piccole case editrici. La società rimise a galla la Scion
Ltd. con il nome di Scion Distributors Ltd, e con Alistair Paterson
ancora responsabile dei cataloghi di fantascienza. Paterson cercò
di continuare le attività delle varie aziende ereditate dalla Squire.
Vi fu persino un tentativo di produrre una edizione britannica di
Tops in SF, ma poiché la rivista, negli USA, aveva avuto due
numeri soltanto, il progetto non approdò a nulla.
«Ma i tempi stavano cambiando. Il livello delle pubblicazioni,
grazie soprattutto alla funzione di guida esercitata dai vari
Penguin, Pan e Corgi Books, stava salendo. Il tempo degli
scadenti romanzi di fantascienza, gangster e western era finito. La
Squire scoprì di aver fagocitato un cancro. La situazione era
aggravata dal fatto che la Squire si accorse di dovere ancora una
grossa somma a un'azienda chiamata Dragon Press, di Luton, che
aveva stampato molti dei tascabili britannici a poco prezzo e non
era stata pagata dalle varie aziende preesistenti. Così si arrivò al
passo successivo, che portò all'attrito e poi alla morte dell'impero
di Vargo Statten.
«Per sanare il debito, la Squire Company cedette alla Dragon
Press le sue pubblicazioni migliori, il Vargo Statten Magazine ed i
romanzi. Lo stesso Fearn, che era ancora sotto contratto con la
Scion, era incluso nell'accordo. Assunse la direzione della rivista
a partire dal sesto numero, e la testata divenne semplicemente
British Science Fiction Magazine.
«Con Fearn al timone, la rivista segnò una svolta. Paterson
aveva irritato il fandom inducendo i suoi autori a scrivere per un
pubblico giovanile. Sotto la guida di Fearn, la rivista cominciò a
lusingare apertamente il fandom ampliando Inquisitor, il settore
curato dall'arci-appassionato A. Vincent Clarke. Harry Cohn (il
fan di Manchester, Dave Cohen), teneva una rubrica,
Personalities in Fandom. La narrativa migliorò, poiché i nuovi
autori venivano incoraggiati, in particolare Barrington J. Bayley,
che avrebbe avuto un ruolo di rilievo nel successivo sviluppo
della science fiction in Gran Bretagna. La rivista acquisì una
personalità precisa, ma Fearn si stava battendo per una causa
persa, faticando sotto il peso di un pesante svantaggio imposto
dall'editore.
«Quelli della Dragon Press non erano veri editori e
interpretarono in modo sbagliato una caduta delle vendite della
rivista (in realtà era il naturale "assestamento" su un livello
stabile). Si fecero prendere dal panico e tagliarono per più della
metà il budget di Fearn. Al prezzo di 12 scellini e 6 pence soltanto
ogni 1000 parole (per tutti i diritti!) Fearn non aveva nessuna
possibilità di spuntarla contro altri direttori di riviste che offrivano
un minimo di 25 scellini ogni 1000 parole, per i soli diritti di
prima pubblicazione in Gran Bretagna.
«Perciò, anche se collaboravano molti nuovi autori, pochi
scrittori affermati si prendevano il disturbo di farlo, a causa del
compenso troppo misero. Il prolifico E.C. Tubb appariva ancora,
ma pretendeva di usare uno pseudonimo. Persino Fearn smise di
fornire storie e astutamente rielaborò certi suoi vecchi racconti
americani del tempo di guerra, usando vari pseudonimi. Venne
adottata una copertina standard, per economizzare, e con un
nuovo cambio di testata (The British Space Fiction Magazine) la
rivista tirò avanti fino al febbraio 1956, al diciannovesimo
numero, quando il crollo venne affrettato da uno sciopero
generale dei tipografi. Con la fine della rivista di Statten, che
aveva iniziato e concluso il boom, il campo delle riviste
britanniche specializzate si assestò su un costante miglioramento,
in linea con i crescenti livelli dell'editoria britannica in generale».

E intanto, cosa facevano i principali autori che apparivano sulle altre


quattro riviste?
All'inizio degli Anni Cinquanta i nomi britannici più illustri (Clarke,
Wyndham, Russell, Christopher) avevano virtualmente abbandonato la
scena principale. Ben presto avrebbe fatto altrettanto Charles Eric Maine, i
cui romanzi, come The Mind of Mr. Soames e The Tides Went Out, gli
avevano assicurato un posto in prima fila. Maine (il vero nome era David
McIlwain) era un ingegnere, direttore d'una rivista tecnica. Dal suo
fortunato radiodramma, Spaceways, venne tratto un film (29 ter), più tardi
fu pubblicato in volume. Maine appariva anche sulle riviste specializzate
di quel tempo, a partire dal suo racconto breve sui trasmettitori di materia,
Repulsion Factor (Authentic, settembre 1953).
Tuttavia, molti autori continuarono a scrivere per le riviste. C'era il
dotato scozzese J.T. Mcintosh, che aveva esordito su Astounding nel
dicembre 1950 con The Curfew Tolls e ben presto aveva cominciato ad
apparire regolarmente sulle due sponde dell'Atlantico. Nel 1952 diede a
New Worlds il primo romanzo a puntate, The Esp Worlds, in cui un telepate
viene inviato su un mondo governato da donne esperte di telecinesi. Nel
1953, Mcintosh si adeguò alla tendenza antitabù degli americani con il
racconto Made in USA (Galaxy, aprile 1953) in cui un marito chiede il
divorzio dalla moglie perché fino alla notte di nozze non gli aveva
confessato di essere un androide.
Lan Wright vendette i suoi primi scritti alle riviste di Spencer, ma fu
pubblicato per la prima volta su New Worlds nel gennaio 1952 con
Operation Exodus, che parla del trasferimento della popolazione terrestre
in eccesso ad un altro settore dello spazio, e della scoperta di un'astronave
aliena interessata allo stesso territorio. Wright si fece rapidamente un nome
sulle riviste della Nova, soprattutto verso la metà degli Anni Cinquanta,
con la sua serie sull'ambasciatore Dawson ed i suoi divertenti tentativi
diplomatici, che precorse la popolarissima serie di Keith Laumer, con
Retief protagonista, apparsa negli Anni Sessanta.
Il nome d J.F. Burke oggi è legato soprattutto alla serie di volumi
Hammer Horror Omnibus, ma esordì con un racconto sui cittadini
condizionati del futuro, Chessboard (New Worlds, gennaio 1952). Aveva
debuttato dieci anni prima, vendendo un racconto a Tales of Wonder, ma la
rivista aveva chiuso prima che il suo lavoro venisse pubblicato. (Più tardi
Burke divenne una delle colonne di Authentic.)
New Worlds del gennaio 1952 fu una vera piattaforma di lancio per
nuovi autori, poiché oltre a Lan Wright ed a Jonathan Burke presentava
l'esordiente James White con il suo primo racconto, Assisted Passage,
imperniato sui militari e sul primo missile guidato, con un pilota sbagliato.
White, irlandese, era ossessionato dall'autenticità dei dettagli scientifici, ed
i suoi numerosi racconti successivi gli conquistarono una grande
reputazione negli ambienti britannici. Comunque, si affermò veramente nel
1957, quando incominciò la serie su un ospedale spaziale, con Sector
General.
Un altro irlandese, Bob Shaw, oggi è egualmente affermato, sebbene
abbia ripreso a scrivere solo a metà degli Anni Sessanta. Esordì con un
racconto ingegnoso, Aspect, su Nebula dell'agosto 1954, descrivendo
l'esplorazione di un pianeta alieno ad opera di una squadra terrestre che
scopre d'essere stata preceduta da altri alieni.
Il 1953 vide l'esordio sulle riviste di John Brunner, uno dei maggiori e
più premiati scrittori britannici d'oggi. Brunner aveva venduto un romanzo
tascabile nel 1951, quando andava ancora a scuola, ma il titolo resta un
segreto perché Brunner ha molto amor proprio. Quando non aveva ancora
vent'anni apparve su Astounding del marzo 1953, con lo pseudonimo di
John Loxsmith ed il racconto Thou Good and Faithful, e vendette un
romanzo, The Wanton of Argus, ambientato nella società feudale di un altro
pianeta, a 2 Complete Science Adventures Books. Alla metà degli Anni
Cinquanta, Brunner stava diventando un nome importante.
Kenneth Bulmer, che aveva venduto parecchi romanzi tascabili, venne
finalmente pubblicato su una rivista nell'aprile 1954: Authentic presentò
infatti il suo racconto First Down, che oggi appare molto datato. Ma
vent'anni fa questa vicenda d'azione, imperniata su due uomini a bordo di
un razzo monoposto, entrambi decisi ad essere il primo ad arrivare alla
Luna, ebbe un'ottima accoglienza. In seguito, Bulmer continuò a vendere
storie, soprattutto eccellenti racconti lunghi, alle quattro riviste principali.
Insieme al chimico John Newman, inoltre, scriveva testi a quattro mani
che venivano firmati Kenneth Johns. I loro articoli scientifici finirono per
apparire regolarmente su tutte le riviste, soprattutto New Worlds e Nebula.
Ma il nome che oggi è pressoché sinonimo di science fiction britannica è
quello di Brian Aldiss. La sua prima vendita fu T, su un'entità misteriosa
incapsulata in un proiettile spaziotemporale diretto al nostro Sistema
Solare e regolato per attivarsi al momento dell'arrivo sulla Terra. Il
racconto però, apparve su Nebula solo nel novembre 1956: Aldiss venne
pubblicato prima su Bookseller, il 13 febbraio 1954, con A Book in Time,
ed entrò nel campo delle riviste di fantascienza su Science Fantasy del
luglio 1954, con Criminal Record, l'ingegnosa storia della lezione appresa
tramite una registrazione proveniente dal futuro. Aldiss si affermò
rapidamente come un autore nuovo sotto tutti i punti di vista.
Nel 1953, un autore britannico fece un grosso colpo: Bryan Berry, il
quale vendette parecchi romanzi a Hamilton, alle condizioni allora
prevalenti... tutti i diritti per circa 40 sterline. Hamilton riuscì a venderli
alla Fiction House, e apparvero nel pulp dal titolo 2 Complete Science
Adventures Books. Berry non ricevette altro compenso per questa ristampa,
mentre l'editore intascò 300 sterline. Berry protestò con la Fiction House,
la quale rispose scusandosi ma non ottenne un centesimo in più. Tuttavia,
gli chiese alcuni racconti brevi. Berry inviò una selezione, e Planet Stories
del gennaio 1955 pubblicò tre titoli di Berry, tutti sotto il suo nome. Non
era eccezionale che un autore apparisse con più di un racconto per numero,
ma di solito si usavano pseudonimi. La cosa provocò qualche reazione
seccata da parte dei lettori, ma Berry era soddisfatto di essersi vendicato...
soprattutto quando ricevette una lettera di Clifford Simak che elogiava il
suo lavoro. Come osservava Simak, il malcontento dei lettori derivava non
già dai racconti, ma dalla loro incapacità di scriverne anche uno solo!
Purtroppo, Berry morì poco dopo, ed il suo indubbio talento non poté
realizzarsi in pieno.
Lo scrittore britannico più prolifico, durante gli Anni Cinquanta, fu
senza dubbio E.C. Tubb, che sotto il suo vero nome ed una quantità di
pseudonimi riempì parecchi numeri di riviste. Basta controllare l'elenco in
conclusione di questo volume per vedere com'era onnipresente... e questo
continuò fino alla fine degli Anni Cinquanta! Quale esempio delle sue
opere migliori, il racconto lungo The Wager (Science Fantasy, novembre
1955) che rispecchia l'importanza del contributo che egli diede al genere, è
incluso in questa antologia.
Alla fine del 1955 si preparava un cambiamento di Authentic. H. J.
Campbell non ce la faceva più a dirigere la rivista ed a trovare il tempo per
continuare il suo lavoro di ricerca, perciò il timone passò nelle mani capaci
di E.C. Tubb con il sessantaseiesimo numero, nel febbraio 1956.
Alla conclusione del terzo decennio della storia delle riviste di
fantascienza, la Gran Bretagna aveva finalmente quattro pubblicazioni
piacevoli e fortunate: New Worlds, Science Fantasy, Nebula e Authentic,
con il risultato di mantenere una bella fioritura di autori britannici. La
prima metà degli Anni Cinquanta vide il loro apprendistato: si
esercitavano, facevano esperimenti di stile e perfezionavano il loro talento.
E stava crescendo un nuovo scrittore che si accingeva a valutare le proprie
direttive e i propri valori. Quel talento si sarebbe imposto con Science
Fantasy del dicembre 1956, che pubblicava Prima Belladonna di J.G.
Ballard (30). La science fiction britannica, guidata dalle riviste e dai loro
autori, stava per rivoluzionare la fantascienza del mondo intero.

11. Orientamenti

Per The Lovers e gli altri suoi contribuiti al genere, dati fin dall'inizio
della sua carriera, Philip José Farmer ricevette il Premio Hugo nel 1953,
quale migliore autore nuovo della science fiction.
Era il primo anno dei premi, che furono consegnati in settembre alla
World Science Fiction Convention. La manifestazione si tiene solitamente
negli Stati Uniti, ma due volte si è tenuta in Gran Bretagna (31), una volta
in Germania e una volta in Australia. Spesso, i fans e i partecipanti
avevano discusso e votato i loro scrittori preferiti, i disegnatori, i racconti,
ma solo nel 1953 fu assegnato un premio tangibile. Ebbe la forma di
un'astronave metallica, e abbastanza logicamente prese il nome da Hugo
Gernsback. Era un'ironia che proprio nell'anno della sua nascita,
Gernsback fosse costretto a riconoscersi sconfitto con Science Fiction Plus
ed avesse abbandonato il campo dell'editoria fantascientifica. Gernsback
morì il 19 agosto 1967, a ottantrè anni. Devoto alla scienza fino alla morte,
lasciò il suo corpo alla ricerca medica.
Le categorie cui oggi vengono assegnati i Premi Hugo variano, anche se
in generale ve ne sono alcune fisse, che offrono una chiara guida ai gusti
del settore. Nel 1953 il premio per la migliore rivista di fantascienza andò
congiuntamente ad Astounding e Galaxy, il che testimoniava la fulminea
ascesa di quest'ultima pubblicazione. Galaxy segnò un altro punto al suo
attivo, poiché il premio per il miglior romanzo andò a The Demolished
Man di Alfred Bester, che era uscito a puntate dal gennaio al marzo 1952.
Inoltre, un Hugo speciale andò a Willy Ley per i suoi eccellenti articoli
scientifici. E Ley aveva fornito a Galaxy, dal marzo 1952, una regolare
rubrica, For Your Information. Inoltre c'era un altro pari merito per il
miglior illustratore di copertine, tra Hannes Bok e Ed Emsh. Bok non era
mai stato un disegnatore prolifico e aveva completato poche copertine di
riviste durante il 1951-52. Il suo lavoro, caratterizzato dalle sue bizzarre
tecniche «a vetrata istoriata», oggi è molto ricercato, e la sua morte
avvenuta nel 1964, poco prima del suo cinquantesimo compleanno, lo fece
entrare nella leggenda.
Ed Emshwiller, per chiamarlo con il suo nome completo, deve essere
considerato uno degli illustratori specializzati più dotati e realistici. Per la
sua capacità di creare scene non è inferiore a nessuno, come per la sua
bravura nel ritrarre la gente. La sua prima copertina fu per Galaxy del
giugno 1951, e inizialmente quasi tutti i suoi lavori furono per quella
rivista... che aggiunse un'altra piuma al cappello con questo Hugo.
Il premio per le illustrazioni interne andò a Virgil Finlay, probabilmente
il maggiore illustratore in bianco e nero di quel periodo. I suoi lavori
apparivano un po' dovunque all'inizio degli Anni Cinquanta, poiché
nessuna rivista poteva pagare abbastanza per assicurarselo in esclusiva.
Alcuni dei suoi lavori più superbi apparivano allora su Startling, Thrilling
Wonder e sulle riviste di Ray Palmer.
Nel 1954 non furono assegnati premi, ma la consuetudine riprese
regolarmente dal 1955 in poi. In quell'anno Astounding fece quasi piazza
pulita, vincendo a mani basse il premio per la miglior rivista, oltre ad aver
pubblicato il romanzo, il racconto lungo e il racconto breve che avevano
vinto le rispettive categorie. Anche il disegnatore premiato, Kelly Freas,
era legato soprattutto a quella testata. Astounding non intendeva perdere
terreno, nonostante la formidabile opposizione.
E questo mi porta a considerare la panoramica della narrativa apparsa
dal 1950 al 1955.
Uno dei principali esponenti della fantascienza, oggi, è Philip K. Dick.
La sua prima pubblicazione fu un breve racconto, Beyond Lies the Wub
(Planet Stories, luglio 1952) (32) e per un po' si dedicò appunto ai
racconti, apparendo su quasi tutte le riviste specializzate prima di passare
ai romanzi. Dick aveva la capacità d'introdurre l'inaspettato nelle sue
vicende, e in questo periodo la dimostrò in testi come The Defenders
(Galaxy, gennaio 1953) (33) in cui l'umanità si trasferisce nel sottosuolo
lasciando in superficie i robot con il compito di proseguire la guerra:
all'insaputa degli umani, i robot concludono subito la pace, ma trasmettono
poi false informazioni tenendo la superficie per sé; e come in Impostor
(Astounding, gennaio 1953) dove il lettore viene affascinato da una ricerca
per scoprire un impostore che in realtà è una bomba ambulante.
Dick aveva esordito quasi contemporaneamente a Robert Sheckley, che
durante il 1953-4 fu sorprendentemente prolifico. Quasi tutti i suoi
racconti sono intessuti di umorismo e realismo, ed un esempio, Hands Off,
è incluso in questo volume. Sheckley fu uno dei primi scrittori che
passarono dalle riviste di science fiction alle pubblicazioni patinate per
uomini, come Playboy.
Un altro era Charles Beaumont, che più tardi acquisì grande fama a
Hollywood come sceneggiatore. Vendette il suo primo racconto a Howard
Browne che lo pubblicò su Amazing nel gennaio 1951. Perciò Beaumont,
che s'impose come grande scrittore di science fiction e orrore per le riviste
patinate, aveva cominciato lavorando per i pulps. Morì tragicamente nel
febbraio 1967, a solo trentotto anni. A metà degli Anni Cinquanta, molti
dei maggiori autori passarono dalle riviste di fantascienza alle patinate, già
all'inizio delle loro carriere. Ma dalla direzione opposta arrivò Kurt
Vonnegut, un nome onoratissimo, oggi, nei canoni della science fiction
anche se lui nega di scriverne. Non vendeva mai direttamente alle riviste di
fantascienza: vendeva alle patinate... ma solo dopo che gli autori dei pupls
avevano aperto la strada. I suoi primi racconti, come Thanasphere, che
apparve su Collier's (2 settembre 1950) parlava di un pilota collaudatore di
missili che incontrava gli spiriti dei morti in orbita intorno alla Terra,
secondo i criteri fantascientifici erano piuttosto fiacchi. Comunque,
Vonnegut sarebbe riuscito ad affermarsi, se scrittori come Leinster,
Heinlein e Bradbury non avessero già girato la chiave?
Gordon R. Dickson scrisse una vicenda ingegnosa, The Monkey Wrench
(Astounding, agosto 1951), in cui un uomo sconfigge un computer con
mezzi logici. L'uso della logica in fantascienza era un buon trampolino di
lancio per l'umorismo, e l'inglese Eric Frank Russell lo sfruttò benissimo
in Diabologic (Astounding, marzo 1955), dove un umano intrappola gli
alieni con questo mezzo. Russell stava scrivendo al meglio, durante gli
Anni Cinquanta, e vinse il Premio Hugo per Allamagoosa (Astounding,
maggio 1955), che parla della buffa ricerca, da parte dell'equipaggio di
un'astronave, di uno strano oggetto elencato nell'inventario. Anche il
superbo Dear Devil di Russell (Other Worlds, maggio 1950) avrebbe
meritato un Hugo. Parla di un orrendo marziano, blu e tentacolato, poeta e
artista, che rimane sulla Terra quasi priva di vita, dopo averla esplorata, e
fa amicizia con un gruppo di bambini abbandonati, dopo aver dato loro
prova della sua bontà. Russell propone una perfetta argomentazione in
favore della tolleranza razziale. Il fatto che fosse apparsa sulla rivista di
Palmer dimostra che questo direttore era molto sensibile, e non si affidava
esclusivamente al sensazionalismo.
Russell avrebbe proseguito i suoi paralleli razziali in racconti come The
Witness (Other Worlds, settembre 1951) dove un'aliena viene processata
come una minaccia, ma poi si scopre che era venuta a rifugiarsi sulla Terra.
In Fast Falls the Eventide (Astounding, maggio 1952), alcuni umani
vengono inviati su pianeti alieni per insegnare la fraternità universale; e
Postscript (Science Fiction Plus, ottobre 1953), in cui un uomo
corrisponde con un'aliena, e scopre che è un orrendo fungo, sottolinea il
tema più caro a Russell.
Racconti del genere sarebbero mai stati scritti, se non fossero esistite le
riviste specializzate?
Un altro nome importantissimo durante gli Anni Cinquanta fu Walter
M.Miller. Miller aveva esordito su American Mercury nel 1950, e nel
gennaio 1951 Amazing Stories presentava il suo Secret of the Death Dome,
il cui titolo era stato scelto dalla direzione. Miller aveva un talento
particolare per la caratterizzazione e la narrazione credibile degli eventi. I
Made You (Astounding, marzo 1954) è la descrizione terrificante di una
macchina robot sulla Luna, decisa a distruggere il suo operatore.
Astounding, nel gennaio 1955, pubblicava The Darfsteller, incentrato su
una compagnia teatrale robotica interstellare, che gli fece vincere il suo
primo Hugo. Più tardi ne vinse un altro, nel 1960, per il romanzo A
Canticle for Leibowitz, ambientato in una Terra postatomica dove l'ordine
religioso di San Leibowitz - uno scienziato canonizzato - si sforza di
riportare una parvenza d'ordine nel caos. Era un capolavoro, e senza
dubbio verrà ristampato anche in futuro. Il romanzo, in origine, erano in
realtà tre lunghi racconti, il primo dei quali A Canticle for Leibowitz era
apparso su F&SF nell'aprile 1955.
Il nome di Frank Herbert oggi è indissolubilmente legato alla sua trilogia
di romanzi di Dune. La sua prima apparizione in campo fantascientifico,
però risale al 1952, con un racconto apparso su Startling del mese di
agosto, Looking for Something. Nel 1955 aveva completato il suo primo
romanzo, Under Pression, pubblicato a puntate su Astounding a partire dal
novembre di quell'anno e accolto con immense lodi per il suo realismo.
Ambientato in tempo di guerra, a bordo di un sottomarino atomico del
futuro, è ricco di intrighi, via via che il sottomarino cerca di assicurarsi una
scorta di petrolio, ed un membro dell'equipaggio si rivela un sabotatore.
Pubblicato in volume nel 1956 con il titolo The Dragon in the Sea, da
allora è stato ristampato più volte.
I nomi che vengono in mente sono molti, ma la mancanza di spazio mi
costringe a citarli di sfuggita. Il primo racconto di Edgar Pangborn Angel's
Egg (Galaxy, giugno 1951) non ha bisogno di venire riassunto qui, poiché
è uno dei racconti di fantascienza più antologizzati. Ward Moore è un
nome oggi trascurato, nonostante i suoi eccellenti contributi, soprattutto
Bring the Jubilee (F&SF, novembre 1952), una grandiosa vicenda di una
Terra alternativa, in cui la guerra di secessione americana è stata vinta dai
sudisti. Poi pubblicò Lot (F&SF, maggio 1953) e Lot's Daughter (F&SF,
ottobre 1954) ambientati sulla Terra del periodo postatomico e dedicati ai
problemi dell'adolescenza. Anche il dottor Alan E. Nourse viene ricordato
con affetto, in questo periodo, soprattutto per Counterfeit (Thrilling
Wonder, agosto 1952), una delle storie più avvincenti sul tema di un alieno
che assume l'indentità di un membro dell'equipaggio di un'astronave.
Nourse aveva scritto in precedenza Tiger by the Tail (Galaxy, gennaio
1951), un'ingegnosa interpretazione della teoria delle dimensioni di
Moebius, e più tardi sarebbe stato ricordato per Brightside Crossing
(Galaxy, gennaio 1956), uno dei racconti più emozionanti ambientati su
Mercurio, così come veniva immaginato allora.
Anche molte scrittrici si stavano facendo una reputazione. Margaret St.
Clair si era già affermata prima del 1950 con vicende ingegnose come The
Gardener (Thrilling Wonder, ottobre 1949), dove un burocrate abbatte un
albero sacro su un pianeta alieno, viene condannato al massimo della pena,
e comincia a trasformarsi in albero. Si creò un alter-ego, Idris Seabright,
per i racconti di fantasy pubblicati da F&SF sebbene un racconto molto
audace sull'amore, Short in Chest, apparve su Fantastic Universe (giugno
1954). Un donna che s'era insediata a F&SF fu Zenna Henderson che
debuttò nell'ottobre 1952 con Ararat, il primo dei suoi molti racconti sul
Popolo, i profughi alieni d'aspetto umano spediti sulla Terra. Il tema della
serie è rappresentato dai tentativi dei vari individui per mescolarsi agli
umani, e la Henderson lo trattava con quel perfetto insieme di tenerezza e
di tragedia che ha fatto di lei una delle maggiori scrittrici specializzate.
Un memorabile racconto fu Pictures Don't Lie di Katherine MacLean
(Galaxy, giugno 1951), che segue la trasmissione televisiva dell'arrivo
degli alieni sulla Terra. La rivelazione, nell'ultima riga, è magistrale.
Un'importante scrittrice, Anne McCaffrey, fece la sua prima apparizione
in quest'epoca, con un breve bozzetto, Freedom of the Race, su Science
Fiction Plus dell'ottobre 1953; e il 1954 vide l'esordio narrativo di Marion
Zimmer Bradley, sebbene avesse venduto una poesia a Thrilling Wonder
tre anni prima. Le donne, finalmente, facevano sentire la loro presenza
nella science fiction. Forse questo è concomitante con la maturazione del
genere ed il suo maggiore interesse per l'umanità, anziché per la scienza. O
forse la rappresentazione dei sentimenti, nei loro racconti, era proprio
quello che volevano direttori come Gold e Boucher.
A costo di ignorare completamente molti autori come Mack Reynolds,
Randall Garrett, Milton Lesser... non devo dimenticare i nomi più
affermati, perché non si limitavano ad assistere alla maturazione dei
giovani talenti.
Isaac Asimov era al culmine della forma. La serie di Foundation si era
chiusa con la pubblicazione a puntate di ... And Now You Don't (parte di
Second Foundation) su Astounding nel 1949. Poi venne Pebble in the Sky
(in 2 Complete Science Adventures Books) su un uomo catapultato nel
lontano futuro e destinato a diventare la chiave della salvezza del mondo.
Poi The Stars Like Dust uscì a puntate su Galaxy, con il titolo Tyrann, a
partire dal quarto numero. Era un romanzo affascinante, anche se
superficiale, sulla ricerca in tutta la galassia di un documento segreto per
salvare l'umanità. Astounding, nell'ottobre 1952, cominciò a pubblicare a
puntate The Currents of Space, che descrive gli intrighi per salvare il
pianeta Fiorina da una nova imminente, e nell'ottobre 1953, Galaxy ospitò
l'episodio iniziale del suo primo importante giallo fantascientifico, The
Caves of Steel.
Robert Heinlein, ovviamente, non appariva soltanto nelle riviste
patinate. Il suo famoso romanzo The Puppet Masters, in cui gli alieni
assumono il controllo fisico e mentale di molti umani, fu pubblicato a
puntate su Galaxy durante il 1951, e nel 1954 F&SF presentò, pure a
puntate il suo romanzo per ragazzi, Star Beast (con il titolo Star Lummox),
in cui un animale domestico alieno viene portato sulla Terra con risultati
calamitosi.
Hal Clement è uno dei maestri della fantascienza più ortodossa; e
acquisì stima anche più grande con la pubblicazione a puntate di Mission
of Gravity su Astounding, durante il 1953. Una preziosissima sonda
precipita presso il polo di un pianeta che, a causa della sua rapida rotazione
e delle sue dimensioni enormi, ha ai poli un'attrazione gravitazionale
superiore di circa settecento volte a quella della Terra, e di sole tre volte
all'equatore. Il romanzo narra come vengono superate le difficoltà e come
viene recuperata la sonda. Per gli appassionati della science fiction pura il
romanzo è senza dubbio tra i più amati.
Il compianto James Blish si affermò sempre di più durante quel decennio
con la sua affascinante serie delle città volanti. La serie cominciò con Okie
(Astounding, aprile 1950): lo sviluppo di un congegno antigravità permette
alle città di abbandonare la Terra, contemporaneamente alla scoperta di
una sostanza che dona la longevità. Racconti collegati successivi
includevano Bridge (Astounding, febbraio 1952), il racconto spesso
ristampato sui tentativi di costruire un ponte su Giove.
Un nuovo arrivato, relativamente, era Charles L. Harness. Era stato
pubblicato per la prima volta su Astounding nell'agosto 1948 con
l'ingegnoso giallo sui viaggi nel tempo, Time Trap; era poi venuto un
fiume di altri racconti. Harness fece sensazione nel 1953 con il romanzo
The Rose, che descrive l'evoluzione dell'uomo in superuomo. Il romanzo
non trovò mercato in America, e fu pubblicato per la prima volta in Gran
Bretagna su Authentic, nel marzo 1953. Uno splendido romanzo ed un
grande scrittore, forse, sarebbero stati perduti per la fantascienza se non ci
fosse stata quella rivista. Poco dopo, Harness smise di scrivere per avere
più tempo da dedicare alla sua famiglia, ma recentemente è tornato in
campo, con effetti ancora più sorpendenti.
Il compianto Murray Leinster non fu meno attivo, in quel decennio, di
quanto lo fosse stato nei trent'anni precedenti. Il suo superbo romanzo
breve The Gadget Had a Ghost (Thrilling Wonder, giugno 1952) è
un'eccellente storia di paradossi temporali. E Nightmare Planet (Science
Fiction Plus, giugno 1953) aggiungeva l'episodio finale alla sua serie della
bizzarra Terra del futuro iniziata con Mad Planet su Argosy nel 1920!
Leinster vinse inoltre il Premio Hugo per il suo racconto lungo
Exploration Team, da Astounding del marzo 1956. Il suo talento era
innegabile e la sua morte, avvenuta nel giugno 1975, a settantacinque anni,
chiuse un importante capitolo della storia della fantascienza.
Frederik Pohl e Cyril Kornbluth, entrambi nomi molto rispettati nel
genere, avevano incominciato a collaborare tra loro e con altri scrittori, con
una quantità di pseudonimi, all'inizio degli Anni Cinquanta. Solo negli
Anni Cinquanta apparvero regolarmente con i loro veri nomi. Pohl diede
gemme come The Midas Plague (Galaxy, aprile 1954), ambientato in un
tempo in cui la sovrappopolazione diventa un vera minaccia; e Kornbluth
le sue visioni tipicamente crude, come The Altar at Midnight (Galaxy,
novembre 1952), con la sua cupa descrizione della vita degli astronauti. In
collaborazione, i due scrissero classici come Gravy Planet (Galaxy,
giugno-agosto 1952), che presenta mega-aziende impegnate nel tentativo
di «vendere» Venere; e Gladiator-at-Law (Galaxy, giugno-agosto 1954)
che descrive un violenta Terra del futuro. Kornbluth collaborò anche con
Judith Merril (con il nome di Cyril Judd) in parecchi lavori, soprattutto
Gunner Cade, pubblicato a puntate su Astounding nel 1952, e che presenta
il soldato irreggimentato del futuro, incapace di pensare con la propria
testa.
Gli inizi degli Anni Cinquanta portarono anche un torrente di testi di
Theodore Sturgeon, impegnato a schiantare a sua volta le barriere del
conformismo, dopo che Mines aveva accettato il lavoro di Farmer. Su
Galaxy Sturgeon sottolinea temi essenzialmente umani. Baby Is Three
(ottobre 1952) parla di un adolescente dagli eccezionali poteri psichici che
si unisce con altri bambini egualmente dotati, formando un terrificante
cervello gestalt. Il lungo racconto venne ampliato e trasformato in
romanzo con il titolo More Than Human, e vinse nel 1954 l'International
Fantasy Award, organizzato in Gran Bretagna da Leslie Flood e assegnato
tra il 1951 e il 1957. In precedenza aveva vinto Clifford Simak con il
romanzo City, ricavato dalla serie apparsa su Astounding.
Se l'inizio degli Anni Quaranta deve essere chiamato «l'Età d'Oro» di
Astounding, allora il periodo 1946-55 va senza dubbio considerato come
«l'Età del Platino» della fantascienza. Ho già ricordato decine di superbi
racconti di questo decennio, ma sono pochissimi, in confronto alle
centinaia che vennero scritti. Posso soltanto invitare ad esplorare più a
fondo.

12. Riepilogo

Alla fine del 1955, l'estinzione dei pulps era stata seguita da una calma
relativa, nel mare della fantascienza. Anche parecchi digest chiusero i
battenti, ma molti sopravvissero. È opportuno fare qui un riepilogo delle
riviste superstiti e dei loro direttori.
Amazing Stories la rivista più vecchia, era adesso una pubblicazione
digest diretta da Howard Browne, con una compagna da poco acquisita,
Fantastic. Nel 1953 Browne aveva ricevuto un budget più ricco, che gli
permise di acquistare narrativa di buona qualità; ma gli stanziamenti
vennero ridotti con il passare degli anni, e nel 1955 la qualità stava
declinando. Tuttavia, nel novembre 1955 Amazing tornò alla cadenza
mensile, mentre Fantastic restava bimestrale.
La prima Amazing mensile era anche il trecentesimo numero della
rivista. Il novembre 1955 portò anche il trecentesimo numero di
Astounding: e tutti, tranne i primi ottantadue, erano usciti sotto il ferreo
controllo di John W. Campbell. Nei dieci anni seguenti, Amazing ed
Astounding avrebbero continuato fianco a fianco, come le più vecchie
riviste superstiti di fantascienza.
La Columbia Publications mandava avanti Science Fiction Stories,
Future SF e SF Quarterly. Nel 1955 Science Fiction era diventata la
pubblicazione principale, e adesso veniva presentata come The Original...
per collegarla alla Science Fiction lanciata da Charles Hornig nel 1939.
Future era stata relegata temporaneamente in un programma di
pubblicazione irregolare. SF Quarterly manteneva la sua cadenza, ed era
rimasta pulp... un caso molto raro. Era l'unico pulp superstite in
circolazione, ma non la sola rivista del genere.
Come ho sottolineato in precedenti occasioni, Ray Palmer non era mai
stato un tipo conformista. Durante la guerra, quando il razionamento della
carta aveva costretto molte testate a limitare il numero delle pagine,
Palmer ne aveva raddoppiato il numero nelle sue pubblicazioni. A metà
degli Anni Cinquanta, quando quasi tutte le riviste si erano trasformante in
digest o avevano chiuso, Palmer trasformò la sua Other Worlds da digest in
pulp! Sì, Other Worlds. Dopo averne cambiato la testata in Science Stories
ed aver assorbito Universe nel corso dell'ultimo anno, Palmer decise che le
tendenze contemporanee stavano poco a poco causando una stagnazione.
Ma nei suoi editoriali ammetteva che Other Worlds viveva di un budget
pressoché inesistente. Tornò al formato pulp per attrarre l'attenzione, ma
presto avrebbe scoperto di non essere più in contatto con i tempi. Il suo
bernoccolo per il sensazionale lo stava abbandonando?
The Magazine of Fantasy and Science Fiction continuava a mantenere la
sua altissima qualità. Adesso era guidata dal solo Anthony Boucher, poiché
nel 1954 Mick McComas aveva abbandonato per ragioni di salute.
Per quanto riguardava Galaxy, essa appariva regolarmente, come
Astounding, e la sua compagna della serie Novel usciva ancora,
sporadicamente. Durante il boom, Galaxy aveva avuto anche una
compagna dedicata al fantastico, Beyond, che resistette per dieci numeri,
fu molto popolare, e spesso viene considerata l'erede naturale di Unknown
di Campbell. Tra i molti racconti che pubblicò, quelli più ricordati sono
Babel II di Damon Knight su un caos linguistico; il classico di Theodore
Cogswell, The Wall Around the World, ed il macabro racconto sui poteri di
un bambino, Talent di Theodore Sturgeon. Purtroppo, Beyond venne
soffocata, proprio dal boom.
Fantastic Universe si era affermata saldamente come pubblicazione
mensile, con un'ampia politica che includeva il fantastico e la science
fiction. Era abbastanza diversa da F&SF per assicurarsi la sopravvivenza,
eppure abbastanza simile per echeggiarne il successo. Leo Margulies
continuava a guidarla, anche se presto sarebbe entrato in scena un altro
personaggio, Hans Stefan Santesson.
Imagination di William Hamling era rimasta mensile durante tutto il
boom, ma nell'autunno 1955 cominciò ad apparire bimestralmente. Adesso
si alternava con una rivista nuova, Imaginative Tales, nata nel settembre
1954, sostanzialmente come veicolo per pubblicare lunghi romanzi
d'apertura, lasciando ad Imagination i testi più brevi. In questo modo si
assicurò un vasto seguito, anche se non ebbe mai il successo della
compagna. Richiamava la Amazing della fine degli Anni Quaranta, che
Hamling aveva diretto in realtà, e conteneva romanzi del genere space
opera di Edmond Hamilton, e perciò attirava il pubblico rimasto
all'asciutto con la fine di Planet Stories.
Infine, James Quinn continuava a dirigere coraggiosamente If, arrivata
ormai al trentesimo numero. Quinn aveva una certa assistenza da parte dei
suoi collaboratori, uno dei quali era stato Larry Shaw. Shaw se ne andò nel
1954, e più tardi passò alla Royal Publications. Là l'editore Irwin Shaw
(che non era suo parente) voleva lanciare una rivista di fantascienza, e
Larry ne divenne direttore. Infinity Science Fiction uscì nel novembre
1955: era la prima della riviste del dopo boom. Portava un racconto lungo
d'apertura di William Tenn, e includeva un racconto breve, The Star, di
Arthur Clarke, che vinse il Premio Hugo per la sua categoria. Se Infinity
cominciava così, dove sarebbe arrivata?
Un indizio era costituito da un autore che Shaw contribuì a lanciare,
pubblicando il suo primo racconto fantascientifico. Il secondo numero di
Infinity (febbraio 1956) presentava testi di molti grandi nomi, compresa
una brillante e divertente storia sui robot, Internal Combustion di L.
Sprague de Camp. Ma comprendeva anche Glow Worm di Harlan Ellison,
un racconto imperniato su un umano anomalo, un uomo luminoso. Ellison
era già famoso nel fandom per il suo fanzine intitolato Dimensions. Chi
avrebbe previsto che entro dieci anni Ellison avrebbe cambiato faccia alla
fantascienza?
Con Ellison negli USA e J.G. Ballard in Gran Bretagna emergenti a metà
degli Anni Cinquanta, sostenuta da un numero crescente di scrittori dotati,
era evidente che la science fiction si preparava a nuovi orientamenti e alla
demolizione di altri tabù.
Se mai ci fu una letteratura mutevole, è stata questa, ed il laboratorio in
cui tali cambiamenti vennero provati e collaudati venne rappresentato dalle
riviste specializzate. Come sarebbe stato opaco il mondo, senza di loro!

Note:

(1) Tr. it. Il potere e la gloria, in Porte sul futuro, Fanucci Roma 1978
(Enciclopedia della Fantascienza 2) (N.d.C).
(2) Dalla prefazione di Theodore Sturgeon al suo racconto Thunder and
Roses in My Best Science Fiction Story, a cura di Leo Margulies e Oscar J.
Friend, Merlin Press, New York 1949.
(3) Il principale racconto della quale, Fondazione, è apparso in Imperi
Galattici, a cura di Brian W. Aldiss, Fanucci, Roma 1978. (Enciclopedia
della Fantascienza 3) (N.d.C).
(4) Più noto in Italia come Assalto alla Terra (cfr. GIOVANNI
MONGINI, Storia del cinema di Fantascienza, Fanucci, Roma 1976, vol.
I, pag. 109 - 123) (N.d.C).
(5) Si pronuncia come man tongue, cioè «lingua umana» (N.d.C).
(6) Così sono stati chiamati anche alcuni «esseri» che assomigliano a
robot incontrati da vari testimoni e collegati agli UFO: cfr. JOHN KEEL,
Creature dall'ignoto, Fanucci, Roma 1978, (Futuro Saggi 5) (N.d.C).
(7) Da un commento di Ray Palmer in risposta ad una lettera nella
rubrica della posta Letters su Other Worlds Science Stories, maggio 1955,
pag. 121, edito dalla Palmer Publications, Illinois.
(7 bis) La Arkham House aveva infatti pubblicato i seguenti volumi: The
Outsider and Others (1939), Beyod the Wall of Sleep (1943) e Marginalia
(1944). Shaver, che scrisse il suo primo romanzo nel 1944, avrebbe dovuto
conoscerli. Se l'ipotesi di Ashley sulla influenza dei Miti di Cthulhu su
Shaver e Palmer è esatta, è però più probabile che derivi da The Lurker at
the Threshold, romanzo in «collaborazione postuma» tra Lovecraft e
Derleth (tr. it.: Il Guardiano della Soglia, Fanucci, Roma 1977), in cui la
mitologia di Cthulhu viene minuziosamente spiegata proprio nei termini
esposti da Ashley. In precedenza, nei soli testi di Lovecraft, tante
spiegazioni e precisazioni non esistevano. E del resto Shaver dettagliò tutta
la sua «mitologia di Lemuria» proprio nei romanzi e racconti successivi al
1944 (N.d.C).
(8) Tr. it.: I Controllori vivono invano, in CORDWAINER SMITH,
L'astronave d'oro, Fanucci, Roma 1972 (Futuro Pocket 4) (N.d.C.)
(9) Tr. it.: Il Vascello di Ishtar, Fanucci, Roma 1978 (Futuro 39), con in
appendice un portfolio dei disegni eseguiti da Virgil Finlay per il romanzo.
(N.d.C).
(10) L'edizione italiana è uscita presso Mondadori per una dozzina di
fascicoli senza alcun ordine né logico né cronologico (N.d.C.)
(11) Dal saggio di Robert Heinlein On the Writing of Speculative
Fiction, in Of Worlds Beyond, a cura di Lloyd Arthur Eshbach, Advent,
Chicago, edizione del 1971, pag. 13.
(12) Cfr. Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, Obiettivo sugli UFO,
Ed. Mediterranee, II Ed. Roma 1978, cap. 3 (N.d.C).
(13) Contributo di Howard Browne a Cheap Thrills di Ron Goulart, Ace
Books, New York, edizione del 1973, pag. 192.
(14) Tr. it.: La sentinella, in Space opera, Fanucci, Roma 1977
(Enciclopedia della Fantascienza 1) (N.d.C).
(15) Tr. it.: Dianetica. Casini, Roma 1951 (N.d.C).
(16) Dal saggio di Alfred Bester, My Affair with Science Fiction, in
Hell's Cartographers, a cura di Brian W. Aldiss e Harry Harrison,
Weidenfeld & Nicolson, Londra, 1975, pag. 58.
(16 bis) In Italia esistono vari centri dell'Hubbard Dianetics Institute: il
primo è stato aperto a Milano nel gennaio 1977, altri in seguito a Brescia,
Novara, Padova, Roma e Pordenone, non senza polemiche secondo alcune
cronache apparse sui quotidiani. (Notiamo come nella carta intestata
dell'Istituto la parola Dianetics è indicata cosi: «marchio registrato di L.
Ron Hubbard per quanto riguarda le sue opere pubblicate»). Esiste infine
un'attività di Hubbard, quella di «mago» e dei suoi rapporti con Aleister
Crowley, su cui poco si sa e pochissimo si è scritto. (N.d.C).
(17) L. Sprague de Camp, Markets and Editors, capitolo 4 di Science
Fiction Handbook, Hermitage House, New York 1953, pag. 115.
(18) Dall'editoriale di H.L. Gold It's All Yours, in Galaxy Science
Fiction, novembre 1950, pag. 3, edito dalla World Editions, New York.
(19) Tr. it.: La Terra morente, in JACK VANCE, Crepuscolo di un
mondo, Fanucci, Roma 1974 (Orizzonti 4) (N.d.C.)
(19 bis) Molti di questi splendidi disegni di Finlay e Lawrence sono stati
pubblicati in appendice ai romanzi Il vascello di Ishtar di A. Merritt, La
fiamma nera di S. G. Weinbaum, Il volto dell'abisso di A. Merritt, editi da
Fanucci nelle collane Futuro e Orizzonti (N.d.C).
(20) Dall'editoriale di John Carnell Good Companions..., in New Worlds,
Estate 1950, pag. 3, edito dalla Nova Publications, Londra.
(21) «Fantascienza Nottetempo» (N.d.C).
(21 bis) «Gli Uomini-fungo di Marte» (N.d.C).
(22) Queste informazioni di Mike Ashley risolvono nel senso
dell'effettiva esistenza di uno scrittore inglese dal nome di Jon J. Deegan
(forse pseudonimo di H.J. Campbell) il «mistero» di chi invece lo riteneva
uno dei tanti pseudonimi dell'italiano Luigi Raguzzi Johannis. Senza
dubbio il breve romanzo L'avanguardia di Andromeda (nell'antologia
Superfantascienza, ELI, Milano 1954) che ha per protagonista l'equipaggio
della Old Growler cioè appunto la Vecchia Brontolona, è uno dei tanti a
firma Jon J. Deegan, apparsi su Authentic Science Fiction dopo il 1951.
Non sembra essere comunque quello citato da Ashley, Reconnoitre Krellig
II (N.d.C).
(22 bis) Dopo questo suo esordio fantascientifico H. J. Campbell, nato a
Londra nel 1925, si è dedicato all'attività scientifica, specializzandosi in
fisiologia e psichiatria, lavorando presso l'Università di Londra, il College
de France e l'Istituto Planck per gli studi sul cervello. Dei suoi numeri
saggi divulgativi, è stato tradotto in italiano solo Le aree del piacere,
Mondadori, Milano 1974 (N.d.C).
(23) Scienza Fantastica era diretta da Lionello Torossi (che utilizzava lo
pseudonimo di Massimo Zeno per la narrativa) e presentava materiale
tratto da Astounding: la proposta di tradurre science fiction con «scienza
fantastica» non ebbe seguito perché la rivista chiuse nel marzo 1953 e
s'impose invece il neologismo di «fantascienza» ideato da Giorgio
Monicelli curatore delle riviste Mondadori. Il 10 ottobre 1952, infatti
furono lanciati I romanzi di Urania (che dal n. 153 divennero
semplicemente Urania), quattordicinale di romanzi; e dal 1 ° novembre
1952 Urania, rivista mensile di racconti, articoli, rubriche, che attingeva la
narrativa da Galaxy e che chiuse dopo 14 numeri col fascicolo datato 1°
dicembre 1953. Sino al 1955, anno preso in considerazione da Mike
Ashley, in Italia uscirono anche: Galassia, diretta da Orfeo Giovanni
Landini (tre numeri dal gennaio al giugno 1953), che non era però
l'edizione italiana di Galaxy; Fantascienza, diretta da Livio Garzanti, che
usci per sette numeri dal novembre 1954 al maggio 1955, prima edizione
italiana di The Magazine of Fantasy and Science Fiction; e Mondi Astrali,
diretta da Eggardo Beltrametti, quattro numeri dal gennaio all'aprile 1955,
la prima rivista di fantascienza interamente scritta da autori nazionali,
nonostante i singolari pseudonimi adottati. Sugli esordi della fantascienza
in Italia, cfr. GIANFRANCO DE TURRIS, Breve storia della fantascienza
in Italia, in Pianeta, Torino, nn. 25, 26, 27, 28 e 30, novembre 1968 -
ottobre 1969; e Storia della fantascienza in Italia, in Roger, Roma, nn. 1,
2, 3, e 4, gennaio - maggio 1973 (N.d.C.).
(24) Cfr. MICHAEL ASHLEY, Un sorprendente esperimento, in Porte
sul Futuro, Fanucci, Roma 1978 (Enciclopedia della Fantascienza 2)
(N.d.C).
(25) Cfr. GIOVANNI MONGINI, Storia del cinema di fantascienza, cit,
pag. 20-21, e TEO MORA, Storia del cinema dell'orrore, Fanucci, Roma
1977, pag. 83 (N.d.C).
(26) Cfr. GIOVANNI MONGINI, Storia del cinema di fantascienza cit.
(N.d.C).
(27) Dall'editoriale di Samuel Mines The Ether Vibrates, in Startling
Stories, agosto 1953, pag. 6, edito dalla Better Publications, New York.
(28) «Storie sconvolgenti» (N.d.C).
(29) Dall'editoriale di Samuel Mines The Ether Vibrates cit.
(29 bis) I romanzi a firma «Astron del Martia» sono stati in totale
quattro, il primo dei quali sembra essere in effetti di Fearn. Dopo la morte
dello scrittore, avvenuta nel 1960, è stato pubblicato un suo romanzo
ancora inedito proprio con questo pseudonimo per aggirare le obiezioni
degli eredi: cfr. RICCARDO VALLA, Presentazione a ASTRON DEL
MARTIA, Il cervello esploso, Nord, Milano s.d. (N.d.C).
(29 ter) Cfr. GIOVANNI MONGINI, Storia del cinema di fantascienza
cit. (N.d.C).
(30) Tr. il.: Prima Belladonna, in J. G. BALLARD, I segreti di
Vermilion Sands, Fanucci, Roma 1976 (Orizzonti 9) (N.d.C).
(31) Tre con quella svoltasi nel 1979 a Brighton (N.d.C).
(32) Tr. it. Ora tocca al wub, in PHILIP K. DICK, Le voci di dopo,
Fanucci, Roma 1976 (Futuro 6) (N.d.C).
(33) Tr. it. I difensori della Terra, in PHILIPK. DICK, I difensori della
Terra, Fanucci, Roma 1977 (Futuro 34) (N.d.C).

1946: «Astounding»

Theodore Sturgeon
Monumento

Poiché questa panoramica incomincia dall'aprile 1946, sembra giusto


scegliere un racconto tratto dal numero di quel mese della rivista più
importante, Astounding. Questo Memorial non rispecchia soltanto la
reazione immediata alla bomba atomica, ma è anche scritto da uno dei più
grandi talenti della science fiction.
Theodore Sturgeon nacque con il nome di Edward Hamilton Waldo a
Staten Island, New York, martedì 26 febbraio 1918. Quando sua madre, in
seguito, si risposò, Edward adottò il cognome del patrigno e diventò
ufficialmente Theodore Sturgeon. In gioventù, Sturgeon era appassionato
di ginnastica e aspirava a far carriera nel circo, ma nel 1933 fu colpito da
febbri reumatiche che gli causarono un ingrossamento del cuore, e
distrussero le sue aspirazioni, perciò egli, avvilito, si diede alla lettura.
Due anni dopo abbandonò la vita sulla terraferma per il mare aperto, e fu
allora che cominciò a scrivere. All'inizio vendette una quarantina di
racconti che furono pubblicati su dozzine di giornali americani: ma
nessuno era di fantasia. Poi, nel 1939, Sturgeon scoprì il primo numero di
Unknown e il suo direttore, John W Campbell. Sturgeon apparve per la
prima volta su Astounding nel settembre 1939 con Ether Breather, una
lieve vicenda su esseri eterei che interferiscono nelle trasmissioni
televisive. Il suo primo vero successo venne con It (Unknown, agosto
1940), su un essere viscido e schifoso che riattivava lo scheletro di un
morto. Più tardi venne Killdozer (Astounding, novembre 1944), il famoso
racconto di un'intelligenza aliena che s'impadronisce di un bulldozer.
Adattato da Sturgeon, il racconto è apparso sugli schermi televisivi nel
1974 nella serie degli sceneggiati americani Sunday Mystery Movie.
Negli Anni Quaranta, e soprattutto negli Anni Cinquanta, le opere di
Sturgeon gli conquistarono un posto di rilievo nella gerarchia della
fantascienza, e la sua inclusione in questa serie era dovuta. Attualmente,
la sua produzione è spasmodica. Ha dedicato le sue doti alle recensioni
librarie, entro e fuori il campo della science fiction e alle lezioni in molti
corsi universitari. Fortunatamente non ha mai abbandonato il genere, e ci
si può ancora aspettare altre sorprese dalla sua mente acuta.

L'Abisso, nell'anno 5000 d.C, era cambiato poco nel corso dei secoli.
Era ancora un atroce monumento all'uso sbagliato di un grande potere; e
per questa ragione, la guerra organizzata era stata dimenticata. Per questa
ragione, il mondo era libero dal fumo e dal sudiciume dell'industria. Il
sibilo e lo schianto delle bombe e il ritmo soporifico dei piedi in marcia
non si udivano mai, e finalmente la Terra era in pace.
Avvicinarsi all'Abisso era una morte lenta e certa, ed era rispettato e
temuto, e lo sarebbe stato ancora per molti secoli. Di notte ammiccava e
lampeggiava rosso, ed era circondato da un tratto nudo e dissestato che si
estendeva fino all'orizzonte; e intorno balenava una spettrale luce azzurra.
Nulla vi viveva. Nulla vi poteva vivere.
Con un simile monumento alla guerra poteva esserci soltanto la pace. La
Terra non avrebbe mai potuto dimenticare l'orrore che una guerra poteva
scatenare.
Quello era il sogno di Grenfell.
Grenfell rese il foglio dattiloscritto. «Ecco Jack. È la mia idea... vorrei
saperla esprimere così.» Si appoggiò al banco da lavoro ingombro, con
un'espressione ironica sulla faccia stranamente asimmetrica. «Perché
occorre una persona inutile per esprimere adeguatamente un'idea astratta?»
Jack Roway sorrise, riprendendo il foglio e riponendolo nel taschino.
«Domanda interessante, Grenfell, perché questa è la tua espressione, le
parole sono tue. Praticamente alla lettera. Ho lasciato fuori gli 'ehm' e gli
'ah' con cui giochi quando parli, e ho messo in fila tutti gli effetti che hai
menzionato, senza menzionare le cause tecnologiche. Risultato netto: tu
pensi che l'abbia fatto io, mentre l'hai fatto tu. Tu pensi che sia scritto bene,
io no.»
«Tu no?»
Jack stese il suo lungo corpo ossuto sul piccolo divano duro. Quando si
rilassava era un gesto che si notava, come lo sbottonarsi del colletto d'una
camicia. Il suo corpo sembrava snodarsi un po'. Rise.
«No di certo. Troppo emotivo per i miei gusti. Io sono soltanto un esteta
pasticcione... inutile, hai detto? Uhm... già. Immagino che sia così.» Fece
una pausa, pensieroso. «Vedi, voi personaggi a sangue freddo, voi
scienziati, siete i veri visionari. A me sembra che la differenza essenziale
tra uno scienziato ed un artista stia nel fatto che lo scienziato mescola la
sua speranza alla pazienza.
«Lo scienziato visualizza la sua meta ultima, ma le presta scarsa
attenzione. È completamente preso dall'impegno di salire sul prossimo
gradino. L'artista guarda tanto avanti che molto spesso non vede quel che
ha sotto i piedi: perciò cade lungo disteso e viene chiamato inutile dagli
scienziati. Ma se togli tutti i passi intermedi al pensiero dello scienziato,
hai un concetto artistico, cui lo scienziato reagisce con distacco e stupore,
attribuendo a qualche artista il merito di essere profondamente perspicace,
solo perché l'artista ha ripetuto qualcosa che ha detto lo scienziato.»
«Mi sorprendi,» disse candidamente Grenfell. «Non saresti quel che sei
se non fossi pigro e superficiale. Eppure te ne vieni fuori con cose del
genere. Non so se ho capito quello che hai appena detto. Dovrò pensarci...
ma credo che tu presenti tutti i segni di un pensiero chiaro. Con una mente
come la tua, non capisco perché non l'adoperi per costruire qualcosa,
invece di sprecarla con queste tue disinvolte interpretazioni.»
Jack Roway si stirò voluttuosamente. «A che serve? È più grande lo
spreco della distruzione di qualcosa che è già stato costruito che nella
dispersione dell'energia che sarebbe necessaria per contribuire alla
costruzione di qualcosa. Comunque, il mondo è pieno di costruttori... e
distruttori. A me piacerebbe starmene seduto a guardare, e sentire le cose.
Il mio ambiente mi piace, Grenfell. Voglio sentire tutto quel che posso,
finché dura. Non durerà ancora molto. Voglio toccare tutto quel che posso
raggiungere, assaporarlo e udirlo finché c'è tempo. Quello che mi sta
intorno, nel presente, ecco quel che è importante per me. L'accelerazione
del progresso umano, e l'aumento della sua massa - per usare i tuoi termini
- stanno portando l'umanità al Limbo. Tu, con il tuo lavoro, credi di
combattere l'inerzia dell'umanità. Beh, è vero. Ma è quel tipo d'inerzia che
viene chiamato momentum, quantità di moto. Non disponi della forza
necessaria per arrestarla, e neppure per mutarne sensibilmente il corso.»
«Ho l'energia atomica.»
Roway scosse il capo, sorridendo. «Non basta. Nessuna energia basta. È
troppo tardi.»
«Questo tipo di pessimismo non mi tocca,» disse Grenfell. «Puoi
continuare a rodere le mie fondamenta quanto vuoi, Jack, e non otterrai
altro che la perdita degli incisivi. Credo che tu lo sappia.»
«Certo che lo so. Non sto cercando di farlo. Non ho niente da vendere,
non voglio cambiare nessuno. Sono ancora più impotente di te e della tua
energia atomica; e tu sei completamente impotente. Uh... contesto il modo
con cui usi il termine «pessimista», comunque. Non lo sono. Poiché ho
accertato per me stesso che l'umanità, quale la conosciamo, è finita, sono
rassegnato. Il pessimismo da parte mia, date le circostanze, sarebbe il
pessimismo di un fotofobico il quale predice che domani sorgerà il sole.»
Grenfell sogghignò. «Dovrò pensare anche a questo. Sei una tale massa
di paradossi che si trasformano in concatenazioni di ragionamenti.
Apparentemente, vivi in un mondo in cui gli scienziati sono poeti, e la
cavalletta ha la meglio sulla formica.»
«Ho sempre pensato che la formica sia una carogna.»
«Perché continui a venire qui, Jack? Che cosa ne ricavi? Non capisci che
io sono un criminale?»
Roway socchiuse gli occhi. «Qualche volta penso che tu vorresti essere
un criminale. La legge afferma che lo sei, ed è molto probabile che tu
venga preso e trattato come tale. Moralmente, tu sai di non esserlo. E
questo toglie un po' al sapore di appartenere alla categoria dei ricercati.»
«Forse hai ragione,» disse pensieroso Grenfell. Sospirò. «È
assolutamente sciocco. Durante gli anni della guerra, a causa della mia
specializzazione il governo mi ha agguantato e sbattuto nel Progetto
Manhattan, aspettandosi miracoli... e ottenendoli. Non ho mai smesso di
lavorare lungo le stesse direttrici. E adesso il governo ha cambiato le leggi,
e mi ha buttato fuori dalla legalità.»
«Non è sorprendente. Il governo tratta con severità i militari che
continuano ad ammazzare altri militari, quando la guerra è finita.» Roway
alzò la mano per frenare l'interruzione di Grenfell. «Lo so, tu non stai
uccidendo nessuno, e stai lavorando per ottenere il risultato opposto. Stavo
solo osservando che è la stessa cosa. Noi, il popolo,» disse didatticamente,
«abbiamo deciso, nel nostro potere sovrano, che nessuna ricerca atomica
dovrà essere effettuata al di fuori dei laboratori governativi. Abbiamo
quindi permesso ai nostri politici di stanziare somme così misere per il
mantenimento di quei laboratori - a differenza dei nostri amici d'oltremare
- che in essi non si può svolgere una ricerca davvero esauriente. Inoltre
abbiamo stabilito che sia un grave reato mandare avanti un laboratorio
clandestino come il tuo.» Scrollò le spalle. «Viene la fine dell'umanità.
Saremo travolti per primi. Se investissimo più denaro e più impegno nella
ricerca nucleare, più di tutti gli altri paesi, verrebbe travolta per prima
un'altra nazione. Se dureremo ancora cento anni - il che sembra molto
dubbio - qualche povero ricercatore governativo s'imbatterà nel sistema di
riscaldamento all'isotopo che tu hai già perfezionato.»
«È stata dura,» disse amaramente Grenfell. «Costringermi alla
clandestinità proprio in tempo per impedirmi di annunciarlo. Che spreco di
tempo e d'energia è riscaldare case ed edifici con il sistema attuale! Il
riscaldamento dello spazio - il più grande uso singolo dell'energia termica -
ed io ho lì la soluzione.» Indicò con un cenno del capo un compatto cubo
di leghe di piombo, in un angolo del laboratorio. «Incorporalo nelle
fondamenta, e avrai calore controllabile per tutta la durata dell'edificio, e
senza spendere un centesimo per aggiungere combustibile né per la
manutenzione.» I muscoli della sua mascella si contrassero. «Beh, sono
contento che sia andata così.»
«Perché ti ha avviato verso il tuo monumento bellico... L'Abisso? Già.
Bene, posso dire solo questo: mi auguro che tu abbia ragione. Non è stato
ancora possibile spaventare l'umanità. L'invenzione della polvere da sparo
doveva fermare la guerra e non l'ha fatto. Idem il sommergibile, il siluro,
l'aereo, e la bomba che hanno sganciato su Hiroshima.»
«L'Abisso è diverso,» fece Grenfell. «Hai ragione: l'umanità non si è
spaventata ancora abbastanza per rinunciare alla guerra; ma la bomba di
Hiroshima l'ha sconvolta. Il mio piccolo monumento è molto reale. Non mi
affido ad un effetto di fissione, capisci, con la liberazione di un decimo
dell'uno per cento dell'energia dell'atomo. Io intendo disintegrarlo
completamente, e sfruttarne tutta l'energia. E sarà più di mille volte più
potente della bomba di Hiroshima, perché userò una quantità d'esplosivo
dodici volte superiore; ed esploderà al suolo, non a cinquanta metri
d'altezza.» La fronte di Grenfell, sopra gli occhi ardenti, cominciò a
inumidirsi di sudore. «E poi... L'Abisso,» disse sottovoce. «Il monumento
bellico che porrà fine alla guerra e a tutti gli altri monumenti alla guerra.
Un abisso enorme, vivo di lava ribollente, che irradierà morte per
diecimila anni. Un ricordo vivo della devastazione che l'umanità ha
preparato per se stessa. Qui fuori, nel deserto, dove non ci sono città, dove
la terra è sempre stata inutile: questa sarà la scena della cosa più utile nella
storia della nostra razza... un sermone interminabile, un ammonimento, un
esempio della spaventosa antitesi alla pace.» La voce tremante diventò un
bisbiglio e si spense.
«Qualche volta,» disse Roway, «tu mi fai paura, Grenfell. Mi ricordo che
sono un edonista che assaporo tutto quel che posso, perché ho paura di
sentire troppo ogni cosa.» Si scosse, o rabbrividì. «Sei un fanatico,
Grenfell. Iperemotivo, monomaniaco. Spero che tu ci riesca.»
«Ci riuscirò,» disse Grenfell.
Trascorsero due mesi, e in quei due mesi l'impegno di Grenfell venne
forzatamente accantonato dalla pressione crescente degli eventi. Un
pomeriggio, mentre guardava una banda di vigilantes che si spingeva a
cavallo nel deserto, a Sud dei suoi piccoli edifici, pensò cupamente a
quello che aveva detto Roway: «Qualche volta vorrei che fossi un
criminale.» Roway, il sensualista, avrebbe detto così. Roway avrebbe
apprezzato il sapore del pericolo, allo stesso modo in cui apprezzava tutte
le altre emozioni. Via via che s'intensificava, doveva attendere di
assaporarla, pur quanto diventasse sgradevole.
Per due volte, Grenfell spense l'energia della pila carbonio-alluminio che
aveva costruito, quando vide elicotteri del governo che si libravano
sull'orizzonte accidentato. Sapeva dell'esistenza dei rivelatori di radiazioni
pure; ne aveva realizzati due tipi diversi durante la guerra, e non voleva
che gli facessero domande. La totale frustrazione per l'impossibilità di
annunciare il completo successo del suo impianto termico, per timore di
venir punito come criminale, per paura che il suo congegno venisse
sequestrato e dimenticato... quella frustrazione era stata indescrivibile.
Aveva incanalato la sua mente, e aveva intensificato i suoi sforzi a favore
di ciò in cui aveva creduto durante la guerra. Tutti i casi di trauma neurale
che aveva incontrato negli uomini che erano stati colpiti dalla guerra e la
disprezzavano, lo spingevano a lavorare ancora più accanitamente al suo
monumento... L'Abisso. Perché, se gli umani potevano spaventarsi per la
guerra, l'umanità intera poteva spaventarsi per L'Abisso.
E quelli che aveva conosciuto, che erano stati colpiti dalla guerra e
odiavano ancora l'ex nemico - coloro che sarebbero stati felici di
ricominciare a uccidere ancora, considerando che il rischio vitale ne valeva
la pena - lui li considerava pazzi, e li dimenticava.
Quindi non poteva sopportare un'altra frustrazione. Era il centro del
proprio universo, e se ne rendeva conto spaventosamente, e doveva
giustificare la sua posizione. Era un umanitario, un filantropo nel senso più
autentico. Probabilmente era pazzo come qualunque altro uomo che, con i
suoi sforzi, ha mosso il mondo.
Per la prima volta, quindi, fu lieto quando Jack Roway arrivò con la
vecchia decapottabile scassata, sebbene si spaventasse terribilmente al
rombo del motore davanti alla finestra del suo laboratorio. Di solito, la sua
reazione all'arrivo di Jack era un insieme d'irritazione e di gratificazione,
perché era una faccenda seria arrivare fin là. L'irritazione non era dovuta
all'interruzione, perché Jack non dava certo disturbo. Grenfell sospettava
che Jack venisse a trovarlo un po' per togliersi dalla bocca il sapore della
città, ed un po' per potersi considerare superiore a qualcuno che
considerava importante.
Ma la crescente paura di venire scoperto, e la corsa per completare la sua
opera prima che gli venisse sottratta dall'isterismo del pubblico, aveva
l'effetto insolito di farlo sentire solo. Per un uomo come Grenfell sentirsi
solo era straordinario; perché nella sua vita quotidiana c'erano troppe cose
da fare. Non c'erano mai abbastanza ore in un giorno o in una settimana,
per lui, e si risentiva delle pause del sonno, che considerava uno spreco
colpevole.
«Roway!» balbettò, spalancando la porta; il suo tono era così caldo che
Roway inarcò le sopracciglia per lo stupore. «Che cosa ti ha trascinato fin
qui?»
«Niente in particolare,» disse lo scrittore, mentre si stringevano la mano.
«Niente più del solito, che è già parecchio. Come va?»
«Ho quasi finito.» Entrarono, e mentre la porta si chiudeva, Grenfell si
girò verso Jack. «Ho finito da tanto tempo che quasi mi vergogno di me
stesso,» disse, assorto.
«Ah! Un'ardente confessione a quest'ora del giorno! Di che cosa stai
parlando?»
«Oh, ci sono state varie cose da fare,» rispose Grenfell, irrequieto. «Ma
potrei procedere con la... con la cosa più grande, quasi da un momento
all'altro.»
«Tu odii l'idea di aver finito. Non avevi mai visualizzato cosa avresti
provato quando avessi finito.» I denti di Roway balenarono. «Sai, non ti ho
mai sentito dire quali sono i tuoi progetti, dopo il grosso bum. Hai
intenzione di nasconderti?»
«Io... non ci ho pensato molto. Avevo la vaga idea di trasmettere un
avvertimento ed una spiegazione prima di dare l'avvio all'esplosione.
Tuttavia ho deciso di non farne niente. Innanzi tutto, verrei fermato dopo
pochi minuti, per quanto fossi prudente con la trasmissione. In secondo
luogo... beh, sarà una cosa tanto grande che non avrà bisogno di
spiegazioni.»
«Nessuno saprà chi è stato, né perché è stato fatto.»
«È necessario?» chiese sottovoce Grenfell.
Il viso mobile di Jack si contrasse, mentre visualizzava l'Abisso che
riversava il suo inferno per diecimila anni. «Forse no,» disse. «Ma non è
necessario per te?»
«Per me?» Chiese Grenfell, sorpreso. «Vuoi dire, se ci tengo che il
mondo sappia o no che sono stato io? No: naturalmente non ci tengo. Si
presenta una catena di circostanze, che si è prodotta per mio tramite. Porta
direttamente all'Abisso: l'Abisso farà tutto quanto sarà necessario, a partire
da quel momento. Io non c'entro più.»
Jack si mosse, rumorosamente, intorno al lavello nell'angolo del
laboratorio. «Dov'è finito tutto il tuo caffè? Oh... eccolo. Uh... ero curioso
di conoscere i motivi personali del tuo lavoro. Credo che questa sia una
risposta sufficiente. E penso, anche, che tu creda in quel che stai dicendo.
Sai che gli individui che fanno qualcosa per motivi impersonali sono rari
quanto il pelo sui pesci?»
«Non ci avevo pensato.»
«Credo anche questo. Zucchero? E latte. Lo ricordo. Hai ascoltato la
radio?»
«Sì. Sono... un po' sconvolto, Jack,» fece Grenfell, prendendo la tazza.
«Non so calcolare il momento migliore per questo. Io sono un tecnico, non
un Machiavelli.»
«Sei un visionario, come ho detto. Non sai se lancerai questo tuo
gingillo nella storia del mondo troppo presto o troppo tardi... è così?»
«Esattamente. Jack, il mondo intero sembra impazzire. Persino le bombe
a fissione sono troppo grandi perché l'umanità possa maneggiarle.»
«Che altro puoi aspettarti,» fece cupamente Jack, «quando i nostri cari
amici d'oltreoceano stanno seduti davanti ai loro pulsanti, in attesa di un
pretesto per premerli?»
«E anche noi abbiamo i nostri pulsanti, naturalmente.»
Jack Roway ribatté: «Dobbiamo difenderci.»
«Stai scherzando?»
Roway lo guardò, e le sue sopracciglia scure disegnarono una V. «Non
su questo. Scherzo molto di rado, su qualunque cosa, e soprattutto non su
questo.» E rabbrividì.
Grenfell lo fissò sbalordito e poi cominciò a ridacchiare. «Adesso,»
notò, «ho proprio visto tutto. Il mio amico iconoclasta Jack Roway,
travolto da... da una moda. Un passatempo nazionale, alimentato
dall'incertezza e dal giornalismo allarmistico... la paura del nemico.»
«Il nostro paese non è in guerra.»
«Vuoi dire che non abbiamo un nemico? Stai dicendo che quei signori
d'oltreoceano, con le dita che prudono a pochi centimetri dai pulsanti, non
sono nostri nemici?»
«Beh...»
Grenfell attraversò la stanza, avvicinandosi all'amico, e gli posò la mano
sulla spalla. «Jack... cosa succede? Non puoi essere tanto turbato dalle
notizie... proprio tu!»
Roway guardò fuori, verso il sole bronzeo, e scosse lentamente il capo.
«L'equilibrio internazionale è troppo delicato,» disse sommessamente, e la
sua voce ardeva come i suoi occhi. «Vedo le nazioni del mondo come
masse bilanciate sulla rispettiva punta matematica, ognuno con il suo
centro di gravità direttamente al di sopra. Ma le masse sono fluide, e si
allontanano violentemente dalle linee centrali. Le tendenze opposte non si
equivalgono, non possono annullarsi reciprocamente; la messa in fase è
troppo lenta. L'una o l'altra si rovescerà, e allora salterà in aria tutto.»
«Ma questo lo sai da molto tempo. L'hai sempre saputo, dopo
Hiroshima. Forse anche da prima. Perché dovrebbe spaventarti proprio
adesso?»
«Non credevo che sarebbe accaduto tanto presto.»
«Oh-oh! Dunque è questo! Ti sei reso improvvisamente conto che
l'esplosione avverrà durante la tua vita. Uhm? E non lo sopporti. Sei
capace di tutte le tue soddisfacenti razionalizzazioni estetiche finché riesci
a tenere a distanza la realtà!»
«Fiuu!» fece Roway: il suo insopprimibile umorismo gli passò
abbastanza vicino per rivolgergli un cenno. «Parla più semplicemente,
Grenfell! Serba i tuoi... i tuoi polisillabili sesquipedali per una relazione
scientifica.»
«Touché!» Grenfell sorrise. «Sai, Jack, mi ricordi certi miei amici d'un
tempo che scrivono fantascienza. Erano vissuti vicinissimi all'energia
atomica per molto tempo... anni prima dell'uomo della strada... e del
politicante medio, anzi... sapevano distinguere un atomo da un carciofo.
L'energia atomica era ben nota a quei mercanti di parole specializzate
perché dava loro una fonte illimitata d'energia come sfondo di una fonte
illimitata di materiale. Ai tempi del Progetto Manhattan, molti di loro
sospettavano quello che stava succedendo, alcuni sapevano... alcuni,
addirittura, ci lavoravano. Erano tutti consapevoli delle potenzialità
terribili dell'energia nucleare. E tutti, praticamente, erano spaventati a
morte da quell'idea. Avevano paura per l'umanità, ma non avevano paura
personalmente, se non in un modo delizioso, da salotto, perché non
riuscivano a concepire questo evento alla Buck Rogers se non come
qualcosa che sarebbe accaduto ai posteri. Ma è accaduto, e durante la loro
vita.
«E che mi venga un colpo se tu non stai facendo lo stesso. Per te è stata
una scossa comprendere la sorte che attende l'umanità in una guerra
atomica. L'hai trasceso, consciamente, giudicandolo inevitabile, e nel
frattempo, raccogliamo le rose prima che cominci a piovere. Pensavi che
saresti arrivato a casa - che saresti morto - prima che cadessero le prime
gocce. Adesso il progresso sociale ha accumulato nubi temporalesche e tu
ti trovi ad un chilometro da casa, con i calzoni stazzonati e senza ombrello.
E hai paura!»
Roway fissò il pavimento e disse: «È così presto. È così presto.» Alzò
gli occhi verso Grenfell: i suoi zigomi sembravano troppo sporgenti.
Trasse un profondo respiro. «Tu... tu puoi farla finita, Grenfell.»
«Finita con che cosa?»
«La guerra... la... questa cosa che ci sta capitando. L'esplosione che verrà
quando le tensioni saranno troppo forti, nella situazione internazionale. E
bisogna impedirlo!»
«È per questo che serve l'Abisso.»
«L'Abisso!» disse sprezzante Roway. «Ti ho già dato del visionario,
Grenfell, devi essere più pratico! L'umanità non imparerà niente
dall'esempio. Bisogna prenderla a calci e tagliuzzarla. Chirurgia.»
Grenfell socchiuse gli occhi. «Chirurgia? Quello che hai detto un
momento fa sulle mie intenzioni... intendi veramente quello che penso io?»
«Non capisci?» disse Jack, incalzante. «Quello che hai qui... l'energia
distruttiva totale... il culmine dell'energia atomica. Uno o due esempi come
questi, nei posti giusti, e possiamo fermare chiunque.»
«Questa non è un'arma. Non l'ho creata perché fosse un'arma.»
«Neppure la prima pietra scagliata da un uomo preistorico era fatta per
essere un'arma. Ma era a portata di mano ed era efficace, e venne usata
sicuramente perché doveva essere usata.» Alzò improvvisamente le mani
in un gesto disperato. «Tu non capisci. Non ti rendi conto che il nostro
paese verrà probabilmente aggredito da un istante all'altro... che la
diplomazia è ormai impotente, e tutto il mondo aspetta soltanto che
incominci? Probabilmente è troppo tardi già adesso... ma è il meno che
possiamo fare.»
«E che cosa, specificamente, è il meno che possiamo fare?»
«Consegnare la tua creazione al Ministero della Guerra. In poche ore il
governo potrà spedirla dove sarà più utile.» Si passò il dito sulla gola.
«Dovunque vogliamo, oltreoceano.»
Vi fu un silenzio teso. Roway guardò l'orologio e si umettò le labbra.
Finalmente Grenfell disse: «Consegnarla al governo. Usarla come arma... e
perché? Per evitare la guerra?»
«Certo!» proruppe Roway. «Mostrare al resto del mondo che il nostro
modo di vivere... spaventare a morte i... i...»
«Finiscila!» ruggì Grenfell. «Niente da fare. Tu pensi... speri... che il
ricorso alla disintegrazione totale come arma escluderà l'inevitabile...
almeno durante la tua vita. No?»
«No. Io...»
«No?»
«Beh. Io...»
«Hai altre poesie zoppicanti da scrivere,» disse Grenfell, in tono
bruciante. «Hai altre bionde da corteggiare. Vuoi andare ancora un po' in
estasi davanti ad altre fughe di Bach.»
Jack Roway disse: «Nessuno sa dove potrebbe cadere la prima bomba.
Potrebbe essere dappertutto. Non esiste un posto dove io... dove noi
possiamo andare per metterci al sicuro.» Stava tremando.
«La gente, in città, trema così?» chiese Grenfell.
«Disordini,» mormorò Roway, con gli occhi accesi dal panico. «La radio
non parla dei disordini.»
«È per questo che sei venuto qui oggi... per cercare di convincermi a
consegnare la disintegrazione integrale ad un governo?»
Jack lo guardò con aria colpevole. «Era l'unica cosa da fare. Non so se la
tua bomba basterà, ma bisogna tentare. È la sola cosa che ci resta. Bisogna
essere pronti a colpire per primi, e più duramente di chiunque altro.»
«No.» Il monosillabo di Grenfell era assolutamente incrollabile.
«Grenfell... pensavo di riuscire a convincerti. Non vederla così. Devi
farlo. Ti prego, fallo. Ti prego, Grenfell.» Si alzò lentamente.
«Devo farlo... o che cosa? Stammi lontano!»
«No... Io...» Roway s'irrigidì all'improvviso, ascoltando. Lontano,
dall'alto e dal Nord, giunse il ronzio delle pale rotanti. Le labbra di Roway,
rese flaccide dalla paura, si contrassero in un sogghigno, e con due passi
incredibilmente rapidi si accostò a Grenfell. Afferrò lo scienziato per la
camicia e lo sollevò dal pavimento.
«Non azzardarti a far niente,» sibilò. Poi non vi fu altro suono che il loro
respiro concitato, fino a quando Grenfell disse, stancamente. «C'era uno
chiamato Giuda...»
«Non puoi insultarmi,» disse Roway, con una sfumatura della sua
vecchia baldanza. «E ti stai lusingando.»
Un elicottero scese nella sua ruggente nube di polvere davanti
all'edificio. Alcuni uomini ne balzarono fuori e varcarono la soglia. Erano
tre. Non erano in uniforme.
«Dottor Grenfell,» disse Jack Roway, senza lasciare la presa, «voglio
presentarti...»
«Lasci perdere,» disse il più alto dei tre, in tono secco. «Lei è Roway?
Uhm. Dottor Grenfell, mi risulta che lei abbia qui un ordigno nucleare.»
«Perché sei venuto?» chiese sottovoce Grenfell a Roway. «Perché non ti
sei limitato a mandare questi gorilla?»
«Per te, anche se ti sembrerà strano. Speravo di riuscire a convincerti a
consegnare volontariamente l'ordigno. Sai cosa accadrà se ti opporrai?»
«Lo so.» Grenfell sporse le labbra per un momento, e poi si rivolse
all'uomo più alto. «Sì, ho qui qualcosa del genere. Disintegrazione atomica
totale. È questo che sta cercando?»
«Dov'è?»
«Qui, nel laboratorio, e poi c'è la pila nell'altro edificio. Troverà...»
Esitò. «Troverà due campioni del concentrato. Uno è là...» Indicò una
cassetta di piombo su uno scaffale, dietro uno dei banchi. «E ce n'è un altro
in una cassetta eguale nel capanno dietro l'edificio della pila.»
Roway sospirò e lasciò andare Grenfell. «Bravo. Sapevo che saresti stato
ragionevole.»
«Sì,» fece Grenfell. «Sì...»
«Vai a prenderlo,» disse l'uomo alto: uno degli altri si mosse.
«Ci vorranno due uomini per portarlo,» disse Grenfell, con voce turbata.
Aveva le labbra sbiancate.
L'uomo alto estrasse una pistola, impugnandola pigramente. Fece un
cenno al secondo uomo. «Vai a prenderlo. Portalo qui, e li metteremo
insieme e li trascineremo all'elicottero. Sbrigati.»
I due uomini si avviarono verso il capanno.
«Jack?»
«Si, Doc.»
«Credi davvero che l'umanità possa spaventarsi?»
«Sì... adesso. Quella cosa si può usare nel modo giusto.»
«Lo spero. Oh, lo spero tanto,» mormorò Grenfell.
Gli uomini ritornarono. «Sul banco,» fece il capo, indicando la cassetta
portata dai due.
Mentre salivano sul banco e mettevano le mani sulla seconda cassetta,
per tirarla giù dallo scaffale, Jack Roway vide che il volto di Grenfell era
madido di sudore, ed un orrore improvviso l'invase.
«Grenfell!» disse con voce rauca. «È...»
«Certo,» mormorò Grenfell. «Massa critica.»
Poi esplose.
Fu come a Hiroshima, ma molto più in grande. Eppure, quell'esplosione
non creò l'Abisso. Fu la pila a crearlo... la griglia di alluminio-boro che
Grenfell aveva così faticosamente messo insieme nel corso degli anni, con
i pezzi rimediati clandestinamente. Proprio lì, nel cuore dell'esplosione
causata dalla fissione, la disintegrazione totale si operò nella pila, perché la
sua funzione era quella. Fu però lenta. Occorse più di un'ora perché la sua
attività infernale raggiungesse il culmine, e nel frattempo un enorme
cratere s'era aperto nella terra, una massa ribollente e traboccante di
elementi volatilizzati, radiazioni grezze e gas incandescenti. Era...
L'Abisso. La curva della sua attività salì bruscamente... giungendo al
culmine in un'ora e in otto minuti, e poi vi fu un graduale rallentamento,
mentre cercava di alimentarsi estendendosi, con un minore effetto di
carburazione, e mentre consumava le proprie scorie fiammeggianti nello
sforzo di raggiungere l'attività. La pioggia avrebbe contribuito a soffocarlo,
per l'energia perduta nel volatilizzare le gocce; e ognuno dei molti elementi
passò alla rispettiva attività secondaria, e incominciò il proprio periodo di
decadenza. La cessazione dell'attività dell'Abisso avrebbe richiesto tra gli
otto ed i novemila anni.
E come quella di Hiroshima, l'esplosione ebbe effetti che passarono alla
storia e nei cuori degli uomini, in luoghi lontanissimi nel tempo del
cataclisma.
Avvenne questo.
Non fu possibile nascondere l'esplosione, e c'era troppo isterismo in giro
perché si avesse qualche conferma. Era molto più facile pubblicare titoli
che annunciavano: Ci hanno attaccati. Vi fu un'immeditata, atterrita
richiesta di rappresaglie, ed il governo acconsentì, perché quelle
«rappresaglie» andavano bene per la politica di certi personaggi che
potevano disporre dei poteri d'emergenza. E così scoppiò la prima guerra
atomica.
E la seconda.
Dopo non ci furono altre guerre atomiche. La guerra dei mutanti fu una
cosa barbara, ed i mutanti sconfissero i resti laceri e quasi del tutto sterili
dell'umanità, perché i mutanti erano forti. E poi i mutanti si estinsero
perché erano inadatti a vivere. Per qualche tempo vi fu materiale molto
interessante da studiare sugli effetti delle radiazioni sull'ereditarietà: ma
non c'era nessuno che potesse studiarlo.
Erano rimasti alcuni umani. I ratti li uccisero quasi tutti, dopo essersi
riprodotti in numero sterminato; e vi furono tre epidemie.
Poi vi furono soltanto esseri nudi e curvi, la cui eredità distorta si poteva
far risalire all'umanità; ma costoro potevano spaventarsi, sia come
individui che come razza, e quindi non potevano progredire. Certamente
non erano umani.

L'Abisso, nell'anno 5000 d.C, era cambiato poco nel corso dei secoli.
Era ancora un atroce monumento all'uso sbagliato di un grande potere; e
per questa ragione, la guerra organizzata era stata dimenticata. Per
questa ragione, il mondo era libero dal fumo e dal sudiciume
dell'industria. Il sibilo e lo schianto delle bombe e il ritmo soporifico dei
piedi in marcia non si udivano mai, e finalmente la Terra era in pace.
Avvicinarsi all'Abisso era una morte lenta e certa, ed era rispettato e
temuto, e lo sarebbe stato ancora per molti secoli. Di notte ammiccava e
lampeggiava rosso, ed era circondato da un tratto nudo e dissestato che si
estendeva fino all'orizzonte; e intorno balenava una spettrale luce
azzurra. Nulla vi viveva. Nulla vi poteva vivere.
Con un simile monumento alla guerra poteva esserci soltanto la pace.
La Terra non avrebbe mai potuto dimenticare l'orrore che una guerra
poteva scatenare.
Quello era il sogno di Grenfell.

Titolo originale:
Memorial
(Astounding Science Fiction, aprile 1946).

1947: «Fantasy»

Arthur C. Clarke
I Fuochi dell'Abisso

Clarke è uno dei pochi autori fantascientifici, insieme a Bradbury,


Asimov e Wyndham, che sono noti a tutti. La sua reputazione è stata
esaltata soprattutto dal successo dello spettacolare film 2001: A Space
Odyssey basato in parte dal suo racconto Sentinel of Eternity (Ten Stories
Fantasy, primavera 1951).
Arthur Charles Clarke è nato nella pensione di sua nonna a Minehead,
nel Somerset, domenica 16 dicembre 1917. Dopo aver frequentato una
scuola a Taunton, passò a lavorare alle dipendenze dello Stato. Era stato
affascinato fin dall'infanzia dalla scienza e dalla fantascienza, quindi non
fu sorprendente che entrasse a far parte, nel 1934, della British
Interplanetary Society, appena fondata. Gli uffici della BIS, che prima
erano a Liverpool, nel 1936 furono trasferiti a Londra, e poiché Clarke
lavorava nella capitale, divenne tesoriere della Società, di cui era un
membro molto attivo. Questo lo portò in contatto con molti che erano, o
sarebbero diventati, nomi illustri della scienza e della fantascienza, e con
il fandom. Cominciò a scrivere per le varie riviste dilettantistiche, e
quando Walter Gillings realizzò la pubblicazione della prima vera rivista
britannica specializzata, Tales of Wonder, furono pubblicati gli articoli
scientifici di Clarke.
L'inizio della carriera di Clarke verrà raccontato nel saggio finale.
Come Asimov, il desiderio di diventare scienziato e quello di essere uno
scrittore di fantascienza erano in concorrenza, tuttavia Clarke è riuscito
ammirevolmente in entrambe le carriere. Nel 1954, si trasferì a Ceylon,
dove s'impegnò in vari progetti di ricerche subacquee, e nel 1962 vinse il
Premio Kalinga per la divulgazione scientifica. Un elenco dei suoi libri di
science fiction sembra il catalogo di una biblioteca base per ogni lettore:
Prelude to Space, The City and the Stars, Earthlight, The Sands of Mars,
Childhood's End, A Fall of Moondust, Rendezvous With Rama e, più
recentemente, Imperial Earth, un romanzo sul quale aveva lavorato fin dal
1956.
Ma poiché siamo nel 1947, tutto ciò appartiene al futuro. Clarke era
all'inizio della sua grandiosa carriera, e nel terzo ed ultimo numero della
Fantasy di Walter Gillings, nascosto sotto lo pseudonimo di E.G. O'Brien,
c'era un primo esempio del talento embrionale di Clarke, The Fires
Within.

«Questo,» disse soddisfatto Karn, «t'interesserà. Dai un'occhiata!»


Spinse verso di me il fascicolo che stava leggendo, e per l'ennesima
volta decisi di chiedere il suo trasferimento o, se proprio era impossibile,
almeno il mio.
«Che cos'è?» chiesi stancamente.
«È un lungo rapporto di un certo dottor Matthew al Ministro della
Scienza.» L'agitò sotto i miei occhi. «Leggilo!»
Senza molto entusiasmo, cominciai a leggere il fascicolo. Dopo pochi
minuti alzai la testa e ammisi, controvoglia: «Forse hai ragione... questa
volta.» Non parlai più fino a quando ebbi finito...

Mio caro Ministro (incominciava la lettera). Come lei ha richiesto, ecco


il mio rapporto speciale sugli esperimenti del professor Hancock, che
hanno avuto risultati così inaspettati e straordinari. Non ho avuto il tempo
di dargli una forma più ortodossa, ma le mando la trascrizione così com'è.
Poiché lei è molto preso da altre cose che richiedono la sua attenzione,
forse sarà bene che riassuma brevemente i nostri rapporti con il professor
Hancock. Fino al 1955, il professore deteneva la cattedra d'Ingegneria
Elettrica alla Brendon University, e in quell'anno ottenne un'aspettativa per
un periodo indefinito, per svolgere le sue ricerche. Ad esse partecipò anche
il compianto dottor Clayton, già capo geologo del Ministero del
Combustibile e dell'Energia. La ricerca congiunta venne finanziata da
stanziamenti del Paul Fund e della Royal Society.
Il professore sperava di sviluppare il sonar quale mezzo di preciso
rilevamento geologico. Il sonar, come lei sa, è l'equivalente acustico del
radar e, per quanto sia meno noto, è più vecchio di alcuni milioni di anni,
poiché i pipistrelli lo usano con molta efficienza per scoprire gli insetti e
gli ostacoli durante i loro voli notturni. Il professor Hancock intendeva
irradiare impulsi supersonici ad alta potenza nel terreno, e ricavare dagli
echi un'immagine di quello che c'era sotto. Il rilevamento sarebbe stato
trasferito su un tubo catodico, e l'intero sistema sarebbe stato esattamente
analogo al tipo di radar usato in aeronautica per «vedere» il suolo
attraverso le nubi.
Nel 1957 i due scienziati avevano ottenuto un successo parziale, ma
avevano esaurito i fondi. All'inizio del 1958 si rivolsero direttamente al
governo per chiedere uno stanziamento. Il dottor Clayton fece osservare
l'immenso valore di uno strumento che ci avrebbe permésso di effettuare
una specie di radiografia della crosta terrestre, e il Ministro del
Combustibile diede la sua approvazione, prima di passare a noi la
domanda. A quell'epoca era stata appena pubblicata la relazione della
Commissione Bernal, e noi ci facevamo premura di risolvere con
prontezza i casi meritevoli per evitare ulteriori critiche. Mi recai subito a
trovare il professore e presentai una relazione favorevole; il primo
pagamento del nostro stanziamento (S/543A/68) venne effettuato pochi
giorni dopo. Da quel momento sono stato continuamente in contatto con la
ricerca e ho collaborato in qualche misura con consigli tecnici.
L'apparecchiatura usata negli esperimenti è complessa, ma i principi
sono semplici. Impulsi molto brevi ma potentissimi di onde supersoniche
vengono generati da una trasmittente speciale che ruota continuamente
immersa in un liquido organico pesante. Il raggio così prodotto passa
attraverso il suolo ed «esplora» come un radar, cercando echi. Mediante un
ingegnoso circuito che non starò a descrivere, gli echi provenienti da
qualunque profondità possono venire selezionati, in modo che
un'immagine degli strati in esame possa essere proiettata in modo normale
su uno schermo catodico.
Quando incontrai per la prima volta il professor Hancock il suo
apparecchio era piuttosto primitivo; tuttavia egli riuscì a mostrarmi la
distribuzione delle rocce fino ad una profondità di parecchie decine di
metri, e potemmo vedere molto chiaramente una parte della Linea di
Bakerloo che passava vicinissima al laboratorio. Il successo del professore
era dovuto, in parte, alla grande intensità delle onde supersoniche; fin
quasi dall'inizio era stato in grado di generare potenze massime di
parecchie centinaia di kilowatt, irradiate quasi tutte nel suolo. Era
pericoloso restare vicini all'emittente, e io notai che tutto intorno il terreno
diventava caldissimo. Ero piuttosto sorpreso di vedere uccelli in gran
numero nelle vicinanze, ma presto scoprii che erano attratti dalle centinaia
di vermi morti nel terreno.
Al tempo della morte del dottor Clayton, nel 1960, l'apparecchio
funzionava ad una potenza di oltre un megawatt, e si potevano ottenere
buone immagini di strati alla profondità di oltre un chilometro e mezzo. Il
dottor Clayton aveva correlato i risultati ai rilevamenti geografici
conosciuti, e aveva dimostrato senz'ombra di dubbio il valore delle
informazioni ottenute.
La morte del dottor Clayton in un incidente automobilistico fu una
grande tragedia. Aveva sempre esercitato un'influenza equilibratrice sul
professor Hancock, che non si era mai interessato molto delle applicazioni
pratiche del suo lavoro. Poco dopo, notai un netto cambiamento nella
mentalità del professore, e qualche mese dopo mi confidò le sue nuove
ambizioni. Avevo cercato d'indurlo a pubblicare i risultati (aveva già speso
più di 50.000 sterline e la Commissione del Bilancio stava di nuovo
facendo difficoltà), ma lui mi chiese ancora un po' di tempo. Credo sia
meglio spiegarne l'atteggiamento usando le sue stesse parole, che ricordo
molto chiaramente, perché erano espresse con particolare enfasi.
«Si è mai chiesto,» mi disse, «com'è veramente la Terra, dentro? Con le
miniere e i pozzi, noi abbiamo appena scalfito la superficie. Quello che sta
sotto è sconosciuto come l'altra faccia della Luna.»
«Sappiamo che la Terra è eccezionalmente densa... molto di più di
quanto indicherebbero le rocce e il suolo della crosta. Il nucleo può essere
metallo, ma fino ad ora è stato impossibile accertarlo. Già a quindici
chilometri di profondità la pressione deve essere di dieci tonnellate o più
per centimetro quadrato, e la temperatura deve essere di parecchie
centinaia di gradi. La situazione al centro è inimmaginabile: la pressione
deve essere di migliaia di tonnellate per centimetro quadrato. È strano
pensare che fra due o tre anni raggiungeremo forse la Luna; ma anche
quando saremo arrivati alle stelle, non ci saremo avvicinati ancora
all'inferno che si trova seimila chilometri sotto di noi.
«Ora riesco a ottenere echi riconoscibili da una profondità di tre
chilometri, ma spero di portare l'emittente a dieci megawatt entro pochi
mesi. Con una simile potenza, credo che la portata raggiungerà i quindici
chilometri: e non ho intenzione di fermarmi.»
Ero molto interessato, ma nello stesso tempo un po' scettico.
«Molto bene,» dissi. «Ma senza dubbio, più scende in profondità e meno
ci sarà da vedere. La pressione renderà impossibile l'esistenza di cavità, e
dopo qualche chilometro ci sarà semplicemente una massa omogenea
sempre più densa.»
«È assai probabile,» ammise il professore. «Ma posso comunque
imparare molte cose dalle caratteristiche della trasmissione. Comunque,
vedremo quando ci saremo arrivati!»
Questo avvenne quattro mesi fa. E ieri ho visto il risultato della ricerca.
Quando ho risposto al suo invito, il professore era molto agitato, ma non
mi ha detto nulla di ciò che aveva scoperto. Mi ha mostrato il suo
apparecchio perfezionato, ed ha estratto la nuova ricevente dal suo bagno.
La sensibilità era stata migliorata di parecchio, e già questo bastava a
raddoppiare la portata, indipendentemente dall'aumento della potenza
d'emissione. Era strano guardare la struttura d'acciaio che ruotava
lentamente e pensare che stava esplorando regioni che, nonostante la loro
vicinanza, l'uomo forse non avrebbe mai raggiunto.
Quando siamo entrati nel capannone che conteneva lo schermo, il
professore era stranamente silenzioso. Ha acceso l'emittente, e sebbene
fosse ad un centinaio di metri, ho avvertito uno spiacevole formicolio. Poi
il tubo catodico si è illuminato ed è apparsa l'immagine che avevo già visto
tante volte. Ora, però, la definizione era molto migliorata grazie alla
maggiore potenza e sensibilità dell'apparecchio. Ho regolato il comando
della profondità e ho messo a fuoco la Metropolitana, che era chiaramente
visibile come una fascia scura attraverso lo schermo lievemente luminoso.
Mentre osservavo, all'improvviso è sembrato riempirsi di nebbia, e ho
capito che stava passando un convoglio.
Poi ho continuato la discesa. Sebbene avessi visto quelle immagini
molte altre volte, era sempre strano osservare grandi masse luminose che
salivano fluttuando verso di me e sapere che erano rocce sepolte... forse i
detriti dei ghiacci di cinquantamila anni fa. Il dottor Clayton aveva
preparato un diagramma, in modo che potessimo identificare i vari strati, e
dopo un po' ho visto che avevo superato il terreno alluvionale e stavo
entrando nella grande conca d'argilla che racchiude le acque artesiane della
città. Ben presto anche questa è passata, e io stavo scendendo attraverso lo
strato di roccia, circa oltre un chilometro e mezzo sotto la superficie.
L'immagine era ancora nitida e luminosa, anche se c'era poco da vedere,
perché ormai c'erano pochi cambiamenti nella struttura del suolo. La
pressione stava già salendo a mille atmosfere; presto sarebbe stato
impossibile trovare cavità, perché la stessa roccia avrebbe incominciato a
diventare lucida. Io scendevo, un chilometro dopo l'altro, ma sullo
schermo appariva solo una nebbia pallida, rotta talvolta dagli echi di
sacche o vene di materiale più denso. Queste sono diventate sempre meno
numerose con l'aumento della profondità... o forse erano ormai così
piccole che era impossibile vederle.
La scala dell'immagine, naturalmente, continuava ad espandersi. Ormai
era parecchi chilometri da una parte all'altra, e io mi sentivo come un
aviatore che guarda una distesa ininterrotta di nubi da un'altezza enorme.
Per un momento mi ha preso un senso di vertigine, mentre pensavo
all'abisso che stavo osservando. Non credo che il mondo potrà mai più
sembrarmi solido.
Alla profondità di circa quindici chilometri mi sono fermato e ho
guardato il professore. Da un po' di tempo non c'erano state alterazioni, e
sapevo che ormai la roccia doveva essere compressa in una massa
omogenea. Ho eseguito un rapido calcolo mentale, rabbrividendo quando
mi sono reso conto che la pressione doveva essere almeno dieci tonnellate
per centimetro quadrato. Il rilevatore ruotava molto lentamente, adesso,
perché gli echi impiegavano molti secondi per risalire dal profondo.
«Bene, professore,» ho detto, «mi congratulo con lei. È un risultato
meraviglioso. Ma sembra che adesso siamo arrivati al nucleo. Immagino
che non ci saranno altri cambiamenti da qui al centro.»
Lui ha sorriso, un po' ironicamente. «Continui,» ha detto. «Non ha
ancora finito.»
Nel suo tono c'era qualcosa che mi ha sconcertato e allarmato. L'ho
fissato per un momento: il suo volto era appena visibile nella luce
verdazzurra del tubo catodico.
«Fin dove può arrivare il sondaggio?» ho chiesto, riprendendo la discesa
interminabile.
«Ventidue chilometri», ha risposto lui, laconicamente. Mi sono chiesto
come lo sapeva, perché l'ultimo elemento riconoscibile che avevo visto
chiaramente era a una profondità di soli dodici chilometri. Ma ho
continuato la lunga discesa attraverso la roccia, mentre il rilevatore girava
sempre più lentamente, fino a quando ha impiegato cinque minuti per
compiere una rivoluzione. Sentivo, dietro di me, il professore che
respirava pesantemente, ed a un certo punto ho sentito la spalliera della
mia sedia scricchiolare, quando lui l'ha stretta convulsamente.
Poi, all'improvviso, segni vaghissimi hanno cominciato a riapparire sullo
schermo. Mi sono teso in avanti, chiedendomi se quello era il primo
accenno del nucleo di ferro del mondo. Con tormentosa lentezza, il
rilevatore ha girato prima ad angolo retto, poi ancora. E poi...
All'improvviso, sono balzato dalla sedia, ho gridato «Mio Dio!» e mi
sono girato verso il professore. Solo un'altra volta, in vita mia, avevo
subito un simile trauma intellettuale... quindici anni fa, quando accesi per
caso la radio e sentii l'annuncio del lancio della prima bomba atomica.
Quello era stato inaspettato, ma questo era inconcepibile. Sullo schermo,
infatti, era apparsa una griglia di linee sottili, che s'incrociavano e si
reincrociavano formando un disegno perfettamente simmetrico.
So che per molti minuti non ho detto nulla, perché il rivelatore ha
compiuto una rivoluzione completa mentre io restavo lì, impietrito dallo
stupore. Poi il professore ha parlato con voce sommessa, innaturalmente
calma.
«Volevo che lo vedesse con i suoi occhi, prima di parlargliene.
L'immagine, adesso, ha un diametro di quarantacinque chilometri e quei
riquadri hanno lati di tre o quattro chilometri. Noterà che le linee verticali
convergono, e quelle orizzontali formano archi. Stiamo osservando una
struttura enorme di cerchi concentrici; il centro deve trovarsi molti
chilometri a Nord, probabilmente nella regione di Cambridge. Non so fin
dove si estenda nell'altra direzione.»
«Ma cosa è, santo cielo?»
«Beh, è chiaramente artificiale.»
«È ridicolo! È alla profondità di ventidue chilometri!»
Il professore ha indicato di nuovo lo schermo. «Dio sa che ho fatto del
mio meglio,» ha detto. «Ma non riesco a convincermi che la Natura possa
aver prodotto qualcosa di simile.»
Io non ho saputo che dire, e poco dopo lui ha proseguito: «L'ho scoperto
tre giorni fa, mentre cercavo di accertare la portata massima
dell'apparecchio. Posso scendere a profondità maggiori, e credo che la
struttura che vediamo sia così densa da non trasmettere più le mie
radiazioni.»
«Ho provato una dozzina di teorie, ma finisco per tornare ad una di esse.
Noi sappiamo che la pressione, laggiù, deve essere di otto o novemila
atmosfere, e la temperatura deve essere abbastanza elevata per fondere la
roccia. Ma la materia normale è quasi completamente spazio vuoto.
Supponga che ci sia vita laggiù... non una vita organica, naturalmente, ma
una vita basata su materia parzialmente condensata, in cui gli involucri di
elettroni sono pochi o del tutto mancanti. Capisce che cosa intendo? Per
essere simili, anche la roccia a ventidue chilometri di profondità non
offrirebbe più resistenza dell'acqua... e noi e tutto il nostro mondo
saremmo inconsistenti come spettri.»
«Allora quello che possiamo vedere...»
«È una città, o il suo equivalente. Ne ha visto le dimensioni, quindi può
giudicare lei stesso la civiltà che deve averla costruita. Il mondo che noi
conosciamo - i nostri oceani e i continenti e le montagne - non è altro che
uno strato di nebbia intorno a qualcosa d'incomprensibile.»
Per qualche istante siamo rimasti in silenzio. Ricordo di aver provato un
assurdo senso di sorpresa, pensando che ero uno dei primi uomini al
mondo ad apprendere quella verità tremenda; perché non ho mai dubitato
che fosse la verità. E mi sono chiesto in che modo avrebbe reagito alla
rivelazione il resto dell'umanità.
Poi ho rotto il silenzio. «Se ha ragione lei,» ho detto, «perché loro,
qualunque cosa siano, non hanno mai cercato di stabilire un contatto con
noi?»
Il professore mi ha guardato con aria di commiserazione. «Noi ci
riteniamo buoni ingegneri,» ha risposto. «Ma come potremmo, noi,
raggiungerli? Inoltre, non sono del tutto sicuro che non ci siano mai stati
contatti. Pensi a tutte le creature sotterranee della mitologia... gli gnomi, i
troll e i coboldi e il resto. No, è impossibile... ritiro quello che ho detto.
Comunque, è un'idea suggestiva.»
Intanto, l'immagine sullo schermo non era cambiata: vi brillava ancora
quella rete indistinta, sfidando la nostra ragione. Ho cercato d'immaginare
le strade e gli edifici e gli esseri che vi si aggiravano, esseri che potevano
muoversi nella roccia incandescente come pesci nell'acqua. Era
fantastico... e poi ho ricordato la gamma estremamente limitata delle
temperature e delle pressioni in cui esiste la razza umana. Noi, non loro,
eravamo anomali, perché quasi tutta la materia dell'universo ha
temperature di migliaia o addirittura di milioni di gradi.
«Ebbene», ho detto, incerto, «e adesso cosa facciamo?»
Il professore si è teso verso di me. «Innanzi tutto dobbiamo scoprire
molto di più, e dobbiamo mantenere il segreto assoluto fino a quando
saremo completamente sicuri. Immagini il panico se questo si risapesse?
Naturalmente, la verità sarà inevitabile, prima o poi, ma forse riusciremo a
rivelarla poco a poco.
«Comprenderà che ormai l'aspetto geologico del mio lavoro ha perso
ogni importanza. La prima cosa che dobbiamo fare è costruire una catena
di stazioni per scoprire l'ampiezza della struttura. Le prevedo a intervalli di
quindici chilometri, verso Nord, ma vorrei costruire la prima nella parte
meridionale di Londra, per scoprire quando è ampia questa... cosa. Dovrà
essere mantenuto il segreto, come per la costruzione della prima catena di
radar, verso la fine degli Anni Trenta.
«Nel contempo, aumenterò ancora la potenza della mia emittente. Spero
di poter concentrare molto di più le onde sonore, per aumentare la
condensazione dell'energia. Ma questo comporterà difficoltà tecniche
d'ogni genere, e avrò bisogno di maggiore assistenza.»
Gli ho promesso di fare tutto il possibile per assicurargli ulteriori aiuti,
ed il professore spera che lei possa presto visitare personalmente il suo
laboratorio. Accludo intanto una fotografia dello schermo, che sebbene sia
meno chiara dell'originale dimostrerà senza ombra di dubbio, mi auguro,
che le nostre osservazioni non sono errate.
Mi rendo conto che il nostro stanziamento all'Interplanetary Society ci
ha portati pericolosamente vicini a dar fondo al bilancio totale di
quest'anno, ma senza dubbio persino il volo spaziale è meno importante di
un'indagine immediata su questa scoperta che può avere gli effetti più
profondi sulla filosofia e sul futuro dell'intera razza umana.

Mi assestai sulla sedia e guardai Karn. Nel documento c'erano molte


cose che non avevo capito, ma gli elementi principali erano abbastanza
chiari.
«Sì,» dissi. «È interessante. Dov'è la fotografia?»
Karn me la passò. Non era molto nitida, perché era stata riprodotta molte
volte prima di arrivare fino a noi. Ma lo schema era inequivocabile, e lo
riconobbi immediatamente.
«Erano buoni scienziati,» dissi in tono d'ammirazione. «È Callastheon,
sicuro. Dunque abbiamo scoperto finalmente la verità, anche se abbiamo
dovuto impiegare trecento anni.»
«È tanto sorprendente,» chiese Karn, «quando consideri la montagna di
roba che abbiamo dovuto tradurre e la necessità di doverla copiare in
fretta, prima che evaporasse?»
Rimasi un po' in silenzio, pensando alla strana razza di cui stavamo
esaminando le reliquie. Una volta sola - e non l'avrei fatto mai più! - ero
salito per il grande pozzo che i nostri ingegneri avevano aperto nel Mondo
d'Ombra. Era stata un'esperienza spaventosa, indimenticabile. I molti strati
della mia tuta pressurizzata avevano reso assai difficili i movimenti, e
nonostante l'isolamento, sentivo il freddo incredibile che mi circondava.
«Che peccato,» dissi, pensieroso, «che la nostra uscita li abbia annientati
completamente. Erano una razza intelligente, e avremmo potuto imparare
molto da loro.»
«Non credo sia colpa nostra,» fece Karn. «In realtà, non avevamo mai
creduto che potesse esistere qualcosa in quelle condizioni spaventose di
quasi-vuoto e di zero quasi assoluto. Non potevamo farci nulla.»
Non ero d'accordo. «Credo che questo dimostri che erano la razza più
intelligente. Dopotutto, furono loro a scoprirci per primi. Tutti risero di
mio nonno quando disse che le radiazioni provenienti dal Mondo d'Ombra
dovevano essere artificiali.»
Karn passò uno dei tentacoli sul manoscritto.
«Abbiamo scoperto senza dubbio la causa di quelle radiazioni,» disse.
«Osserva la data... è esattamente un anno prima della scoperta di tuo
nonno. Il professore dovette ottenere lo stanziamento!» Lui rise,
sgradevolmente. «Deve essere stato un bel colpo, quando ci ha visti
arrivare alla superficie, proprio sotto di lui.»
Non ascoltai le sue parole, perché una sensazione inquietante mi aveva
invaso all'improvviso. Pensai alle decine di migliaia di chilometri di roccia
che stavano sotto la grande città di Callastheon, e diventavano sempre più
calde e più dense fino al nucleo sconosciuto della Terra. Perciò mi girai
verso Karn.
«Non è molto divertente,» dissi sottovoce. «La prossima volta potrebbe
toccare a noi.»

Titolo originale:
The Fires Within
(Fantasy, agosto 1947).

1948: «Startling Stories»

Henry Kuttner
Adesso non guardi

Cercare di riassumere la vita di uno degli autori più prolifici della


fantascienza in poche parole è come cercare di scrivere il Pater sulla
capocchia di uno spillo. Invidio quelli che ci riescono.
Kuttner era nato a Los Angeles nel 1914; ben presto diventò
appassionato di science fiction e fantasy. Il primo racconto lo vendette a
Weird Tales (marzo 1936), The Graveyard Rats: e quella rivista fu per lui
un mercato regolare per i cinque anni successivi. La passione di Kuttner
per il bizzarro gli permise di diventare collaboratore abituale di quelle
numerose riviste gialle piuttosto sadiche che prosperavano negli Anni
Trenta, come Mystery Tales e Thrilling Mystery. Thrilling Mystery era
della Standard Magazines, che stampava anche Thrilling Wonder, sul
quale venne pubblicato When the Earth Lived di Kuttner nel novembre
1937: era una vicenda affascinante, in cui raggi alieni concentrati sulla
Terra danno vita ad oggetti inanimati. In quel periodo, la produzione di
Kuttner era colossale; molti erano i racconti che tirava via solo per
guadagnare, ma quando ne aveva il tempo, la sua narrativa acquisiva
levigatezza e stile.
Nel giugno 1940 Kuttner sposò Catherine Moore, e da allora
collaborarono molto spesso. Il risultato fu elettrizzante, e con gli
pseudonimi comuni di Lewis Padgett e Lawrence O'Donnell produssero
alcuni dei migliori testi fantascientifici che si conoscano: The Twonky,
Mimsy Were the Borogoves, Fury che oggi sono tutti considerati classici.
Verso la fine degli Anni Quaranta il periodo più prolifico di Kuttner era
finito, ma i due coniugi scrivevano per Hollywood, ed i pochi racconti
prodotti in quel periodo da Kuttner sono gemme ingegnose e
perfettamente studiate. Don't Look Now è una di queste perle.
Nel 1950 i Kuttner s'iscrissero all'università e Henry conseguì la laurea
nel 1954. Stava preparando un'altra tesi quando morì d'insufficienza
coronarica acuta lunedì 3 febbraio 1958, a soli quarantatré anni. La sua
morte ha lasciato un vuoto nel firmamento della fantascienza, dove un
tempo brillava uno dei suoi talenti più scintillanti.

L'uomo con il vestito marrone si stava guardando nello specchio dietro il


bar. L'immagine sembrava interessarlo molto più del bicchiere che teneva
tra la mani. Prestava un'attenzione molto superficiale ai tentativi di
conversazione di Lyman. La cosa tirò avanti per un quarto d'ora circa,
prima che finalmente si decidesse ad alzare il bicchiere e a trangugiare un
sorso abbondante.
«Adesso non guardi,» disse Lyman.
L'uomo con il vestito marrone diede un'occhiata di sottecchi a Lyman,
inclinò di più il bicchiere e bevve un'altro sorso. I cubetti di ghiaccio
scivolarono verso la sua bocca. Rimise il bicchiere sul legno rossobruno e
fece cenno che voleva il bis. Finalmente trasse un profondo respiro e fissò
Lyman.
«Cosa non devo guardare?» chiese.
«C'era uno seduto vicino a lei,» fece Lyman, sbattendo gli occhi un po'
vitrei. «È appena uscito. Vuol dire che non è riuscito a vederlo?»
L'uomo vestito di marrone finì di pagare, prima di rispondere. «Vedere
chi?» chiese, con un magnifico insieme di noia, di disgusto e di riluttante
interesse. «Chi è uscito?»
«Che cosa le ho detto in questi ultimi dieci minuti? Non stava ad
ascoltare?»
«Certo che stavo ad ascoltare. Cioè... certo. Sta parlando di... vasche da
bagno. Radio. Orson...»
«Non Orson. H.G. Herbert George. Quello di Orson è stato solo uno
scherzo. H.G. sapeva... o sospettava. Mi domando se era soltanto
intuizione, la sua. Non poteva avere prove... però smise di scrivere
fantascienza di colpo, no? Scommetto che lo sapeva.»
«Sapeva che cosa?»
«I marziani. Se andiamo avanti così non servirà a niente: non mi sta a
sentire. E forse non servirà a niente lo stesso. Tutto consiste nel trovare la
prova. Indizi convincenti. Nessuno ha mai potuto fornire le prove, prima.
Lei è un giornalista, no?»

Stringendo il bicchiere, l'uomo dal vestito marrone annuì, riluttante.


«Allora dovrebbe stare bene a sentire. Voglio che qualcuno lo sappia. Il
mondo intero. È importante. Terribilmente importante. Spiega tutto. La
mia vita non sarà al sicuro, se non comunico le informazioni e non
convinco la gente a credere.»
«Perché la sua vita non sarà al sicuro?»
«Per via dei marziani, sciocco. Sono i padroni del mondo.»
L'uomo vestito di marrone sospirò. «Allora sono padroni anche del mio
giornale,» obiettò. «Quindi non posso pubblicare quel che loro non
approvano.»
«Non ci avevo mai pensato,» disse Lyman, studiando il fondo del suo
bicchiere, dove due cubetti di ghiaccio s'erano fusi in una fredda unione
immutabile. «Ma non sono onnipotenti. Sono sicuro che sono vulnerabili,
altrimenti perché si sarebbero sempre tenuti nascosti? Hanno paura di
venire scoperti. Se il mondo avesse prove convincenti... senta, la gente
crede sempre a quello che legge sui giornali. Lei non potrebbe...»
«Ah,» disse l'uomo vestito di marrone, in tono profondamente
significativo.
Lyman tamburellò mestamente sul banco del bar e mormorò: «Un modo
deve esserci. Forse se bevessi un altro sorso...»
L'uomo vestito di marrone assaggiò il suo Tom Collins, che sembrò
stimolarlo. «Cos'è questa storia dei marziani?» chiese a Lyman. «Cominci
dal principio e mi racconti tutto. Oppure non riesce a ricordare?»
«Certo che riesco a ricordare. Ho una memoria totale, praticamente. È
una cosa nuova. Nuovissima. Prima non c'ero mai riuscito. Posso
addirittura ricordare la mia ultima conversazione con i marziani.» Lyman
gettò un'occhiata di trionfo all'uomo vestito di marrone.
«Quando è stato?»
«Stamattina.»
«Io riesco a ricordare anche conversazioni della settimana scorsa,» disse
in tono blando l'uomo vestito di marrone. «E allora?»
«Lei non capisce. Ci fanno dimenticare, vede. Ci dicono quello che
dobbiamo fare, e dimentichiamo la conversazione... è suggestione
postipnotica, immagino: comunque, eseguiamo lo stesso i loro ordini. Oh,
sono padroni del mondo, è vero, ma non lo sa proprio nessuno, tranne
me.»
«E come l'ha scoperto?»
«Beh, mi si è confuso il cervello, in un certo senso. Ho pasticciato con i
detergenti supersonici, cercando di trovare qualcosa di vendibile, vede.
L'apparecchio non andava bene... da un certo punto di vista. Era ad onde
ad alta frequenza. E mi colpivano. Dovevano essere inudibili, ma io le
sentivo, o meglio... beh, potevo vederle. Ecco perché dico che mi si è
confuso il cervello. E da allora, ho potuto vedere e sentire i marziani. Loro
sono sintonizzati in modo da operare in modo efficiente sui cervelli
normali, ed il mio non è più normale. E non possono nemmeno
ipnotizzarmi. Possono darmi ordini, ma io non sono costretto a obbedire...
adesso. Spero che non sospettino. O forse sì. Sì, credo che sospettino.»
«E come lo capisce?»
«Dal modo come mi guardano.»
«E come la guardano?» chiese l'uomo in marrone, allungando la mano
per prendere una matita; ma poi cambiò idea. Prese un bicchiere, invece.
«Beh? Come sono?»
«Non lo so bene. Riesco a vederli, sicuro, ma solo quando sono vestiti.»
«Okay, okay,» fece paziente l'uomo in marrone. «E come sono vestiti?»
«Quasi come tutti. Si vestono di... pelli umane. Oh, non pelli vere:
imitazioni. Come Bibì e Bibò infilati nelle pelli da coccodrillo. Svestiti...
non lo so. Non ne ho mai visto uno. Forse sono invisibili persino per me,
allora, o forse sono soltanto camuffati. Formiche o gufi o ratti o pipistrelli
o...»
«O qualunque altra cosa,» disse frettoloso l'uomo vestito di marrone.
«Grazie. O qualunque altra cosa, naturalmente. Ma quando sono vestiti
da umani, come quello che era seduto vicino a lei poco fa, quando le ho
detto di non guardare...»
«Era invisibile, immagino.»
«Lo sono quasi sempre, per tutti. Ma di tanto in tanto, per qualche
ragione...»
«Aspetti,» obiettò l'uomo in marrone. «Provi a ragionare, le dispiace? Si
vestono di pelli umane e poi restano invisibili?»
«Solo di tanto in tanto. Le pelli umane sono ottime imitazioni. Nessuno
riesce a capire la differenza. È il terzo occhio che li tradisce. Quando lo
tengono chiuso, non si riesce mai a immaginare che ci sia. Se vogliono
aprirlo, diventano invisibili... così. In un lampo. Quando vedo qualcuno
con un terzo occhio proprio in mezzo alla fronte, capisco che è un
marziano ed è invisibile, e faccio finta di non essermene accorto.»
«Uh-uh,» fece l'uomo vestito di marrone. «Allora, per quel che ne sa lei,
io sono uno dei marziani visibili.»
«Oh, spero di no!» Lyman lo scrutò ansioso. «Sbronzo come sono, non
credo. L'ho tenuto d'occhio tutto il giorno, per assicurarmene. È un rischio
che devo correre, naturalmente. Sono disposti a tutto, quelli, per
costringere un uomo a tradirsi. Questo lo capisco. Non posso fidarmi di
nessuno. Ma dovevo trovare qualcuno con cui parlare e...» S'interruppe. Ci
fu un breve silenzio. «Potrei sbagliarmi,» disse dopo qualche attimo.
«Quando il terzo occhio è chiuso, non so se c'è o non c'è. Le dispiacerebbe
aprire il terzo occhio?» Fissò lo sguardo vago sulla fronte dell'uomo
vestito di marrone.
«Mi dispiace,» disse il giornalista. «Un'altra volta. E poi, non la
conosco. Vuole che la sbatta in prima pagina, immagino? Perché non va a
parlare con il redattore capo? I miei servizi devono passare per le sue
mani.»
«Devo rivelare il mio segreto al mondo,» continuò ostinatamente
Lyman. «Il problema è: fin dove arriverò? Ci sarebbe stato da aspettarsi
che mi avessero ammazzato nel momento in cui ho cominciato a parlare
con lei... ma non ho detto niente finché loro erano qui. Non credo che ci
prendano molto sul serio, vede. Questa storia deve tirare avanti fin dagli
albori della storia, e hanno avuto tutto il tempo di diventare noncuranti.
Hanno lasciato che Fort andasse avanti parecchio, prima di saltargli
addosso. Ma avrà notato come sono stati attenti a non permettere che Fort
trovasse prove autentiche, capaci di convincere la gente.»
L'uomo vestito di marrone disse sottovoce qualcosa a proposito di un
articolo di cronaca. Poi chiese: «Che cosa fanno i marziani, oltre a
gironzolare travestiti per i bar?»
«Ci sto ancora studiando,» disse Lyman. «Non è facile capirlo.
Governano il mondo, naturalmente, ma perché?» Aggrottò la fronte e
guardò con aria supplichevole l'uomo vestito di marrone. «Perché?»
«Se sono loro a governarlo, hanno parecchie cose da spiegare.»
«È quel che voglio dire io. Dal nostro punto di vista, non ha senso. Noi
facciamo le cose in modo illogico, ma solo perché ce lo dicono loro. Quasi
tutto quel che facciamo è illogico. Il "Folletto della Perversità." di Poe...
potrebbe dargli un altro nome che comincia per M. Marziano, voglio dire.
Gli psicologi sono così bravi a spiegare perché un assassino vuole
confessare, ma é sempre una reazione illogica. A meno che un marziano
glielo ordini.»
«Non è possibile ipnotizzare qualcuno e costringerlo a fare qualcosa che
contrasti con il suo senso morale,» notò in tono trionfante l'uomo vestito di
marrone.
Lyman aggrottò la fronte. «Un altro umano non può farlo, ma un
marziano sì. Immagino che ci abbiano dominati quando non avevamo altro
che cervelli da scimmie, e hanno sempre continuato cosi. Si sono evoluti
come noi, stando sempre una passo più avanti. Come il passerotto sulla
schiena dell'aquila, che si fece portare fino a quando l'aquila arrivò alla sua
massima quota, e allora il passerotto prese il volo e batté il primato
d'altezza. Hanno conquistato il mondo, ma nessuno se ne è mai accorto. E
da allora hanno sempre governato.»
«Ma...»
«Prenda le case, per esempio. Sono scomode. Brutte, sporche, non
hanno niente che vada. Ma quando un uomo come Frank Lloyd Wright
scappa via ai marziani per il tempo sufficiente per proporre qualcosa di
meglio, guardi come reagisce la gente. Non gli va proprio. Sono i loro
marziani a dargli ordini.»
«Senta, ma perché ai marziani dovrebbe interessare il tipo di casa in cui
abitiamo noi? Me lo spieghi.»
Lyman aggrottò la fronte. «Non mi piace la nota di scetticismo che sento
insinuarsi nella nostra conversazione,» dichiarò. «Gli importa, sicuro, Non
c'è dubbio. Loro vivono nelle nostre case. Noi non costruiamo per i nostri
comodi: costruiamo secondo gli ordini, per i marziani, e come vogliono
loro. S'interessano a tutto quel che facciamo. E più è assurdo, e più gli
interessa.
«Prenda le guerre. Le guerre non hanno senso, dal punto di vista umano.
Nessuno le vuole veramente. Ma continuano ad esserci. Dal punto di vista
dei marziani, sono utili. Danno lo slancio alla tecnologia, e riducono
l'eccesso di popolazione. E ci sono anche tanti altri risultati. La
colonizzazione, tanto per cominciare. Ma soprattutto la tecnologia. In
tempo di pace, se uno inventa la propulsione a reazione, è troppo
dispendiosa per svilupparla commercialmente. Ma in tempo di guerra,
bisogna svilupparla. Così i marziani possono usare tutto quel che vogliono.
Si servono di noi come se fossimo utensili... o arti. E nessuno vince mai
una guerra... tranne i marziani.»
L'uomo vestito di marrone ridacchiò. «Questo è logico,» disse. «Deve
essere piacevole essere un marziano.»
«Perché no? Finora, nessuna razza é mai riuscita a vincere ed a
sottometterne un'altra. Chi è sottomesso potrebbe ribellarsi o assimilare. Se
lei sa di essere dominato, allora il dominatore è vulnerabile. Ma se il
mondo non lo sa... e non lo sa, infatti...
«Prenda la radio», continuò Lyman, partendo per la tangente. «Non c'è
una ragione al mondo perché un umano sano di mente debba ascoltare la
radio. Ma i marziani ci costringono a farlo. A loro piace. Prenda le vasche
da bagno. Nessuno nega che le vasche da bagno siano comode... per noi.
Ma sono splendide per i marziani. Tutte le cose poco pratiche che
continuiamo ad usare, anche se sappiamo che non sono pratiche...»
«I nastri per le macchine da scrivere,» disse l'uomo vestito di marrone,
colpito da un pensiero. «Ma neppure un marziano potrebbe divertirsi a
cambiare il nastro alla macchina da scrivere.»
Lyman parve considerare impertinente quell'osservazione. Disse che
sapeva tutto dei marziani, tranne una cosa sola... la loro psicologia.
«Non so perché si comportano come fanno. Qualche volta sembra
illogico, ma sono assolutamente sicuro che hanno buoni motivi per tutto
quello che combinano. Fino a quando non l'avrò capito, sarò bloccato. Fino
a quando avrò gli indizi... le prove... e un aiuto. Fino ad allora, dovrò
tenere il segreto. E l'ho fatto. Faccio quello che mi dicono loro, così non
sospettano, e fingo di dimenticare quello che mi dicono di dimenticare.»
«Allora non ha da preoccuparsi.»
Lyman non gli badava. Era ripartito ad elencare le sue lamentele.
«Quando sento scorrere l'acqua nella vasca ed un marziano che sguazza,
faccio finta di non sentir niente. Il mio letto è troppo corto e la settimana
scorsa ho provato a ordinarne uno più lungo, ma il marziano che dorme lì
mi ha detto di non farlo. È piccolo, come tanti altri. Cioè, io credo che
siano piccoli. Devo procedere per deduzioni, perché non li ho mai visti
svestiti. Ma va sempre così. A proposito, com'è il suo marziano?»
L'uomo vestito di marrone posò di scatto il bicchiere.
«Il mio marziano?»
«Mi stia a sentire. Magari sarò un po' sbronzo, ma la mia logica resta
intatta. Riesco ancora a mettere insieme due e due. O lei sa dei marziani, o
non lo sa. Se lo sa, é inutile che mi venga a dire "Il mio marziano?" Lo so
che lei ha un marziano. Il suo marziano sa che lei ha un marziano. Il mio
marziano lo sa. Il fatto è: lei lo sa? Ci pensi bene,» incalzò sollecito
Lyman.
«No, non ho un marziano,» disse il giornalista, bevendo un sorso in
fretta. L'orlo del bicchiere gli tintinnò contro i denti.
«Nervoso, vedo,» commentò Lyman. «Naturalmente deve avere un
marziano. Sospetto che lo sappia.»
«Cosa me ne farei di un marziano?» chiese l'uomo vestito di marrone,
con ostinato dogmatismo.
«E cosa farebbe, senza? Immagino non sia permesso. Se la scoprono ad
andare in giro senza marziano probabilmente la metterebbero in prigione o
una cosa del genere fino a che qualcuno non la reclamasse. Oh, ce l'ha,
sicuro. Ce l'ho anch'io. E anche lui, e lui, e lui... e il barista.» Lyman indicò
gli altri avventori del bar con un dito malfermo.
«Certo che ce l'hanno,» fece l'uomo vestito di marrone. «Ma tutti devono
tornare su Marte domani, e allora lei potrà andare da un bravo dottore.
Sarà meglio che beva un al...»
Si stava girando verso il barista quando Lyman, apparentemente per
caso, si chinò verso di lui e mormorò:
«Adesso non guardi!»
L'uomo vestito di marrone sbirciò la faccia sbiancata di Lyman riflessa
nello specchio.
«Va tutto bene,» disse. «Non c'è nessun mar...»
Lyman gli sferrò bruscamente un calcio, sotto il ripiano del bar.
«Zitto! Ne è appena entrato uno!»
Poi fissò negli occhi l'uomo vestito di marrone e con simulata
disinvoltura disse: «... quindi, naturalmente, non potevo far altro che salire
sul tetto. Ho impiegato dieci minuti per tirarlo giù per la scala, e quando
siamo arrivati in fondo quello ha spiccato un salto, mi si è arrampicato su
per la faccia ed è balzato via dalla mia testa, ed è tornato sul tetto a strillare
perché lo tirassi giù.»
«Cosa?» chiese l'uomo vestito di marrone con comprensibile curiosità.
«Il mio gatto, naturalmente. Che cosa credeva? No, lasci stare, non
risponda.» Lyman teneva la faccia girata verso l'uomo vestito di marrone,
ma con la coda dell'occhio osservava un'avanzata invisibile attraverso il
bar, verso un tavolo in fondo.
«E adesso, perché è entrato?» mormorò. «Non mi piace. È qualcuno che
lei conosce?»
«Chi?»
«Il marziano. Il suo, per caso? No, immagino di no. Il suo probabilmente
era quello che è uscito prima. Chissà se è andato a fare rapporto, e ha
mandato qui questo? È possibile. Può darsi benissimo. Adesso parli pure,
ma a voce bassa, e la smetta di agitarsi. Vuole che si accorga che possiamo
vederlo?»
«Io non lo vedo. Non mi trascini in questa storia. Lei e i suoi marziani
possono vedersela da soli. Mi sta facendo diventare nervoso. Del resto,
devo andare.» Ma non si mosse per scendere dallo sgabello. Oltre la spalla
di Lyman, gettava occhiate furtive verso il fondo del bar, e di tanto in tanto
tornava a guardare il suo interlocutore.
«La smetta di guardare me,» disse Lyman. «La smetta di guardare lui.
Chiunque penserebbe che lei è un gatto.»
«Perché un gatto? Perché qualcuno... sembro un gatto?»
«Stavamo parlando di gatti, no? I gatti possono vederli molto bene.
Persino svestiti, credo. Non gli piacciono.»
«Chi?»
«Gli uni non piacciono agli altri. I gatti possono vedere i marziani... sst!
Ma fanno finta di niente, e questo manda in bestia i marziani. Secondo la
mia teoria, i gatti dominavano il mondo prima dell'arrivo dei marziani.
Non importa. Lasci perdere i gatti. Può essere più serio di quel che crede.
So che il mio marziano, si è preso una serata di libertà, e sono sicuro che
era il suo marziano, quello che è uscito prima. Crede che...» Lyman
abbassò la voce. «Crede che ci aspettino fuori?»
«Oh, Signore.» fece l'uomo vestito di marrone. «Nel vicolo con i gatti,
immagino.»
«Perché non la smette di parlare di gatti e non parla sul serio, per un
momento?» chiese Lyman; poi s'interruppe, impallidì e barcollò
leggermente sullo sgabello. Si affrettò a bere un sorso per nascondere la
confusione.
«E adesso cosa succede?» domandò l'uomo vestito di marrone.
«Niente.» Lyman deglutì. «Niente. È stato solo che... mi ha guardato.
Con... lo sa.»
«Mi faccia capire. Immagino che il marziano sia vestito... sia vestito
come un umano.
«Naturalmente.»
«Ma è invisibile agli occhi di tutti, tranne lei?»
«Sì. Non vuole essere visibile, adesso. E poi...» Lyman fece una pausa.
Lanciò all'uomo vestito di marrone un'occhiata furtiva, quindi abbassò lo
sguardo sul bicchiere. «E poi, vede, credo che lei possa vederlo... almeno
un po'.»
L'uomo vestito di marrone rimase in silenzio per una trentina di secondi.
Restò immobile: non tintinnava neppure il ghiaccio nel bicchiere che
teneva in mano. Si sarebbe detto che non respirasse neppure. Di certo non
batteva le palpebre.
«Che cosa glielo fa pensare?» chiese in tono normale, dopo che furono
passati i trenta secondi.
«Ho... ho detto qualcosa? Non stavo ascoltando.» Lyman posò di scatto
il bicchiere. «Credo che andrò, adesso.»
«No,» fece l'uomo vestito di marrone, stringendo le dita intorno al polso
di Lyman. «No, non se ne vada. Torni qui. Si sieda. Subito... Che cosa le
ha preso? Dove voleva andare?»
Lyman indicò con un cenno del capo qualcosa in fondo al bar, un juke-
box o forse una porta con la scritta UOMINI.
«Non mi sento molto bene. Forse ho bevuto troppo. Credo che...»
«Lei sta benissimo. Non mi va che lei vada là con quel... con quell'uomo
invisibile. Resti qui fino a quando se ne sarà andato.»
«Se ne sta andando adesso,» disse vivacemente Lyman. I suoi occhi si
mossero lungo la linea di un'avanzata invisibile ma svelta verso l'uscita.
«Vede, se n'è andato. Adesso mi molli, le dispiace?»
L'uomo vestito di marrone guardò il tavolo in fondo.
«No,» disse. «Non è andato. Resti lì seduto.»
Questa volta toccò a Lyman restare silenzioso e immobile, stravolto, per
lunghi istanti. Il ghiaccio nel suo bicchiere, però, tintinnava. Poi parlò. La
sua voce era sommessa, e più sobria di prima.
«Ha ragione. È ancora lì. Lei può vederlo, non è vero?»
L'uomo vestito di marrone disse: «Ci volta le spalle?»
«Allora lei può vederlo. Forse anche meglio di me. Forse qui sono più
numerosi di quel che pensavo. Potrebbero essere dappertutto. Potrebbero
essere seduti accanto a lei, dovunque vada, e lei non se ne accorgerebbe
neppure fino a quando...» Scosse leggermente il capo. «Vogliono essere
sicuri,» disse, quasi tra sé. «Possono darle ordini e farglieli dimenticare,
ma devono esserci limiti a quello che possono costringerla a fare. Non
possono costringere un uomo a tradirsi. Devono stargli dietro... fino a
quando sono sicuri.»
Alzò il bicchiere e l'inclinò sopra il viso. Il ghiaccio scivolò e gli urtò
freddamente contro il labbro, ma lui lo tenne lì fino a quando tutto il
liquido ambrato gli fu entrato in bocca. Posò il bicchiere sul banco e si girò
verso l'uomo vestito di marrone.
«Allora?» fece.
L'uomo vestito di marrone guardò in giro nel bar.
«Si sta facendo tardi,» disse. «Non sono rimasti molti. Aspetteremo.»
«Aspetteremo che cosa?»
L'uomo vestito di marrone guardò in direzione del tavolo in fondo, poi si
affrettò a deviare gli occhi.
«Devo mostrarle una cosa. Non voglio che la veda nessun altro.»
Lyman scrutò la saletta fumosa. Mentre guardava, l'ultimo cliente che
stava accanto a loro cominciò a frugarsi in tasca, gettò un po' di denaro sul
banco, e uscì, lentamente.
Restarono seduti in silenzio. Il barista li guardava con stolido
disinteresse. Poco dopo, una coppia seduta ad un tavolo vicino si alzò e se
ne andò, litigando sottovoce.
«È rimasto nessuno?» chiese l'uomo vestito di marrone, con una voce
che non arrivava fino al barista.
«Solo...» Lyman non finì, ma indicò con un cenno del capo il fondo del
locale. «Non sta guardando. Finiamola. Che cosa vuole mostrarmi?»
L'uomo vestito di marrone si tolse l'orologio dal polso e forzò la cassa
metallica. Ne uscirono due piccole foto lucide. L'uomo vestito di marrone
le separò con un dito.
«Voglio solo assicurarmi di una cosa,» disse. «Primo... perché ha scelto
proprio me? Poco fa mi ha detto di avermi tenuto d'occhio per tutto il
giorno, per essere sicuro. Non l'ho dimenticato. E sapeva che ero un
giornalista. E adesso mi dica la verità.»
Agitandosi sullo sgabello, Lyman fece una smorfia. «È stato il modo con
cui guardava le cose,» mormorò, «questa mattina, sulla metropolitana...
non l'avevo mai visto in vita mia, ma ho notato il modo in cui guardava le
cose... le cose che non andavano, le cose che non c'erano, come fa un
gatto... e poi distoglieva sempre gli occhi... Mi è venuta l'idea che anche lei
potesse vedere i marziani.»
«Continui,» disse sottovoce l'uomo vestito di marrone.
«L'ho seguito. Per tutto il giorno. Speravo che lei fosse... qualcuno con
cui avrei potuto parlare. Perché, se avessi saputo di non essere il solo che
può vederli, avrei capito che c'era ancora qualche speranza. È stato peggio
dell'isolamento. Li vedo da tre anni, ormai. Tre anni. E sono riuscito a
nascondere persino a loro la mia facoltà. E non so come, sono anche
riuscito a non uccidermi.»
«Tre anni?» disse l'uomo vestito di marrone. Rabbrividì.
«C'è sempre un po' di speranza. Sapevo che nessuno mi avrebbe
creduto... senza prove. E come si fa a trovare le prove? Era solo che io...
continuavo a dirmi che forse anche lei poteva vederli, e se lo poteva lei,
forse c'erano altri... molti altri... così avremmo potuto metterci insieme e
trovare un modo per dimostrarlo al mondo...»
Le dita dell'uomo vestito di marrone si mossero. In silenzio, spinse una
fotografia sul banco di mogano. Lyman la prese, con mano malferma.
«Chiaro di luna?» chiese dopo un momento. Era un paesaggio sotto un
cielo scuro e profondo, con nubi bianche. Gli alberi spiccavano come trine
candide contro l'oscurità. L'erba sembrava imbiancata dal chiarore lunare,
e le ombre erano confuse.
«No, non è chiaro di luna,» rispose l'uomo vestito di marrone.
«Infrarossi. Sono un dilettante, ma in questi ultimi tempi ho fatto
esperimenti con le pellicole a infrarossi. E ho ottenuto certi risultati molto
singolari.»
Lyman guardò la pellicola.
«Vede, io vivo vicino...» Il dito dell'uomo vestito di marrone batté su un
oggetto che appariva nella fotografia. «E di tanto in tanto, contro questo
continua a comparire qualcosa di strano. Ma solo con le pellicole a
infrarossi. Ora, so che la clorofilla riflette talmente la luce infrarossa che
l'erba e le foglie vengono bianche, in fotografia. Il cielo viene nero, così.
Ci sono certi trucchi, per usare questo tipo di pellicola. Se fotografa un
albero sullo sfondo d'una nube, non riesce a distinguerli, nella stampa. Ma
può fotografare attraverso la foschia e riprendere oggetti lontani che non
risulterebbero su una pellicola normale. E qualche volta, quando mette a
fuoco qualcosa come questo...» Batté di nuovo il dito sull'immagine
dell'oggetto tanto comune, «ottiene un'immagine molto strana. Come
questa. Un uomo con tre occhi.»
Lyman alzò la foto alla luce. In silenzio, prese l'altra dal banco e la
studiò. Quando le posò di nuovo, stava sorridendo.
«Vede,» disse bisbigliando, «un professore d'astrofisica di una delle
università più importanti ha pubblicato un articoletto molto interessante sul
Times, domenica scorsa. Un certo Spitzer, mi pare? Diceva che, se c'era
vita su Marte, e se i marziani avevano visitato la Terra, non c'era modo di
provarlo. Nessuno crederebbe ai pochi che li avrebbero visti. A meno che i
marziani venissero fotografati...»
Lyman guardò pensosamente l'uomo vestito di marrone.
«Beh,» fece. «È successo. Lei li ha fotografati.»
L'uomo vestito di marrone annuì. Prese le foto e le rimise nella cassa
dell'orologio. «Anch'io la pensavo così. Ma fino a questa sera non ne ero
sicuro. Non ne avevo mai visto uno... completamente, come lei. Non si
tratta di quella che lei chiama la confusione del cervello causata dalle onde
supersoniche, ma di sapere dove guardare. Ma io li ho visti in parte per
tutta la mia vita, e li hanno visti tutti. È quella piccola impressione di
movimento che si afferra soltanto con la coda dell'occhio. Qualcosa che
c'è, quasi... e quando lo si guarda bene, non c'è niente. Le fotografie mi
hanno chiarito come fare. Non è facile imparare, ma si può fare. Noi siamo
condizionati a guardare direttamente una cosa... la cosa particolare che
vogliamo vedere chiaramente, qualunque cosa sia. Forse sono stati i
marziani ad imporci questo condizionamento. Quando vediamo un
movimento al limite della visuale, è quasi irresistibile non guardarlo
direttamente. Perciò svanisce.»
«Allora possono vederli... tutti quanti?»
«Ho imparato molte cose in pochi giorni,» disse l'uomo vestito di
marrone. «Da quando ho scattato quelle foto. Bisogna abituarsi. È come
vedere una foto truccata... che è un fotomontaggio, quando la guarda bene.
Mimetismo. Bisogna imparare. Altrimenti possiamo continuare a guardarli
per tutta la vita, senza vederli mai.»
«Ma la macchina fotografica ci riesce.»
«Sì, la macchina fotografica ci riesce. Mi sono chiesto perché nessuno li
ha mai sorpresi in questo modo. Quando si vedono in fotografia, sono
inconfondibili... quel terzo occhio.»
«La pellicola a infrarossi è relativamente nuova, no? E poi scommetto
che bisogna sorprenderli contro quello sfondo particolare, vede, altrimenti
sulla pellicola non si vedono. Come alberi contro le nubi. Doveva essere
l'illuminazione giusta, quel giorno, e la messa a fuoco esatta, e l'otturatore
è scattato al momento giusto. Un piccolo miracolo. Potrebbe darsi che la
cosa non si ripeta mai più. Ma... adesso non guardi.»
Restarono in silenzio. Furtivamente, guardarono nello specchio. I loro
occhi puntarono verso la porta aperta del bar.
Poi vi fu un lungo silenzio.
«Ci ha guardati,» disse sottovoce Lyman. «Ci ha guardati... quel terzo
occhio!»
L'uomo vestito di marrone era di nuovo immobile. Quando si mosse, fu
per trangugiare il resto del cocktail.
«Non credo che si siano ancora insospettiti,» fece. «Bisognerà star buoni
sino a quando potremo rivelare la verità. Deve esserci un modo di farlo...
un modo che convincerà la gente.»
«La prova c'è. Le fotografie. Un fotografo esperto dovrebbe riuscire a
capire come ha ripreso quel marziano sulla pellicola e riprodurre le stesse
condizioni. È una prova.»
«Le prove possono essere ambivalenti,» disse l'uomo vestito di marrone.
«Spero che ai marziani non piaccia uccidere... a meno che siano costretti a
farlo. Spero che non uccidano senza prove. Ma...» Batté il dito
sull'orologio.
«Adesso, comunque, siamo in due,» disse Lyman. «Dobbiamo tenerci in
contatto. Tutti e due abbiamo violato la grande legge... adesso non
guardi...»
Il barista era in fondo al locale: stava staccando il juke-box. L'uomo
vestito di marrone disse: «Sarà meglio che non ci facciamo vedere insieme
senza necessità. Ma se domani sera veniamo tutti e due in questo bar alle
nove, per bere qualcosa... questo non sembrerà sospetto neppure a loro.»
«Senta...» Lyman esitò. «Potrei avere una delle foto?»
«Perché?»
«Se a uno di noi capitasse... un incidente, l'altro avrebbe la prova.
Quanto basta, forse, per convincere le persone giuste.»
L'uomo vestito di marrone esitò, annuì bruscamente e riaprì la cassa
dell'orologio. Diede a Lyman una delle foto.
«La nasconda,» disse. «È una prova. Ci vedremo qui domani. Nel
frattempo, sia prudente. Ricordi di giocare sul sicuro.»
Si strinsero le mani con fermezza, fronteggiandosi per un secondo
interminabile di silenzio finale, decisivo. Poi l'uomo vestito di marrone si
girò bruscamente e uscì dal bar.
Lyman restò lì seduto. Tra due rughe, sulla sua fronte, vi fu un guizzo di
ciglia che si aprivano. Il terzo occhio si spalancò lentamente e seguì
l'uomo vestito di marrone.

Titolo originale:
Don't Look Now
(Startling Stories, marzo 1948).

1949: «Thrilling Wonder»

Ray Bradbury
Caleidoscopio

Ray Bradbury è indiscutibilmente il poeta dalla science fiction. La sua


capacità di plasmare il linguaggio per trasmettere pensieri un tempo
considerati impossibili è unica, nel campo fantascientifico. Il suo talento
irrefrenabile fece comprendere agli editori che per lui i confini
specialistici, un tempo rigidi, non significavano nulla. Più di qualunque
altro scrittore venuto prima di lui, Bradbury spinse i confini della
fantascienza nell'ignoto, e rese molto vago il confine tra science fiction e
science fantasy.
Ma questo non accade da un giorno all'altro, e richiese molto duro
lavoro da parte dello scrittore. Raymond Douglas Bradbury è nato a
Waukegan, Illinois, domenica 22 agosto 1920. La sua famiglia si trasferì a
Los Angeles, dopo una sosta in Arizona, e nel 1937 Ray scoprì la sede
locale di Los Angeles della Science Fiction League, e quindi il fandom.
Scoprì i fanzines, e molti dei suoi primi testi di narrativa apparvero sulle
pagine di quelle pubblicazioni. Bradbury ne creò una sua, Futuria
Fantasia, che sopravvisse quattro numeri. Il secondo (autunno 1939)
pubblicava una breve storia, Pendulum, che più tardi, riscritta da Henry
Hasse segnò la prima vendita professionale di Bradbury, e apparve su
Super Science Stories nel novembre 1941. Bradbury aveva già pubblicato
un breve pezzo sulla rivista patinata californiana Script, l'anno prima, ma
non era stato pagato.
Per molto tempo, Bradbury non riuscì a vendere regolarmente. Si sa che
distrusse centinaia di racconti. Ma insistette, e finalmente trovò in Weird
Tales un mercato adatto per il suo strano tipo di fantasy. Altri editori
(sopratutto di gialli e di fantascienza) consigliavano a Bradbury di
adeguarsi, ma a Weird Tales la direttrice, Dorothy McIlwraith, lo lasciava
scrivere come voleva. Questo servì ad evolvere le sue doti ed a fargli un
nome, così che altri direttori cominciarono a vedere i suoi racconti in una
luce nuova. Alla metà degli Anni Quaranta, Bradbury vendeva una
fantascienza pochissimo convenzionale a Planet Stories, e nel 1949
produceva già science fiction di qualità superiore come questo
Kaleidoscope. Chi crederebbe mai che una rivista chiamata Thrilling
Wonder, che evoca visioni di mostri e di battaglie spaziali, accogliesse
nelle sue vecchiotte pagine pulp simili gemme di prosa?

Il primo urto tagliò la nave lungo la fiancata come un gigantesco


apriscatole. Gli uomini furono scagliati nello spazio come una dozzina di
pesciolini d'argento che si agitavano. Erano dispersi in un mare tenebroso;
e la nave, in un milione di pezzi, continuò il volo come uno sciame di
meteore in cerca d'un sole perduto.
«Barkley, Barkley, dove sei?»
Il suono delle voci che chiamavano, come bambini sperduti in una notte
fredda.
«Woode, Woode!»
«Comandante!»
«Hollis, Hollis, sono Stone.»
«Stone, sono Hollis. Dove sei?»
«Non lo so, come posso saperlo? Dov'è l'alto? Sto precipitando. Santo
dio, sto precipitando.»
Precipitavano. Precipitavano come cadono i ciottoli nei lunghi autunni
dell'infanzia, argentei e rarefatti. Erano dispersi, come lanciati da una
mano gigantesca. E adesso non erano più uomini, ma solo voci... voci
d'ogni genere, disincarnate e appassionate, con varie sfumature di terrore e
di rassegnazione.
«Ci stiamo allontanando l'uno dall'altro.»
Era vero. Hollis, che roteava su se stesso, sapeva che era vero. Lo
sapeva, con una vaga accettazione. Si stavano dividendo per andarsene
ciascuno nella sua strada, e niente li avrebbe riavvicinati. Portavano le tute
spaziali stagne, con i caschi di vetro sui volti pallidissimi, ma non avevano
avuto tempo di collegare i generatori d'energia. Con quelli, avrebbero
potuto diventare come piccole scialuppe di salvataggio nello spazio,
salvando se stessi, salvando gli altri, radunandosi, trovandosi l'uno con
l'altro fino a quando fossero divenuti un'isola di uomini, con un piano. Ma
senza i generatori d'energia fissati alle spalle erano meteore insensate, e
ognuno di essi andava verso un fato diverso e irrimediabile.
Trascorsero circa dieci minuti, mentre il primo terrore si spegneva, ed il
suo posto veniva preso da una calma metallica. Lo spazio cominciò a
tessere le loro voci strane, su un grande telaio buio, fino a crearne un
disegno finale.
«Stone a Hollis. Per quanto potremo parlare via radio?»
«Dipende dalla velocità con cui tu vai dalla tua parte e io dalla mia.»
«Un'ora, credo.»
«Dovrebbe essere così,» rispose Hollis disperato, sottovoce.
«Cos'è successo?» aggiunse, dopo un minuto.
«Il razzo è esploso, ecco tutto. I razzi esplodono, qualche volta.»
«Da che parte stai andando?»
«Sembra che finirò nel Sole.»
«Io sulla Terra. Tornerò alla vecchia Madre Terra a quindicimila
chilometri orari. Brucerò come un fiammifero.» Hollis ci pensava con uno
strano distacco. Gli sembrava d'essere separato dal suo corpo, e di
guardarlo precipitare nello spazio, obiettivamente come se guardasse
cadere i primi fiocchi di neve d'un inverno di tanto tempo prima.

Gli altri tacevano, pensando al destino che li aveva portati a quello, e


cadevano e cadevano, e non potevano far nulla. Persino il comandante
taceva, perché non esisteva un ordine o un piano che potesse rimettere
tutto a posto.
«Oh, è una lunga caduta, oh, è una lunga caduta, una lunga, lunga, lunga
caduta,» disse una voce. «Non voglio morire, non voglio morire, è una
lunga caduta.»
«Chi è quello?»
«Non so.»
«Stimson, credo. Stimson, sei tu?»
«È una lunga caduta e non voglio, oh, Dio, non voglio.»
«Stimson, sono Hollis. Stimson, mi senti?»
Una pausa, mentre continuavano a precipitare, separati l'uno dall'altro.
«Stimson?»
«Sì,» rispose lui, finalmente.
«Stimson, calmati, siamo tutti nella stessa situazione.»
«Non voglio essere qui. Voglio essere altrove.»
«C'è una possibilità che ci trovino.»
«Deve esserci, deve esserci,» disse Stimson. «Io non ci credo, non credo
che stia succedendo davvero.»
«È un brutto sogno,» disse qualcuno.
«Silenzio!» disse Hollis.
«Vieni e provaci,» disse la voce. Era Applegate. Rise, disinvolto, con la
stessa obiettività. «Vieni a farmi star zitto.»
Per la prima volta, Hollis si rese conto della sua posizione impossibile.
Una grande collera l'invase, perché più di tutto in quel momento della sua
esistenza, avrebbe voluto fare qualcosa ad Applegate. Da tanti anni ci
teneva, e adesso era troppo tardi. Applegate, ormai, era soltanto una voce.
E cadevano, cadevano, cadevano!

Poi, come se avessero scoperto l'orrore, due uomini cominciarono ad


urlare. In un incubo, Hollis ne vide uno fluttuare molto vicino, urlando e
urlando.
«Piantala!» L'uomo era quasi alla portata delle sue dita, e urlava come
un pazzo. Non avrebbe più smesso. Avrebbe continuato a urlare per un
milione di chilometri, finché era entro la portata della radio, turbandoli
tutti, rendendo loro impossibile parlarsi.
Hollis allungò il braccio. Era meglio così. Compì un altro sforzo e toccò
l'uomo. Gli afferrò la caviglia e si arrampicò lungo il suo corpo, fino a
raggiungere la testa. L'uomo urlava e si dibatteva freneticamente, come
fosse sul punto di annegare. Le urla riempivano l'universo.
In un modo o nell'altro, pensò Hollis. Il Sole o la Terra o le meteore
l'uccideranno, quindi perché non adesso?
Frantumò la visiera di vetro dell'uomo con il pugno ferreo. Le urla
cessarono. Si spinse lontano dal corpo e lasciò che continuasse a roteare
sulla sua rotta, cadendo, cadendo.
E cadendo, cadendo nello spazio, Hollis e gli altri, nella lunga,
interminabile discesa, nel turbine di terrore silenzioso.
«Hollis, mi senti?»
Hollis non parlò, ma sentì una vampata di calore salirgli alla faccia.
«Sono ancora Applegate.»
«Bene, Applegate.»
«Parliamo. Non abbiamo altro da fare.»
Il comandante s'intromise. «Basta. Dobbiamo trovare un modo di
cavarcela.»
«Comandante, perché non sta zitto?» disse Applegate.
«Cosa?»
«Mi ha sentito, comandante. Non cerchi di far pesare il suo grado, ormai
è a diecimila chilometri da me: e non illudiamoci. Come dice Stimson, è
una lunga caduta.»
«Stia a sentire, Applegate!»
«La pianti. Mi sono ammutinato. Non ho niente da perdere. La sua nave
era una carriola e lei era un pessimo comandante, e le auguro di andare
arrosto quando finirà nel Sole.»
«Le ordino di smetterla!»
«Avanti, continui pure a darmi ordini.» Applegate sorrise, attraverso
diecimila chilometri. Il capitano tacque, Applegate continuò:
«Dov'eravamo arrivati, Hollis? Oh sì, ricordo. Anch'io ti odio. Ma tu lo sai.
Lo sai da un pezzo.»
Hollis strinse i pugni, impotente.
«Voglio dirti una cosa,» fece Applegate. «Ti farà felice. Sono stato io a
darti il voto contrario alla Rocket Company, cinque anni fa.»
Passò balenando una meteora. Hollis abbassò lo sguardo, e la sua mano
sinistra non c'era più. Spicciò il sangue. All'improvviso, quasi non ci fu più
aria nella tuta per muovere la mano destra e girare una manopola al gomito
sinistro, stringendo la giuntura e sigillando la falla. Era accaduto tanto in
fretta che non era sorpreso. Nulla poteva più sorprenderlo. L'aria nella tuta
ritornò normale in un istante, adesso che la falla era chiusa. E il sangue che
era defluito così in fretta venne bloccato dalla pressione quando lui strinse
ancora di più la manopola, fino a farne un laccio emostatico.
Tutto questo avvenne in un silenzio terribile da parte sua. E gli altri
uomini parlavano. Uno, Lespere, continuava e continuava a parlare di sua
moglie su Marte, di sua moglie su Venere, di sua moglie su Giove, del suo
denaro, dei suoi bei momenti, delle sbronze, dei giochi d'azzardo, della
felicità. Avanti, avanti, mentre tutti cadevano, cadevano. Lespere ricordava
il passato, felice, mentre precipitava verso la morte.
Era così strano. Lo spazio, migliaia di chilometri di spazio, e le voci che
vibravano al centro. Nessuno era visibile, e soltanto le onde radio
fremevano e cercavano di accendere le emozioni.
«Sei arrabbiato, Hollis?»
«No.» E non lo era, il distacco era ritornato, e lui era una cosa di
cemento opaco, e precipitava eternamente nel nulla.
«Per tutta la vita hai sempre desiderato avere la meglio, Hollis. E io ti ho
rovinato. Ti sei sempre chiesto cos'era successo. Sono stato io a darti il
voto contrario poco prima che mi buttassero fuori.»
«Non ha importanza,» disse Hollis. E non l'aveva. Era passata. Quando
la vita è finita è come un guizzo di pellicola, un istante sullo schermo, con
tutte le sue passioni e i pregiudizi illuminati per un istante nello spazio,
una faccia malvagia, una buona, e la pellicola si bruciava, lo schermo si
spegneva.
Mentre guardava dal limitare della sua vita, c'era solo un rimorso, ed era
il desiderio di continuare a vivere. Tutti i morenti lo provano, come se non
avessero mai vissuto? La vita sembra tanto breve, davvero, passata e finita
prima che tu abbia il tempo di respirare? Sembrava così improvvisa e
impossibile per tutti, o solo per lui, lì, adesso, quando gli restavano solo
poche ore per pensare?
Uno degli altri uomini stava parlando. «Bene, ho fatto una bella vita.
Avevo una moglie su Marte e una su Venere e una sulla Terra e una su
Giove. Erano tutte ricche e mi trattavano bene. Mi sono divertito. Mi
sbronzavo, ed una volta mi sono giocato ventimila dollari.»
Ma adesso sei qui, pensò Hollis. Io non ho avuto niente di tutto questo.
Quando vivevo ero geloso di te, Lespere, quando avevo un altro giorno
davanti a me invidiavo le tue donne e i tuoi spassi. Le donne mi facevano
paura, e andavo nello spazio, e le volevo, ed ero geloso di te perché le
avevi, e il denaro, e la felicità che tu avevi in quel tuo modo pazzesco. Ma
adesso, mentre precipitiamo, e tutto è finito, non sono più geloso di te,
perché è finita per te come per me, e adesso è come non è stato mai. Hollis
protese il viso e urlò nella radio.
«È tutto finito, Lespere!»
«Chi è?» La voce incerta di Lespere.
«Sono Hollis.»
Era una cattiveria. Sentiva la cattiveria, l'insensata cattiveria della morte.
Applegate l'aveva ferito, e adesso lui voleva ferire un altro. Applegate e lo
spazio gli avevano fatto del male.
«Sei qui, Lespere. È finita. È come se non fosse mai successo, no?»
«No.»
«Quando tutto è finito, è come se non fosse mai accaduto. In che cosa la
tua vita è meglio della mia, adesso? Mentre la vivevi, sì, ma adesso?
Adesso è quello che conta. È meglio?»
«Sì, è meglio!»
«Come?»
«Perché ho i miei pensieri: i ricordi!» gridò Lespere, lontano, indignato,
tenendosi i ricordi stretti al petto con tutte e due le mani.

E aveva ragione. Con una sensazione gelida, come se l'acqua fredda gli
scorresse sulla testa e sul corpo, Hollis sapeva che aveva ragione. C'erano
differenze tra i ricordi e i sogni. Lui aveva soltanto i sogni delle cose che
aveva desiderato fare, mentre Lespere aveva i ricordi delle cose fatte e
compiute. E quella certezza cominciò a fare a pezzi Hollis, con lenta,
fremente precisione.
«A che ti serve?» gridò a Lespere. «Adesso? Quando una cosa è finita
non serve più a niente. Non stai meglio di me.»
«Sono tranquillo,» disse Lespere. «La mia parte l'ho avuta. Non sto
diventando carogna alla fine, come te.»
«Carogna?» Hollis rigirò quella parola sulla lingua. Non era mai stato
carogna in vita sua, a quanto poteva ricordare. Non aveva mai osato
esserlo. Doveva aver conservato la cattiveria per tutti quegli anni, in attesa
di un momento come l'attuale. «Carogna.» Rigirò la parola nella mente.
Sentì le lacrime spuntargli dagli occhi e rotolargli giù per la faccia.
Qualcuno doveva averlo sentito ansimare.
«Calmati, Hollis.»
Era ridicolo, naturalmente. Solo un minuto prima, lui aveva dato
consigli agli altri, a Stimson, aveva sentito un coraggio che aveva creduto
autentico, e adesso sapeva che non era stato nient'altro che il trauma e
l'obiettività possibile nel trauma. Adesso cercava di comprimere tutta una
vita d'emozioni represse in un intervallo di pochi minuti.
«So quello che provi, Hollis,» disse Lespere, che adesso era lontano
ventimila chilometri, con la voce che svaniva. «Non me la prendo come
una faccenda personale.»
Ma non siamo uguali? Si chiese la sua mente sconvolta. Lespere ed io?
Qui, adesso? Se una cosa è finita è finita, e a che serve? Muori lo stesso.
Ma sapeva che stava razionalizzando, perché era come tentare di stabilire
la differenza tra un uomo vivo ed un cadavere. In uno c'era una scintilla
che non c'era nell'altro, un'aura, un elemento misterioso.
Dunque era così, per Lespere e per lui; Lespere aveva vissuto una vita
piena, e questo aveva fatto di lui un uomo diverso, mentre lui, Hollis, era
praticamente morto da molti anni. Arrivavano alla morte per strade diverse
e, con ogni probabilità, se c'erano tipi diversi di morte, le loro sarebbero
state differenti come la notte e il giorno. La qualità della morte, come
quella della vita, doveva essere di una varietà infinita, e se uno era già
morto una volta, cosa doveva cercare per morire una volta per tutte, come
adesso?
Dopo un secondo scoprì che il suo piede destro era stato tranciato. Quasi
si mise a ridere. L'aria era di nuovo uscita dalla tuta; si affrettò a piegarsi, e
c'era sangue, e la meteora aveva tranciato carne e tuta alla caviglia. Oh, la
morte nello spazio era quasi buffa, ti tagliava pezzo per pezzo, come un
macellaio nero e invisibile. Strinse la valvola al ginocchio, mentre la testa
gli girava per la sofferenza, lottando per non perdere conoscenza; e quando
la valvola si strinse, il sangue si bloccò, l'aria rimase, e lui si raddrizzò e
continuò a cadere e a cadere, perché non restava altro.
«Hollis?»
Hollis annuì, assonnato, stanco di attendere la morte.
«Sono ancora Applegate,» disse la voce.
«Sì.»
«Ho avuto tempo di pensare. Ti ho ascoltato. Non va bene. Ci fa
diventare carogne. È un brutto modo di morire. Fa uscire tutta la bile. Stai
ascoltando, Hollis?»
«Sì.»
«Ho mentito. Un minuto fa. Ho mentito. Non ti ho dato il voto contrario.
Non so perchè l'ho detto. Forse volevo farti male. Mi sembrava giusto
ferirti. Abbiamo sempre litigato. Adesso sto invecchiando in fretta e mi
pento in fretta. Credo che, ascoltandovi dire cattiverie, mi sono
vergognato. Quale che sia la ragione, voglio che tu sappia che sono stato
un idiota. Non c'era un granello di verità in quello che ho detto. Vai al
diavolo.»

Hollis sentì il proprio cuore che ricominciava a funzionare. Gli


sembrava che non avesse più battuto per cinque minuti, ma adesso tutte le
sue membra cominciarono a prendere colore e calore. Il trauma era passato
e le scosse successive della collera e del terrore e della solitudine stavano
passando. Si sentiva come se uscisse dalla doccia fredda del mattino,
pronto per la colazione ed una nuova giornata.
«Grazie, Applegate.»
«Di niente. Su la testa, fesso.»
«Stimson?»
Ascoltarono.
Nessuna risposta.
«Deve essere andato.»
«Non credo. Stimson!»
«Ascoltarono ancora.
Udirono un lento, lungo respiro difficile nelle cuffie.
«È lui. Ascolta.»
«Stimson!»
Nessuna risposta.
Solo il lento respiro difficile.
«Non risponde.»
«È impazzito, Dio l'aiuti.»
«Ecco. Ascolta.»
Il respiro sommesso, il silenzio.
«È chiuso come un'ostrica. È chiuso in se stesso, e crea una perla.
Ascolta il poeta. È più felice di noi, comunque.»
Ascoltarono Stimson che si allontanava fluttuando.
«Ehi,» disse Stone.
«Cosa?» Hollis chiamò attraverso lo spazio perché Stone, fra tutti, era
un buon amico.
«Sono finito in un sciame di meteore, con qualche piccolo asteroide.»
«Meteore?»
«Credo sia l'ammasso dei Mirmidoni che ogni cinque anni si estende
oltre Marte e verso la Terra. Sono proprio al centro. È come un grande
caleidoscopio. Ci sono colori e forme e dimensioni di ogni sorta. Dio,
com'è bello, tutto quel metallo.»
Silenzio.
«Vado con loro,» disse Stone. «Mi portano via con loro. Mi venga un
accidente.» Rise, convulsamente.
Hollis cercò di guardare, ma non vide nulla, C'erano soltanto le grandi
gemme dello spazio, i diamanti e gli zaffiri e le nebbie di smeraldo e i
velluti d'inchiostro dello spazio, con la voce di Dio frammista ai fuochi
cristallini. C'era una sorta di stupore e d'immaginazione nel pensiero di
Stone che se ne andava via con lo sciame delle meteore, lontano, oltre
Marte, per anni, ritornando verso la Terra ogni cinque anni, passando
dentro e fuori nelle vicinanze del pianeta per il prossimo milione d'anni,
Stone e l'ammasso dei Mirmidoni, eterno e interminabile, che si muoveva
e si foggiava come i colori di un caleidoscopio quand'eri bambino e tenevi
il lungo cilindro contro il Sole e lo facevi girare.
«Addio, Hollis.» La voce di Stone, debolissima. «Addio.»
«Buona fortuna,» gridò Hollis attraverso trentamila chilometri.
«Non scherzare,» disse Stone, e non parlò più.
Le stelle si fecero più vicine.
Adesso tutte le voci si dileguavano, ognuna sulla sua traiettoria, alcune
verso il Sole, altre verso lo spazio lontano. E Hollis guardò giù. Lui solo,
fra tutti, stava tornando sulla Terra.
«Addio.»
«Calma.»
«Addio, Hollis.» questo era Applegate.
I tanti addii. I brevi commiati. E adesso il grande cervello si stava
disintegrando. Le componenti del cervello che aveva funzionato con tanta
meravigliosa efficienza nella scatola cranica della nave lanciata nello
spazio, morivano una ad una, ed il significato della loro vita comune si
disgregava. Come un corpo muore quando il cervello smette di funzionare,
lo spirito della nave e il lungo tempo trascorso insieme e ciò che avevano
significato l'uno per l'altro, tutto stava morendo. Applegate adesso non era
altro che un dito staccato dal corpo, non bisognava più disprezzarlo e
lavorare contro di lui. Il cervello era esploso e i frammenti inutili e
insensati erano dispersi. Le voci svanivano, e ormai tutto lo spazio era
muto. Hollis era solo, e precipitava.
Erano tutti soli. Le loro voci s'erano spente come echi della parola di
Dio, vibrante nello spazio stellato. Il comandante andava verso il Sole; là
c'era Stone con lo sciame di meteore; là Stimson, chiuso in se stesso; là
Applegate, diretto verso Plutone; là Smith e Turner e Underwood e tutti gli
altri, i frammenti del caleidoscopio che avevano formato per tanto tempo
un complesso pensante, adesso scagliati lontani.
E io? pensò Hollis. Che cosa posso fare? C'è qualcosa che posso fare
adesso, per rimediare ad una vita vuota e terribile? Se potessi fare una cosa
buona, per rimediare alla cattiveria di tutti questi anni che non sapevo
neppure di avere in me? Ma qui non c'è nessuno, ci sono soltanto io, e
come si può fare del bene, quando si è soli? Non si può. Domani notte
entrerò nell'atmosfera terrestre.
Brucerò, pensò Hollis, e le mie ceneri verranno disperse sui continenti.
Sarò utile. Solo un po', ma le ceneri sono ceneri, e si aggiungeranno alla
terra.
Precipitava veloce, come un proiettile, come un sasso, come un peso di
ferro, indifferente, indifferente del tutto, adesso, né triste né lieto né altro,
desiderando soltanto di poter fare una cosa buona, adesso che tutti se
n'erano andati, una cosa buona che lui soltanto avrebbe saputo.
Quando entrerò nell'atmosfera, brucerò come una meteora.
«Chissà,» si chiese, «se mi vedrà qualcuno.»
Il bambino, sulla strada di campagna, alzò la testa e gridò: «Guarda,
mamma, guarda! Una stella cadente!»
La sfolgorante stella bianca precipitava nel cielo crepuscolare
dell'Illinois.
«Formula un desiderio,» disse sua madre. «Formula un desiderio.»

Titolo originale:
Kaleidoscope
(Thrilling Wonder Stories, ottobre 1949).

1950: «Galaxy»

Damon Knight
Come servire l'uomo

Oggi il nome di Damon Knight è associato soprattutto alla new wave,


l'avanguardia della fantascienza, che contribuisce a guidare con la sua
prestigiosa collana di antologie originali Orbit, tanto che lo si potrebbe
considerare un prodotto degli Anni Sessanta. Al contrario, Knight fece la
sua prima comparsa sul numero del febbraio 1941 di Stirring Science
Stories con un racconto breve, Resilience.
Knight è uno degli autori che esordirono prima dei vent'anni. Nato a
Baker, nell'Oregon, a mezzanotte tra domenica-lunedì del 19-20 settembre
1920, scoprì la science fiction con una copia di Amazing Stories nel 1932.
Tuttavia, anche se si accorse del fandom solo nel 1940, tramite la rubrica
dei fans di Astonishing Stories, nel maggio di quell'anno aveva completato
il primo numero di Snide, il suo fanzine. Knight aveva tendenze artistiche,
e spesso disegnava per la sua ed altre pubblicazioni dilettantistiche. Le
sue attività lo portarono in contatto con il gruppo dei Futurians, che
includeva Wollheim, Lowndes, Wilson, Pohl e Kornbluth, e quindi alle sue
prime sortite professionali.
Cominciò a fiorire come scrittore solo nel 1950, perché lavorava
soprattutto come vicedirettore per la Popular Publications. Il suo breve
legame con Worlds Beyond è riferito nel saggio conclusivo al presente
volume.
F & SF dell'inverno 1950, gli pubblicava Not With a Bang, il primo
vero segno del suo talento emergente. Ispirato al verso di T.S. Eliot in The
Hollow Men: «È così che finisce il mondo, non con un'esplosione ma con
un gemito», Knight descrive abilmente un episodio decisivo nella vita
dell'ultimo uomo e dell'ultima donna della Terra. Poi apparve con To
Serve Men, che è pubblicato qui di seguito. La sua carriera è inquadrata
nel campo dei racconti, anche se ha scritto qualche romanzo, come Hell's
Pavement (1955) e Mind Switch (1965). È noto come antologista, con
volumi come A Century of Science Fiction (1962) e la raccolta delle prime
vendite di autori famosi, First Flight (1963).
Knight è sposato con la scrittrice di fantascienza Kate Wilhelm.

I Kanamit non erano molto graziosi, è vero. Sembravano una via di


mezzo tra i maiali e gli umani, e non è una combinazione attraente. Vederli
per la prima volta sconvolgeva; quello era il loro svantaggio. Quando un
essere con l'aspetto di un diavolo arriva dalle stelle e ti offre un dono, non
hai molta voglia di accettare.
Non so che aspetto ci fossimo attesi nei visitatori interstellari... quelli di
noi che ci pensavano, voglio dire. Angeli, magari, oppure qualcosa di
troppo alieno per essere spaventoso. Forse per questo rimanemmo tutti
inorriditi e schifati quando atterrarono con le loro grandi navi e vedemmo
com'erano veramente.
I Kanamit erano piccoli e molto pelosi... pelo fitto, setoloso e
grigiobruno sugli abominevoli corpi grassi. I nasi sembravano grugni, gli
occhi erano piccoli, e le mani tozze avevano soltanto tre dita. Portavano
finimenti di pelle verde e calzoncini verdi, ma credo che i calzoncini
fossero una concessione al nostro senso del pudore. Gli indumenti erano
tagliati alla moda, con tasche e martingale dietro. Comunque i Kanamit
avevano il senso dell'umorismo.
Erano tre a quella seduta delle Nazioni Unite e, signore, non so dirvi che
effetto strano faceva vederli lì in una solenne seduta plenaria... tre grassi
porcini con finimenti e calzoncini verdi, seduti al lungo tavolo sotto il
podio, circondato dall'emiciclo stipato da delegati di tutte le nazioni.
Sedevano eretti, correttamente, e guardavano educatamente ogni oratore.
Le orecchie piatte pendevano sulle cuffie. Più tardi, mi pare, impararono
tutte le lingue umane, ma a quel tempo conoscevano solo inglese e
francese.
Sembravano perfettamente a loro agio... e questo, insieme al loro
umorismo, era una cosa che tendeva ad ispirarmi simpatia. Io ero nella
minoranza; non pensavo che cercassero di giocarci qualche brutto tiro.
Il delegato dell'Argentina si alzò e disse che il suo governo era
interessato alla dimostrazione di una nuova fonte d'energia poco costosa,
che i Kanamit avevano dato nella seduta precedente, ma che non poteva
impegnarsi per il futuro senza un'indagine molto più meticolosa.
Era quello che stavano dicendo tutti i delegati, ma io dovevo prestare
particolarmente attenzione al Señor Valdes, perché tendeva a balbettare e
aveva una pessima dizione. Me la cavai benissimo con la traduzione, a
parte un paio di esitazioni temporanee, e poi passai sulla linea polacco-
inglese per sentire come se la cavava Grigori con Jankiewicz. Jankiewicz
era la croce di Grigori, come Valdes era la mia.
Jankiewicz ripeté le osservazioni precedenti, con qualche variazione
ideologica e poi il segretario generale diede la parola al delegato francese
che presentò il dottor Denis Lévèque, il criminologo, e vennero portate
dentro parecchie complesse apparecchiature a rotelle.
Il dottor Lévèque osservò che molti si ponevano lo stesso interrogativo
che era stato espresso efficacemente dal delegato dell'URSS durante la
seduta precedente, quando aveva chiesto: «Qual è la motivazione dei
Kanamit? Che scopo hanno nell'offrirci doni senza precedenti, e senza
chiederci nulla in cambio?»
Poi il dottore disse: «Su richiesta di parecchi delegati e con il pieno
consenso dei nostri ospiti, i Kanamit, io ed i miei collaboratori abbiamo
eseguito su di loro una serie di test con gli apparecchi che vedete davanti a
voi. Ora i test verranno ripetuti».
Un brusio corse nell'aula. Vi fu una scarica di flash ed una delle
telecamere si avvicinò per inquadrare gli strumenti dell'apparecchio del
dottore. Nel contempo, l'enorme schermo televisivo dietro il podio
s'illuminò, e noi vedemmo due quadranti, entrambi con gli aghi sullo zero,
ed una striscia di carta su cui era appoggiato la punta di un pennino.
Gli assistenti del dottore stavano fissando fili alle tempie di uno dei
Kanamit, gli avvolgevano intorno all'avambraccio una fascia di gomma
coperta di tela, e gli fissavano qualcosa al palmo della mano.
Sullo schermo, vedemmo la striscia di carta che cominciava a muoversi,
mentre il pennino vi tracciava un lento zigzag. Uno degli aghi cominciò a
sobbalzare ritmicamente; l'altro scattò e restò lì, ondeggiando leggermente.
«Questi sono gli strumenti standard per valutare la verità di
un'affermazione,» spiegò il dottor Lévèque. «Il nostro primo scopo, poiché
la fisiologia dei Kanamit ci è ignota, è stato determinare se reagiscono o no
a questi test come gli esseri umani. Ora ripeteremo uno dei molti
esperimenti che sono stati eseguiti per accertarlo.»
Indicò il primo quadrante. «Questo strumento registra le pulsazioni
cardiache del soggetto. Questo mostra la conduttività elettrica delle pelle
nel palmo della mano, e ne misura la traspirazione, che aumenta sotto
tensione. E questo...» Indicò la striscia di carta ed il pennino, «mostra
l'andamento e l'intensità delle onde elettriche che emanano dal suo
cervello. È stato dimostrato, con i soggetti umani, che tutte queste letture
dipendevano dal fatto che il soggetto dicesse o no la verità.»
Prese due grandi pezzi di cartone, uno rosso e uno nero. Quello rosso era
un quadrato di circa un metro di lato; quello nero un rettangolo lungo un
metro e dieci. Si rivolse al Kanama.
«Quale dei due è più lungo?»
«Il rosso,» disse il Kanama.
I due aghi balzarono all'impazzata, e anche la linea tracciata sulla carta.
«Ripeterò la domanda,» disse il dottore. «Quale dei due è più lungo
dell'altro?»
«Il nero.» rispose l'essere.
Questa volta gli strumenti continuarono con il ritmo normale.
«Come siete venuti su questo pianeta?» chiese il dottore.
«A piedi,» rispose il Kanama.
Gli strumenti reagirono ancora, e nell'aula ci fu qualche risata.
«Di nuovo,» fece il dottore. «Come siete venuti su questo pianeta?»
«Con un'astronave,» disse il Kanama, e gli strumenti non sussultarono.
Il dottore si rivolse ai delegati. «Sono stati effettuati molti esperimenti
del genere,» spiegò, «ed io e i miei colleghi siamo certi che il meccanismo
è efficiente. Ora...» E si girò verso il Kanama, «chiederò al nostro illustre
ospite di rispondere alla domanda formulata nel corso dell'ultima seduta
dal delegato sovietico... cioè, quale è il motivo per cui i Kanamit offrono
questi grandi doni al popolo della Terra?»
Il Kanama si alzò. Parlando in inglese, questa volta, disse: «Sul mio
pianeta c'è un detto: "Ci sono più enigmi in una pietra che nella testa di un
filosofo." I moventi degli esseri intelligenti, anche se talvolta possono
apparire oscuri, sono semplici in confronto alle complessità dell'universo
naturale. Spero quindi che i popoli della Terra comprenderanno, e
crederanno, quando vi dico che la nostra missione sul vostro pianeta è
soltanto questa... portarvi la pace e l'abbondanza che godiamo anche noi, e
che in passato abbiamo recato ad altre razze della galassia. Quando sulla
Terra non ci sarà più fame, né guerra, né sofferenze inutili, questo sarà il
nostro premio.» E gli aghi non sussultarono neppure una volta.
Il delegato dell'Ucraina balzò in piedi, chiedendo la parola, ma ormai
s'era fatto tardi e il segretario generale dichiarò chiusa la seduta.
Incontrai Grigori mentre lasciavamo l'aula. Era rosso per l'eccitazione.
«Chi ha organizzato quel circo?» chiese.
«A me i test sembravano autentici,» dissi.
«Un circo!» esclamò lui con veemenza. «Una farsa di second'ordine. Se
fossero autentici, Peter, perché il dibattito è stato soffocato?»
«Domani ci sarà tutto il tempo per il dibattito.»
«Domani il dottore e i suoi apparecchi saranno tornati a Parigi. E prima
di domani possono accadere molte cose. In nome della ragione, come si fa
a fidarsi di un essere che ha l'aria di divorare i bambini?»
Ero un po' irritato. Dissi: «Sei sicuro di non essere preoccupato più della
loro politica che del loro aspetto?»
«Beh,» fece Grigori, e se ne andò.
Il giorno dopo, dai laboratori governativi di tutto il mondo dove veniva
collaudata la sorgente d'energia dei Kanamit, cominciarono ad arrivare i
rapporti. Erano entusiastici. Non me n'intendo di queste cose, ma a quanto
pareva quelle cassettine metalliche potevano dare più energia di una pila
atomica, pressoché gratis e più o meno per sempre. E si diceva che
fabbricarle costava così poco che tutti, al mondo, avrebbero potuto farsele.
Nel primo pomeriggio arrivò la notizia che diciassette paesi stavano già
cominciando a costruire le fabbriche per produrle.
Il giorno dopo i Kanamit presentarono all'Onu piani e modelli di un
congegno che avrebbe aumentato dal 60 al 100 per cento la fertilità delle
terre coltivabili. Accelerava la formazione di nitrati nel suolo, o qualcosa
del genere. I telegiornali non parlavano d'altro che dei Kanamit. Il giorno
successivo, loro lanciarono la bomba.
«Ora voi disponete d'energia potenzialmente illimitata e di una
produzione alimentare maggiorata,» fece uno di loro. Indicò con le tre dita
uno strumento che stava sul tavolo davanti a lui. Era una cassetta montata
su un treppiede, con un riflettore parabolico. «Oggi vi offriamo un terzo
dono che è importante quanto i primi due.»
Fece segno ai cameramen di avvicinare le telecamere. Poi prese un
grosso cartone coperto di disegni e di scritte in inglese. Lo vedemmo sul
grande schermo sopra il podio: era tutto chiaramente leggibile.
«Sapete che questa trasmissione viene ricevuta in tutto il vostro mondo,»
disse il Kanama. «Desidero che quanti hanno gli apparecchi per
fotografare da un teleschermo lo usino.»
Il segretario generale si sporse in avanti e formulò bruscamente una
domanda, ma il Kanama non gli badò.
Vi fu un silenzio sconcertato.
«L'apparecchio,» disse, «genera un campo in cui nessun esplosivo, di
qualunque tipo, può detonare.»
Vi fu un silenzio sconcertato.
Il Kanama disse: «Ormai non si può più nasconderlo. Se una nazione ce
l'ha, devono averlo tutte.» Poiché nessuno aveva l'aria di capire, il Kanama
spiegò bruscamente: «Non ci saranno più guerre.»
Era la notizia del millennio, ed era verissima. Risultò che le esplosioni di
cui aveva parlato il Kanama includevano anche quelle dei motori a benzina
e dei Diesel. Ormai era semplicemente impossibile organizzare ed
equipaggiare un esercito moderno.
Avremmo potuto tornare agli archi e alle frecce, naturalmente, ma i
militari non ne sarebbero stati soddisfatti. E poi, non ci sarebbe più stato
motivo di far guerre. Presto ogni nazione avrebbe avuto tutto.
Nessuno pensò più agli esperimenti con la macchina della verità, o
chiese ai Kanamit qual era la loro politica. Grigori era frastornato: non
aveva la possibilità di provare i suoi sospetti.
Lasciai l'impiego alle Nazioni Unite dopo pochi mesi, perché prevedevo
che l'organizzazione si sarebbe estinta. L'attività dell'ONU era un boom,
per ora; ma dopo un anno non avrebbe avuto niente da fare. Ogni nazione
della Terra era avviata a diventare completamente autosufficiente; non ci
sarebbe più stato bisogno di arbitrati.
Accettai un posto di traduttore presso l'ambasciata dei Kanamit, e fu là
che ritrovai Grigori. Fui lieto di vederlo, ma non riuscivo a immaginare
che cosa ci facesse.
«Credevo fossi all'opposizione,» dissi. «Non raccontarmi che ti sei
convinto della buona fede dei Kanamit.»
Lui aveva l'aria un po' vergognosa. «Comunque, non sono quel che
sembrano,» rispose.
Era la concessione massima che poteva fare, ed io l'invitai nel salone
dell'ambasciata a bere qualcosa. Era un posto intimo, e Grigori cominciò a
confidarsi davanti al terzo daiquiri.
«Mi affascinano,» disse. «Continuo a odiarli, istintivamente - questo non
è cambiato - ma non posso rendermi conto della realtà. Avevi ragione tu,
ovviamente; avevano soltanto intenzione di farci del bene. Ma vedi...» E si
sporse attraverso il tavolo. «Non hanno mai risposto alla domanda del
delegato sovietico.»
Sbuffai, credo.
«No, veramente,» fece lui. «Ci hanno detto cosa intendevano fare...
portarvi la pace e l'abbondanza di cui godiamo noi stessi. Ma non hanno
detto perché.»
«Perché i missionari...»
«Missionari un corno!» esclamò lui rabbiosamente. «I missionari hanno
una motivazione religiosa. Se questi esseri possiedono una religione, non
ne hanno mai parlato neppure una volta. E soprattutto, non hanno mandato
un gruppo di missionari; hanno mandato una delegazione politica... un
gruppo che rappresenta la volontà e la politica di tutto il loro popolo. Ma
che cos'hanno da guadagnare dal nostro benessere i Kanamit, come popolo
o come nazione?»
Io dissi: «La cultura...»
«Cultura un cavolo! No, è qualcosa di meno ovvio, qualcosa di oscuro
che appartiene alla loro psicologia e non alla nostra. Ma fidati di me, Peter:
non esiste l'altruismo totalmente disinteressato. In un modo o nell'altro
hanno qualcosa da guadagnare.»
«E tu sei qui per questo,» dissi io. «Per cercare di scoprire di che si
tratta.»
«Esatto. Volevo entrare a far parte di uno di quei gruppi che vanno per
dieci anni sul loro pianeta con i programmi di scambi, ma non ho potuto;
la quota era già stata completata una settimana dopo l'annuncio. Questa è
una soluzione di ripiego. Sto studiando la loro lingua, e tu sai che una
lingua rispecchia i principi fondamentali della gente che la usa. Conosco
già abbastanza bene la lingua parlata. Non è difficile, in realtà, e contiene
diverse allusioni. Alcune espressioni idiomatiche sono molto simili
all'inglese. Sono sicuro che finirò per trovare la soluzione.»
«Te lo auguro,» feci io, e tornammo al lavoro.
Da quel giorno vidi frequentemente Grigori; e mi teneva informato dei
suoi progressi. Un mese dopo quel nostro primo incontro era molto
emozionato; diceva che si era procurato un libro dei Kanamit e stava
cercando di decifrarlo. Loro scrivevano in ideogrammi, peggio dei cinesi,
ma Grigori era deciso a risolvere l'enigma, a costo di metterci anni. Voleva
il mio aiuto.
Beh, nonostante tutto la cosa m'interessava, anche se sapevo che sarebbe
stato un lavoro molto lungo. Passammo insieme diverse serate, lavorando
con materiale dei giornali murali dei Kanamit e cose simili, e con il
dizionario kanamit-inglese estremamente limitato che distribuivano al
personale. Mi rimordeva un po' la coscienza per il libro rubato, ma poco a
poco mi lasciai assorbire dal problema. Le lingue sono il mio campo,
dopotutto. Era inevitabile che mi sentissi affascinato.
In poche settimane deciframmo il titolo. Era Come servire l'uomo,
evidentemente un manuale che distribuivano ai nuovi membri Kanamit
dell'ambasciata. Ormai ne arrivavano di continuo, una nave piena, circa
una volta al mese; stavano aprendo laboratori di ricerca d'ogni genere,
cliniche e così via. Se c'era qualcuno, sulla Terra, che diffidava ancora di
loro, doveva vivere dalle parti del Tibet.
Era sorprendente osservare i cambiamenti che avevano operato in meno
di un anno. Non c'erano più eserciti permanenti, né scarsità di niente, né
disoccupazione. Quando prendevi in mano un giornale, non vedevi in
prima pagina un titolo che parlava della Bomba H o di un satellite; le
notizie erano sempre belle. Era difficile abituarsi. I Kanamit lavoravano
sulla biochimica umana e all'ambasciata si sapeva che erano in procinto di
annunciare metodi per renderci più alti e forti e sani - praticamente una
razza di superuomini - e avevano una cura potenziale per le malattie
cardiache ed il cancro.
Non vidi Grigori per una settimana, dopo che finimmo di decifrare il
titolo del libro; ero andato in vacanza in Canada, e ne avevo un gran
bisogno. Quando rientrai, rimasi sconvolto nel vederlo tanto cambiato.
«Cosa diavolo ti succede, Grigori?» chiesi. «Hai un aspetto terribile.»
«Vieni nel salone».
Andai con lui, e Grigori si versò una dose abbondante di scotch, come se
ne avesse un gran bisogno.
«Su, avanti, cosa succede?» l'incalzai.
«I Kanamit mi hanno messo nell'elenco dei passeggeri per il prossimo
scambio,» fece lui. «E ci hanno messo anche te, altrimenti non sarei qui a
parlarti.»
«Bene,» dissi io. «Ma...»
«Non lo fanno per altruismo.»
Cercai di ragionare con lui. Gli feci notare che avevano trasformato la
Terra in un paradiso, in confronto a quel che era prima. Lui si limitò a
scuotere il capo.
Poi dissi: «Beh, e i test con la macchina della verità?»
«Una farsa,» rispose lui, senza accalorarsi. «L'ho detto, allora, sciocco.
Ma affermavano la verità, in un certo senso.»
«E il libro?» chiesi io, irritato. «Cosa ne dici... Come servire l'uomo.
Non l'hanno messo lì perché tu lo leggessi. Fanno sul serio. Come lo
spieghi?»
«Ho letto il primo capoverso di quel libro,» disse Grigori. «Perché credi
che non dorma più da una settimana?»
Io chiesi «Beh?» e lui mi rispose con uno strano sorriso contratto.
«È un libro di cucina,» spiegò.

Titolo originale:
To Serve Man
(Galaxy Science Fiction, novembre 1950).

1951: «Super Science Stories»

Poul Anderson
Grido alle stelle

Solo in questi ultimi anni gli editori inglesi hanno riconosciuto in Poul
Anderson uno dei maggiori scrittori di science fiction. Una trascuratezza
molto grave. Poul William Anderson è nato a Bristol, Pennsylvania,
giovedì 25 novembre 1926, ed è quindi il primo autore rappresentato in
questa serie che sia nato dopo le riviste di fantascienza. I suoi genitori
erano danesi, e tutta la sua opera risente l'influenza delle origini
scandinave. Il suo nome, tra l'altro, si pronuncia come una via di mezzo
tra powl e pole.
Parlerò delle sue prime vendite, quando era ancora all'Università del
Minnesota, nel saggio finale. La prima vera apparizione di Anderson è su
Astounding del settembre 1944. Campbell aveva un settore intitolato
Probability Zero, un'iniziativa che durò poco, dedicata a parodie
scientifiche scritte da aspiranti scrittori. Il bozzetto di Anderson era
intitolato A Matter of Relativity.
Anderson lasciò l'università e si mise a scrivere a tempo pieno. Ha
continuato a produrre una mole cospicua di lavoro, soprattutto science
fiction, ma anche nel campo del fantastico, della narrativa storica, del
giallo e dei libri per bambini. Ha vinto parecchi premi fantascientifici,
compresi cinque Hugo e due Nebula. Tende alla precisione scientifica e
alla caratterizzazione plausibile, che danno alle sue opere un tocco di vita
in più. Ha scritto science fiction umoristica, come The High Crusade
(1960), in cui un cavaliere s'impadronisce di un'astronave aliena discesa
sulla Terra medievale, e seria, come The People of the Wind (1973), che
studia profondamente l'interazione tra i coloni umani d'un pianeta alieno
e la cultura degli indigeni alati.
Nel 1971, James Blish scriveva di Anderson: «È mia convinta opinione
(sospetto da molti condiviso) che Anderson sia l'unico scrittore superstite
dell'Età dell'Oro di Astounding e ancora attivo a non aver mostrato un
continuo (o altalenante) declino... Poul Anderson, lo scienziato, il tecnico,
lo stilista, il bardo, l'umanista, l'umorista - l'elenco potrebbe continuare
all'infinito - è completamente immune da qualsiasi mutamento delle mode
e delle tendenze. È, in breve, un artista autentico»). Devo aggiungere
altro?

Mentre si avvicinava alla baita, si accorse che qualcuno lo stava


aspettando.
Si soffermò per un momento, con una smorfia, e lanciò avanti le sue
percezioni per analizzare quel lampo di conoscenza. Qualcosa, nel suo
cervello, fremette alla presenza del metallo, e c'erano sfumature organiche
più sottili... olio e gomma e plastica... Lo considerò un comune, piccolo
elicottero, e si concentrò sui frammenti vaghi e sfuggenti di pensiero,
d'energia nervosa, di flussi vitali tra cellule e molecole. C'era una persona
soltanto, e i suoi dati si adattavano ad un'unica possibilità.
Margaret.
Per un altro istante restò in silenzio, e la sua emozione primaria era la
tristezza. Provava irritazione, forse dispiacere perché il suo nascondiglio
era stato finalmente individuato, ma era dominato soprattutto dalla pietà.
Povera Peggy. Povera ragazza.
Beh... avrebbe dovuto affrontare la situazione. Raddrizzò le spalle scarne
e riprese a camminare.
La foresta dell'Alaska era silenziosa intorno a lui. Una lieve brezza
serotina faceva frusciare i pini scuri e gli sfiorava le guance, come una
presenza solitaria nel silenzio. Gli uccelli cinguettavano preparandosi al
riposo, e le zanzare levavano un ronzio sottile e acuto, turbinando al di
fuori del cerchio magico dello spray repellente, inodore per gli uomini che
lui aveva ideato. Altrimenti, c'era solo lo scricchiolio sommesso dei suoi
passi sull'antico tappeto d'aghi. Dopo due anni di silenzio, le vibrazioni
d'una presenza umana erano come un grande urlo nei suoi nervi.
Quando uscì sul praticello, il sole stava tramontando dietro le colline
settentrionali. Lunghi raggi aurei scendevano obliqui sull'erba, conferendo
un fulgore stregato alla capanna e creando ombre enormi. L'elicottero era
un barbaglio metallico sullo sfondo della foresta già buia, e lui arrivò
vicino prima che i suoi occhi abbagliati potessero distinguere la donna.
Lei stava davanti alla porta, in attesa, e il tramonto trasformava in oro
cupreo i suoi capelli. Portava il maglione rosso e la gonna blu che aveva
avuto l'ultima volta che si erano visti, e teneva incrociate le mani sottili.
L'aveva atteso così tante volte, quando lui usciva dal laboratorio, silenziosa
come una bambina obbediente. Non aveva mai usato contro di lui la sua
vivacità impertinente, dopo aver scoperto che ruscellava sulla sua mente
ignara come la pioggia su uno dei grandi pini.
Lui sorrise. «Salve, Peggy,» disse, rendendosi conto dell'inadeguatezza
delle parole. Ma cosa poteva dirle?
«Joel...» bisbigliò lei.
La vide trasalire, sentì la scossa dei suoi nervi. Il suo sorriso divenne più
contorto. Annuì. «Già,» fece, «sono sempre stato calvo come un uovo. Qua
fuori, da solo, non avevo bisogno di mettere una parrucca.»
I grandi occhi nocciola lo scrutarono. Lui portava abiti da boscaiolo,
camicia scozzese, jeans macchiati e scarponi pesanti, e aveva una canna da
pesca e il mulinello e una sfilza di pesci persici. Ma non era cambiato per
nulla. La figura minuta e snella, il volto senza età, gli occhi scuri e
luminosi sotto la fronte alta non erano cambiati. Il tempo non l'aveva
toccato.
Persino la calvizie gli stava bene; faceva spiccare il forte arco classico
della testa, e toglieva un altro degli strati di normalità con cui s'era
mimetizzato.
Vide che lei era dimagrita, e all'improvviso sorridere fu uno sforzo
troppo grande. «Come hai fatto a trovarmi, Peggy?» le chiese sottovoce.
Fin dalla prima parola, la sua mente balzò verso la risposta: ma lasciò
che fosse lei a dirlo. «Dopo che sei sparito da sei mesi senza farti più vivo,
noi... tutti i tuoi amici, se ne avevi... ci siamo preoccupati. Abbiamo
pensato che ti fosse successo qualcosa nell'interno della Cina. Così
abbiamo cominciato a indagare, con l'aiuto del governo cinese, e presto
abbiamo scoperto che non c'eri mai andato. Era stato solo per metterci
fuori strada, la ricerca sui siti archeologici cinesi, un sistema per
guadagnare tempo mentre tu... sparivi. Io ho continuato a cercarti, anche
quando tutti gli altri hanno rinunciato, e finalmente mi è venuta in mente
l'Alaska. A Nome ho sentito parlare di uno strano tipo che si era stabilito
nel bosco. Perciò sono venuta qui.»
«Non potevi lasciarmi perdere?» chiese lui stancamente.
«No.» La voce e le labbra di Peggy tremavano. «Dovevo saperlo con
certezza, Joel. Dovevo sapere che eri sano e salvo e... e...»
Lui la baciò, assaporando il sale sulla sua bocca, captando la lieve
fragranza dei suoi capelli. Le onde spezzate dei pensieri e delle emozioni
di lei lo invadevano, turbinando nel suo cervello come una marea di
solitudine e di desolazione.
All'improvviso, lui seppe esattamente ciò che sarebbe accaduto; ciò che
avrebbe dovuto dirle e le reazioni di lei... lo prevedeva quasi parola per
parola, e l'inutilità era come un peso plumbeo sulla sua mente. Ma doveva
continuare: ogni sillaba dolorosa doveva uscire dalle sue labbra. Gli umani
erano così, brancolavano in una tenebra di solitudine, si chiamavano l'un
l'altro attraverso gli abissi e non si comprendevano mai, mai.
«Sei molto gentile,» disse, impacciato. «Non avresti dovuto, Peggy,
ma...» La voce si spense, le previsioni vennero meno. Non c'erano parole
che non fossero banali e prive di significato.
«Non potevo farne a meno,» sussurrò lei. «Sai che ti amo.»
«Senti, Peggy.» fece lui. «Non può continuare così. Dobbiamo chiarirlo
subito. Se ti dico chi sono, e perché sono scappato...» Tentò di assumere un
tono gaio. «Ma non bisogna mai affrontare scene emotive a stomaco vuoto.
Vieni dentro, e friggerò i pesci.»
«Li friggerò io,» disse lei, ritrovando un po' del suo vecchio spirito.
«Come cuoca, sono meglio di te.»
Sarebbe stato un colpo per lei, ma: «Temo che tu non sappia usare i miei
apparecchi, Peggy.»
Fece un segnale alla porta, che si aprì. Mentre Peggy lo precedeva
entrando, lui vide che aveva il viso e le mani arrossati dalle punture di
zanzara. Doveva aver aspettato a lungo che lui rientrasse.
«Peccato che tu sia venuta oggi,» continuò lui, disperatamente. «Di
solito lavoro qui dentro. Oggi mi sono preso una giornata di vacanza.»
Lei non rispose. Il suo sguardo girava sulla baita, cercando di scoprire
l'ordine immenso che, lo sapeva, doveva stare alla base di quel caos di
materiali.
All'esterno, lui aveva montato tronchi e assi di legno per camuffarla da
baita normale. All'interno, sembrava il suo laboratorio di Cambridge, e lei
riconobbe alcuni degli apparecchi. Ne aveva caricato un aereo, prima di
partire. C'erano altre cose che Peggy non ricordava, opera delle mani di lui
in quei due anni di solitudine, giungle di cavi e valvole e misuratori e
apparecchi meno comprensibili. Pochissimi avevano l'aspetto rozzo e
incompleto degli strumenti sperimentali. Lui aveva lavorato su un progetto
immane, e ormai doveva essere quasi alla fine.
Ma poi...?
Il gatto grigio, che era stato il suo unico, vero compagno, persino a
Cambridge, le si strusciò contro le gambe con un miagolio che forse era di
riconoscimento. Un benvenuto più caloroso di quello che lui mi ha dato,
pensò amaramente Peggy; e poi, sentendosi addosso gli occhi neri di Joel,
arrossì. Era ingiusto. L'aveva stanato dalla solitudine che lui si era scelto, e
si era comportato con correttezza.
Correttezza... ma niente umanità. Nessun maschio umano poteva venire
inseguito per tutto il mondo da una donna attraente senza provare qualcosa
di più del rammarico e della pietà che lui mostrava.
O forse provava qualcosa d'altro? Lei non l'avrebbe mai capito. Nessuno
avrebbe mai capito quello che avveniva dentro quel cranio ben modellato.
Il resto dell'umanità aveva troppo poco in comune con Joel Weatherfield.
«Il resto dell'umanità?» chiese lui, sottovoce.
Peggy trasalì. La sua vecchia abitudine di leggere nella mente gli aveva
alienato molta gente. Non si sapeva mai quando l'avrebbe fatto, e fino a
che punto era un'intuizione basata su una logica trascendente e fino a che
punto era... era...
Lui annuì. «Sono parzialmente telepatico,» spiegò. «E sono capace di
colmare le lacune... come il Dupin di Poe, ma più facilmente. E ci sono
anche altre cose... ma per il momento lascia stare. Più tardi.»
Gettò il pesce in uno sportello e regolò vari quadranti. «Fra poco sarà
pronta la cena,» disse.
«Quindi adesso hai inventato il cuoco-robot,» notò lei.
«Mi risparmia il lavoro.»
«Potresti guadagnare un altro milione di dollari o giù di lì, se lo lanciassi
sul mercato.»
«Perché? Ho già più denaro di quanto possa servire ad un essere
ragionevole.»
«Faresti risparmiare tempo a tanta gente, sai.»
Lui scrollò le spalle.
Peggy guardò nella stanzetta più piccola, dove lui doveva vivere.
C'erano pochi mobili, una branda ed una scrivania e alcuni scaffali con la
sua enorme biblioteca microstampata. In un angolo c'era lo strumento
multitonale con cui lui componeva la musica che nessuno aveva mai
apprezzato o capito. Ma lui aveva sempre giudicato superficiale e inutile la
musica dell'uomo. E l'arte dell'uomo e la letteratura dell'uomo e tutte le
opere e la vita dell'uomo.
«Come va Langtree, con il suo nuovo encefalografo?» chiese lui,
sebbene già intuisse la risposta. «Avevi intenzione di aiutarlo a realizzarlo,
mi pare.»
«Non so.» Peggy si chiese se la sua voce ne rispecchiava la stanchezza.
«Ho passato tutto il tempo cercandoti, Joel.»
Lui fece una smorfia di dolore e si girò verso il cuoco automatico. Si
aprì lo sportello e ne uscì fuori un vassoio con due piatti. Lui li mise su un
tavolo e indicò le sedie. «Accomodati, Peggy.»
Nonostante tutto, la macchina l'affascinava. «Devi avere un'unità a
induzione per cuocere tanto in fretta,» mormorò lei. «E immagino che le
patate e le verdure siano immagazzinate là dentro. Ma le parti
meccaniche...» Scosse la testa, sconcertata, sapendo che il modello
avrebbe rivelato qualche disposizione semplicissima e ingegnosa.
Da un altro sportello uscirono lattine di birra coperte di brina. Lui sorrise
e alzò la sua. «La più grande realizzazione dell'uomo. Skoal.»
Peggy non s'era accorta di avere tanta fame. Lui mangiava più
lentamente, osservandola, pensando all'assurdità della dottoressa Margaret
Logan del MIT che divorava pesce e beveva birra in una baita dell'Alaska.
Forse lui avrebbe dovuto andare su Marte o su un satellite di uno dei
pianeti esterni. Ma no, così avrebbe lasciato una traccia facile da seguire...
non si poteva decollare con un'astronave con la stessa facilità con cui ci si
trasferiva in Cina. Se proprio dovevano trovarlo, era meglio che fosse lei.
Forse Peggy avrebbe serbato il suo segreto con l'ostinata devozione che lui
conosceva così bene.
Era sempre stato piacevole averla vicina, quando lui aveva collaborato al
lavoro cibernetico del MIT. Sono abbastanza rari quelli che a ventiquattro
anni hanno già laurea e dottorato di ricerca: e quando sono anche donne
giovani e belle, diventano eccezioni. Langtree era disperatamente
innamorato di lei, naturalmente. Ma lei si era addossata un doppio
programma di lavoro, aiutando Weatherfield nei suoi laboratori privati,
oltre a svolgere le mansioni normali... e intendeva concluderle alla
scadenza del contratto. Gli era stata utilissima, e lui non era rimasto cieco
al suo aspetto: ma era la stessa ammirazione che provava per i paesaggi e i
gatti di razza pura e gli spazi aperti. E lei era stata una dei pochi umani con
cui poteva parlare.
Era stata. In un anno, Weatherfield aveva esaurito le possibilità di lei,
come per gli altri le esauriva in un mese. Aveva scoperto come avrebbe
reagito in ogni situazione, cosa avrebbe risposto a ciascuna delle sue
osservazioni, conosceva i suoi sentimenti, con una percezione sensitiva
che trascendeva la conoscenza di lei. E la solitudine era ritornata.
Ma non aveva previsto che lei l'avrebbe ritrovato, pensò amaramente.
Dopo aver pianificato la sua fuga, non si era preoccupato di seguirne tutte
le conseguenze logiche... o non aveva osato. Beh, adesso certo lo stava
pagando, e pagava anche lei.

Joel Weatherfield aveva sgombrato il tavolo e vi aveva messo caffè e


sigarette, prima che cominciassero a parlare. L'oscurità velava le finestre,
ma le lampade fluorescenti si accesero automaticamente. Peggy udì un
lupo ululare lontano nella notte, e pensò che la foresta le era meno aliena
di quella stanza piena di macchine e dell'uomo che la guardava con quegli
occhi troppo luminosi.
Lui s'era seduto in una poltrona, ed il gatto grigio gli era balzato sulle
ginocchia e faceva le fusa, mentre lui l'accarezzava. Peggy si avvicinò e
sedette sullo sgabello ai suoi piedi, mettendogli una mano sulle ginocchia.
Era inutile reprimere gli impulsi, quando li riconosceva prima che li
riconoscesse lei.
Joel sospirò. «Peggy,» disse con lentezza, «stai commettendo un grosso
errore.»
Lei pensò, fuggevolmente, alla banalità di quelle parole, e poi ricordò
che lui s'era sempre ritrovato impacciato, a parlare. Come se non sentisse
le normali sfumature umane e dovesse orientarsi attraverso la società per
mezzo di un robot meccanico.
Joel annuì. «È esatto.», disse.
«Ma cosa ti prende?» protestò disperatamente lei. «So che ti chiamavano
"pesce freddo" e "cervellone" e "valvola animata", ma non è così. Io so che
senti più di noi, ma... ma...»
«Non allo stesso modo,» concluse lui, gentile.
«Oh, sei sempre stato un tipo strano,» fece Peggy, con voce spenta. «Il
ragazzo prodigio, no? L'oscuro contadino che è entrato a Harvard a tredici
anni e a quindici si è laureato con tutti gli onori. Inventore del motore
spaziale ionico, del vaccino per il raffreddore, della determinazione dell'età
geologica per mezzo della struttura cristallina, e solo il cielo e l'ufficio
brevetti sanno che altro. Premio Nobel per la fisica per la meccanica
ondulatoria relativistica. Pioniere in un ramo interamente nuovo della
teoria delle serie matematiche. Brillante scrittore di archeologia, economia,
ecologia e semantica. Fondatore di nuove scuole di pittura e poesia. Qual è
il tuo Q.I., Joel?»
«Come posso saperlo? Al di sopra di 200, o giù di lì, il Q.I. nel senso
comune della parola diventa insignificante. Sono stato uno sciocco, Peggy.
Molto del mio lavoro pubblicato è stato fatto in gioventù, per un desiderio
puerile di lodi e di riconoscimenti. Dopo, non sono più riuscito a
fermarmi... la situazione non lo permetteva. E naturalmente, dovevo far
passare il tempo.»
«Poi, a trent'anni, hai fatto i bagagli e sei scomparso. Perché?»
«Speravo che mi credessero morto,» mormorò lui. «Avevo organizzato
un bellissimo incidente aereo fasullo nel Gobi, ma immagino che nessuno
se ne sia mai accorto. Perché i poveri sciocchi devoti come te non
credevano che potessi morire. Non hai mai pensato di cercare i miei resti.»
Le passò leggermente la mano sui capelli, e lei sospirò e gli posò la testa
sul ginocchio. «Avrei dovuto prevederlo.»
«Perché diavolo dovessi innamorarmi di un pazzo come te, non lo capirò
mai,» disse lei, alla fine. «Molte donne scappavano per la paura. Neppure
il tuo denaro serviva ad attirarle.» Rispose alla propria domanda con la
precisione di una lunga riflessione. «Ma era questione di qualità,
immagino. Dopo di te, chiunque altro diventava così banale e insipido.»
Alzò gli occhi verso di lui, con un'espressione improvvisa di comprensione
atterrita. «Ed è per questo che non ti sei mai sposato?» mormorò.
Joel annuì, pietosamente. Poi, adagio, aggiunse: «E poi, non m'interessa
ancora il sesso. Sono ancora all'inizio dell'adolescenza, lo sai.»
«No, non lo so.» Lei non si mosse, ma Joel la sentì irrigidirsi.
«Non sono umano,» spiegò sottovoce Joel Weatherfield.
«Un mutante? No, non puoi esserlo.» La sentiva tesa, sentiva la corrente
improvvisa di pensieri scatenati e d'impulsi nervosi, la pulsazione del
sangue mentre le ghiandole endocrine cercavano l'equilibrio ad un livello
elevato di pericolo. Era la vecchia, istintiva paura del buio e dell'ignoto e
delle presenze avide dietro un fioco cerchio di luci... lei restava immobile,
ma era un animale teso per il panico.
Venne la calma, dopo un po', mentre lui si limitava ad accarezzarle i
capelli. Peggy lo guardò di nuovo, facendosi forza per fissarlo negli occhi.
Joel sorrise, come poté, e disse: «No, no, Peggy, tutto questo non poteva
accadere in una mutazione. Mi hanno trovato in un campo di grano in una
mattina d'estate, trent'anni fa. Una... donna... che doveva essere mia madre,
era distesa vicino a me. Più tardi mi dissero che era del mio tipo fisico, e
che questo e gli strani abiti iridescendi che indossava facevano pensare che
venisse da un circo. Ma era morta, bruciata e dilaniata da energie contro le
quali mi aveva riparato con il suo corpo. C'erano solo pochi frammenti
cristallini, intorno. Li portarono via e seppellirono tutto.
«I Weatherfield erano due coniugi anziani, senza figli, e buoni. Ero
piccolo, naturalmente, e mi presero con loro. Fisicamente crebbi molto
lentamente, ma da un punto di vista mentale fu tutta un'altra cosa. Finirono
per essere fierissimi di me, nonostante il mio strano aspetto. Presto mi
fabbricai un parrucchino per nascondere la testa calva, e con quello e gli
abiti normali sono sempre riuscito a passare per un umano. Ma forse
ricorderai che nessun umano mi ha mai visto senza camicia e senza
mutande.
«Naturalmente, capii presto quale doveva essere la verità. Chissà dove
doveva esserci una razza umanoide ma molto più progredita dell'uomo,
capace di volare tra le stelle. Chissà come, mia madre ed io eravamo stati
abbandonati su questo pianeta deserto e, nell'immensità dell'universo, gli
eventuali cercatori non ci hanno mai trovati.»
Ripiombò nel silenzio. Poco dopo, Margaret mormorò: «Quanto sei...
umano... Joel?»
«Non molto,» disse lui con un balenio del vecchio sorriso sincero che lei
ricordava così bene. Quante volte l'aveva visto alzare la testa da un lavoro
che andava particolarmente bene e rivolgerle quell'occhiata! «Ecco, te lo
mostrerò.»
Joel fischiò, ed il gatto gli balzò dalle ginocchia. Un altro fischio, e
l'animale attraversò la stanza e premette un interruttore con la zampa. Si
staccarono alcune grosse lastre, e il gatto le portò, tenendole in bocca.
Margaret emise un respiro tremante. «Non avevo mai sentito che
qualcuno potesse addestrare un gatto per sbrigare certe commissioni.»
«Questo è un gatto speciale,» rispose distrattamente lui, e si sporse per
mostrarle le lastre. «Queste sono mie radiografie. Conosci la tecnica per
fotografare i diversi strati del tessuto? Ho perfezionato io stesso questo
studio, ed ammetto di avere anche esumato le ossa di mia madre: ma è
risultata una versione femminile del mio scheletro. Tuttavia, una
variazione del metodo della struttura cristallina ha dimostrato che lei aveva
almeno cinquecento anni.»
«Cinquecento anni!»
Joel annuì. «È una delle ragioni per cui sono certo di essere un
esponente giovanissimo della mia razza. Fra l'altro, le ossa di mia madre
non presentavano segni d'invecchiamento: corrispondeva all'incirca ad un
umano di venticinque anni. Non so se la durata naturale della vita della
mia razza sia tanto grande, o se hanno mezzi artificiali per combattere la
senilità, ma so di potermi aspettare almeno mezzo millennio di vita sulla
Terra. E la Terra sembra avere una gravità maggiore del nostro mondo
patrio: non è un posto molto salubre, per me.»
Lei era troppo abbagliata per far qualcosa più che annuire. Il dito di Joel
seguiva le radiografie. «Le differenze dello scheletro non sono troppo
grandi, ma guarda qui e qui... il piede, la spina dorsale... le ossa del cranio
sono particolarmente strani... Poi gli organi interni. Puoi renderti conto da
sola che nessun essere umano ha mai avuto...»
«Un cuore doppio?» chiese lei, con voce spenta.
«In un certo senso. È un organo unico, ma ha più funzioni del cuore
umano. Comunque non ha importanza: quel che conta è la struttura
neurale. Ecco varie radiografie del cervello, prese ad angoli e profondità
diverse.»
Peggy faticò a reprimere un grido. Il suo lavoro sull'encefalografia aveva
richiesto una buona conoscenza dell'anatomia celebrale. Nessun essere
umano ha nella testa una cosa simile.
Non era molto più grande di un cervello umano. Migliore
organizzazione, pensò lei: quelli della razza di Joel non sarebbero mai
impazziti. C'erano analoghi: una corteccia fortemente convoluta, un
midollo allungato, tutto il resto. Ma c'erano altre parti che non avevano
equivalenti negli umani.
«Che cosa sono?» chiese.
«Non ne sono certo,» rispose lentamente Joel, un po' disgustato.
«Questo, per esempio, potrei chiamarlo centro della telepatia. È sensibile
alle correnti neurali di altri organismi. Comparando le reazioni e le parole
umane con le emanazioni che percepisco, ha realizzato una telepatia
limitata. Posso anche emettere, ma poiché nessun umano è capace di
captare, è un potere di cui non so che fare. Poi, ho anche il controllo
volontario di funzioni normalmente involontarie... blocchi del dolore,
regolazione endocrina, e così via. Ma non ho mai imparato a usarlo con
molta efficienza, e non oso fare molti esperimenti su me stesso. Ci sono
altri centri... e quasi tutti, non so neppure a che servano.»
Il suo sorriso era stanco. «Hai sentito parlare dei bambini ferini... quelle
rare creature umane che vengono allevate dagli animali? Non imparano
mai a parlare, né a esercitare le loro capacità specificamente umane, fino a
quando sono catturati e istruiti dagli uomini. In pratica, non sono neppure
umani.»
«Io sono un bimbo ferino, Peggy.»
Lei cominciò a piangere, scossa da profondi singhiozzi che la
squassavano come la mano di un gigante. Lui la tenne stretta fino a quando
passò, e Peggy restò seduta accanto alle sue ginocchia, mentre le lacrime le
scendevano lentamente dalle guance. La sua voce era un mormorio
tremulo:
«Oh, mio caro, mio caro, come devi essere stato solo...»

Solo? Nessun essere umano avrebbe mai saputo quanto era solo.
All'inizio non era risultato terribile. Da bambino, era stato troppo
assorbito ed estasiato dall'espandersi dei suoi orizzonti intellettuali per
preoccuparsi degli altri bambini che l'annoiavano... e quelli, a loro volta
detestavano cordialmente Joel per la sua stranezza ed il suo distacco. I
genitori adottivi avevano scoperto ben presto che i criteri normali non
valevano per lui; l'avevano tolto dalla scuola e gli avevano comprato i libri
e le apparecchiature che voleva. Avevano potuto permetterselo; a sei anni
lui aveva brevettato, a nome del vecchio Weatherfield, certe migliorie sulle
macchine agricole che avevano dato l'agiatezza alla famiglia. Lui era
sempre stato un «bravo bambino», per quanto poteva. I genitori non
avevano motivo di rammaricarsi di averlo adottato; ma era stato il caso
della gallina che ha covato uova d'anatra e vede gli anatroccoli allontanarsi
a nuoto.
Gli anni a Harvard erano stati un paradiso, un'orgia di apprendimento, di
conversazioni e di amicizia con i grandi che avevano finito per trattare
come un loro eguale quel ragazzino dall'aria solenne. A quei tempi, lui non
aveva avuto un vita sociale normale, ma non ne aveva sentito la mancanza;
gli studenti erano opachi ed un po' spaventati. Ben presto aveva imparato a
evitare la pubblicità... dopotutto, i bambini prodigio non erano del tutto
sconosciuti. L'unico guaio glielo aveva causato lo psichiatra, perché voleva
che lui fosse più «normale». Sorrideva ancora quando pensava ai modi
piuttosto diabolici con cui aveva spaventato quell'uomo per costringerlo a
lasciarlo in pace.
Ma verso la fine, aveva trovato limiti nella vita. Gli sembrava
assolutamente inutile assistere a lezioni ovvie e risolvere problemi che
erano già stati affrontati migliaia di volte. E cominciava a trovare un po'
noiosi i professori; riusciva sempre più spesso ad anticipare le loro risposte
alle sue domande e alle sue osservazioni, e quelle risposte diventavano
sempre più trite.
Da molto tempo aveva compreso quale doveva essere la sua vera natura,
sebbene avesse avuto il buon senso di non comunicare agli altri
quell'informazione. Adesso, in lui aveva incominciato a crescere il sogno:
trovare la sua gente!
A che serviva tutto ciò che faceva, quando i loro figli dovevano giocare
con le stesse forze, quando le sue scoperte più grandi dovevano essere
antiche, nella loro cultura, come lo era il fuoco nella civiltà dell'uomo?
Che orgoglio poteva provare per le sue realizzazioni, quando nessuno degli
stupidi animali che le vedevano poteva dire «Ben fatto!» come sarebbe
stato doveroso? Che cameratismo avrebbe potuto provare con gli esseri
ciechi e stupidi che ben presto diventano prevedibili come le sue
macchine? Con chi poteva pensare?
Si buttò all'impazzata nel lavoro, con l'unico scopo di far denaro. Non
era stato difficile. Dopo cinque anni era multimilionario, ed aveva agenti
che lo liberavano di tutte le preoccupazioni e le responsabilità: era libero di
fare quel che preferiva. Libero di lavorare per evadere.

Quanto mi sembrano insipidi e stantii gli usi di questo mondo!

Ma non di tutti i mondi. Chissà dove, chissà dove, nella schiera immensa
delle stelle...
La lunga notte continuava.
«Perché sei venuto qui?» chiese Margaret. La sua voce era sommessa,
ora, smorzata dalla disperazione.
«Volevo mantenere il segreto. E la società umana stava diventando
insopportabile.»
Lei rabbrividì, poi: «Hai trovato un modo per costruire un'astronave più
veloce della luce?»
«No. Quello che ho scoperto non indica un modo per superare i limiti di
Einstein. Un sistema deve esserci, ma non riesco a trovarlo. Non è
sorprendente, in realtà. Il nostro bimbo ferino, probabilmente, non
riuscirebbe mai a costruire un transatlantico.»
«E allora come speri di uscire dal Sistema Solare?»
«Pensavo ad un'astronave guidata da robot che andasse da una stella
all'altra: e io in animazione sospesa.» Joel ne parlava con disinvoltura,
come avrebbe descritto un metodo per riparare un rubinetto difettoso. «Ma
è poco pratico. La mia gente non può vivere nelle vicinanze, altrimenti
avremmo altri indizi della sua presenza, oltre quell'unico naufragio. Forse
non vive neppure in questa galassia. Terrò in serbo l'idea come ultima
risorsa.»
«Ma tu e tua madre dovevate essere a bordo di una nave. Non è mai
stato trovato niente?»
«Solo quei pochi frammenti vitrei di cui ho parlato. Mi domando se la
mia gente si serva di astronavi. Forse usa una specie di trasmettitore di
materia. No, la mia speranza più grande è un segnale di soccorso che li
attiri.»
«Ma se vivono lontani tanti anni-luce...»
«Ho scoperto una strana specie di... beh, potresti chiamarla radiazione,
anche se non ha alcun rapporto con lo spettro elettromagnetico. I campi
d'energia, vibrando in un certo modo, producono effetti rilevabili su un
apparecchio simile, lontano dal primo. È più o meno analogo alle vecchie
trasmittenti radio. La cosa importante è che gli effetti sono trasmessi senza
scarto di tempo misurabile, e la distanza non causa diminuzione.»
In un altro momento, Margaret si sarebbe accesa di meraviglia. Adesso
si limitò ad annuire. «Capisco. È una specie di ultra-onda. Ma se non ci
sono effetti di tempo e di distanza, com'è possibile rintracciarla? Sarebbe
completamente a-direzionale, a meno che tu potessi ricavarne un raggio.»
«Non posso... per ora. Ma ho registrato uno schema d'impulsi che
devono corrispondere alla disposizione delle stelle in questa parte della
galassia. Ogni impulso rappresenta una stella, la sua intensità ne
rappresenta la luminosità assoluta, e la separazione temporale dagli altri
impulsi sta per la distanza dalle altre stelle.»
«Ma è una rappresentazione unidimensionale, e lo spazio è
tridimensionale.»
«Lo so. Non è semplice come ho detto. Il problema di questa
rappresentazione era un problema interessante di topologia applicata, ho
impiegato una settimana intera per risolverlo. Se t'interessa la parte
matematica, ho gli appunti qui, da qualche parte... Ma comunque, quelli
della mia gente, quando dirigono gli impulsi, dovrebbero essere in grado di
dedurre quello che sto cercando di dire. Ho collocato Sol all'inizio di ogni
serie d'impulsi, in modo che sappiano anche a quale stella mi riferisco.
Comunque, possono esserci soltanto pochissime configurazioni come
questa nell'universo, quindi ho dato loro un punto di riferimento. Ho
installato un apparecchio in modo che trasmetta automaticamente la mia
chiamata. Ora posso solo attendere.»
«Da quanto attendi?»
Joel fece una smorfia. «Da un anno, ormai... e neppure un segno.
Comincio a preoccuparmi. Forse dovrei provare qualcosa d'altro.»
«Forse loro non usano la tua ultra-onda. Può darsi che nella loro cultura
sia antiquata.»
Joel annuì. «Può darsi. Ma che altro posso fare?»
Margaret tacque.
Dopo qualche istante, Joel si scosse e sospirò. «Ecco tutto, Peggy.»
Lei annuì, in silenzio.
«Non rammaricarti per me,» disse lui. «Me la cavo benissimo. La mia
ricerca, qui, è interessante. Questa zona mi piace. Sono più felice di quanto
mi sia capitato di esserlo da molto tempo.»
«Non è molto, temo,» rispose lei.
«No, ma... Senti, Peggy, adesso sai cosa sono. Un mostro. Più alieno di
una scimmia. Non dovrebbe essere difficile dimenticarmi.»
«È più difficile di quanto immagini, Joel. Ti amo. Ti amerò sempre,»
«Ma... Peggy, è ridicolo. Immagina che fossi venuto a vivere con te. Non
potremmo mai avere figli... ma credo che questo non conti molto. Non
abbiamo niente in comune, comunque. Niente. Non potremmo parlare, non
potremmo dividere le mille piccole cose che costituiscono un matrimonio:
già sarebbe difficile lavorare insieme. Io non posso più vivere nella società
umana, e tu perderesti in fretta i tuoi amici, ti sentiresti sola come me. E
alla fine invecchieresti, perderesti le tue facoltà e moriresti, ed io non avrei
ancora raggiunto la maturità. Peggy, né tu né io potremmo sopportarlo.»
«Lo so.»
«Langtree è un brav'uomo. Sarebbe facile amarlo. Tu non hai il diritto di
negare alla tua razza un'eredità magnifica come la tua.»
«Forse hai ragione.»
Joel le passò la mano sotto il mento, le alzò il volto. «Ho alcuni poteri
sulla mente,» disse, lentamente. «Con la tua collaborazione, dovrei riuscire
a modificare i tuoi sentimenti.»
Lei si tese, scostandosi, spalancando gli occhi, impaurita. «No...»
«Non fare la sciocca. Sarebbe fare subito quello che il tempo farebbe
comunque.» Il suo sorriso era stanco, convulso. «È veramente facile
dimenticarmi, Peggy.»
La sua volontà era troppo forte. S'irradiava da lui, negli occhi ardenti e
nei lineamenti delicatamente cesellati che erano quasi umani, e pulsava in
grandi onde telepatiche dal suo cervello, sembrava quasi fluire attraverso
le mani sottili. Inutile resistere, inutile opporsi... arrenditi, arrenditi e
dormi. Lei era così stanca.
Finalmente Margaret annuì. Joel sorrise, il vecchio sorriso che lei
conosceva così bene. Lui cominciò a parlare.
Margaret non ricordò mai il resto della notte, se non come una
confusione semiconscia, una voce suadente che le sussurrava nella testa,
una faccia intravvista vagamente tra nebbie ondeggianti. Ad un certo
punto, ricordava, c'era una macchina che ticchettava e ronzava, e piccole
luci che lampeggiavano e turbinavano nell'oscurità. La sua memoria era
smossa come uno stagno tranquillo, e salivano alla superficie molte cose
che lei aveva dimenticato per quasi tutta la vita. Le sembrava di avere
accanto sua madre.
Nell'alba vaga e nebbiosa, lui la lasciò andare. C'era una calma
profonda, inumana, in lei; lo guardava con gli occhi vacui d'una
sonnambula, e la sua voce era inespressiva. Sarebbe passato, lei sarebbe
ridiventata normale, ma Joel Weatherfield sarebbe stato un ricordo dalla
scarsa carica emotiva, uno spettro sperduto sul fondo della sua mente.
Uno spettro. Lui si sentiva immensamente stanco, privo di forza e di
volontà. Quello non era il suo posto: era un'ombra che avrebbe dovuto
volare tra le stelle; la luce del sole della Terra lo cancellava.
«Addio, Peggy.» disse lui. «Serba il mio segreto. Non far sapere a
nessuno dove sono. E buona fortuna a te per tutti i tuoi giorni.»
«Joel...» Lei si soffermò sullo scalino, con un'espressione perplessa.
«Joel, se tu puoi pensare a me così, non può fare altrettanto la tua gente?»
«Certo. E con questo?» Per la prima volta, lui non sapeva cosa stava per
dirgli: l'aveva cambiata troppo per poterlo prevedere.
«Ecco... perché quelli dovrebbero avere bisogno di apparecchi come la
tua ultra-onda per parlarsi tra di loro? Dovrebbero essere in grado di
comunicare con il pensiero attraverso le stelle.»
Joel sbatté le palpebre. Gli era venuto in mente, ma non ci aveva mai
pensato molto: era stato troppo preso dal suo lavoro.
«Addio, Joel.» Lei si voltò e si allontanò tra la nebbia grigia e
sgocciolante. Un primo raggio di Sole penetrò attraverso uno squarcio e le
sfiorò i capelli. Lui rimase sulla soglia fino a quando lei fu scomparsa.
Joel dormì per quasi tutta la giornata. Quando si svegliò, cominciò a
pensare a quello che lei gli aveva detto.
Per tutto ciò che vi era di sacro, Peggy aveva ragione! Si era immerso
troppo profondamente nei problemi puramente tecnici dell'ultra-onda e
nella ricerca matematica per ingannare il tempo dell'attesa, e quindi non
aveva avuto la possibilità di vedere con distacco la logica fondamentale
della situazione. Ma questo... aveva senso.
Aveva soltanto un'idea vaghissima dei poteri innati della sua mente. La
scienza fisica gli aveva offerto troppe vie d'uscita. E senza aiuto non
poteva sperare di spingersi molto lontano in studi del genere. Un bimbo
ferino poteva avere l'eredità di un genio matematico, ma se non veniva
scoperto ed educato dai suoi simili non avrebbe mai compreso gli elementi
dell'aritmetica... o del linguaggio o della socievolezza o delle altre attività
che distinguono l'uomo dagli animali. C'era un'eredità troppo lunga di
evoluzione preumana e protoumana perché un uomo da solo potesse
ricapitolarla in una vita, quando il suo ambiente non indicava la strada
particolare presa dai suoi antenati.
Ma i nervi ed i centri cerebrali inattivi dovevano servire a qualcosa.
Sospettava che fossero mezzi per controllare direttamente le forze
fondamentali dell'universo. Telepatia, telecinesi, precognizione... quale
eredità divina gli era stata negata?
Comunque, sembrava che la sua razza avesse trasceso la necessità dei
meccanismi fisici. Con una comprensione completa della struttura del
continuum spazio-tempo-energia, con la capacità di dominare direttamente
per mezzo della volontà i suoi processi fondamentali, potevano proiettare
se stessi o i loro pensieri da stella a stella, creare ciò di cui avevano
bisogno per mezzo del pensiero puro... senza prestare attenzione ai
balbettii incomprensibili delle razze inferiori.
Una prospettiva fantastica, abbagliante! Restò smarrito davanti alla
grande visione splendente che si schiudeva ai suoi occhi.
Si scosse per ritornare alla realtà. Il problema immediato era mettersi in
contatto con la sua razza. E questo comportava uno studio delle energie
telepatiche che sinora aveva quasi ignorato.
S'immerse in un'attività febbrile. Il tempo perse ogni significato, divenne
una successione di giorni e di notti, di luce fioca e di neve e poi il lento
ritorno della primavera. Non aveva mai avuto molto per cui vivere,
eccettuato il suo lavoro: adesso divorava ogni suo pensiero. Anche durante
i periodi di riposo e di moto che imponeva a se stesso, la sua mente
continuava ad assediare il problema, rodendolo come un cane rode l'osso.
E lentamente, lentamente, la conoscenza crebbe.

La telepatia non era correlata direttamente agli impulsi cerebrali misurati


dall'encefalografia. Quelli erano deboli sottoprodotti dell'attività
neuronica. La telepatia, adeguatamente controllata, superava lo spazio
ignorando sovranamente il tempo. Era, decise, un'altra parte di quello che
lui aveva chiamato lo spettro delle ultra-onde, legato alla gravità quale
effetto della geometria dello spazio-tempo. Ma mentre gli effetti
gravitazionali erano prodotti dalla presenza della materia, gli effetti delle
ultra-onde subentravano quando vibravano certi campi d'energia. Tuttavia,
non apparivano a meno che da qualche parte vi fosse un ricevitore
adeguatamente sintonizzato. Sembravano in qualche modo «consci» di un
ascoltatore, prima ancora di pervenire ad esistere. Questo suggeriva ipotesi
affascinanti sulla natura del tempo; ma lui se ne distoglieva. La sua gente
doveva saperne di più di quanto lui avrebbe potuto scoprire da solo.
Ma il concetto d'onde non si poteva applicare a qualcosa che viaggia
comodo. Poteva assegnare una frequenza ad un'ultra-onda, quella dei
campi generatori d'energia: ma allora la lunghezza d'onda sarebbe stata
infinita. Era meglio pensare in termini di tensori, e abbandonare le
analogie visive.
Il suo sistema nervoso non conteneva le ultra-energie. Erano
onnipresenti, innate nella stessa struttura del cosmo. Ma i suoi centri
telepatici, debitamente addestrati, erano in qualche modo abbinati al
grande flusso, e potevano imporre le vibrazioni desiderate. Allo stesso
modo, supponeva, gli altri suoi centri potevano controllare queste forze per
creare o distruggere o muovere la materia, attraversare lo spazio, scrutare i
mondi delle probabilità del passato e del futuro...
Lui non poteva riuscirci. Non avrebbe potuto scoprire quanto era
necessario, neppure in tutta la vita. Se fosse stato letteralmente immortale,
forse non sarebbe mai riuscito ad apprendere quello che doveva sapere; la
sua mente era stata incanalata negli schemi del pensiero umano, e questo
trascendeva la capacità di comprensione dell'uomo.
Ma è sufficiente che io invii una chiamata chiara...
Si sforzò di farlo. Nelle interminabili notti d'inverno, seduto nella baita,
lottò per dominare il proprio cervello. Come si faceva a lanciare un grido
alle stelle?
Dimmi, bimbo ferino, come risolvi un'equazione differenziale parziale?
Forse la risposta, in parte, stava nella sua mente. Il cervello ha due tipi di
memoria, quello «permanente» e quello «circolante», e apparentemente il
primo tipo non si perde mai. Recede nel subconscio, ma è ancora presente,
e può essere recuperato. Da bambino, lui aveva osservato certe cose, aveva
ricordato apparecchi e vibrazioni, che adesso la sua mente più matura
poteva analizzare.
Ricorse all'autoipnosi, usando una macchina appositamente ideata ed i
ricordi tornarono, ricordi di calore e di luce e di grandi forze pulsanti. Sì...
sì, c'era una macchina, lui la vedeva rombare e guizzare davanti a lui.
Impiegò un certo tempo prima di tradurre le impressioni aliene, infantili,
nelle attuali valutazioni sensorie: ma quando ci fu riuscito ebbe un quadro
nitido di... qualcosa.
Questo fu utile, un po'. Suggeriva certi tipi di collegamenti, schemi
empirici che prima non gli erano mai venuti in mente. E adesso,
lentamente, lentamente, cominciò a far progressi.
Un'ultra-onda richiede un ricevitore, per esistere. Quindi non poteva
trasmettere fulmineamente un pensiero ad uno del suo popolo, a meno che
quello ascoltasse quella particolare «onda»... il suo schema di frequenza,
modulazione, e altre caratteristiche fisiche. E la sua mente impreparata non
trasmetteva su quella «banda». Non poteva riuscirci, non poteva
immaginare la forma d'onda del pensiero normale della sua razza. Era alle
prese con un problema simile a quello di un uomo in un paese straniero,
che deve inventarsene la lingua prima di poter comunicare... senza neppure
poterla ascoltare, sapendo soltanto che i suoi valori fonetici, grammaticali
e semantici sono interamente diversi a quelli del suo linguaggio natio.
Insolubile? No, forse no. La sua mente non aveva l'energia per inviare
una chiamata alle stelle, non aveva la capacità di renderla intelligibile. Ma
una macchina non aveva quei limiti.
Poteva modificare la sua ultra-onda; l'energia c'era già, e lui poteva
aggiungere la coerenza. Perché doveva inserire un fattore casuale, un
congegno che variasse la forma d'onda fondamentale in tutte le
permutazioni concepibili delle caratteristiche, passando per milioni e
miliardi di tentativi al secondo... e anche l'onda casuale poteva venire
modulata; i suoi pensieri potevano venire sovrapposti. Quando la macchina
avesse trovato risonanza in qualcosa che potesse ricevere - qualunque
cosa, letteralmente, per milioni di anni-luce - si sarebbe generata un'ultra-
onda, e l'elemento casuale sarebbe stato eliminato. Allora Joel sarebbe
rimasto su quella banda, esaminandola con calma.
Prima o poi, una delle bande incontrate sarebbe stata quella della sua
razza. E lui l'avrebbe saputo.

L'apparecchio, quando l'ebbe completato, era sgraziato e brutto, una


grande cosa goffa di cavi aggrovigliati e di valvole lucenti e di vorticose
energie cosmiche. Un cavo era collegato ad una fascia metallica intorno
alla sua testa, e imponeva il suo schema fondamentale ad ultra-onde al
fattore casuale, e riportando nel suo cervello tutto ciò che riceveva. Si
distese sulla branda, con un quadro dei comandi accanto, e cominciò a far
funzionare la macchina.
Mormorii vaghi, ombre fuggevoli, cose strane che salivano dalle
profondità confuse della sua mente... Sorrise a denti stretti, lottando con la
fredda apprensione nata nei suoi nervi tormentati, e cominciò a fare
esperimenti con la macchina. Non era troppo sicuro delle sue
caratteristiche, e forse sarebbe occorso un po' di tempo prima che
conseguisse il pieno controllo del suo schema di pensiero.
Silenzio, oscurità, e di tanto in tanto un balenio, un breve istante
accecante, quando, nella ricerca a tentoni, incontrava una risonanza
fondamentale, e scaturiva un'onda che parlava al suo cervello. Una volta
guardò, con gli occhi di Margaret, Langtree seduto a tavola, di fronte.
C'erano candele accese, questo lo ricordò poi, ed un piccolo complesso
d'archi suonava in sottofondo. Una volta vide i contorni irregolari di una
città che gli uomini non avevano costruito, e che s'innalzava verso un cielo
nuvoloso, mentre un mare stranamente lento e pesante si avventava contro
le sue mura.
E una volta captò un pensiero che saettava fra le stelle. Ma non era un
pensiero della sua specie, era un grande fulgore bianco come di un sole che
gli esplodesse nella testa, e freddo, freddissimo. Urlò, e poi, per una
settimana, non osò proseguire quell'esperienza.
Nel crepuscolo della primavera, trovò la soluzione.
La prima volta il trauma fu così grande che perse di nuovo il contatto.
Giaceva tremante, imponendosi la calma, cercando di riprodurre lo schema
esatto che il suo cervello aveva irradiato, insieme alla macchina. Calma,
calma... La mente del bambino aveva fluttuato in una nebbia di sogni,
così...
Il bambino. Perché il suo cervello brancolante e incontrollabile non
poteva risonare in armonia con una delle menti adulte, superbamente
preparate, della sua gente.
Ma un bambino non ha un linguaggio parlato. La sua mente scivola
amorfa da uno schema all'altro, non vi sono ancora abitudini che la fissino,
ed una lingua va bene quanto un'altra. Secondo le leggi del caso, Joel
aveva trovato lo schema che un infante della sua razza emetteva al
momento.
Lo ritrovò, e il calore formicolante del contatto fluì in lui,
deliziosamente, meravigliosamente, come un fiume in un deserto
polveroso, un sole che riscaldava il gelo della solitudine solipsista in cui
gli umani vagavano dalla nascita alla fine delle loro brevi, insignificanti
esistenze. Adeguò la sua mente a quella del bimbo, lasciò che i due torrenti
di coscienza confluissero, in un unico fiume che correva verso il mare
potente della razza.
Il bimbo ferino si trascinò fuori dalla foresta. I lupi ululavano dietro di
lui, i fratelli quadrupedi delle grotte e della caccia e dell'oscurità; ma lui
non li udiva. Si chinò sulla culla del bambino, con i capelli aggrovigliati
che cadevano sulla faccia scarna, e guardò la mano, una piccola, tenera
stella di mare, e le sue dita nodose si avvicinarono furtivamente, tremando
della conoscenza che quella era una zampa come la sua.
Adesso doveva solo attendere che qualche adulto guardasse nella mente
del bambino. Non doveva trascorrere molto tempo, e nel frattempo, lui
poteva riposare nell'eterna pace assonnata dei giovanissimi.
Chissà dove, nel cosmo, forse su un pianeta che girava intorno a un sole
che nessun terrestre avrebbe mai visto, il bimbo riposava in una culla di
calde forze pulsanti. Non c'era una stanza, intorno a lui: c'era un'ombra che
nessun umano avrebbe mai potuto comprendere, illuminata dai lampi
dell'energia che creava le stelle.
Il bimbo sentì l'avvicinarsi di qualcosa che significava calore e
morbidezza, dolcezza nella sua bocca e mormorii nella sua mente. Tubò,
felice, tenendo le mani nel crepuscolo tremulo della stanza. La mente di
sua madre la precedeva, avvolgendosi intorno al piccino.
Un urlo.
Freneticamente, Joel cercò quella mente, trasmettendo lo schema
d'impulsi localizzanti attraverso il cervello del piccino. Perse la madre, e la
sua mente si ripiegò su se stessa... no no, qualcun altro stava cercando di
raggiungerlo, adesso, analizzando lo schema della macchina e le sue
frenetiche oscillazioni, adattandovisi.
Una voce forte e profonda nel suo cervello, inconfondibilmente
maschile... Joel si rilassò, lasciando che l'altra mente controllasse la sua,
continuando semplicemente ad emettere i suoi segnali.
Avrebbe impiegato un certo tempo per analizzare il significato della sua
chiamata. Joel era semiconscio, consapevole di una piccola parte della
mente dell'essere che manteneva il filo di contatto con lui, mentre il resto
si protendeva, chiamando altri attraverso l'universo, chiedendo aiuto e
informazioni.
Dunque aveva vinto. Joel pensò alla Terra, sognante, con un po' di
malinconia. Strano che in quel momento di trionfo la sua mente tornasse
alle piccole cose che stava per abbandonare... un tramonto dell'Arizona, un
usignolo sotto la Luna, il viso arrossato di Peggy chino su uno strumento
accanto a lui. Birra e musica e pini agitati dal vento.
Ma... oh, la mia gente! Non essere mai più solo...
Decisione. La sensazione di precipitare in un vortice di stelle verso il
Sole!
L'essere avrebbe dovuto localizzarlo sulla Terra. Joel cercò di tracciare
una mappa, anche se gli schemi del pensiero che corrispondevano nel suo
cervello 8d una visualizzazione particolare non avrebbero avuto senso per
l'altro. Eppure, oscuramente, poteva essere utile.
Forse lo fu. All'improvviso la banda telepatica si spezzò, ma vi fu un
torrente di altri impulsi, forze vitali fiammeggianti, la vicinanza di un dio.
Joel si alzò in piedi barcollando e spalancò la porta.

La Luna stava sorgendo sopra le colline buie, una luce nebulosa sopra
gli alberi e le chiazze di neve e il suolo bagnato. L'aria era gelida e umida,
pungente.
L'essere che stava là, profilato nello splendore degli indumenti, era più
alto di Joel: un adulto. Gli occhi neri erano troppo fulgidi perché fosse
possibile sostenerne lo sguardo: era come se la vita, in lui, fosse
incandescente. E quando la forza piena della sua mente si protese,
dilagando in Joel, scorrendo in ogni nervo ed in ogni cellula del suo
corpo...
Lui gridò per la sofferenza e cadde carponi. La forza intollerabile si
alleviò, si attenuò, divenne una pulsazione che scuoteva ogni fibra del suo
cervello. Lo stava studiando e analizzando; e neppure la più piccola parte
di lui sfuggiva a quegli occhi terribili e alla logica che lo ricostruiva
meglio di quanto si conoscesse lui stesso. Il suo linguaggio telepatico
deformato era comprensibile per quell'essere, e Joel gracchiò la sua
invocazione.
La risposta era sfumata di pietà, ma era remota e inesorabile come i
tuoni dell'Olimpo.

Figlio, è troppo tardi. Tua madre dovette restar presa in un - ? - vortice


d'energia e - ? - sulla Terra, e adesso tu sei stato allevato dagli animali.
Pensa, figliolo. Pensa ai bimbi ferini di questa razza indigena. Quando
vengono riportati tra la loro gente, diventano umani? No, è troppo tardi. I
caratteri fondamentali della personalità vengono determinati dai primi
anni dell'infanzia, ed i loro attributi specificamente umani si sono
atrofizzati.
È troppo tardi, troppo tardi. La tua mente si è fissata su schemi troppo
rigidi e limitati. Il tuo corpo ha compiuto un adattamento diverso da
quello che è necessario per percepire e controllare le forze che usiamo.
Hai persino bisogno d'una macchina per parlare.
Tu non appartieni più alla nostra razza.
Joel stava raggomitolato al suolo, tremando, senza pensare, senza osare
di pensare.
I tuoni rombavano nella sua mente: Non possiamo permettere che tu
interferisca con il giusto addestramento mentale dei nostri figli. E poiché
non potrai più tornare fra i tuoi simili, ma devi adattarti come meglio puoi
alla razza con cui vivi, la cosa più saggia e pietosa è operare certi
cambiamenti. La tua memoria e quella di altri, il tuo corpo, il lavoro che
stai facendo e che hai fatto...
C'erano altri che riempivano la notte: gli dèi discesi sulla Terra, esseri
splendenti e terribili che gli sottraevano ogni frammento della sua
esperienza, e lo giudicavano. La tenebra si chiuse su di lui, e Joel piombò
nell'oblio.
Si svegliò nel suo letto, chiedendosi perché era così stanco.
Bene, la ricerca sui raggi cosmici era stata un lavoro duro e solitario.
Grazie al cielo e alla fortuna, era finito! Adesso si sarebbe preso una
meritata vacanza a casa. Sarebbe stato bello rivedere i suoi amici... e
Peggy.
Il dottor Joel Weatherfield, giovane fisico eminente, si alzò allegramente
e cominciò a fare i preparativi per la partenza.

Titolo originale:
Earthman, Beware!
(Super Science Stories, giugno 1951)

1952: «Amazing Stories»

Ross Rocklynne
Volare più in alto

Quando Galaxy, nell'aprile 1968, pubblicò Touch of the Moon di Ross


Rocklynne, un racconto sui rapporti tra gli uomini residenti sulla Luna e
quelli della Terra, molti lettori pensarono probabilmente che fosse opera
di un autore nuovo. La verità era ben diversa. Rocklynne era stato uno
scrittore in vista fin dalla metà degli Anni Trenta, ma negli Anni
Cinquanta abbandonò la fantascienza per seguire altre strade.
Ross L. Rocklin (così si scrive in realtà il suo cognome) è nato venerdì
21 febbraio 1913. La sua prima vendita fu a F. Orlin Tremaine, Man of
Iron, la storia di un uomo che poteva passare attraverso il metallo
massiccio. Apparve su Astounding dell'agosto 1935. Poco dopo,
Rocklynne incominciò la sua memorabile serie sul tenente Colbie e sul
criminale Edward Deverel. Sono vicende che rientrarono nella categoria
dei problemi scientifici, in cui una difficoltà apparentemente insolubile
viene superata dalla rigorosa applicazione di una o più regole
scientifiche. In questa serie apparvero tre storie in cui i protagonisti
rimangono intrappolati nel centro cavo dell'ipotetico pianeta Vulcano:
restano bloccati in un precipizio su Giove e infine scivolano avanti e
indietro su una superficie levigata e concava, priva d'attrito e del diametro
di parecchi chilometri.
Questo servì a rendere noto Rocklynne ed una serie successiva, che
iniziò con Into the Darkness (Astonishing, giugno 1940) in cui il
protagonista era una nebulosa spirale (!), rinsaldò la sua posizione.
Purtroppo per una certo periodo si mise a scrivere pasticci per le riviste di
Ray Palmer, ma all'inizio degli Anni Cinquanta era tornato in forma. The
Fly So High, che segue, in pratica fece rivivere la serie Colbie-Deverel ma
con personaggi nuovi. Poi abbandonò la serie quando lasciò il campo
fantascientifico.
Oggi, Rocklynne ha ripreso a scrivere regolarmente.

Dornley, seduto nella cambusa dell'astronave galoppante con il suo


prigioniero, fu colpito da una strana impressione. In realtà, il dottor Waldo
Skutch non era per nulla preoccupato d'essere stato estromesso da Callisto
sotto la minaccia delle armi.
«Potrei prepararle un'altra tazza di caffè, signore,» All'Accademia
Spaziale, Dornley aveva imparato ad essere educato, persino con i
criminali pericolosi. «Ma lei non sembra nervoso o preoccupato, vero?»
Era il modo migliore per affrontare l'argomento.
E poi, August Dornley sentiva di avere una mente indagatrice. Skutch,
dicevano le autorità, intendeva soggiogare l'intera razza umana. Perché?
Dove si trovava la sua base? Qual era il suo arsenale segreto d'armi nuove
che stava preparando? Domande intelligenti. Trovare le risposte. Ottenere
le confidenze di Skutch.
«Nervoso?» tuonò Skutch, trapassando Dornley con gli strani occhi
sbiaditi sovrastati dalle ispide sopracciglia grigie. «Preoccupato? Mio caro
tenente Dornley, la preoccupazione è un'emozione speciale della razza
umana, un male superfluo della mente che gli uomini amano moltissimo.
La preoccupazione riguarda il futuro; io, Skutch, appartengo al presente.»
Si toccò l'ampio torace con il grosso pollice arcuato.
«Non si considera appartenente alla razza umana, signore?» Questa era
certamente una domanda che un abile inquirente avrebbe rivolto a Skutch
nel corso del processo.
«Io appartengo alla razza umana; il mio corpo fisico, purtroppo, lo
dimostra. Ma finché la mia mente funziona, le mie possibilità di diventare
inumano sono eccellenti, eccellenti!»
Skutch lasciò la tazza del caffè per battersi le dita sull'ampia fronte,
invasa dai capelli grigi scarmigliati. «Intelligenza, giovanotto, intelligenza.
Lei appartiene alla razza umana, e senza dubbio ne è fiero. Ma che cos'ha
fatto della sua intelligenza?»
Dornley non voleva permettere che quel vecchio dagli occhi strani lo
facesse irritare. Sorrise. «Ho finito l'Accademia Spaziale a tempo di record
con tutti gli onori,» disse. «Se non avessi avuto qualche merito
eccezionale, sarei stato mandato al fronte con una delle corazzate. Invece,
sono stato assegnato ai Servizi Speciali.»
«Ed è orgoglioso di usare in questo modo la sua intelligenza!»
«Beh, vediamo,» rispose Dornley, un po' irritato. «L'ho rintracciato su
Callisto. Sono riuscito a indurlo ad abbandonare la sua nave. Poi ho
montato un cannone a tiro rapido, e l'ho sorpreso alle spalle. In fatto
d'intelligenza...»
Skutch rovesciò all'indietro la grande testa scarmigliata e rise. Le sue
risate erano squittii smorzati. Finalmente s'interruppe.
«Non pensa che sapevo di non potermi sottrarre alla cattura?» domandò.
«E ora, mi permetta di chiederle che cosa è successo alla sua nave.»
La faccia sana e abbronzata di Dornley avvampò. «L'ha fatta saltare,»
ammise. «E che differenza fa? Adesso abbiamo preso la sua.»
Skutch si appoggiò con i gomiti sul tavolo, fissando attentamente
Dornley. «L'intelligenza ce l'ha,» disse con il tono più gentile che avesse
usato fino a quel momento. «Ma non le hanno insegnato a pensare. Pensi,
giovanotto. Pensi. Io, Skutch, non mi preoccupo del futuro. Ma questo non
significa che non consideri le possibilità e le probabilità del futuro.
Adesso, è capace di pensare?»
In un primo istante, Dornley s'irritò. Poi provò un vivo allarme.
L'addestramento ricevuto l'indusse a restare seduto tranquillamente, ma la
sua mano, inevitabilmente, strinse l'impugnatura della pistola termica
Biow.
«Proverò a indovinare,» disse con fermezza. «La nave è una trappola.»
Si alzò all'improvviso, tenendosi sopra la sedia per raggiungere i
videodischi della cambusa. Giove mostrava un vastissimo tratto del suo
perimetro spaventoso. Dornley ampliò l'apertura. Giove balzò indietro,
mostrandosi come una massiccia arancia screziata. Intorno, le stelle erano
fitte. Dornley fece girare la telecamera di centottanta gradi sulle tre
coordinate. Giapeto era venti minuti più indietro. Gli altri satelliti
brillavano fiochi.
Sugli schermi non si vedevano punti luminosi. Non c'erano altre navi
nella zona. Un attacco era da escludere: ma era da escludere anche la
possibilità di venire salvati.
Spense il meccanismo e si rivolse con calma a Skutch.
«Dunque è a bordo della nave. Probabilmente un esplosivo che ha
inserito in precedenza nel carburante, è pronto per esplodere dopo un certo
intervallo... a meno che lei fosse libero di bloccarlo.» Sentiva il sudore
colargli dalle ascelle. «Posso anche presumere che ormai non ci sia più
niente da fare, altrimenti non mi avrebbe messo sull'avviso.»
«Adesso,» fece Skutch, con un gran sorriso, «lei sta pensando. Ma non
abbastanza. Non è veramente convinto che io causerei la mia morte. E
invece lo farei. La mia opera è ormai avviata. È affidata in mani capaci. La
mia mancanza non si risentirebbe a lungo. Quindi sono dispostissimo a
lasciare che questa nave esploda con noi a bordo, a meno che lei si muova
in fretta.»
Dopo aver contato fino a dieci, Dornley disse con freddezza: «Lei
ammette virtualmente di cospirare contro l'umanità. Non corrisponde
molto all'immagine idealizzata che ha di se stesso, dottor Skutch, quale
essere umano superiore. La Terra usa la scienza per fare la guerra, una
guerra che è inevitabile e deve essere combattuta. Lei intende usare una
scienza superiore per sopraffare i vincitori e gli sconfitti. È esatto? Sto
pensando?» Gli gettò in faccia quella domanda con amaro sarcasmo, poi si
girò sulle lunghe gambe e si diresse a passo svelto verso poppa. Tornò
indietro con due tute pressurizzate, il tipo speciale che avrebbe resistito, in
caso di necessità, anche a quindicimila atmosfere.
«Lei sta pensando,» disse Skutch, guardandolo con la fronte aggrondata
mentre apriva i contenitori delle tute, «con la metà inferiore del suo
corpo.»
Dornley, a labbra strette, l'ignorò completamente, Skutch continuò a
tuonare: «Scienza! Puah!» Quasi sputò. «La scienza è un giocattolo. E io
sono un criminale perchè abbandono il ruolo impostomi di fabbricante di
giocattoli. Mi si dà la caccia perché si teme che io cospiri contro l'autorità.
Verrò processato e condannato e costretto a concepire altri giocattoli
ingegnosi. Processato da uomini che sono automi inconsci, uomini che
pensano i pensieri di altri.» Ammutolì.
I contenitori si aprirono. Le tute pressurizzate uscirono, grosse e opache
come cadaveri gonfi.
Skutch le osservò con aria interessata. «Forse non abbiamo abbastanza
tempo,» fece in tono serio. «Saranno sufficienti cinque minuti?»
Dornley lavorò con zelo raddoppiato, sudando, controllando le prese
d'aria ed i comandi, esaminando gli indicatori delle unità gravitazionali,
assicurandosi che i serbatoi dei viveri e dell'acqua fossero pieni e
funzionanti. Skutch osservò con aria d'approvazione quella meticolosità.
«È capace di pensare,» disse, annuendo con la grande testa grigia. «Ma
qui, senza lo spirito di vendetta che mi anima, forse lei ha un ottimo
esempio del modo in cui l'individuo libero può manovrare l'universo. Io,
Skutch, sto manovrando lei, sto manovrando la neve e gli eventi... anche se
sono incatenato a questa tavola. Non sarebbe lieto di poter dire
altrettanto?»
«Sarei lieto se lei stesse zitto, dottor Skutch,» disse con fermezza
Dornley. L'altro scrollò le spalle massicce. «E adesso, infili la tuta.»
Dornley gli tolse la catena e l'aiutò a indossare la tuta, fissando la solida
visiera trasparente. Skutch parve soffocare un po'. Dornley regolò
l'erogazione d'ossigeno. Dopo trentanove secondi si lanciarono dal portello
stagno e Skutch, ammanettato a Dornley, si complimentava seccamente
con lui per la sua prontezza. Dopo dieci secondi, parecchie grandi crepe
apparvero all'improvviso sull'esile scafo nero della nave. Attraverso le
crepe e gli oblò schiantati, apparve un bagliore di violenza fumante. Gas
gialli e biliosi fuggivano, sotto pressione, e si disperdevano rapidamente,
diventando invisibili. Le numerose falle nello scafo ingrandirono, e fu
tutto. Cominciarono a muoversi, mossi dalla loro velocità, sempre più
lontano dal relitto.
Dornley era depresso e taciturno. In effetti, poteva dare la colpa a se
stesso ed alla propria inesperienza, se era caduto in una trappola. Skutch
era un vecchio orso furbo; e a quanto pareva, capiva bene la natura umana.
Abbassando lo sguardo verso il gigantesco Giove - quel pianeta immenso
determinava dov'era il basso - pensò che forse sarebbe stato meglio
accettare una morte rapida a bordo della nave.
«Giove,» mormorò Skutch. La voce arrivava attraverso la radio, più
tonante che mai. «Giove, il gigante del sistema, un essere possente, un
vecchio. Giove, amico mio, ti saluto. Presto c'incontreremo.»
Dornley non disse nulla. Skutch chiese: «Lei non sapeva, immagino, che
Giove è vivo?»
Dornley girò la testa verso quella di Skutch. Era certo di fissare un
vecchio pazzo. Ma Skutch sogghignò: i baffi grigi sporgevano intorno alla
bocca come le vibrisse d'una tigre.
«L'ho preso in trappola, giovanotto. Si direbbe che lei sia molto peggio
di quanto avessi previsto. Lei affermerebbe seccamente che Giove non è
vivo. La sua mente è prigioniera. È incatenato al dogma. Altrimenti le
dicono cosa deve pensare. Forse dovrei abbandonarla.» Sospirò
pesantemente, ma con fare calcolatore.
Dornley disse seccamente: «Giove non è vivo.»
«Vedete?» Con il braccio libero, Skutch si appellò alle fredde stelle. «Se
almeno avesse detto: "Non ho dati sufficienti per farmi un'opinione. Giove
può essere vivo".»
Dornley sorrise lentamente. «Gli uomini sono atterrati su Giove. Hanno
costruito Jupiter City presso la Macchia Rossa. Non hanno scoperto un
respiro, un battito di cuore. Tuttavia, l'ammetto: potrebbe essere vivo sotto
altri aspetti.»
«Bene, bene,» approvò Skutch. «Sta mostrando segni di miglioramento.
Cerchi di capirmi, giovanotto. Qualche volta io formulo un'affermazione
recisa che non so se è vera. Ma lo faccio soltanto per mettere alla prova la
gente.»
«Che gente?»
«Tutta la gente,» fece solennemente Skutch. «Ho il lavoro della mia vita,
che lei non conosce ancora. Sto creando - direbbe lei al suo attuale livello
di comprensione - un'arma assoluta, un'arma così potente che nessuno
potrà resisterle. Per questo verrei condannato a morte dal Tribunale
Terrestre, se mai mi catturasse, il che non avverrà. Adesso stiamo
precipitando.»
Stavano precipitando effettivamente. La potente attrazione del pianeta
aveva finalmente vinto il loro movimento verso l'esterno; il misuratore al
polso della tuta pressurizzata di Dornley, calcolando esattamente gli
spostamenti dei satelliti e le gravità planetarie, indicava loro una velocità
in accelerazione. Con quel ritmo, entro otto ore sarebbero penetrati
nell'atmosfera del pianeta. Non andava affatto bene. Ogni ora, almeno,
avrebbero dovuto regolare le unità gravitazionali incorporate nelle tute per
ridurre la velocità di discesa.
Dornley, attaccato al suo strano compagno, fissava quel grande mostro
arancione, giallo e rosso nel cielo. Pensieri di paura salivano alla superficie
della sua mente. Sapeva che avrebbe dovuto urlare di terrore. Erano soli,
lontani da tutto, e vivevano con una finalità simile alla morte. Il suo cuore
batté più forte, il respiro divenne più concitato. Cominciò a pensare a se
stesso, ancora giovane, con una lunga vita davanti, per nulla disposto a
morire. Sudava.
«Dottor Skutch,» disse con voce rauca. «Come fa? Perché non ha
paura?»
«Paura?» Il tono di Skutch era stupito. Poi divenne sommesso, gentile.
«Capisco, giovanotto,» disse. «Lei è preoccupato. Crede che non
sopravviveremo. E perché?»
La domanda era dolcemente insistente.
Dornley si morse le labbra. «È ovvio. Giove ha già catturato altra gente.
Navi incapaci di liberarsi della gravità. Hanno inviato segnali di pericolo
che sono stati ricevuti. Nessuna nave ha potuto raggiungerle in tempo per
soccorrerle. E noi non abbiamo neppure un'emittente.»
«Aha!» Skutch digrignò i denti con fare trionfante. «Siamo arrivati al
cuore degli affanni dell'umanità. L'uomo ripensa agli eventi del passato e
pianifica di conseguenza il futuro. Perciò il futuro è considerato una copia
a carbone del passato. Ma non è affatto così, giovanotto. Il suo cervello,
senza dubbio eccellente, sta usando il pensiero d'identità. Che cosa
pericolosa! Deve capire questo: nessun evento è identico ad un altro. Ciò
che ci sta accadendo ora non ha alcuna relazione con qualcosa mai
accaduto a qualcun altro. È una situazione nuova. Possiamo farne quel che
vogliamo senza lasciarcelo imporre dagli eventi del passato. Mi
comprende?»
«Sì, è logico,» rispose stancamente Dornley. «Comunque, mi fa una
paura d'inferno.»
«Mio caro tenente Dornley,» scattò bruscamente Skutch. «Questo
avviene perchè lei, se posso dir così non è vivo. Lei non esiste. Si guardi
intorno!» Tracciò con il braccio libero un grande arco. «Vuole essere
morto come la maggioranza dell'umanità? Ecco la bellezza. Ecco la
maestà. Ecco la profondità e il mistero e le idee più immense da affrontare.
Qui c'è la gioia, non il terrore. Giovanotto, io le comando di essere!»
Se ci fosse stato qualcosa su cui sedere, Dornley si sarebbe seduto, di
fronte alla severità della voce di Skutch. Comunque, aveva l'impressione di
sentire le campane che gli squillavano nella testa, e non si guardò intorno.
Era bello, pensò desolato... se non ti preoccupavi.
Skutch lo stava osservando attraverso la visiera del casco e sogghignava.
«Così va meglio. Giovanotto, ho un suggerimento da darle. Si addormenti.
Regolerò la velocità della caduta in modo che non entreremo
nell'atmosfera così in fretta da generare calore.»
Dornley si addormentò, come se Skutch avesse usato la suggestione
ipnotica. Dormì a lungo, profondamente. Si svegliò quando lui e Skutch
stavano turbinando in un'atmosfera sempre più densa. Skutch borbottò che
non sapeva dov'erano i comandi dello stabilizzatore. Dornley li trovò: ben
presto, mentre i minuscoli giroscopi ronzavano, cominciarono a cadere con
i piedi in avanti.
C'era poca luce. Il chiarore delle stelle non riusciva a penetrare la coltre
di gas incredibilmente densa che avvolgeva Giove. Un barlume rossastro,
originato dal riflesso della Grande Macchia Rossa dall'altra parte del
pianeta, non costituiva una vera illuminazione. Dornley accese l'unità del
raggio di ricerca, sul petto della tuta, per leggere i quadranti. C'erano
diciottomila chilometri per arrivare alla superficie. Parlò a Skutch, e
Skutch borbottò insonnolito. Dornley non disse altro e lo lasciò dormire.
Quell'attesa poteva essere piena di terrore, ma Dornley pensò che un po'
della strana filosofia di Skutch s'era fatta strada fino a lui, e senza dubbio
questo l'avrebbe sostenuto, per un po'. Aggrottò la fronte. Una strana
esperienza, un uomo strano che stava lavorando su un'arma assoluta e, per
sua stessa ammissione, collaborava con altri congiurati.
Qualcosa non quadrava. Cosa? Nessuna risposta.
Continuavano a scendere. Dornley si chiese: Dunque era questa la
situazione nuova? Uhm. Ma era lo stesso pianeta mortale. O forse no. Il
vecchio Giove aveva molte facce, molti misteri, ed era sconosciuto per il
novantanove per cento.
Due volte e mezzo la gravità della Terra; quindicimila volte la pressione
atmosferica terrestre!
Dornley fece una smorfia, guardando la tenebra. «Giove vecchio mio,»
pregò a titolo sperimentale, «facci scendere con calma. E se ce la
caveremo, se io porterò Skutch, dove devo, prometto...» Potrei promettere
di andare in chiesa ogni domenica, ma a Giove non importa.
Cinquecento chilometri. Dornley non osava distogliere gli occhi dai
misuratori. Cento chilometri. Continuò a tenervi gli occhi incollati. Dieci
chilometri. Provò a svegliare Skutch. Due chilometri. Skutch non si
svegliava. Trecento metri.
«Skutch!» urlò Dornley. Cento metri. Ma le letture frazionali non
funzionavano. Otto metri più sotto, il raggio del suo proiettore si rifletté su
una superficie liquida e lucente. Dornley, privo del tempo necessario per
fare tutto come doveva, non riuscì a regolare il reattore di gravità di
Skutch; poté appena azionare il suo. Risultato, la riduzione della gravità
non fu sufficiente. Urtarono con violenza e andarono sotto.
Sotto.
Grazie, Vecchio Giove.
Skutch borbottava qualcosa, mentre riaffioravano. Non era la
descrizione più precisa del processo. Venivano portati verso l'alto. E non
spuntarono alla superficie. La superficie era sotto di loro.
Il movimento, comunque, cessò. Il raggio del riflettore di Dornley era
ancora acceso. Illuminava qualcosa che a prima vista sembrava una
levigata caverna circolare che essudava una luminosità verdognola. La
luminosità, naturalmente, era la radiazione dispersa del raggio. Skutch
borbottò di nuovo. Dornley cercò di muoversi. Era disteso sul dorso, legato
a Skutch. Come una morsa. Il casco era bloccato: riusciva appena a
muovere la testa, nell'interno. Un braccio era abbandonato, libero, sul
petto; lo tenne scrupolosamente così. Le sue gambe erano serrate, e
tenevano strette quelle di Skutch. L'altro braccio era stretto da quello di
Skutch. Strano.
Silenzio. Poi Skutch parlò: «Allora, giovanotto? Sta pensando?»
Dornley stava pensando... con un certo distacco. Stava pensando a due
uomini soli su un pianeta inabitabile... disabitato, esclusa una città
inaccessibile, sotto una cupola, dall'altra parte del pianeta. Due uomini che
pensavano alle impossibilità, in termini di speranza, di scampo e di
salvezza.
Quindi doveva pensare. Doveva allungare il braccio libero e portare a
zero l'erogazione d'ossigeno del respiratore del grande dottor Waldo
Skutch. Skutch sospirò. «Lei mi delude, tenente. Una mente non incatenata
avrebbe già effettuato la diagnosi della situazione e starebbe cercando
soluzioni. L'uomo libero manovra il mondo: il mondo manovra lo schiavo.
Lei è schiavo del suo pessimismo? È questo il problema importante, non se
lei continuerà a vivere.
«Tuttavia, metterò al lavoro la sua mente asservita. La grotta, come l'ha
già chiamata erroneamente, non è una grotta. Ascolti il vento di Giove.» Si
udiva infatti un vento, all'esterno, un rombo lamentoso che aumentava,
diminuiva e aumentava e diminuiva. La «grotta» verde si espandeva e si
contraeva, talvolta anche di un metro circa.
«Vede?» Skutch ridacchiò. «Giove sta respirando. Gli siamo caduti in
bocca e siamo avvolti in una bolla di saliva. L'immaginazione può fare di
questi scherzi. Ma atteniamoci ai fatti: almeno, ai fatti come li conosce la
mente.
«Quindicimila atmosfere premono su un lago di strano metallo liquido.
Sulla superficie del lago si verifica una distorsione unica. Si potrebbe dire
che si crei quasi sicuramente una tensione superficiale migliaia di volte
superiore a quella che si riterrebbe possibile. Adesso sta pensando?» La
voce di Skutch era speranzosa; era come un uomo che ha messo in moto
una pompa ed è sicuro che ne uscirà l'acqua.
«Diavolo,» borbottò Dornley, in tono ribelle. Stava pensando a due aghi
bloccati insieme su uno strato superficiale d'acqua. Come si liberano i due
aghi in modo che possano galleggiare un po' in giro con una certa misura
di libertà? Forse, si agita intorno l'acqua. No, non esattamente.
«Non si preoccupi. Non sono morto,» disse a Skutch, «Ho un braccio
libero. E ho anche un'idea.»
Riuscì a raggiungere il reostato della gravità di Skutch, con un certo
sforzo; con il suo fu facile. Li alzò entrambi al massimo; immediatamente,
il loro peso aumentò, e scesero ondeggiando al di sotto della superficie
della sostanza liquida, in una specie di profonda depressione.
«Si prepari», disse a Skutch. All'improvviso, riportò i due reostati sullo
zero, che equivaleva a mezza gravità. Il respiro gli uscì violentemente dalla
bocca mentre l'incavo nella superficie del lago si spianava, lanciando i due
uomini nell'aria per un paio di metri.
Vi fu un suono secco. Quando Dornley rinvenne, era seduto a gambe
incrociate ad un paio di metri da Skutch. Skutch era caduto sul dorso, di
nuovo bloccato, con le braccia e le gambe affastellate. Ma ridacchiava
soddisfatto: disse a Dornley che, se fosse venuto dalla sua parte, avrebbe
potuto aiutare anche lui a mettersi seduto.
Dornley stava per ribattere che aveva intenzione di restare dov'era,
quando notò che inevitabilmente la superficie rafforzata tra loro li stava
attirando l'uno verso l'altro. Beh, comunque le manette, rese fragili dal
freddo, s'erano spezzate, e Dornley aveva il braccio libero, quindi era tutto
di guadagnato.
Un momento dopo, i due uomini erano seduti, ginocchio contro
ginocchio.
Dornley si stava guardando intorno con maggiore interesse.
«È una bolla, è vero,» ammise. «Sono grosse. Deve esserci
un'infiltrazione di gas dal fondo del lago, direi. Il vento causa cambiamenti
della pressione esterna. È un buon principio aerodinamico che funziona su
tutti i pianeti. La bolla cresce o rimpicciolisce di conseguenza.»
Una sezione della bolla diventò una parete piatta.
«Interessante,» commentò Dornley, così affascinato da non accorgersi
che la preoccupazione per il futuro l'aveva momentaneamente
abbandonato. «Un'altra grossa bolla l'ha urtata.»
Skutch l'osservò con un sorriso estremamente amichevole, ma non disse
nulla, come se per la prima volta non trovasse niente da dire.
Dornley estrasse dalla fondina la pistola termica Biow, e dopo qualche
esitazione sparò alla pellicola che connetteva le due bolle: diventò di un
verde più vivo in un punto, ma non si lacerò, perciò Dornley alzò un po' la
temperatura. Questa volta ci fu uno scroscio di tuono, e accadde qualcosa.
Dornley e Skutch furono sbatacchiati qua e là, e quando le cose si
calmarono, furono di nuovo sospinti l'uno verso l'altro, e una bolla quattro
volte più grande s'inarcò sopra di loro. Le due bolle si erano evidentemente
fuse.
Dornley sogghignò e Skutch ricambiò il sorriso.
«Vede?» Skutch allargò le mani, come se avesse spiegato la ragione
stessa della vita. «Si gioca con i giocattoli, ma non si può permettere ai
giocattoli di giocare con noi... a meno che lo si voglia. In questo modo, gli
uomini liberi dominano tutto ciò che è fuori e dentro di loro. Adesso, mio
caro tenente, sono sicuro che ha stabilito il nostro prossimo passo, il mezzo
per fuggire da questo lago.» Inarcò le sopracciglia ispide.
Dornley lo scrutò, pensieroso. Cominciava ad avere certe idee... idee
forti e intuitive.
«Non l'ho determinato,» dichiarò.
La faccia irsuta dietro la visiera sfoggiò un gran sorriso. Skutch tese una
mano. «Mi dia la pistola, giovanotto,» ordinò.
Invece di obbedire, Dornley alzò l'arma e la spianò contro il petto della
tuta pressurizzata dell'altro.
Poi disse, in tono discorsivo: «Dottor Skutch, se alzassi al massimo
l'intensità termica dell'arma, impiegherei cinque minuti ad aprire un foro
nella tuta ed a lasciare entrare una pressione di quindicimila atmosfere.»
Il viso di Skutch si contrasse in un'amara sorpresa. Ringhiò: «Perchè?»
«Ho fatto il bravo ragazzo, dottor Skutch. Non ho perso la calma quando
lei ha cominciato... uh... a manovrarmi. L'ho trattata come un prigioniero
di guerra, con cortesie, con molta cortesia. Mi creda, continuerò ad essere
cortese. Ma faccio parte del Servizio, e conosco il mio dovere. Noi non
siamo amici.»
Skutch si rilassò visibilmente, e l'espressione da tigre svanì. «Oh,
quello.» Scrollò sprezzante le spalle. «Dovere. Cortesia. Parole. Pensieri
d'altri. Non significano nulla.»
«Non è tutto,» disse Dornley in tono deciso. «Ho certe convinzioni, per
quanto la riguarda. Una è lei che sta veramente" cospirando per rovesciare
non soltanto il governo terrestre, ma anche i governi degli altri pianeti. I
pianeti nemici.»
«Nemici!» Skutch levò le mani verso gli dèi invisibili. «Ecco che
ricomincia! Nemici di chi? Non suoi. Nemici dei pezzi grossi che pensano
per lei. Non ha imparato niente da me, giovanotto? Niente?»
Dornley sentì il suo apparato pesante sconvolgersi.
«Inoltre,» continuò, «lei ha una base, un quartier generale, e ha uomini
ai suoi ordini. Anche questo lo si sospettava. Ma fino ad ora nessuno ne ha
mai immaginato l'ubicazione. Quella base, ne sono sicuro, è su questo
pianeta. E non è troppo lontana da qui! Altrimenti, perché sarebbe così
ottimista? Inoltre, per sua stessa ammissione, lei, un genio scientifico,
lavora con i suoi uomini alla realizzazione di un'arma così potente che
nulla potrebbe opporvisi. Di questo, la ritengo perfettamente capace.
«Dottor Skutch, anch'io so essere ottimista, in certe condizioni, ma so
che non possiamo raggiungere Jupiter City. E non posso permetterle di
raggiungere la sua base a costo di morire.
«Sono sicuro che dovrei ucciderla subito.»
Skutch borbottò: «Perché non lo fa?»
Dornley sudava. Skutch grugnì di nuovo, quasi con disinteresse. «Non
credo neppure alla metà di quello che sta dicendo, tenente. Ecco perché.
Lei sta aspettando che le dia le prove. Gliele darò. La mia base è qui
vicino... a soli tremila chilometri. Pensi. E ho molti uomini, e donne e
bambini, ai miei ordini. E sto creando una super-arma destinata a
distruggere! Mi dica, tenente, le piacerebbe vedere in azione quella super-
arma?»
Dornley strinse i denti. «Lo vorrei, ma...»
«Eccellente!» Un po' dell'animazione di Skutch rispuntò. Poi il suo
sguardo divenne acuto, penetrante.
«Tenente, che effetti personali ha?»
La conversazione stava sfuggendo al controllo. Dornley si sentiva
intontito. «Nessuno,» rispose stancamente. «Sono nel Servizio. Qualche
documento, vecchie lettere, qualche abito borghese, un certo numero di
libri. È tutto. Perché?»
«Non è sposato? Non ha figli? Non ha legami di parentela?» Poiché
Dornley non rispose, esclamò: «Eccellente, eccellente, eccellente! Tenente,
le piacerebbe venire alla mia base, al mio cosiddetto quartier generale, e
vedere in funzione i raggi della mia arma mortale?»
Dornley si sentì accasciato. Aveva il sospetto di un equivoco che
l'avrebbe messo in una situazione anche peggiore. Ma peggiore da quale
punto di vista? Era stanco di pensare. Bene, doveva rispondere alla
domanda. Dal punto di vista del dovere, dal punto di vista dei giuramenti,
dal punto di vista degli uomini che davano ordini ad altri uomini che
davano ordini ad altri uomini, che a loro volta traevano idee e convinzioni
da documenti ufficiali scritti dall'ultima generazione, o da uomini morti da
dieci generazioni, che avevano scritto libri e concepito tradizioni e regole...
Un groviglio di convenzioni e di protocolli e di falsità assiomatiche che
erano state un brutto inizio. Guerra, miseria, sofferenza, violenza, scienza,
altra scienza, scienza più evoluta, superscienza, guerra, miseria...
Superscienza per i gonzi...
Pensosamente, guardò Skutch. La vita era sbagliata. Sì drasticamente
sbagliata. Era in grado di uccidere Skutch... ma non poteva. E allora?
Doveva andare con Skutch. Anche questo gli veniva imposto. Andare con
Skutch! Scoprire almeno, che cosa aveva intenzione di fare. Dare
un'occhiata alla cosiddetta superarma, alla sua base, alla gente che
lavorava con lui. E poi...
Scosse il capo con rammarico. «Non posso ucciderla, dottore. Verrò con
lei, se ce la faremo. Se quel che vedrò non mi piacerà, prometto che me ne
andrò e non dirò nulla. È contrario al mio giuramento, ma farò così.»
«E se le piacerà?» La domanda era un sondaggio.
«Vorrebbe che restassi? Che rinunciassi alla Terra?»
«Bah,» Skutch si dondolò. «Lei non ha mai avuto la Terra. La Terra
aveva lei. No, no, giovanotto. Tornerebbe indietro. Un giorno torneremo
tutti indietro... se vogliamo. Ma non per molto.»
Dornley gli rivolse un fuggevole sorriso, senza dir nulla. Il respiro di
Skutch gli uscì dalle labbra in un lungo sospiro sostenuto.
Dornley guardò la pistola. «In quanto ad arrivare sul terreno "asciutto"»,
disse pensosamente, «dovrebbe essere facile. Il calore concentrato
dovrebbe ridurre la tensione e darci una spinta nella direzione opposta.»
Distrusse la bolla che vibrava dolcemente con un'unica scarica:
scomparve con un tuono, e per un secondo piovvero grandi gocce. Dornley
attese sino a quando lui e Skutch furono di nuovo insieme, aspettò finché
si fu abituato ai venti che dovevano sospingere le correnti sottomarine. Poi
regolò la pistola sull'apertura massima. In questo modo ottenne un raggio a
ventaglio che giocò sulla pellicola superficiale alla sua sinistra, riducendo
adeguatamente la tensione.
Perché le forze superficiali sulla destra di Dornley erano più grandi, si
contraevano continuamente, trascinando lui e Skutch lontano dalla
superficie riscaldata. Quindi, giacché voleva assicurarsi che non si
spostassero in cerchio, attivò gli stabilizzatori.
Dopo un'ora, apparve qualcosa che si poteva descrivere
approssimativamente come una «spiaggia». Le potenti forze coesive,
tuttavia, facevano salire verso l'alto l'orlo del lago in una curva brusca, alta
poco meno di quattro metri. Dornley esaminò diffidente quell'ostacolo; ma
evidentemente la forza della pellicola che si contraeva era sufficiente a
vincere l'attrazione gravitazionale. Salirono, restarono in bilico. Skutch si
aggrappò al bordo roccioso della spiaggia e si liberò. Dornley era librato
sull'orlo. Skutch l'afferrò per le ascelle e lo tirò fuori.
Dornley guardò Skutch con aria interrogativa, mentre i venti di metano e
d'ammoniaca si muovevano torpidi intorno a loro. Skutch gli accennò di
sedere.
«Ci verranno a prendere,» disse soddisfatto.
«Sanno che siamo qui?» Dornley aveva un tono incredulo.
Skutch sogghignò. «Perché no? La scienza non è un fine, ma è uno
strumento.» Raccolse due pietre color ardesia e le batté insieme. «Il suono
viaggia e non si arresta. Gli apparecchi captano le vibrazioni. Arriveranno.
Noi abbiamo i mezzi per muoversi sul pianeta.»
Vi fu un silenzio. Poi Dornley vide che Skutch lo stava guardando
attento e deciso.
«Vivrà con noi,» disse lentamente il dottore. «Imparerà. Ci sono ragazze.
Ce ne sarà qualcuna che s'innamorerà di lei... se vorrà. Non le mancherà
nulla. Ma dovrà imparare.
«Quando dico che Giove è vivo, lei obietterà che forse è vivo, e cercherà
di scoprire perché penso che lo sia. Quando io dico che i meli crescono in
un bicchier d'acqua, lei discuterà il concetto. Riesaminerà ogni tradizione,
ogni convenzione, ogni idea che le è stata imposta e che è stato costretto
ad accettare. Chiederà perché deve fare una cosa o l'altra. Chi l'ha detto?
Comincerà a buttar via centinaia di idee false, ma sarà lei ad usarle: non
lascerà che siano le idee ad usare lei? Esaminerà le sue paure, le sue colpe,
le sue gelosie, le sue invidie. Allora sarà lei a dominarle, invece di
lasciarsene dominare. Niente, nessuna idea, si servirà più di lei. A meno
che lei lo voglia.»
Si dondolò sui talloni, con le mani sulle ginocchia, sorridendo di un
sorriso da tigre.
«La prospettiva la spaventa? Non lo permetta, giovanotto. Ho già usato
su di lei la mia arma segreta. I suoi raggi sono profondamente inseriti nel
suo corpo. Già vede con quanta facilità possono esplodere le bolle
personali. Non sarà mai più lo stesso.
«Ma solo fra mille anni noi saremo pronti per agire sull'umanità... noi o
quelli che verranno dopo di noi.»
I venti spiravano torpidi. Il tempo passava. Dornley stava seduto,
sconvolto, chiedendosi che cosa poteva abbandonare, che cosa poteva
conservare.

Titolo originale:
They Fly So High
(Amazing Stories, giugno 1952).

1953: «Amazing Stories»

Richard Matheson
L'ultimo giorno

Durante il regno di Palmer, Amazing aveva acquisito una discutibile


reputazione. Howard Browne ebbe il suo da fare ad annullarla, quando ne
assunse la direzione, e nonostante la qualità della narrativa, dimostrata
dal precedente racconto di Rocklynne, i suoi primi anni furono difficili.
L'occasione per un cambiamento definitivo venne quando la Ziff-Davis
accettò di passare al formato digest. Con un budget più ricco, Browne
acquistò racconti di prim'ordine e produsse una rivista di qualità superba
che si classifica tra le migliori pubblicazioni di fantascienza. Senza dubbio
il racconto più sorprendente e affascinante in quel primo formato digest fu
The Last Day di Richard Matheson.
Oggi Matheson è noto soprattutto come autore di vicende dell'orrore e
come sceneggiatore hollywoodiano, soprattutto per i film ispirati a Poe e
diretti da Roger Corman. Ma Matheson è veramente un prodotto del
mondo fantascientifico, poiché fece sensazione con il suo racconto breve,
Born of Man and Woman, apparso su F& SF dell'estate 1950, che è il
racconto in prima persona di un mutante. Matheson, nato nel 1926, era
cresciuto a Brooklyn e aveva avuto intenzione di fare l'ingegnere. Dopo la
vendita e l'accoglienza del suo primo racconto, continuò a scrivere,
diventando professionista. Nel campo della science fiction, storie come
Brother to the Machine (If, novembre 1952) sulla psicologia dei robot, e
The Foodlegger (Thrilling Wonder, aprile 1952) dove, in futuro, «cibo» è
una parola oscena, gli acquisirono presto una solida reputazione.
Matheson è particolarmente abile nel creare un clima di suspence per i
suoi testi d'orrore, in particolare il famoso romanzo I Am Legend ed il più
recente Hell-House. Con il fortunato adattamento per lo schermo del suo
The Incredible Shrinking Man, Matheson si dedicò sempre di più alle
sceneggiature, ma senza dimenticare il campo della narrativa. Un
racconto, The Distributor, gli fece vincere il premio annuale di mille
dollari di Playboy nel 1958, ed il romanzo The Beardless Warriors, sui
giovanissimi combattenti della seconda guerra mondiale, basato sulla sua
esperienza personale, gli ottenne notevoli riconoscimenti critici.
Le sue apparizioni in campo fantascientifico oggi sono purtroppo rare,
ma all'inizio degli Anni Cinquanta era difficile evitarlo. E con racconti
come The Last Day, comunque, era una gioia incontrarlo.

L'uomo si svegliò e la prima cosa che pensò fu: l'ultima notte è passata.
E lui ne aveva dormito la metà.
Giaceva sul pavimento e guardava il soffitto. Le pareti erano ancora
illuminate dai riflessi rossi della luce esterna. Nel soggiorno si sentiva
soltanto russare.
Si guardò intorno. C'erano corpi stravaccati per tutta la stanza. Sul
divano, accasciati sulle poltrone, raggomitolati sul pavimento.
Si sollevò su un gomito e rabbrividì per le fitte di sofferenza alla testa.
Chiuse gli occhi e tenne le palpebre serrate per un momento. Poi le riaprì.
Si passò la lingua sull'interno della bocca arida. C'era ancora un sapore
irrancidito di cibo e di liquore.
Restò appoggiato sul gomito e tornò a guardarsi intorno, osservando
lentamente la scena.
Nancy e Bill giacevano l'una tra le braccia dell'altro: erano nudi
entrambi. Norman era raggomitolato su una poltrona, la faccia magra tesa
nel sonno. Mort e Mel giacevano per terra, coperti da tappeti sporchi.
Russavano entrambi. C'erano altri, sul pavimento.
E fuori il bagliore rosso.
Guardò la finestra e mosse la gola. Sbatté le palpebre. Abbassò lo
sguardo sul suo lungo corpo. Deglutì di nuovo.
Sono vivo, pensò. Ed è tutto vero.
Si strofinò gli occhi. Aspirò una boccata dell'aria morta
dell'appartamento.
Rovesciò un bicchiere, mentre si rimetteva faticosamente in piedi. Il
liquore misto a soda si sparse sul pavimento, intrise il tessuto blu.
Girò lo sguardo sugli altri bicchieri, rotti, rovesciati a calci, scagliati
contro la parete. Guardò le bottiglie: erano dappertutto, tutte vuote.
Restò in piedi, a osservare intorno. Guardò il giradischi rovesciato, gli
album sparpagliati dovunque, i frammenti irregolari dei dischi disposti in
pazzeschi motivi sul tappeto.
Ricordò.
Era stato Mort a cominciare, la sera prima. Mort che all'improvviso si
era precipitato sul giradischi e aveva gridato, con voce ebbra: «Cosa
diavolo è la musica, ormai? Soltanto un sacco di chiasso!»
Con la punta della scarpa aveva spinto il giradischi contro la parete.
S'era dondolato avanti e indietro sulle ginocchia. Aveva sollevato tra le
braccia carnose il giradischi, l'aveva rovesciato, e l'aveva preso di nuovo a
calci.
«Al diavolo la musica!» Aveva gridato Mort. «Comunque mi fa schifo!»
Poi aveva cominciato a estrarre i dischi dagli album e dalle buste e a
spezzarli sul ginocchio.
«Venite!» aveva gridato a tutti. «Venite!»
L'idea aveva attaccato. Come attaccavano tutte le idee pazze in quegli
ultimi giorni.
Mel, che stava facendo l'amore con una ragazza, aveva smesso ed era
accorso. Aveva lanciato i dischi dalle finestre, disperdendoli lontano,
attraverso la strada. E Charlie aveva deposto la pistola per un momento per
andare anche lui alle finestre a cercare di colpire la gente con i dischi.
Richard aveva guardato i dischi neri rimbalzare e spaccarsi sul
marciapiedi. Ne aveva buttato uno persino lui. Poi si era tirato da parte e
aveva lasciato che fossero gli altri a impazzare. Aveva portato in camera da
letto la ragazza di Mel e per qualche momento avevano dimenticato quello
che stava succedendo al loro mondo.
Ci pensò, mentre stava ritto, un po' vacillante, nella luce rossiccia della
stanza.
Chiuse gli occhi un momento.
Poi guardò Nancy e ricordò che aveva preso anche lei, prima o poi, nel
caos delle ore frenetiche che erano state ieri e quell'ultima notte.
Aveva un'aria spregevole adesso, pensò. Era sempre stata un animale.
Ma prima, aveva sempre dovuto nasconderlo. Adesso, nel crepuscolo
finale di tutto, poteva sguazzare nell'unica cosa che le fosse sempre stata
veramente a cuore.

Si chiese se al mondo era rimasto ancora qualcuno con un po' di dignità:


la dignità vera, quella che c'era ancora quando non risultava più necessaria
per far colpo sulla gente.
Scavalcò il corpo d'una ragazza addormentata. Aveva addosso solo gli
slip. Abbassò lo sguardo sui capelli scarmigliati, le labbra rosse
impiastricciate, l'espressione tesa e infelice stampata sulla faccia.
Guardò nella camera da letto, mentre ci passava davanti. Nel letto
c'erano tre ragazze e due uomini.
Trovò il corpo in bagno.
Era stato gettato con noncuranza nella vasca, e coperto con la tendina
della doccia, strappata via. Si vedevano solo le gambe che penzolavano
ridicolamente dal bordo.
Tirò via la tendina e guardò la camicia intrisa di sangue, la bianca faccia
immobile.
Charlie.
Scosse il capo, poi si girò e si lavò la faccia e le mani nel lavabo. Non
importava. Niente importava. Per la verità, Charlie era uno dei fortunati,
adesso. Faceva parte della schiera di quelli che avevano messo la testa nel
forno, o si erano tagliati i polsi o preso pillole o si erano suicidati in modo
più o meno regolare.
Mentre si guardava la faccia stanca nello specchio pensò di tagliarsi i
polsi. Ma sapeva di non poterlo fare. Perché occorreva qualcosa di più
della disperazione per spingere all'autodistruzione.
Bevve un sorso d'acqua. Miracolosamente, pensò, c'è ancora acqua
corrente. Non credeva che fosse rimasta anima viva a far funzionare
l'impianto idrico. O la centrale elettrica o il sistema del gas o i telefoni o
tutto il resto.
Quale sciocco avrebbe avuto voglia di lavorare l'ultimo giorno del
mondo?

Spencer era in cucina, quando entrò Richard.


Era seduto a tavola in mutande e si guardava le mani. Sul fornello
stavano friggendo alcune uova. Allora doveva funzionare anche il gas,
pensò Richard.
«Ciao,» disse a Spencer.
Spencer grugnì senza alzare gli occhi. Si fissava le mani. Richard lasciò
perdere. Abbassò un po' il gas. Prese il pane dalla credenza e lo mise nel
tostino elettrico. Ma il tostino non funzionava. Scrollò le spalle e non
insistette.
«Che ora è?» Spencer, adesso, lo stava guardando.
Richard guardò l'orologio. «Si è fermato,» disse.
Si guardarono in faccia.
«Oh,» disse Spencer. Poi chiese: «Che giorno è?»
Richard rifletté. «Domenica, credo,» rispose.
«Chissà se qualcuno va in chiesa,» fece Spencer.
«E chi se ne frega?»
Richard aprì il frigorifero.
«Non ci sono più uova,» disse Spencer.
Richard chiuse lo sportello. «Niente più uova,» commentò cupo. «Niente
più polli. Niente più niente.»
Si appoggiò alla parete, con un respiro tremante e guardò il cielo rosso,
fuori dalla finestra.
Mary, pensò. Mary, che avrei dovuto sposare. Che ho lasciata andare. Si
chiese dov'era. Si chiese se stava pensando a lui.
Norman entrò pesantemente, stordito dal sonno e dai postumi della
sbronza. Aveva la bocca aperta, l'aria frastornata.
«'giorno,» borbottò.
«Buon giorno, sole splendente,» disse Richard, senza gaiezza.
Norman lo guardò intontito. Poi andò al lavello e si sciacquò la bocca.
Sputò l'acqua nello scarico.
«Charlie è morto,» disse.
«Lo so,» fece Richard.
«Oh. Quando è successo?»
«Questa notte,» spiegò Richard. «Tu eri partito. Ricordi che continuava
a dire che voleva spararci a tutti? Per non farci più soffrire?»
«Sì,» disse Norman. «Mi aveva messo la canna contro la testa. Ha detto:
"Senti com'è fredda."»
«Beh, s'è azzuffato con Mort,» disse Richard. «È partito un colpo.»
Scrollò le spalle. «Ecco tutto.»
Si guardarono senza espressione.
Poi Norman girò la testa e guardò fuori dalla finestra. «È ancora lassù,»
borbottò.
Guardarono la grande sfera fiammeggiante nel cielo che nascondeva il
Sole, la Luna, le stelle.
Norman si voltò, muovendo la gola. Le labbra gli tremavano e le strinse
con forza. «Gesù,» disse. «È oggi.»
Guardò di nuovo il cielo. «Oggi,» ripeté. «Tutto.»
«Tutto,» disse Richard.
Spencer si alzò e spense il gas. Guardò le uova per un momento. Poi
disse: «Perché diavolo le ho fritte, queste?»
Le scaricò nel lavello: scivolarono, unte, sulla superficie bianca. I tuorli
scoppiarono, schizzando sullo smalto un fumante liquido giallo.
Spencer si morse le labbra. La sua faccia s'indurì. «Vado a prenderla
ancora,» disse all'improvviso.
Passò davanti a Richard e lasciò cadere le mutande mentre svoltava nel
corridoio.
«Ecco che Spencer va,» disse Richard.
Norman sedette a tavola. Richard restò accanto alla parete.
In soggiorno, sentirono Nancy gridare all'improvviso, con la sua voce
stridente: «Ehi, svegliatevi, tutti quanti! Guardatemi! Guardatemi tutti,
guardatemi!»

Norman guardò dalla porta della cucina per un momento. Poi qualcosa
gli cedette dentro e accasciò la testa sulle braccia, sopra il tavolo. Le spalle
magre gli tremavano.
«L'ho fatto anch'io,» disse con voce spezzata. «L'ho fatto anch'io. Oh,
Dio, perché sono venuto qui?»
«Sesso,» fece Richard. «Come tutti noi. Pensavi di poter finire la tua vita
nell'ebbra beatitudine carnale.»
La voce di Norman era soffocata. «Non posso morire così,» singhiozzò.
«Non posso.»
«Lo stanno facendo due miliardi di persone,» disse Richard. «Quando il
sole ci colpirà, lo staranno ancora facendo. Che spettacolo.»
Il pensiero della popolazione di un mondo che si abbandonava ad
un'ultima orgia animalesca lo fece rabbrividire. Chiuse gli occhi e premette
la fronte contro la parete e cercò di dimenticare.
Ma la parete era calda.
Norman alzò la testa dal tavolo. «Andiamo a casa,» disse.
Richard lo guardò. «A casa?» chiese.
«Dai nostri genitori. Mia madre e mio padre. Tua madre.»
Richard scosse il capo. «Non voglio,» disse.
«Ma non posso andare da solo.»
«Perché?»
«Perché... Non posso. Sai che le strade sono piene di tipi che
ammazzano tutti quelli che incontrano.»
Richard scrollò le spalle.
«Perché non vuoi?» chiese Norman.
«Non voglio vederla.»
«Tua madre?»
«Sì.»
«Sei pazzo,» disse Norman. «Chi altro c'è...»
«No.»
Pensò a sua madre, a casa, che l'aspettava. Lo aspettava. Lo aspettava,
l'ultimo giorno. E lo faceva star male l'idea di ritardare, di non rivederla
più.
Ma continuava a pensare: come posso andare a casa e sentire lei che
cerca di convincermi a pregare? Che cerca di farmi leggere la Bibbia, di
farmi passare queste ultime ore in una confusione religiosa?
Lo disse ancora, per se stesso: «No.»
Norman sembrava sperduto. Il petto gli tremava per un singhiozzo
trattenuto. «Voglio vedere mia madre.» disse.
«Vai pure,» fece distrattamente Richard.
Ma si sentiva torcere le viscere. Non vederla più. Né sua sorella, con il
marito e la figlia.
Non rivedere più nessuno di loro.
Sospirò. Era inutile lottare. Nonostante tutto, Norman aveva ragione.
Chi altro c'era, al mondo, se non loro? In un grande mondo che stava per
bruciare, c'era qualche altra persona che l'amasse più di tutti gli altri?
«Oh... va bene,» disse. «Andiamo. Qualunque cosa, pur di andare via da
questo posto.»

Il corridoio del caseggiato puzzava di vomito. Trovarono il portinaio


ubriaco fradicio per le scale. Nell'atrio c'era un cane con la testa sfondata.
Si fermarono, quando uscirono.
Istintivamente, guardarono in su.
Il cielo rosso, come scorie fuse. Le spire ardenti che cadevano come
gocce di pioggia rovente attraverso l'atmosfera. La gigantesca sfera di
fiamma che continuava a farsi sempre più vicina e cancellava l'universo.
Abbassarono gli occhi lacrimosi. Faceva male, guardare. Si avviarono
lungo la strada. Era molto caldo.
«Dicembre,» disse Richard. «È come ai tropici.»
Mentre camminavano in silenzio lui pensò ai tropici, ai poli, a tutti i
paesi del mondo che non avrebbe mai visto. A tutte le cose che non
avrebbe mai fatto.
Come tenere Mary tra le braccia e dirle, mentre il mondo finiva, che
l'amava moltissimo e non aveva paura.
«Mai,» disse, mentre si sentiva irrigidire dalla frustrazione.
«Cosa?» fece Norman.
«Niente. Niente.»
Mentre camminava, Richard sentì qualcosa di pesante nella tasca della
giacca. Gli batteva contro il fianco. V'infilò la mano ed estrasse l'oggetto.
«Cos'è?» domandò Norman.
«La pistola di Charlie,» disse Richard. «L'ho presa questa notte perché
nessun altro si facesse male.»
La sua risata era aspra. «Perché nessun altro si facesse male,» ripeté
amaramente. «Gesù, dovrei far l'attore.»
Stava per gettarla via quando cambiò idea. Tornò a infilarla nella tasca.
«Forse ne avrò bisogno,» disse.
Norman non lo ascoltava. «Grazie a Dio, nessuno ha rubato la mia
macchina. Oh...!»
Qualcuno aveva sfondato il parabrezza con un sasso.
«Che differenza fa?» chiese Richard.
«Io... nessuna, immagino.»
Salirono sul sedile anteriore e lo liberarono dai frammenti di vetro.
Richard si sfilò la giacca e la buttò fuori. Mise la pistola nella tasca dei
calzoni.

Mentre Norman guidava verso il centro, incontrarono gente per la strada.


Alcuni correvano all'impazzata come se fossero alla ricerca di qualcosa.
Altri litigavano. Sparsi sui marciapiedi c'erano i corpi di quelli che si erano
buttati dalle finestre o erano stati investiti da macchine in corsa. C'erano
edifici in fiamme, finestre sfondate dalle esplosioni del gas.
C'era gente che guardava i negozi.
«Che diavolo gli ha preso a quelli?» chiese depresso Norman. «È così
che passano il loro ultimo giorno?»
«Forse è così che hanno passato tutta la vita,» rispose Richard.
Si appoggiò alla portiera, osservando la gente che incontravano. Alcuni
lo salutavano agitando la mano. Altri imprecavano e sputavano. Alcuni
lanciavano oggetti contro la macchina.
«La gente muore come è vissuta,» disse lui. «Alcuni bene, altri male.»
«Attento!» Richard gridò mentre una macchina piombava sulla strada
dalla parte sbagliata. Uomini e donne si sporgevano dai finestrini gridando
e cantando e agitando bottiglie.
Norman sterzò violentemente. Mancarono di pochissimo l'altra auto.
«Sono pazzi?» chiese.
Richard guardò dal lunotto posteriore. Vide la macchina sbandare,
sfuggire al controllo, rovesciarsi sul fianco, con le ruote che giravano
all'impazzata.
Tornò a voltarsi senza parlare. Norman continuò a guardare avanti,
torvo, con le mani sul volante, bianco e teso.
Un altro incrocio.
Una macchina, velocissima, tagliò loro la strada. Norman premette i
freni con un grido soffocato. Urtarono contro il cruscotto, senza fiato.
Poi, prima che riuscisse a rimettere in moto la macchina, una banda di
minorenni armati di coltelli e bastoni si precipitò all'incrocio. Stavano
inseguendo l'altra macchina: ma poi cambiarono direzione e si
avventarono su quella dov'erano Norman e Richard.
Norman inserì la prima e tagliò attraverso la strada.
Un ragazzo balzò sul bagagliaio della macchina. Un altro cercò di saltare
sul predellino, non ci riuscì e finì rotolando in mezzo alla strada. Un altro
ce la fece e afferrò la maniglia della portiera. Cercò di colpire Richard con
un coltello.
«Vi ammazzo, bastardi!» urlò il ragazzo. «Figli di puttana!»
Tentò un altro colpo e squarciò lo schienale del sedile, mentre Richard
scostava la spalla appena in tempo.
«Togliti di qui!» urlò Norman, tentando di tener d'occhio
contemporaneamente il ragazzo e la strada.
Il ragazzo cercò di aprire la portiera mentre la macchina zigzagava
all'impazzata per Broadway. Sferrò altri colpi, ma il movimento gli impedì
di metterli a segno.
«Vi ammazzo!» urlava in una furia d'odio demente.
Richard tentò di aprire la portiera e di sbatter via il ragazzo, ma non ci
riuscì. Una faccia pallida e contratta s'infilò nel finestrino. Alzò il coltello.
Richard, adesso, aveva in pugno la pistola. Sparò verso la faccia.
Il ragazzo volò via dalla macchina con un ululato e cadde come un sacco
di pietre. Rimbalzò, una volta, scalciò con la gamba sinistra e restò
immobile.
Richard si girò.
Il ragazzo sul portabagagli stava ancora aggrappato, con la faccia
stravolta premuta contro il lunotto posteriore. Richard vide che muoveva la
bocca, imprecando.
«Sbattilo giù!» disse.
Norman puntò verso il marciapiedi, poi improvvisamente sterzò e tornò
sulla strada. Il ragazzo restò aggrappato. Norman ripeté la manovra. Il
ragazzo sembrava incollato al portabagagli.
Poi, la terza volta, perse l'appiglio e cadde. Cercò di correre lungo la
strada, ma lo slancio era troppo grande e finì d'un balzo al di sopra del
marciapiedi, andando a sbattere contro una vetrina, con le braccia protese
in avanti per proteggersi dal colpo.
Rimasero seduti in macchina, respirando pesantemente. Per un po' non
parlarono. Richard gettò la pistola dal finestrino e la guardò rotolare sul
cemento e rimbalzare contro un idrante. Norman cominciò a dire qualcosa,
poi s'interruppe.
La macchina svoltò nella Fifth Avenue e si avviò verso il centro, a
novanta all'ora. Non c'erano molte macchine.
Passarono davanti a chiese piene zeppe di gente: ce n'era persino sulle
gradinate.
«Poveri sciocchi,» mormorò Richard; gli tremavano ancora le mani.
Norman trasse un profondo respiro. «Vorrei essere un povero sciocco,»
disse. «Un povero sciocco capace di credere in qualcosa.»
«Forse,» disse Richard. Poi aggiunse. «Preferisco passare l'ultimo giorno
credendo in quello che credo che sia vero.»
«L'ultimo giorno,» disse Norman. «Io...» Scosse il capo. «Non posso
pensarlo,» fece. «Leggo i giornali. Vedo quella... quella cosa lassù. So che
succederà. Ma Dio! La fine?»
Guardò Richard per un secondo. «E dopo, niente?»
Richard disse: «Non so.»
Alla 14th Street, Norman passò all'East Side, poi attraversò il ponte di
Manhattan. Non si fermava per nessun motivo, girando intorno ai cadaveri
e alle macchine sfasciate. Una volta passò sopra ad un corpo e Richard
vide il suo volto contorcersi mentre la ruota sobbalzava sulla gamba del
morto.
«Sono tutti fortunati,» disse Richard. «Più fortunati di noi.»
Si fermarono davanti alla casa di Norman, a Brooklyn. Alcuni bambini
giocavano a palla per la strada. Sembrava non si rendessero conto di quel
che stava succedendo. Le loro grida risuonavano fortissime per la via
silenziosa. Richard si chiese se i loro genitori sapevano dov'erano i
bambini. O se se ne curavano.
Norman lo stava guardando. «Beh...?» cominciò a dire.
Richard si sentì stringere i muscoli dello stomaco. Non riusciva a
rispondere.
«Ti farebbe... ti farebbe piacere entrare per un minuto?» chiese Norman.
Richard scosse il capo. «No,» fece. «Sarà meglio che vada a casa.
Dovrei... dovrei andare a vederla. Mia madre, voglio dire.»
«Oh.» Norman annuì. Poi si raddrizzò. S'impose un istante di calma.
«Per quel che può valere, Dick,» disse. «Ti considero il mio miglior amico
e...»
S'interruppe. Tese la mano e strinse quella di Richard. Poi scese dalla
macchina, lasciando la chiavetta nell'accensione.
«Arrivederci,» disse in fretta.
Richard guardò il suo amico allontanarsi correndo dalla macchina, verso
il caseggiato. Quando fu quasi arrivato alla porta, Richard gridò: «Norm!»
Norman si fermò e si voltò. I due si guardarono. Tutti gli anni della loro
amicizia sembrarono passare fulmineamente tra loro.
Poi Richard riuscì a sorridere. Si sfiorò la fronte in un ultimo saluto.
«Arrivederci, Norm.».
Norman non sorrise. Spinse la porta, entrò e scomparve.
Richard guardò a lungo la porta. Avviò il motore. Poi lo spense di
nuovo, pensando che magari i genitori di Norman non c'erano.
Dopo un po', rimise in moto la macchina, e incominciò il viaggio verso
casa.

E mentre viaggiava continuava a pensare.


Più si avvicinava alla fine, e meno si sentiva capace di affrontarla.
Voleva che si concludesse subito. Prima che incominciassero gli isterismi.
Sonniferi decise. Era il modo migliore. A casa ne aveva qualcuno.
Sperava che ce ne fossero rimasti abbastanza. Forse non ce n'erano più al
drugstore dell'angolo. C'era stata una corsa ai sonniferi, in quegli ultimi
giorni. Famiglie intere li prendevano insieme.
Arrivò a casa senza incidenti. Il cielo era di un cremisi incandescente.
Sentiva il calore sulla faccia, come ondate provenienti da un forno lontano.
Respirava l'aria surriscaldata e si sentiva contrarre i polmoni.
Aprì la porta d'ingresso ed entrò lentamente.
Probabilmente la troverò in soggiorno, pensò. Circondata dai suoi libri,
intenta a pregare, ad implorare potenze invisibili perché la soccorrano,
mentre il mondo si preparava ad andare arrosto.
Lei non era in soggiorno.
Richard la cercò per la casa. E il suo cuore cominciò a battere più in
fretta, e quando si rese conto che lei non c'era provò un gran senso di vuoto
allo stomaco. Sapeva che erano state soltanto chiacchiere, quando aveva
detto che non voleva vederla. Le voleva bene. E lei era l'unica rimasta,
ormai.
Cercò un biglietto nella stanza di lei, nella sua, in salotto.
«Mamma,» chiamò. «Mamma, dove sei?»
Trovò il biglietto in cucina. Lo prese dal tavolo:

Richard caro,
sono a casa di tua sorella. Ti prego di venire là. Non lasciarmi
passare l'ultimo giorno senza di te. Non farmi lasciare questo
mondo senza aver rivisto ancora il tuo caro volto.
Ti prego.

L'ultimo giorno.
Era nero su bianco. E fra tutti, era stata proprio sua madre a scrivere
quelle parole. Lei che era sempre stata così scettica della sua preferenza
per le scienze materiali. Adesso ammetteva la realtà dell'ultima predizione
della scienza.
Perché non poteva più dubitare. Perché il cielo era pieno di un'evidenza
fiammeggiante e nessuno poteva più dubitarne.
Tutto il mondo stava per finire. Il conteggio abbagliante di evoluzioni e
rivoluzioni, di lotte e di scontri, d'infinite continuità di secoli che si
perdevano nel passato nebuloso, di rocce e alberi e animali e uomini. Tutto
finito. In un lampo, in un momento. L'orgoglio, la vanità del mondo
dell'uomo incenerito da una capricciosa anomalia astronomica.
Che senso aveva, allora? Nessuno. Nessuno. Poiché tutto stava per
finire.
Prese i sonniferi dall'armadietto dei medicinali e uscì. Andò a casa della
sorella pensando a sua madre, mentre passava per le strade ingombre un
po' di tutto, dalle bottiglie vuote ai cadaveri.
Se soltanto non avesse temuto il pensiero di discutere con sua madre
quell'ultimo giorno; di disputare con lei sul suo Dio e le sue convinzioni.
Decise di non discutere. Si sarebbe sforzato di fare in modo che
quell'ultimo giorno fosse pacifico. Avrebbe accettato la sua semplice
devozione e non avrebbe aggredito più la sua fede.
La porta principale della casa di Grace era chiusa a chiave. Suonò il
campanello e dopo un momento sentì un suono di passi affrettati.
Sentì Ray gridare, all'interno: «Non aprire, mamma! Può essere ancora
quella banda!»
«È Richard. Lo so!» gridò di rimando sua madre.
Poi la porta si aprì, e lei lo abbracciò, piangendo di felicità.
In un primo momento, lui non parlò. Finalmente disse, sottovoce: «Ciao,
mamma.»
Sua nipote Doris giocò tutto il pomeriggio nel salotto mentre Grace e
Ray sedevano lì immobili a guardarla.
Se fossi con Mary, continuava a pensare Richard. Se fossimo insieme,
oggi. Poi pensò che forse avrebbero avuto figli. E che avrebbe dovuto stare
lì come Grace, sapendo che i pochi anni vissuti dalla sua creatura
sarebbero stati gli unici.
Il cielo divenne più luminoso con l'avvicinarsi della sera. Era invaso di
violente correnti cremisi. Doris si accostò silenziosa alla finestra e lo
guardò. Non aveva riso o pianto in tutto il giorno. E Richard pensò: lei sa.
E pensò anche che, da un momento all'altro, sua madre avrebbe chiesto a
tutti di pregare insieme. Di sedersi a leggere la Bibbia e di sperare nella
carità divina.
Ma lei non disse niente. Sorrise. Preparò la cena. Richard rimase con lei
in cucina mentre la preparava.
«Forse non riuscirò ad aspettare,» le disse. «Forse... prenderò i
sonniferi.»
«Hai paura figliolo?» chiese lei.
«Tutti hanno paura,» rispose lui.
Lei scosse il capo. «Non tutti,» disse.
Adesso, pensò lui, sta per cominciare. Quell'espressione virtuosa, quella
frase d'apertura.
Lei gli porse un piatto con le verdure, e sedettero tutti a mangiare.
Durante la cena nessuno parlò, se non per chiedere cibo. Doris non disse
neppure una parola. Richard la guardava attraverso il tavolo.
Pensò alla notte precedente. Le bevute pazzesche, le risse, le orge. Pensò
a Charlie morto nella vasca da bagno. All'appartamento a Manhattan. Di
Spencer che si riduceva ad una bramosia di libidine, quale culmine della
sua vita. Del ragazzo che giaceva morto per una strada di New York con
una pallottola nel cervello.
Sembravano tutti molto lontani. Quasi poteva credere che non fosse mai
accaduto. Poteva quasi credere che quello fosse soltanto uno dei tanti pasti
serali in compagnia della sua famiglia.
A parte la luce rossiccia che riempiva il cielo e inondava la stanza
entrando dalle finestre come il riflesso di un gigantesco camino.
Verso la fine del pasto Grace andò a prendere una scatoletta. Sedette a
tavola e l'aprì. Ne estrasse compresse bianche. Doris la guardò, con grandi
occhi interrogativi.
«Questo è il dolce,» le disse Grace. «Per dessert, prenderemo tutti le
caramelle bianche».
«È menta piperita?» chiese tranquilla Doris.
«Sì,» disse Grace. «È menta piperita.»
Richard si sentì aggricciare il cuoio capelluto, mentre Grace metteva le
pillole davanti a Doris. Davanti a Ray.
«Non ne abbiamo abbastanza per tutti,» disse a Richard.
«Ho le mie,» disse lui.
«Ne hai abbastanza per mamma?» chiese Grace.
«Io non ne ho bisogno.»
In preda alla tensione, per poco Richard non le urlò in faccia. Finiscila
d'essere così maledettamente generosa! Ma si trattenne. Fissò, affascinato
dall'orrore, Doris che teneva le pillole nella manina.
«Non è menta piperita,» fece la bambina. «Mamma, questa non è...»
«Sì, lo è.» Grace trasse un profondo respiro. «Mangia, cara.»
Doris ne mise una in bocca. Fece una smorfia. Poi la sputò nel palmo.
«Non è menta piperita,» disse, sconvolta.
Grace alzò di scatto la mano e si piantò i denti nelle nocche bianche. I
suoi occhi si volsero freneticamente a Ray.
«Mangiale, Doris,» disse Ray. «Mangiale, sono buone.»
Doris cominciò a piangere. «No, non mi piacciono!»
«Mangia!»
Ray si girò all'improvviso dall'altra parte, tremando. Richard cercò di
pensare a qualche sistema per indurla a mangiare le pillole, ma non ci
riuscì.
Poi sua madre parlò. «Facciamo un gioco, Doris,» disse. «Vediamo se
riesci a mandar giù tutte le caramelle prima che io conti fino a dieci. Se ce
la farai, ti regalerò un dollaro.»
Doris tirò su col naso. «Un dollaro?» chiese.
La madre di Richard annuì. «Uno,» disse.
Doris non si mosse.
«Due,» disse la madre di Richard. «Un dollaro...»
Doris si asciugò una lacrima. «Un... un dollaro intero?»
«Sì, tesoro. Tre, quattro, presto.»
Doris allungò le mani verso le pillole.
«Cinque... sei... sette...»
Grace aveva gli occhi chiusi, le guance sbiancate.
«Nove... dieci...»
La madre di Richard sorrise, ma le labbra le tremavano, e c'era un
luccichio nei suoi occhi. «Ecco,» disse allegramente. «Hai vinto il gioco.»
Grace all'improvviso mise in bocca le pillole e le inghiottì, in rapida
successione. Guardò Ray. Lui tese una mano tremante e ingoiò le
compresse. Richard mise la mano in tasca per prendere le sue, ma poi la
estrasse. Non voleva che sua madre lo vedesse a prenderle.
Doris s'insonnolì quasi immediatamente. Sbadigliava e non riusciva a
tenere gli occhi aperti. Ray la prese in braccio e lei gli si appoggiò contro
la spalla, cingendogli il collo con le braccia. Grace si alzò, e tutti e tre
andarono in camera da letto.
Richard restò seduto mentre sua madre andava a dir loro addio. Restò
seduto a guardare la tovaglia bianca, gli avanzi del cibo.
Quando sua madre tornò, gli sorrise. «Aiutami a sparecchiare,» disse.
«A...?» cominciò lui. Poi s'interruppe. Che differenza avrebbe fatto?
Restò con lei nella cucina illuminata di rosso, con un acuto senso
d'irrealtà, mentre asciugava i piatti che non avrebbero usato mai più e li
riponevano in armadietti che tra poche ore non sarebbero più esistiti.
Continuava a pensare a Ray e Grace nella camera da letto. Finalmente
uscì dalla cucina senza dire una parola e tornò indietro. Aprì la porta e
guardò dentro. Li guardò a lungo, tutti e tre. Poi richiuse la porta e tornò
lentamente in cucina. Fissò sua madre.
«Sono...»
«Sta bene,» disse sua madre.
«Perché non gli hai detto niente?» le chiese. «Come mai hai lasciato che
lo facessero, senza dir niente?»
«Richard,» rispose lei, «di questi tempi, ognuno deve farsi la sua strada.
Nessuno può dire agli altri quel che devono fare. Doris era la loro figlia.»
«E io sono tuo figlio...»
«Non sei più un bambino,» disse lei.
Richard finì di lavare i piatti, con le dita intorpidite e tremanti.
«Mamma, ieri notte...» cominciò.
«Non m'interessa.»
«Ma...»
«Non importa,» fece lei. «Questa parte sta finendo.»
Adesso, pensò lui, quasi con dolore. Questa parte. Adesso lei avrebbe
parlato dell'aldilà e del paradiso e dei premi per i giusti e dell'eterna
penitenza per i peccatori.
Lei disse: «Andiamo a sederci sotto il portico.»
Richard non capì. Attraversò con lei la casa silenziosa. Sedette accanto a
lei sotto il portico e pensò: Non rivedrò mai più Grace. O Doris. O Norman
o Spencer o Mary.
Non riusciva ad accettare tutto. Era troppo. Poteva soltanto restare
seduto impalato a guardare il cielo rosso ed il sole enorme che stava per
inghiottirli. Non riusciva più neppure a sentirsi nervoso. Le paure erano
smussate dalla ripetizione infinita.
«Mamma,» disse dopo un po', «perché... perché non mi hai parlato di
religione? So che lo vorresti.»
Lei lo guardò, con un'espressione molto dolce nella luce rossa.
«Non è necessario, caro,» rispose. «So che saremo insieme, quando
questo sarà finito. Non è necessario che lo creda tu. Lo crederò io per
entrambi.»
E fu tutto. Lui la guardò, ammutolito da quella sicurezza.
«Se adesso vuoi prendere quelle compresse,» disse lei, «va bene. Puoi
addormentarti sulle mie ginocchia.»
Richard non seppe che fare, sino a quando pensò a lei, seduta là sola,
quando sarebbe finito il mondo.
«Resterò con te,» disse.
Lei sorrise. «Se cambi idea,» fece, «puoi avvertirmi.»
Rimasero in silenzio per un po'. Poi lei disse: «È grazioso.»
«Grazioso?» chiese lui.
«Sì,» disse lei. «Dio cala un sipario luminoso sulla nostra commedia.»
Lui non sapeva. Ma le cinse le spalle con un braccio e lei si appoggiò a
lui. E Richard sapeva una cosa.
Restarono seduti, nella sera dell'ultimo giorno. E sebbene la cosa non
avesse senso, si volevano bene.

Titolo originale:
The Last Day
(Amazing Stories, aprile - maggio 1953).

1954: «Galaxy»

Robert Sheckley
Giù le mani

Una delle colonne di Galaxy, durante i primi tempi della sua esistenza,
fu il sorprendentemente prolifico Robert Sheckley, che portò alla
fantascienza un considerevole contributo di brio e di vivace umorismo.
Molti critici affermano che il genere era del tutto privo di umorismo, ma
autori come Eric Frank Russell, Harry Harrison e Robert Sheckley
possono dimostrare che l'accusa è ridicolmente infondata.
Robert Sheckley è nato a Brooklyn lunedì 16 luglio 1928 ed è cresciuto
nel New Jersey. Si laureò in inglese alla New York University, e acquisì
una profonda preparazione in tutti gli aspetti della letteratura inglese. Ha
sempre ammesso che il suo scrittore di science fiction prediletto era Henry
Kuttner, quindi è doppiamente giusto che entrambi gli autori appaiano in
questo volume.
Per mantenersi, Sheckley cominciò a scrivere un po' di tutto, piazzando
due racconti presso la rivista dell'università. Poi vendette una breve storia
fantastica, Final Examination, a Imagination (maggio 1952), e quasi
immediatamente vendette un'altra dello stesso genere fuori dal campo:
Fear in the Night a Today's Woman. È un racconto semplice: un marito
che gioca sulla paura che la moglie nutre verso i serpenti per tormentarla
mentre dorme. Immaginate la mia sorpresa quando molto più tardi lessi
un racconto, The Web di Dick Harrington, sul London Mystery Magazine
del settembre 1969, che è una copia esatta dell'altro, a parte la
sostituzione dei ragni al posto dei serpenti! L'influenza di Sheckley si
spinge molto lontano.
Nell'anno del boom fantascientifico, il 1953, Sheckley appariva quasi
dappertutto, e ben presto rinunciò ad ogni impiego per scrivere a tempo
pieno. Tuttavia l'amore per i viaggi spingeva Sheckley in giro per il
mondo, e spesso i direttori delle riviste perdevano le sue tracce. Per tutti
gli Anni Cinquanta, Sheckley continuò a vendere fantascienza solida e ben
costruita, più tardi sconfinando nella suspense e nel thriller. Fu uno dei
primi autori che cominciarono a vendere regolarmente fantascienza a
Playboy e questo contribuì a creargli una carriera.
Oggi Sheckley è uno dei nomi più rispettati della science fiction,
sebbene le sue apparizioni siano ormai rarissime. Che si può fare di
meglio, allora, che recuperare uno dei suoi primi classici per
sottolinearne il contributo al genere?

Il rivelatore di massa della nave lampeggiò prima roseo, poi rosso. Agee
stava sonnecchiando ai comandi, in attesa che Victor finisse di cenare.
Adesso alzò la testa di scatto. «Pianeta in avvicinamento,» gridò, al di
sopra del sibilo dell'aria che fuggiva.
Il comandante Barnett annuì. Finì di modellare una toppa rovente, e la
sbatté sullo scafo consunto dell'Endeavour. Il sibilo dell'aria si ridusse ad
un gemito sommesso, ma non cessò completamente. Non cessava mai.
Quando Barnett si avvicinò, il pianeta era appena visibile al di là
dell'orlo di un piccolo sole rosso. Brillava verde sullo sfondo nero dello
spazio e ispirava ai due uomini un pensiero identico.
Barnett espresse quel pensiero in parole: «Chissà se c'è qualcosa che val
la pena di prendere», disse, aggrottando la fronte.
Agee inarcò speranzoso un sopracciglio bianco. Osservarono, mentre i
quadranti cominciavano a registrare.
Non avrebbero mai avvistato quel pianeta, se avessero portato la
Endeavour lungo le Rotte Galattiche Meridionali. Ma la polizia della
Confederazione stava diventando sempre più numerosa lungo quelle rotte,
e Barnett preferiva girare al largo.
L'Endeavour era registrata come mercantile... ma l'unico carico che
trasportava consisteva di parecchie bottiglie di un acido estremamente
potente usato per aprire le casseforti e tre bombe atomiche di media
grandezza. Le autorità guardavano con sfavore quelle merci, e cercavano
sempre di arrestare l'equipaggio per qualche vecchia imputazione... un
omicidio sulla Luna, un furto su Omega, furto con scasso su Samia II.
Vecchi reati semidimenticati che la polizia, ostinatamente, insisteva nel
ripescare.
Per peggiorare le cose, l'Endeavour era in condizioni d'armamento
inferiore rispetto ai nuovi incrociatori della polizia. Perciò avevano scelto
una rotta esterna per raggiungere Nuova Atene, dov'era stato appena aperto
un grande giacimento di uranio.
«Non mi pare gran cosa,» commentò Agee, esaminando con aria critica i
quadranti.
«Tanto varrebbe passare oltre,» disse Barnett.
I dati non erano interessanti. Mostravano un pianeta più piccolo della
Terra, che non figurava sulle carte, e senz'altro valore commerciale che
l'atmosfera d'ossigeno.
Mentre passavano oltre, il rilevatore dei metalli pesanti entrò in azione.
«C'è roba, laggiù,» disse Agee, interpretando prontamente le letture
multiple. «Pura. Molto pura... e in superficie!»
Guardò Barnett che annuì. La nave virò verso il pianeta.
Victor arrivò dal fondo, con una piccola papalina di lana sulla gran testa
rapata. Guardò oltre la spalla di Barnett, mentre Agee faceva scendere la
nave in una stretta spirale. A quasi un chilometro dalla superficie, videro il
loro deposito di metallo pesante.
Era un'astronave, ferma sulla coda in una radura naturale.
«Questo sì che è interessante,» disse Barnett. Accennò ad Agee di
avvicinarsi ancora di più.
Agee fece scendere la nave con grande destrezza. Aveva passato un
pezzo l'età della pensione obbligatoria per i piloti, ma questo non influiva
sulla sua coordinazione. Barnett, che l'aveva trovato squattrinato e
sbandato, l'aveva arruolato. Il comandante era sempre pronto ad aiutare un
altro umano, se la cosa era pratica e se prometteva di essere anche
redditizia. I due uomini condividevano lo stesso atteggiamento nei
confronti della proprietà privata, ma talvolta dissentivano sui modi per
acquisirla. Agee preferiva stare sul sicuro. Barnett, invece, aveva più
coraggio di quanto fosse consigliabile per una specie relativamente fragile
come l'Homo sapiens.
Presso la superficie del pianeta, videro che la nave sconosciuta era più
grossa dell'Endeavour, e lucente, nuova. La forma dello scafo era insolita,
e lo erano anche i contrassegni.
«Mai visto qualcosa del genere?» chiese Barnett.
Agee frugò nell'abbondante repertorio della sua memoria. «Sembra po'
una nave cefeana, ma non le fanno così tozze. Siamo parecchio fuorimano,
vedi. Quella nave potrebbe addirittura non appartenere alla
Confederazione.»
Victor fissò la nave, con le grosse labbra socchiuse per lo stupore.
Sospirò rumorosamente. «Di sicuro una nave come quella ci farebbe
comodo, eh, comandante?»
L'improvviso sospiro di Barnett fu come una crepa aperta nel granito.
«Victor,» disse, «nella tua semplicità sei andato al cuore della faccenda.
Una nave come quella ci farebbe comodo. Scendiamo e parliamo con il
suo comandante.»
Prima di legarsi sulla poltroncina, Victor si assicurò che i congelatori
fossero carichi.

Quando furono al suolo, lanciarono un bengala arancione e verde per


chiedere di parlamentare, ma dalla nave aliena non arrivò risposta.
L'atmosfera risultò respirabile, con una temperatura di 24 gradi. Dopo aver
atteso per qualche minuto, uscirono con i congelatori pronti sotto i
giubbotti.
I tre uomini sfoggiavano sorrisi studiosamente gradevoli mentre
percorrevano i cinquanta metri tra le due navi.
Vista da vicino, la sconosciuta era magnifica. Il lucente scafo grigio-
argento non era stato quasi scalfito da meteoriti. Il portello era aperto ed un
ronzio sommesso disse loro che i generatori stavano ricaricandosi.
«C'è qualcuno in casa?» gridò Victor nel portello. La sua voce echeggiò
cavernosa nella nave. Non vi fu risposta... solo il ronzio sommesso dei
generatori ed il fruscio dell'erba sulla pianura.
«Dove credi che siano andati?» chiese Agee.
«A prendere una boccata d'aria, probabilmente,» disse Barnett.
«Immagino non si aspettassero visite.»
Victor sedette placidamente per terra. Barnett ed Agee gironzolarono
intorno alla base della nave, ammirando i colossali ugelli.
«Credi di poterla pilotare?» chiese Barnett.
«Non vedo perché non dovrei,» disse Agee. «Innanzi tutto, è un motore
normale. I servomeccanismi non contano... Tutte le specie che respirano
ossigeno usano sistemi di comandi molto simili. È solo questione di
tempo: riuscirò a ritrovarmici.»
«Sta arrivando qualcuno,» gridò Victor.
Tornarono di corsa al portello. A trecento metri dalla nave c'era una rada
foresta. Una figura era appena uscita dagli alberi, e stava camminando
verso di loro.
Agee e Victor estrassero simultaneamente le pistole.
Il binocolo di Barnett risolse la minuscola figura in una sagoma
rettangolare, alta una sessantina di centimetri per una trentina. L'alieno
aveva uno spessore inferiore ai cinque centimetri e non aveva testa.
Barnett aggrottò la fronte. Non aveva mai visto un rettangolo fluttuare
sull'erba alta.
Regolando il binocolo, vide che l'alieno era vagamente umanoide. Cioè,
aveva quattro arti. Due, quasi nascosti dall'erba, erano mezzi di
deambulazione, e gli altri due erano protesi rigidi nell'aria. Barnett riuscì
appena a distinguere, nella parte centrale, due occhi minuscoli, ed una
bocca. L'essere non portava né tuta né casco.
«Che strano,» borbottò Agee, regolando l'apertura della sua arma. «E se
ci fosse soltanto lui?»
«Lo spero,» disse Barnett, estraendo la pistola.
«Portata circa duecento metri.» Agee spianò la sua arma, poi alzò la
testa. «Prima vuoi parlargli, comandante?»
«Cosa c'è da dire?» chiese Barnett, sorridendo pigramente. «Comunque,
lascia che venga un po' più vicino. È meglio non correre il rischio di
sbagliare.»
Agee annuì e continuò a tenere di mira l'alieno.

Kalen si era fermato su quel piccolo mondo deserto sperando di estrarre


qualche tonnellata di eroi, un minerale molto apprezzato dal popolo
mabogiano. Non aveva avuto fortuna. La bomba alla thetnite, inutilizzata,
era ancora nella sua borsa, accanto a una noce di kerla. Avrebbe dovuto far
ritorno a Mabog con un carico di zavorra, anziché di merce.
Beh, pensò, mentre usciva dalla foresta, mi andrà meglio la prossima...
Restò sconvolto nel vedere un'astronave sottile, stranamente affusolata,
accanto alla sua. Non si sarebbe mai aspettato di trovare qualcun altro su
quel piccolo mondo mortale.
E gli occupanti stavano aspettando davanti al suo portello! Kalen vide
subito che avevano una forma approssimativamente mabogiana. C'era un
razza molto simile a loro nell'Unione Mabogiana, ma le sue astronavi
erano completamente diverse. L'intuizione gli suggeriva che quegli alieni
potevano essere esponenti di quella grande civiltà che, si diceva, occupava
la periferia della Galassia.
Avanzò premuroso incontro a loro.
Strano, gli alieni non si muovevano. Perché non venivano a incontrarlo?
Sapeva che l'avevano visto, perché tutti e tre lo stavano indicando.
Accelerò l'andatura, rendendosi conto che non sapeva nulla delle loro
consuetudini. Si augurava soltanto che non cominciassero cerimonie
prolungate. Già un'ora passata su quel mondo ostile l'aveva stancato.
Aveva fame e un gran bisogno di fare una doccia...
Qualcosa d'intensamente freddo lo scagliò all'indietro. Si guardò intorno,
pieno d'apprensione. Era qualche proprietà sconosciuta del pianeta?
Riprese ad avanzare. Un'altra scarica lo investì, ghiacciando lo strato
esterno della sua pelle.
Questo era grave. I mabogiani erano tra gli esseri viventi più duri della
Galassia, ma avevano i loro limiti. Kalen si guardò intorno, cercando la
causa di quel fastidio.
Gli alieni gli stavano sparando!
Per un momento, i suoi centri pensanti rifiutarono di accettare l'evidenza
dei suoi sensi. Kalen sapeva cos'era l'assassinio. Aveva osservato quella
perversione, con orrore e stordimento, presso certe degradate forme
animali. E naturalmente c'erano i testi di psicologia anormale che
documentavano tutti i casi di assassinio premeditato avvenuti nella storia
di Mabog.
Ma che una cosa simile accadesse a lui! Kalen non riusciva a crederlo.
Un'altra scarica lo trafisse. Kalen restò immobile, cercando di
convincersi che stava succedendo davvero. Non poteva comprendere come
esseri dotati di un senso di cooperazione sufficiente per far funzionare
un'astronave fossero capaci di assassinio.
E poi, non lo conoscevano neppure!
Quasi troppo tardi, Kalen girò su se stesso e corse verso la foresta.
Adesso sparavano tutti e tre gli alieni e l'erba intorno a lui era imbiancata
di ghiaccio. La superficie della sua pelle era interamente coperta di brina.
L'organismo mabogiano non era creato per sopportare il freddo e il gelo si
stava insinuando nei suoi organi interni.
Ma ancora, quasi non riusciva a crederci.
Kalen raggiunse la foresta e una doppia scarica lo colpì mentre scivolava
dietro un albero. Sentì i suoi apparati interni lavorare disperatamente per
restituire calore al suo corpo e poi, con profondo rammarico, si abbandonò
alla tenebra.

«Stupido alieno,» commentò Agee, rimettendo la pistola nella fondina.


«Stupido e forte,» disse Barnett. «Ma nessuna creatura che respira può
resistere ad una dose abbastanza energica.» Sogghignò orgoglioso e batté
la mano sulla fiancata grigio-argento della nave. «La battezzeremo
Endeavour II.»
«Tre evviva per il comandante!» gridò entusiasta Victor.
«Risparmia il fiato,» disse Barnett. «Ne avrai bisogno.» Alzò gli occhi.
«Ci restano ancora quattro ore di luce, all'incirca. Victor, trasferisci i
viveri, l'ossigeno e gli utensili dall'Endeavour I e disarma le pile. Un
giorno o l'altro torneremo indietro a recuperarla. Ma voglio decollare al
tramonto.»
Victor corse via. Barnett ed Agee salirono a bordo.
La metà posteriore dell'Endeavour II era piena di generatori, motori,
convertitori, servomeccanismi, serbatoi di carburante e di aria. Poi c'era
un'enorme stiva per le merci, che occupava quasi l'altra metà della nave.
Era piena di noci di tutte le forme e di tutti i colori, che andavano da
cinque centimetri di diametro fino a dimensioni doppie della testa di un
uomo. Restavano solo due compartimenti, a prua.
Il primo doveva essere la cabina dell'equipaggio, poiché era l'unico
spazio per vivere disponibile. Ma era completamente spoglio. Non c'erano
cuccette antiaccelerazione, né tavoli né sedie... nient'altro che il pavimento
di metallo lucido. Nelle pareti e nel soffitto c'erano parecchie piccole
aperture, ma il loro scopo non risultava evidente.
A questo ambiente era collegata la cabina di pilotaggio. Era
piccolissima: c'era spazio appena per un uomo, e il quadro sotto la cupola
d'osservazione era stipato di strumenti.
«È tutto tuo,» disse Barnett. «Vediamo che cosa riesci a fare.»
Agee annuì, cercò invano una sedia, poi si accovacciò davanti al quadro,
e cominciò a studiarne la disposizione.
In varie ore, Victor trasferì tutte le loro provviste alla Endeavour II.
Agee non aveva ancora toccato niente. Stava cercando di capire a cosa
servissero i vari strumenti, affidandosi alla forma, al colore e alla
collocazione. Non era facile, anche accettando l'idea di sistemi nervosi e di
schemi di pensiero molto simili. Il sistema ausiliario d'intensificazione
andava da sinistra a destra? Se no, avrebbe dovuto disimparare la sua
precedente coordinazione di volo. Il rosso significava pericolo per i
progettisti di quella nave? In tal caso, quel grosso interruttore poteva
servire per scaricare carburante. Ma il rosso poteva anche significare
carburante che scottava, e allora l'interruttore poteva controllare il flusso
dell'energia.
A quanto ne sapeva lui, poteva avere lo scopo di sovraccaricare le pile in
caso di attacco nemico.
Agee teneva presente tutto questo mentre studiava i comandi. Non era
troppo preoccupato. Tanto per cominciare, le astronavi erano bestie dure,
praticamente indistruttibili dallo interno. In secondo luogo, credeva di
avere afferrato lo schema.
Barnett si affacciò alla porta, con Victor alle spalle. «Sei pronto?»
Agee diede un'occhiata al quadro. «Credo.» Sfiorò una manopola.
«Questa dovrebbe controllare i portelli stagni.»
La girò. Victor e Barnett attesero, sudati, nella cabina fredda.
Udirono il fruscio morbido del metallo lubrificato. I portelli si erano
chiusi.
Agee sogghignò e si soffiò sui polpastrelli, per scaramanzia. «Ecco il
sistema di controllo dell'aria.» Fece scattare un interruttore.
Dal soffitto, cominciò a sgorgare un fumo giallo.
«Impurità nell'impianto,» borbottò Agee, regolando una manopola.
Victor cominciò a tossire.
«Spegnilo,» disse Barnett
Il fumo sgorgò in spire dense, riempiendo quasi istantaneamente i due
ambienti.
«Spegni!»
«Non riesco a vederlo!» Agee cercò l'interruttore, non lo trovò e
premette il pulsante che stava sotto. Immediatamente i generatori
cominciarono a sibilare rabbiosi. Scintille azzurre danzarono sul quadro e
balzarono sulla parete.
Agee arretrò vacillando dal quadro e si accasciò. Victor era già alla porta
della stiva merci, e cercava di abbatterla a pugni. Barnett si coprì la bocca
con una mano e si precipitò al quadro. Cercò a tentoni l'interruttore, mentre
sentiva la nave che girava vorticosamente intorno a lui.
Victor cadde sul pavimento, continuando ancora a battere debolmente
contro la porta.
Barnett muoveva freneticamente le dita sul quadro.
Di colpo i generatori si fermarono. Poi Barnett sentì sul viso una brezza
fresca. Si asciugò gli occhi lacrimosi e alzò la testa.
Un colpo fortunato, messo a segno alla cieca, aveva chiuso gli sfiatatoi
nel soffitto, interrompendo l'afflusso del gas giallo. Aveva aperto
accidentalmente i portelli e il gas che era a bordo veniva sostituito dalla
fredda aria notturna del pianeta. Ben presto l'atmosfera divenne respirabile.
Victor si rimise in piedi, tremando, ma Agee non si mosse. Barnett
praticò al vecchio pilota la respirazione artificiale, imprecando sottovoce.
Finalmente Agee sbatté le palpebre e il suo petto cominciò a sollevarsi e ad
abbassarsi nel respiro. Dopo qualche minuto, si sollevò a sedere e scosse il
capo.
«Cos'era quella roba?» chiese Victor.
«Temo,» rispose Barnett, «che il nostro amico alieno la considerasse
un'atmosfera respirabile.»
Agee scrollò la testa. «Non è possibile, comandante. Era qui, su un
mondo ad ossigeno, e andava in giro senza casco...»
«Il bisogno d'aria varia enormemente,» osservò Barnett. «Parliamoci
chiaro... la struttura fisica del nostro amico era molto diversa dalla nostra.»
«Questo non mi piace,» disse Agee.
I tre uomini si guardarono in faccia. Nel silenzio, udirono un lieve suono
minaccioso.
«Che cos'era?» guaì Victor, estraendo di colpo la pistola.
«Silenzio!» gridò Barnett.
Ascoltarono. Barnett sentì i capelli rizzarglisi sulla nuca, mentre tentava
d'identificare il suono.
Veniva da lontano. Sembrava metallo che percuotesse un oggetto duro,
non metallico.
I tre uomini guardarono fuori dal portello. Nell'ultimo bagliore del
tramonto, poterono vedere che il portello principale dell'Endeavour I era
aperto. Il suono proveniva dalla nave.
«È impossibile,» disse Agee. «I raggi congelatori delle nostre pistole...»
«Non l'hanno ucciso,» concluse Barnett.
«Brutta storia,» borbottò Agee. «Molto brutta.»
Victor impugnava ancora la pistola. «Comandante, e se io andassi là e...»
Barnett scosse il capo. «Non ti lascerebbe avvicinare a meno di tre metri
dal portello. No, lasciami pensare. C'era qualcosa a bordo, che potesse
usare? Le pile?»
«I collegamenti li ho io, comandante,» disse Victor.
«Bene. Allora non c'è niente che...»
«L'acido,» l'interruppe Agee. «È assai forte. Ma non credo che possa far
molto con quella roba.»
«Non può farci niente,» disse Barnett. «Noi siamo dentro questa nave e
ci resteremo. Ma adesso bisogna staccarci dal suolo.»
Agee guardò il quadro dei comandi. Mezz'ora prima, quasi lo capiva.
Adesso era una ingegnosa trappola mortale... una trappola con fili
invisibili che portavano alla distruzione.
La trappola non era intenzionale. Ma un'astronave era necessariamente
una macchina per vivere, oltre che per viaggiare. I comandi avrebbero
cercato di riprodurre le condizioni ambientali dell'alieno, di provvedere
alle sue necessità.
E questo poteva essere fatale per loro.
«Vorrei proprio sapere da che tipo di pianeta veniva,» disse inquieto
Agee. Se avessero conosciuto l'ambiente dell'alieno, avrebbero potuto
prevedere quello che avrebbe fatto la nave.
Tutto quel che sapevano era che respirava un gas giallo, velenoso.
«Ce la stiamo cavando benissimo,» disse Barnett, senza eccessiva
sicurezza. «Basta capire il meccanismo di guida: e tutto il resto lo
lasceremo stare.»
Agee si girò di nuovo verso i comandi.
Barnett avrebbe tanto desiderato sapere che cosa stava combinando
l'alieno. Fissò la mole della sua vecchia astronave, nel crepuscolo, ed
ascoltò l'incomprensibile suono del metallo che colpiva qualcosa di non
metallico.

Kalen si stupiva di essere ancora vivo. Ma c'era un detto, tra la sua


gente: «Un mabogiano o l'ammazzi subito o non lo ammazzi più.» Finora,
non l'avevano ammazzato.
Stordito, si sollevò a sedere e si appoggiò contro un albero. L'unico,
rosso sole del pianeta era basso all'orizzonte, e brezze d'ossigeno velenoso
turbinavano intorno a lui. Controllò subito e accertò che i suoi polmoni
erano ancora sigillati. L'aria gialla datrice di vita, sebbene viziata dal lungo
uso, lo sostentava ancora.
Ma gli sembrava di non riuscire ad orientarsi. A poche centinaia di metri
di distanza, stava pacifica la sua nave. La luce rossa che sbiadiva si
rifletteva sul suo scafo, e per un momento Kalen si convinse che gli alieni
non c'erano. Aveva immaginato tutto e adesso sarebbe tornato alla sua
nave...
Vide uno degli alieni, carico di materiale, entrare nel suo vascello. Dopo
un po', i portelli si chiusero.
Era vero, tutto quanto. Riportò con uno sforzo la sua mente alla dolorosa
realtà.
Aveva un disperato bisogno di cibo e d'aria. La sua pelle esterna era
secca e screpolata, e aveva necessità di una pulizia nutritiva. Ma i viveri,
l'aria e i pulitori si trovavano sulla nave perduta. Lui aveva solo una rossa
noce di kerla e la bomba alla thetnite, dentro la borsa.
Se avesse potuto aprire la noce e mangiarla, avrebbe potuto recuperare
un po' di forza. Ma come poteva aprirla?
Era sconvolgente constatare fino a qual punto si era trovato a dipendere
dai macchinari! Adesso avrebbe dovuto trovare qualche modo per sbrigare
le cose più semplici, normali, quotidiane... le cose che la nave aveva
sempre fatto automaticamente, senza neppure bisogno che l'operatore ci
pensasse.
Kalen notò che gli alieni avevano apparentemente abbandonato la loro
nave. Perché? Non aveva importanza. Lì fuori, sulla pianura, lui sarebbe
morto prima che fosse giunto il mattino. La sua unica speranza di
sopravvivenza stava a bordo della loro nave.
Scivolò lentamente in mezzo all'erba, soffermandosi soltanto quando
un'ondata di vertigine l'investiva. Cercò di tenere d'occhio la sua nave. Se
gli alieni fossero venuti a cercarlo adesso, sarebbe stato tutto perduto.
Dopo essersi trascinato per un'eternità, raggiunse la nave e s'infilò a bordo.
Era il crepuscolo. Nella semioscurità, riuscì a vedere che il vascello era
vecchio. Le paratie, già troppo sottili in partenza, erano state rappezzate
più volte. Tutto parlava di un lungo uso.
Poteva capire perché volevano la sua nave.
Un'altra ondata di vertigine l'invase. Era il modo in cui il suo corpo
reclamava immediata attenzione.
Il primo problema sembrava essere il cibo. Estrasse dalla borsa la noce
di kerla. Era rotonda, aveva un diametro d'una ventina di centimetri, e la
scorza era spessa all'incirca cinque. Le noci come quelle costituivano
l'ingrediente principale della dieta d'uno spaziale mabogiano. Erano
ricchissime d'energia e, chiuse, potevano durare quasi in eterno.
Appoggiò la noce contro una paratia, trovò una barra d'acciaio e la colpi.
La barra, urtando la noce, emise un suono cavernoso, di tamburo. La noce
restò intatta.
Kalen si chiese se quel suono poteva venire captato dagli alieni. Era un
rischio che doveva correre. Sistemandosi saldamente, continuò a sferrare
colpi. Dopo quindici minuti, lui era esausto, e la sbarra era quasi piegata a
metà.
La noce era indenne.
Non poteva aprire la noce senza uno schiaccianoci, un oggetto
comunissimo a bordo delle navi mabogiane. Nessuno aveva mai pensato di
aprire una noce in un altro modo.
Era la dimostrazione terrificante della sua impotenza.
Alzò la barra per sferrare ancora un colpo e si accorse che le sue
membra si stavano irrigidendo. La lasciò cadere e valutò la situazione.
La pelle esterna, agghiacciata, ostacolava i suoi movimenti. Si stava
indurendo lentamente, diventando come corno resistente. Quando
l'indurimento si fosse completato, lui sarebbe stato immobilizzato.
Bloccato, sarebbe rimasto in piedi o seduto fino a quando fosse morto di
asfissia.
Kalen lottò contro un'ondata di disperazione e si sforzò di riflettere.
Doveva curare la sua pelle, senza indugio. Era ancora più importante del
cibo. A bordo della sua nave, l'avrebbe lavata e bagnata, ammorbidendola e
curandola. Ma era molto dubbio che gli alieni portassero a bordo i pulitori
adatti.
L'unica altra soluzione consisteva nello strappar via la pelle esterna. Il
secondo strato sarebbe rimasto delicato per qualche giorno, ma almeno lui
sarebbe stato in grado di muoversi.
Con le membra irrigidite, andò in cerca di un Cambiatore. Poi si rese
conto che gli alieni non avevano neppure quell'apparecchio fondamentale.
Doveva arrangiarsi da solo.
Prese la barra d'acciaio, la piegò formando un uncino e ne inserì la punta
sotto una piega della pelle. Tirò verso l'alto con tutte le sue forze.
La sua pelle rifiutò di cedere.
Poi si incuneò tra un generatore e la paratia e inserì il gancio in un modo
diverso. Ma le sue braccia non erano abbastanza lunghe per far leva, e la
pelle indurita resistette ostinatamente.
Provò con una dozzina di posizioni diverse, invano. Senza assistenza
meccanica, non poteva riuscire a tenersi rigido quanto era necessario.
Stancamente, lasciò cadere la barra. Non poteva fare nulla, nulla. Poi
ricordò la bomba alla thetnite che aveva dentro la borsa.
Una parte primitiva della sua mente, di cui non aveva mai conosciuto
l'esistenza, diceva che c'era una facile via d'uscita. Poteva inserire la
bomba sotto lo scafo della sua nave, mentre gli alieni non guardavano. La
leggera carica non avrebbe fatto altro che lanciare in aria la nave per otto-
dieci metri, ma non l'avrebbe danneggiata.
Gli alieni, tuttavia, sarebbero rimasti senza dubbio uccisi.
Kalen era inorridito. Come poteva pensare una cosa simile? L'etica
mabogiana, profondamente impressa in ogni fibra del suo essere, proibiva
di togliere la vita ad esseri intelligenti, per qualunque ragione. Qualunque
ragione.
«Ma non sarebbe giustificato?» bisbigliò la parte primitiva della sua
mente. «Quegli alieni sono malsani. Faresti un favore all'Universo
sbarazzandoti di loro, e incidentalmente aiuteresti te stesso. Non
considerarlo un assassinio. Consideralo un caso di disinfestazione.»
Estrasse la bomba dalla borsa e la guardò, poi si affrettò a rimetterla via.
«No!» disse a se stesso, senza troppa convinzione.
Rifiutò di continuare a pensare. Con gli arti stanchi, quasi rigidi,
cominciò a perquisire la nave aliena, alla ricerca di qualcosa che gli
salvasse la vita.
Agee stava accovacciato nella cabina di pilotaggio, contrassegnando
stancamente gli interruttori con una matita indelebile. I polmoni gli
dolevano, e aveva lavorato tutta la notte. Adesso c'era una triste alba
grigia, ed un vento freddo sibilava intorno all'Endeavour II. L'astronave
era illuminata ma fredda, perché Agee non voleva toccare i comandi della
temperatura.
Victor entrò nella cabina dell'equipaggio, vacillando sotto il peso di una
grossa cassa.
«Barnett?» chiamò Agee.
«Sta arrivando,» disse Victor.
Il comandante voleva tutto il loro equipaggiamento a disposizione, in
modo che potessero averlo a portata di mano. Ma la cabina dell'equipaggio
era piccola, e lui aveva occupato quasi tutto lo spazio esistente.
Guardandosi intorno in cerca di un posto dove mettere la cassa, Victor
notò una porta in una parete. Premette il pulsante e la porta rientrò
prontamente nel soffitto, rivelando un ambiente grande quanto uno
sgabuzzino. Victor decise che sarebbe stato un ripostiglio ideale.
Senza badare ai gusci rossi schiacciati sul pavimento, infilò all'interno la
cassa.
Immediatamente, il soffitto dello stanzino cominciò a scendere.
Victor lanciò un grido che echeggiò in tutta la nave. Balzò in piedi... e
sbatté la testa contro il soffitto. Cadde bocconi, stordito.
Agee si precipitò fuori dalla cabina di pilotaggio e Barnett si precipitò
nella stanza. Barnett afferrò Victor per le gambe e cercò di trascinarlo
fuori, ma Victor era pesante, ed il comandante non riusciva a puntellarsi
sul liscio pavimento metallico.
Con rara presenza di spirito, Agee mise in piedi la cassa, che bloccò
momentaneamente il soffitto.
Insieme, Barnett ed Agee tirarono Victor per le gambe. Riuscirono a
trascinarlo fuori appena in tempo. La pesante cassa si schiantò e, dopo un
attimo, andò in frantumi come se fosse un pezzo di legno di balsa.
Il soffitto dello stanzino, scendendo su un pistone ingrassato, compresse
la cassa ad uno spessore di quindici centimetri. Poi gli ingranaggi
ticchettarono, e risalì al suo posto senza il minimo rumore.
Victor si mise a sedere e si massaggiò la testa. «Comandante,» disse
lamentosamente. «Non possiamo riavere la nostra nave?»
Agee aveva dubbi su quella possibilità. Guardò lo stanzino mortale, che
adesso sembrava di nuovo un ripostiglio con frammenti di gusci rossi sul
pavimento.
«Certo che sembra una nave maledetta,» disse preoccupato. «Forse
Victor ha ragione.»
«Sei disposto a rinunciare a questa?» chiese Barnett.
Agee si agitò, impacciato, e annuì. «Il guaio è,» disse, senza guardare
Barnett, «che non sappiamo che cosa combinerà, adesso. È troppo
pericoloso, comandante.»
«Capisci a che cosa vorresti rinunciare?» contestò Barnett. «Solo lo
scafo vale un patrimonio. Hai dato un'occhiata ai suoi motori? Non c'è
assolutamente niente, da questa parte del mondo che potrebbe fermarla.
Sarebbe capace di trapassare un pianeta e di venir fuori dall'emisfero
opposto con la vernice ancora intatta. E tu vuoi che ci rinunciamo!»
«Non varrà molto se ci ammazza,» obiettò Agee.
Victor annuì con enfasi. Barnett li fissò.
«Adesso statemi bene a sentire,» disse. «Non rinunceremo a questa nave.
Non è maledetta. È aliena e piena di apparecchiature aliene. Basta che
teniamo giù le mani da tutto fino a quando arriveremo in porto. Capito?»
Agee voleva dire qualcosa a proposito di ripostigli che si trasformavano
in presse idrauliche. Non gli sembrava un indizio promettente per il futuro.
Ma, guardando la faccia di Barnett, decise di non dir nulla.
«Hai contrassegnato tutti i comandi funzionanti?» domandò Barnett.
«Ne ho ancora qualcuno,» disse Agee.
«Giusto. Finisci: e saranno gli unici che toccheremo. Se lasciamo in
pace il resto della nave, la nave lascerà in pace noi. Non c'è pericolo,
purché teniamo giù le mani!»
Barnett si deterse il sudore della faccia, si appoggiò ad una parete e si
sbottonò la giacca.
Immediatamente, due bande metalliche uscirono da aperture ai suoi
fianchi e gli cinsero la vita e lo stomaco.
Barnett le fissò per un momento, poi si lanciò in avanti con tutte le sue
forze. Le bande non cedettero. Nelle pareti risuonò uno strano ticchettio, e
fuoriuscì un sottile filo metallico. Tastò la giacca di Barnett, e poi rientrò
nella parete.
Agee e Victor restarono a guardare impotenti.
«Spegnetelo,» disse Barnett con voce tesa.
Agee si precipitò nella cabina di pilotaggio. Victor continuò a guardare.
Dalla parete uscì un braccio metallico che terminava con una lucente lama
lunga dieci centimetri.
«Fermatelo!» urlò Barnett.
Victor si scongelò. Corse avanti e indietro, cercando di strappare dalla
parete un braccio metallico, che si contorse e lo scagliò attraverso la
stanza.
Con la precisione di un chirurgo, la lama tagliò la giacca di Barnett al
centro, senza toccare la camicia che c'era sotto. Poi il braccio rientrò e
scomparve.
Agee, adesso, stava premendo alla disperata i comandi e i generatori
ronzavano, i portelli si aprivano e si chiudevano, gli stabilizzatori
fremevano, le luci guizzavano. Il meccanismo che tratteneva Barnett
rimase imperturbato.
Il sottile filamento metallico ricomparve. Toccò la camicia di Barnett e si
soffermò per un istante. Il meccanismo interno ticchettò in modo
allarmante. Il filamento toccò di nuovo la camicia di Barnett, come se non
sapesse bene quali erano i suoi doveri in quel caso.
Agee gridò, dalla cabina di pilotaggio: «Non riesco a spegnerlo! Deve
essere completamente automatico!»
Il filamento rientrò nella parete. Scomparve, e tornò ad uscire il braccio
che terminava con un coltello.
Nel frattempo, Victor aveva trovato una pesante chiave inglese. Accorse,
l'alzò al di sopra della testa e l'avventò contro il braccio, mancando di
pochissimo la testa di Barnett.
Il braccio non si ammaccò neppure. Imperturbabile, tagliò la camicia di
Barnett, lasciandolo nudo fino alla cintola.
Barnett era illeso, ma i suoi occhi rotearono all'impazzata, quando il
filamento tornò ad uscire. Victor si cacciò il pugno in bocca e indietreggiò.
Agee chiuse gli occhi.
Il filamento toccò la calda pelle viva di Barnett, chioccolò in tono
d'approvazione e rientrò nella parete. Le bande si aprirono. Barnett crollò
in ginocchio.
Per qualche istante nessuno parlò. Non c'era niente da dire. Barnett
fissava cupamente il vuoto. Victor cominciò a far crocchiare le nocche
delle dita, fino a quando Agee lo urtò.
Il vecchio pilota stava cercando di capire perché il meccanismo aveva
tagliato gli indumenti di Barnett e poi si era fermato quando era arrivato
alla carne viva. Era così che si svestiva l'alieno? Non sembrava molto
logico. Ma del resto, non sembrava logico neppure il ripostiglio a pressa.
In un certo senso, era lieto che fosse successo. Adesso avrebbero
abbandonato quel mostro maledetto ed avrebbero studiato il modo per
impadronirsi della loro nave.
«Portatemi una camicia,» disse Barnett. Victor si affrettò ad andare a
prendergliene una. Barnett se l'infilò, tenendosi lontano dalle pareti. «Entro
quanto tempo puoi essere in grado di far muovere questa nave?» chiese ad
Agee, con voce un po' malferma.
«Cosa?»
«Mi hai sentito.»
«Non ne hai avuto abbastanza?» boccheggiò Agee.
«No. Tra quanto possiamo decollare?»
«Tra un'ora,» borbottò Agee. Che altro poteva dire? Il comandante era
veramente impossibile. Stancamente, Agee tornò nella cabina di
pilotaggio.
Barnett infilò un maglione sopra la camicia, e poi una giacca. Faceva
freddo nella cabina, e lui aveva incominciato ad essere scosso da violenti
brividi.

Kalen giaceva immobile sul ponte della nave aliena. Scioccamente,


aveva sprecato quasi tutte le forze rimastegli nel tentativo di strappar via la
pelle esterna indurita. Ma la pelle diventava sempre più dura mentre lui
diventava più debole. Adesso gli sembrava che non fosse quasi più il caso
di muoversi. Era meglio riposare, e sentire i suoi fuochi interiori che
ardevano bassi...
Ben presto, sognò le colline crestate di Mabog e il grande porto di
Canthanope, dove i mercantili interstellari scendevano con i loro strani
carichi. Era lì, nel crepuscolo, e guardava, oltre i tetti piatti, i due grandi
soli che tramontavano. Ma perché tramontavano insieme a sud, il sole
azzurro e quello giallo? Come potevano tramontare insieme a sud?
Un'impossibilità fisica... Forse suo padre poteva spiegarlo, perché si stava
facendo buio in fretta.
Si scosse da quella fantasticheria e fissò la luce tetra del mattino. Non
era così che moriva uno spaziale mabogiano. Avrebbe ritentato.
Dopo mezz'ora di lente, dolorose ricerche, trovò una cassetta metallica
sigillata in fondo alla nave. Evidentemente gli alieni l'avevano dimenticata.
Ne strappò via il coperchio. Dentro c'erano parecchie bottiglie,
scrupolosamente fissate e sistemate nell'imbottitura. Kalen ne prese una e
l'esaminò.
Era contrassegnata da un grosso simbolo bianco. Non c'era ragione
perché lui dovesse riconoscerlo, ma gli sembrava vagamente familiare.
Frugò nei suoi ricordi, cercando di rammentare dove l'aveva già visto.
Poi, nebulosamente, ricordò. Era la rappresentazione di un teschio
umanoide. C'era una razza umanoide nell'Unione Mabogiana, e lui aveva
visto copie dei crani, in un museo.
Ma perché qualcuno avrebbe dovuto mettere un teschio su una bottiglia?
Per Kalen, un teschio induceva un sentimento di reverenza. Doveva
essere quello che avevano inteso i fabbricanti. Aprì la bottiglia e fiutò.
L'odore era interessante. Gli ricordava...
La soluzione per la pulizia della pelle!
Senza indugiare, si versò addosso il contenuto della bottiglia. Quasi
senza osare sperare, attese. Se fosse riuscito a rimettere in ordine la sua
pelle...
Sì, il liquido della bottiglia contrassegnata dal teschio era un blando
pulitore: ed era anche piacevolmente profumato.
Se ne versò un'altra bottiglia sulla pelle indurita e sentì il fluido nutriente
che penetrava. Il suo corpo, bisognoso di alimentarsi, ne invocava ancora.
Ne vuotò un'altra bottiglia.
Kalen restò immobile a lungo, lasciando che il liquido datore di vita
penetrasse. La sua pelle si ammorbidì e ridiventò elastica. Si sentiva
invadere da un nuovo flusso d'energia, una nuova volontà di vivere.
Sarebbe vissuto!
Dopo il bagno, Kalen esaminò i comandi dell'astronave, sperando di
farcela a pilotare fino a Mabog quella vecchia carriola. C'erano difficoltà
immediate. Per qualche ragione inspiegabile, i comandi non erano isolati
in un locale separato. Si chiese perché. Quegli strani esseri non potevano
trasformare l'intera nave in una camera di decelerazione. Non potevano!
Non c'era abbastanza spazio, nei serbatoi, per contenere il fluido.
Era sconcertante: ma negli alieni, era tutto sconcertante. Quella difficoltà
poteva superarla. Ma quando Kalen ispezionò i motori, vide che un
collegamento vitale era stato tolto alle pile. Erano praticamente inutili.
Restava un'unica alternativa. Doveva riconquistare la sua astronave.
Ma come?
Cominciò a camminare avanti e indietro, irrequieto. L'etica mabogiana
vietava di uccidere gli esseri intelligenti, e non c'erano se o ma. In nessuna
circostanza - neppure per salvarti la vita - eri autorizzato a uccidere. Era
una legge saggia, ed era stata molto utile a Mabog. Obbedendole
fedelmente, i mabogiani avevano evitato la guerra per tremila anni e
avevano raggiunto un livello elevato di civiltà. Il che sarebbe stato
impossibile se avessero permesso qualche eccezione. I se ed i ma possono
erodere anche i principi più saldi.
Lui non poteva tornare indietro.
Ma doveva morire lì, passivamente?
Abbassando gli occhi, Kalen si stupì nel vedere che una pozzanghera di
soluzione detergente aveva aperto un foro nel pavimento. Com'erano
fragili quelle navi... persino una blanda sostanza pulitrice poteva
danneggiarle! Gli alieni dovevano essere molto deboli.
Una bomba alla thetnite poteva bastare.
Si accostò all'oblò. Sembrava che non ci fosse nessuno di guardia. Pensò
che fossero troppo occupati a prepararsi per il decollo. Sarebbe stato facile
strisciare in mezzo all'erba, raggiungere la sua nave...
E su Mabog, nessuno l'avrebbe mai saputo.
Con sua grande sorpresa, Kalen si accorse di aver coperto quasi metà
della distanza tra le due navi, senza rendersene conto. Strano, come il suo
corpo poteva fare certe cose senza che la sua mente ne fosse consapevole.
Tirò fuori la bomba e strisciò per altri cinque o sei metri.
Perché dopotutto - a ben pensarci - che differenza avrebbe comportato
quell'uccisione?

«Non sei ancora pronto?» chiese Barnett a mezzogiorno.


«Credo di sì,» disse Agee. Diede un'occhiata al quadro contrassegnato.
«Pronto, per quanto potrò mai esserlo.»
Barnett annuì. «Io e Victor ci legheremo nella cabina dell'equipaggio.
Decolla con accelerazione minima.»
Barnett ritornò nella cabina dell'equipaggio. Agee fissò le cinture che
aveva improvvisato e si strofinò le mani, nervosamente. A quel che ne
sapeva lui, tutti i comandi essenziali erano contrassegnati. Tutto avrebbe
dovuto andare bene. Sperava.
Perché c'erano quello sgabuzzino e quel coltello? Chissà cosa poteva
combinare ancora quella nave pazzesca.
«Qui pronti,» gridò Barnett dalla cabina dell'equipaggio.
«Bene. Fra dieci secondi.» Chiuse e sigillò i portelli stagni. La sua porta
si chiuse automaticamente, isolandolo dalla cabina dell'equipaggio. Scosso
da un vago senso di claustrofobia, Agee attivò le pile. Finora, tutto era
andato bene.
C'era una leggera patina d'olio sul pavimento. Agee pensò che doveva
fuoriuscire da una connessione allentata e non vi fece caso. I comandi
funzionavano magnificamente. Batté una rotta sul nastro e attivò i comandi
del volo.
Poi sentì qualcosa che gli lambiva il piede. Abbassò lo sguardo e vide,
sbalordito, che il denso olio puzzolente adesso aveva raggiunto uno
spessore di almeno sette centimetri, sul pavimento. Era una grossa perdita.
Non riusciva a capire come una nave così ben costruita potesse avere una
falla del genere. Si slacciò la cintura e andò a cercarla.
La trovò. Sul pavimento c'erano quattro piccole feritoie, e da ognuna di
esse usciva un flusso regolare d'olio.
Agee premette il pulsante che apriva la porta e scoprì che la porta
restava chiusa. Rifiutando di abbandonarsi al panico, la esaminò con cura.
Doveva aprirsi.
Non si apriva.
L'olio gli stava arrivando fin quasi alle ginocchia.
Sogghignò stordito. Che stupido! La cabina di pilotaggio era isolata dal
quadro dei comandi. Premette il pulsante e tornò alla porta.
La porta continuò a restare chiusa.
Agee la tirò con tutte le sue forze, ma non la smosse. Tornò a guado al
quadro dei comandi. Non c'era olio, quando avevano trovato la nave. E
questo significava che doveva esserci uno scarico, da qualche parte.
L'olio gli arrivava alla cintura, ormai, quando lo trovò. L'olio defluì
rapidamente. Non appena fu scomparso, la porta si aprì senza difficoltà.
«Cosa succede?» chiese Barnett.
Agee glielo disse.
«Dunque è così che ci riesce,» disse sottovoce il comandante. «Sono
contento di averlo scoperto.»
«Riesce a far cosa?» chiese Agee, convinto che Barnett prendesse troppo
alla leggera l'intera faccenda.
«Riesce a resistere all'accelerazione del decollo. Mi preoccupava. A
bordo non aveva niente che somigliasse a un letto o a una branda. Niente
sedie, niente cui legarsi. Quindi fluttua in un bagno d'olio, che si produce
automaticamente quando la nave viene preparata per il volo.»
«Ma perché la porta non voleva aprirsi?» chiese Agee.
«Non è ovvio?» chiese Barnett, con un sorriso paziente. «Non vuole che
l'olio dilaghi in tutta la nave. E non vuole svuotarlo accidentalmente.»
«Non possiamo partire,» insistette Agee.
«Perché?»
«Perché io non riesco a respirare molto bene sott'olio. Fluisce
automaticamente quando dò l'energia, e non c'è modo di interromperlo.»
«Fai funzionare il cervello,» gli disse Barnett. «Basta che blocchi
l'interruttore dello scarico. L'olio verrà portato via con la stessa rapidità
con cui affluisce.»
«Già, non ci avevo pensato,» ammise impacciato Agee.
«Allora procedi.»
«Prima voglio cambiarmi d'abito.»
«No. Porta questa maledetta nave lontana dal suolo.»
«Ma, comandante...»
«Falla partire,» ordinò Barnett. «A quanto ne sappiamo, l'alieno sta
meditando qualcosa.»
Agee scrollò le spalle, ritornò nella cabina di pilotaggio e si legò.
«Pronti?»
«Sì. Falla partire.»
Agee bloccò il comando dello scarico, e l'olio cominciò ad affluire e a
defluire senza pericolo, senza salire mai più in alto delle sue scarpe. Attivò
tutti i comandi senza altri incidenti.
«Ecco, andiamo.» Regolò l'accelerazione al minimo e si soffiò sulle dita
per scaramanzia.
Poi premette l'interruttore del decollo.
Con profondo rimpianto, Kalen guardò partire la sua nave. Teneva
ancora in mano la bomba alla thetnite.
Aveva raggiunto la sua nave, s'era addirittura fermato sotto per qualche
secondo. Poi era tornato strisciando al vascello alieno. Era stato incapace
di piazzare la bomba. Secoli di condizionamento erano troppi, perché fosse
possibile superarli in poche ore.
Condizionamento... e qualcosa di più.
Pochi individui, in ogni razza, uccidono per piacere. Ma ci sono ragioni
perfettamente adeguate per uccidere, comunque, ragioni che
soddisferebbero qualunque filosofo.
Ma, una volta accettate quelle, vi sono altre ragioni, e altre, e altre
ancora. E le uccisioni, una volta incominciate, è difficile arrestarle. Il
meccanismo porta inevitabilmente alla guerra e poi all'annientamento.
Kalen sentiva che quell'uccisione, in qualche modo, coinvolgeva il
destino della sua razza. La sua rinuncia era stata quindi un problema di
sopravvivenza della razza.
Ma questo non lo faceva sentir meglio.
Guardò la sua nave rimpicciolire nel cielo. Gli alieni se ne stavano
andando ad una velocità ridicolmente bassa. Non riusciva a pensare perché
lo facessero, a meno che lo facessero per lui.
Senza dubbio, erano abbastanza sadici per un gesto del genere.
Kalen ritornò alla nave. La sua volontà di vivere era più forte che mai.
Non aveva nessuna intenzione di arrendersi. Si sarebbe aggrappato alla
vita fino a quando fosse stato possibile, sperando nella possibilità su un
milione che avrebbe portato un'altra nave su quel pianeta.
Guardandosi intorno, pensò che poteva preparare un surrogato dell'aria
con il pulitore contrassegnato dal teschio. Lo avrebbe sostenuto per un
giorno o due. Poi, se fosse riuscito ad aprire la noce di kerla...
Gli parve di udire un rumore, all'esterno, e si precipitò a guardare. Il
cielo era vuoto. La sua nave si era dileguata, e lui era solo.
Ritornò alla nave aliena e s'impegnò nel compito importantissimo di
restare in vita.

Quando Agee riprese conoscenza, si accorse che era riuscito a dimezzare


l'accelerazione un attimo prima di svenire. Questa era stata l'unica cosa che
gli aveva salvato la vita.
E l'accelerazione, che sul quadrante risultava di poco superiore allo zero,
era ancora insopportabile! Agee dissigillò la porta e si trascinò fuori.
Al momento del decollo, le cinture di sicurezza di Barnett e Victor erano
saltate. Victor stava appena riprendendo i sensi. Barnett si alzò da un
mucchio di casse sfasciate.
«Credi di star volando in un circo?» protestò. «Ti avevo detto
accelerazione minima.»
«Sono partito al di sotto dell'accelerazione minima,» disse Agee. «Vai a
leggere tu stesso il nastro.»
Barnett si precipitò in cabina di pilotaggio. Ne uscì quasi subito.
«Brutta storia. Il nostro amico alieno fa viaggiare questa nave ad
un'accelerazione tre volte superiore alla nostra.»
«A quanto pare.»
«Non ci avevo pensato,» disse Barnett, meditabondo. «Deve venire da
un pianeta molto pesante... un posto da dove bisogna decollare a velocità
altissima, se vuoi sperare di andartene.»
«Che cosa mi ha colpito?» gemette Victor, massaggiandosi la testa.
Vi fu uno scatto nelle pareti. Adesso la nave era completamente sveglia,
e i suoi servomeccanismi si stavano attivando automaticamente.
«Sta diventando caldo, no?» chiese Victor.
«Sì, e l'aria è densa,» notò Agee. «Accumulazione della pressione.»
Tornò in cabina di pilotaggio. Barnett e Victor si fermarono ansiosi sulla
porta, in attesa.
«Non riesco a spegnerlo,» disse Agee, tergendosi il sudore dalla faccia
madida. «Temperatura e pressione sono regolate automaticamente. Devono
portarsi sul "normale" non appena la nave è in volo.»
«Farai bene a spegnerle e presto,» gli disse Barnett. «Finiremo arrosto,
qui dentro, se non lo farai.»
«Non c'è niente da fare.»
«Lui doveva avere una specie di regolatore termico.»
«Sicuro, ecco là!» disse Agee indicando. «Il comando è già fissato al
minimo.»
«Quale credi che sia la sua temperatura normale?» domandò Barnett.
«Preferirei non scoprirlo,» disse Agee. «Questa nave è costruita in leghe
dal punto di fusione estremamente elevato. È fatta per esistere ad una
pressione dieci volte superiore a quella di cui è abituata una nave terrestre.
Metti tutto insieme...»
«Devi essere in grado di spegnerlo, da qualche parte!» disse Barnett. Si
tolse la giacca e il maglione. Il calore stava salendo rapidamente, e il
pavimento stava cominciando a scottare troppo per resistere.
«Spegni!» ululò Victor.
«Aspettate un minuto,» disse Agee. «Non sono stato io a costruire questa
nave, vedete. Come posso sapere...»
«Spegni!» urlò Victor squassando Agee come una bambola di pezza.
«Spegni!»
«Lasciami!» Agee estrasse a mezzo la pistola. Poi, in uno slancio
d'ispirazione, spense i motori della nave.
Il ticchettio nelle pareti cessò. L'ambiente incominciò a rinfrescarsi.
«Cos'è successo?» chiese Victor.
«La temperatura e la pressione scendono quando viene meno l'energia,»
disse Agee. «Siamo al sicuro... finché non mettiamo in funzione i motori.»
«Quanto tempo impiegheremo per arrivare a un porto, sullo slancio?»
domandò Barnett.
Agee calcolò. «All'incirca tre anni,» disse. «Siamo abbastanza
fuorimano.»
«Non possiamo strappar via i servomeccanismi? Staccarli?»
«Sono incorporati nelle viscere della nave,» rispose Agee. «Avremmo
bisogno di un'officina attrezzata e di esperti. E anche così, non sarebbe
facile.»
Barnett rimase a lungo in silenzio. Finalmente disse: «D'accordo.»
«D'accordo che cosa?»
«Siamo fregati. Dobbiamo ritornare su quel pianeta e riprenderci la
nostra nave.»
Agee emise un sospiro di sollievo e batté sul nastro una nuova rotta.
«Credi che l'alieno ce la renderà?» chiese Victor.
«Sicuro,» disse Barnett. «Se non è morto. Sarà ben felice di riprendersi
la sua nave. E per entrare nella sua dovrà lasciare la nostra.»
«Sicuro. Ma quando sarà tornato qui...»
«Manometteremo i comandi,» disse Barnett. «In questo modo, dovrà
andar piano.»
«Per un po',» fece osservare Agee. «Ma prima o poi decollerà, con la
bava alla bocca. Non riusciremo mai a sfuggirgli.»
«Non sarà necessario,» disse Barnett. «È sufficiente che decolliamo per
primi. Lui ha uno scafo robusto, ma non credo che resisterà a tre bombe
atomiche.»
«A questo non avevo pensato,» disse Agee, con un fioco sorriso.
«L'unica mossa logica,» fece compiaciuto Barnett. «Le leghe dello scafo
varranno comunque qualcosa. E adesso, riportaci indietro senza mandarci
arrosto, se puoi.»
Agee riaccese i motori. Fece virare la nave in una stretta curva,
accumulando tutte le gravità che era in grado di sopportare. I
servomeccanismi si attivarono con uno scatto, e la temperatura salì
rapidamente. Appena la curva si fu arrotondata, Agee puntò l'Endeavour II
nella direzione voluta e spense i motori.
Viaggiarono quasi sempre sull'abbrivio. Ma quando raggiunsero il
pianeta, Agee dovette lasciare accesi i motori, per compiere la spirale della
decelerazione e l'atterraggio.
Ce la fecero appena ad uscire dalla nave. Avevano la pelle coperta di
vesciche e le scarpe bruciate. Non c'era tempo per manomettere i comandi.
Si ritirarono nella foresta e aspettarono.
«Forse è morto,» disse speranzoso Agee.
Videro una figura minuscola uscire dall'Endeavour I. L'alieno si
muoveva lentamente, ma si muoveva.
Restarono a guardare. «E se,» disse Victor, «avesse fabbricato una specie
d'arma? Se venisse a darci la caccia?»
«E se tu stessi zitto?» intimò Barnett.
L'alieno si avviò direttamente verso la sua nave. Entrò e chiuse il
portello stagno.
«Sta bene,» disse Barnett, alzandosi. «Faremmo meglio a decollare in
fretta. Agee, tu prendi i comandi. Io collegherò le pile. Victor, tu blocca i
portelli. Andiamo!»
Si lanciarono correndo attraverso la pianura e, in pochi secondi,
raggiunsero il portello aperto dell'Endeavour I.
Anche se avesse voluto affrettarsi, Kalen non aveva la forza necessaria
per pilotare la sua nave. Ma sapeva di essere salvo, una volta entrato.
Nessun alieno sarebbe entrato da quei portelli sigillati.
Trovò un serbatoio d'aria, in fondo, e l'aprì. La nave si riempì della ricca
aria gialla, datrice di vita. Per lunghi minuti, Kalen si accontentò di
respirare.
Poi trascinò nella cambusa tre delle noci di kerla più grosse che riuscì a
trovare e lasciò che lo Schiaccianoci le aprisse.
Dopo aver mangiato, si sentì molto meglio. Lasciò che il Cambiatore gli
togliesse la pelle esterna. Anche il secondo strato era morto, e il
Cambiatore tagliò via anche quello, ma si fermò al terzo strato vivente.
Kalen era praticamente rimesso a nuovo quando entrò nella cabina di
pilotaggio.
Adesso gli appariva chiaro che gli alieni dovevano essere stati colti da
una pazzia temporanea. Non c'era altro modo di spiegare perché erano
tornati indietro e gli avevano riportato la sua nave.
Quindi avrebbe trovato le loro autorità e avrebbe segnalato l'ubicazione
del pianeta. Così sarebbe stato possibile rintracciarli e curarli, una volta
per tutte.
Kalen era molto felice. Non si era allontanato dall'etica mabogiana, e
questa era la cosa più importante. Avrebbe potuto facilmente lanciare la
bomba alla thetnite nella loro nave, regolata per esplodere a tempo.
Avrebbe potuto rovinare i motori. E la tentazione l'aveva provata.
Ma non l'aveva fatto. Non aveva fatto niente.
Si era limitato a costruire alcuni oggetti essenziali per salvarsi la vita.
Kalen attivò i comandi e accertò che tutto fosse in perfetto ordine. Il
fluido antiaccelerazione cominciò a scorrere non appena azionò le pile.

Victor arrivò per primo al portello e si precipitò a bordo.


Immediatamente, venne ributtato fuori.
«Cos'è successo?» chiese Barnett.
«Qualcosa mi ha colpito,» disse Victor.
Cautamente, guardarono all'interno.
Era una perfetta trappola mortale. I cavi delle batterie erano stati
agganciati in serie e piazzati attraverso la camera stagna. Se Victor avesse
toccato il fianco della nave, sarebbe rimasto immediatamente fulminato.
Cortocircuitarono il sistema ed entrarono.
Era un caos. Tutto quel che c'era di mobile era stato staccato e sparso in
giro. In un angolo c'era una barra d'acciaio piegata. Il loro acido ad alta
potenza era stato versato sul pavimento e in parecchi punti l'aveva eroso
completamente. Il vecchio scafo dell'Endeavour era bucato.
«Non avrei mai pensato che lui facesse simili scherzi a noi!» disse Agee.
Continuarono ad esplorare. Verso il fondo della nave c'era un'altra
trappola. La porta della stiva merci era stata abilmente collegata al piccolo
motore d'avviamento. Se qualcuno l'avesse toccata, la porta sarebbe
sbattuta violentemente contro la paratia. Un uomo preso in mezzo sarebbe
stato stritolato.
C'erano altri collegamenti che non sembravano avere una funzione
chiara.
«Possiamo ripararla?» chiese Barnett.
Agee scrollò le spalle. «Quasi tutti i nostri utensili sono ancora a bordo
dell'Endeavour II. Immagino che potremo rattopparla, entro un anno. Ma
anche allora, non so se lo scafo resisterà.»
Uscirono. La nave aliena decollò.
«Che mostro!» disse Barnett, guardando lo scafo divorato dall'acido
della sua nave.
«Non si può mai sapere che cosa combinerà un alieno,» rispose Agee.
«L'unico alieno buono è un alieno morto,» disse Victor.
L'Endeavour I, adesso, era incomprensibile e pericolosa quanto
l'Endeavour II.
E l'Endeavour II se n'era andata.

Titolo originale:
Hands Off
(Galaxy Science Fiction, aprile 1954).

1955: «Science Fantasy»

E.C. Tubb
La scommessa

È facile dimenticare, a causa del boom negli Stati Uniti, che verso la
metà degli Anni Cinquanta la Gran Bretagna aveva il suo drappello di
riviste efficienti; e senza dubbio il loro collaboratore più prolifico era E.
C. Tubb.
Edwin Charles Tubb è nato a Londra mercoledì 15 ottobre 1919; e
vendette il suo primo racconto, No Short Cuts, a John Carnell nel 1950; fu
pubblicato su New Worlds nell'estate 1951. Ormai Tubb aveva cominciato
a vendere regolarmente romanzi al fiorente mercato dei tascabili, e basta
consultare l'elenco delle sue opere nelle appendici di questo volume per
vedere la mole di tale produzione. Questo non significa che fosse di
qualità scadente. Anzi, Tubb fu uno dei pochi autori che produssero per i
tascabili materiale superiore alla media. Ed i suoi lavori destinati alle
riviste e al loro pubblico più esperto, erano di qualità altissima, come
dimostrerà il seguente racconto lungo.
Nel 1956, Tubb assunse la direzione di Authentic e riuscì ad
accrescerne ancora la popolarità; purtroppo gli editori decisero di
chiudere la rivista per dedicarsi al campo dei tascabili con i Panther
Books. Tubb riversò mesi di lavoro nella rivista, per un compenso minimo,
e impiegò diverso tempo prima di riprendere a scrivere regolarmente. Nel
1959, tuttavia, era di nuovo in piena forma, e soprattutto scriveva
romanzi. Un esempio notevole è il suo libro del 1963, Window on the
Moon. Nel 1966, Rupert Hart-Davis pubblicò una raccolta di suoi
racconti, Ten from Tomorrow, ma purtroppo è solo una frazione del suo
lavoro. Più recentemente, si è dedicato a una serie imperniata sul
personaggio di Earl Dumarest e la sua ricerca della Terra, che è risultata
molto popolare. Ha prodotto parecchi libri tratti dalla serie televisiva
Space 1999, e attualmente sta lavorando ad una serie storica ambientata
ai tempi dell'Impero Romano.
Tubb è una macchina narrativa ispirata e oggi moltissimi suoi scritti
sono perduti per il grosso pubblico: spero quindi che l'inclusione di The
Wager in questo volume induca altri ad andare in cerca dei suoi primi
lavori.

Aveva piovuto e le strade erano ancora bagnate. La grossa macchina


sbandava un po', svoltando agli angoli, e lo stridere delle gomme si
mescolava all'ululato della sirena. Davanti al veicolo, il riflettore rosso
lampeggiava a intermittenza, mentre i due grossi fari annunciavano il suo
arrivo da almeno un chilometro di distanza.
La macchina slittò aggirando un angolo, si avventò per una strada di
campagna fiancheggiata da alberi, e si fermò ondeggiando accanto a un
gruppetto d'uomini. Il capitano Tom Mason, della Squadra Omicidi,
spalancò la portiera e uscì dal vago odore di gomma e benzina bruciata
nell'aria pulita della notte lavata dalla pioggia.
«Tu resta qui,» disse all'autista. «Se arriva qualcosa per radio, fammelo
sapere.» Si girò, mentre un uomo si dirigeva verso di lui. «Clancy?»
«Sì, signore.» Il poliziotto in uniforme si toccò la visiera del berretto.
«Ci ha messo poco ad arrivare, capitano.»
«Nove minuti.» Mason non guardò l'orologio. «Gli altri ragazzi sono
qui?»
«Sì, signore. Sono arrivati circa tre minuti fa.»
«Ero dall'altra parte della città.» Mason si tirò sulle orecchie il colletto
dell'impermeabile sciupato. «È stato lei a trovare il cadavere?»
«Sì, signore. Vuol vederlo?»
«Più tardi. Mi dica cos'è successo.»
«L'assassino deve essermi sfuggito per qualche secondo, non di più.»
Clancy aveva un tono disgustato. «Facevo il mio giro regolare, dalla Third
e Vine per Pine Avenue. Ho sentito un grido e ho visto qualcuno scappare.
L'ho abbrancato e lui mi ha detto che aveva appena assistito ad un
omicidio. Ho indagato e ho telefonato immediatamente.»
«Pine Avenue? È questa strada, no?»
«Esatto.»
«Stavo uscendo dall'incrocio fra Third e Vine. Circa un centinaio di
metri più in giù. Sono corso subito qui!»
«E il testimone?»
«L'ho trattenuto. Vuol vederlo?»
«Più tardi. Ha visto niente altro? Ha sentito niente?»
«No, signore. Era una notte tranquilla, non c'è mai molto chiasso in
questa zona, e non ho sentito altro che l'urlo.» Clancy si dondolò sui piedi.
«È molto buio, qui, e ci sono costruzioni solo lungo un lato dell'Avenue,
ma non ho visto niente.»
«Non mi sorprende.» Mason guardò in direzione del gruppetto d'uomini.
I flash balenavano come lampi d'estate e, da una certa distanza, si sentì il
motore di una macchina. Guardò l'agente.
«Quando arriveranno qui i giornalisti, me li tenga fuori dai piedi. Dica
loro che farò una dichiarazione più tardi. Potranno averla alla Centrale.»
Sorrise a denti stretti dell'espressione del poliziotto. «Non si preoccupi,
Clancy, avrà la foto sui giornali.»
«Non m'interessa, signore.»
«No? Allora è il primo poliziotto che io conosco che se ne disinteressa.»
Si girò, quando il suo autista si avviò verso di lui.
«Rapporti dai blocchi stradali, signore. Hanno fermato due sospetti.»
«Bene. Di' che me li facciano portare qui. Di' alle pattuglie di battere
questa zona. Fermare e interrogare tutti quelli che vedono. Prendere nomi,
indirizzi, documenti d'identità, le solite cose. Trattenere quelli che non
vogliono o non possono fornire i dati richiesti.» Attese che l'uomo fosse
tornato alla macchina e poi si avvicinò al gruppetto d'uomini.
Prentice, il suo assistente, gli andò incontro. «Quasi finito, Tom. Vuole i
particolari?»
«Sì.»
«Il defunto è un certo Roger Gorman. Sui quarantacinque anni. Ben
vestito, con un impermeabile chiaro di gabardine. Guanti, bastone,
cappello floscio, anello al mignolo della mano sinistra, orologio d'oro al
polso, portafoglio ben fornito. Ha un'idea?»
«Sì.»
«I documenti nel portafoglio dicono che era membro della Camera di
Commercio di Prestonville. Un paio di foto di quelli che potrebbero essere
la moglie e il figlio. Patente di guida, documenti di appartenenza alla
Loggia, carte d'affari, una chiave d'albergo, il «Grand Union», altra roba
per ora non importante. Potrà controllare tutto più tardi alla Centrale.»
«Andiamo avanti,» disse stancamente Mason. «Che altro?»
«Non molto, per ora. L'assassino era evidentemente un maniaco e ho
dato l'ordine di controllare se c'è stata qualche evasione da cliniche
psichiatriche o manicomi. Io...»
«Cosa le fa pensare che sia stato ucciso da un maniaco?»
«Vedrà. Non è stata una rapina, il portafoglio è intatto. Era arrivato da
fuori città e difficilmente poteva avere nemici locali. Sembrava un onesto,
normale uomo d'affari uscito a fare una passeggiata prima di andare a
dormire. L'albergo è pochi isolati più avanti. Ho mandato un uomo a
ritirare i bagagli.»
«Ha scoperto tutto questo in... quanto tempo?»
«Circa cinque minuti.» Prentice aveva l'aria di essere soddisfatto di sé.
«Niente male, eh?»
«Neanche molto bene. Lei legge troppo. Sherlock Holmes è finito
insieme all'illuminazione a gas.» Mason si guardò intorno. «Dov'è il
testimone che Clancy mi ha detto di aver trattenuto?»
«Sta aspettando in macchina. Vuol vederlo?»
«Non ancora.» Mason sospirò. «Immagino sarà meglio vedere il
cadavere, adesso.»
Avanzò, con Prentice a fianco, e si fermò accanto a qualcosa coperto da
un telo di gomma. Accanto c'era un agente e, quando vide Mason, si chinò
e scostò il telo. Mason abbassò gli occhi, impassibile, e Prentice puntò sul
cadavere il raggio della sua lampada tascabile.
«Visto? Le avevo detto che era opera di un maniaco.»
«O di qualcuno che cerca di darci questa impressione?» Mason non
guardò il suo assistente. Per quanto conoscesse il crimine e la disumanità
dell'uomo verso l'uomo, non si era mai abituato a sopportare la vista della
morte. Personalmente, la considerava la parte peggiore del suo lavoro e,
mentre fissava quello che veniva rivelato dalla luce della lampada
tascabile, non trovò nulla che modificasse la sua opinione. Non era il fatto
che l'uomo fosse morto: era quello che era stato fatto al cadavere.
Non aveva testa.

Il testimone era un relitto umano che puzzava di vino scadente e di


sudiciume. Guardò Mason sbattendo le palpebre e si passò la punta della
lingua tra i denti guasti. Aveva gli abiti fradici e sembrava stordito, come
se le cose accadessero troppo in fretta per lui. Non guardò nella direzione
dov'era il cadavere.
«Ha visto commettere l'omicidio?» Mason rabbrividì leggermente,
nell'impermeabile leggero. Sapeva che tutte quelle domande avrebbe
potuto farle al calduccio, nella Centrale, ma era convinto che le prime
impressioni fossero importanti, e voleva sapere tutto prima che testimone e
sospetti avessero tempo di dimenticare o di cambiare quel che avevano
visto.
«Beh.» Il testimone sembrava dubbioso. «Non l'ho proprio visto. Stavo
seduto e ho sentito qualcosa e quando ho alzato la testa c'era un uomo per
terra ed un altro che correva via.»
«In che direzione?»
«Da quella parte.» Il testimone indicò la parte buia del viale. «Era alto e
correva come se avesse paura o qualcosa del genere. Lo stavo ancora
guardando quand'è arrivato il poliziotto.»
«È stato lei a gridare?»
«No.»
«Ha fatto qualche rumore? Per esempio, ha chiamato quell'uomo?»
«Io no.»
«Il suono che ha sentito, che cos'era? Un'invocazione d'aiuto? Un urlo?»
«Non lo so,» disse l'uomo. Ruttò. «Ero addormentato, e deve avermi
svegliato. Però l'uomo l'ho visto.»
«Quale?»
«Quello che correva via, gliel'ho già detto.»
«Lo riconoscerebbe?»
«Non lo so.» L'uomo assunse un'espressione furba. «Credo di sì. I
testimoni vengono pagati, vero?»
«Non per mentire,» rispose bruscamente Mason. «Lo riconoscerebbe se
lo rivedesse?»
«Credo di sì. Almeno in questa luce. In una stanza, non lo so.»
«Non sarà in una stanza.» Mason guardò Prentice, che stava guidando
quattro persone verso di lui. «Resti qui. Osservi quella gente. Se riconosce
qualcuno me lo faccia sapere. Non parli e non si muova. Capito?»
Il testimone annuì e Mason s'incamminò verso i quattro.
Il primo sospetto venne scagionato subito. Era un ometto nervoso, quasi
calvo. Tirò Mason per la manica e mormorò qualcosa. Il capitano aggrottò
la fronte.
«Parli. Sapete tutti perché siete qui. È stato commesso un delitto e tutto
quel che voglio sapere è chi siete, dove stavate andando, chi può garantire
per voi. Appena la vostra posizione sarà stata chiarita potrete tornarvene a
casa.» Guardò l'ometto dall'alto in basso. «Allora?»
«È per mia moglie, capitano. Non voglio che sappia dove sono stato. Mi
chiamo Blake, Edward Blake, e posso provare dov'ero dalle nove fino a
quando l'agente mi ha fermato.»
«Dov'era?»
«Da Madame Cormay.» L'ometto arrossì. «Lei sa com'è, capitano.»
«Lo so,» disse Mason. Aveva sentito parlare della famigerata Madame
Cormay. Un giorno o l'altro quelli della squadra del buon costume
avrebbero fatto il lavoro che erano pagati per fare e l'avrebbero costretta a
chiudere. Fece un gesto verso un agente. «Prenda quest'uomo e controlli.
Lo conduca a casa e controlli dove abita. Sa che cosa fare.» Guardò gli
altri tre sospetti. Due erano uomini, la terza era una donna. Teneva stretto
per mano uno degli uomini, e Mason immaginò che fossero insieme.
Lo erano, e la loro storia era semplice. Erano tutti e due sposati, ma con
altri, e per ragioni evidenti non ci tenevano che venissero fatte indagini
nelle rispettive case. Mason li mandò via con due agenti e lasciò a loro il
compito di farsi un alibi. Fissò l'ultimo uomo rimasto.
«Il suo nome?»
«Holden. Gort Holden.»
«Indirizzo?»
«Central Plaza.»
«Sta bene, signor Holden. Ha sentito quel che ho detto agli altri. Giacché
vive in albergo, purtroppo non posso mandarla a casa con un agente.
Questo non proverebbe nulla. Se mi fa sapere con chi posso mettermi in
contatto perché garantisca per lei, non la tratterrò oltre.» Indugiò, attese;
poi, dato che l'uomo non si muoveva, tese la mano. «Dia qua.»
«Che cosa?»
«I suoi documenti. Il portafoglio, carta d'identità, tessera delle
assicurazioni sociali, tutto quello che può provarmi chi è e che cos'è.»
«Purtroppo non posso farlo.»
«Non può o non vuole?»
«Non posso, mi dispiace.» Gort sorrise e fece per allontanarsi. Mason lo
fermò, stringendogli il braccio con le dita.
«Calma. Forse se vedesse perché m'interessa tanto, cambierebbe idea.»
Mason fece un cenno ad un agente. «Accompagni quest'uomo e gli faccia
vedere. Poi lo riporti da me.» Attese fino a quando i due si furono
allontanati, poi guardò in direzione del testimone. L'uomo sogghignò e
annuì.
Quando Gort tornò era pallido e sembrava sul punto di vomitare. Si
fermò per un momento, aspirando l'aria lavata dalla pioggia e, nella luce
dei lampioni, i suoi occhi sembravano stralunati.
«Avrebbe dovuto avvertirmi,» disse. «Quell'uomo! È orribile!»
«Mi dispiace.» Mason non provava alcun rammarico. «Quell'uomo è
stato assassinato poco fa. L'assassino è stato visto fuggire. Abbiamo
bloccato tutte le strade e stiamo controllando i dintorni e tutte le persone
che non sono in grado di fornire la propria identità. Immagino che lei non
obietti a lasciarsi identificare.»
«Dalla persona che ha visto l'assassino? No, naturalmente.»
«Non è questo che intendevo,» disse gentilmente Mason. «Deve esserci
qualcuno disposto a garantire per lei. Il suo datore di lavoro? I suoi
familiari? I suoi collaboratori?»
«Naturalmente.» Gort esitò. «Ma è necessario? Senza dubbio, se ha un
testimone del delitto, è in grado di scagionarmi.»
«Forse.» Nella luce fioca, la faccia del capitano era enigmatica. «Non ha
obiezioni se proviamo?»
«No, naturalmente.»
«Capisco.» Mason si rivolse al testimone che si era avvicinato mentre
stavano parlando. «Allora? È questo l'uomo che ha visto?»
«Potrebbe.» L'uomo si avvicinò barcollando e Gort arretrò di fronte
all'odore acido del suo alito. «Sì, è lui.»
«È sicuro?»
«Beh...» L'esitazione era ovvia. «C'era poca luce e la mia vista non è
molto buona, ma direi che è proprio lui. Stessa forma della testa. Stessa
statura e vestiti dello stesso colore. È proprio lui.»
«Impossibile!» Gort si spinse verso il testimone. «Non mi ha mai visto
in tutta la sua vita. Si sbaglia.» Si rivolse a Mason. «Non può credere a
quest'uomo. Direbbe qualunque cosa, se pensasse di farla contento.»
«Forse.» Mason chiamò un agente con un cenno del capo. «Ma si tratta
della testimonianza oculare di costui contro la sua negazione senza
conferme. Purtroppo dovrò trattenerla per ulteriori indagini.»
Si voltò verso il cadavere, mentre l'agente conduceva via Gort.

II

A Gort l'intera faccenda sembrava una fantasia pazzesca. Sedeva su una


branda stretta e dura, in una stanzetta di cemento, e fissava una minuscola
chiazza di cielo azzurro contro una parete. La cella era piccola, primitiva, e
assolutamente squallida, per un uomo abituato alle comodità di una civiltà
galattica. E la cosa peggiore era che non poteva far niente per salvarsi.
L'intelligenza, anche d'ordine superiore, non poteva lottare con le sbarre di
ferro e le mura di pietra.
E lui cominciava a dubitare della propria intelligenza.
L'arresto aveva significato anche un bagno: non che la cosa avesse molta
importanza, dato che il suo camuffamento resisteva a tutto, tranne certi
solventi speciali; ma il camuffamento non era permanente e aveva bisogno
di ritocchi, di tanto in tanto. Aveva conservato gli abiti che indossava al
momento dell'arresto, e quando ci pensava si sentiva torcere di rabbia per
la propria stupidità. Era già ridicolo che li avesse avuti addosso. Non
avrebbe mai dovuto togliersi gli indumenti speciali, perché senza era
impotente.
Il pensiero di quella impotenza assoluta lo faceva fremere.
Alzò la testa quando la porta si apri e Mason entrò nella cella. Attese che
la porta venisse richiusa dietro di lui, poi sedette sull'unica sedia e
fronteggiò Gort.
«Allora? Si è deciso a cambiare idea?»
Gort non rispose. Sapeva quel che voleva il capitano: una prova della
sua identità. Ma quella prova era l'unica cosa che non poteva dare. Non
c'era un uomo o una donna, sulla faccia di quel pianeta, che potesse
garantire per lui. Non c'erano assolutamente prove documentali della sua
nascita, della sua istruzione, di un impiego, dell'anamnesi medica: nessuno
dei mille ed un dato normali per chiunque vivesse in quel particolare
emisfero.
«Abbiamo controllato al Central Plaza e tutto quello che sanno dirci è
che lei vi ha preso alloggio una settimana fa, due giorni prima del suo
arresto. Abbiamo frugato tra le sue cose, ma senza risultato. Non basta.»
Fece una pausa, in attesa che Gort dicesse qualcosa.
«Che altro posso fare?» Gort conosceva la risposta, e sapeva che non
poteva farci nulla.
«Gliel'ho detto, più di una volta,» disse stancamente Mason. «Chi è lei?
Dove vive, normalmente? Dove lavora? Ha qualche amico autorevole che
possa garantire per lei?» Fece un gesto d'impazienza. «Non creda che io
abbia voglia di tenerla qui. Non ce l'ho: ma non posso rilasciarla fino a
quando non avrò saputo chi e che cos'è. Vuol dirmelo?»
«Io...» Gort deglutì e scosse il capo. La situazione era impossibile. La
verità non sarebbe stata creduta; e anche se lo fosse stata, era l'ultima cosa
che avrebbe osato dire. Per la prima volta cominciò a capire pienamente
l'avvertimento che gli era stato dato.
«Non li sottovaluti mai,» aveva detto Rhubens. «Sono ignoranti, stupidi,
illogici, ma hanno una loro astuzia innata. Quando si aggrappano a un'idea
non smettono mai di accanirsi fino a quando trovano una soluzione. Non è
necessario che sia la soluzione esatta, ma la vogliono comunque.» Il
comandante aveva riso, con tranquillo buonumore. «Non è necessario che
la metta in guardia contro le femmine, ma stia attento ai loro tutori
dell'ordine. Hanno una mania fanatica della sicurezza e sono disposti a
dimenticare l'etica e tutto il resto, se cominciano a insospettirsi.»
Questo era accaduto otto giorni prima, e soltanto adesso lui cominciava
a rendersi conto di quello che aveva inteso dire il comandante.
«La situazione,» fece cupamente Mason, «è questa. Un uomo è stato
assassinato in modo particolarmente orribile. Tutti gli altri sospetti
rintracciati nella zona hanno trovato qualcuno che garantisse per loro e
sono stati scagionati. Lei è l'unico sospetto possibile e, cosa ancora più
importante, è stato identificato da un testimone. Mi dispiace doverglielo
dire ma, a meno che si decida a collaborare, finirà diritto sulla sedia
elettrica. Tocca a lei chiarire la sua posizione, se ci tiene a evitarlo.»
«Aspetti un momento.» Gort aggrottò la fronte, mentre cercava di
ricordare quello che aveva imparato. «La legge non dice che un uomo è
innocente fino a quando non è stato riconosciuto colpevole?»
«Sì,» ammise in tono asciutto il capitano. «Ma non ci conterei, se fossi
in lei.»
«E le prove, allora? Non avevo armi. I miei abiti erano puliti e,
soprattutto, non portavo la...» Gort si sentì riprendere dalla nausea, mentre
cercava di pronunciare quella parola.
«La testa?» Mason assunse un'aria pensierosa. «È esatto: non la portava,
no?»
«Allora questo dovrebbe bastare a scagionarmi. Non ha una
giustificazione per trattenermi.»
«No?» Mason scrollò le spalle. «Non sono d'accordo con lei.» Fissò
incuriosito l'uomo sulla branda. «Ha sangue indiano nelle vene?»
«Cosa?» Gort si rese conto di non capire dove voleva andare a parare il
capitano. «No, non credo. Perché?»
«È qui da cinque giorni, ormai, e l'agente di custodia mi dice che non si
è fatto la barba neppure una volta. Gli indiani purosangue non hanno
bisogno di radersi: i baffi e la barba non gli crescono.» Mason si grattò il
mento. «Fortunati loro. E lei è anche vegetariano, no?»
«Non mangio carne,» disse Gort, cautamente. «È questo che intende?»
«Infatti.» Mason si alzò e guardò il detenuto. «Ma è il primo vegetariano
che rifiuta di mangiare carne, pesce, uova e tutti i prodotti d'origine
animale. Questo deve spiegare quello che ha provato quando ha visto il
cadavere. Avrebbe dovuto avvertirmi che era debole di stomaco.»
Gort si buttò. «Non sopporto la vista del sangue,» disse. «Questo non
dimostra la mia innocenza?»
«Mi dispiace: no.» Mason bussò sulla porta perché l'agente venisse ad
aprirgli. «Se vuole riuscirci, farà bene a cominciare a parlare, ed in fretta.
L'opinione pubblica è in agitazione e, se aspetta fino a quando sarà troppo
tardi, rischierà di non venire creduto. Ci pensi bene.»
La porta si chiuse dietro il capitano e, rimasto di nuovo solo, Gort si
stese sulla branda. L'avvertimento era stato chiarissimo: chiarisca la sua
posizione... o verrà usato come capro espiatorio. Si stillò disperatamente il
cervello, cercando una via d'uscita da quella situazione quasi ridicola. Per
un uomo che sapeva riparare un motore a distorsione istantanea, che aveva
un'intelligenza almeno cinque volte superiore a quella del più geniale
abitante di quel mondo e che faceva parte dei Guardiani, trovarsi rinchiuso
per una falsa accusa in una prigione primitiva era qualcosa cui preferiva
non pensare.
Immaginava che avrebbe potuto trovarsi un avvocato; gli avrebbero
permesso di usare il suo denaro per quello scopo. Ma un avvocato avrebbe
voluto sapere tutto di lui, e perciò non si sarebbe trovato in una posizione
migliore. Se avesse riavuto i suoi abiti, una possibilità l'avrebbe avuta.
Mason aveva detto che erano stati perquisiti; ma i circuiti intessuti e la
fonte d'energia erano stati progettati apposta per risultare irriconoscibili.
Però, prima che potesse riavere i suoi abiti avrebbe dovuto chiarire la sua
posizione e...
Irrequieto, si sollevò a sedere e fissò la finestra, sopra la sua testa. Con
un'armoniosa coordinazione dei muscoli spiccò un balzo e si alzò,
premendo la faccia contro le sbarre. Da quel punto poteva vedere il tetto di
un edificio di fronte, qualche nuvola fioccosa, e una distesa di cielo
azzurro. Fissò il cielo a lungo e, inspiegabilmente, quella vista cominciò ad
irritarlo. Lassù c'era tutto l'aiuto che gli serviva e che avrebbe potuto usare.
Ma lui non era lassù.

III

Heltin non era soddisfatto della nave; ma era la migliore che Jelkson
fosse in grado di fornire. Non era soddisfatto neppure del suo compagno,
ma si trattava di prendere o lasciare, e Heltin, che aveva gusti dispendiosi
ed una propensione per i dubbi piaceri dei mondi dell'Orlo, non aveva
avuto scelta. Adesso sedeva sulla poltroncina di comando e guardava
l'immagine sugli schermi.
«È quello?» San Luchin si sporse sulla spalla del pilota: i suoi occhi
felini brillavano d'anticipazione. Heltin annuì.
«Si. Il pianeta della selvaggina. I suoi sono pronti?»
«Certamente. Abbiamo fatto una scommessa molto ingegnosa. Lei ci
lascerà nello stesso punto dove mi sono procurato l'ultimo trofeo. Ci
lascerà tre rivoluzioni di tempo e poi verrà a prelevarci di nuovo. Quello
che avrà raccolto il più grande numero di trofei vincerà ventimila milar.»
Aspirò con un suono sibilante. «Dovrebbe essere divertente.»
«Non esagerate,» l'avvertì Heltin, inquieto. «È già stato qui e sa che
questi esseri hanno una specie di civiltà. Potreste trovarvi in guai seri. Non
si tratta semplicemente di atterrare e di mietere un raccolto, vede. Lo scopo
è opporre le vostre intelligenze e la vostra abilità agli abitanti... e cavarvela
impunemente.» Esitò. «È sicuro di non preferire un'area più isolata?»
«No.» San Luchin era decisissimo. «Tutto il fascino del piano sta nel
fatto che correremo qualche pericolo personale. Prendiamo con noi solo
l'equipaggiamento protettivo essenziale e dovremo usare tutte le nostre
capacità sia per procurarci i trofei sia per non farci sorprendere. Ha un
ipnoistruttore per la lingua?»
«Sì, i nastri sono già pronti. Però non sono riuscito a procurarmi molta
moneta locale: dovrete arrangiarvi come potrete.» Heltin regolò i comandi
e l'immagine sugli schermi divenne improvvisamente molto più vicina. «Si
sbrighi con i preparativi. Non voglio restar qui più a lungo dello stretto
indispensabile.»
«Perché? I Guardiani non possono scoprire i suoi schermi, non è vero?»
«Spero di no,» disse sinceramente Heltin. «Quella base sulla Luna mi
sembra tremendamente efficiente.»
Portò il vascello più vicino al pianeta, mentre i suoi passeggeri si
familiarizzavano con la lingua; e con tempismo perfetto, atterrò quando il
sole era dall'altra parte del pianeta. Cautamente, aprì il portello stagno e
guardò fuori, nell'oscurità.
Un uomo che camminava per la strada deserta, fissò la mole della nave,
poi tirò avanti per la sua strada. Heltin sogghignò: gli schermi d'invisibilità
stavano facendo evidentemente il loro dovere, e per un momento provò la
tentazione di lasciare la nave dov'era, invece di seguire il piano originario
e di attendere sotto la superficie di uno dei mari. Poi scacciò quell'idea.
Anche se gli abitanti locali non potevano individuarlo, i Guardiani
sarebbero stati in grado di captare la sua radiazione e, anche con gli
schermi alterati, sarebbe stato più opportuno ripararsi sotto un chilometro
d'oceano. Si girò verso i suoi passeggeri che si affollavano verso il
portello.
San Luchin si mise alla testa del gruppo. Come gli altri, indossava
indumenti così simili a quelli degli indigeni che la differenza non si
notava. Ognuno aveva camuffato le sue caratteristiche personali, e ognuno
portava una sola arma offensiva, di scarsa efficienza eppure idealmente
adatta al programma in corso. Heltin restò a guardare mentre i cinque
uomini balzavano al suolo.
«Aspettate un momento,» disse bruscamente. «Avete dimenticato una
cosa: dove li metterete?»
«Questo è affar nostro.» San Luchin espresse la sua irritazione con un
gesto particolare, tendendo e stringendo la mano destra. «Abbiamo
intenzione di goderci in pieno il passatempo, e più sarà difficile, tanto
meglio sarà. Adesso decolli e torni a prenderci fra tre rivoluzioni.»
Heltin scrollò le spalle. «Affar vostro. Buona caccia.»
Quelli risposero con cenni del capo e si allontanarono, mentre il portello
si richiudeva. Prima che fossero usciti dalla zona, la nave era sparita, e
dopo un momento, un turbine d'aria disse che era ripartita. San Luchin
tenne rapidamente consiglio.
«Propongo che ci separiamo per dirigersi in aree divergenti,» disse, nella
lingua appena acquisita. «A parte i giubbotti a energia siamo indifesi e, per
evitare interferenze, non faremo tentativi di stabilire contatti personali fino
a quando ci incontreremo qui al momento fissato. D'accordo?»
Gli altri annuirono e si dispersero: ognuno scelse un percorso che lo
portasse il più lontano dagli altri. San Luchin li guardò allontanarsi e poi,
dopo aver riflettuto un istante, si diresse verso il centro della città.
Canticchiava un po', mentre camminava, un mormorio quasi ferino, e i
suoi occhi, mentre guardava la folla circostante, brillavano d'eccitazione
crescente. Aveva fatto bene ad insistere per un soggiorno di tre rivoluzioni.
Aveva fatto bene a rendere la caccia il più possibile difficile. Da troppo
tempo non c'era stata una vera possibilità di un sano divertimento. Anche
gli androidi artificiali erano ben miseri surrogati degli originali. Andavano
bene, ma solo nella misura in cui i fabbricanti li rendevano adatti; e
quando si costruiva una cosa, se ne conoscevano le esatte capacità. Quegli
esseri erano diversi. Le loro capacità erano sconosciute, e potevano
rivelarsi deliziosamente pericolosi.
Frenò il movimento inconscio della sua mano verso l'arma che portava
sotto il giubbotto. Non ancora. Prendere i trofei sarebbe stata la parte più
facile, anche se dava il brivido supremo. Poteva permettersi di attendere e
di godere il piacere dell'anticipazione. Prima c'erano altre cose cui pensare:
trovare una base, osservare la selvaggina, assicurarsi un nascondiglio.
Canticchiò più forte, mentre camminava cautamente tra la folla.
Erano anni che non si divertiva così.

IV

Il capitano Mason era nel suo ufficio e guardava i fasci di carte che
aveva davanti. Era notte, e la lampada da tavolo gettava un ampio cono di
luce sui fogli sparpagliati. Erano quasi tutti rapporti, dettagli di una ricerca
che fino ad ora si era rivelata inutile. Prese un fascicolo e cominciò a
sfogliarne le pagine, cercando per la millesima volta qualcosa, che cosa
non sapeva... qualcosa che gli fornisse una pista per l'omicidio più
pubblicizzato degli ultimi dieci anni.
Alzò la testa quando il vice-procuratore distrettuale entrò nell'ufficio
sbattendo la porta e si piazzò su una sedia.
«Ci sei ancora dietro, Tom?»
«Sì,» Mason sospirò e accettò la sigaretta che l'altro gli offriva. «Grazie.
Andrai avanti con il processo, Bob?»
«Che altro posso fare?» Bob Shaw fece scattare un accendino e accese le
due sigarette. «Il capo è con le spalle al muro. La stampa non gli dà tregua
e, se non ce la farà a condurre in porto questo caso, potrà dire addio alle
sue speranze alle prossime elezioni.»
«Credi di poter ottenere una condanna?»
«Di sicuro.» Bob fissò la faccia tormentata del capitano. «Che cosa
succede? Non credi che sia stato quel Holden?»
«Non sono certo che sia stato lui,» ammise lentamente Mason. «Non so
come, ma non quadra.» Prese il fascicolo. «Nessun movente. Nessun'arma.
Niente macchie sui vestiti. Può darsi benissimo che stesse semplicemente
passeggiando, come dice lui, quando l'abbiamo fermato.»
«Dimentichi il testimone,» gli ricordò Shaw. «È pronto a giurare che
Holden è l'uomo che ha visto fuggire dalla scena del delitto.»
«Quell'alcolizzato? Chi gli crederà?»
«La giuria: e questo è tutto ciò che conta.» Shaw tirò una boccata dalla
sigaretta. «Ha parlato?»
«Non ancora.»
«Non gli servirà a niente. Fare scena muta non è il modo migliore per
dimostrare la propria innocenza. Se non hai niente da nascondere, allora
perché non parli? Smettila di provare rimorsi per lui Tom: se è nei guai, è
tutta colpa sua.»
«Può darsi.» Mason sospirò, posando il fascicolo. «Ma non sono affatto
tranquillo. Non hai affatto prove convincenti a suo carico. Qualunque buon
avvocato le farebbe a pezzi e riuscirebbe a farlo assolvere.»
«Tu credi?» Shaw soffiò il fumo dalle narici. «Non sono d'accordo.
Senti, la faccenda del movente possiamo dimenticarcela. Il morto era una
specie di playboy, e possiamo insinuare che il nostro amico fosse un po'
geloso o qualcosa del genere. Ma non conta molto. L'uomo è morto, e
questa è la sola cosa di cui dobbiamo occuparci; e Holden è un bersaglio
immobile e se la passerà male.»
«Anche se è innocente?»
«Raccontalo agli uccellini. È colpevole come il diavolo, ecco perché non
parla; e sa che non appena comincerà a parlare, noi controlleremo e lo
smaschereremo.» Shaw fissò Mason. «Senti. Ha buttato via il coltello,
questo è semplice: c'è un gran tratto di terreno incolto, vicino al luogo del
delitto, e in fondo c'è un grande tombino. Lui ha gettato anche il suo
carico, è tornato indietro, e poi ha cercato di far credere che stava
semplicemente facendo una passeggiata. Per sua sfortuna, è stato visto da
un testimone, e noi abbiamo bloccato la zona troppo presto. Altri cinque
minuti, e lui se ne sarebbe andato.»
«E il sangue?»
«Fortuna oppure...» Bob scrollò le spalle. «Opteremo per la fortuna.» Si
alzò in piedi. «Sei approdato a qualcosa con le sue impronte digitali?»
«No. Non sono schedate da nessuna parte.»
«Forse è anche renitente alla leva,» insinuò Bob. «Comunque, non
lasciarti abbattere, Tom. Dopotutto, che cosa conta, per te?» Se ne andò, e
il capitano guardò di nuovo il fascicolo, aggrottando la fronte.
Per Bob era facile parlare, era ancora più facile starsene tranquillo e
comportarsi cinicamente, anche se mandava sulla sedia elettrica un
innocente; ma Mason non poteva dimenticare che il dovere di un poliziotto
non consisteva semplicemente nel presumere la colpevolezza: doveva
anche contribuire a provare l'innocenza.
E c'era qualcosa che non andava.
Lo sapeva. Lo sentiva ogni volta che vedeva il detenuto. Quell'uomo non
era pazzo: e quale uomo sano di mente ne avrebbe decapitato un altro?
Non era neppure un assassino, sebbene Mason sapesse che chiunque, in
date condizioni, poteva diventare assassino. C'era qualcosa d'inafferrabile,
qualcosa che non rientrava nei solchi della normalità: e più ci pensava, e
più la cosa lo preoccupava.
Le impronte digitali, per esempio. Quelle di Holden erano state
riprodotte, secondo la consuetudine, e inviate qua e là per un controllo.
Che non fossero schedate non era straordinario: significava semplicemente
che non aveva mai lavorato in uno stabilimento della difesa, non era mai
stato arrestato in precedenza, non aveva prestato servizio presso le forze
armate, non aveva mai lavorato per una grande azienda e non aveva fatto
richiesta di passaporto. La cosa straordinaria erano proprio le impronte.
Mason le fissò, aggrottando la fronte davanti a quello schema strano,
assolutamente innaturale. Sapeva che tutte le impronte normali rientravano
in categorie ben definite, a seconda degli archi e delle spirali; ma quelle di
Holden stavano in una classe a sé. Niente archi, niente spirali, una serie di
motivi a spina di pesce su cui si sovrapponeva una massa ondulata di linee
circolari, il tutto confuso e distorto fin quasi ad essere irriconoscibile. Era
sconcertante; e mentalmente Mason cominciò a riconsiderare gli elementi
a carico di Gort.
Il coltello? Shaw l'aveva spiegato; e se il delitto era stato premeditato,
era appunto quello che avrebbe fatto l'assassino. Il movente? Non era
essenziale, e non era compito suo provare il movente. Il sangue? Fortuna,
come aveva detto Shaw, oppure...?
Il sangue!
Frettolosamente, Mason sfogliò il fascicolo sino a quando trovò quel che
cercava: una foto 20 x 25 della scena del delitto. La guardò socchiudendo
gli occhi, con impazienza, mentre qualcosa gli assillava il cervello.
Premette l'interruttore di un citofono.
«Centralino? Qui Mason. Passami il dottor Wheelan.» Attese,
tamburellando con le dita sul bordo della scrivania. «Doc? Sono Mason.
Quanto sangue contiene un corpo umano?» Aggrottò la fronte nell'udire i
suoni che uscivano dal ricevitore. «No, non sto scherzando, potrebbe
essere una faccenda seria.» Ascoltò ancora. «Tanto? Se qualcuno tagliasse
una testa schizzerebbe fuori? Quasi tutto? Dipende? Senta, lei conosce il
caso su cui sto lavorando; beh, a quanto posso dire dalle fotografie non c'è
stato quasi sangue. Come lo spiega?» Ascoltò ancora. «Okay, okay, non me
ne sono accorto sul momento. Diavolo, Doc, stava piovendo, la notte era
buia e io avevo altre cose per la mente. Il rapporto? No, non l'ho letto,
perché avrei dovuto farlo? L'uomo era morto, no? E la causa la vedevo
anch'io. Vuol calmarsi un momento?» La faccia di Mason s'indurì mentre
ascoltava. «È sicuro? Sicurissimo? Okay, ma non mi salti alla gola. Volevo
soltanto sapere.»
Lentamente, tolse la comunicazione, il volto oscurato dal pensiero. Poi
all'improvviso, premette di nuovo il pulsante.
«Centralino? Qui Mason. Faccia portare qui il detenuto Gort Holden.
Immediatamente.»
Attese fissando la fotografia: la grinza tra le sue sopracciglia era un
punto interrogativo vivente.

Era tanto semplice che Gort si vergognava terribilmente di non averci


pensato prima. Per fuggire aveva bisogno dei suoi abiti speciali; perciò,
dato che non aveva ancora l'uniforme della prigione e non l'avrebbe avuta
fin dopo il processo, distrusse di proposito gli abiti che portava. L'agente di
custodia scrollò le spalle quando vide il disastro; e poiché il detenuto
aveva altri abiti suoi, la cosa più semplice era consegnarglieli.
Era semplicissimo.
Rivestito dei suoi indumenti protettivi, Gort si sentì un uomo nuovo.
Sedette sull'orlo della branda e si chiese cosa avrebbe dovuto fare. Poteva
tagliare le sbarre della finestra e uscire fluttuando verso la libertà. Poteva
staccare la serratura dalla porta e andarsene da quella parte. Poteva
generare il campo di forza che l'avrebbe protetto da tutti i proiettili e da
quasi tutte le armi ad energia, e quella gente non poteva far nulla per
fermarlo. Poteva anche attivare il segnale d'emergenza e chiamare la base
per chiedere aiuto.
Ma fare una di queste cose sarebbe stata un'ammissione d'incapacità, un
tradimento della fiducia riposta in lui.
Innanzi tutto, aveva già suscitato abbastanza sospetti senza che ce ne
fosse bisogno di destarne altri. Chiedere aiuto era superfluo e
ingiustificato; e se l'avesse fatto, avrebbe dovuto rispondere a varie
domande imbarazzanti, quando fosse rientrato alla base. Un Guardiano,
anche giovane, deve essere in grado di dimostrare spirito d'iniziativa.
Standosene seduto sul bordo della branda, decise di non far nulla per il
momento. L'importante era essere in grado di fuggire quando voleva: e
anche se non gli faceva piacere ammetterlo, la sua recente esperienza gli
aveva insegnato molte cose.
Gli aveva insegnato che un uomo valeva solo quanto la sua tecnologia.
Anche con la sua elevata intelligenza, la sua cosiddetta superiorità rispetto
a quei primitivi, era stato impotente, senza i suoi congegni. In un certo
senso, era stato anche peggio degli indigeni, perché quelli non tendevano a
contare su campi di forze e su tutti gli altri strumenti comuni alla sua
civiltà. Era un pensiero agghiacciante, e lui ci stava ancora rimuginando
sopra, quando l'agente di custodia venne a prenderlo per condurlo da
Mason.
Il capitano non perse tempo.
«Lei ha qualcosa di strano, Holden, e voglio sapere di che si tratta. E c'è
anche un'altra faccenda...» Non finì la frase, mentre dava un'occhiata alla
fotografia. «Ma per adesso lasciamo stare.» Posò la foto lucida e indicò
una sedia. «Si accomodi.»
Gort sedette. Stranamente, non si sentiva affatto sconvolto. Forse perché
si sapeva invulnerabile; o forse perché, per la prima volta dopo il suo
arresto, cominciava a divertirsi.
«Rifiuta ancora di fornirmi qualunque dato sul suo conto?» Mason
formulò la domanda come se in realtà non si aspettasse risposta e, per un
momento, Gort provò la tentazione di dirgli la verità. Resistette a
quell'impulso assurdo: non era il momento di scherzare.
«Sì.»
«Allora mi lasci che le dica io qualcosa su di lei.» Mason si rilassò sulla
poltrona e fissò il detenuto. «Forse non lo sa, ma è stato tenuto sotto
continua sorveglianza dal momento del suo arresto. Per esempio, sappiamo
che non si è mai fatto la barba. Non ha mai mangiato prodotti di animali
vivi o morti e, a quanto possiamo stabilire, non ha mai dormito.» Guardò
pensoso Gort. «Un'altra cosa: le sue impronte digitali non sono normali.
Non ho mai visto prima impronte simili, e credo sia giusto dire che un
simile schema non esiste.» Si tese in avanti, con gli occhi colmi di
sospetto.
«Che cos'è lei, Holden?»
Non chi: cosa! Il significato della parola fece scorrere un brivido lungo
la spina dorsale di Gort. Mason era sospettoso: forse era solo il vago
barlume di un'idea, per ora. Ma, ricordando il consiglio di Rhubens, Gort
comprese che era meglio non correre rischi. Sorrise.
«Che cosa? Vuol dire chi, no?»
«Forse.» Mason non spiegò. «Ha intenzione di parlare?»
«Posso dirle alcune cose,» rispose Gort. «Non so perché non ho bisogno
di radermi. Non ci avevo mai pensato, prima: è una di quelle cose che... sa
com'è.»
«Devo saperlo?»
«Beh, proprio lei ha detto che gli indiani non hanno bisogno di radersi,
quindi che c'è di tanto strano?» Gort mosse le mani. «Sono vegetariano, sì.
Non l'ho mai negato, ma non è un delitto. Non mi piace mangiare tessuti
morti né prodotti di organismi viventi. Magari sarò un fanatico, ma il mio
stomaco è mio.»
«E l'assenza di sonno?»
«Sciocchezze,» mentì Gort. «Dormo come tutti gli altri, ma ho preso
l'abitudine di fare sonnellini brevi. Mi assopisco per dieci minuti o
mezz'ora, mi sveglio per qualche minuto, poi mi riaddormento.» Sorrise.
«Ho una teoria al riguardo.»
Mason non sorrise. «Non mi ha ancora detto niente,» gli ricordò. «Vuol
farsi processare per omicidio?»
«Non potrà farmi condannare.» disse Gort in tono sicuro. «Sono
innocente.» Guardò la fotografia. «È la scena del delitto?»
«Sì.» Mason la prese, esitò, poi la tese a Gort. «Forse lei può aiutarmi.
Quando ha visto il cadavere, ha notato molto sangue?»
«Sangue?» Gort indugiò, con in mano la fotografia. «Non riesco a
ricordare; è importante?»
«Potrebbe esserlo,» rispose Mason, in tono molto serio. «È saltato fuori
qualcosa di strano, e voglio essere sicuro di non sbagliarmi. Se riuscisse a
ricordare, sarebbe di grande aiuto.»
Gort annuì, e rilanciò all'indietro la sua mente per ricordare l'episodio. Si
concentrò e, all'improvviso, risentì l'odore della notte umida di pioggia, udì
i rumori soffocati delle scarpe degli uomini, vide la figura rannicchiata e
senza testa, sull'erba. Dominò la ripugnanza e, facendosi forza, esplorò la
zona.
«C'era un po' di sangue al... al limite superiore del cadavere,» disse,
guardingo. «È questo che vuol sapere?»
«Quanto sangue?» Poi, mentre Gort esitava, Mason continuò: «Una
macchia o due, un litro, quattro litri? L'erba ne era coperta, oppure era
soltanto su un'area ristretta?»
«Non era molto. Solo una grossa chiazza sull'erba.»
«Sì,» disse pesantemente Mason. «È come pensavo.» Fissò Gort. «Ho
appena letto il referto medico ed ho parlato con il dottore. Sembra che la
testa sia stata asportata con uno strumento incredibilmente affilato, che
apparentemente aveva la capacità di cauterizzare la ferita mentre tagliava.
L'unica chiazza di sangue, si direbbe, proveniva da una ferita minore,
inferta dopo la morte. Dico «apparentemente» perché a quanto ne
sappiamo, uno strumento del genere non esiste.» S'interruppe e fissò Gort.
«Così come non esistono impronte digitali come le sue.»
«Ma esistono,» disse Gort, alzando le mani. «Io le ho.»
«Esattamente.» Mason tese la mano verso il citofono. «Non deve
preoccuparsi di venire processato per omicidio. Sto per informare la
Sicurezza, e lei verrà trattenuto per ulteriori interrogatori. Mi dispiace,
Holden, ma si renderà conto che non posso affrontare il rischio che lei sia
una spia.»
Il telefono squillò mentre Mason si accingeva a parlare con
un'espressione irritata, sollevò il ricevitore. «Qui Mason. Che cosa c'è?»
Mentre lo osservava, Gort vide la sua espressione passare dall'irritazione
all'incredulità. «Cosa? Tre? Dove?» Ascoltò prendendo rapidamente
appunti sul taccuino che gli stava davanti. «Tutti senza testa? Aspetti! C'è
sangue? Non lo sa? Controlli, allora, e si sbrighi!»
I suoi occhi incontrarono quelli di Gort e, come se quella vista gli avesse
ricordato qualcosa, tese di nuovo la mano verso il citofono. Lo squillo del
telefono l'interruppe per la seconda volta.
«Niente sangue? È sicuro? Bene. Sì, vengo immediatamente. No,
sembra che sia all'opera lo stesso uomo. Fate bloccare la zona e procedete
come al solito.»
Mason sbatté il ricevitore, allungò la mano verso il citofono e poi
all'improvviso si accasciò, immobile.
Gort si alzò. Aveva a disposizione circa mezzo minuto per fuggire: la
paralisi non sarebbe durata più a lungo, perché aveva temuto di causargli la
morte. Ma prima di andarsene aveva qualcosa da fare. Prese rapidamente
la fotografia, tolse dalla tasca del capitano il portafoglio e, a passi svelti, si
avviò verso la porta.
Un secondo uso della vibrazione paralizzante gli sgombrò la strada; e
prima che Mason avesse avuto il tempo per riprendersi, lui era per la
strada, verso la libertà. Il capitano gli faceva quasi pena, ma che altro
avrebbe potuto fare? Una reclusione più rigorosa avrebbe comportato la
perdita dei suoi indumenti protettivi e di tutte le speranze di fuga. Così,
invece, se n'era semplicemente andato, lasciando interrogativi privi di
risposta. Mason, quali che fossero i suoi sospetti, non poteva comprovarli.
Gort era libero di continuare la vacanza interrotta.

San Luchin era nella sua stanza d'albergo e tremava, mentre ascoltava il
giornale radio. Che sciocchi! Quegli innominabili sciocchi se n'erano
andati a caccia di trofei subito dopo essere arrivati. Eppure, anche se si
erano comportati da idioti, la loro azione aveva reso la caccia ancora più
eccitante.
Una grande carta topografica della città era aperta davanti a lui sul
pavimento, e San Luchin la scrutò, segnando le zone dov'erano stati trovati
i cadaveri, ed i suoi occhi felini sfolgoravano d'interesse mentre
estrapolava i probabili risultati della caccia intempestiva. Ovviamente,
avevano sottovalutato le risorse del pianeta. Secondo il giornale radio, le
zone adesso erano bloccate, ed ogni persona che vi veniva sorpresa
all'interno sarebbe stata interrogata. Altrettanto ovviamente, avrebbero
dovuto abbandonare i trofei e, nel contempo, avrebbero corso il rischio di
venire scoperti.
Snudò i denti mentre ci pensava: quasi quasi li invidiava eppure, nello
stesso tempo, riconosceva il pericolo in cui si trovavano. Non
dell'annientamento personale, naturalmente, poiché i campi di forza
protettivi li avrebbero salvaguardati; ma avrebbero corso il rischio di
essere così indaffarati da perdere inevitabilmente la scommessa. Inoltre, e
questo era ancora più importante, avrebbero dovuto sottrarsi a tutti i
sospetti inutili. Non che gli indigeni contassero qualcosa - non contavano
niente - ma gli occhiuti Guardiani contavano, e quello era un pianeta da
caccia troppo bello per perderlo tanto presto.
La cosa più sciocca era stata prendere i trofei quando era sicuro che i
cadaveri sarebbero stati scoperti quasi immediatamente.
Irrequieto, cominciò a camminare avanti e indietro. Aveva fatto i suoi
piani, aveva esaminato la zona, sapeva dove e quando colpire, e aveva
addirittura già pronti i contenitori per i suoi trofei. Si soffermò accanto alle
valigie di plastica... strano che quella razza conoscesse la plastica. Erano
l'ideale per i suoi scopi: leggere, robuste, e di dimensioni studiate apposta
per offrire la massima capacità con il minimo ingombro. Le stava ancora
esaminando quando bussarono alla porta.
«Sì?»
«Polizia, apra.»
«Un momento.» Rapidamente controllò, per assicurarsi che i suoi occhi
fossero nascosti dalle lenti a contatto, il camuffamento fosse perfetto e gli
abiti in ordine. Aprì prima che l'agente in uniforme avesse avuto il tempo
di bussare di nuovo.
«In che cosa posso esserle utile?»
«Può rispondere a qualche domanda,» scattò il poliziotto. Era grande e
grosso, e aveva un'arma nella fondina appesa alla cintura; il berretto
dell'uniforme era spinto all'indietro sulla testa calva. San Luchin fissò
affascinato quel cranio, immaginandolo montato su una parete della sua
sala trofei, e si sorprese di nuovo dell'incredibile varietà dei trofei che era
possibile procurarsi su quel pianeta. Si ricordò di sorridere.
«Certamente. Che cosa vuol sapere?»
«Dove si trovava durante le ultime due ore? Ha qualche documento
d'identità? C'è qualcuno che può garantire per lei?» L'agente snocciolò le
domande e San Luchin immaginò che si limitasse a svolgere una indagine
di routine. Si rilassò un po' e si frugò nella giacca cercando il portafoglio.
«Ecco... patente di guida, carta delle assicurazioni sociali, carte di
appartenenza alla Loggia e polizza assicurativa. Non sono della città, sono
venuto qui per affari, e in queste ultime ore sono rimasto quasi sempre in
camera mia.» Sorrise di nuovo. «Devo aver preso un po' d'influenza,
immagino. Il portiere dovrebbe essere in grado di confermarlo.»
«Ho già controllato,» disse l'agente. Guardò le carte contenute nel
portafoglio. «Mi dispiace di averla disturbata, signor Jones, ma sa com'è,
nel mio lavoro. Con un maniaco che se ne va in giro per la città, non si è
mai abbastanza prudenti.» Chiuse il portafoglio e lo restituì. «Se vuol
sapere quel che ne penso io, è tutto tempo sprecato. Diavolo, chiunque
capirebbe che l'assassino non resta sulla scena delle sue imprese.
Comunque, a cosa serve controllare tutti i residenti nella speranza di
trovare qualche individuo sospetto?»
«Deve essere un lavoraccio,» commentò comprensivo San Luchin.
Sapeva che non era il caso di mostrarsi dogmatico. «Pensa che li
troveranno?»
«Li?» L'agente inarcò le sopracciglia. «Chi ha mai detto che sono più di
uno?»
Era stato un errore, ma lui non era riuscito a resistere alla tentazione. Un
buon cacciatore impara le reazioni della selvaggina, e San Luchin sapeva
di essere un buon cacciatore. Si costrinse a distogliere lo sguardo da
quell'allettante trofeo.
«Mi scusi: ero un po' confuso, credo. Tre cadaveri, vede...» Aprì le mani.
L'agente annuì.
«È vero, ma può darsi che ci sia solo un assassino, abbastanza pazzo per
fare quello che ha fatto.» Spinse all'indietro il berretto e si grattò la testa
calva. «Beh, credo che farò meglio a proseguire il mio lavoro. Buonasera,
signor Jones.»
«Buonasera.» San Luchin si appoggiò alla porta chiusa e aspirò l'aria
viziata, un po' secca. Lottò disperatamente per controllare le sue reazioni.
Non ancora! Non ancora! Il pensiero gli martellava dentro la testa,
calmando gradualmente le emozioni che ribollivano in lui. Aveva quasi
ceduto alla tentazione, e aveva avuto una fuggevole visione precognitiva.
La presa del trofeo, poi l'inevitabile fuga, la caccia in cui il cacciatore
sarebbe stato cacciato. La contrapposizione fra astuzia e astuzia, abilità e
abilità, e sempre ci sarebbe stata la tentazione di acquisire nuovi trofei.
Chiuse gli occhi e fremette di un piacere orgiastico mentale.
Quando li riaprì, era gelidamente calmo.

Gli altri avevano ceduto alla tentazione e adesso probabilmente non


avevano basi, trofei e nascondigli. Anzi, avrebbero dovuto ricominciare
daccapo, con lo svantaggio del tempo perduto. Essendo forestieri in città
sarebbero stati sospetti e...
Anche lui era forestiero.
Il portafoglio era stato sottratto ad un indigeno che lui aveva ucciso con
l'unico scopo di crearsi un'identità. Il cadavere era stato nascosto nel fitto
sottobosco al limitare della città, sperando che non fosse scoperto e che la
sua identità non venisse accertata troppo presto. Adesso, a causa dei
sospetti generali, era quasi sicuro che sarebbe accaduta la stessa cosa.
L'agente era stanco; ma quegli esseri, a modo loro, erano
straordinariamente efficienti. Avrebbe ricordato il nome, l'accento
straniero, l'errore quando aveva parlato di assassini, al plurale. Il portiere
dell'albergo, a sua volta, avrebbe potuto cominciare a pensare allo strano
ospite che usciva così poco dalla sua stanza. Una parte della sua mente gli
diceva che si preoccupava inutilmente; ma un'altra parte, il cacciatore
freddo e calcolatore, l'avvertiva continuamente del pericolo di
sottovalutare gli indigeni. Era ancora indeciso, quando l'agente tornò in
camera sua.
Questa volta non bussò; entrò semplicemente, e San Luchin maledisse
l'imprudenza che l'aveva indotto a dimenticare di chiudere a chiave la
porta.
«Che cosa vuole?»
«Solo un'altra domanda.» Gli occhi dell'agente scrutarono la stanza. «Ha
detto di essere venuto in città per affari?»
«Sì.»
«Che genere di affari?»
«Venditore ambulante,» San Luchin si accorse immediatamente di aver
scelto le parole sbagliate. «Vendo roba.»
«Un commesso viaggiatore.» L'agente annuì. «Qual'è la sua specialità?»
«Bauli, valigie.» Il nascondiglio serviva a dare la risposta.
«Soddisfatto?»
«Sicuro.» L'agente sfogliò il taccuino. «C'è solo un'altra cosa.» Aveva un
tono quasi di scusa. «Lei parla in modo un po' strano, sa, come se fosse
uno straniero o qualcosa del genere. Lo è?»
«No.» San Luchin frugò nella sua conoscenza linguistica acquisita
ipnoticamente, cercando parole semanticamente accattivanti. «Ho un
impedimento: per il mio mestiere è un disastro, ma l'incaricato adesso è
malato, e non volevo perdere un contratto.» In preda al malessere, si rese
conto che stava peggiorando la situazione.
«Allora la ditta è sua?» L'agente si diresse verso il telefono sul
comodino. «Bene, questo facilita molto le cose. Controllerò con la sua
città, e così sarà finita. Numero?»
«L'ho qui.» San Luchin si frugò nella giacca e si avvicinò. Adesso che
sapeva quel che doveva fare, provava un terribile sollievo. Comunque, il
trofeo sarebbe stato spettacolare e, cosa ancora più importante, avrebbe
reso la caccia ancora più emozionante.
Si avvicinò all'agente.

VI

Gort sentiva la tensione della città. La gente si raccoglieva in gruppetti e


capannelli; guardavano con occhi insospettiti i passanti, e gli ululati delle
sirene echeggiavano tra gli alti edifici mentre le auto della polizia
correvano da un punto all'altro. Era tardi, quasi mezzanotte, ma tutte le luci
erano accese e le strade principali erano illuminate a giorno. Gort sapeva
che, se non avesse preso qualche precauzione, sarebbe stata solo questione
di tempo prima che venisse fermato, interrogato e arrestato. Mason doveva
aver fatto circolare i suoi connotati e tutti gli agenti dovevano cercarlo.
Doveva pianificare la sua prossima mossa.
Un ristorante aperto tutta la notte lo richiamò con la lampeggiante
insegna al neon dall'altra parte della strada; tagliò in quella direzione e non
si sentì veramente a suo agio fino a quando la porta si richiuse dietro di lui.
Il locale era semivuoto; alcuni sgabelli erano occupati da uomini
imbronciati e donne trasandate e, dopo una rapida occhiata in giro, Gort
andò a sedersi ad uno dei tavoli. Un cameriere, pallido e sciupato quanto il
suo grembiule, pulì automaticamente il piano della tavola e spinse verso di
lui il menù macchiato dalle mosche.
«Caffè.» Gort girò gli occhi sul ristorante quasi deserto. «Come vanno
gli affari?»
«Vuol scherzare?» Il cameriere fece una smorfia. «Normalmente qui è
pieno, a quest'ora di notte. Gente che si ferma a cenare prima di andare a
casa dopo il cinema, tipi di passaggio, operai dei primi turni: vengono tutti.
E adesso guardi che roba. Se. continua così, tanto vale che chiudiamo
baracca.» Si allontanò per passare l'ordinazione, e Gort approfittò
dell'intimità per controllare il contenuto del portafoglio rubato.
Denaro, non troppo ma quanto bastava per i casi d'emergenza
immediata. Alcuni documenti, una carta d'identità, un distintivo, e la solita
roba che quasi tutti gli uomini si portavano dietro. Il denaro sarebbe stato
utile; tutto quello che Gort aveva avuto con sé probabilmente era ancora
chiuso nella cassaforte della polizia insieme al suo orologio da polso, gli
spiccioli, le chiavi e gli altri oggetti. Scrollò le spalle; poteva permettersi di
perderli, erano solo prodotti locali, e in seguito avrebbe potuto restituire il
portafoglio. Alzò la testa quando il cameriere gli portò il caffè.
«Grazie. Cos'è tutto questo pasticcio?»
«Non lo sa?» Il cameriere era troppo stanco per considerarlo strano, ed
era contento dell'occasione di parlare. «È per via dell'assassino ancora in
circolazione. Vuol dire che non ha sentito parlare?»
«Io lavoro di notte,» spiegò Gort. «La mia radio è rotta e non ho
comprato il giornale. Quali sono le ultime notizie?»
«Ha ammazzato un poliziotto; gli ha tagliato la testa in una stanza
d'albergo.» Il cameriere scosse il capo. «Non capisco. Con questo, finora i
morti sono quattro, e tutti uccisi allo stesso modo.» Si umettò le labbra con
morboso interesse. «Quattro, finora, tutti in punti diversi della città, e tutti
senza testa. Perché diavolo vuole tutte quelle teste? Deve essere pazzo.»
«In una stanza d'albergo?» Gort assunse un'espressione pensierosa.
«Allora devono sapere chi è.»
«Un fetente di straniero, da quel che ho capito. È scappato, e adesso lo
stanno cercando.» Il cameriere si succhiò i denti. «Hanno una descrizione,
è un tipo strano, e se è per le strade lo troveranno.» Lucidò il tavolo. «Il
caffè non va bene?»
«È freddo. Me ne porti un altro, per favore; e questa volta senza latte.»
Rimasto solo, Gort rifletté su quello che aveva appena sentito. Aveva
giudicato strano il fatto che la sua fuga avesse causato tanta eccitazione;
poi, quando ricordò la conversazione telefonica di Mason, cominciò a
capire. Una caccia per tutta la città all'assassino pazzo, evidentemente lo
stesso che aveva commesso il primo delitto... e lui era fuggito per
piombarvi in mezzo.
Il cameriere portò il caffè senza latte, e Gort cominciò a riflettere
profondamente.
Il guaio era che quella gente era tanto sospettosa. Poteva capirlo,
naturalmente: non avevano altro cui affidarsi, se non prove cartacee e
identità intercambiabili, ma questo comportava un lavoro enorme per
controllare che ogni individuo fosse veramente quel che doveva essere.
Neppure i documenti bastavano; le relazioni personali contavano molto di
più, e se un uomo non aveva qualcuno che garantisse per lui, poteva
facilmente trovarsi in guai seri. Gort aveva documenti e come capitano
Mason sarebbe stato al sicuro, a meno che la persona che lo controllava
conoscesse personalmente il capitano. Oppure no... tutti i poliziotti
dovevano essere stati avvertiti che i documenti erano stati rubati, quindi in
un certo senso lui non si trovava in una posizione migliore. Per un
momento Gort si baloccò con l'idea di rubare le carte d'identità di qualcun
altro; ma quasi subito l'abbandonò. La legittima difesa era una cosa, ma un
reato voluto e non necessario era un'altra faccenda. E del resto, non aveva
denaro.
Gli piacesse o no, sembrava che fosse costretto a interrompere la sua
vacanza.
Non voleva farlo; si era divertito e non sapeva quando si sarebbe
ripresentata la possibilità di una vacanza su quel particolare mondo. Da un
punto di vista istruttivo aveva poco da offrire, anzi serviva come esempio
per mostrare quello che non era un mondo civile, e anche se aveva ancora
una lunga vita davanti a sé, c'erano sempre moltissimi mondi da vedere.
Persino Rhubens, che era di stanza sulla base lunare da venti periodi, era
sceso una volta sola perché, come diceva lui, gli effetti negativi erano
troppo gravi perché fosse il caso di rischiare più spesso. Seduto a tavola,
mentre fissava il liquido bruno che aveva davanti, Gort sentiva di essere
d'accordo con il comandante. Si sentiva quasi istupidito; il suo cervello
lavorava solo con uno sforzo tremendo, ed era possibile che, se fosse
rimasto troppo a lungo, corresse il pericolo di menomare gravemente le
sue facoltà.
E questa era una delle ragioni per cui la Terra era sottoposta ad una
rigorosa quarantena.

Il cameriere continuava a ronzargli intorno, forse in attesa dell'occasione


di attaccare bottone, o forse perché si era insospettito. Gort si alzò, pagò il
caffè che non aveva toccato con una delle banconote rubate, intascò il resto
e uscì per la strada.
Un uomo gli si avvicinò, mentre stava per arrivare all'angolo;
fortunatamente era un borghese, e Gort si fermò.
«Va dalle parti di Edwards e Main?» chiese l'uomo.
«No.» Gort aveva imparato a memoria la carta topografica della città.
«Eleventh e Spring. Perché?»
«Stiamo formando un gruppo.» L'uomo indicò una macchina quasi piena
di uomini e donne. «È molto buio, e potrebbe darsi che l'assassino sia in
agguato da quelle parti. Se lei abita là, la porterei a casa per un paio di
dollari. Dove ha detto di essere diretto?»
«Eleventh e Spring.»
«Allora può portarla Sam.» Si voltò e gridò ad un altro uomo: «Ehi,
Sam! Puoi caricarne un altro?»
«Non ha importanza,» disse Gort. «Ho qualcosa da sbrigare, prima.
Comunque grazie.»
Si avviò prima che l'uomo potesse fermarlo di nuovo; attraversò la
strada e si rammaricò di essere così vistosamente solo. Avrebbe fatto
meglio ad andarsene. Poteva prendere un treno o un autobus, fermarsi in
qualche piccola località isolata, e mandare il segnale di chiamata alla nave,
perché scendesse a prelevarlo. Restare, anche se poteva essere
emozionante, rischiava di coinvolgerlo pericolosamente, e lui non voleva
reprimende per un comportamento immaturo.
Mentre stava passando attraverso alcune strade secondarie si accorse di
essere seguito.
In un primo momento non l'aveva notato: si era così abituato all'assenza
di contatti con la gente intorno a lui, e quando se ne accorse, quasi non
riuscì a crederlo. Qualcuno lo stava seguendo, ma quel qualcuno non era
indigeno del pianeta! Si fermò, acuendo la mente alla massima ricezione e,
nonostante l'effetto negativo del campo planetario, riuscì a captare le
emissioni di un'altra mente. L'uomo, chiunque fosse, s'era fermato a sua
volta, e lo stava osservando con interesse quasi avido. Evidentemente, non
sospettava che Gort fosse qualcosa di diverso da ciò che sembrava e,
ancora più evidentemente, non era un Guardiano.
Ma chiunque fosse, non avrebbe dovuto essere lì.
Lentamente, Gort continuò a camminare; parte della sua mente si
occupava del movimento mentre l'altra parte tentava di risolvere l'enigma.
Dietro di lui, lo sentiva, l'uomo si stava facendo più vicino; e mentre si
appressava, il suo schema mentale diventò più chiaro. Gort maledisse le
stranezze di quel pianeta che gli impedivano di usare le sue facoltà;
l'impressione mentale era incredibilmente confusa e nebbiosa, e tutto ciò
che riusciva a percepire era un senso d'odio, di furia, ed una fame
sconvolgente, quasi nauseante.
Gort attivò il campo di forza nell'istante in cui la lama ustionante
piombava sferzando verso la sua nuca.
Per un momento vi fu una lotta, mentre energia combatteva energia. Le
scintille piovvero dal filo della lama, poi divenne rovente e cominciò a
fumare. L'uomo, evidentemente semistordito dalla scossa, lasciò cadere
l'arma mentre Gort si girava di scatto verso di lui. Indietreggiò, con gli
occhi che rispecchiavano il suo odio, e, quando Gort fu più vicino, tirò uno
dei bottoni del giubbotto.
«Spegni!» Gort irradiò il comando con tutta la forza della sua mente e,
nel contempo, fece per afferrare la figura che gli stava davanti. Per un
momento i due campi in conflitto si tesero e poi, dato che quello del
Guardiano, più potente ed efficiente, cominciava a sopraffare l'altro, Gort
ripeté il comando.
«Spegnilo, sciocco! Presto!»
La risposta fu uno slancio d'odio seguito da una rapida ondata di paura.
Impressioni confuse s'irradiavano verso di lui, mentre Gort lasciava la
presa ed arretrava, e fumo e fuoco parvero erompere dalla figura. Per un
momento l'uomo restò ritto, contornato dalle fiamme; poi, mentre il campo
protettivo sovraccarico cedeva, si accasciò e si dissolse in un mucchio
fumante.
Lentamente, Gort si chinò e raccolse l'inutile lama ustionante.
Anche nelle prime ore del mattino la stazione ferroviaria era abbastanza
frequentata, e Gort sì sentiva al sicuro, mentre sedeva in sala d'aspetto e
attendeva che passasse la notte. Era contento di quella sicurezza, perché
aveva molte cose cui pensare e, più ci pensava, e più la situazione gli
sembrava sgradevole.
Naturalmente, in un certo senso, era stato inevitabile. Qualcuno, prima o
poi, avrebbe trovato il pianeta, sarebbe sceso a dare una rapida occhiata, e
poi avrebbe cercato di ricavare qualcosa da ciò che aveva trovato. La cosa
importante era che erano riusciti a farlo senza che risultasse sugli schermi
del rilevatore dei Guardiani di base sulla Luna. Era grave: ma ancora più
grave era la scia di sospetto che i visitatori si lasciavano alle spalle.
Gort sospirò, mentre cercava di raccogliere i suoi pensieri. Normalmente
sarebbe stato facile. Come Guardiano, era telepate, e come telepate era
automaticamente un Guardiano: ma le cose, su quel mondo, non erano
normali. Lì la telepatia era inesistente. Cercare di leggere le menti degli
indigeni era come cercare di leggere i pensieri di una palla d'acciaio. Non
era possibile. Forse era dovuto all'eccezionale campo planetario, o forse
erano le barriere dietro cui vivevano gli indigeni ad influire sulle sue
facoltà; questo Gort non lo sapeva. Ma restava il fatto che, senza un
amplificatore accanto, la sua facoltà era inutile.
E non si trattava soltanto di questo.
Si rilassò e chiuse gli occhi, fingendo di dormire, mentre un poliziotto,
dall'aria chiaramente sospettosa, passava tra le file di sedili. Gort aveva
preso la precauzione di acquistare il biglietto per un treno che partiva poco
dopo l'alba, e aveva una buona giustificazione per essere lì. Sentì la
presenza dell'agente mentre quello si fermava e lo fissava e poi,
evidentemente convinto dalla vista del biglietto che Gort aveva infilato nel
nastro del cappello, passava oltre.
Le impressioni mentali che aveva ricevuto dal morente avevano tradito
la presenza di altri come lui. Altri quattro, per l'esattezza. E c'era qualcosa
a proposito di una nave, di un appuntamento, di un orario. Tutto era
apparso colorato da una rabbia sconvolgente, da un amaro rammarico per
una scommessa persa. Il solo ricordo dava a Gort un senso di impurità
mentale.
I visitatori venuti da fuori, naturalmente, dovevano essere equipaggiati
di campi di forza protettivi simili, anche se di solito meno potenti, a quello
che portava lui stesso. Quei campi irradiavano sempre, e la radiazione
poteva essere captata da un rilevatore adatto. Purtroppo lui non l'aveva, e
non aveva neppure i mezzi per costruirlo. E anche se l'avesse avuto, gli
sarebbe stato quasi impossibile localizzare, stanare e rendere innocui
quattro portatori di giubbotti a campo di forza protettivo. La città era
troppo grande e, senza la sua facoltà telepatica, Gort soffriva di uno
svantaggio tremendo.
Era come un uomo che avesse una macchina, e potesse viaggiare più
veloce di qualunque cavallo... fino a quando restava senza la macchina.
Aprì gli occhi, mentre un uomo sedeva accanto a lui.
«Mi scusi.» L'uomo era grasso, di mezza età, chiaramente impaurito.
«Non volevo svegliarla.»
«Non mi ha svegliato.» Gort sentì che la conversazione avrebbe placato i
sospetti. Il poliziotto stava sorvegliando la sala d'attesa. «Aspetta un
treno?»
«Sì, e non vedo l'ora che arrivi.» L'uomo grasso si asciugò la faccia
sudata. «Me ne vado di qui fino a che sono ancora sano e salvo. Ha saputo
l'ultima?»
«No.»
«L'assassino si è rimesso all'opera. Altre cinque persone assassinate, e
tutte ritrovate senza testa. In totale sono otto, nove se conta anche il
poliziotto; e non l'hanno ancora preso. Questo dimostra quant'è in gamba
la polizia.»
«Lo prenderanno.» Gort non ne era convinto, ma gli sembrava la cosa
più giusta da dire. «Qualche indizio?»
«Hanno trovato alcune delle teste. Un ragazzo ha rubato una valigia, e
ne era piena zeppa. Che razza d'uomo può andare in giro a fare cose del
genere?»
Gort avrebbe potuto dirglielo, ma non pensava che l'informazione
servisse a qualcosa.
«Alla polizia stanno diventando matti,» continuò l'uomo grasso. «Hanno
già sparato a due, per errore, e le carceri sono piene di sospetti.» Torse la
bocca, come se volesse sputare. «Serve a molto. L'assassino continua a far
collezione di teste. Ma dicono che adesso sanno chi è.»
«Davvero?»
«Sicuro. Un certo Jones. Ha ammazzato il poliziotto nella sua stanza
d'albergo. Dicono che l'hanno visto e gli hanno sparato, ma raccontano
frottole, oppure usavano pistole ad acqua. Non può farmi credere che un
uomo è in grado di continuare a scappare quand'è imbottito di pallottole.»
Piombò nel silenzio e guardò cupamente il poliziotto che si avvicinava.
Gort attese che quello fosse passato, poi si alzò in piedi. Lo schema
stava diventando sempre più chiaro, e lui imprecò perché non l'aveva
capito prima. Mason gli aveva dato l'indizio e, a parte questo, avrebbe
dovuto sospettare l'uso della lama ustionante quando aveva visto il primo
cadavere. Ma era stato così improvviso, così atroce, che aveva perduto il
controllo delle proprie reazioni. Sapeva che non avrebbe più potuto
accadere; la morte, per quanto orrenda, aveva perduto il potere di fargli
effetto, ma avrebbe preferito impararlo in modo più normale. A
confonderlo era stato il fatto che, per lui, la lama ustionante era un'arma
normale. Aveva dimenticato che lì era sconosciuta.
Ma in un modo o nell'altro, doveva fermare gli intrusi.

VII

San Luchin si stava divertendo. Si acquattò nell'angolo buio dell'edificio


e osservò le luci ondeggianti dei suoi inseguitori, mentre venivano
esitando nella sua direzione. Quello spettacolo quasi l'indusse a tradirsi,
solo per vedere se avrebbero ritentato o no di ucciderlo; ma quando il suo
piede urtò la valigia che aveva accanto, resistette alla tentazione.
La cosa più importante, adesso, era mettere al sicuro i suoi trofei.
Aveva fatto la sua raccolta con l'occhio dell'intenditore, più che badando
alla quantità. Ed era stato anche abile, molto più abile degli altri sciocchi
che avevano preso trofei senza pensare al tempo e alle circostanze. A parte
la sua ultima acquisizione, una femmina con una particolare sfumatura
rossa nei lunghi capelli, era sempre stato molto circospetto. Adesso,
mentre guardava il cielo che si rischiarava, sapeva che era tempo di
ritirarsi nel suo nascondiglio.
Aveva trovato un alloggio squallido, sporco, puzzolente in uno dei
quartieri più poveri della città. Un posto dove, come aveva sospettato, il
denaro rubato gli avrebbe accordato la pausa di poche ore di cui aveva
bisogno fino al momento di recarsi all'appuntamento. Attese sinché le luci
ondeggianti lo avessero quasi raggiunto e poi, con lo schermo protettivo
attivato al massimo sfrecciò via, con ingannevole velocità, dal punto dove
stava nascosto.
Un uomo gridò, dietro di lui. Le pistole ruggirono, nello spazio ristretto
tra gli edifici, ed il piombo sibilò, rimbalzando sul suo campo di forza.
Dopo venti secondi, era dietro un angolo prestabilito. Davanti a lui stava
una porta; era chiusa a chiave, ma si aprì quando ne fuse il meccanismo
primitivo. Attraversò l'edificio, con gli occhi felini perfettamente adattati
all'oscurità come alla luce, scese una scala e ne salì un'altra, passò da una
seconda porta e ritornò per le strade, dopo aver messo un intero isolato fra
sé ed i suoi inseguitori.
Ripeté di nuovo la manovra, sorridendo per la soddisfazione di aver
preparato così bene quelle vie di fuga. Essere cacciato da esseri che,
sebbene non potessero fargli alcun male, avevano qualche barlume
d'intelligenza, per San Luchin era piacevole quasi come prendere un
trofeo. Mentalmente, decise di concedere a Heltin un premio per aver
trovato quel pianeta. Sarebbe tornato, naturalmente, la prossima volta,
armato di una maggiore conoscenza delle condizioni locali. Questa volta
l'errore era stato dovuto alla mancanza di preparazione. Avrebbero avuto
bisogno di un campo base, un posto dove i cacciatori potessero riposare e
pianificare i loro passatempi, una località centrale da cui avrebbero potuto
colpire in zone lontane, e quindi operare da soli. Lavorare insieme ad altri
cacciatori non era mai come agire da soli. Tendevano ad essere troppo
impazienti, troppo noncuranti delle conseguenze della loro fretta. La
rivalità pareva sconvolgere le loro capacità di giudizio.
Diventavano avidi.

Era passata l'alba quando San Luchin raggiunse il suo nascondiglio. La


donna trasandata che lo fece entrare non si mostrò sorpresa dalla vista
della valigia. Per lei, era un ladro che lavorava in città, di notte, e
naturalmente la valigia serviva a riporre il bottino. Quel che contava, per
lei, era che pagava bene e non dava fastidi. Il pagamento l'aveva avuto in
anticipo, i fastidi sperava che non sarebbero mai venuti; ma in ogni caso,
non era totalmente indifesa.
Chiuse la porta dietro di lui e indicò con il pollice la stanza in fondo.
«Vuol qualcosa da mangiare?»
«No, grazie.» San Luchin era ansioso soltanto di ispezionare i suoi
trofei, ma questo non poteva dirlo. Fissò invece la faccia segnata della
donna, visualizzandola mentalmente sulla parete della sua sala trofei.
Sarebbe andata bene e, anche se avesse deciso di scartarla, sarebbe contata
ai fini della scommessa.
La donna si asciugò il naso.
«Ha visto l'assassino?» Se era uno scherzo, non lo sembrava. «Ho
ascoltato la radio, mi sembra che tutta la città sia sottosopra.» Fissò con
aria furba il suo pensionante. «È un miracolo che non l'abbiano fermato.»
«Mi hanno fermato.» Il sorriso era impacciato. «Due volte. Ma è stato
prima che...» Chiuse un occhio e sollevò la valigia.
«Un buon colpo, eh?» L'interesse illuminò la faccia della donna. «Diamo
un'occhiata.» Fraintese l'esitazione di San Luchin. «Può fidarsi di me, che
diavolo. Sono a posto, può chiederlo a tutti i ragazzi. Magari posso anche
trovarle un buon ricettatore, se è roba di valore.» Tese la mano verso la
valigia. «Diamo un'occhiata.»
Lui lasciò che toccasse la maniglia, godendosi l'immagine mentalmente
di quello che avrebbe fatto se avesse visto il contenuto; poi, mentre la
donna cercava di aprire la serratura, l'allontanò con riluttanza.
«Mi dispiace, ma è roba personale.» Guardò verso la stanza in fondo, da
cui venivano suoni di conversazione soffocata. «C'è qualcuno?»
«Un paio di ragazzi.» Se anche era incollerita per quanto era appena
accaduto, non lo mostrò. «Giocano a carte e fanno fuori una bottiglia.
Vuole entrare?»
San Luchin scosse il capo e salì la scala malferma, entrò nella sua
sudicia stanza. Si sentiva sporco quando la guardava, ma non poteva farci
niente. I disagi personali erano uno dei piaceri della caccia. Non che
avesse importanza; era impaziente di controllare i suoi trofei per scoprire
se avevano subito danni e, cosa ancora più importante, di vedere se aveva
una raccolta rappresentativa. Il momento del rendez-vous si stava
avvicinando, e avrebbe avuto poco tempo a disposizione per qualunque
cosa che non fosse una caccia frettolosa al solo scopo di vincere la
scommessa. Non aveva dubbi che l'avrebbe vinta: conosceva la propria
abilità.
Chiuse a chiave la porta, mise la valigia sul letto, l'aprì e si perse nel
piacere della contemplazione del contenuto.
Passò del tempo, e cominciò a far caldo. Divenne più che caldo,
caldissimo; e mentre si slacciava il giubbotto, sentì la prima fitta del
pericolo.
Troppo tardi!
L'energia serpeggiò intorno a lui, l'energia prigioniera del suo campo di
forza protettivo, normalmente controllata e sicura, che adesso però si stava
scatenando. Disperatamente, cercò di strapparsi di dosso gli indumenti
fumanti, e poi, quando il margine di sicurezza venne raggiunto e superato,
si trasformò in una fiamma vivente.
Durò un secondo esatto; poi, con uno sbuffo d'energia liberata, San
Luchin si disgregò, e gli elementi in fiamme dei suoi abiti appiccicarono
fuoco alle pareti di legno fradicio e alle coperte sporche.
Pochi minuti dopo la stanza era un inferno furioso in cui non poteva
esistere nulla di vivo o di riconoscibile.

Gort pensava di essere stato piuttosto abile. Si guardò intorno,


osservando i vari componenti sparsi sul banco e ascoltò, con un certo
senso di colpa, i suoni soffocati che venivano da un armadio a muro. I
suoni erano causati dal proprietario ed unico dipendente della bottega di
radioriparazioni, adesso legato e impotente, dopo aver fatto entrare il suo
primo cliente della giornata. Gort l'aveva paralizzato, l'aveva tolto di
mezzo, aveva chiuso la bottega e si era messo al lavoro.
Adesso, dopo diverse ore, sorrideva con tranquilla fierezza di quel che
aveva fatto.
Era qualcosa che avrebbe suscitato soltanto la derisione dei tecnici della
base, ma era quanto di meglio era riuscito a fare. La conoscenza, per
quanto avanzata, è inutile senza gli utensili e la tecnologia, Gort aveva la
conoscenza, ma aveva dovuto partire da materiali assolutamente
inefficienti. Il fatto che fosse riuscito era quasi un miracolo.
Su una solida base aveva montato una massa di valvole, fili, resistenze
modificate, transistor adattati, condensatori irriconoscibili, ed un circuito
che avrebbe fatto inorridire il più esperto specialista del ramo. Era un
amplificatore di un tipo speciale, progettato per fare un lavoro, ed un
lavoro soltanto. Avrebbe irradiato energia capace di causare l'isteresi di un
campo di forza e di amplificarlo oltre ogni tolleranza normale.
O almeno, così sperava.
Togliendosi il giubbotto, attaccò una cucitura e, con cura estrema,
estrasse un sottile filo lucente. Lo mise accuratamente da parte, su un
tavolo isolato, e tolse dal giubbotto un secondo ed un terzo filo. Poi, dopo
aver sottratto al suo campo di forza la sorgente d'energia, si spogliò e,
piegando scrupolosamente gli indumenti, li mise in una cassetta metallica.
Dall'esterno della cassetta fece passare i cavi al suolo e poi, finalmente
soddisfatto, tornò ai suoi fili.
Delicatamente, li fissò al suo collegamento, avendo cura che non si
toccassero, fissandoli con utensili isolati e lavorando con una lenta, attenta
sicurezza tipica degli esperti. Quando ebbe finito, tremava per reazione
alla tensione. Attese un momento, controllò il collegamento e, voltando le
spalle al banco, fece scattare un interruttore.
La luce sfolgorò dietro di lui, quando l'energia fluì dai cavi nel circuito,
venne trasmessa su una frequenza speciale, e si diffuse su tutta la città. Di
fronte a lui, i cavi-terra della cassetta metallica contenente i suoi abiti
brillavano rossi e bianchi; poi cominciarono ad afflosciarsi e ridiventarono
neri. La luce si spense e, quando Gort si voltò, l'aggeggio semifuso che
stava sul banco era irriconoscibile.
Dopo essersi rivestito, Gort pensò alla prossima mossa. L'unità che
aveva costruito aveva funzionato, e lui sapeva che ogni campo di forza
esistente in città, a parte il suo, si era dissolto in energia fumante. I
visitatori, chiunque fossero, dovevano aver portato logicamente quei campi
e quindi, altrettanto logicamente, avevano cessato di esistere.
Adesso restava soltanto la nave.
Il rendez-vous, Gort lo sapeva, era fissato per quella sera. L'ubicazione
era nelle vicinanze della città, ma non sapeva esattamente dove.
Normalmente, la cosa non avrebbe avuto importanza. I suoi rilevatori, per
quanto deboli, dovevano essere in grado di percepire le colossali radiazioni
di qualunque nave. Ma se era schermata per evitare di venire scoperta dai
Guardiani, allora di sicuro non poteva scoprirla lui.
Aggrottando la fronte, sedette sull'orlo del banco per riflettere. La mente
moribonda del visitatore aveva visualizzato un tratto di terreno, contornato
ad una estremità da una strada malamente illuminata, e Gort aveva
l'impressione che fosse familiare. L'efficiente meccanismo della sua mente
cominciò a mettere in relazione i suoi dati e, quando scese finalmente dal
banco, Gort sorrideva.
Andò al telefono e, dopo aver consultato l'elenco, fece un numero.
«Polizia? Voglio parlare con il capitano Mason. Sì, Mason. Chi parla?
Holden. Gort Holden. Sì.»
Attese, mentre i fili ronzavano.
«Mason? Qui Holden. Voglio che lei mi dica qualcosa.» Gort sorrise nel
sentire i rumori che uscivano dall'apparecchio. «Lasci perdere dove sono.
Mi dispiace per il suo portafoglio, ma glielo rimanderò. Il denaro potrò
rimpiazzarlo con quello che mi ha preso lei. Adesso ascolti. Quel suo
testimone, aveva detto di avermi visto correre verso una specie di terreno
incolto?» Gort aggrottò la fronte, guardando l'apparecchio. «Non perda
tempo, per favore. So che probabilmente può rintracciare questa telefonata,
ma non importa. L'ha detto? Sì? Grazie, è tutto quel che volevo sapere. Ci
vediamo là questa sera.» Gort fece per riattaccare, poi lasciò il ricevitore
penzolante. Avrebbero rintracciato la telefonata, e lui non voleva
impedirlo. Qualcuno doveva liberare il furibondo proprietario della
bottega.
VIII

Trascorse il pomeriggio e la serata in un cinema, godendosi la primitività


del mezzo di riproduzione e meravigliandosi ancora una volta del genio
inventivo di quella gente terribilmente handicappata. Era buio quando uscì
per la strada; gli spettatori temendo il misterioso «assassino», si stavano
già precipitando a casa. Un vicolo gli offrì il nascondiglio necessario e, al
tocco delle sue dita, il campo di forza escluse la gravità e lo sollevò
nell'aria come un palloncino. Dirigersi verso la scena del primo delitto fu
semplice e, mentre stava librato nell'oscurità che lo nascondeva, guardò
sorridendo le forme delle figure in agguato, laggiù.
Mason aveva fatto circondare la zona.
Adesso non c'era altro da fare che attendere. Non conosceva l'ora esatta
dell'appuntamento, sapeva soltanto che era per quella notte; ma
immaginava che fosse verso mezzanotte, o un po' più tardi. In realtà, era
per le due dopo mezzanotte, e per poco la nave non gli sfuggì
completamente.
Un soffio d'aria l'avvertì, ed una leggera occlusione dei suoi punti di
riferimento. Delicatamente, si calò verso la massa invisibile sino a che,
mentre penetrava gli schermi esterni, vide la mole scalfita della nave.
Ed era lì, quando Heltin aprì il portello.
«San Luchin?» L'esploratore guardò fuori. «Dov'è?»
Gort si avvicinò di un passo.
«San Luchin? Si sbrighi per favore, voglio andarmene di qui.» Imprecò,
sottovoce, quando Gort non si mosse. «Che cosa succede? È ferito o
qualcosa del genere?» Impulsivamente Heltin balzò dal portello. «Io...»
Gort l'afferrò mentre cadeva, paralizzato e impotente. Prontamente, lo
riportò a bordo della nave e, quando Heltin riprese conoscenza, vide
davanti a sé il volto camuffato del Guardiano.
«Cosa succede? Chi è lei?» Heltin scattò in piedi. «Dove sono quelli che
ho portato qui?»
«Quanti ne ha portati?» Gort usava la comunicazione mentale, e questo
parve sconvolgere Heltin, rendendolo conscio della sua posizione.
Barcollò e quasi cadde, e quando finalmente si raddrizzò la sua faccia era
verdognola.
«I Guardiani!»
«Infatti. Allora?»
«Sono soltanto un pilota,» balbettò l'altro. «Lavoro in servizio noleggio.
So soltanto che ho lasciato San Luchin e quattro amici suoi qui, tre
rivoluzioni fa.» Deglutì. «Lo sa?»
«Cosa li ha portati a fare qui?»
«Non lo so.» Era inutile, e Heltin lo sapeva. Mentire ai Guardiani o a
qualunque telepate era tempo perso. Passò all'attacco. «Beh, e con questo?
Sì, ho infranto qualche regolamento, ma non è un gran reato, no?»
«Abbastanza per guadagnarle un lungo periodo d'immiolazione.» Gort
usava di proposito un tono distratto. «Sapeva che San Luchin ed i suoi
amici erano cacciatori. Sapeva che venivano qui per raccogliere trofei.
Sapeva che cosa significava questo per gli abitanti del pianeta. Non solo ha
violato la quarantena ma anche la Prima Etica. Immagino si sia meritato
l'immiolazione permanente.»
«No!» Heltin sembrava sul punto di accasciarsi. «Questi esseri non sono
umani. Lo sa benissimo. Come posso aver violato la Prima Etica se non ho
ucciso e non ho causato la morte di un essere umano?» Guardò Gort con
aria trionfante. «Sa che sto dicendo la verità; voi maledette sanguisughe
mentali dovreste saperlo; e lei sa che ho soltanto violato la quarantena.»
Aveva ragione. Tecnicamente, gli abitanti di quel pianeta non erano
umani, quindi Heltin non era colpevole di violazione della Prima Etica Era
riservata alle razze che obbedivano al grande requisito della Federazione
Galattica. Nessun membro di nessuna razza doveva mai uccidere un
membro della propria razza. Era la linea divisoria tra umano e non umano,
tra uomini e mostri e, sfortunatamente, gli abitanti della Terra erano ancora
nello stadio di mostri.
«Non può toccarmi,» fece sarcastico Heltin. «Mi prenderò qualche
periodo d'immiolazione e con questo? Avanti, faccia pure, Guardiano;
facciamola finita.»
Gort annuì, con la mente impegnata su strani concetti. Heltin era
colpevole ma, a causa di una sottigliezza tecnica, se la sarebbe cavata. A
meno che...
Gort si fece avanti e tastò il corpo snello dell'uomo che gli stava davanti.
Nessun indumento protettivo. Tese la mano verso il portello.»
«Fuori.»
«Cosa? Ehi, dico, che cos'ha intenzione di fare? Non può farmi questo.»
«Esca o la lancerò a due diametri. Presto!» Usò il potere della sua
mente, e Heltin obbedì, poiché doveva obbedire. Gort si fermò sulla soglia
del portello stagno e gettò il portafoglio di Mason verso l'uomo che
tremava. «Bene. Adesso si diriga verso quella strada, lasci cadere il
portafoglio, e torni indietro di corsa.»
Era omicidio eppure, in un certo senso, non lo era. I Guardiani avevano
poteri enormi ed erano autorizzati ad usarli a loro discrezione. Se Heltin
fosse tornato, l'avrebbe portato alla base lunare per il processo. Se non
fosse tornato...
I poliziotti erano in attesa da ore e dovevano cominciare a stancarsi, ma
si svegliarono alla vista di una strana figura apparsa dal nulla. Heltin
ignorò il primo ordine, ma al secondo si spaventò, e al terzo cominciò a
correre. Il rombo di molte armi ridusse il suo corpo in una poltiglia
informe.
Più tardi, quando era ormai diretto alla base lunare, Gort ebbe tempo di
valutare la sua vacanza. Era uscito da una situazione difficile senza
rivelare la sua origine extraterrestre. Aveva fermato e punito la minaccia di
visite non autorizzate ad un pianeta in quarantena. Aveva offerto un
sospetto adeguato per il misterioso «assassino», e così aveva fatto felice
Mason. Si era preso la nave che aveva superato gli schermi dei rilevatori, e
così avrebbe fatto felice anche Rhubens. La promozione sarebbe stata
inevitabile, e Gort sorrise a quel pensiero.
Non era poi stata una brutta vacanza, dopotutto.

Titolo originale:
The Wager
(Science Fantasy, novembre 1955).
KOSSIN
(Galaxy, aprile 1955)
APPENDICI

ED EMSH
(Space Stories, giugno 1953)
Anche le Appendici che seguono, come quelle inserite nel volume Porte
sul futuro, hanno la funzione di completare con dati bio-bibliografici le
informazioni relative allo sviluppo delle riviste di fantascienza nel periodo
trattato (in questo caso il decennio 1946-1955) e sono organizzate nel
medesimo modo.
Le bibliografie sono limitate, per necessità di spazio, agli autori che
figurano nella sezione antologica.

Legenda

I titoli delle riviste sono stati abbreviati come segue:


Le seguenti abbreviazioni si riferiscono invece a titoli di libri citati nelle
bibliografie:

BMW = Born of Man and Woman, di Richard Matheson


CVR = Caviar, di Theodore Sturgeon
DC = Dark Carnival, di Ray Bradbury
EPU = E Pluribus Unicom, di Theodore Sturgeon
FT = Future Tense, a cura di Kendall Foster Crossen
GAS = Golden Apples of the Sun, di Ray Bradbury
IfM = Invasion Front Mars, a cura di Orson Welles
IM = The Illustrated Man, di Ray Bradbury
MC = The Martian Chronicles, di Ray Bradbury
MSM = The Man Who Sold the Moon, di Robert A. Heinlein
MTH = More Than Human, di Theodore Sturgeon
NTS = New Tales of Space and Time, a cura di Raymond J. Healy
SSN = Star Short Novels, a cura di Frederik Pohl
STA = Star Science Fiction Stories (serie), a cura di Frederik Pohl
TtC = Time to Come, a cura di August Derleth
22C = The 22nd Century, di John Christopher

Il materiale bibliografico e informativo è organizzato nel modo


seguente:

APPENDICE 1: Bibliografie 1946-1955. Comprende l'elenco delle


opere fantascientifiche e fantastiche dei dieci autori compresi nella Parte I.

APPENDICE 2: Elenco delle riviste 1946-1955. Riassume anno per


anno le riviste apparse, divise per testate e per date di pubblicazione.
Comprende anche le riviste semi-professionistiche.

APPENDICE 3: Elenco dei curatori 1946-1955. Riporta in ordine


alfabetico i nomi dei direttori editoriali di tutte le riviste fantascientifiche e
fantastiche apparse nel periodo trattato, specificando i numeri da loro
curati.

APPENDICE 4: Guida ai disegnatori 1946-1955. Riporta la frequenza


d'apparizione dei principali illustratori del periodo sulle copertine delle
riviste.

Le informazioni riguardano l'editoria fantascientifica di tutto il mondo,


fatta eccezione per il nostro Paese, cui è dedicato il Catalogo Generale
della fantascienza in Italia di Gianni Pilo.

Un numero (1) dopo un titolo rimanda in calce all'elenco, specificando


l'eventuale pseudonimo sotto il quale è apparsa la storia.
Una lettera maiuscola fra parentesi (A) dopo il titolo di una storia
rimanda in calce all'elenco specificando se la storia stessa fa parte di una
serie, e in questo caso riporta la denominazione con la quale la serie è più
nota.
Le seguenti indicazioni prima della sigla della rivista precisano la
lunghezza della storia:
s = short story (racconto breve: fino a 35 cartelle dattiloscritte)
nt = novelette (racconto: da 35 a 70 cartelle dattiloscritte)
sn = short novel (romanzo breve: da 70 a 100 cartelle dattiloscritte)
n = novel (romanzo: più di 100 cartelle dattiloscritte).

Se il romanzo è apparso a puntate, una cifra dopo la «n» indica il


numero delle puntate: così, «n3» si riferisce ad un romanzo apparso in tre
puntate (la data indicata è quella del primo episodio).
Appendice 1
Bibliografie 1946-1955
Appendice 2
Elenco delle riviste 1946-1955
Appendice 3
Elenco dei curatori 1946-1955
Appendice 4
Guida ai disegnatori 1946 - 1955
FINE

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